Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA MAFIOSITA’
PRIMA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia della mafia.
L'alfabeto delle mafie.
La Gogna.
Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.
Mafia: non è altro che una Tangentopoli.
In cerca di “Iddu”.
SECONDA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
E’ Stato la Mafia.
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.
Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.
SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Cosa Nostra - Altare Maggiore.
La Stidda.
La ‘Ndrangheta.
La Mafia Lucana.
La Sacra Corona Unita.
La Mafia Foggiana.
Il Polpo: Salvatore Annacondia.
La Mafia Lucana.
La Camorra.
La Mafia Romana.
La Mafia abruzzese.
La Mafia Emiliano-Romagnola.
La Mafia Veneta.
La Mafia Milanese.
La Mafia Albanese.
La Mafia Russa-Ucraina.
La Mafia Nigeriana.
La Mafia Colombiana.
La Mafia Messicana.
La Mafia Cinese.
QUINTA PARTE
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Antimafiosi.
Non era Mafia.
Il Caso Cavallari.
Il Caso Contrada.
Il Caso Lombardo.
Il Caso Cuffaro.
Il Caso Matacena.
Il Caso Roberto Rosso.
I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.
Il Business dello scioglimento dei Comuni.
Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.
Il Business del Proibizionismo.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Gogna Parentale e Territoriale.
I tifosi.
Femmine ribelli.
Il Tesoro di Riina.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Caporalato.
Il Caporalato Agricolo.
Gli schiavi dei Parlamentari.
Gli schiavi del tessile.
Dagli ai Magistrati Onorari!
Il Caporalato dei giornalisti.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Usuropoli.
Aste Truccate.
SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Nimby lobbisti.
La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.
La Lobby dei Sindacati.
La Lobby dei Giornalisti.
La Lobby dell’Editoria.
Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati.
Fuga dall’avvocatura.
La Lobby dei Tassisti.
La Lobby dei Farmacisti.
La lobby dei cacciatori.
La Lobby dei balneari.
Le furbate delle Assicurazioni.
SETTIMA PARTE
LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Onoranze funebri: Il "racket delle salme.
Spettacolo mafioso.
La Mafia Green.
Le Curve degli Stadi.
L’Occupazione delle case.
Il Contrabbando.
La Cupola.
LA MAFIOSITA’
TERZA PARTE
SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.
Scarpinato evoca i teoremi giudiziari contro la destra. Meloni: lei giudice intriso di ideologia. Redazione su Il Secolo d'Italia il 26 Ottobre 2022.
Intervento durissimo del senatore M5S Roberto Scarpinato, ex magistrato, in Aula al Senato. Scarpinato punta l’indice contro la destra eversiva, evoca le stragi “neofasciste” e i depistaggi. Giudica insufficienti le parole di Giorgia Meloni sul fascismo. I conti col passato si chiuderanno “solo quando ci sarà verità sulle stragi del neofascismo e verranno esclusi dal vostro Pantheon taluni personaggi”.
Scarpinato preoccupato anche dal presidenzialismo
“Resta viva – va avanti Scarpinato – la preoccupazione sul vostro voler mettere mano alla Costituzione” con la riforma del “presidenzialismo che potrebbe rivelarsi una ritorsione autoritaria” che porterà “all’uomo solo al comando”.
Applausi ripetuti dai banchi del centrodestra durante la replica del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Prima, quando in modo pacato replica a Ilaria Cucchi, che aveva criticato gli interventi di ieri della Polizia a ‘La Sapienza’.
La replica di Meloni a Ilaria Cucchi
“Ho fatto tante manifestazioni, ma non ho mai impedito ad altri di manifestare”, afferma la premier. Poi quando in modo molto fermo ribatte alle affermazioni dell’ex magistrato Roberto Scarpinato, le cui parole dimostrano – ha detto – un modo di procedere per teoremi e ideologizzato da parte della magistratura.
Meloni a Scarpinato: da lei atteggiamento smaccatamente ideologico
Da lei – ha affermato Meloni rivolgendosi a Scarpinato – arriva un atteggiamento “così smaccatamente ideologico da chi doveva giudicare, che mi stupisce fino a un certo punto, il transfert tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è significativo, a cominciare dal depistaggio per la strage di via D’Amelio”.
Scarpinato sostenne l’accusa contro Andreotti. Bongiorno: mi ricordo bene…
Dopo Scarpinato aveva preso la parola Giulia Bongiorno, che aveva così esordito: “Mai avrei immaginato 20 anni dopo di prendere la parola dopo il dottor Scarpinato “, alludendo ai processi che li videro avversari in Aula. “Conosco bene l’efficacia delle sue requisitorie”, ha detto Bongiorno rivolgendosi all’ex pm. Il riferimento è a quando, anno 1999, in tribunale Scarpinato sostenne le tesi dell’accusa nel processo in cui Andreotti era accusato di associazione mafiosa.
Gasparri: da lui parole sconcertanti
Anche Maurizio Gasparri ha commentato l’intervento di Scarpinato: “Sconcertano le parole di Scarpinato al suo esordio in Senato”, risponde a stretto giro il senatore di Forza Italia. “Ed è motivo di riflessione il fatto che abbia ricoperto a lungo incarichi di vertice nella magistratura. Penso che sarà opportuno nel corso della legislatura ricordare in Aula circostanze riguardanti anche Scarpinato. L’Italia dovrà riflettere su vicende che alcuni ignorano, taluni accantonano, ma alcuni di noi conoscono e avranno modo di illustrare all’Aula e agli italiani”.
Il voto al Senato. Meloni e lo scontro con Scarpinato: “Con i suoi teoremi ha costruito processi fallimentari”. Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Ottobre 2022
E il secondo giorno, quello della fiducia piena al suo governo, Giorgia Meloni ha messo da parte la “visione politica” seppure identitaria ma anche un po’ equilibrista ed è entrata nel merito. I vaccini “non sono un atto di fede ma devono avere una base scientifica”. Via libera al contante “perché la moneta elettronica penalizza i più poveri”. La polizia ha usato i manganelli sui manifestanti? “È stato necessario se quei manifestanti volevano impedire ad altri di manifestare ed esprimersi”.
Il carcere misura la civiltà di un paese e l’alto numeri dei suicidi ne misura quindi l’inciviltà. “Tutto vero, ma la soluzione non è la depenalizzazione bensì costruire e avere più carcere perché non si può pensare di garantire il bene se chi agisce nel male non paga mai”. E la pace, “non si fa in piazza con le bandiere tricolore, non si ottiene con la resa democratica ma sostenendo la democrazia”. Accusata, il giorno prima, quello dell’esordio alla Camera dei deputati, di non aver pronunciato alcune parole chiave di questo tempo – ad esempio vaccini e pace – di essere stata troppo “generalista” e anche un po’ “ambigua”, di aver certamente fatto un discorso politico, utile ad esaltare la sua leadership (innegabile) nel centrodestra ma di non essere entrata nel merito, ieri la presidente del Consiglio ha risposto nel merito per tre quarti d’ora seguendo decine di fogli di appunti presi in oltre cinque ore di dibattito generale. Risposte chiare, che non volevano piacere a tutti e che volevano essere molto chiare. Forse anche più di quello che poi sarà nei fatti.
La fiducia sarà piena e totale anche nella camera alta del Parlamento italiano. Le tensioni con gli alleati, arrivate a vere e proprie spaccature tematiche sulla politica estera e a rivendicazioni sulla stessa leadership dell’alleanza, sono magicamente scomparse. Tutto svanito. Tutto a posto. “Molte bene” ha detto Meloni dopo l’intervento di Silvio Berlusconi, un discorso intenso, da padre nobile del centrodestra che chiede gli venga riconosciuto che “tutto questo oggi è possibile grazie ad una sua intuizione di quasi trent’anni fa” e che rivendica “l’impronta liberale, europeista ed atlantista della coalizione”. C’era grande attesa e qualche timore che al Cavaliere potesse nuovamente scappare il freno. Che si potesse ripetere la scena thriller del giorno dell’elezione del Presidente del Senato quando Forza Italia decise di non votare la fiducia. Alla fine tutti in piedi e standing ovation.
L’intervento della senatrice Licia Ronzulli, un paio d’ore prima, aveva già allontanato dubbi e timori. La capogruppo è stata al centro di un braccio di ferro infinito nella fase di formazione del governo: Berlusconi la voleva ministro, Meloni no. Ha vinto la premier ma quel no è una ferita difficile da chiudere. “Ci hanno dipinto divise, ma oggi qui, da donne e da mamme possiamo dirlo, non è vero” ha detto Ronzulli. La premier l’ha degnata di una veloce occhiata e poi ho rimesso gli occhi sui fogli che andava scrivendo. Anche Salvini non ha creato ulteriori tensioni. Il vicepremier vuole fare, ha bisogno di risalire nei sondaggi, ha poco tempo. Meloni gli sta dando agio e gioco: il ministro dell’Interno Piantedosi ha già firmato una circolare per non fare entrare nei porti italiani le navi delle Ong; ci sarà una qualche forma di flat tax; si metterà mano “in modo sostenibile” alle pensioni. Ieri anche il via libera al contante su cui giusto in mattinata il vicepremier ha presentato un disegno di legge. Meloni-Salvini: si registra una straordinaria intesa sui temi (per ora). O sono d’accordo, oppure uno dei due insegue l’altro che per non farsi superare. Vedremo. Lo capiremo nelle prossime settimane.
Scoppiata la pace nella maggioranza, ieri si sono fatte vedere un po’ meglio le opposizioni. Simona Malpezzi (Pd) è rimasta sui temi, accusandola di essere stata “vaga e contraddittoria nelle linee programmatiche”. Matteo Renzi ha fatto un intervento politico, uno dei suoi quando in aula non vola una mosca. “Le faremo opposizione, a viso aperto, con la politica, non con il vocabolario. Perché mentre quelli che le siedono accanto (Lega, ndr) facevano Quota 100, noi facevano Industria 4.0, investivamo in cultura con cui è dimostrato che si mangia e firmavano le unioni civili che ancora mi tremano le mani per l’emozione. Quindi noi non vi regaliamo la parola identità. Le auguro – ha aggiunto – di vincere la sfida del governo sapendo che noi saremo da un’altra parte e anche che mai attaccheremo le famiglie degli avversari”. Da Renzi è arrivato un consiglio non richiesto ma sincero: “Si ricordi di essere felice, noi saremo leali cercando di dare una mano alla nostra democrazia, come devono fare le persone che riconoscono quelli che escono vincenti dalle elezioni”.
Durissimo lo scontro della premier Meloni con l’ex pm antimafia Roberto Scarpinato. Il senatore dei 5 Stelle in una sorta di requisitoria in difesa della storia e della memoria, ha incentrato il suo intervento sul “fascismo che è sopravvissuto come ideologia nel neofascismo”. Passando da Ordine nuovo e altre formazioni neofasciste, Scarpinato ha messo in fila, logica e storica, “il neofascismo, lo stragismo della destra per arrivare al presidenzialismo”, cioè al progetto di riforma costituzionale che è uno dei punti chiave del programma Meloni. È stato uno degli interventi seguiti con più attenzione, stupore e stizza dalla premier. Che nella replica ha liquidato così: “Senatore Scarpinato, per il tramite del presidente La Russa, vorrei dire che dovrebbe colpirmi che una persona che ha avuto la responsabilità di giudicare gli imputati nelle aule di tribunale emerga oggi un approccio così smaccatamente ideologico. Purtroppo, mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert, che lei ha fatto, tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico dei teoremi con cui parte della magistratura ha costruito processi fallimentari, a cominciare dal depistaggio nel primo giudizio per la strage di via D’Amelio. E questo è tutto quello che ho da dirle”.
Applausi e standing ovation. Non solo dai banchi del centrodestra. Un piccolo cameo che si ripeterà altre volte in questa aula. Subito dopo Scarpinato ha preso la parola la senatrice Giulia Bongiorno (Lega): “Mai avrei immaginato di prendere nuovamente la parola, vent’anni dopo, dal procuratore Scarpinato…”. Che fu la pubblica accusa nei processi a Giulio Andreotti di cui Bongiorno era la giovane e poi vincitrice avvocata. Ma torniamo ai punti del programma che ieri Meloni ha voluto specificare. “Non l’ho fatto ieri perché credo che prima di tutto si debba avere una visione di paese, che è quella che ho cercato di darvi ieri e che manca da anni all’Italia. Una volta capito dove vogliamo andare, poi entriamo nello specifico”.
Ragionamento di per sé impeccabile. Così come sulla visione di paese si può in generale essere d’accordo. Sono i contenuti che ha voluto specificare che invece apriranno il dibattito. Sui vaccini, ad esempio. Meloni ha voluto rispondere all’ex ministro della Salute Beatrice Lorenzin che le ha chiesto una parola di chiarezza sulla “fiducia nella scienza”. La risposta è stata secca: “Non c’era evidenza scientifica nel somministrare i vaccini ai bambini sotto i 12 anni. Mentre c’era assoluta evidenza scientifica del danno che gli abbiamo fatto chiudendoli in casa invece che portarli a fare sport. Altra cosa che la scienza ci dice che avremmo dovuto fare”. Lorenzin poi ha giudicato “gravissime” le parole di Meloni. “La comunità scientifica riteneva indispensabile vaccinare i bambini per non farli ammalare e per proteggere gli adulti fragili. Portarli a fare sport, poi, avrebbe significato creare ulteriori focolai”.
Tranchant su manganelli, carceri e pace, Meloni ha voluto precisare anche cosa intende quando dice di voler procedere con gli aggiustamenti al Pnrr. “Dobbiamo attivare l’articolo 21 del Next Generation Eu come previsto quando ci sono modifiche di contesto. Come vogliamo chiamare il fatto che i materiali, causa inflazione, sono aumentati del 35%?. E che dire del fatto che nel 2022 dovevano spendere 42 miliardi e invece ne abbiamo spesi 31? E’ chiaro che dobbiamo apportare delle modifiche”. Peccato che attivare l’articolo 21 voglia dire ammettere di non rispettare il cronoprogramma, bloccare tutto e ottenere nuovamente il via libera di 26 paesi. Sarebbe un pessimo incipit per il governo Meloni.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Mattia Feltri per “La Stampa” il 27 Ottobre 2022.
Molto bello ieri il dibattito al Senato. Per esempio ho molto apprezzato il senatore Luigi Spagnolli del Pd, indisposto a concedere fiducia a Giorgia Meloni, colpevole di aver pensato a un ministero del Mare e non a uno della Montagna.
Per la natura di questa rubrica, non posso dilungarmi e mi concentro sull'accattivante intervento del senatore Roberto Scarpinato, riveritissimo e ormai pressoché mitologico magistrato antimafia ora eletto al Parlamento col Movimento Cinque Stelle.
Mi scuso in anticipo perché non sono sicurissimo di averlo capito a fondo, ma ha parlato di strategia della tensione, di neofascismo eversivo alleato della mafia, di autori di stragi condannati con sentenza definitiva, di Franco Freda, di Carlo Maria Maggi, di Giovanni Ventura, di Ordine nuovo, di formazioni politiche variamente denominate e dedite al sovvertimento della Costituzione del 1948, del generale Gianadelio Maletti, già condannato a diciotto mesi con sentenza passata in giudicato per favoreggiamento degli autori della strage di piazza Fontana, di depistaggi di indagini posti in essere, di fattispecie di reato, di mandanti ed esecutori, in particolare di mandanti eccellenti, di colletti bianchi, la mafia dei colletti bianchi, ovvero la corruzione, e il leader di uno dei partiti della maggioranza ha intrattenuto pluriennali rapporti con la cupola mafiosa, per cui Dell'Utri, condannato in via definitiva, tale reato, a seguito della sentenza, e insomma lo so, ho perso presto il filo del discorso, ma sono quasi certo che alla fine Scarpinato abbia chiesto quindici anni di reclusione per Giorgia Meloni.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 27 Ottobre 2022.
La grana del cervello di Roberto Scarpinato era piuttosto nota, ergo a essere responsabile di tutto il tempo che fa perdere è solo chi ha permesso che sedesse in un tempio sacrale come il Senato dopo che lui, per una vita, aveva giudicato sacrale ogni suo atto da magistrato.
Noi navigati della giudiziaria ci siamo pure abituati alle fumisterie dietrologiche di questo neoprodotto senile del grillismo: ma Giorgia Meloni magari no, quindi potrebbe anche essersi invero stupita, ieri, quando si è sentita additare come una che ha «eletto a figure di riferimento alcuni personaggi che sono stati protagonisti del neofascismo e tra i più strenui nemici della nostra Costituzione», con menzione per Pino Rauti che fondò Ordine Nuovo (1965) e relative azioni incubatrici di «idee messe in opera nella strategia della tensione», già sanzionate con «sentenze definitive» su stragi hanno «insanguinato il nostro Paese» eccetera.
Insomma, una requisitoria come tante delle sue, con citazioni dei soliti Franco Freda, Giovanni Ventura, Carlo Digilio, Carlo Maria Maggi e altra gente morta. Tralasciamo la citazione del defunto generale Gianadelio Maletti (a cui in Senato, in aprile, dedicò un convegno: scandalo) perché mettersi a seguire Scarpinato nei suoi percorsi porta alla labirintite.
Registriamo per mera cronaca che il presidente del Consiglio ha reagito così: «Un approccio così smaccatamente ideologico mi stupisce fino a un certo punto, perché l'effetto transfert che Lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d'Amelio. È tutto quello che ho da dire».
Ed è pure troppo, per Roberto Maria Ferdinando Scarpinato da Caltanissetta: un archetipo della toga della Trinacria più pura e dietrologica, malfidente, dietrologica, storicizzante e adesso-ti-spiego, un personaggio inquietante non solo per le sue barbe e le sembianze mefistofeliche.
Tutti a ricordarlo come ex fallimentare accusatore del fallimentare processo Andreotti (processualmente parlando) ma nessuno che sappia o ricordi che ora siede in Senato, appunto tempio della democrazia: e però da antimafioso professionista, nel 2003, fu autore di teorizzazioni arditissime e spiegò che alla democrazia, tutto sommato, si potrebbe anche rinunciare: «Bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale...
Nella nuova Costituzione europea bisogna pure porre il problema degli interventi politici e istituzionali, compreso, come estrema ratio, il commissariamento europeo nei confronti degli Stati membri i cui vertici dovessero risultare in collegamento con la criminalità organizzata». Lo scrisse su Micromega.
Poi si meritò un procedimento disciplinare del Csm (sappiamo come finiscono) per una frase pronunciata proprio durante una commemorazione per la strage di via D'Amelio nel 2010: «Stringe il cuore a vedere talora tra le prime file, nei posti riservati alle autorità, anche personaggi la cui condotta di vita sembra la negazione dei valori di giustizia e legalità per i quali tu ti sei fatto uccidere».
Una frase come tante sue, ripetiamo, pronunciata da un personaggio che andrebbe raccontato: se ce ne fregasse sinceramente qualcosa. Ma, parlando in fin dei conti di una fiducia al Senato, non è chiaro quanto importi, ora, ricostruire le elaborazioni tra le più incredibili da lui sviluppate. Indimenticabile l'inchiesta «Sistemi criminali» in cui giunse a ipotizzare che tra il '91 ed il '93 Cosa Nostra avrebbe progettato di dividere il Meridione dal resto d'Italia grazie all'appoggio della massoneria deviata e dell'estrema destra, questo dopo essersi accordata in qualche modo con le leghe del Nord e prima di trovare un nuovo referente, alla fine del 1993, in Forza Italia. L'inchiesta - che strano - è stata archiviata. E ci sarebbe un sacco di altra roba da dire su Scarpinato. Ma è finita la voglia. È finito lo spazio. È finito il tempo: il suo.
Paolo Ferrari per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2022.
Dopo il durissimo intervento di Roberto Scarpinato, ex toga antimafia ed ora esponente di punta del M5s, in cui dubitava che il governo Meloni fosse sorretto dalla «convinta e totale condivisione dei valori della Costituzione», vale la pena ricordare come venne nominato procuratore generale di Palermo.
La risposta è contenuta nel libro "Lobby & Logge" scritto da Alessandro Sallusti con Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati ed ex ras della spartizione delle nomine al Csm in barba ad ogni disposizione di legge.
«Nel 2012, per la Procura generale del capoluogo siciliano, oltre Scarpinato, magistrato molto quotato, era in corsa Guido Lo Forte, uno dei procuratori storici di Palermo, vicino a Gian Carlo Caselli.
Io e Pignatone (Giuseppe, ex procuratore di Roma, ndr), un sabato di metà dicembre, andiamo a casa di Riccardo Fuzio che all'epoca era membro del Csm e poi diventerà procuratore generale della Cassazione. Con lui decidiamo la strategia: io avrei dovuto convincere Lo Forte a ritirare la candidatura, in modo da spianare la strada a Scarpinato, in cambio di un'assicurazione, garantita anche dalla corrente di sinistra, Magistratura democratica: avrebbe preso il posto di Francesco Messineo a capo della Procura della Repubblica di Palermo appena quel postosi fosse liberato».
Le correnti di sinistra volevano Scarpinato ma la sua nomina non era affatto scontata, si legge ancora nel libro. Che prosegue: «Era necessario che la corrente moderata di Unicost, la mia, convergesse nella votazione su di lui, e che la corrente di sinistra ricambiasse il favore su Lo Forte nella successiva votazione.
Da casa di Fuzio io chiamo Lo Forte e gli assicuro la tenuta di questo patto, legittimato dalla presenza di Pignatone, che tra l'altro era suo amico. E, dopo averci parlato, gli passo nell'ordine prima Pignatone e poi il padrone di casa. Niente, in punta di logica e pure di diritto.
Ma il potere non ha confini, e Pignatone in quel momento era un pezzo forte del "Sistema", anche perché nel frattempo aveva allacciato un ottimo rapporto con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sta di fatto che Lo Forte revocherà quella domanda e Scarpinato andrà alla Procura generale di Palermo».
Fra. Gri. per “la Stampa” il 28 ottobre 2022.
È stato lo scambio polemico più rovente, al Senato, quello tra Giorgia Meloni e Roberto Scarpinato, ex magistrato palermitano, punta di diamante del nuovo corso grillino. Lei l'ha liquidato con toni sprezzanti, facendo riferimento ai «teoremi» che sarebbero stati alla base del suo intervento e prima della sua carriera di pubblico ministero. Lui, il giorno dopo, si sente ancora indignato. «Ho fatto riferimento ad alcuni fatti documentati in sentenze, le stragi neofasciste, le figure di Rauti e Maletti. Non è stata in grado di rispondermi».
Una cosa veniva fuori chiara, dal suo intervento: un filo nero attraversa la storia della Repubblica. «Mi sono attenuto alle sentenze passate in giudicato, niente di opinabile. Ho citato stragi accertate del neofascismo: piazza Fontana, Brescia, la bomba a mano alla questura di Milano, Peteano. Portano la firma di Ordine Nuovo. E Pino Rauti era l'ideologo di Ordine Nuovo. Perché non mi ha risposto sui fatti? Con una sola frase, poi, ha fatto un doppio errore: mi ha definito giudice quando sono sempre stato un pubblico ministero; mi ha addebitato il depistaggio su via D'Amelio, quando l'ho smascherato io. È disinformata.
Ma la cosa grave è che la maggioranza al Senato l'ha applaudita. Non leggono le sentenze, non conoscono nemmeno i fatti più elementari».
Riconoscerà che la verità giudiziaria non coincide sempre con la verità storica.
«Perché i testimoni vengono uccisi, i documenti spariscono. È già un miracolo fin dove la magistratura arriva». E ci è andato giù piatto.
«Perché vedevo una grave lacuna nel dibattito. Tutti parlano del fascismo, un fatto storico, finito nel 1945. Perché non parliamo del neofascismo che ha insanguinato l'Italia e gravemente deviato la storia repubblicana? Il neofascismo che è alle radici culturali del partito di Meloni. La strategia della tensione ha segnato la nostra storia. E non dimentico che Giovanni Falcone ha imboccato la via crucis quando cominciò a indagare sulla pista nera nel delitto Mattarella».
Perplesso sulla fermezza contro la mafia dei colletti bianchi? «Con la mafia, non si deve pensare soltanto ai brutti sporchi e cattivi, tipo Riina. L'asse portante è la borghesia mafiosa. Torno alle sentenze: parliamo dello stalliere Vittorio Mangano, dei soldi pagati da Fininvest alle cosche, di Marcello Dell'Utri che continua a dettare la linea in Sicilia? Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?».
Il presidenzialismo è così pericoloso? «Ne abbiamo viste anche troppe, di democrazie presidenziali che poi si trasformano in regimi illiberali. Per questo i padri costituenti immaginarono un sistema di robusti pesi e contrappesi. Hanno già cominciato con l'attacco alla magistratura». Intende i progetti del ministro Carlo Nordio? «Vorrebbe togliere le indagini ai magistrati per darle solo alla polizia. Fosse per lui, si tornerebbe a una giustizia di classe».
Il Pd e l’imbarazzo per gli applausi a Scarpinato, l’ex Pm della trattativa. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
Il Partito Democratico è garantista nei convegni e troppo spesso giustizialista in aula. In tanti hanno rotto l’argine che Enrico Letta aveva alzato tra i dem e il Movimento, sbandando alla prima occasione. E sì che era un’occasione pubblica, di quelle solenni. L’esecutivo di Giorgia Meloni muove i primi passi all’indomani della fiducia ottenuta, dopo la Camera, anche dal Senato. Nell’aula di Palazzo Madama è andato in scena il primo intervento di Roberto Scarpinato, appesa la toga al chiodo, in veste di parlamentare.
Un gran debutto al primo giorno di scuola, tanto per puntare i piedi anche all’interno del gruppo 5S e far capire allo stesso Conte, neo deputato, chi è che comanda nel Movimento, nella camera alta. E Conte deve essersi sentito minacciato davvero se il giorno dopo dedica un tweet a sottolineare l’aderenza al pensiero dell’ex magistrato. “Proprio così”, scrive infatti su Twitter il presidente del Movimento cinque stelle, rimarcando quanto affermato del senatore Scarpinato. Cosa aveva detto? “Noi siamo le nostre scelte, presidente Meloni. E lei ha scelto da tempo da che parte stare. Non dalla parte degli ultimi, non dalla parte della Costituzione, non dalla parte dei martiri della Resistenza, di coloro che per la difesa della legalità costituzionale hanno sacrificato la propria vita”, le parole di Scarpinato.
Per poi abbandonarsi a una coda polemica, facendosi beffa delle regole sul tempo di parola assegnato, superato di oltre due minuti in barba al rispetto degli altri senatori e in spregio ai richiami del presidente La Russa: “Meloni, lei si dice contro la mafia. Bene, ma bisogna andare contro alla mafia dei colletti bianchi, contro la corruzione. E il suo governo si regge sull’accordo con una forza politica il cui leader ha intrattenuto rapporti pluriennali con la mafia ha avuto collusioni”. I senatori del M5S scattano in piedi per applaudire e trascinano nella foga diversi colleghi seduti sui banchi dem. Gli applausi a scena aperta rivelano per la prima volta, in questa diciannovesima legislatura, quanto deboli siano le resistenze dei riformisti in seno al Pd. Il garantismo di facciata nasconde una tentazione scivolosa: riappropriarsi di quel patto indecente siglato nel 1992 con certa magistratura e tornare a cavalcare la tigre contro gli avversari politici.
La saldatura tra i dem di oggi e quella deriva di allora rivive in aula, sotto gli occhi di chi può ben vedere chi si spella le mani per Scarpinato e chi no. “Io non ho certo applaudito”, rende noto il senatore Andrea Martella, segretario del Pd Veneto. “Non si possono fare le elezioni cavalcando i populismi e poi pensare di affrontare la fase di governo con le stesse idee”, dice Martella al Riformista. Vale per la maggioranza ma anche per il M5S. “Dobbiamo essere coerenti con la prevalenza di posizioni riformiste nel nostro partito”, indica sul piano della giustizia, mettendo in guardia i suoi colleghi di gruppo dalle libere uscite. “Pochi hanno applaudito Scarpinato”, ci dicono dal gruppo Pd. Si riconosce nei filmati Susanna Camusso. E Walter Verini, che però specifica: “Non ho condiviso tutto il suo intervento ma l’esigenza di tenere altissima l’attenzione e la lotta alle mafie l’ho condivisa molto. Per questo alcuni di noi (io tra questi) hanno applaudito”.
Prova a gettare acqua sul fuoco Anna Rossomando, che del Pd è Responsabile giustizia ed è vice presidente del Senato: “Francamente non mi pare rilevante chi ha applaudito o meno l’intervento del senatore Scarpinato. Piuttosto sulla Giustizia credo sia importante dare attuazione alle riforme Cartabia approvate durante la scorsa legislatura, a partire dall’organizzazione degli uffici e dalle risorse, perché il garantismo vive anche nell’attuazione delle norme. E aggiungo che la cultura delle garanzie non prevede che si possa parlare di carcere come se il problema fosse l’edilizia carceraria, come fa la destra. Su questi argomenti misureremo il grado di garantismo di tutti. E una verifica arriverà presto, sull’ergastolo ostativo, già approvato alla Camera pochi mesi fa con un accordo complessivo”. Prende le distanze da Scarpinato anche Andrea Orlando, uno dei nomi che la sinistra interna fa balenare in tema di primarie per il prossimo segretario.
“I magistrati – dice l’ex ministro del lavoro riferendosi a Scarpinato – dovrebbero smettere di fare i magistrati quando entrano in Parlamento e fare i parlamentari. Non c’è nesso tra repubblica presidenziale ed un’impostazione politica di origine neofascista. Esiste il rischio che ci possa essere una curvatura autoritaria, ma il momento di discuterne non è questo”. All’intemerata rivolta dall’ex giudice a Forza Italia risponde dal Salone della Giustizia un senatore azzurro dai toni sempre frizzanti: per Francesco Paolo Sisto, già sottosegretario di Draghi, l’intervento dell’ex magistrato Scarpinato è stato “un po’ vintage, tornare indietro alle conflittualità tra pubblici ministeri arrabbiati e politica e giudici… non c’è più tempo. L’Italia non si può più permettere guerre di religioni, abbiamo bisogno di riappacificare il cittadino con la giustizia”, che “non può di diventare un argomento divisivo”.
Il governo, in tema di Giustizia, accende i motori. Ieri mattina c’è stato il primo colloquio tra il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, e il vicepresidente del Csm, David Ermini. All’incontro nella sede del Ministero, in via Arenula, hanno partecipato anche il nuovo capo di gabinetto, Alberto Rizzo, e il segretario generale del Csm, Alfredo Viola. I dossier sono tanti e urgenti.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
La porta in faccia presa al Senato. Roberto Scarpinato e i teoremi sgangherati: la mania dell’eversione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
“È tutto quello che ho da dire”. Mai era stato liquidato in questo modo, neanche il giorno in cui ha perso il processo della sua vita, la “Trattativa”, e poco dopo è andato in pensione da sconfitto, il procuratore Roberto Scarpinato. C’è voluta la fierezza di una giovane donna, da lui trattata come un’imputata, come l’erede non solo del fascismo, ma anche di tutte le stragi, comprese quelle di mafia, nella solennità dell’aula di Palazzo Madama, per mettere al suo posto il neo-senatore.
Giorgia Meloni, il (la) Presidente del Consiglio, aveva risposto con un certo garbo, sia alla Camera che al Senato, a ogni critica dei rappresentati dell’opposizione. Aveva replicato con sicurezza ma sempre mantenendo un tono rispettoso su ogni argomento, anche i più spinosi. Ma un’unica volta la sua voce si è fatta ispida e gli occhi hanno fiammeggiato. Ed è parso strano questo singolare trattamento nei confronti di una ex toga, da parte dell’esponente di un partito, Fratelli d’Italia, e di una storia, quella della destra italiana discendente dal Msi, che si è sempre posta al fianco delle forze dell’ordine e della magistratura. E questo nonostante i morti e i processi che in determinati anni hanno riguardato la destra tanto quanto la sinistra.
Ma Scarpinato l’ha fatta grossa. Ha costruito il solito teorema, forse pensando di essere ancora ai tempi dei fasti dell’antimafia. Le prove generali erano già andate in scena, ancor prima delle elezioni del 25 settembre. Ma forse Giorgia Meloni non l’aveva notato. C’era stata una domenica pomeriggio in cui l’ex procuratore era stato esibito come la ciliegina sulla torta a Cinque stelle da Giuseppe Conte in una trasmissione elettorale negli studi Rai di Lucia Annunziata. Era stato quel giorno che il vestito della militanza antifascista aveva preso il posto di quella antimafia. Se qualcuno aspettava da lui un forte programma di riforme sulla giustizia, la speranza è stata subito spenta. Il candidato del partito grillino aveva il problema di dimostrare il sangue neo-fascista ancora vivo nelle vene di Giorgia Meloni e di tutto il centro-destra, perché al Senato era stato presentato un libro storico che raccontava la vita del generale Maletti. Cioè di un uomo del Sid degli anni sessanta-settanta, morto centenario un anno fa a Johannesburg e condannato per favoreggiamento nel processo per la strage di Piazza Fontana. Preistoria.
Ma usata in campagna elettorale come antipasto della bomba che il senatore Scarpinato ha deciso di tirare (un po’ con la mano sinistra, visto lo scarso successo) al suo esordio da senatore. Perché si è così inferocita Giorgia Meloni? Perché Scarpinato ha cercato di buttare lei e tutta la coalizione che ha vinto le elezioni, fuori dall’ “Arco Costituzionale”. Era questa la denominazione con cui fino al 1994 e l’arrivo di Silvio Berlusconi, il Msi era sempre schiacciato fuori dal mondo civile. Quello in cui chi governava, la Dc e i partiti laici e riformisti, aveva sempre tenuto aperto il dialogo e spesso la complicità con il Pci, il più grande partito comunista d’Europa, ma mai con il partito che rappresentava la destra. I missini erano i paria e dovevano stare nascosti come la polvere sotto il tappeto. I comunisti erano i cugini spesso invitati a tavola con i padroni di casa. Scarpinato ha detto a Meloni che lei era seduta indegnamente sullo scranno più alto del governo perché era brutta sporca e cattiva. Come i suoi antenati, ma anche come i protagonisti della “strategia della tensione”, secondo un copione dell’antifascismo militante e complottardo degli anni settanta cui non crede più neppure qualche nostalgico stalinista del mondo che fu.
“Signora presidente del consiglio”, ha esordito l’ex procuratore, e mai il richiamo all’appartenenza al genere femminile del(la) Premier è parso stonato. Perché la bomba è stata sganciata subito. Lei ha giurato sulla Costituzione, le ha buttato lì, ma “molti indici inducono a dubitare che tale giuramento sia stato sorretto da una convinta condivisione dei valori della Costituzione”. L’ex procuratore tratta Giorgia Meloni come aveva già fatto con Mario Mori nel “processo Trattativa”: due traditori dello Stato, alleati di coloro che intendono sabotare la Costituzione. “O peggio -aggiunge oggi- di stravolgerla instaurando una repubblica presidenziale..”. Non basta prendere le distanze dal fascismo, le dice. Non basta mai, si sa. Perché i furori dell’inquisizione prescindono da qualsiasi ragionamento. Lo abbiamo già visto. Diversamente non si sarebbe andati da “Sistemi criminali”, passando per il “papello” di Totò Riina fino al “Processo Trattativa”. E i carabinieri eroici che lottarono contro Cosa Nostra trattati come criminali. E trent’anni di processi costosi quanto fallimentari, fino alla sconfitta finale con l’assoluzione di tutti gli imputati.
Così oggi, passando dalle aule giudiziarie a quella del Senato della repubblica, alla storia di chi ha vinto le elezioni vengono imputati come “figure di riferimento, alcuni protagonisti del neofascismo”. Riecco ancora il generale Maletti, cui viene aggiunto Pino Rauti, il fondatore di Ordine Nuovo il cui nome ormai per i più può solo ricordare il fatto che la figlia Isabella è un’esponente di rilievo di Fratelli D’Italia. E non è una neo-fascista né una terrorista delle stragi. Salti logici cui abbiamo assistito nelle aule di giustizia siciliane. Il principio è sempre quello della favoletta del lupo e l’agnello. “Non basta la sua presa di distanza dal fascismo storico”, cara Meloni, dice Scarpinato. Perché il fascismo è proseguito per via “occulta” con le stragi, e quindi, finché non ci sarà la verità su quelle, lei non è degna di governare. Poi, sempre nella logica del “se non sei stato tu a sporcarmi l’acqua sarà stato qualche tuo parente”, si chiama in causa il progetto di Repubblica presidenziale e del pericolo autoritario insito nella proposta. Vogliamo aggiungere un altro pizzico di sale dell’antifascismo militante d’un tempo? Eccolo: la “bibbia liberista” che avrebbe sostituito i valori costituzionali, insieme ai biechi “interessi del padronato”.
Eccoti servita, cara Meloni. Da parte di un ex magistrato che, nei giorni in cui aveva appena ricevuto la candidatura già strillava compiaciuto “ditemi voi se me ne potevo restare a casa”. Ma che già nel passato, a proposito di valori democratici, andava sostenendo che “bisogna sospendere autoritativamente la democrazia elettiva aritmetica al fine di salvare la democrazia sostanziale”. Lo diceva senza timore che le proprie parole potessero un po’ puzzare di eversione. Che è un po’ quello di cui lui è abituato a contestare agli altri. Si è messo sullo scranno del pubblico ministero, forte di quella che un tempo fu l’intangibilità del ruolo, e ha cercato di mettere Giorgia Meloni sul banco degli imputati. Del resto si è sempre vantato, quasi un programma elettorale, di aver inquisito i potenti e i Presidenti del consiglio. Ma non ha mai spiegato ai suoi ammiratori come sono andati a finire quei processi e quelle indagini, a partire dal processo Andreotti fino alle inchieste archiviate su Berlusconi.
Con Giorgia Meloni gli è andata male. anche perché è impossibile mettere fuori dall’”arco costituzionale” un(a) presidente del consiglio. Così lei è andata a muso duro, ed è stata l’unica volta nei due giorni del dibattito sulla fiducia al governo. “Un approccio così smaccatamente ideologico –ha sillabato- mi stupisce fino a un certo punto, perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo, è emblematico del teorema di una parte della magistratura che è partito dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via D’Amelio. È tutto quello che ho da dire”. Ha fatto benissimo a ricordare la vergogna della vicenda Scarantino, anche se ha riguardato più Di Matteo che Scarpinato. La prossima volta basterà aggiungere la parola “trattativa”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L'anniversario del putsch di Mussolini. Il fascismo è ancora un pericolo: quali sono i rischi per il nostro Paese. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Ottobre 2022
Cent’anni fa ci fu la marcia su Roma. Il 28 ottobre del 1922. Era sabato. La marcia fu guidata da Benito Mussolini, capo di un piccolo partito, cioè il partito fascista, che alle elezioni dell’anno precedente aveva eletto 35 deputati su 535. Il partito di Mussolini era entrato in parlamento grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti. La marcia avvenne dopo mesi di violenze, delitti, uccisioni di militanti antifascisti, roghi nelle prefetture, nelle camere del lavoro, nelle sedi socialiste.
Il re, in quel tragico giorno di autunno, cedette al panico e invece di firmare lo stato d’assedio che gli era stato chiesto dal primo ministro chiamò Mussolini e gli consegnò l’incarico di formare il nuovo governo. Come mai Mussolini, che controllava circa il 7 per cento del Parlamento, riuscì ad avere l’incarico dal re e poi la fiducia dalla Camera? Perché molti settori liberali, e anche in parte popolari, si convinsero che la cosa migliore da fare fosse piegarsi. Serviva a spegnere l’incendio. Non sapevano chi era Mussolini? Non conoscevano il torrente di violenze e delitti che avevano preceduto la marcia su Roma? Sapevano, conoscevano.
In politica molti hanno doti e molti hanno difetti. Il difetto più comune è la vigliaccheria. Da quel giorno, e per molti anni, l’Italia non fu più uno stato di diritto. Si tornò a votare con pluralità di liste solo una volta, nel 1924, ma furono elezioni sfregiate da una campagna elettorale nella quale la violenza fascista dominò tutto, e poi il voto fu inquinato dai brogli. Il successo di Mussolini fu clamoroso, prese più del 60 per cento dei voti. Il capo dei socialisti, Giacomo Matteotti, pronunciò un furioso discorso in parlamento per denunciare violenze e imbrogli. Qualche giorno dopo una squadraccia fascista lo aspettò sul Lungotevere, vicino a piazzale Flaminio, mentre usciva di casa e si dirigeva alla Camera, lo rapì poi lo uccise e gettò il suo corpo in un bosco. Mussolini fu travolto dallo scandalo. Il regime per almeno sei mesi rischiò di cadere.
Poi, il 3 gennaio del 1925 Mussolini andò in parlamento, rivendicò il delitto, minacciò di trasformare la Camera in un bivacco dei suoi manipoli. Rischiò e vinse. L’anno dopo varò leggi speciali, mise fuorilegge i partiti, ne fece arrestare i capi. Fu imprigionato anche Antonio Gramsci, sebbene fosse deputato e protetto dall’immunità. Sturzo, il capo dei popolari, Turati, il mito socialista, i fratelli Rosselli, Togliatti e moltissimi altri si rifugiarono all’estero. In Francia e in Russia. La democrazia tornò in Italia solo vent’anni più tardi, dopo una guerra terribile e dopo l’olocausto degli ebrei al quale il governo italiano partecipò. Tornò grazie alla guerra partigiana e alle armate americane e britanniche (ma anche di altri paesi, per esempio del Marocco francese, i cui soldati furono decisivi ed eroici nello sfondare le linee tedesche e prendere Cassino).
Cent’anni. Sono passati cent’anni dalla marcia su Roma. Non ci sono più, da almeno una decina d’anni, persone viventi che se ne ricordino. Oggi la domanda è questa: esiste ancora l’ombra, il rischio, la minaccia del fascismo? Io rispondo di no e di sì. Di quel fascismo, quello squadrista e assassino, no. L’ombra è svanita e non tornerà. La civiltà europea, che a metà del secolo scorso toccò il punto più basso rispetto a ogni civiltà precedente, è cresciuta enormemente in questi ottanta anni. Spinta dalla forza portentosa di ideologie e culture che si richiamavano – e ancora si richiamano, credo – al liberalismo, al socialismo, al cristianesimo democratico. C’è stata Bad Godesberg, che è il luogo fisico e dello spirito nel quale il marxismo europeo ha compiuto la scelta democratica. Non solo il socialismo tedesco. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ci ha portato fino al “socialismo” montiniano e poi agli sviluppi clamorosi del bergoglismo.
C’è stata la grande modernizzazione e americanizzazione della cultura e del pensiero liberale, che oggi non è più figlia di Giolitti, ma della sua robusta fronda antifascista, amendoliana o radicale che dal fascismo era stata sbaragliata. E poi c’è l’Europa. Mettetela come vi pare con l’Europa, criticatela – e fate bene – disprezzatela anche, se volete – e forse fate bene – ma è una muraglia contro le dittature. Invalicabile. Poi però rispondo anche sì. Il fascismo, come ordine di pensiero, non è affatto morto. È vasto. Attraversa il popolo e i partiti. Entra nei vicoli delle città e dei paesi e si insinua dentro i luoghi del potere. Nel governo, nel sottogoverno, nell’opposizione e nella sotto-opposizione. Parlo del fascino intriso di intolleranza, di odio, di illiberalità, di repressione, di culto della punizione, di giustizialismo, di sospettissimo, di presunta eticità che oggi ha preso il sopravvento nello spirito pubblico.
Certamente questo fascismo nella destra è molto forte. Ed è di natura tradizionale. Lo si sente aleggiare nelle stesse parole di Giorgia Meloni, nel suo vocabolario. Merito, famiglia, patria, nazione. Avete notato o no che Giorgia Meloni ha abolito la parola “paese” e l’ha sostituita con la parola “nazione”? Nel linguaggio politico italiano – democristiano, socialista, comunista, liberale, repubblicano – dal 1945 ad oggi si è sempre usata la parola “paese” per indicare l’Italia. Perché? Perché la parola nazione contiene l’idea di nazionalismo, e il nazionalismo è una malattia dalla quale la politica italiana nata dopo la fine del fascismo era vaccinata. La politologia conosceva come un assioma il fatto che il nazionalismo è l’embrione del fascismo e dell’autoritarismo. Del resto neanche in America (che pure il fascismo non lo ha vissuto) non si usa la parola Nation. Si dice Country, cioè terra, paese. Da qualche giorno invece Giorgia Meloni sta imponendo la parola nazione a tutti. Lei usa solo quella parola. Altri la stanno imitando. Ha fatto questa scelta per caso? No, Giorgia Meloni è una politica navigatissima e anche sofisticata, nonostante il romanesco.
Sta cambiando il vocabolario, e imponendo il suo, per ragioni strettamente ideologiche. Meloni non è fascista ma pensa di avere bisogno di un continuo ammiccamento, di uno sguardo all’indietro, di un po’ di nostalgia. È il cemento della sua politica. È ideologia? Si, è l’ideologia vecchia vecchia, quella senza ideali. O con ideali inservibili: patria, nazione, famiglia, decoro, merito. E dietro questi ideali si nasconde la tipica intolleranza della destra. Punizione, giustizia, carceri, 41 bis, severità. Poi certo – e questa, è vero, è una garanzia per tutti – c’è l’ambiguità, la giravolta. Perciò sceglie Nordio alla giustizia, cioè l’opposto esatto del fascismo.
E qui si arriva all’altro pezzo del fascismo, che a volte amoreggia e spesso invece si scontra col fascismo di destra. Il grillismo, per capirci. Che ha sostituito tutte le ideologie precedenti col qualunquismo e il giustizialismo. Ha moltissimi punti in comuni con il vecchio fascismo, escluso, evidentemente, l’aspetto più truce del fascismo, cioè la violenza. Il grillismo è pacifico. Odia ma non picchia. Avete sentito Scarpinato l’altro giorno alla Camera? Ha detto più o meno questo: usando la legalità non ho ottenuto niente, non sono riuscito a portare nemmeno un grammo di valore alla battaglia contro la mafia. Allora ci provo col sospetto, con la politica, con la mia idea che certi partiti, che odio, vanno esclusi dal consesso civile.
Leggete bene il discorso di Scarpinato perché l’essenza del fascismo moderno è proprio lì. In quel pensiero, anche in quella idealità, in quel desiderio di purificazione, incoltamente dannunziano. La cosa che mi preoccupa di più è che quando ha parlato Scarpinato, un pezzo di Pd l’ha applaudito. Che vuol dire? Che l’antifascismo, nel senso vero e moderno del termine – tolleranza, garantismo, inclusione, accoglienza, indulgenza, uguaglianza – è diventato uno schieramento esilissimo. Anche un pezzo di sinistra è stata travolta dal nuovo fascismo. Scusate se uso termini forti, ma se non li usi è inutile, Non si capisce. Io dico solo questo. Cent’anni dopo la marcia su Roma il rischio di un nuovo fascismo è grandissimo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
L'ex magistrato, il depistaggio Scarantino e la casa all'imputato. Con Scarpinato il partito di Grillo è diventato garantista e berlusconiano…Piero Sansonetti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022
Roberto Scarpinato, ex magistrato e oggi esponente di punta dei grillini, si è un po’ indignato per la risposta leggermente sprezzante che Giorgia Meloni ha dato, in sede di replica, al suo intervento al Senato (che per la verità era piuttosto sconclusionato). Dice Scarpinato – in una intervista alla Stampa – che Giorgia Meloni ha sbagliato due volte: nel definirlo giudice perché lui è stato sempre e solo Pm, e nell’accusarlo di essere responsabile del depistaggio (col falso pentito Scarantino) nelle indagini sull’uccisione di Paolo Borsellino. Poi ha aggiunto di essere stato lui ad avere “smascherato il depistaggio”.
Ha ragione Scarpinato? Ha ragione nel dire che non è mai stato giudice e di non essere responsabile del depistaggio (ma Meloni non ha attribuito a lui quel depistaggio ma ad alcuni settori della magistratura palermitana. In effetti il depistaggio coinvolse il Procuratore Tinebra e anche il giovane Di Matteo, ma non Scarpinato). Che però sia stato lui a smascherarlo è del tutto falso. Fu la procura di Caltanissetta, guidata dal procuratore Lari, che si accorse nell’inguacchio e chiese alla Procura generale di Palermo di sospendere le pene alle persone innocenti vittime del depistaggio. La Procura generale (cioè Scarpinato) non poteva che dare seguito alla richiesta di Lari. Nessun ruolo di Scarpinato nello smascheramento. Nel seguito dell’intervista Scarpinato propone altre due tesi che meritano un breve commento. Chiede: “Si può onorare Borsellino e poi poggiarsi sui voti di Berlusconi?” Stupisce il fatto che Scarpinato parli di Borsellino. Perché è stato proprio lui, poche ore dopo la morte di Borsellino, a chiedere l’archiviazione del dossier mafia-appalti, avviato da Falcone e sul quale Borsellino voleva indagare.
Vi sembra che chi ha archiviato quel dossier sia l’uomo giusto per onorare Borsellino? Le mancate indagini su quel dossier sono state un danno probabilmente irreparabile al lavoro di chi tentava in quegli anni di colpire la mafia. Tanto che oggi, finalmente, proprio la Procura di Caltanissetta (la stessa che smascherò Scarantino) ha aperto una indagine su quella dannata archiviazione. Vuole capire bene perché fu fatta e che danni provocò. Attenti, per carità, a usare la parola smascherare… Infine l’ultima battuta dell’intervista di Scarpinato è contro Nordio accusato di voler restituire alla polizia giudiziaria l’indipendenza che oggi non ha, rendendo in questo modo più libere ed equilibrate le indagini. Oggi la polizia giudiziaria è interamente nelle mani del Pm (che si sceglie gli uomini che dovranno indagare) ed è costretta ad obbedirgli, a seguire la strada che il Pm indica e a lavorare a favore delle sue tesi. Una follia, degna davvero degli Stati autoritari.
P.S. Ma Scarpinato, sebbene non sia stata smentita la notizia sull’acquisto, qualche anno fa, a un prezzo piuttosto alto, di un appartamento di cui era comproprietario, da parte di un suo ex imputato (assolto su sua richiesta) resta un esponente di punta dei 5 Stelle. Sebbene nessun articolo del codice penale proibisca a un magistrato di fare affari con i propri imputati, e dunque non c’è il reato, eravamo tutti convinti che il codice etico del partito di Grillo non considerasse accettabili simili comportamenti e dunque procedesse contro Scarpinato, allontanandolo dal gruppo parlamentare. Invece lo hanno fatto capogruppo. Forse, all’improvviso, sono diventati tutti garantisti e anche un po’ berlusconiani…
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Quella trattativa Stato-mafia “a fin di bene” per salvare l’Italia. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 27 settembre 2022
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d'Assise ma confermano che quella trattativa ci fu.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È stato il processo che ha violentemente diviso l’antimafia giudiziaria e non solo quella. Un processo che ha sfiorato alte cariche dello stato e persino un presidente della Repubblica, che ha portato sul banco degli imputati ministri, alti ufficiali dei carabinieri e capimafia tutti insieme.
La sentenza di primo grado, nell’aprile del 2018, è stata clamorosamente di condanna per il boss Leoluca Bagarella per il medico di Cosa Nostra Antonino Cinà, per il colonnello Giuseppe De Donno e per i generali Mario Mori e Antonino Subranni, per il senatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri.
La sentenza di appello è stata clamorosamente di assoluzione per tutti. Tranne che per i mafiosi.
E, ancora prima, assolto anche l’ex ministro Calogero Mannino – che aveva scelto il rito abbreviato – dall’accusa di avere partecipato alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Di più: di essere stato lui stesso l’origine del patto perché terrorizzato, diventato bersaglio di Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima, l’uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. Assolto «per non aver commesso il fatto».
In questa lunga serie del Blog Mafie pubblichiamo ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado (presidente Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania), quasi tremila pagine che demoliscono alcuni passaggi chiave della sentenza della Corte d’Assise ma conferma
È una sentenza dove lo stato assolve sé stesso e che parla di «palesi aporie o forzature» nel primo grado, che sottolinea come nell’estate del ‘92 Cosa Nostra non giocasse in difesa ma in attacco: «L’obiettivo finale era costringere lo stato, a forza di bombe, a prendere atto che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa Nostra».
Gli approcci di alti ufficiali dei carabinieri con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino vengono definite "un'improvvida iniziativa“, la strage di via d’Amelio non fu un fattore di accelerazione dell’uccisione di Paolo Borsellino ma nelle motivazioni viene rilanciata piuttosto la pista del dossier “mafia-appalti. Ipotesi molto azzardata e priva di un qualunque riscontro: questa comunque la convinzione dei giudici.
Un verdetto che capovolge il precedente e che ha aperto altre polemiche all'interno della magistratura, filosofie giudiziarie differenti che si scontrano ormai da quel lontano 1992.
A trentanni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio, di sicuro c'è solo che Falcone e Borsellino sono saltati in aria e non si conoscono i “mandanti altri” che ne hanno ordinato la morte.
ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA
I tanti misteri su quegli accordi tra il crimine e il potere. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 settembre 2022
Sullo sfondo la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli Anni Sessanta e i giorni nostri. Dai tentativi di golpe e dalle stragi dei primi Anni Settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Prima di esporre e poi esaminare nel merito i proposti gravami è opportuno, per una più agevole comprensione delle questioni da approfondire in relazione ai fatti di causa, ricapitolare nelle sue tappe salienti il percorso logico probatorio che ha condotto la Corte d’Assise di primo grado ad affermare la penale responsabilità degli imputati odierni appellanti.
L’imponente mole del materiale istruttorio accuratamente scrutinato dal primo giudice costringe, per economia di motivazione, a farvi solo dei cenni, rimandando per una più compiuta ricognizione delle fonti di prova e della loro valutazione alle pagine della sentenza qui impugnata che le illustrano.
E si cercherà, nell’esposizione che segue, di rispettare e rispecchiare per quanto possibile lo spartito motivazionale e la sua articolazione per capitoli separati, per non alterare la consequenzialità logica degli argomenti trattati. […].
Parimenti, ci si limiterà a qualche cenno per quelle vicende che solo marginalmente hanno incrociato i fatti di causa, e per le posizioni uscite di scena [...]; mentre più spazio dovrà riservarsi alla posizione di Massimo Ciancimino, sebbene questi sia stato assolto dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa - e anche in questo caso il pm non ha proposto appello — e condannato per il reato di calunnia in pregiudizio del dott. Giuseppe De Gennaro — e avverso tale pronuncia il pm ha proposto appello ma il relativo procedimento è stato stralciato, su richiesta della difesa e nulla opponendo le altre parti [...] — dovendosi conto delle ragioni per le quali il giudice di prime cure è attivato alla conclusione che nessun uso può farsi delle dichiarazioni del predetto Ciancimino, in quanto quello che era stato presentato dalla pubblica accusa come un teste chiave dell’intero processo si è rivelato essere una fonte inaffidabile.
In “Premessa” alla parte prima della sentenza in esame si segnala come il processo abbia ricostruito la storia recente dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e, più specificamente, quella che ha visto via via crescere l’influenza dei c.d. “corleonesi”, i quali, muovendo già da un nucleo importante e significativo formatosi sin dagli anni 40-50 (con Michele Navarra e successivamente con Luciano Leggio), avevano infine conquistato l’egemonia, prima nella provincia di Palermo ivi compreso il suo capoluogo (sino ad allora regno incontrastato di Michele Greco e Stefano Bontate) e poi nell’intera Sicilia, con la definitiva consacrazione, come suo capo assoluto, di Salvatore Rima.
L’istruzione dibattimentale ha, però, “fotografato” anche il declino e la sostanziale chiusura di quell’esperienza criminale, a decorrere proprio dal suo apice raggiunto nella stagione delle stragi e conclusosi, di fatto, con l’arresto di Bernardo Provenzano al punto da far dire, ai giudici della Corte d’Assise di primo grado, che: “La “mafia storica” è stata sconfitta dallo Stato, nonostante, verrebbe da dire, i comportamenti di molti esponenti istituzionali, i quali, non rendendosi conto — o in alcuni casi, pur essendo ben consapevoli — degli effetti dirompenti per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi. ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere, ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti».
E il punto di svolta del declino mafioso si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l’arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una
sorta di patto di non belligeranza con lo Stato ): una strage che, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra,‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano).
Il cedimento dello Stato, che, a parere della Corte di primo grado, era di fatto iniziato già dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed e proseguito con maggiore evidenza dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l‘impossibilità di fronteggiare quell'escalation criminale, senza pari nella storia del Paese in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di “mani pulite”, e di conseguente instabilità per l’affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a “cosa nostra”.
A riprova dell’immane sforzo che la Corte di primo grado rivendica di avere sostenuto, si citano i numeri più significativi dell’istruttoria dibattimentale (ben 228 udienze, oltre 1.250 ore di dibattimento, oltre 190 soggetti esaminati, tra i quali alcuni rappresentanti dei massimi vertici dello Stato, innumerevoli documenti in formato cartaceo e soprattutto informatico), unitamente alla considerazione che l’accertamento dei fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri (dai tentativi di golpe e dalle stragi dei primi anni settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla Loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli. al sequestro Cirillo, alle stragi di mafia sin dalla c.d. “strage di viale Lazio” e, più in generale, alla interminabile sequela — senza pari nel mondo — di uomini delle Istituzioni uccisi in Sicilia, ai rapporti tra la “cosa nostra” siciliana e quella americana); senza dimenticare, sullo sfondo e quasi a fare da filo conduttore di molte vicende, l’ombra strutture occulte di natura massonica o paramassonica e di esponenti infedeli dei cd. servizi segreti.
Le chiacchiere di Massimo Ciancimino, un testimone inattendibile. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 28 settembre 2022
Sono pochi i documenti genuini. I più, o sono dei falsi, o sono frutto della manipolazione di documenti originari effettivamente riconducibili al padre Vito. Come accertato attraverso le accurate indagini di polizia scientifica. E ciò vale pure per il cosiddetto. “papello”, sebbene non siano emersi elementi certi di manipolazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
All’imputato Massimo Cianciminoo veniva contestato il reato di calunnia, per avere, in particolare, nel corso delle sue molteplici dichiarazioni rese alla A.g., accusato il dott. Giovanni De Gennaro, brillante funzionario della Polizia di Stato che, al culmine della sua carriera pubblica, ha ricoperto anche la carica di Capo della medesima Polizia di Stato, di avere intrattenuto, nella sua predetta qualità, “costanti e numerosi rapporti illeciti con esponenti dell'associazione mafiosa denominata “cosa nostra” e, quindi, in sostanza ed in concreto, il reato, se non di partecipazione, quanto meno di “concorso esterno” nel delitto di associazione mafiosa.
Si contestava, quindi, ancora più in particolare, al Ciancimino di avere, al fine di supportare la sua accusa, contraffatto un documento manoscritto, consegnato al P.M. il 15 giugno 2010, consistente in un elenco di funzionari dello Stato a vario titolo asseritamente collusi con la mafia nel quale, però, era stato trasposto il nome “De Gennaro” traendolo da un altro documento questa volta manoscritto in originale da Vito Ciancimino.
Il P.M. contestava, altresì, al Ciancimino la circostanza aggravante prevista dall’art. 368 comma 2 c.p. per avere incolpato il De Gennaro di un reato per il quale la legge stabilisce la pena superiore nel massimo a dieci anni, reato non espressamente indicato col suo articolo, ma che dalla descrizione dei fatti si individua agevolmente in quello previsto dall’art. 416 bis c.p.
Dal verbale del 15 giugno 2010 redatto dall’Ufficio della Procura della Repubblica di Palermo (prodotto dalla difesa della parte civile De Gennaro all’udienza del 26 settembre 2013 ed acquisito con ordinanza del 17ottobre 2013) si ricava che in quella occasione Massimo Ciancimino, dopo essere stato avvertito ai sensi dell’art. 64 c.p.p., ebbe, tra l’altro, a consegnare spontaneamente il documento indicato nel capo di imputazione sopra ricordato, dichiarando di averlo “recuperato” a Parigi da un soggetto di cui non rivelava le generalità per non coinvolgerlo, essendo, a suo dire, amico della moglie ed estraneo ai fatti rappresentati nei documenti che aveva custodito per suo conto.
Il Ciancimino, quindi, aggiungeva che il foglietto manoscritto che poi ha dato luogo all’odierna contestazione di reato era “certamente” già contenuto in una busta spedita nel 1990 dal padre da Roma alla sua abitazione di Palermo affinché fosse conservata dalla moglie in attesa di disposizioni.
Dal tenore delle dichiarazioni rese si evince che Massimo Ciancimino ebbe a consegnare il documento in questione con l’inequivoco intento di supportare le assente indicazioni del padre sul c,d. “quarto livello”, comprendente, a suo dire per quanto appreso dal padre, soggetti che, nell’ambito delle Istituzioni, intrattenevano rapporti con la mafia, e, nel contempo, ebbe ad asserire in modo altrettanto inequivoco che il padre, rispondendo ad una sua domanda sulla identità del “signor Franco” cerchiò il nome “F/C GROSS” e tracciò la linea che unisce tale cerchiatura al nome “De Gennaro” contestualmente scritto dal padre medesimo in sua presenza.
IL NOME DE GENNARO AGGIUNTO POI
Sennonché, è stato accertato dagli esperti della polizia scientifica di Roma che, in realtà, il nome “De Gennaro” è stato trasposto su quel documento mediante fotocopiatura di un altro scritto autografo di Vito Ciancimino.
In sostanza, nel documento classificato “1 PA” (appunto, il documento consegnato da Massimo Ciancimino il 15 giugno 2010 e già acquisito agli atti contenente sul fronte l’elencazione dei nomi E Restivo, A. Riffini. Santovito, Malpica, Gros, Parisi, Sica, De Francesco, Contrada, Narracci, Finocchiaro, Delfino, La Barbera e Finocchi, uno dei quali, Gros, cerchiato ed unito con una freccia al nome De Gennaro e sul retro la scritta “contatti Massimo”), oltre che l’elenco dei nomi ivi manoscritto a stampatello è attribuibile, con grado di probabilità, a Massimo Ciancimino, mentre soltanto la scritta sul retro è attribuibile con certezza a Vito Ciancimino.
Sebbene Massimo Cancimino per anni abbia dominato la scena, proponendosi come depositano di segreti inquietanti e inedite verità sulle collusioni tra esponenti istituzionali e dei Servizi ed esponenti mafiosi, la Corte d’Assise di primo grado, per le ragioni che saranno tra breve succintamente richiamate, è giunta alla conclusione che il suo contributo all’accertamento della verità dei fatti è inutilizzabile perché, come acclarato all’esito di una rigorosa verifica dibattimentale, è risultato inquinato sia dai reiterati mendaci delle sue copiose dichiarazioni, sia dalle manipolazioni e falsificazioni parimenti accertate nella mole di documenti prodotti dallo stesso Massimo, incluso quello che figura nella contestazione del reato di calunnia.
Solo pochi documenti sono risultati genuini. I più o sono dei falsi, o sono frutto della manipolazione di documenti originari effettivamente riconducibili al padre Vito, come accertato attraverso le accurate indagini di polizia scientifica cui sono stati sottoposti e su cui hanno riferito i testi escussi nel giudizio di primo grado (alle udienze del 10 e 11 novembre 2016 sono stati esaminati, congiuntamente, su richiesta e con l’accordo di tutte le parti, i testi Maria Vincenza Caria, Marco Pagano, Sara Falconi e Anna Maria Caputo, tutti appartenenti al Servizio di Polizia Scientifica di Romanelle).
E ciò vale pure per il c.d. “papello”, sebbene non siano emersi elementi certi di manipolazione. Non si può escludere, sulla scorta di altre convergenti risultanze probatorie, che esso sia materialmente esistito, ma è certo che o venne distrutto, prima di poter venire nella disponibilità di Massimo, o comunque questi non vi ebbe mai accesso, non essendovi prova, al di là di rassicurazioni dello stesso Massimo Ciancimino che il documento propinato come il famoso “papello” siano ascrivibile ai vertici mafiosi.
La Corte, nel ribadire di non poter tener conto a fini probatori delle dichiarazioni e delle produzioni documentali di M.C., tuttavia precisa che non ha ritenuto di fame uso né in favore ma neppure contro l’ipotesi accusatoria, per ciò che concerne l’accertamento dei fatti e delle responsabilità per il reato di minaccia a corpo dello Stato; nel senso che nel caso di divergenza o contrasto con altre fonti, le propalazioni di Massimo Ciancimino non possono addursi a prova contraria e non valgono
neppure a insinuare il dubbio sull’attendibilità di altri dichiaranti. Mentre tutte le volte che Massimo Ciancimino ha reso dichiarazioni che concordano con quelle di altre fonti, il suo narrato non vi aggiunge nulla e non può trarsene alcun effetto corroborativo, stante la propensione dello stesso Ciancimino al mendacio e la conseguente cronica impossibilità di discernere nelle sue propalazioni il vero dal falso.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Documenti falsi e calunnie contro il super-poliziotto Gianni De Gennaro. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 settembre 2022
Le dicerie e le menzogne nei riguardi di De Gennaro servivano anche a dare credibilità agli altri racconti creati dalla fervida fantasia di Ciancimino. Come già espresso dal giudizio conclusivo in primo grado, “è veramente ardito discernere nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino il vero dal falso”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza impugnata dedica pagine meditate e uno spazio congruo alla motivazione del giudizio con cui stronca l’attendibilità delle alluvionali propalazioni di Massimo Ciancimino, prendendo le mosse dalla peculiarità della sua figura come fonte dichiarativa.
E non ci si riferisce tanto al ruolo che il più giovane dei tigli di Vito Ciancimino si è auto-attribuito, quale fonte principale di rivelazione dei fatti alla base della vicenda poi divenuta nota come “trattativa Stato-mafia” (un aspetto che, tino alla conclusione del giudizio di primo grado la Pubblica Accusa , pur non nascondendo alcune criticità delle sue dichiarazioni, non ha del tutto rinnegato, non rinunciando a valorizzare talune sue dichiarazioni in chiave confermativa di quegli accadimenti).
In effetti, Massimo Ciancimino, oltre ad essere un “testimone” privilegiato della c.d. Trattativa che secondo la contestazione del P.M. Venne intavolata dagli altri imputati Mori e De Donno con i vertici mafiosi col tramite di Vito Ciancimino, era al contempo, imputato del reato del c.d. “concorso esterno” nell’associazione mafiosa Cosa Nostra in relazione al contestato ruolo di latore di messaggi scritti e
comunicazioni orali fra il padre Ciancimino Vito Calogero e Provenzano Bernardo ; e imputato del reato di calunnia aggravata, per avere ingiustamente incolpato il Dott. De Gennaro di avere intrattenuto rapporti illeciti con esponenti dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, peraltro, falsificando un documento nel quale in modo apocrifo aggiungeva proprio il nome del De Gennaro con una cerchiatura traendolo da uno scritto autografo del padre.
Nella stessa fonte dichiarativa si intrecciavano e si sovrapponevano quindi vesti processuali e angolazioni, anche sotto il profilo dell’approccio alla valutazione preliminare di attendibilità diverse e persino confliggenti, tanto più se si considera che le propalazioni calunniose nei riguardi del dot. De Gennaro servivano anche a dare credibilità alle altre sovrastrutture create dalla fervida fantasia del dichiarante. Sicché non può che convenirsi con il giudizio conclusivo del giudice di prime cure secondo cui è veramente ardito discernere nelle dichiarazioni di Massimo Ciancimino il vero dal falso, tanto più che quest'ultimo ha mostrato di avere una personalità caratterizzata da tratti di eclettismo ed istrionismo, con una spiccata tendenza a creare, pur muovendo da un nucleo di fatti certamente veri e che egli ha avuto modo di conoscere o direttamente in virtù della particolare vicinanza col padre in occasione delle traversie giudiziarie clic hanno riguardato quest'ultimo ovvero indirettamente attraverso possibili confidenze del padre medesimo o, probabilmente in maggior misura, esaminando documenti da quest'ultimo custoditi, sovrastrutture progressivamente sempre più complesse, ma spesso con fondamenta assolutamente fragili e, quindi, conseguentemente, destinate a crollare miseramente.
Lo sviluppo nel tempo della narrazione del giovane Ciancimino, come ricostruito già con l’esame da parte del P.M. e, poi, ancor più con l’incalzante controesame svolto dalla difesa della parte civile De Gennaro (ma anche con quello svolto dalle difese degli altri imputati controinteressati) rende evidente, a parere del primo giudice, come il dichiarante abbia cercato di sfruttare le poche conoscenze personali acquisite prestando i suoi servigi filiali a favore del padre negli anni sino al 1992, e alcune confidenze fattegli sempre dal padre negli anni più prossimi alla sua morte (dal 1999 al 2002) con la finalità di scrivere un libro di memorie; e come, successivamente, egli si sia servito anche e soprattutto di alcuni documenti dello stesso genitore per imbastire una storia, in parte effettivamente accaduta, ma nella quale assegna a sé un ruolo di quasi protagonista certamente incompatibile, soprattutto sotto il profilo conoscitivo, con il ruolo svolto in concreto che è stato quello di mero esecutore delle istruzioni e delle commissioni paterne, senza alcuna possibilità di interloquire nel merito o di avere dal burbero genitore, per sua stessa ammissione, spiegazioni e chiarimenti sugli incarichi materiali di volta in volta affidatigli.
[…] Il giudice di prime cure tuttavia tiene a precisare che la “falsità” di tali documenti non significa che non siano mai esistiti i fatti che con essi si intendeva plasticamente documentare, come i costanti contatti tra Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino anche attraverso “pizzini”; o il fatto che quest’ultimo, dopo essersi prestato a fare da tramite per un dialogo tra Istituzioni e mafiosi, non sia stato effettivamente destinatario di una serie di richieste dei vertici mafiosi coincidenti, almeno in parte, quelle contenute nel “papello” esibito da Massimo Ciancimino e qui acquisito, poiché agli atti vi è prova inconfutabile sia dei primi che delle seconde.
Ma resta il fatto che Massimo Ciancimino, utilizzando conoscenze acquisite negli anni dal padre o promananti da altri soggetti le cui dichiarazioni erano da tempo note (come quelle rese Brusca Giovanni, che fin dal 1996 aveva iniziato a rendere dichiarazioni su quei fatti sin dal 1996; o le dichiarazioni rese da Mori e De Donno al processo di Firenze già nel 1998), per supportare le sovrastrutture narrative artificiosamente aggiunte a ciò di cui era a conoscenza, oltre a rendere false dichiarazioni ha altresì falsificato e consegnato alla A.G, alcuni documenti, rischiando cosi di inquinare irrimediabilmente le acquisizioni probatorie in ordine ai fatti oggetto del presente processo.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quegli “approcci” con don Vito confermati dal generale Mario Mori. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 settembre 2022.
Dai discorsi di Massimo Ciancimino può dirsi provato, dunque, solo ciò che uno dei principali protagonisti, l’imputato Mario Mori, non ha esitato a definire come “trattativa” e che venne intavolata con Vito Ciancimino quanto meno all’indomani della strage di Capaci, prima tramite De Donno e poi anche direttamente dallo stesso Mori.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Delle propalazioni di Massimo Ciancimino può dirsi provato, dunque, solo ciò che uno dei principali protagonisti, l’imputato Mario Mori, non ha esitato a definire come “trattativa” e che venne intavolata con Vito Ciancimino quanto meno all’indomani della strage di Capaci, prima tramite De Donno e poi anche direttamente dallo stesso Mori.
Così possono dirsi provati il primo approccio tramite De Donno e la richiesta di instaurare, tramite Vito Ciancimino, un contatto con i vertici di “cosa nostra”, finalizzato a raggiungere un’intesa per porre fine alle stragi. Ne ha riferito Massimo Ciancimino per conoscenza diretta (incontestata perché confermata, appunto, da De Donno e Mori); ma sono fatti che emergono da pur reticenti accenni dello stesso Vito Ciancimino, nonché dalle stesse ricostruzioni fatte dai predetti imputati Mori e De Donno sin da quando sono stati sentiti, in qualità di testimoni, nel processo per le stragi del continente svoltosi a Firenze; ed ancora, per quanto riguarda l’imputato Mori, anche nel memoriale consegnato alle Procure della Repubblica di Firenze e Caltanissetta rispettivamente l’1 agosto e il 23 settembre 1997 (doc. n. 41 della produzione del pm).
Analoghe considerazioni valgono per l’identificazione nella persona del dott. Antonino Cinà del canale allora individuato da Vito Ciancimino per contattare i vertici di Cosa Nostra e, specificamente, il suo allora incontrastato capo, Salvatore Riina
: anche in questo caso, il nome dell’odierno imputato Cinà, pure indicato da Massimo Ciancimino, era stato già fatto nelle dichiarazioni rese all’A.G. dal padre Vito suffragate sul punto dal racconto di Mario MORI (con la precisazione che questi avrebbe appreso l’identità del Cinà soltanto a vicenda conclusa).
E nonostante qualche difformità sulla sequenza degli incontri tra De Donno-Mori e Vito Ciancimino, emerge dalla ricostruzione dei primi due (e, specificamente, di Mori nei memoriale sopra richiamato) uno sviluppo della “trattativa” del tutto concordante con l’iter riferito da Massimo Ciancimino e, in particolare, laddove si evidenzia quel passaggio da una prima fase in cui l’intendimento di Mori-De Donno era quello di evitare nuove stragi ad una seconda fase mirata alla cattura del latitante Rima.
Sennonché, chiosa la sentenza, le propalazioni di Massimo Ciancimino a questo punto risultano addirittura superflue, perché altri elementi probatori consentono, ben al di là di quanto dichiarato dallo stesso Ciancimino, di dare per accertato che:
da un lato, Vito Ciancimino, tramite il Cinà, riuscì effettivamente a raggiungere i vertici dell’associazione mafiosa allora rappresentata soprattutto da Rima e Provenzano (sia pure quest’ultimo con una posizione più defilata e meno appariscente, ma pur sempre con un ruolo direttivo);
e, dall’altro, che i medesimi vertici mafiosi ebbero la consapevolezza di una disponibilità dello Stato ad intavolare una “trattativa” certamente già nel periodo ricompreso tra le stragi di Capaci e di via D ‘Amelio indipendentemente dalla collocazione temporale dei diretti colloqui intervenuti tra il Col. Mori e Vito Ciancimino per effetto dei primi approcci — pur eventualmente del solo De Dotino — certamente risalenti ai giorni successivi alla strage di Capaci.
COSTRUITE MENZOGNE SU UNA SOLA VERITÀ
Ma ecco che su quest’unico nucleo di verità, per asseverare il quale può benissimo farsi a meno delle propalazioni di Massimo Ciancimino, si innestano le sovrastrutture artificiosamente create da quest’ultimo e che vanno espunte dal compendio probatorio, a parere del primo giudice, perché prive di concreti riscontri o perché assolutamente inverosimili o, anzi, più probabilmente, frutto della fantasia del dichiarante.
La prima ditali sovrastrutture è costituita dalla ricostruzione dei contatti diretti tra Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. che, seppure certamente avvenuti, non possono essersi verificati, ad avviso del primo giudice, con le modalità ed i tempi indicati da Massimo Ciancimino, non essendovene comunque alcun riscontro.
È ben possibile, anche sulla scorta di quanto riferito al riguardo da altre fonti (come Lipari) che il Provenzano, negli anni settanta, quando non ancora assurto alla notorietà dei decenni successivi e pur essendo già latitante si muoveva più liberamente, si spingesse ad andare a trovare a casa Vito Ciancimino (sebbene una frequentazione nei termini riferiti da Massimo Ciancimino non ha trovato conforto nelle dichiarazioni degli altri familiari del Ciancimino neppure con riferimento al fantomatico “ingegnere Lo Verde”); ma è inverosimile, perché incompatibile con sicure acquisizioni probatorie sulle modalità e le cautele con cui lo stesso Bernardo Provenzano conduceva la sua latitanza già a partire dagli anni ‘80 (avvalendosi di una rete di favoreggiatori che gli ha permesso di preservare la sua latitanza per oltre quaranta anni grazie ad un sistema di protezione fondato su contatti segmentati e limitati a soggetti di volta in volta sostituiti ed ad un sistema di comunicazione sempre mediato e mai diretto), che, ancora negli anni novanta e successivamente addirittura sino al 2002, quando già massima era l’attenzione sulla sua persona, possa avere avuto i contatti diretti con Vito Ciancimino (peraltro, a sua volta, già coinvolto in vicende giudiziarie), sia a Palermo che a Roma, recandosi nelle abitazioni dello stesso.
E non meno inverosimile è, a parere del primo giudice, che possa avere avuto contatti diretti con Massimo Ciancimino, incontrandolo ripetutamente da solo più volte anche talvolta nello stesso giorno e nello stesso luogo, e ricevendo direttamente dalle mani dello stesso le lettere di Vito Ciancimino, o consegnando altrettanto direttamente a Massimo Ciancimino i “pizzini” destinati al padre di quest’ultimo, come nell’episodio dello scambio di messaggi che Massimo colloca all’indomani della strage di via D’Amelio, quando altissima era l’attenzione delle Forze dell’Ordine, ed era inutile, oltre che inverosimile, che il boss latitante si esponesse tanto, e solo per ricevere dalle sue mani una busta che poteva essergli recapitata attraverso la catena di favoreggiatori della sua latitanza.
Né a fugare perplessità che rendono del tutto incredibile la ricostruzione del giovane Ciancimino può bastare la spiegazione fornita da Massimo Ciancimino riguardo alle assicurazioni che i Carabinieri avrebbero fornito, per garantire la trattativa che lo stesso Massimo Ciancimino non sarebbe stato seguito. Non si vede infatti come in quella prima fase della “trattativa”, in cui le “parti” si stavano studiando reciprocamente per comprendere quali fossero le reali intenzioni o i possibili sbocchi dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri, il Provenzano potesse avere già acquisito una certezza di impunità tale da indurlo ad abbandonare le più elementari regole di prudenza ordinariamente seguite da un latitante, e a maggior ragione per un esponente di assoluto rilievo dell’organizzazione mafiosa che poteva servirsi di fedeli gregari o intermediari per un’attività meramente materiale come il ritiro di una busta o la consegna di un pizzino.
Ma anche ammesso che il Provenzano avesse deciso di fidarsi dei Carabinieri, osserva ancora la Corte, non si vede quale garanzia egli avesse che, invece, altre Forze di Polizia, all’oscuro di quella “trattativa” iniziata dai Carabinieri, non fossero sulle sue tracce e potessero, quindi, arrestano approfittando di quell’oggettivo abbassamento delle cautele abitualmente adottate nei movimenti dei grandi latitanti.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Quando una “trattativa” con il crimine organizzato può diventare lecita. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'01 ottobre 2022
Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’onorevole Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata “Cosa nostra”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza si sofferma sui concetti generali che innervano la struttura motivazionale, a partire dalla nozione stessa di “trattativa”.
Col termine “trattativa” si è inteso fare riferimento a quei contatti che, secondo l’accusa, già a decorrere dall’omicidio dell’On. Lima, si sono avuti tra esponenti delle Istituzioni ed esponenti della associazione mafiosa denominata Cosa nostra. In punto di fatto, è pacifico e incontestato che reiterati contatti tra rappresentanti delle Istituzioni ed esponenti mafiosi, mediati da emissari dei secondi, vi siano stati, e in frangenti diversi, e non solo temporalmente controversi sono:
l’identificazione e il ruolo degli intermediari;
l’esatta collocazione temporale del loro inizio, che secondo l’originaria prospettazione accusatoria risalirebbe all’epoca dell’omicidio Lima;
e, soprattutto, le vere ragioni e finalità ditali contatti.
La Corte d’Assise avverte subito del rischio che incombe, e che fin dall’inizio ha pesato su un sereno giudizio: quello della sovrapposizione di valutazioni etico-politiche rispetto a giudizi e valutazioni di tipo strettamente giuridico che sono i soli che possono trovare ingresso in un processo penale.
In avvio di motivazione, tuttavia, non rinunzia a prendere una posizione netta e perentoria in ordine alla vexata quaestio della liceità o meno di una trattativa che, pur mettendo in conto la possibilità di concedere benefici straordinari — e non previsti dalle leggi vigenti — agli autori di crimini efferati, e facenti parte di organizzazioni criminali particolarmente temibili per spietatezza ed efficienza, sia finalizzata a salvare vite umane e prevenire la perpetrazione di ulteriori e ancora più cruenti delitti.
A indurre questa preliminare riflessione è la sollecitazione che viene dal principale argomento sotteso alle difese degli imputati appartenenti alle istituzioni: la “trattativa”, se finalizzata a far cessare le stragi che in quel periodo si succedevano, giammai può essere ritenuta illecita né sotto il profilo politico né sotto quello giuridico, competendo al potere esecutivo ed alle forze dell’ordine promuovere tutte le iniziative ritenute necessarie per prevenire l’ulteriore commissione di così gravi crimini.
E la Corte, nell’enunciare il proprio convincimento, prende anzitutto le distanze da un’impostazione che tende a ricondurre i termini del dilemma ad una questione di discrezionalità politica.
Sarebbe infatti, secondo tale impostazione, una valutazione squisitamente politica e di opportunità quella posta alla base della scelta di adottare una linea di fermezza, che escluda qualunque possibilità di “trattativa” con gli autori di atti o/e attività criminali — o almeno qualunque trattativa che non sia finalizzata esclusivamente a negoziare le condizioni di una resa e di una consegna all’autorità costituita, in modo che sia salvaguardato l’obbiettivo prioritario della repressione del crimine e, nel caso di un’organizzazione criminale, la disarticolazione di essa — oppure, una linea alternativa di apertura alla trattativa, che contempli la possibilità per i responsabili di condotte criminali di sottrarsi alle proprie responsabilità e di conseguire benefici non consentiti, e quindi in violazione di norme di legge e delle disposizioni che vi diano attuazione (un dilemma che si è posto drammaticamente nella storia del nostro Paese e che ha registrato di fatto risposte diverse, come ammoniscono i casi Moro e Cirillo).
Rientrerebbe, quindi, nella discrezionalità politica del potere esecutivo la valutazione (appunto discrezionale) riguardo alle eventuali concessioni da fare in favore dei poteri mafiosi contrapposti al fine di ottenere da questi la cessazione delle attività criminali.
LA VIA MAESTRA
Secondo la Corte, la via maestra è quella indicata dalla disciplina varata nel 1991 sui collaboratori di giustizia, da cui già si ricaverebbe l’inammissibilità di una “trattativa” da parte di rappresentanti delle Istituzioni statuali, non, eventualmente, con singoli compartecipi di una associazione mafiosa e nei limiti delle “concessioni” che lo Stato può riconoscere in forza di disposizioni di legge dettate con finalità premiali della collaborazione con la Giustizia, bensì con soggetti che si pongano in rappresentanza dell’intera associazione mafiosa e richiedano, nell’interesse di questa, benefici che
esulino dai perimetri normativi; ovvero anche soltanto interventi che alterino il libero formarsi della discrezionalità politico-amministrativa e che, quindi, in definitiva comportino un riconoscimento della stessa organizzazione criminale ed il suo conseguente inevitabile rafforzamento.
Del resto, già in precedenza la linea della fermezza aveva avuto la sua consacrazione a livello legislativo con la rigorosa disciplina in terna di blocco dei beni delle vittime di sequestri a scopo di estorsione, nonostante in tali casi non si ponesse un problema di cedimento dello Stato o di riconoscimento di organizzazioni a questo dichiaratamente contrapposte.
(Nel caso Moro Lo Stato scelse la via dell’assoluta “fermezza”, sintetizzata, come meglio non si potrebbe, nelle parole pronunziate da uno dei più importanti leader politici dell’epoca, la cui elevatissima statura morale è ancor oggi unanimemente riconosciuta: “Io ritengo che la fermezza dello Stato, la sua ripulsa netta ad ogni ricatto e ad ogni cedimento sia anche la via che può consentire di salvare la vita di uno qualunque dei suoi cittadini”).
[…] La conclusione della Corte è quindi nel senso che non si può quindi equiparare o ricondurre una “trattativa” con una organizzazione criminale a una qualsiasi attività di governo rimessa al potere esecutivo e da considerarsi, quindi, sempre lecita anche in presenza di ipotesi di abuso di poteri o di funzioni purché non si concretizzino anche nella formale violazione di norme legislative o regolamentari o del dovere di astensione; e ciò argomentando dai limiti del sindacato del giudice penale in tema di discrezionalità amministrativa, come consacrati nel novellato art. 323 c.p..
Al contrario, una “trattativa” di singoli esponenti delle Istituzioni, quand’anche avallata dal potere esecutivo, non può giammai essere ritenuta “lecita” nell’Ordinamento se, come detto, priva di copertura legislativa; e tale è certamente una “trattativa” che conduca, secondo l’ipotesi accusatoria da verificarsi, ad esempio, ad omettere atti dovuti quali la ricerca e l’arresto di latitanti ovvero anche a concedere benefici, quali l’esclusione del trattamento penitenziario previsto dall’art. 41 bis Ord. Pen., non sulla base delle valutazioni che la legge impone (in primis, l’assenza di collegamenti con le organizzazioni mafiose), ma piuttosto in forza di valutazioni del tutto estranee e non consentite dalla legge medesima, tanto da non potere essere in alcun modo esplicitate nei presupposti motivazionali dei relativi provvedimenti (con ciò realizzandosi, in fatto, una situazione giuridica non dissimile da quella estrema della liberazione di detenuti in cambio del rilascio dell’ostaggio che taluni ipotizzarono — senza seguito proprio per l’impercorribilità ditale soluzione senza violare le regole dell’Ordinamento democratico — in occasione del sequestro dell’on. Aldo Moro).
La concessione di benefici al di fuori delle regole normative, sia che avvenga per iniziativa unilaterale di organi statuali sia che avvenga perché sospinta dall’intervento o da specifiche richieste dell’organizzazione criminale esalta, nei fatti, la forza stessa dell’organizzazione mafiosa, che può permettersi, infatti, di piegare lo Stato sino a far sì che siano violate le leggi che il medesimo Stato si è dato, e, dunque, in conclusione rafforza l’associazione mafiosa nel suo complesso contribuendo al perpetuarsi del suo potere.
Nessuna attività, puntualizza ancora la Corte, che produca un simile effetto, diretto o indiretto, può ritenersi “lecita”, poiché costituisce dovere imprescindibile ed inderogabile dello Stato quello di contrastare e debellare definitivamente il contrapposto potere che le organizzazioni criminali esercitano sul suo territorio.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
La strategia di Totò Riina: «Fare la guerra per poi fare la pace». SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 02 ottobre 2022
Alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del cosidetto . “maxi processo”, avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
La sentenza passa ad esaminare gli “antefatti” della vicenda che costituisce oggetto specifico dell’imputazione [...], a partire dal varo della strategia di contrapposizione frontale allo Stato decisa dai Corleonesi e dal suo primo atto realizzativo, l’omicidio Lima; con i conseguenti effetti intimidatori su quella parte della classe politica che aveva traditi i patti o aveva comunque deluso le aspettative di Cosa Nostra.
La Corte reputa provata con certezza anzitutto che alla fine del 1991 fu varata una vera e propria strategia mafiosa di attacco allo Stato, che dopo alcuni anni di voluta “sommersione” in attesa della conclusione del c.d. “maxi processo” (interrotta soltanto, nell’agosto del 1991, dall’omicidio Scopelliti, commesso, però, in Calabria al fine di evitare l’immediato diretto collegamento con “cosa nostra”), avrebbe visto scatenare, tra il 1992 ed il 1993, una violenta offensiva contro le Istituzioni delle Stato: e, più specificamente, contro rappresentanti di queste che o avevano tradito aspettative e promesse ovvero costituivano le punte di diamante dell’azione di contrasto a Cosa nostra.
E più esattamente, tale strategia fu varata a seguito di incontri e deliberazioni dei vertici dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra sfociati in almeno due riunioni dei suoi più alti consessi deliberativi, alla fine del 1991.
In particolare, si tennero una riunione della “commissione regionale” ed una riunione della “commissione provinciale di Palermo” di “cosa nostra”, entrambe convocate da Salvatore Rima, all’epoca, di fatto, capo assoluto ed incontrastato dell’organizzazione mafiosa.
Entrambe le riunioni, servirono a fare recepire e ratificare a quegli organismi collegiali la sua volontà di reagire. sferrando un violento attacco allo Stato e ponendo in essere punizioni esemplari ai danni di politici e uomini delle istituzioni che non avevano fatto quanto da loro l’organizzazione si attendeva, una volta acquisita la consapevolezza che il maxi processo, nonostante le rassicurazioni ricevute a più livelli, anche istituzionali o politici, da quanti avrebbero dovuto adoperarsi per favorirlo, non avrebbe avuto quell’esito nel quale tanti affiliati avevano riposto le proprie speranze.
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Delle predette riunioni hanno riferito alcuni collaboratori di giustizia di grande spessore e comprovata affidabilità per i tanti riscontri e le sentenze che ne attestano il percorso criminale, prima e poi quello collaborativo. E tra loro, anzitutto due dei soggetti che per il ruolo apicale ricoperto furono testimoni e partecipi delle deliberazioni che accompagnarono il varo di quella strategia.
La sentenza passa quindi in rassegna le dichiarazioni rese sul tema da Antonino Giuffré, a dire del quale a quella riunione della Commissione provinciale del dicembre 1991 tenutasi nella casa di Girolamo Guddo, e nella quale si deliberò (o più esattamente, tutti i capi mandamento riuniti accolsero la decisione comunicata da Riina con assoluto silenzio) di uccidere, da un lato, Lima ed altri politici («...Non vi era solo Lima, ma vi erano i Salvo, che poi Ignazio Salvo è stato ucciso, Mannino, Vizzini, Andò e altri personaggi importanti nell’ambito politico...»)
che avevano tradito le attese di “cosa nostra” e, dall’altro, alcuni magistrati che storicamente venivano considerati nemici di “cosa nostra”, non partecipò Provenzano, pur non essendovi alcun dubbio, per i presenti, che quest’ultimo, come di consueto, avesse già precedentemente condiviso l’iniziativa con Riina; e da Giovanni Brusca. Quest’ultimo ha rimarcato l’insoddisfazione che montava in Salvatore Rima per l’andamento del maxi processo ancor prima della sentenza definitiva della Corte di Cassazione e, conseguentemente, la ripetuta manifestazione della minaccia di uccidere l’on. Lima sul quale il Rima aveva fatto affidamento per “aggiustare” il maxi processo.
La questione (del maxi processo) era stata oggetto di più riunioni della “commissione provinciale” tenutesi a partire dal 1990 e nelle quali via via si prese atto dell’evoluzione della vicenda sino a quell’intervento, attribuito al Dott. Falcone, finalizzato a far sostituire il Presidente Carnevale, sul quale erano riposte le aspettative dei mafiosi, con altro Presidente della Corte di Cassazione con conseguente previsione dell’esito infausto per l’associazione mafiosa che, infine, vi sarebbe stato.
Anche Brusca ha riferito della riunione tenutasi (ma non a casa di Guddo per quello che è il suo ricordo, con il beneficio però del dubbio dato il tempo trascorso) in prossimità delle festività natalizie cui parteciparono quasi tutti i capi “mandamento” tra i quali anche Giuffré e nel corso della quale prese la parola Rima, manifestando, senza alcuna opposizione dei presenti, l’intendimento di uccidere i Dott.ri Falcone e Borsellino quali nemici storici di “cosa nostra” ed alcuni politici che, a suo dire, avevano tradito “cosa nostra”, tra i quali Lima e, forse, Mannino.
Nessuno dei due ebbe sentore, nel corso di quella riunione, dell’intenzione di Riina di accompagnare la commissione dei delitti progettati da rivendicazioni a nome della “Falange Aniiata”, come invece hanno riferito i collaboratori di giustizia che hanno parlato dell’altra riunione quella della Commissione regionale di Cosa Nostra tenutasi ad Enna tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92.
E tra loro, anzitutto, Filippo Malvagna (il cui racconto, a parere della Corte, “è apparso lineare e, anche con riferimento alla scelta collaborativa, caratterizzato dall'assenza di elementi idonei ad inficiare l'“attendibilità intrinseca del dichiarante”), il quale ebbe ad apprendere di questa, tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992, dallo zio Pulvirenti Giuseppe, a sua volta informato da Benedetto Santapaola che vi aveva partecipato in qualità di capo della “provincia” di Catania.
In quella riunione, secondo quanto poi raccontato al Malvagna, Riina avrebbe pronunciato una frase emblematica frase «qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace». E anche in quella riunione di Enna, ancora secondo quanto appreso e, quindi, riferito da Malvagna, Salvatore Riia si era lamentato delle promesse di politici non mantenute ed aveva prospettato che a quel punto occorreva muoversi “tipo libanesi, tipo i colombiani’ e cioè con una strategia di attacco frontale verso lo Stato e con azioni idonee a confondere la matrice mafiosa o terroristica dell’atto criminale. E fu proprio in tale contesto, Riina aveva invitato a rivendicare le azioni che sarebbero state compiute con la sigla Falange Armata, sino ad allora a tutti loro sconosciuta.
(Sul punto la sentenza annota che effettivamente tutti i principali fatti delittuosi che da li in poi sarebbero stati commessi da “cosa nostra” nel biennio 1992-93, ad iniziare dall’omicidio Lima, furono rivendicati con la predetta sigla).
Ma sono passate in rassegna anche le dichiarazioni di Avola Maurizio che ha fatto riferimento, oltre ad una riunione avente ad oggetto la strategia mafiosa tenutasi a Messina cui egli, senza parteciparvi, aveva accompagnato Marcello D’Agata, “consigliere” della “famiglia” catanese (riunione per la quale, comunque, non vi sono riscontri di sorta), anche ad una riunione con Riina tenutasi ad Enna di cui egli fu informato nei primi mesi del 1992 da Enzo Galea.
Non vi sono elementi certi che consentano di identificare la riunione di cui ha parlato Avola con quella della Commissione regionale riferita da Malvagna. Tuttavia, una conferma probante è venuta da un altro collaboratore di giustizia di comprovata attendibilità, Ciro Vara, il quale ha riferito di avere incontrato Piddu Madonia, “capo” della “provincia” mafiosa di Caltanissetta, il 23 dicembre 1991 e che il predetto in quell’occasione gli disse che, contrariamente a quanto di solito faceva nel periodo delle festività natalizie, non poteva allontanarsi dalla Sicilia perché a breve vi sarebbe
stata una riunione della “commissione regionale” di “cosa nostra” in vista della sentenza che da li a poco avrebbe pronunziato la Cassazione sul maxi processo.
Da altri esponenti mafiosi, poi, il Vara ebbe successivamente conferma che quella riunione si era effettivamente tenuta e che, nella stessa, erano state decise le stragi da compiersi da lì a poco.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Capaci, una strage spaventosa per lanciare un segnale “forte e chiaro”. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 03 ottobre 2022
La strage di Capaci non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove Giovanni Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Alla piena convergenza delle predette dichiarazioni si aggiunge l’accertamento consacrato con forza di giudicato dei processi celebrati sulla strage di Capaci le cui sentenze ormai divenute irrevocabili sono state qui acquisite.
In particolare, la stessa riunione della “commissione regionale” tenutasi tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992 per deliberare (rectius, ratificare il volere di Salvatore Riina) riguardo alla nuova strategia di attacco alle Istituzioni, può ritenersi storicamente e processualmente accertata all’esito del processo sulla strage di Capaci, da cui emerge anche la condanna passata in cosa giudicata di Benedetto Santapaola per quel delitto, a riprova del coinvolgimento dell’intera “cosa nostra” siciliana nella deliberazione dalla quale scaturì (anche) la strage di Capaci.
Così come può ritenersi provato che l’originario intento di Salvatore Riina, maturato già prima della pronunzia della sentenza della Corte di Cassazione all’esito del maxi processo (ma strettamente collegato alla previsione ormai certa, dopo la sostituzione del dott. Carnevale, dell’esito infausto che questo avrebbe avuto) e che Iii recepito senza alcuna opposizione all’interno dell’associazione mafiosa “cosa nostra”, fu quello di scatenare la propria vendetta, uccidendo i Giudici Falcone e Borsellino, quali nemici “storici” della mafia responsabili della debacle che si preannunciava con la sopra ricordata sentenza, ed alcuni politici, iniziando da Salvo Lima, che avevano tradito le attese in essi riposte dallo stesso Riina.
E ulteriore e definitivo riscontro la Corte ritiene di poter ricavare dalle parole dello stesso Salvatore Riina, intercettate nel 2013 all’interno del carcere in cui il predetto era detenuto, [...].
Ma la Corte tiene a sottolineare, per la refluenza sull’accertamento dei fatti qui in contestazione che in quella prima fase — e, sino al giugno 1992 — non v’era alcun intendimento da parte di Riina (e, conseguentemente, da parte dei suoi sodali stante il potere assoluto dal primo esercitato e l’assenza di qualsiasi possibile opposizione interna manifestabile in occasione delle riunioni degli organismi collegiali senza incorrere nella punizione con la morte da parte del Riina medesimo) di “trattare” contropartite di sorta ovvero di subordinare l’inizio o anche soltanto la prosecuzione del programma delittuoso già comunicato nelle riunioni di cui sopra si è detto a eventuali cedimenti da parte delle Istituzioni dello Stato.
E tuttavia comincia a farsi strada l’idea che una manifestazione eclatante di potenza e ferocia distruttiva, avrebbe potuto indurre o costringere lo Stato a venire a più miti consigli, ovvero a ripiegare su un atteggiamento di non belligeranza, invece che di risoluto contrasto: come del resto era sempre stato, almeno prima che sulla scena irrompessero irriducibili antagonisti del potere mafioso (ovvero, magistrati quali Chinnici, Costa, Falcone e Borsellino e gli altrettanti validi investigatori che li affiancavano). Atteggiamento al quale, almeno nell’ottica mafiosa, poteva ricondursi l’esito di molti processi conclusasi, a differenza di quanto sarebbe, invece, avvenuto col maxiprocesso, con sentenze o che negavano addirittura l’esistenza della mafia o che, al più, si rifugiavano nella formula dubitativa dell’assoluzione per insufficienza di prove.
UNA DUPLICE FINALITÀ STRATEGICA
Le condanne fioccate all’esito del primo maxi processo evidenziavano quindi un chiaro indebolimento dell’associazione mafiosa — ed, in primis, della leadership di Salvatore Riina — per non essere più riuscita, pur con la pletora di politici o di soggetti che più o meno indirettamente facevano da tramite, ad “aggiustare” quel processo e, conseguentemente, ad ottenere un risultato che in passato e sino ad allora era stato indice della potenza intimidatrice della mafia, ma anche — e forse soprattutto puntualizza ancora la Corte — della capacità di tessere una ragnatela di rapporti tale da avviluppare a sé, in un gioco di interessi e controinteressi ed in nome del quieto vivere, una fetta non indifferente della società civile che più contava (politici, imprenditori, professionisti, magistrati e investigatori).
Salvatore Riina non poteva subire, senza reagire a suo modo, un simile indebolimento, che ne avrebbe inevitabilmente intaccato la leadership: e opta per una reazione preventiva, senza attendere la sentenza definitiva della Corte di Cassazione, che avrebbe potuto scatenare l’insoddisfazione del “popolo” di “cosa nostra” e il risentimento nei confronti del capo incontrastato che si era fatto garante di un risultato favorevole fidandosi di quei politici che sino ad allora lo avevano sempre assecondato per i propri tornaconti elettorali ed economici, quando ancora il suo potere era saldo.
Ma emerge anche l’interesse di Riina a coinvolgere i vertici di “cosa nostra” in quella strategia di attacco frontale allo Stato, che, segnando inevitabilmente un punto di non ritorno, avrebbe costretto coloro che avessero approvato quella strategia a non poter più recedere da quella decisione; e, quindi, in definitiva, avrebbe impedito che altri, che magari già segretamente vi aspiravano, avessero potuto tentare di conquistare la guida di “cosa nostra” in opposizione al “ridimensionato” Salvatore Riina.
Ecco perché già all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione nel maxi processo (30 gennaio 1992), prima che vi fosse il tempo di riflettere sulla debacle di “cosa nostra” e, quindi, di Riina, iniziano le attività preparatorie per l’esecuzione dell’omicidio di Salvo Lima, poi effettivamente realizzato il 12 marzo 1992; seguito a breve distanza di tempo, prima dall’omicidio del M.llo Guazzelli (4 aprile) e, poi, a coronamento di quella prima fase, dalla più eclatante delle stragi per modalità esecutive e valore simbolico, quella di Capaci (23 maggio): che non a caso fu voluta e portata a termine con tecnica libanese e in Sicilia (nonostante la più agevole esecuzione a Roma ove il dott. Falcone aveva di fatto una vigilanza più attenuata), perché occorreva ricorrere ad una terrificante manifestazione di potenza, che incutendo terrore nella popolazione, e dimostrando la capacità di Cosa Nostra di colpire lo Stato nei suoi uomini-simbolo, valesse a rinsaldare e ricostituire la capacità d’intimidazione dell’organizzazione mafiosa e la forza del suo capo. E all’omicidio Lima e all’uccisione del Maresciallo Guazzelli la sentenza dedica una riflessione specifica per la loro refluenza sulla ricostruzione dei prodromi della vicenda che costituisce specifico oggetto del processo.
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Gli indicibili segreti e quelle verità irraggiungibili per la giustizia. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 ottobre 2022
Autentici buchi neri della storia giudiziaria del terribile biennio 1992-93, come il suicidio di Antonino Gioè (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato), trovato cadavere e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sia consentito, in avvio di motivazione, svolgere alcune brevi considerazioni il cui senso potrà più compiutamente intendersi a esposizione completata.
Lo sforzo di dissecare i fatti sotto la spinta imperiosa del procedimento logico di verificazione delle prove d’accusa e della congruità dei ragionamenti posti a base della decisione impugnata ha prodotto, talvolta, un’involontaria parresia: che è sempre esercizio salutare per chi, senza bramarlo, accetti di essere prigioniero della verità, più che possederla.
E le vicende oggetto di questo processo lasciano intravedere una dimensione che va ben oltre i limiti accessibili ad una verità modesta qual è la verità processuale, la cui ricerca si snoda lungo un sentiero stretto, per ciò che concerne il giudizio d’appello in particolare, tra una prova di resistenza dell’apparato argomentativo che supporta le impugnate pronunce di condanna alla confutazione opposta dagli argomenti difensivi a sostegno dei proposti gravami e i limiti anche temporali di approfondimento imposti dal rispetto di regole processuali di utilizzabilità probatoria, o da regole di giudizio o di preclusioni che inevitabilmente imbrigliano il principio generale di ricerca della verità dei fatti, quando non anche quello del libero convincimento del giudice; e su tutti, naturalmente il limite del devolutum.
SOSPETTI MAI PROVATI
Sullo sfondo dei temi trattati in questo processo e di quelli che sono stati oggetto di una defatigante fase di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, si stagliano indagini, alcune già espletate, altre ancora in corso o che meriterebbero di essere riprese, molto più meritorie di quella che questa Corte non ha potuto o non è stata in grado di sviluppare nell’espletamento del compito demandatole.
Ci si riferisce all’indagine che ha portato alla luce la consuetudine inveterata di contatti o di legami tra organizzazioni criminali mafiose e esponenti dei Servizi segreti, che, secondo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia calabresi, raccolte nel processo sulla c.d. “ndrangheta stragista” risalirebbe ai primi anni ‘70 e alla stagione dei lucrosi sequestri a scopo di estorsione. ma si sarebbero estesi anche a trarne eversive, in relazione a rapporti con personaggi al contempo intranei alla ‘ndrangheta e vicini a o membri di organizzazioni gravitanti nell’area dell’eversione neo fascista.
E all’indagine sulla Falange Armata, sigla con cui sono stati rivendicati numerosissimi episodi delittuosi ai danni, di uomini delle istituzioni e di soggetti che operavano in particolare nel settore carcerario, compresi quelli della campagna stragista varata dai corleonesi contro lo Stato e la politica (dall’omicidio Lima al gesto dimostrativo dell’obice di mortaio fatto trovare al Giardino dei Boboli a Firenze; e poi l’attentato di via Fauro a Roma, la strage di via dei Georgofili a Firenze, i successivi attentati di Roma e Milano nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993). E, ancora, alle indagini sui c.d. mandanti occulti delle stragi, sia quelle siciliane del ‘92 che le stragi in continente dell’anno successivo.
E alla vicenda della mancata strage allo Stadio Olimpico di Roma, prevista per il 23 gennaio 1994, che, nei propositi vagheggiati da Giuseppe Graviano, avrebbe dovuto coronare una strategia destabilizzante volta a ridurre lo Stato in ginocchio e cambiare per sempre il volto e le sorti del paese.
E ci riferiamo altresì ad autentici buchi neri della storia giudiziaria del terribile biennio 1992-93, come il suicidio di Antonino Gioè (il primo degli esecutori della strage di Capaci ad essere arrestato in quel “covo” di via Ughetti dove si nascondeva, pur non essendo attinto da ordini di custodia cautelare insieme al suo sodale, Gioacchino La Barbera, arrestato qualche giorno dopo nel nord Italia: e in quello stesso stabile erano ubicati appartamenti in uso ai servizi), trovato cadavere, e appeso per le stringhe delle scarpe da ginnastica a una sbarra della cella romana di Rebibbia dove era detenuto; il duplice omicidio di Vincenzo Milazzo e della fidanzata, Antonella Bonomo che vide mobilitati in prima persona, nella deliberazione e poi nell’esecuzione del duplice delitto, lo stesso Salvatore Riina e alcuni dei capi corleonesi a lui più vicini, e che venne commesso nei giorni in cui fervevano i preparativi per la strage di via D’Amelio; il ruolo di Paolo Bellini (proveniente dalle fila dell’eversione nera, divenuto killer della ‘ndrangheta, sospettato dagli stessi mafiosi cui era in contatto, ma non solo da loro, di trescare con i Servizi e recentemente condannato in primo grado come esecutore della strage di Bologna), quale suggeritore dell’opportunità, per Cosa Nostra, di mutare target nella scelta degli obbiettivi degli attentati da realizzare, e che sarebbero stati lumeggiati già a partire dalla fine estate-autunno del ‘92. Sarebbero tutti temi meritevoli di approfondimento, mentre questa Corte non ha potuto dedicarvi nulla di più che qualche fugace cenno. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Le accuse (cadute) contro i potenti ministri della Prima Repubblica. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 ottobre 2022
E sotto accusa la politica lo è stata in questo processo esplicitamente, e in persona di due suoi autorevoli esponenti, attinti dall’imputazione di avere concorso al reato di minaccia a corpo politico dello Stato: Marcello Dell’Utri e Calogero Mannino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Si staglia invece, sullo sfondo di quasi tutte le vicende che più specificamente ricadono nell’oggetto dell’imputazione per cui qui si procede, il ruolo della politica, come era inevitabile che fosse per il tenore stesso con cui è stato confezionato il capo d’accusa.
E sotto accusa la politica lo è stata in questo processo esplicitamente, e in persona di due suoi autorevoli esponenti, attinti dall’imputazione di avere concorso al reato di minaccia a sorpo politico dello stato.
E precisamente, l’uno (Dell’Utri) come intermediario, che si sarebbe proposto inizialmente (in epoca successiva all’omicidio Lima) ed in luogo di quest’ultimo, come interlocutore dei vertici di Cosa Nostra per mediarne la pretesa di ottenere i benefici pretesi come condizione per la cessazione delle stragi: un’accusa che però è caduta già all’esito del giudizio di primo grado; e poi, rinnovando tale interlocuzione, dopo gli arresti di Vito Ciancimino e di Salvatore Riina, così agevolando il progredire della “trattativa” stato-mafia sopra menzionata, e quindi rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista; e segnatamente, agevolando materialmente la ricezione ditale minaccia presso alcuni destinatari che la stessa ed in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del Governo: accusa che, come si vedrà, sconta un’insuperabile carenza di prova dell’ultimo passaggio (una sorta di “ultimo miglio” del percorso probatorio d’accusa) della sequenza fattuale necessaria per poter validare l’ipotesi accusatoria secondo cui Dell'Utri, dopo avere intrattenuto reiterati contatti con l’emissario di Cosa Nostra, identificato nella persona di Mangano Vittorio, avrebbe veicolato la minaccia di cui questi era latore fino al Presidente del Consiglio e quindi al Governo in carica. Una carenza che non può essere compensata dal rifiuto opposto da Silvio Berlusconi - avvalendosi (su consiglio dei suoi legali) della facoltà di non rispondere che la legge gli riconosceva [...] di sottoporsi all’esame testimoniale che era stato disposto da questa Corte su specifica richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale (tale richiesta era stata avanzata dalla difesa dell’imputato Dell'Utri, rivendicando il proprio diritto a fare esaminare un teste a discarico la cui versione dei fatti, alla luce della pronuncia di condanna e del percorso logico probatorio su cui la Corte di primo grado aveva ritenuto di fondare quella pronuncia, aveva assunto una rilevanza potenzialmente decisiva dal punto di vista della difesa, per smentire la prospettazione accusatoria).
Il rifiuto predetto, come si vedrà, è processualmente un dato neutro per la molteplicità delle ragioni che possono stare alla base di quella scelta. E quindi non se ne possono trarre implicazioni significative a supporto dell’accusa (argomentando a contrariis dal fatto che Berlusconi abbia deluso l’aspettativa difensiva di una secca smentita dell’avere egli, nella qualità di presidente del Consiglio e quindi capo del Governo in carica, ricevuto minacce di qualsiasi genere attraverso interlocuzioni con il Dell’Utri). In particolare, che il teste assistito (ma sentito [...] essendosi accertato che era iscritto nel registro degli indagati per reati connessi-collegati a quello per cui qui si procede, e segnatamente le stragi del 93/94) si sia rifiutato di rispondere per non incorrere in un’incriminazione per falsa testimonianza, se avesse smentito di avere ricevuto la minaccia assenta dall’accusa, è solo una, e neppure la più probabile, delle letture possibili di quel silenzio, considerato il prevedibile sviluppo del tracciato di prova, soprattutto nel contro-esame del p.g.
LE ACCUSE CONTRO MANNINO
L’altro esponente politico di rilievo a sedere sul banco degli imputati, Calogero Mannino, era accusato di essere stato addirittura l’autore della condotta che avrebbe innescato la trattativa con i vertici dell’organizzazione mafiosa, istigando per cosi dire gli istigatori (Mori, De Donno e Subranni) ad aprire un canale di comunicazione con i predetti vertici, condotta finalizzata a sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra per fare cessare la programmata strategia omicidiaria
stragista, già avviata con l'omicidio dell'on. Salvato Lima, e che aveva inizialmente previsto l'eliminazione, tra gli altri, di vari esponenti politici e di Governo, fra cui egli stesso Mannino; ed accusato poi di avere esercitato indebite pressioni per fare ottenere ai detenuti mafiosi provvedimenti favorevoli in ordine all’applicazione del 41 bis (che era una delle principali richieste avanzate da Cosa nostra nel quadro di un’azione più complessiva di ricatto allo Stato).
La posizione del Mannino è stata stralciata, e il separato procedimento a suo carico è stato definito con sentenza del 4.11.2015 del gup presso il Tribunale di Palermo che lo ha assolto con la formula «per non aver commesso il fatto come ascrittogli»; assoluzione che è stata confermata in appello (con sentenza n. 3920/2019 deI 22.07.2019) ed è passata in cosa giudicata avendo la Corte di Cassazione, come si vedrà, dichiarato inammissibile il ricorso proposto al p.g. (v. sentenza n. 1156 dell’11.12.2010).
Ma ampio spazio è stato dedicato nella motivazione della decisione impugnata alla prima delle due condotte contestate, per il ruolo decisivo che essa avrebbe avuto nello sviluppo della vicenda, pur ritenendo il giudice di prime cure di dover derubricare quella condotta a mero antecedente causale del successivo iter realizzativo del reato per cui si procede.
Il tentativo del P.G in questa sede di rilanciare l’ipotesi accusatoria che attribuiva al Mannino un ruolo propulsivo dell’intera vicenda non ha trovato conforto adeguato, ad avviso di questa Corte, nelle risultanze acquisite.
Detto questo, gli esiti dell’accusa nei riguardi di influenti esponenti del mondo della politica e dell’imprenditoria votatasi anche alla politica sono forse meno troncanti di quanto non dica il responso processuale finale nei riguardi dei due imputati menzionati. E sono tutto sommati coerenti alla storia dei tormentati rapporti tra mafia e politica, addicendosi loro la tonalità del grigio.
MANCINO, SOSPETTATO DI ESSERE IL TERMINALE DELLA TRATTATIVA
E un terzo non meno autorevole uomo politico, il Senatore Nicola Mancino, Ministro dell’Interno all’epoca dei fatti di causa, è stato attinto dal sospetto di essere stato il terminale della trattativa avviata da Mori e De Donno con Vito Ciancimino e autorizzata da Riina. Un sospetto ingenerato dalle propalazioni improbabili di Massimo Ciancimino che si riportava ad assente elucubrazioni del
padre e a indicazioni desunte dai sui scritti, nonché a tardive propalazioni di Giovanni Brusca, che per la prima volta nel 2001- quando già era edotto delle testimonianze rese da Mori e De Donno al processo di Firenze — fece il nome di Mancino come terminale della trattativa, asserendo che come tale gli fosse stato indicato da Salvatore Riina la seconda volta che ebbe a parlargli della vicenda del c.d. “papello”.
Un sospetto che è sfociato “solo” nell’imputazione elevata nei riguardi del Senatore Mancino per il reato di falsa testimonianza (per avere negato, deponendo al processo a carico di Mori e Obinu, di avere mai saputo dei contatti intrapresi dai Carabinieri del R.O.S. con Vito Ciancimino; e delle lagnanze espresse al riguardo dal Ministro Martelli; e ancora per avere negato di avere saputo nulla delle recondite motivazioni che avrebbero portato alla sua designazione per la carica di Ministro dell’interno del Governo Amato in luogo del Ministro uscente, Vincenzo Scotti), da cui è stato assolto con ampia formula.
Ma il ruolo e i volti della politica evocati in questo processo erano anche altri, come poteva evincersi già da ammiccamenti del costrutto accusatorio (come quelli che dietro l’accusa di avere concorso al reato, rivolta a uomini delle istituzioni come il Capo della Polizia Vincenzo Parisi e al vice direttore generale del Dap, Francesco Di Maggio, entrambi deceduti, in relazione a vicende come l’avvicendamento dei vertici del Dap, con la cacciata del Direttore Nicolò Amato e la sostituzione anche del suo vice con il predetto Di Maggio), inevitabilmente chiamavano in causa le più alte cariche dello stato, nel tessere l’ordito probatorio che avrebbe dovuto sostenere l’accusa: che poi era, in definitiva, quella di avere assecondato scelte che, per quanto valutazione e scelte di opportunità politica, e tanto meno fame materia di imputazione per specifiche fattispecie di reato, come quella per cui qui si procede.
Avere ipotizzato anche nei confronti di eminenti personalità istituzionali, come il Ministro Conso o il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, un concorso “oggettivo” alla realizzazione del reato, o un cedimento alla minaccia mafiosa, con il risultato di dover compiere poi acrobazie dialettiche per affrancarli da un giudizio postumo di responsabilità penale (facendosi leva sulla genuinità delle intenzioni o sull’avere ignorato i retroscena più inquietanti) è, a parere di questa Corte, oltre che ingeneroso e fuorviante, frutto di un errore di sintassi giuridica. SENTENZA CORTE D'APPELLO
L’“improvvida iniziativa” dei carabinieri mai autorizzata dall’alto. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 ottobre 2022
I Carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa Nostra. L’improvvida iniziativa dei carabinieri fece sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse il proposito non più di una generica intimidazione ma di un vero e proprio ricatto allo stato
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La trattativa, qualsiasi trattativa che non si discosti dall’accezione comune con cui è intesa tale locuzione, postula un'interlocuzione tra due o più parti finalizzata a giungere ad un accordo che si sostanzi in reciproche rinunce e concessioni.
Essa prefigura quindi uno scenario incompatibile con il reato di minaccia qualificato che riproduce lo schema del reato di ricatto previsto dal Codice Zanardelli non essendo necessario che il soggetto agente consegua il risultato cui è preordinata la minaccia.
È infatti un atto unilaterale di coartazione della volontà altrui, perpetrato nei confronti di uno o più soggetti predeterminati e volto non già a realizzare un assetto di reciproco contemperamento degli opposti interessi, bensì ad imporre la propria volontà alla controparte, coartandone la volontà per evitare di subire un danno ingiusto che si prospetta alla vittima, ove non dovesse cedere alle pretese dell’autore della minaccia.
Se dunque fosse vero che il governo o un’autorità rappresentativa dello stato è stata parte di una trattativa, in ipotesi con i vertici dell’organizzazione mafiosa, ovvero di una negoziazione basata su uno scambio di reciproche concessioni e rinunce, allora esso non potrebbe al contempo considerarsi vittima del reato di minaccia a corpo politico dello stato poiché nell’ambito di un accordo “negoziale”, lo stesso governo non potrebbe considerarsi come coartato nelle sue scelte e nella volontà di addivenire a un accordo. E quindi se vi fu trattativa, non ci sarebbe alcun reato.
Se invece fosse vero che non v’è stata alcuna negoziazione, ma solo un’imposizione unilaterale di richieste accompagnate dalla prospettazione di ritorsioni violente nel caso di mancato accoglimento, occorrerebbe dimostrare che i carabinieri, che si erano in ipotesi attivati per favorire l’apertura di un dialogo al fine di giungere ad un intesa — cioè una vera e propria trattativa tra lo Stato e la mafia — si siano prestati a veicolare al governo non più una proposta, o l’accettazione della proposta di avviare un negoziato, ma la minaccia tout court di ulteriori stragi se non fossero state accolte le richieste di Cosa nostra.
Nella prospettazione comune agli atti d’appello delle difese dei tre ex ufficiali del Ros queste preliminari considerazioni metterebbero già in evidenza vizi genetici e insuperabili del costrutto accusatorio.
LA MANCATA PROVA DEL RUOLO DI MANNINO
Si vedrà però come la mancata prova del ruolo propulsivo di Calogero Mannino, unita alla certezza che i carabinieri non ebbero alcuna autorizzazione da parte di esponenti di governo ad esplorare la possibilità di un negoziato con Cosa nostra, imponga si un ripensamento dell’originaria prospettazione accusatoria, ma senza per questo pregiudicare la validazione sul piano probatorio dell’assunto secondo cui il reato è configurabile e si è perfezionato.
Resta infatti accertato, sul piano oggettivo, l’apporto che l’improvvida iniziativa dei carabinieri, attraverso la sollecitazione a trovare un intesa, trasmessa da Vito Ciancimino - per il tramite di Cinà - ai vertici mafiosi e la conseguente aperture, agli occhi dei medesimi vertici, di un canale di comunicazione con un’autorità di governo sovraordinata a quelli che essi ritenevano suoi emissari ebbe nel far sì che prendesse corpo e poi si rafforzasse, con il progredire dell’interlocuzione tra gli ufficiali del Ros e il Ciancimino, il proposito non più di una generica intimidazione, qual era quella che poteva rinvenirsi nei primi eclatanti delitti che scandirono lo sviluppo della strategia di contrapposizione frontale allo stato iniziata con l’omicidio Lima, ma di un vero e proprio ricatto allo stato.
Un rafforzamento che ulteriore alimento avrebbe tratto persino dal “congelamento” della trattativa (e più esattamente della prima fase della trattativa che certamente vi fu tra Ciancimino e gli ufficiali del Ros), creando le premesse per il protrarsi e il rinnovarsi della condotta di minaccia, sino alla sua effettiva consumazione (almeno in danno in particolare del governo Ciampi).
LA MINACCIA “CONSUMATA”
Su quest’ultimo punto, per le ragioni che saranno esposte in prosieguo, questa Corte condivide la conclusione cui è pervenuto il giudice di prime cure secondo cui il reato può dirsi consumato in ragione della ricezione della minaccia da parte dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso.
E la prova ditale ricezione non si ricava solo e tanto dalla decisione di non prorogare i decreti applicativi del 41 bis che andavano a scadere nel mese di novembre del ‘93, un certo numero dei quali interessavano affiliati a Cosa nostra e ad altre organizzazioni criminali di stampo mafioso (una decisione che andava incontro alle pretese estorsive di Cosa nostra, ma che di per sé non sarebbe stata necessaria ai fini del perfezionamento del reato che, essendo configurato come reato di pericolo, non richiede il conseguimento del risultato cui è preordinata la minaccia); ma si evince anche e soprattutto dalle ragioni poste a fondamento di quella decisione: il cui significato effettivo, però, non può intendersi senza considerare che ad essa fece seguito, due mesi dopo, una decisione esattamente speculare del ministro, nel senso di rinnovare in blocco i decreti applicativi del 4 bis che concernevano gli esponenti presumibilmente più pericolosi e di maggiore spicco delle medesime organizzazioni criminali.
Sono le ragioni giustificative di quella scelta a postulare che una fonte avveduta e bene informata delle dinamiche criminali in atto all’interno dell’organizzazione mafiosa più temibile e artefice degli ultimi attentati che avevano insanguinato le strade delle principali città italiane, avesse rappresentato l’opportunità di un gesto di distensione che valesse a far decantare la tensione, nonostante il rischio che venisse interpretato come un segno di debolezza dello Stato e un cedimento al ricatto sotteso alle bombe di Firenze, di Milano e di Roma.
Le difese ravvisano una contraddizione nel ragionamento della Corte di primo grado che, da un lato, afferma di non avere motivo di dubitare della sincerità del Ministro Conso quando ha sostenuto dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia, presieduta dal Sentore Pisanu, di non avere mai saputo nulla di trattative con Cosa nostra; dall’altro, afferma che la mancata proroga dei decreti di novembre tradisce una precisa volontà del ministro di compiere un gesto di distensione che favorisse il raggiungimento di un’intesa per la cessazione delle stragi, che era precisamente la finalità della presunta trattativa.
In realtà, per le ragioni già sommariamente anticipate, ma che saranno meglio illustrate in prosieguo, non era affatto necessario che il ministro venisse edotto che vi fossero state già delle interlocuzioni tra esponenti istituzionali ed esponenti mafiosi per giungere ad un accordo fatto di reciproche concessioni e rinunce.
Ma era sufficiente, per poter affermare che gli fu veicolata la minaccia qualificata per cui qui si procede, che un intermediario previamente edotto delle principali rivendicazioni di Cosa nostra — intermediario che le risultanze probatorie conducono a identificare nella persona del Vice direttore generale de dap Francesco Di Maggio, e che a sua volta poteva anche essere ignaro di pregresse interlocuzioni sul tema — gli avesse illustrato la sussistenza di uno specifico collegamento tra gli ultimi attentati e la pretesa dell’organizzazione mafiosa di ottenere un allentamento della stretta carceraria.
MORI E IL CAPO DEL DAP DI MAGGIO
Le risultanze acquisite rendono poi più che probabile, e suffragata da un alto grado di credibilità razionale, l’ipotesi che sia stato proprio Mario Mori – che nel curare personalmente i contatti e i rapporti con il Dap si relazionava con il dott. Di Maggio, e con lo stesso ebbe un incontro il 22 ottobre 1993, pochi giorni prima che venisse a scadere la prima tranche dei decreti non prorogati – a rendere edotto il Di Maggio non solo di quel collegamento, ma della necessità/opportunità di operare determinate scelte in relazione a quel collegamento (scelte che però come già anticipato sono molto più complesse e diverse dal mero intento di lanciare un segnale di distensione che mostrasse la disponibilità del governo ad accogliere almeno alcune delle richieste di Cosa nostra).
È vero che la sentenza di primo grado non specifica il modo in cui Mori avrebbe trasmesso la minaccia, affidandosi alla presunzione che ciò sia avvenuto attraverso rapporti instaurati dallo stesso Mori con il dott. Di Maggio — o più esattamente, ripresi dopo che quest’ultimo era stato nominato vice direttore del Dap, con il contributo, secondo il giudice di prime cure, anche di Mori - e i contatti che ebbero sulle problematiche dei detenuti mafiosi (e quindi sul 41 bis).
Non si può quindi del tutto escludere che le richieste estorsive di Cosa nostra abbiano raggiunto il governo in carica, naturale destinatario della minaccia ex an. 338 c.p., nella persona del ministro competente per materia, per una via diversa e autonoma rispetto all’interlocuzione iniziale, incentrata sull’intermediazione di Ciancimino e di Cinà.
E cioè con l’intervento di un fantomatico suggeritore del Di Maggio, diverso da Mori; o direttamente, attraverso il messaggio intimidatorio contenuto negli attentati di Milano e di Roma del 27-28 luglio che si saldavano alla strage di via dei Georgofili in un disegno unitario, condensato nell’espressione coniata da Luciano Violante di “bombe del dialogo”: che, nelle intenzioni dei vertici mafiosi, volevano essere una rinnovazione della minaccia che essi ritenevano essere già pervenuta al governo attraverso il canale di comunicazione aperto con la mediazione di Vito Ciancimino (mentre così non fu).
Un messaggio che però sarà decodificato, non senza contrasti e dissensi almeno inizialmente, dai migliori analisti degli apparati investigativi e di intelligence dell’epoca già a partire da agosto del ‘93, ma che non risulta abbia mai dato luogo a prese di posizioni specifiche e ufficiali del governo, da cui possa desumersi che se ne fosse discusso e che il governo nella sua totalità fosse edotto della minaccia. Sicché la prima prova certa che ciò sia avvenuta risale proprio alle decisioni adottate al ministro Conso.
Ma anche se, come diversi indicatori fattuali convergono a far ritenere, fosse provato invece che fu Mori a informare Di Maggio e convincerlo dell’opportunità di lanciare certi segnali e quindi di adoperarsi a sua volta nei riguardi del ministro Conso per orientarne le scelte (a partire da quella di non prorogare i decreti che scadevano a novembre), coltivando sempre il disegno che aveva intrapreso già nell’estate del ‘92 (e che però, come si vedrà, non fu affatto quello che il primo giudice gli attribuisce), sarebbe comunque provato che la minaccia si consumò in tempi, e con modalità e attraverso vie che non erano quella originariamente divisata dai vertici mafiosi.
Si obbietta quindi che sarebbe intervenuta una serie causale autonoma, idonea a produrre l’evento finale (ovvero l’intimidazione nei riguardi della vittima resa edotta della minaccia) in modo indipendente dall’asserito apporto causale dei carabinieri, che si fa risalire alla sollecitazione al dialogo rivolta a Riina attraverso la mediazione di Ciancimino.
Ma è agevole replicare che ciò farebbe venire meno, a tutto concedere, il nesso causale tra la realizzazione del reato e l’apporto materiale sostanziatosi nell’apertura di un canale di comunicazione attraverso cui veicolare la minaccia (nel senso che non è attraverso quel canale che la minaccia avrebbe raggiunto il suo destinatario). Ma lascerebbe comunque intatto — restando però impregiudicata la questione della sussistenza del dolo di concorso nella minaccia, che schiude un altro capitolo di riflessione e di verifica probatoria – l’apporto di tipo squisitamente istigatorio, ripetutamente evidenziato dal giudice di prime cure.
Per gli autori in senso stretto della minaccia si profilerebbe una sorta di aberratio causae, perché l’evento voluto, e cioè che la minaccia con il correlato effetto intimidatorio pervenisse al governo, si realizzò, ma non nel modo in cui essi lo avevano prefigurato e che ritenevano (errando) si fosse già realizzato, bensì con delle condotte successive che si tradussero, da parte dei mafiosi, in ulteriori atti di violenza stragista mirati, nelle intenzioni dei (nuovi) vertici di Cosa nostra, a rinnovare la minaccia che essi credevano essersi già perfezionatasi, per indurre le autorità di governo a scendere a patti con l’organizzazione mafiosa, riprendendo il filo del dialogo che si era interrotto nell’autunno del’92, quando a Salvatore Riina fu comunicato che la trattativa doveva intendersi sospesa perché le sue richieste erano state ritenute eccessive.
Ma la nuova serie causale, contrariamente all’assunto delle difese, non costituirebbe una causa sopravvenuta e idonea a spezzare il nesso causale con la pregressa condotta dei carabinieri, perché si legherebbe sul piano logico fattuale a quella condotta che aveva suscitato il convincimento che lo stato fosse disponibile a trattare — dopo le prove di terrificante potenza distruttiva che Cosa nostra aveva dato con le stragi di Capaci e di via D’Amelio — e che quella strategia, a suon di bombe e attentati eclatanti, fosse la via più efficace per costringere lo stato a venire a patti o a cedere alle richieste estorsive dei mafiosi.
E come insegna una costante e pacifica giurisprudenza di legittimità, «Sono cause sopravvenute o preesistenti, da sole sufficienti a determinare l’evento, quelle del tutto indipendenti dalla condotta dell’imputato. Ne consegue che non possono essere considerate tali quelle che abbiano causato l’evento in sinergia con la condotta dell’imputato, atteso che venendo a mancare una delle due, l’evento non si sarebbe verificato». [...]. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Un’attività di “intelligence” per disinnescare la miccia delle stragi. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 ottobre 2022
L’insieme delle risultanze acquisite conduce a ipotizzare che quella ideata ed orchestrata da Mori, con l’iniziale avallo di Subranni e l’apporto di De Donno, non fu una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un’operazione molto più complessa e ambiziosa, più di intelligence che non di polizia, con l’obbiettivo di disinnescare la minaccia stragista
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
[...] Il vero problema è che una trattativa può essere, e lo è stato nel caso di specie, una sorta di telaio nel quale si tessono e si ricamano le trame più disparate, originate da soggetti che a vario titolo vi intervengono, perseguendo ciascuno i propri interessi e un proprio disegno.
Con la conseguenza che, nel dare corso al proprio intervento, ciascuno degli attori in campo disegna traiettorie che a volte convergono con quelle degli altri, a volte si intersecano solo per alcuni tratti; altre volte, invece, si sviluppano asintoticamente le une alle altre.
Allora, il punto che rileva ai fini del presente giudizio - e della verità processuale cui si può approdare con tutti limiti sopra richiamati cui può aggiungersi quello di un accertamento giudiziale che si addentra in vicende di rilievo storico e che rimandano anche a dinamiche e strategie di natura politica - sta nel verificare se, nella trattativa che si è accertato essere avvenuta, anzitutto, tra il Rosdiretto da Mario Mori e Vito Ciancimino, ovvero tra le sue pieghe e in alcune fasi del suo svolgimento, e poi nei successivi sviluppi cui essa diede luogo, non si annidino condotte penalmente rilevanti.
È chiaro che se si ritenesse che il fatto che Ufficiali di polizia giudiziaria ed alti ufficiali dell’Arma dei carabinieri o esponenti di istituzioni dello Stato abbiano avuto contatti con esponenti mafiosi per trovare un accordo al fine di porre fine alla violenza stragista, sia per ciò stesso un atto di “intelligenza con il nemico” o di induzione a un cedimento dello Stato a intollerabili pretese di natura estorsiva, sarebbe difficile negare l’intrinseca illiceità penale di una trattativa così concepita.
In realtà, la trattativa è un contenitore nel quale possono innestarsi le condotte più disparate; e per stabilire se ve ne siano di penalmente rilevanti, occorre accertare chi tratti e con clii; e con quali finalità, e quale ne sia l’oggetto; e le circostanze e le modalità che ne connotano genesi e svolgimento.
Contattare dei mafiosi per averne un aiuto ad attuare un disegno preordinato può assumere connotati completamente diversi, a seconda delle finalità che si perseguono ma anche dei costi che si è disposti a sopportare e dei mezzi impiegati per realizzarlo.
Non si può pensare che a soggetti vicini od organici alle consorterie mafiose possa venire una collaborazione spontanea e disinteressata; e quindi sollecitare un accordo, quando non tradisca una sostanziale collusione da parte di infedeli servitori dello stato - ma non è questo il caso di specie - implica pur sempre la disponibilità a offrire qualcosa in cambio. E in questo senso è vero che non vi può essere trattativa senza uno scambio di favori o di vantaggi reciproci.
Ed è altrettanto vero che se lo scambio consiste nella rinunzia anche parziale all’esercizio dei poteri repressivi dello Stato a vantaggio di un’organizzazione criminale che in cambio desista dal proposito di continuare a commettere delitti, stragi, attentati, seminando morte e terrore nella collettività, allora sembra difficile sfuggire alla conclusione che uno scambio in questi termini altro non sia che propiziare, da parte degli esponenti istituzionali in ipotesi fautori dell’accordo, un vero e proprio cedimento dello Stato a pretese estorsive di inaudita violenza e tracotanza, e comunque un adoperarsi per influenzare le scelte del governo in senso conforme alle aspettative e pretese dei mafiosi.
LE FINALITÀ DELLA “TRATTATIVA”
In realtà, anche in questi termini, più consentanei alla prospettazione accusatoria per ciò che concerne la ritenuta rilevanza penale, e in chiave concorsuale, della condotta dei carabinieri, non è irrilevante stabilire se le finalità ultime siano state quelle di arrestare l’escalation di violenza mafiosa, foriera di ulteriori spargimenti di sangue dopo le due terribili stragi che avevano funestato l’estate del ‘92, o, principalmente, di salvare la vita a singoli esponenti politici, condannati a morte dal “tribunale” di Cosa nostra o probabile bersaglio della sua furia ritorsiva, e con i quali intercorrevano relazioni di interesse e non solo conoscenze e contatti occasionati dai rispettivi impegni istituzionali.
E soprattutto, ma su questo già la sentenza di primo grado ha posto un punto fermo, deve essere chiaro che compete(va) alla politica, o meglio alle istituzioni di governo della Repubblica, di stabilire se accettare o no di venire a patti anche con le più scellerate organizzazioni criminali, se ciò potesse servire a salvare vite umane e arrestare un’ondata di violenza destabilizzante per l’intero Paese e per la tenuta delle stesse Istituzioni (purché, chiosa il giudice di prime cure, tutto avvenga entro il perimetro della legalità e del rispetto delle leggi e delle norme vigenti).
La scelta, per contro, della linea della fermezza è un’opzione che può pure ritenersi condivisibile o auspicabile o doverosa anche in situazioni estreme, ma resta un atto di discrezionalità politica come lo sarebbe l’opzione contraria, favorevole a trovare un accordo (con la controparte mafiosa).
E una scelta tra le due opposte opzioni è un atto insindacabile, comunque sottratto a qualsiasi sindacato giudiziale, se posto in essere nell’esercizio di quella discrezionalità e con la conseguente assunzione di responsabilità politica.
Non compete però ad altri, e tanto meno a organi di polizia giudiziaria, sia pure per le medesime e commendevoli finalità, adoperarsi per condizionare, orientare, influenzare con proprie iniziative scelte che sono di esclusiva competenza della politica e delle autorità di Governo.
Sotto questo profilo, un’iniziativa tutta protesa a favorire l’opzione di trattare per venire a patti con i vertici mafiosi per giungere ad uno scambio fatto di reciproche concessioni e rinunce (ove fosse provato che le cose andarono così), sarebbe invece sindacabile e censurabile perché posto in essere in assoluto contrasto con e in spregio ai propri doveri istituzionali che impongono, ad un ufficiale dell’Arma e tanto più se organo di polizia giudiziaria, in primo luogo di combattere senza tregua e senza ambiguità un’organizzazione criminale che minacciava la sicurezza dell’intera collettività nazionale e pretendeva di intimidire e mettere sotto ricatto lo Stato; e, in secondo luogo, di rimettersi alle determinazioni dell’Autorità politica senza proporsi di orientarne e influenzarne in alcun modo le scelte (ragioni per le quali, come si vedrà, se una simile prospettazione fosse provata di punto di fatto, e ne fosse certa altresì la rilevanza penale ex art. 338 c.p., non potrebbe riconoscersi a beneficio dei tre ex ufficiali del Ros la sussistenza della scriminante o dell’esimente dell’avere agito in stato di necessità).
Ma proprio per gli eventuali profili di rilevanza penale, non è così scontato che sia del tutto indifferente che i carabinieri abbiano agito perché collusi con la mafia - ciò che la sentenza esclude categoricamente e mai l’accusa l’ha sostenuto – o su sollecitazione esterna per tutelare l’incolumità di singoli esponenti politici – ciò che la sentenza impugnata assume come verosimilmente accaduto, senza però farne un presupposto indispensabile per poter giungere all’affermazione della penale responsabilità dei tre ex ufficiali del Ros – o che invece abbiano agito avendo di mira esclusivamente l’obbiettivo di fermare le stragi.
OBIETTIVO: FERMARE LE STRAGI
In altri termini, pur dovendosi escludersi la possibilità di ravvisare l’esimente dello stato di necessità, resta comunque opinabile che sia declinabile nei riguardi dei medesimi ufficiali il dolo di minaccia se la loro iniziativa, che nella prospettazione accusatoria fatta propria dal giudice di prime cure avrebbe prodotto l’effetto acclarato di rafforzare nei vertici mafiosi il proposito di perpetuare un vero e proprio ricatto allo Stato, fu intrapresa esclusivamente al fine di arrestare la spirale della violenza mafiosa e quindi prevenire nuove stragi e nuovi spargimenti di sangue.
Mancherebbe, invero, in radice, e si anticipa qui una delle conclusioni cui questa Corte è pervenuta, il dolo di minaccia, e più esattamente il dolo di concorso nella minaccia a Corpo politico dello stato, perché i carabinieri non vollero (rafforzare) la minaccia mafiosa allo Stato, come mezzo per strappare al governo concessioni favorevoli agli interessi mafiosi, ma, a tutto concedere, avrebbero voluto semmai tali concessioni come male e come mezzo necessario per sventare una minaccia in atto. E quindi mancherebbe una convergenza e comunione di intenti tra concorrenti e autori del reato di minaccia.
Sarà poi esaminata (e respinta) l’obiezione che dal punto di vista accusatorio si può muovere a tale conclusione sotto il profilo che i carabinieri, pur volendo propiziare concessioni a Cosa nostra al solo fine di evitare ulteriori spargimenti di sangue, nella convinzione che quelle concessioni fossero necessarie o utili per indurre Cosa nostra a desistere dalla strategia stragista, essi avrebbero comunque voluto l’effetto di convertire una minaccia cieca e indiscriminata in minaccia qualificata e mirata all’accoglimento di specifiche richieste, e l’avrebbero poi corroborata con il loro comportamento successivo, in quanto mezzo necessario per strappare concessioni che altrimenti il governo, senza la pressione di una minaccia cogente, seria e temibile, non avrebbe accettato di fare.
Ma si vedrà come l’intera problematica della sussistenza del dolo di minaccia deve essere ripensata a partire dalla messa a fuoco dei contorni e dei connotati salienti dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti instaurati con Vito Ciancimino in quell’infuocata estate del ‘92; poiché per sceverarne le reali finalità, occorre attenersi allo svolgimento dei fatti come accertati e nei limiti in cui è stato possibile accettarli.
E si dovrà allora constatare che una valutazione d’insieme delle risultanze acquisite conduce ad asseverare con altro grado di credibilità razionale l’ipotesi che quella ideata ed orchestrata da Mori, con l’iniziale avallo di Subranni, e l’apporto fattivo di De Donno, non fu una mera iniziativa di polizia giudiziaria, ancorché spregiudicata, ma un’operazione molto più complessa e ambiziosa, come comprovato dai contatti intrapresi da Mori e De Donno con esponenti di vertice delle Istituzioni in una fase ancora embrionale ditale iniziativa per assicurarsi la “copertura” politica che avrebbe potuto rendersi necessaria in base ai suoi sviluppi.
E comunque fu un’operazione più di intelligence che non di polizia, e con l’obbiettivo in effetti di disinnescare la minaccia stragista incuneandosi con proposte e iniziative fortemente divisive all’interno di spaccature già esistenti in Cosa Nostra e persino all’interno dello schieramento egemone (quello dei corleonesi).
Ma detto questo, neppure si può accedere alla ricostruzione fattuale sposata dal giudice di prime cure secondo cui i Carabinieri agirono su input di esponenti politici e comunque con l’intento di favorire un dialogo con gli stessi vertici mafiosi che erano responsabili e fautori dello stragismo per giungere con quegli stessi vertici ad un accordo di pacificazione. SENTENZA CORTE D'APPELLO
Accuse mai provate, Calogero Mannino e quelle “sollecitazioni” al Ros. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'08 ottobre 2022
Secondo l’accusa, l’antefatto della cosiddetta “trattativa” risiederebbe nel timore, più che fondato, nutrito da Calogero Mannino a cavallo dell’omicidio Lima di essere ucciso da Cosa Nostra. Un timore lievitato nelle settimane e nei mesi successivi in corrispondenza di un crescendo di minacce nei suoi confronti
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il pg ha dedicato una congrua parte della sua requisitoria finale, corredandola anche di una cospicua memoria, allo sforzo di rilanciare la tesi della colpevolezza di Calogero Mannino in ordine al medesimo reato per cui qui si procede nei riguardi dei suoi presunti correi; o meglio, la tesi di un pieno, attivo e consapevole coinvolgimento del Mannino nella vicenda che ci occupa anche in questa sede, per avere posto in essere entrambe le condotte che gli venivano contestate, [...].
E non lo ha fatto perché insegue un’impossibile e inutile rivalsa rispetto all’esito del separato procedimento definito nei riguardi dello stesso Mannino - che aveva optato per il rito abbreviato - con sentenza emessa dalla I Sezione di questa Corte d’Appello in data 22.07.2019, che ha confermato la sentenza di assoluzione del gup del Tribunale di Palermo ed è divenuta irrevocabile, avendo la Suprema Corte di Cassazione dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal pg avverso la decisione della Corte territoriale (tutte le sentenze del processo stralcio sono state acquisite agli atti del presente giudizio d’appello).
La ragione dell’apparente accanimento processuale risiede piuttosto nella consapevolezza, da parte dell’Ufficio requirente, che il ruolo di Calogero Mannino nella vicenda della c.d. trattativa stato-mafia è un pilastro irrinunciabile dell’intero impianto accusatorio, anche per gli ex ufficiali del Ros suoi originari coimputati e qui giudicati, e non soltanto per loro. E la soluzione “minimalistica” adottata dal giudice di prime cure — quando era ancora pendente il separato giudizio d’appello nei riguardi del Mannino — non è del tutto rassicurante e appagante, per la pubblica accusa.
La Corte d’Assise di primo grado ha preso in considerazione, delle due condotte che si contestavano al Mannino, soltanto la prima, ritenendo di non doversi occupare della seconda condotta perché quest’ultima riguardava specificamente ed esclusivamente la posizione del Mannino, stralciata dal presente procedimento, senza alcuna apprezzabile refluenza sulla posizione dei suoi originari coimputati.
LE ACCUSE A MANNINO
Quanto alla prima condotta, consistita nell’avere creato le premesse causali e motivazionali dell’iniziativa sviluppata dai carabinieri del R.O.S. attraverso i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, che diede il via ad un’infausta trattativa con i vertici corleonesi di Cosa Nostra, essa non avrebbe in sé alcuna rilevanza penale, degradando a mero antecedente causale delle successive condotte poste in essere dagli imputati, che avrebbero concorso al reato nella veste di intermediari istituzionali. Per inciso, la separazione chirurgica effettuata dal primo giudice tra le due condotte che si contestavano al Mannino lascia intravedere già una crepa nell’apparto argomentativo della sentenza. Non si comprende infatti come sia possibile che, dopo avere concertato l’avvio di una complessa operazione mirata ad avviare un negoziato con i vertici di Cosa nostra, e quindi ad influenzare le scelte del governo nel senso della disponibilità a fare concessioni in cambio della cessazione delle stragi, sia il Ros, nella persona del generale Mori, sia lo stesso Mannino, in ipotesi mentore di quell’operazione, si sarebbero adoperati per esercitare pressioni sullo stesso soggetto, il dott. Francesco Di Maggio, vice Direttore del ap., affinché questi a sua volta orientasse nel senso da loro auspicato le scelte del Ministro della Giustizia Conso. E lo avrebbero fatto agendo per così dire all’insaputa l’uno dell’altro, o comunque senza curarsi di raccordarsi tra loro, di coordinare le rispettive mosse, con il rischio di intralciarsi a vicenda o di provocare effetti controproducenti come un irrigidimento, o l’irritazione del Di Maggio (che peraltro non risulta avesse alcun tipo di rapporto con il Mannino, al di là del fatto che fossero entrambi siciliani).
Ma anche al netto di simili perplessità, la soluzione chirurgica non basta a preservare l’esito del giudizio di primo grado dalle confutazioni difensive che possono ora avvalersi della ricostruzione fattuale consacrata nel giudicato assolutorio del processo stralcio a carico di Calogero Mannno. Una ricostruzione che nega che il politico siciliano abbia avuto un qualsiasi ruolo nella vicenda che ci occupa; e che quindi esclude anche quel ruolo propulsivo che la Corte d’Assise di primo grado gli ha invece riconosciuto, pur premurandosi di rimarcare come la condotta in cui tale ruolo si sarebbe sostanziato non ha in sé alcuna rilevanza penale e quindi lascia impregiudicata — e a sua volta non ne viene pregiudicata — la questione della penale responsabilità dell’imputato separatamente giudicato in ordine al reato per cui qui si procede.
D’altra parte, la conclusione cui è pervenuto il primo giudice di questo processo in ordine alla condotta del Mannino quale ispiratore dell’iniziativa poi concretamente intrapresa dai carabinieri del Ros è, nei suoi risvolti fattuali, piuttosto nebulosa e quindi già fragile in sé, a prescindere dalla forza d’urto di un giudicato che si pone in netto contrasto con la ricostruzione sposata dalla sentenza qui appellata. Ivi si assume come provato non già quello specifico ed esplicito mandato ipotizzato dall’accusa, secondo quanto recitava il capo d’imputazione, ma solo una non meglio precisata “sollecitazione” che, non è dato sapere in che modo e in che termini il Mannino avrebbe rivolto al Subranni - che a sua volta avrebbe girato tale sollecitazione agli ufficiali a lui direttamente sottoposti, e cioè Mori e De Donno - una sollecitazione volta anche solo “implicitamente” ad adoperarsi per verificare la disponibilità dei vertici mafiosi a trattare.
Nell’originaria prospettazione accusatoria, l’antefatto della vicenda che qui ci occupa risiederebbe nel timore, più che fondato, nutrito da Calogero Mannino a cavallo dell’omicidio Lima di essere ucciso da Cosa Nostra. Un timore lievitato nelle settimane e nei mesi successivi in corrispondenza di un crescendo di minacce nei suoi confronti e per essere stato avvicinato da emissari mafiosi, vuoi per indurlo ad adoperarsi in favore di Cosa Nostra, all’indomani del disastroso (per gli interessi mafiosi) esito del maxi processo, che gli presentava così il conto di pregressi e accertati rapporti di vicinanza su cui aveva costruito buona parte delle sue fortune sia politico-elettorali che affaristiche; vuoi per chiedergli conto del suo operato.
L’omicidio del maresciallo Guazzelli, un avvertimento o una vendetta? SENTENZA CORTE D'APPELLO Il Domani il 09 ottobre 2022
Mannino era nella lista dei politici condannati a morte, ed egli era ben consapevole di quanto la sua posizione fosse assimilabile a quella di Salvo Lima, e ne aveva parlato, confidando loro i propri timori, con il maresciallo Guazzelli, fino al giorno prima che questi venisse assassinato...
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Mannino, infatti avrebbe voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, al pari di altri uomini politici che in passato avevano come lui trescato con le cosche o con singoli esponenti mafiosi, in un momento per essa di particolare difficoltà, non avendo fatto nulla per propiziare un più favorevole esito del maxi processo, ed avendo, di contro, fatto parte di governi che avevano varato una serie cospicua di misure particolarmente incisive nella repressione del fenomeno mafioso.
In effetti, si è accertato che già alla fine del 1991, quando era alle viste che il maxi processo si sarebbe concluso con le conferme delle condanne anche per i principali boss della c.d. mafia vincente, la commissione provinciale di Cosa nostra aveva ratificato la decisione di Riina di mettere a morte i nemici storici di Cosa nostra (come i giudici Falcone e Borsellino, ma anche altri magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine) e di politici ritenuti traditori.
Il disegno di vendetta inscritto in una più ampia strategia di attacco frontale allo stato, per indurlo a più miti consigli dimostrando che Cosa nostra avrebbe reagito da par suo a quella che sembrava essere una rottura definitiva del patto di coabitazione con lo stato, suggellata dall’esito del maxi processo, fu messo in esecuzione nelle settimane successive alla conclusione del maxi processo. E l’omicidio Lima doveva essere il primo di una serie di attentati eclatanti e delitti “eccellenti”, destinati a seminare sgomento e sfiducia nel mondo della politica e delle istituzioni, tino a ridurre lo Stato in ginocchio.
Mannino era nella lista dei politici condannati a morte, ed egli era ben consapevole di quanto la sua posizione fosse assimilabile a quella di Salvo Lima, e ne aveva parlato, confidando loro i propri timori, con il M.llo Guazzelli, fino al giorno prima che questi venisse assassinato; con il collega Mancino, che dal 28 giugno sarebbe subentrato a Vincenzo Scotti nella carica di Ministro dell’interno; e con il giornalista Antonio Padellaro, cui fece una serie di rivelazioni confidenziali, con l’intesa che non sarebbero state pubblicate a suo nome.
Dopo l’omicidio Lima, il Mannino si era rivolto, per fronteggiare la condanna a morte che sentiva incombere sul suo capo, non al Ministro dell’interno o alle autorità di polizia dell’epoca, bensì al maresciallo Guazzelli, cui lo legavano sinceri rapporti di amicizia e frequentazione, ma che all’epoca svolgeva solo le funzioni di responsabile della Sezione di polizia giudiziaria della procura della repubblica di Agrigento; e, per suo tramite, al generale Subranni, comandante del Ros (nonché a Bruno Contrada, alto dirigente del Servizio segreto civile: all’epoca, Slsde).
L’omicidio Guazzelli venne interpretato dal generale Subranni — come emerge dalla testimonianza del colonnello Riccio confortata sul punto da un’annotazione autografa su una delle sue agende - come un chiaro messaggio rivolto al Mannino e agli stessi carabinieri del Ros che in quei giorni si stavano facendo carico del problema della sua incolumità. Lo stesso Riccio ha dichiarato peraltro che il mafioso Luigi Ilardo, suo confidente e ucciso il 10 maggio 1996, poco prima che venisse formalizzata la sua collaborazione con la giustizia, gli aveva rivelato che l’omicidio Guazzelli era una vicenda molto più grave di come poteva apparire.
Nelle settimane successive il Mannino s’era incontrato (più volte) a Roma con il generale Subranni e, almeno una volta, con il Subranni e Bruno Contrada insieme: per parlare con loro riservatamente della minaccia mafiosa da cui era attinto, ma anche dell’anonimo denominato Corvo 2 che era stato indirizzato a varie autorità e direttori di giornali nella seconda metà di giugno ‘92 e che, tra altre confuse e non facilmente decifrabili accuse o insinuazioni e allusioni, segnalava l’avvio di un’interlocuzione tra Cosa Nostra, nella persona del suo capo Salvatore Riina, ed il ministro Calogero Mannino.
E non è irrilevante, a parere della pubblica accusa, che il Mannino si fosse rivolto a personaggi dal profilo opaco, come sarebbe attestato dalle rispettive vicissitudini giudiziarie che li hanno visti, uno, il Subranni, indagato per il reato di associazione mafiosa (procedimento poi archiviato nel 2012); e l’altro, il Contrada, addirittura condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Entrambi, peraltro, si attivarono per rispondere alla chiamata del ministro, ma senza verbalizzare le dichiarazioni o documentarne con apposite relazioni gli incontri, e senza riferirne, in particolare il Subranni, all’ag.
A riprova del rapporto di subalternità e compiacenza del generale Subranni nei riguardi del Mannino, la Pubblica Accusa evidenziava anche che lo stesso Subranni, invece che adoperarsi per evadere la delega d’indagine che gli era stata conferita dal dott. Borsellino (titolare del procedimento aperto a seguito dell’anonimo predetto), prima ispirava un comunicato immediato del comando generale dell’Arma che liquidava l’anonimo come un tentativo di delegittimazione delle istituzioni e un cumulo di menzogne e calunnie e si compiaceva di indirizzarlo al procuratore della repubblica di Palermo con un bigliettino personale dal tono confidenziale e affettuoso; poi redigeva un’informativa di analogo tenore; e infine parlava dell’esposto anonimo direttamente con il Mannino, ossia con uno dei soggetti sui quali avrebbe dovuto svolgere accertamenti in quanto destinatario delle accuse più pesanti in esso contenute.
Nella medesima prospettiva rileverebbe la vicenda investigativa nota come mafia e appalti (dall’oggetto del primo e cospicuo rapporto informativo redatto dai carabinieri del Ros che ne compendiava le risultanze acquisite alla data del 16 febbraio 1991).
Infatti, a parere della pubblica accusa, e contrariamente a quanto dedotto dalla difesa del Mannino nel separato procedimento a suo carico e dalle difese degli ufficiali del Ros qui imputati, quella vicenda non dimostra che i Ros di Subranni denunciarono il Mannino, circostanza incompatibile con la ricostruzione dell'Accusa, ma al contrario omisero per diciannove mesi di riferire all’Autorità giudiziaria i gravi elementi acquisiti nel corso delle indagini a carico del Mannino medesimo.
Il Ros, Ciancimino e quel tentativo di “dialogo” con la Cupola. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 10 ottobre 2022
Qualcosa era quindi successo, tra Capaci e via D’Amelio, che aveva indotto Riina a decidere l’accelerazione dell’attentato anch’esso già deciso ai danni del dottor Borsellino, e, al contempo, a sospendere l’esecuzione che era già in corso del piano per uccidere Mannino.
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Nel frattempo, Salvatore Riina aveva, dato incarico a Giovanni Brusca di dare corso al già deliberato omicidio del Ministro Mannino, per poi revocargli improvvisamente l’incarico: e ciò sarebbe avvenuto, a dire dello stesso Brusca, dopo la strage di Capaci ma prima di quella di via D’Amelio, mentre per il collaboratore di giustizia Gioacchino La Barbera ciò sarebbe avvenuto nel mese di ottobre. Ma un altro collaboratore di giustizia, a parere della pubblica accusa avrebbe dato ragione a Brusca.
Infatti, Angelo Siino ha dichiarato di essere venuto a conoscenza che era in itinere un progetto per uccidere Mannino; una conoscenza appresa mentre lo stesso Siino si trovava al carcere di Termini Imerese, già all’inizio del mese di settembre del ‘92.
Qualcosa era quindi successo, tra Capaci e via D’Amelio, che aveva indotto Riina a decidere l’accelerazione dell’attentato anch’esso già deciso ai danni del dott. Borsellino, e, al contempo, a sospendere l’esecuzione che era già in corso del piano per uccidere Mannino.
E cosa fosse successo, la pubblica accusa ritiene di poterlo desumere dalla concatenazione di una serie di eventi che s’assumono provati.
In particolare, dopo e a seguito dell’interlocuzione del Mannino con il Generale Subranni vertente sulle minacce di morte che il politico siciliano aveva ricevuto (o subodorato), Mario Mori e Giuseppe De Donno, ufficiali del Ros al comando di Subranni, si rivolsero a Vito Ciancimino affinché questi inoltrasse ai vertici di Cosa nostra l’invito ad allacciare un dialogo che portasse al superamento di quella situazione di scontro frontale con lo Stato (una proposta ben sintetizzate nelle parole con cui lo stesso Mori ebbe a rappresentarla nelle dichiarazioni rese alla corte d’Assise di Firenze: «Signor Ciancimino, non si può parlare con questa gente, deve ancora continuare questa contrapposizione muro contro muro?»).
E contestualmente o in epoca immediatamente successiva (cfr. pag. 8 della memoria “Mannino”), Totò Riina manifestò ai capi corleonesi a lui più vicini tutto il suo compiacimento per il fatto che esponenti delle istituzioni si erano fatti sotto (per trattare) e lui aveva fatto avere un papello così di richieste, nell’interesse di Cosa nostra.
Il ruolo del Mannino sarebbe stato anzitutto quello di sollecitatore e ispiratore della proposta veicolata dai carabinieri attraverso il canale Ciancimino fino ai vertici corleonesi di Cosa Nostra di ripristinare un rapporto di confronto dialogante, in luogo dello scontro frontale degli ultimi tempi, in vista del raggiungimento di una rinnovata intesa (per una pacifica coabitazione) e con nuovi garanti.
Ma questa proposta di dialogo avrebbe determinato come effetto diretto e immediato non già la cessazione delle stragi, che proseguirono in modo ancora più cruento se possibile per altri diciotto mesi; bensì la sospensione della programmata eliminazione dei politici traditori, il primo dei quali era proprio Calogero Mannino che quindi più di ogni altro avrebbe beneficiato di quella moratoria.
E ulteriore effetto di quella sciagurata iniziativa sarebbe stato quello di rafforzare nei vertici di Cosa nostra il convincimento che la politica della minaccia a forza di tritolo era lo strumento più efficace per trattare con i rappresentanti dello stato, vincendo le resistenza di quanti non fossero disponibili a negoziare con un contropotere criminale.
Sosteneva - e sostiene - ancora la pubblica accusa che il ruolo del Mannino si sostanziò, oltre che nell’istigare la condotta poi da altri in concreto realizzata, nell’esercitare pressioni sul dott. Francesco Di Maggio, all’epoca vice capo del Dap (che lo stesso Mannino ha ammesso, nelle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 26.03.2015 del giudizio di primo grado, di avere incontrato occasionalmente in aeroporto, mentre nel parallelo giudizio d’appello ha negato di averlo mai conosciuto) affinché si adoperasse per un allentamento della stretta carceraria, con specifico riferimento all’applicazione del regime speciale del 41 bis.
Il “ruolo” di Mannino
Ebbene, il giudice di prime cure di questo processo, come s’è visto, ha fatto propria buona parte della ricostruzione offerta dalla pubblica accusa, salvo astenersi, per le ragioni già evidenziate, dall’approfondire e valutare gli aspetti che concernono la condotta contestata al Mannino in relazione alle pressioni che avrebbe esercitato sul dott. Di Maggio.
Ma tale soluzione, sebbene lasci di per sé impregiudicata la questione della penale responsabilità del Mannino, deve ora fare i conti con un giudicato assolutorio che esclude che l’ex Ministro abbia posto in essere le condotte che gli venivano contestate, inclusa quella di avere innescato e ispirato l’iniziativa dei carabinieri del Ros.
Ciò premesso, la prima preoccupazione del p.g. è stata — e non poteva che essere — quella di disinnescare sul piano argomentativo l’efficacia di quel giudicato (“ostile” all’accusa), ossia di neutralizzare le argomentazioni poste a base della pronuncia giudiziale che ha assolto definitivamente il Mannino.
Ecco perché il p.g. ha così puntigliosamente sottoposto ad una rigorosa revisione critica la sentenza della corte d’Appello.
In via preliminare deve convenirsi, con l’ufficio requirente, che il giudicato assolutorio del processo Mannino non è vincolante nel presente giudizio per ciò che concerne la prova dei fatti in esso accertati, nonostante che l’accertamento ivi consacrato sia sostenuto dall’autorità di una decisione divenuta irrevocabile.
Infatti, l’unica preclusione che ne discende è quella sancita dalla regola inderogabile dettata dall’art. 649 c.p.p. che vieta di sottoporre a un nuovo giudizio, e per il medesimo fatto, l’imputato che sa stato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile. Ma nulla vieta di rivalutare i fatti accertati nel pregresso giudicato, e di potere anche pervenire a conclusioni diverse nel separato giudizio a carico di altri soggetti, ancorché imputati del medesimo reato oggetto di quel giudicato.
[…] Resta tuttavia fermo il principio che nessuna preclusione ne discende in ordine all’accertamento dei fatti che interessano ai fini del presente giudizio; e tuttavia diviene particolarmente gravoso l’onere di fornire prove sufficienti ad affermare ciò che una decisione precedente abbia escluso con tutta l’autorevolezza che le deriva dall’essere assistita dalla forza del giudicato; mentre chi abbia interesse ad avvalersene, può confidare nella presunzione di non colpevolezza, suggellata dalla doppia assoluzione.
Anche se, sotto quest’ultimo profilo, la soluzione del giudice di prime cure consentirebbe di bypassare la presunzione di non colpevolezza, assumendo che la prima delle due condotte in ipotesi ascrivibili al Mannino non era e non sarebbe comunque costitutiva di alcuna penale responsabilità, e quindi uscirebbe fuori dal cono protettivo della presunzione di innocenza. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Trattare con la mafia per fermare le stragi o salvare gli uomini politici? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'11 ottobre 2022
Ha una rilevanza decisiva stabilire se il fine fosse quello di far cessare le stragi oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici, come in ipotesi Calogero Mannino, oppure ancora entrambe le finalità...
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Detto questo, non intende questa corte seguire il percorso del p.g. nel fare le bucce alla sentenza d’appello del processo stralcio a carico di Calogero Mannino, poiché non interessa stabilire se ed eventualmente in cosa quei giudici abbiano errato nel pervenire alla decisione di confermare l’assoluzione dell’imputato.
Ciò che qui interessa è, piuttosto, accertare se le ragioni che giustificano quell’assoluzione, poco importa se corrispondenti o meno a quelle poste dalla stessa corte d’Appello a fondamento della sua decisione, siano valide. Perché se Calogero Mannino è estraneo alla vicenda che qui ci occupa, o meglio se egli non ha avuto il ruolo propulsivo che la pubblica accusa, ma anche il giudice di prime cure di questo processo gli attribuiscono, allora cade il principale argomento che confuterebbe l’assunto secondo cui gli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, ed in particolare di Mori e De Donno, si mossero, nell’intraprendere i contatti con Vito Ciancimino, senza avere di mira altro risultato che quello di arginare l’escalation di violenza mafiosa e fermare le stragi: con implicazioni che a parere di questa corte sarebbero dirimenti per escludere il dolo di concorso nel reato loro ascritto, anche se dovesse pervenirsi alla conclusione che l’iniziativa dei carabinieri non fu, come le difese insistono a sostenere, una mera operazione di polizia giudiziaria sia pure con una marcata connotazione info-investigativa.
E per riportare la questione nei suoi giusti binari, che sono quelli di una doverosa aderenza all’oggetto specifico del presente giudizio d’appello e ai limiti del devolutum, è indispensabile partire dal modo in cui il giudice di prime cure ha accertato e valutato il ruolo ascrivibile al Mannino.
Sotto questo aspetto, va detto subito che il primo giudice si discosta sensibilmente dall’originaria prospettazione accusatoria, senza per questo rinunciare a riconoscere al Mannino un ruolo propulsivo, per avere comunque innescato l’iniziativa dei carabinieri del Ros, ma anche per averla in qualche modo “ispirata”.
Secondo la ricostruzione fattuale sposata dalla sentenza, infatti, il Mannino non si sarebbe limitato a investire i carabinieri, nella persona dell’allora comandante del Ros, della problematica relativa alla sua incolumità, essendo proprio lui, dopo l’omicidio Lima, in cima alla lista dei politici che Cosa nostra minacciava di uccidere.
Egli avrebbe fatto molto di più, indicando o anche solo lasciando intravedere che l’unico modo per venire a capo del problema era quello di sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare un dialogo propedeutico all’avvio di un negoziato che portasse l’organizzazione mafiosa a desistere dalla sua furia omicida, facendo così cessare la minaccia, una minaccia incombente anche nei suoi confronti.
E tuttavia tale condotta in sé non avrebbe alcuna rilevanza penale, poiché se già quella ascritta agli ufficiali del Ros come concorrenti nel reato è una condotta di istigazione e/o agevolazione della realizzazione del reato, nel caso del Mannino per la prima delle due condotte che gli venivano contestate si potrebbe parlare al più di una sorta di istigazione all’istigazione.
Ed anzi, neppure questa.
COSA PREVEDE LA LEGGE
La sollecitazione del Mannino sarebbe stata infatti solo quella di verificare la disponibilità dei vertici mafiosi ad allacciare il filo di un possibile dialogo: ma la trattativa in sé non è un reato.
Ed è soprattutto dirimente la considerazione che quella condotta si sarebbe dispiegata in un momento e in un contesto in cui non si profilava neppure l’inizio del complesso iter attuativo del reato per cui si procede, potendo quell’input iniziale condurre agli scenari e agli esiti più disparati.
La minaccia a corpo politico dello stato, infatti, comincerà a profilarsi e a prendere corpo solo nel momento in cui Riina, informato che rappresentanti delle istituzioni si erano fatti sotto per trattare, deciderà di accogliere quella sollecitazione e avanzerà specifiche richieste, con la minaccia implicita, che solo allora si sarebbe concretamente delineata in termini riconducibili al paradigma dell’artt. 338 c.p., che la violenza stragista sarebbe proseguita (o sarebbe ripresa) se le sue richieste non fossero state accolte.
In altri termini, agli intermediari istituzionali si contestava — e si contesta - di avere concorso alla realizzazione del reato mediante condotte a-tipiche, diverse da quelle costitutive del reato che avrebbero concorso a realizzare, ma suscettibili di agevolarne la compiuta realizzazione o di renderla possibile: ciò che sarebbe avvenuto attraverso plurimi apporti consistiti nel veicolare la minaccia in modo che giungesse al suo naturale destinatario — passaggio indefettibile per la consumazione del reato — o addirittura suscitando o rafforzando negli autori del reato il proposito di commetterlo.
Ora, l’eventuale instaurazione di una trattativa, argomenta il primo giudice, era aperta agli scenari e agli esiti più disparati, non potendosi escludere che i vertici mafiosi si accontentassero di quella sorta di legittimazione indiretta che veniva loro dal riconoscimento della loro veste di interlocutori (con il conseguente effetto di rafforzamento del loro prestigio e della leadership all’interno dell’organizzazione mafiosa); ma comunque l’apertura della trattativa non poteva segnare e non segnò il momento iniziale dell’iter attuativo del reato ex art. 338, che prenderà corpo solo nel momento in cui, rispondendo a quella sollecitazione, Riina farà conoscere le sue richieste, implicitamente ponendole come condizione per la cessazione delle stragi e quindi come condizioni di quel ricatto allo Stato in cui si sostanzierebbe, con tutte le peculiarità del caso di specie la condotta costitutiva del reato per cui si procede.
La prima delle due condotte specifiche contestate al Mannino, consistita nell’avere istigato gli istigatori, non integrerebbe quindi un apporto concorsuale alla realizzazione del reato, neppure sotto il profilo del concorso morale, a meno di non voler dare rilevanza penale ad una condotta di istigazione indiretta che solo eccezionalmente e in forza di una specifica previsione di legge può assurgere a fattispecie di reato autonoma (come nel caso dell’apologia di reato).
Pertanto, la condotta del Mannino di sollecitare i carabinieri ad intraprendere iniziative in proprio favore che non andassero tanto in direzione di un rafforzamento delle misure di protezione dalla minaccia mafiosa nei sui riguardi, ma in direzione semmai di un affievolimento di tale minaccia grazie all’instaurazione di un dialogo con chi aveva decretato la sua morte, nella ricostruzione operata dalla corte d’Assise di primo grado degrada a mero antecedente causale della condotta criminosa, per averne creato le premesse, innescando l’iniziativa dei carabinieri che avrebbe suscitato, prima, e rafforzato poi negli autori del reato il proposito di commetterlo.
E nell’economia della decisione che ha affermato la penale responsabilità degli ex ufficiali del Ros, il ruolo così attribuito al Mannino avrebbe comunque una portata ridona.
IL FINE DELLA “TRATTATIVA”
Infatti, nella valutazione operata dal giudice di prime cure, non è decisivo stabilire se i carabinieri si fossero attivati per input di un politico influente, e al fine esclusivo o principale di salvargli la vita, per sviluppare un’iniziativa che abbandonasse la linea della fermezza nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Ciò che conta è che consapevolmente e deliberatamente essi abbiano concorso, con la loro improvvida iniziativa, e cioè sollecitando i vertici di Cosa nostra a far sapere cosa chiedessero per far cessare le stragi, a rafforzare, se non addirittura a suscitare negli autori del reato il proposito di realizzarlo (con l’ulteriore apporto di averne agevolato o reso possibile l’effettiva consumazione favorendo la veicolazione della minaccia fino al suo naturale destinatario, che era il governo della Repubblica). Poco importa allora che loro fine precipuo fosse proprio quello di prevenire l’ulteriore escalation della violenza mafiosa, nell’interesse generale della collettività, o il meno nobile fine di salvare la pelle a questo o quel politico influente.
Ad avviso di questa corte, invece, non è affatto ininfluente stabilire quali fossero le reali finalità perseguite dai carabinieri del Ros con la loro iniziativa.
Al contrario, ha una rilevanza decisiva stabilire se il loro unico fine – o il fine precipuo – fosse quello di far cessare le stragi, oppure quello di salvare la vita a singoli esponenti politici cui erano legati da rapporti di reciproco interesse e convenienza, o con cui avevano legami non del tutto trasparenti, come in ipotesi Calogero Mannino, oppure ancora entrambe le finalità in quanto inscindibilmente connesse: far cessare le stragi come unico modo per salvare la vita a Mannino; ovvero, prefiggersi di arginare l’escalation mafiosa nella consapevolezza che ciò avrebbe giovato alla soluzione del problema — preservare l’incolumità di Mannino, minacciato di morte da Cosa nostra — di cui gli stessi carabinieri erano stati investiti.
Ed ha una rilevanza decisiva non soltanto per la possibile immediata sulla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, almeno per la posizione degli intermediari istituzionali, ma pure perché può discenderne una diversa ricostruzione dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri attraverso i contatti con Vito Ciancimino anche sul piano fattuale, avuto riguardo ai reali termini della proposta che fu rivolta allo stesso Ciancimino.
L’avvicendamento tra Scotti e Mancino al ministero degli Interni. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 12 ottobre 2022
Secondo l’accusa, Mannino aveva espressamente conferito al Subranni il mandato — poi da questi girato ai suoi sottoposti, Mori e De Donno — di avviare contatti per giungere ad un’intesa con Cosa nostra in cambio della concessione di benefici di varia natura e consistenza a favore dei mafiosi...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Come già anticipato, il giudice di prime cure nella sua ricostruzione dei fatti, si è discostato dalla prospettazione accusatoria per ciò che concerne il ruolo ascrivibile a Calogero Mannino nella cosiddetta trattativa tra lo stato e Cosa nostra, che derubrica a mero antecedente fattuale dell’intera vicenda, privo, come tale, di rilevanza penale.
L’assunto conclusivo del giudice di primo grado è infatti che il Mannino abbia innescato l’avvio della trattativa intrapresa dagli ufficiali del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino, investendo il generale Subranni della problematica relativa alla sua sicurezza personale, dopo le minacce gli avvertimenti e infine la conferma acquisita di essere a rischio di imminente attentato, perché Cosa nostra aveva decretato la sua morte, come egli aveva iniziato a temere già a cavallo dell’omicidio Lima.
Il Mannino però non si sarebbe limitato a rivolgersi ai carabinieri affinché adottassero opportune iniziative a tutela della sua incolumità. Egli avrebbe altresì, anche solo implicitamente, ad avviso della corte d’Assise di primo grado, tracciato il percorso da seguire per un intervento efficace, nel senso di provare a stabilire contatti che permettessero di allacciare un dialogo con i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Ebbene, l’ipotesi accusatoria, che nella sua formulazione originaria postulava che il Mannino avesse espressamente conferito al Subranni il mandato — poi da questi girato ai suoi sottoposti, Mori e De Donno — di avviare contatti per giungere ad un’intesa che contemplasse di far tacere le armi ottenendo che Cosa Nostra rinunciasse a mettere in atto gli ulteriori omicidi di politici e le ulteriori strage già programmate, in cambio della concessione di benefici di varia natura e consistenza a favore dei mafiosi, nel quadro di un più complessivo affievolimento dell’azione repressiva dello Stato, scontava fin dall’inizio alcune incongruenze di fondo.
Premessa, invero, la necessità che l’operazione Ciancimino, per il suo buon esito, potesse contare su un’adeguata “copertura politica”, ed in particolare sul sostegno del ministro della Giustizia, era lecito chiedersi per quale ragione il Mannino, ancora ministro, sia pure nell’ambito di un governo dimissionario, e nelle more della formazione di un nuovo governo, avesse per così dire mandato alla sbaraglio alcuni alti ufficiali dei carabinieri, inducendoli ad avventurarsi su un terreno a loro poco congeniale, quello di prendere contatto con vari esponenti politici e istituzionali, e segnatamente con quelli che occupavano ruoli di vertice o strategici nella prospettiva di una trattativa da avviare, ovviamente in assoluta segretezza.
[…] Ma soprattutto, se, per aver salva la vita, egli aveva intrapreso un percorso così impervio qual si prospettava quello di una assai problematica “trattativa” […] ,non si comprende per quale ragione non avesse neppure tentato di entrare a far parte del nuovo Governo, rinunciando a qualsiasi incarico ministeriale, lui che era Ministro uscente, e da anni era al vertice della politica nazionale anche per avere sempre ricoperto incarichi ministeriali nei governi che s’erano succeduti negli ultimi cinque anni.
Piuttosto che uscire di scena, se avesse voluto giocare il molo di artefice della trattativa e garantirne un positivo sviluppo, sarebbe stato più proficuo stare dentro e non fuori dalle stanze del potere governativo.
Di contro, la rinuncia a ricoprire incarichi di governo ben si conciliava con l’intento di sottrarsi a pressioni e ricatti, sia per non sottostarvi, sia per fare in qualche modo risaltare, proprio con una sua uscita di scena dall’agone della politica attiva e con lo spogliarsi di qualsiasi attribuzione o incarico istituzionale, che sarebbe stato ormai inutile dare corso ad atti di violenza o di ulteriore intimidazione nei suoi confronti.
Ebbene, a simili incongruenze intendeva rimediare la lettura che la pubblica «ccusa aveva offerto della vicenda della sostituzione di Vicenzo Scotti con Nicola Mancino al vertice del dicastero degli Interni, cui è dedicato un intero capitolo della motivazione della sentenza di primo grado.
UNA CAMPAGNA DI DELEGITTIMAZIONE
Secondo la prospettazione accusatoria l’avvicendamento sarebbe stato l’epilogo non casuale ma voluto e preordinato di una campagna di delegittimazione del ministro in carica, che si era particolarmente distinto, insieme al collega ministro della Giustizia Claudio Martelli, nel portare avanti una linea di assoluta intransigenza del governo Andreotti nella lotta alla mafia.
Questa campagna di delegittimazione, alimentata anche in buona fede da chi accusava il ministro degli Interni di avere inutilmente drammatizzato il clima di tensione nel paese di e preoccupazione per le sorti delle istituzione, dando credito a falsi allarmi e false soffiate non solo su imminenti attentati, ma anche sull’esistenza di un vero e proprio disegno di destabilizzazione, avrebbe portato ad un appannamento dell’immagine del ministro Scotti, e ad un suo progressivo isolamento all’interno del suo stesso partito, in cui crescevano, come lui stesso ebbe a denunciare in una clamorosa intervista rilanciata al giornalista Giuseppe D’Avanzo del quotidiano La Repubblica pubblicata il 21 giugno 1992, le voci di dissenso e insofferenza per la linea dura da Scotti portata avanti nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
A tale campagna di delegittimazione e progressivo isolamento del ministro Scotti o comunque al suo epilogo, consistito nella mancata conferma al vertice dei dicastero degli Interni, sia pure “promuovendolo” al prestigioso incarico di ministro degli Esteri, non sarebbe stato estraneo l’on. Mannino, il quale si sarebbe adoperato presso i maggiorenti del suo partito, e segnatamente nei riguardi dell’on. Ciriaco De Mita cui faceva capo la corrente della sinistra democristiana della quale faceva parte lo stesso Mannino, per sollecitare la sostituzione di Scotti. E lo avrebbe fatto con il fine, poco importa se dichiarato (allo stesso De Mita) o recondito, di favorire un mutamento dell’azione di governo sul versante della lotta alla criminalità mafiosa, nel senso di un ammorbidimento di quella linea dura e di intransigente contrasto di cui il ministro uscente, Vincenzo Scotti, unitamente al collega ministro della Giustizia Martelli, era stato il più convinto e attivo fautore.
L’intento era di creare, così agendo, un clima politico più favorevole allo sviluppo della trattativa, o del tentativo di avviare un negoziato con l’organizzazione mafiosa che aveva decretato la morte di Mannino, ma anche di altri esponenti del suo partito e non soltanto del suo partito.
Sennonché tutti gli elementi raccolti e debitamente scrutinati dal giudice di prime cure di questo processo convergono ad asseverare la conclusione che l’avvicendamento di Scotti con Mancino sia stato piuttosto il precipitato e il portato di manovre e trame politico partitiche, ma interne soprattutto al partito di maggioranza relativa dell’epoca, volte a raggiungere un accordo per la spartizione di poltrone ministeriali e relativi incarichi anche di sottogoverno, che rispecchiasse e soddisfacesse la necessità di trovare un equilibrio tra le varie correnti e le ambizioni o gli appetiti dei loro principali esponenti.
E non è certo un dettaglio secondario il fatto che nessuno dei diretti protagonisti o testimoni (come Ciriaco De Mita, Forlani, Gargani, ma anche Giuliano Amato, all’epoca dei fatti presidente incaricato della formazione del nuovo governo che fu poi da lui presieduto e lo stesso presidente Scalfaro, nonché Claudio Martelli e Cirino Pomicino) delle manovre e degli accordi sfociati nella
contestuale designazione di Nicola Mancino come ministro degli Interni in sostituzione di Scotti, e dello stesso Scotti come ministro degli esteri del nuovo governo abbia fatto il minimo cenno all’eventualità che il Mannino abbia avuto un qualsiasi ruolo nelle trattative per la formazione del nuovo governo.
Né si può compensare questo vuoto probatorio, come sembra azzardare la sentenza qui appellata, tacciando di reticenza la deposizione, in particolare, di Ciriaco De Mita; o imputando alle testimonianze spesso lacunose e contraddittorie (dei politici escussi) la causa del mancato conseguimento della prova certa che l’avvicendamento di Scotti con Mancino sia stato frutto del desiderio di Mannino di ammorbidire la linea d’azione nella lotta alla mafia per favorire un negoziato o la ricerca di una tregua con la più sanguinosa organizzazione criminale operante; ovvero, la causa dell’impossibilità come si legge testualmente in sentenza, di «acquisire sufficienti elementi a sostegno della tesi dell’accusa secondo cui il ministro dell’Interno Scotti venne deliberatamente sostituito per volere di coloro che all’interno della Democrazia cristiana (....) auspicavano un ammorbidimento della politica di forte e intransigente contrasto al fenomeno mafioso sino ad allora dal predetto ministro propugnata al fine di evitare ulteriori aggressioni da parte delle organizzazioni mafiose allo stato e (forse ancor più) l’uccisione di taluni di essi (come era già avvenuto per l’On. Lima e si temeva per altri, tra i quali, innanzitutto, lo stesso On. Mannino).
IL CAMBIO AL VIMINALE
In realtà, il primo giudice di questo processo si esprime con prudenza forse eccessiva circa il mancato raggiungimento della prova predetta.
Come si vedrà meglio tra breve, la sentenza non esclude affatto, ed anzi ritiene provato, che Calogero Mannino si sia adoperato per quell’epilogo e con quel preciso intento, non potendosi però escludere che l’avvicendamento in questione sia stato alla fine prodotto dal concorso di concause prevalenti sulle trame dello stesso Mannino e riconducibili a dinamiche di potere e a giochi e accordi di corrente tutti interni al suo partito (ciò che peraltro spiegherebbe una certa reticenza o la vaghezza e lacunosità delle spiegazioni offerte da quasi tutti i testi escussi, essendo comprensibile il disagio nel dover ammettere di essere stati mossi da interessi e fini assai prosaici, a fronte delle gravi emergenze che affliggevano il paese).
Un coacervo di fattori, è bene rammentarlo, cui non furono affatto estranei l’atteggiamento ondivago dello stesso Scotti, e le sue scelte a dir poco ambigue e contraddittorie, fino all’epilogo delle dimissioni da ministro degli Esteri, rassegnate esattamente un mese dopo aver ricevuto la nomina a tale prestigioso incarico.
Poiché è altamente probabile che qualsiasi ipotetica manovra o trama avrebbe potuto essere sventata, ammesso che ve ne fossero, se solo egli avesse fatto — o minacciato di fare — ciò che il ministro Martelli fece (e rimproverò al suo ex collega di governo di non avere fatto): e cioè porre come condizione della sua partecipazione al nuovo governo la conferma nell’incarico di ministro degli Interni, magari rassegnando nelle istanze decisionali del suo partito (ufficio politico e direzione) le ragioni che rendevano quanto mai opportuna tale conferma.
Cosa che non risulta sia avvenuto, come si evince raffrontando le dichiarazioni (anche queste ondivaghe) di Scotti con le deposizioni di Claudio Martelli, di Giuliano Amato e di Arnaldo Forlani, nonché con le testimonianze sul punto del tutto concordanti degli altri esponenti politici del partito di maggioranza relativa dell’epoca, che, per gli incarichi ricoperti [...] o per essere stati interessati alla vicenda come potenziali candidati ad entrare nel nuovo Governo [...], sono fonti qualificate al fine di fornire elementi utili a ricostruire i fatti.
Mentre è certo che Vincenzo Scotti era sì contrario in linea di principio alla regola dell’incompatibilità tra incarichi di governo e status di parlamentare; ma il vero e unico punto che egli poneva come irrinunciabile era che, nei riguardi di chiunque avesse ricoperto l’incarico di ministro degli Interni, non poteva pretendersi che sottostesse a quella regola, essendo lo status di parlamentare (per via della connessa immunità all’epoca ancora vigente) un usbergo indispensabile per quella carica. […].
In sostanza, Scotti non aveva rinunziato alla speranza che nei suoi riguardi si facesse eccezione alla regola dell’incompatibilità, come è provato dal fatto che, nel frattempo, aveva sollecitato il segretario Forlani a un ripensamento al riguardo. Ma con lettera datata 28 luglio, il Segretario predetto ribadì il suo niet; ed allora, a stretto giro di posta, Scotti si dimise dall’incarico di ministro degli Esteri — suscitando l’ira di Scalfaro — e contestualmente informò la Camera che era venuta meno la ragione per le dimissioni da parlamentare (anche perché Scalfaro, nonostante il parere contrario di Giuliano Amato, aveva deciso di accettare subito le dimissioni).
Questi sono i fatti che possono dirsi accertati anche nella loro sequenza cronologica e concatenazione causale. Senza trascurare che, [...]: la delegazione democristiana al nuovo governo fu interamente rinnovata, nella sua composizione, rispetto alla precedente compagine, in conformità ad una precisa indicazione strategica (vennero confermati, dei ministri uscenti, sia pure per essere destinati a incarichi diversi, Maria Rosa Russo Jervolino e, appunto, Vincenzo Scotti), [...]tutti i componenti della delegazione democristiana, compreso Vincenzo Scotti, si dimisero da parlamentari, subito dopo la nomina a ministri, o, nel caso di Scotti, dopo qualche giorno (undici, per l’esattezza: salvo dimettersi alla fine dei mese di luglio da ministro, contestualmente ritirando di fatto le dimissioni da deputato che aveva già presentato alla Camera il 9 luglio); [...].
SENTENZA CORTE D'APPELLO
Una giornalista attendibile e le fandonie del piccolo Ciancimino. SENTENZA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 13 ottobre 2022
Per il giudice di primo grado la testimonianza dell’Amurri è una fonte idonea a comprovare che il Mannino effettivamente si adoperò per sollecitare la sostituzione di Scotti al vertice del dicastero degli Interni ma...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Tutti gli elementi rassegnati convergono dunque ad asseverare la conclusione di cui si diceva, tranne uno: la testimonianza di Sandra Amurri, nota e stimata giornalista de Il Fatto Quotidiano, sul colloquio da lei accidentalmente captato il 21 dicembre 2011 - mentre si trovava al bar Giolitti di Roma [...]. Nella valutazione del giudice di primo grado, invero, la testimonianza dell’Amurri, letta alla luce dei molteplici e puntuali riscontri acquisiti anche sul contesto in cui si collocavano il colloquio di Mannino con l’on. Gargani e le preoccupazioni espresse dal primo al secondo, è una fonte idonea a comprovare, unitamente agli elementi che ne corroborano l’attendibilità, che il Mannino effettivamente si adoperò per sollecitare la sostituzione di Scotti al vertice del dicastero degli Interni; e che lo fece proprio per creare le premesse necessarie o comunque uno scenario politico più favorevole allo sviluppo della cosiddetta “trattativa”.
[…] Il suo allontanamento da tale ruolo costituiva quindi, nella prospettazione accusatoria, che per questa parte il giudice di prime cure mostra di condividere, un passaggio non ancora sufficiente ma certamente necessario e ineludibile per il buon esito del tentativo, che si assume orchestrato o ispirato dal Mannino, di allacciare un dialogo sotterraneo con Cosa nostra, oltre a lanciare un segnale di discontinuità nell’azione di governo, sul versante della lotta alla mafia: nel senso che l’avvicendamento di Scotti, all’indomani della strage di Capaci, ben poteva leggersi all’esterno come una tacita sconfessione dell’operato del ministro uscente, sintomatica del proposito del nuovo governo di abbandonare o di ammorbidire la linea di politica criminale in precedenza portata avanti soprattutto per impulso dello stesso Scotti (e così fu inteso, secondo la corte d’Assise di primo grado, tanto da potersi valutare come uno dei fattori che concorsero a rafforzare nei vertici di Cosa nostra la convinzione che la strategia stragista fosse l’unica che poteva costringere lo Stato a trattare).
Ebbene, la testimonianza della giornalista de Il Fatto Quotidiano validerebbe, ad avviso del primo giudice, tale ipotesi ricostruttiva (fermo restando che le contraddittorie risultanze o la reticenza e la lacunosità delle testimonianze dei politici escussi non consente comunque di pervenire ad analoga certezza circa il fatto che l’avvicendamento di Scotti sia stata determinata da una condivisione da parte del gruppo dirigente democristiano e dello stesso presidente Scalfaro dell’inconfessabile finalità che avrebbe animato il Mannino nel sollecitare quella scelta, e non piuttosto dal combinato disposto di ambizioni - e timori - personali e giochi di corrente o dinamiche di potere interni al partito di maggioranza relativa).
LE DUE INTERPRETAZIONI DEI GIUDICI
È una conclusione che questa Corte non ritiene di poter sottoscrivere. Ma ciò, va detto subito, per ragioni che non mettono affatto in discussione il positivo apprezzamento già espresso dai giudici di primo grado in ordine all’attendibilità della testimonianza della Amurri.
[...] Non v’è stata alcuna suggestione o travisamento degli elementi più significativi che l’Amurri ebbe a cogliere nel colloquio captato a insaputa dei due interlocutori. Elementi in sé troppo scarni e frammentari o allusivi o pieni di rimandi e sottintesi per poter essere decifrati, se avulsi dal contesto della vicenda cui i due si riferivano; e che la giornalista del “Fatto” ha posto a disposizione dell’a.g. Negli esatti termini e nei limiti in cui le era occorso di raccoglierli, ovvero in circostanze del tutto fortuite, e che hanno trovato conferma nella testimonianza dell’on. Di Biagio.
Al riguardo non può che rimandarsi alle persuasive considerazioni spese nella sentenza impugnata che questa corte ritiene di dovere integralmente sottoscrivere.
[…] Già non è difficile credere che l'Amurri abbia istintivamente - ovvero, per deformazione professionale - aguzzato le orecchie, trovandosi nella condizione di poter ascoltare “in diretta”, e all’insaputa degli interlocutori (solo alla fine, a suo dire, Mannino si sarebbe accorto della sua presenza, e avrebbe detto qualcosa al suo interlocutore) un discorso confidenziale di un noto politico, qual certamente era il Mannino, tanto più se pronunciato con tono molto concitato e preoccupato.
E poi è comprensibile che le frasi più significative (e, in particolare: «Lui è stato chiamato e deve dire, deve confermare le nostre versioni, perché questa volta ci fottono»; “quel cretino di Ciancimino figlio di cazzate ne ha dette tante, ma su di noi ha detto la verità. Perché tu lo Sai, no? Il padre, il padre di noi insomma sapeva tutto»; «a Palermo hanno capito tutto, questa volta ci incastrano, questa volta ci fottono»; «Sì, lo so che hai capito, ma io te lo ripeto, tu devi dire a De Mita che deve assolutamente dire le stesse cose nostre, assolutamente, assolutamente») le siano rimaste scolpite nella memoria proprio a causa del turbamento che le suscitarono sul momento […]. Ma soprattutto, come la stessa Amurri ha dichiarato, ella non mancò di appuntarsi per iscritto quelle frasi, o i passaggi che più l’avevano colpita del colloquio, approfittando del fatto che era seduta ad un tavolino mentre Mannino e il suo interlocutore discorrevano a pochissima distanza da lei [...].
[…] Non v’è dubbio quindi che, sapendo che De Mita era stato citato a comparire dinanzi alla procura di Palermo, e che la citazione nasceva dalle dichiarazioni rese da Vincenzo Scotti nell’ambito dell’indagine “Trattativa”, il Mannino era davvero preoccupato di ciò che l’ex presidente della D.C. avrebbe potuto riferire ai magistrati; e rassegnò al Gargani l’assoluta necessità che rendesse dichiarazioni in linea con la loro versione dei fatti: cioè con la verità “ufficiale” che voleva l’avvicendamento di Scotti con Mancino determinata solo dal rifiuto del primo di sottostare alla regola dell’incompatibilità tra lo status di parlamentare e gli incarichi di governo, senza altri fini reconditi.
I SOSPETTI DELLA PROCURA
In sostanza, la preoccupazione di Mannino era che se le dichiarazioni di De Mita non si fossero allineate ad una concorde versione sulle ragioni della mancata conferma di Scotti, ne potessero uscire corroborati dubbi e sospetti sulle vere finalità di quella manovra. Quei dubbi e sospetti che evidentemente la procura di Palermo già nutriva, poiché altrimenti non avrebbe avvertito l’esigenza di sentire De Mita (e anche Forlani, come giustamente rammenta il teste Gargano: segno che voleva vederci chiaro su quella vicenda.
La frase poi che l’Amurri attribuisce a Mannino circa il fatto che a Palermo avessero capito tutto, e che il Ciancimino, che aveva fino a quel momento raccontato un cumulo di sciocchezze e menzogne, stavolta aveva detto la verità su di loro, lascerebbe intendere che quei sospetti erano fondati. E, in particolare, che le vere ragioni avessero a che vedere con l’ipotizzata trattativa segreta (già in corso), ovvero che l’avvicendamento di Scotti con Mancino ne fosse parte integrante, perché avrebbe creato le premesse politiche per l’abbandono o l’ammorbidimento della linea d’azione del governo nel contrasto alla criminalità mafiosa e l’adozione di una linea propensa a esplorare la possibilità di un negoziato con l’organizzazione mafiosa per far tacere le armi ed evitare ulteriori delitti in particolare ai danni di esponenti politici del partito che sembrava essere più di altri bersaglio della violenza.
D’altra parte, è vero che Massimo Ciancimino non aveva formulato accuse nei riguardi di Mannino né fornito indicazioni circa un suo possibile coinvolgimento nella vicenda della trattativa condotta attraverso l’intermediazione di suo padre e dei carabinieri del Ros.
Ma ai difensori come ai giudici del processo Mori/Obinu — in cui pure il tema dell’avvicendamento di Scotti con Mancino era stato lumeggiato — e del processo-stralcio a carico di Calogero Mannino è sfuggito un punto che è stato invece evidenziato dai giudici della corte d’Assise di primo grado del presente processo: tra le tante dichiarazioni rese, il Ciancimino (figlio) aveva detto di aver saputo da suo padre, e in anticipo rispetto a quanto poi era avvenuto, che Scotti, con il quale Vito Ciancimino riteneva non sarebbe stato possibile alcun “dialogo”, non sarebbe stato confermato nell’incarico, per essere sostituito da Mancino (che sarebbe stato poi il terminale politico-istituzionale della trattativa).
In altri termini, lo stato maggiore del partito di maggioranza relativa avrebbe deciso fin dall’inizio delle trattative per la formazione del nuovo governo di escludere Scotti per fare posto a Mancino; e in questo senso il Mannino avrebbe confidato al Gargani che il giovane Ciancimino una volta tanto aveva detto la verità, attingendo quell’informazione a una fonte, suo padre, che sapeva tutto dei suoi ex colleghi di partito e delle dinamiche interne alle correnti.
Ma il condizionale è d’obbligo perché proprio su questo punto specifico, come s’è visto, l’on. Gargani ha tenuto botta, smentendo categoricamente la versione di Sandra Amurri e insistendo nell’affermare che, al contrario, Mannino era stupito del fatto che i magistrati di Palermo potessero credere alle fandonie di Ciancimino (figlio).
Ma a parte l’incertezza derivante dalla persistenza del contrasto tra le due versioni (anche la frase che l'Amurri attribuisce a Mannino, secondo cui a Palermo avevano capito tutto, giusta la versione del teste Gargani potrebbe piuttosto interpretarsi nel senso che i magistrati di Palermo, prestando fede alle propalazioni di un menzognero come Massimo Ciancimino, erano convinti di avere capito tutto, ovvero si erano affezionati a un teorema), ritiene questa Corte che non si possa comunque condividere la lettura in chiave accusatoria delle preoccupazioni espresse dal Mannino nel corso del suo colloquio con l’on. Gargani, come sposata dal giudice di prime cure.
Ed invero, tale lettura è all’evidenza smentita, anzitutto, dal fatto che, anche prestando fede alla testimonianza di Sandra Amurri nella parte in cui riporta le parole e le frasi che il Mannino avrebbe pronunciato nel corso del colloquio con l’amico e collega di partito Giuseppe Gargani, il Mannino ha declinato sempre e solo al plurale il soggetto che avrebbe avuto motivo di temere qualcosa dalla prevista e imminente escussione di Ciriaco De Mita sulla vicenda della mancata conferma di Scotti a ministro degli Interni e contestuale designazione al suo posto del senatore Mancino.
Orbene, se fosse corretta la lettura sposata in sentenza, e considerato che tale sostituzione fu decisa all’unanimità dall’ufficio politico della Dc nella sua massima collegialità (e cioè nella composizione allargata alla partecipazione anche dei due vice-segretari, che all’epoca erano l’on. Silvio Lega e l’on. Sergio Mattarella, se ne dovrebbe inferire che l’intero gruppo dirigente della Democrazia cristiana, all’epoca ancora partito di maggioranza relativa e con un peso corrispondente nella coalizione politica che sostenne il nascente governo Amato, o quanto meno i vertici della corrente della sinistra democristiana [...] non soltanto avrebbero condiviso con Mannino la decisione di sostituire Scotti al vertice del Viminale, ma soprattutto avrebbero pienamente condiviso la vera ragione ditale decisione, che si vorrebbe far consistere in un mutamento di linea politica del Governo, nell’azione concreta di contrasto al fenomeno mafioso, tale da propiziare lo sviluppo della presunta trattativa con Cosa nostra.
LA QUESTIONE DEL VIMINALE
Insomma, a voler assecondare tale lettura, le preoccupazioni di Mannino tradirebbero, nei riguardi dell’intero gruppo dirigente della Dc che all’epoca optò per l’avvicendamento di Scotti con Mancino, una sorta di chiamata in correità, almeno sotto il profilo della (cor)responsabilità di una precisa e grave scelta politica — quale sarebbe stata, in ipotesi, quella di negoziare con Cosa nostra per ottenere la cessazione delle stragi o comunque degli ulteriori spargimenti di sangue paventati nel quadro di un escalation di violenza mafiosa che sembrava avere assunto gli esponenti democristiani a bersaglio principale -, ancorché priva in sé di rilievo penale (giacché la scelta di negoziare. sia pure con un’organizzazione criminale, in sé considerata non integrerebbe comunque alcuna ipotesi di reato). [...] è certo che non si verificò alcun mutamento nella linea d’azione del governo sul versante della lotta alla mafia, nelle settimane e nei mesi successivi all’insediamento del governo Amato; né, per quanto può evincersi al riguardo dalle deposizioni degli esponenti democristiani escussi nel giudizio di primo grado, una simile eventualità si profilò, anche solo come opzione da valutarsi, quando si decise l’avvicendamento di Scotti con Mancino.
E gli atti parlamentari relativi all’iter di conversione del Di. 306/1992 (“modifiche urgenti al codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa”), danno ragione a tale assunto perché dimostrano la compattezza dei gruppi parlamentari della Dc nel sostenere il disegno di legge di conversione del decreto legge predetto, nonché la necessità, dopo la strage di via D’Amelio, di approvarlo in tempi rapidi (con le modifiche di cui al max-emendamento presentato dal Governo, proponenti i ministri Mancino e Martelli), così da evitare la decadenza delle disposizioni più incisive.
Sospetti e confidenze. Mannino si rivolse a Subranni per salvarsi la vita? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su il Domani il 14 ottobre 2022
In ogni caso, nella valutazione del giudice di primo grado, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
S’è visto come l’attribuzione a Calogero Mannino di un ruolo decisivo, ancorché derubricato a mero antecedente fattuale, per avere deliberatamente innescato l’iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i contatti con Vito Ciancimino resta un tassello fondamentale della ricostruzione sposata dal giudice di prime cure, per le sue ricadute sull’elemento soggettivo del reato per cui si procede. Ma il primo pilastro su cui poggiava questo tassello si è rivelato assolutamente inconsistente.
Altro caposaldo ditale ricostruzione, su cui ha insistito il p.g. nella sua requisitoria finale, è la triangolazione di contatti, incontri e riunioni che si sarebbero susseguiti tra Mannino, Subranni e Contrada contestualmente ai contatti instaurati da Mori e De Donno con Vito Ciancimino. Sarebbe stato infatti la triangolazione predetta a offrire l’occasione e la sede, nonché il momento, anzi i diversi momenti in cui prese corpo l’incarico che poi Subranni avrebbe girato ai suoi sottoposti.
E soprattutto quella triangolazione offrirebbe la prova logica che quella sollecitazione vi fu, anche se, come ammette la sentenza impugnata, non si è in grado di dire come, in che termini, e in quali circostanze concrete, sia stata veicolata al generale Subranni e da questi agli ufficiali alle sue dirette dipendenze.
Il primo giudice non insiste più di tanto sul tema delle presunte triangolazioni, desumendo anche da altre fonti di prova la certezza che Mannino abbia incontrato anche privatamente Subranni per parargli delle minacce ricevute, ricevendone a sua volta informazioni su progetti di attentati ai suoi danni e consigli sul da farsi.
Lo proverebbero la testimonianza e i reperti scritti del giornalista Antonio Padellaro, all’epoca vicedirettore del settimanale L’Espresso, che annotò scrupolosamente e quasi in tempo reale i passaggi salienti della mancata intervista, cioè delle rivelazioni “confidenziali” che off records il Mannino gli fece l’8 luglio 1992 (a condizione che non pubblicasse l’intervista né gli attribuisse le affermazioni e gli apprezzamenti esternati in occasione di quel colloquio che doveva rimanere strettamente confidenziale).
Lo proverebbe la nota a firma del generale Subranni in datata 19 luglio, che indica l’on. Mannino tra le personalità a rischio di possibili e imminenti attentati mafiosi, in quanto non potrebbe l’informazione acquisita dai carabinieri risalire alle rivelazioni fatte dal confidente del maresciallo Lombardo, in occasione della visita che lo stesso sottufficiale gli fece insieme al capitano Sinico al carcere di Fossombrone (e ciò in quanto lo stesso Sinico ha dichiarato che all’esito del colloquio con la sua fonte, il maresciallo Lombardo fece solo il nome del dott. Borsellino come possibile bersaglio di un attentato che si assumeva essere in itinere. Tant’è che lo stesso Sinico si precipitò ad informarne il procuratore, il giorno dopo a Palermo).
Lo proverebbe altresì la circostanza che già nel mese di marzo i comandi delle forze di polizia, compresa l’Arma, e i vertici degli apparati investigativi erano stati allertati da due allarmanti note a firma del capo della polizia e del ministro dell’interno che segnalavano il rischio concreto di attentati eclatanti, e annoverava il ministro Mannino insieme ad altri esponenti politici di rilievo tra i probabili bersagli dei segnalati attentati. E se si considera che il generale Subranni conosceva da tempo personalmente il ministro Mannino e in precedenza lo aveva incontrato più volte (come s’evince dalle dichiarazioni del generale Tavormina, anche non volendo considerare, per non avere trovato ingresso in questa sede i relativi verbali di prova dichiarativa, le ammissioni fatte dallo stesso Subranni in altre sedi processuali, come il procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa), non ci vuole molto a inferire che lo stesso Subranni debba avere parlato con il diretto interessato di quei pericoli per la sua incolumità dei quali cui aveva appreso attraverso canali interni agli apparati di polizia.
E lo proverebbe infine la testimonianza del generale Tavormina, che, sia pure tra tante riserve e residue reticenze ha finito per ammettere di avere lui stesso parlato con Mannino delle minacce che aveva ricevuto, e di averne parlato anche con Subranni, che a sua volta avrebbe incontrato Mannino sullo stesso tema e si sarebbe fatto carico, come Ros, del problema della sua sicurezza.
Ciò posto, a parere del primo giudice, «non è certo dubitabile che il gen. Subranni, incontrando a più riprese l’on. Mannino anche privatamente, non avesse già avuto modo di parlare col predetto del pericolo, che, secondo l’opinione delle più alte autorità addette alla sicurezza del paese. incombeva sullo stesso. Semmai va evidenziato che appare certamente anomalo che l’on. Mannino consapevole dell'elevato pericolo personale che correva, non si sia rivolto, innanzitutto, a funzionari della polizia di stato cui ufficialmente era affidata la sua tutela (...) ed addirittura, abbia, ad un certo momento, dopo la strage di Capaci rinunziato alla scorta...».
Per la verità i fatti danno torto a quest’ultima ricostruzione, o, almeno, sfumano di molto l’anomalia che il primo giudice ha ritenuto di potervi cogliere. La scorta a Mannino, infatti, non fu revocata, anzi, secondo quanto recitava il comunicato emesso dal ministero dell’interno e citato dallo stesso Scotti nel rievocare l’articolo pubblicato su la Gazzetta del Mezzogiorno del 1° giugno 1992 che riportava la notizia che Mannino intendeva rinunziare alla scorta, tale servizio venne rafforzato (o comunque il ministro Mannino fu invitato ad accettare che venisse rafforzato).
Quanto alla dichiarazione dello stesso Mannino di voler rinunziare alla scorta, essa non era sintomatica di indifferenza al pericolo di allentati alla sua persona — già segnalato con le richiamate note del capo della polizia e del ministro Scotti — ma neppure di una sua recondita intenzione di cercare vie traverse, e più efficaci di quelle ufficiali.
L’annuncio, lungi da costituire una manifestazione di spavalderia, poteva essere letto anche come una provocazione, volta a richiamare l’attenzione anche sul suo caso e sull’insufficienza dei mezzi apprestati per la tutela delle personalità a rischio; o più semplicemente era frutto dell’amara constatazione di quanto fosse inadeguata al livello di effettivo pericolo la tutela che poteva essergli assicurata dalla polizia di stato, alla luce di quanto confessatogli dallo stesso questore di Palermo e delle polemiche che proprio in quei giorni, e a seguito del clamore suscita sul tema anche dalla strage di Capaci, infuriavano sull’insufficienza di uomini e mezzi impegnati nella lotta alla criminalità organizzata e nei servizi di protezione.
Stando infatti alle confidenze falle ad Antonio Padellaro, il Mannino aveva parlato del problema con il questore – e dunque non risponde a verità che egli non si fosse rivolto alle autorità competenti a provvedere alla sua tutela –, ma questi aveva candidamente riconosciuto di non avere né il personale né i mezzi che sarebbero stati necessari per assicurargli un’adeguata protezione. E soprattutto lamentò che le forze di polizia non avessero il bagaglio minimo di conoscenze utili a fronteggiare il pericolo proveniente dalle organizzazioni mafiose.
PADELLARO E MANNINO
Inoltre, lo stesso Mannino, sempre a dire del giornalista Padellaro, appariva sinceramente preoccupato per la sorte dei ragazzi che gli facevano da scorta, e non voleva che per causa sua succedesse toro qualcosa di grave (lui era preoccupato per la sua scorta, mi disse, mi parlò molto bene di questi ragazzi che lo seguivano e mi disse: io vorrei evitare che se mi dovesse succedere qualcosa. fossero coinvolti essi stessi).
La sentenza eleva a sospetto pure la circostanza che delle minacce ricevute il Ministro Mannino avesse parlato, anche privatamente, con il generale Subranni, o comunque con i carabinieri e non ne avesse parlato invece con il ministro dell’Interno, che peraltro era suo collega di partito [«Non risulta, invece, che il Mannino avesse riferito di avere ricevuto le predette minacce e pressioni direttamente al ministro dell’interno, tanto da raccontare al Padellaro che, appunto, il ministro dell’interno in carica sino a pochi giorni prima, l’on. Scotti, non lo aveva mai contattato, dopo l'omicidio Lima, neppure con una telefonata (“Sono rimasto solo. Neanche una telefonata di Scotti”)»].
Anche su questo punto la lettura delle risultanze processuali proposta dal primo giudice è assai opinabile perché dalla testimonianza di Antonio Padellaro sembrerebbe piuttosto evincersi che Mannino si dolesse del silenzio di Scotti, cioè del fatto che, pur essendo il ministro dell’Interno “uscente” perfettamente al corrente della sua situazione, sotto il profilo del pericolo concreto e attuale pendente sulla sua incolumità (perché era il Ministro in carica quando era stata diramata la nota del Ros e perché erano stato, tre mesi prima, lo stesso Scotti e il capo della polizia Parisi a indicare Mannino tra le personalità a rischio di attentato; per non parlare del comunicato che ribadiva la necessità del servizio di scorta per Mannino), non gli avesse fatto neppure una telefonata per manifestargli la sua vicinanza e la sua solidarietà. E se l’iniziativa di contattare Vito Ciancimino — con tutto quel che ne seguì — fu intrapresa dai carabinieri su invito od ordine del generale Subranni e a seguito delle sollecitazioni rivoltegli dal Mannino.
Tali sollecitazioni risalirebbero all’epoca in cui era ancora Scotti il ministro in carica. In altri termini, non si potrebbe addebitare a Mannino, o elevare a sospetto il suo comportamento, per non essersi rivolto a Nicola Mancino, che sarà nominato Ministro dell’interno solo il 28 giugno, quando l’iniziativa in questione era già avviata.
In ogni caso, nella valutazione del giudice di prime cure, il dato che conta è che Mannino non si rivolse a chi aveva la competenza per provvedere alla sua protezione (magari perché riteneva le forze di polizia incapaci di assicurarla), e preferì investire del problema il generale Subranni, suo conterraneo, e al quale era legato da un rapporto di risalente conoscenza.
Ma il generale Subranni, allora a capo del Ros, non aveva alcuna competenza per adottare concrete e specifiche misure dirette a preservare l’on. Mannino da eventuali attentati; né risulta che si sia adoperato, direttamente e quale comandante del Ros, o indirettamente, e cioè intervenendo su coloro che avevano quelle competenze, per migliorare o rafforzare le misure di protezione per l’on. Mannino: «Costituisce, allora, logica ed inevitabile conclusione che l’intendimento dell’On. Mannino allorché ebbe a rivolgersi al gen. Subranni non fosse quello di ottenere un miglioramento o rafforzamento delle misure di protezione (che d’altra parte come detto, nel suo pensiero non lo avrebbero comunque “salvato”), ma quello diverso di attivare un canale che, per via info investigativa potesse si acquisire più dettagliate notizie sugli intendimenti e sui movimenti di cosa nostra”, ma, inevitabilmente, perché altrimenti non avrebbe addirittura del tutto rinunziato alle misure di protezione assicurategli dalla polizia di stato, anche operare affinché il corso degli eventi per lui sfavorevole potesse essere in qualche modo mutato».
L’esame delle fonti compulsate porterebbe quindi, sempre a parere del primo giudice, alla conclusione che il ministro Mannino, consapevole che Cosa nostra volesse fargli pagare di non essersi adoperato per assicurare il buon esito del maxi processo (poco importa se per non averlo voluto fare o per non esserne stato capace), fece molto di più che non limitarsi a investire i carabinieri della problematica relativa alla sua sicurezza, messa repentaglio dalle minacce mafiose. Egli tracciò per così dire ai carabinieri l’unica possibile exit strategy.
I ricordi del generale Tavormina sugli incontri tra Mannino e Subranni. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 15 ottobre 2022
Il generale è a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Disponiamo invero del repertorio completo delle dichiarazioni del Tavormina sui suoi rapporti con Antonio Subranni e con Calogero Mannino, e, più specificamente, sul tema degli incontri (con il Mannino o con il Subranni, o con entrambi) vertenti sul tema delle minacce al Ministro Mannino, o dei timori che questi ebbe ad esprimere per la sua incolumità (non così per le dichiarazioni rese sui medesimi temi dal generale Subranni e dal Contrada nel procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; e dallo stesso Mannino in sede di interrogatorio di garanzia nell’ambito del medesimo procedimento: i difensori degli ex ufficiali del Ros, odierni imputati, si sono infatti opposti all’acquisizione che nel presente giudizio d’appello era stato chiesto dal p.g.).
Ed è dalle risultanze di quest’ultima fonte di prova dichiarativa, a partire dalla deposizione che il generale Tavormina ha reso nel giudizio di primo grado (udienza 9.01.2015), che occorre prendere le mosse.
[…] è stato dunque il primo direttore generale della Dia, dal gennaio 1992 fino a marzo del ‘93, quando andrà a ricoprire l’incarico di segretario del Cesis, fino al “rimpasto” con il cambio dei vertici di tutti gli apparati di sicurezza, conseguente all’insediamento del governo Berlusconi (maggio ‘94). Vanta un rapporto di grande stima con Ciampi, che prima lo vuole al Ministero del Tesoro; e poi come consigliere del Presidente, sino alla fine del suo settennato.
Originario di Ribera, studia a Sciacca (liceo classico); ma conosce il ministro Mannino a Torino, quando dirigeva la Scuola Allievi (1983-1984): un giorno lo chiama il generale Sateriale, che comandava la Brigata di Torino e lo invita a casa sua per presentargli un conterraneo di Sciacca, appunto l’on. Mannino: solo un incontro di presentazione, tra conterranei.
Successivamente, e anche prima di andare a dirigere la Dia, gli capitò di incontrare più volte l’on. Mannino dopo che egli era tornato a Roma con incarico di rilievo e Mannino, a sua volta, era divenuto ministro dell’Agricoltura o a capo di qualche altro dicastero. Ammette di avere avuto contatti personali, al di fuori di incontri ufficiali o per finalità istituzionali, in forza proprio della pregressa conoscenza.
Se il ministro lo chiamava per incontrano, come è certamente avvenuto, non aveva alcuna remora ad accogliere il suo invito, trattandosi comunque di una personalità di rango istituzionale, sicché lo si poteva considerare, all’epoca, un obbligo e non aveva scuse per sottrarvisi (insomma, una questione di galateo istituzionale); mentre non è mai accaduto il contrario, perché non ha mai avuto bisogno di incontrano per rappresentargli esigenze personali.
Nulla sa precisare in ordine all’oggetto di quegli incontri e a eventuali richieste. Deve però ammettere che in ragione degli incarichi ricoperti in quegli anni (tra il 1983-84 e il 1992, quando va a dirigere la Dia) non aveva alcuna “giurisdizione” sul territorio siciliano né aveva titolo per interessarsi a fatti che fossero accaduti al Mannino in Sicilia.
Peraltro, i carabinieri possono ricoprire la veste di ufficiali di polizia giudiziaria soltanto fino al grado di colonnello e quindi lui non era più ufficiale di polizia giudiziaria da quando era stato promosso al grado di generale: una precisazione spontanea, che sembra tradire la consapevolezza che le domande andassero a parare ad un suo eventuale interessamento a vicende giudiziarie del Mannino.
Conosce Subranni da anni: da quando era Capo di stato maggiore dell’Arma e lui - Subranni - andava al Comando generale a trovare un collega (il Generale Pisani, che poi diventò a sua volta Capo di stato maggiore dell’arma). Lo ha incontrato più volte, ma non hanno mai avuto rapporti per ragioni di servizio, fino a quando ha prestato servizio nell’Arma. In effetti, quando è andato a dirigere la Dia, più volte Subranni, che all’epoca era a capo del Ros, è andato a trovarlo, ma non per ragioni operative.
Erano incontri che potevano inquadrarsi in quel genere di rapporti “che si intrattengono tra Ufficiali quando ci si è conosciuti in precedenza”.
SUGLI INCONTRI TRA SUBRANNI E MANNINO
È a conoscenza di incontri personali tra i due, ma ne ricorda uno solo, che risale a quando ebbero notizia di un attentato progettato ai danni dell’on. Mannino. Allora ebbe modo di parlarne con Subranni, che aveva una sede del Ros già operativa a Palermo, affinché avvisasse l’on. Mannino del pericolo e comunque attivasse la sede di Palermo (la Dia non aveva le necessarie capacità operative, perché ancora in fase di allestimento).
Precedenti incontri presso la segreteria politica del Mannino in Roma, via Borgognone: insieme a Subranni lo esclude. Lui invece può esserci andato e deve essere successo a cavallo del suo passaggio alla Dia (o poco prima o poco dopo).
Poi però precisa che in effetti una volta ricorda di essere andato a trovare Mannino a Roma insieme a Subranni, ma presso una sede diversa da via Borgognone; e fu prima dell’episodio delle minacce al Ministro. Non ricorda però il motivo della visita. Ma forse fu solo perché Mannino desiderava conoscere Subranni o vice versa e lui li presentò.
Quando gli viene contestato dal p.m. che, testimoniando al processo a carico dell’on. Mannino (verbale d’udienza dell’8 novembre 1995), il generale Subranni aveva parlato di più incontri avvenuti presso lo studio di via Borgognone con il Mannino alla presenza anche del Generale Tavormina. Questi dice di non averne alcun ricordo, anzi di apprendere solo adesso che Subranni avesse reso quelle dichiarazioni.
Tanto meno ricorda e anzi gli giunge del tutto nuova la circostanza che, secondo quanto dichiarato sempre dal generale Subranni nel processo Mannino, in occasione di quegli incontri a tre, il Mannino avrebbe chiesto loro una mano per dimostrare l’infondatezza delle accuse rivoltegli dal pentito Spatola: neppure questo nome gli dice niente.
Tornando all’incontro di cui ha un ricordo più preciso, è probabile che sia stato Tavormina a sollecitarlo, perché forse Mannino gli aveva rappresentato le sue preoccupazioni su Palermo e allora Tavormina, non avendo una struttura di riferimento in loco cui poterlo indirizzare (per l’aiuto che chiedeva),pensò di rivolgersi a Subranni, chiedendogli di mettersi in contatto con Mannino (ndr. e qui sembrerebbe alludere al fatto che ne sia seguito un incontro tra Subranni e Mannino, avendo lui fatto solo da ponte per metterli in contatto).
Cosa gli avesse detto Mannino, di preciso non lo ricorda; ma è certo che gli aveva espresso tutta la sua preoccupazione per il fatto che evidentemente gli erano arrivate delle notizie, dei segnali in virtù dei quali riteneva che potessero esserci rischi personali, soprattutto quando lasciava Roma per tornare a Palermo.
L'OGGETTO DEGLI INCONTRI E LE MINACCE A MANNINO
È stato lo stesso Tavormina spontaneamente — come se continuando a parlarne, sgorgassero senza bisogno di alcuna sollecitazione ricordi più nitidi e dichiarazioni meno reticenti - a dire che questi incontri non è che furono numerosi, il che vai quanto dire che comunque furono anche più d’uno; sebbene lui ne ricordi uno in particolare in cui si accorse che Mannino era piuttosto preoccupato; e ne ricorda altresì un altro, e cioè l’episodio in cui fu lui, Tavormina, a preoccuparsi perché alla Dia era arrivata la notizia di un possibile — e imminente — attentato (perché da Palerno doveva recarsi ad Agrigento per il fine settimana, o qualcosa del genere): anche se non sa precisare se questo episodio avvenne prima o dopo l’incontro in cui era stato lo stesso Mannino a esprimergli la sua preoccupazione.
Propende però a ritenere, come in effetti è più plausibile, che la sua preoccupazione alla notizia del possibile attentato fosse acuita proprio dal fatto che era stato messo in preallarme per così dire dall’avere in precedenza raccolto le preoccupazioni esternate da Mannino.
Anzi, è plausibile che siano state proprio quelle esternazioni a indurre Tavormina ad attivare ogni possibile fonte per saperne di più: e ciò spiegherebbe come sia giunta alla Dia la notizia di un attentato che veniva dato per imminente o comunque già in fase avanzata di preparazione.
Stabilito l’ordine di successione tra i due episodi, il teste ritiene di potere con buona approssimazione collocare il primo episodio, quello in cui Mannino ebbe a esternargli le sue preoccupazioni, nei primi mesi del 1992, e comunque in epoca successiva non solo alla conclusione del maxi-processo, ma anche all’omicidio Lima. Quelle preoccupazioni, infatti, scaturivano da una riflessione, condivisa negli organismi investigativi dell’epoca e comunque nella Dia che riconduceva la causale dell’omicidio Lima all’esito del maxi-processo.
Non ricorda se Mannino ebbe a parlargli di specifici atti di intimidazione (del tipo di quelle di cui diedero notizia i giornali dell’epoca): non può escluderlo né confermarlo. Ma poi conferma quanto aveva dichiarato in precedenza, e precisamente all’udienza del 19 luglio 2000, al processo Mannino, quando certamente i suoi ricordi erano più freschi: in effetti, il Mannino gli “rappresentò delle grosse preoccupazioni.
A questo proposito, sentendosi appunto vittima di minacce che venivano indirizzate nei suoi confronti per l’attività politica che svolgeva a livello diciamo di evidenza in quel periodo. Quindi lui attribuiva il fatto di vivere in Sicilia e di esercitare queste sue funzioni politiche e governative a livelli così elevati, attribuiva a tutto questo. va bene, una serie di iniziative a carattere intimidatorio che venivano portate nei suoi confronti e la cosa lo preoccupava”.
Ma esclude che alla Dia fossero pervenute formali denunce di atti intimidatori; né si premurò di invitare lo stesso Mannino sporgere formale denuncia. Piuttosto, scelse di rivolgersi a Subranni, contando sulla maggiore efficienza operativa del Ros.
E al riguardo deve convenirsi che neppure Subranni o il Ros furono destinatari di una formale denuncia, né trasmisero alcun rapporto-denuncia all’a.g. (a carico di ignoti). Sicché quella che attraverso gli sforzi combinati dei comandanti di due dei principali servizi centrali di polizia giudiziaria cominciò a tessersi sarebbe stata, nella lettura che ne dà la pubblica accusa, fatta propria per questo aspetto dal primo giudice, una sorta di rete di protezione privata, ma realizzata da apparati dello stato.
Il generale Tavormina ha detto di non sapere quali iniziative abbia poi intrapreso il Ros; ma se mal non ricorda, la notizia di un possibile e imminente attentato mise i carabinieri nelle condizioni di attivarsi per verificare la notizia che in effetti poi si rivelò infondata, o meglio successivi accertamenti non diedero alcun riscontro.
Ha poi confermato che la notizia di un imminente attentato a Mannino gli giunse quando già era a capo della Dia, nella seconda metà del 1992 e faceva riferimento ad un attentato da commettere lungo il tragitto che il ministro abitualmente percorreva per recarsi da Palermo ad Agrigento. Parlandone al processo Mannino, però, in un
primo momento aveva fatto risalire l’episodio ad epoca successiva alle stragi di Capaci e via D’Amelio. Adesso non è più sicuro che quel riferimento temporale sia corretto. E in effetti, deve convenirsi che già nel corso della deposizione resa al processo Mannino, aveva rettificato la sua prima dichiarazione, precisando di non poter affatto escludere che la notizia di un possibile e imminente attentato a Mannino fosse pervenuta alla Dia già nel giugno del ‘92, ossia prima della strage di via D’Amelio.
D’altra parte, aveva sbagliato anche nel datare il suo incontro con Guazzelli [...]. In sede di riesame, ha poi confermato che gli incontri sollecitati da Mannino sul problema della sua sicurezza personale in relazione ad episodi di minacce ed intimidazione si collocano in un periodo in cui lo stesso Mannino era ministro. E questo esclude che siano avvenuti dopo la strage di via D’Amelio (“Ma verosimilmente si, guardi”).
È possibile quindi che la sicurezza che sarà ostentato dallo stesso Mannino in occasione di un intervista rilasciata mesi dopo sul Corsera (il 28 maggio 1993), nascesse dall’esito di quegli accertamenti, unito al tempo trascorso dalla notizia di un imminente attentato senza che ne fosse seguito alcun ulteriore atto intimidatorio.
Ma il 19.07.2000, sempre al processo Mannino aveva dichiarato che la notizia di minacce e di un possibile attentato aveva costretto il Ros ad adottare una serie di iniziative a tutela della personalità minacciata. Più precisamente, quanto era pervenuta alla Dia la notizia che era in preparazione un attentato ai danni di Mannino, ne aveva parlato con Subranni perché anche il Ros era stato interessato al problema della tutela del Ministro. E anche Subranni conveniva sul fatto che le minacce dovessero ricollegarsi all’attività politica del Mannino. Ammette che delle iniziative intraprese ebbe modo di parlare con il Generale Subranni. Non ricorda però di quali iniziative si sia trattato, sebbene sappia benissimo che tra i compiti d’istituto del Ros non figurano servizi di scorta a magistrati o politici o personalità attinte da minacce; e che il servizio di scorta al Ministro Mannino era affidato alla polizia di stato.
Si può obbiettare che sarebbe stato inutile potenziare il servizio di scorta. Ma, a parte che questa era una valutazione da lasciare all’organo competente, ci si deve chiedere piuttosto che cosa il Ros potesse fare, e che cosa Mannino poteva aspettarsi o chiedere che facesse, di diverso e più efficace rispetto agli strumenti operativi azionabili dalla polizia di Stato.
Tavormina al riguardo può solo ribadire che, come Dia, non avevano né gli strumenti né la competenza per portare avanti una qualsiasi iniziativa di protezione del Mannino; ma non esclude di averne parlato anche con De Gennaro che, in quanto vice-direttore della Dia, era a capo della struttura operativa. E presume di averne parlato anche a capo della polizia, il prefetto Parisi che del resto si raccordava direttamente al Prefetto De Gennaro; sicché, avendone Tavormina parlato con De Gennaro, il capo della polizia ne sarà stato informato a sua volta (Non ricorda i particolari, ma finisce per ammettere di averne parlato con De Gennaro: [...]).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei contatti fra il ministro, Bruno Contrada e il capo della Dia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 16 ottobre 2022
Ma non c’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Ciancimino. L’unico che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Orbene, va detto subito che non si può trarre dalla testimonianza del Tavormina alcun elemento certo in ordine al fatto che Mannino e Subranni si siano incontrati più volte per parlare dei problemi di sicurezza del ministro e delle iniziative intraprese dal Ros a sua tutela, nel medesimo periodo di tempo in cui si dipanò la vicenda dei contatti di Mori e De Donno con Ciancimino.
L’unico incontro che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino: notizia che, verosimilmente, precede la nota del 19 giugno 1992 a firma Subranni diffusa a vari corpi di polizia organismi investigativi circa il pericolo di attentati a varie personalità tra le quali anche due uomini politici identificati nelle persone di Mannino e Andò.
Ma a quella data il progetto di agganciare Ciancimino era già in opera, nel senso che, se non v’era stato già un primo incontro a quattr’occhi tra De Donno e Ciancimino, quanto meno il primo era in attesa di una risposta alla sua richiesta di incontrarsi (fatta avere, al secondo, per il tramite del figlio Massimo).
Quanto agli incontri — di Mannino con Subranni - desumibili dalle agende Contrada, uno non fa testo perché è databile al 13 ottobre, ossia in una fase più che avanzata della trattativa con Ciancimino e a cinque giorni dalla sua apparente rottura.
L’altra risale all’8 luglio, ma il dato non è sicuro perché l’annotazione in agenda è interlocutoria (Subranni era atteso, per andare insieme a Contrada dal ministro, ma non è detto che sia poi giunto); e comunque valgono le considerazioni precedenti, con l’aggiunta che a quella data era già iniziata, con tutta probabilità, la sequenza degli incontri preliminari tra il capitano De Donno e Vito Ciancimino.
Detto questo, non si può presumere che vi siano stati altri incontri solo perché ciò tornerebbe utile a far quadrare l’ipotesi accusatoria; e tanto meno si possono colmare i vuoti della deposizione di Tavormina, costellata di reticenze e amnesie, e la mancata acquisizione di ulteriori dati, imputabili alla scelta difensiva di non dare ingresso alla produzione da parte del pm dei verbali delle dichiarazioni rese dal generale Subranni al processo Mannino, dando per provato ciò che nessuno dei partecipanti a quegli incontri triangolari — per quanto possa desumersi dalle risultanze dei processo Mannino e Contrada e dalla motivazione delle stesse richieste di acquisizione di quei verbali — ha mai dichiarato o lasciato intendere: e cioè che Mannino abbia dato incarico a Subranni, che a sua volta avrebbe girato l’incarico ai suoi sottoposti, di tentare un approccio con i vertici di Cosa nostra; o che una simile iniziativa sia stata concertata tra Subranni e Mannino in occasione di uno o più di quegli incontri.
Resta, è vero, l’incertezza sulle iniziative che, a dire dello stesso Tavormina, furono effettivamente intraprese dagli uomini del Ros a tutela dell’influente uomo politico; e l’imbarazzo del dichiarante nel non riuscire a mettere a fuoco i propri ricordi sul punto, pur avendo finito per ammettere che di quelle iniziative ebbe a parlare con Subranni.
Ma non si può da ciò ricavarne che esse si concretizzarono proprio in un tentativo diretto ad intavolare una trattativa con Cosa nostra, giacché non si può escludere che si siano limitati ad attivare i canali e terminali della propria rete info-investigativa (e in tale ottica si spiegherebbe la visita del capitano Sinico, insieme al maresciallo Lombardo, per compulsare una fonte di quest’ultimo, Girolamo D’anna, al carcere di Fossombrone il 15 giugno 1992, quattro giorni prima che venisse diramata l’allarmata e allarmante nota a firma del C.te del Ros circa possibili e imminenti attentati ad alcune personalità, tra le quali anche il ministro Mannino) o abbiano condotto specifici accertamenti per verificare la fondatezza della notizia di un imminente attentato (accertamenti che poi, a dire dello stesso Tavormina, non diedero esito).
Quanto alla suggestione derivante dalla coincidenza temporale, ovvero il fatto che nello stesso torno di tempo si andava dipanando la vicenda dei contatti con Vito Ciancimino finalizzati, nelle dichiarate intenzione dei diretti protagonisti, a fermare le stragi, si può concedere al più che Subranni ne abbia informato Mannino, condividendone l’utilità anche ai fini della problematica legata alle preoccupazioni del ministro per la propria incolumità: ma senza per ciò stesso inferirne che quell’iniziativa sia nata e sia stata tra loro concertata per quella specifica finalità, dal momento che nulla smentisce l’assunto che l’idea originaria sia stata concepita da Mori e De Donno (quest’ultimo raccogliendo un input del suo comandante a ricercare fonti di livello superiore alle schiere di confidenti, che fossero utili ad acquisire conoscenze e informazioni sulle dinamiche criminali in atto).
Come non v’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Massimo Ciancimino.
ALCUNE AMMISSIONI
È forse per sopperire a questa rarefazione probatoria, e poter dimostrare l‘esistenza, l’oggetto e la collocazione temporale degli assenti incontri di Subranni con Mannino, ed anche con Contrada, sul problema delle minacce allo stesso Mannino e delle iniziative da intraprendere per la sua protezione, che il p.g. Aveva prodotto, chiedendone l’acquisizione, il verbale delle dichiarazioni rese dal generale Subranni al pm l’8 settembre 1995 nell’ambito del procedimento a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa; il verbale dell’interrogatorio di garanzia reso dallo stesso Mannino in data 15 febbraio 1995; i verbali delle deposizioni testimoniali rese all’udienza del 19.07.2000 dallo stesso Subranni e dal dirigente del Sisde Bruno Contrada, sempre nel procedimento a carico del Mannino: atti dai quali emergerebbe che Mannino ebbe ad incontrare sia Subranni che Contrada, tra i mesi di giugno e ottobre del ‘92, anche per parlare con loro delle minacce ricevute e delle preoccupazioni per la sua incolumità.
I difensori di Subranni, ma anche i difensori dei coimputati Mori e De Donno, si sono opposti alla richiesta di acquisizione dei verbali predetti che quindi non hanno avuto ingresso nel materiale probatorio utilizzabile da questa corte.
Una scelta processuale del tutto legittima e insindacabile, da cui non possono ricavarsi indizi a carico del Subranni — e di riflesso anche nei riguardi degli altri due coimputati — per avere sbarrato l’ingresso a materiali di prova compromettenti per la propria posizione.
[…] Ne segue che il tema delle triangolazioni (Mannino-Subranni; Mannino-Contrada; Mannino con Subranni e Contrada insieme) è stato sviscerato nel giudizio d’appello del processo-stralcio a carico di Calogero Mannino assai più di quanto non sia stato possibile fare in questa sede, proprio perché in quel giudizio avevano trovato ingresso e sono stati utilizzati anche i verbali di prova di altro procedimento che invece qui non sono stati acquisiti, non avendo i difensori degli imputati prestato il necessario consenso ex art. 238 c.p.. Ma gli esiti, nel separato giudizio d’appello, non sono stati meno deludenti per le aspettative che la pubblica accusa riponeva in quelle allegazioni probatorie.
Infatti, i giudici d’appello del processo stralcio a carico del Mannino danno atto della sostanziale convergenza che si registra tra le dichiarazioni ammissive di Mannino, di Contrada e dello stesso Subranni circa il fatto che, nel periodo compreso tra giugno e ottobre del ‘92 vi furono tra loro diversi incontri vertenti sia sul problema delle minacce ricevute dal ministro Mannino che sull’esposto anonimo denominato Corvo2 e sulle relative indagini.
A tale convergenza si sottrae solo il rifiuto di Subranni di ammettere di avere incontrato Mannino insieme a Contrada, rifiuto reiterato anche dopo che, secondo quanto si legge nella sentenza di assoluzione del Mannino, gli fu contestato che tale circostanza era stata ammessa dagli altri due soggetti chiamati in causa. Ma per il resto, i tre dichiaranti confermano che vi furono diversi incontri «tra il ministro, il capo del Ros ed il capo del Sisde aventi ad oggetto la sicurezza personale dell’uomo di governo e le accuse contenute nell’anonimo ‘Corvo 2’ vi è più sfociate anche in una riunione istituzionale a cui avevano partecipato la Criminalpol, la Dia, il Ros, il Sismi, il Sisde».
Gli stessi giudici pervengono però alla conclusione che, su entrambi i temi che furono oggetto di quegli incontri, «gli interessi in gioco in quel periodo, quando già era avvenuta la strage di Capaci, non solo per la sicurezza della vita degli uomini di governo, ma anche per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, rendessero assolutamente plausibile la mobilitazione, nell’interesse del ministro Mannino, come di altre alte istituzioni dello stato, di tutte le forze di polizia, militari e d’intelligence dello stato italiano».
In altri termini, non vi sarebbero stato, nelle acclarate triangolazioni, tenuto conto del contesto in cui avvennero e delle prerogative e competenze dei soggetti che vi parteciparono, nulla di anomalo o non ortodosso. Ebbene, ritiene questa corte di dover pervenire ad analoghe conclusioni, con le precisazioni che seguono.
Anzitutto, deve convenirsi che, [...] la circostanza di una sequenza di incontri tra i medesimi soggetti, ma anche quella di analoghe e più o meno contestuali triangolazioni Mannino-Subranni e Mannino-Tavormina, Tavormina-Guazzelli-Subranni, sempre sul tema delle minacce al ministro Mannino e delle possibili iniziative da intraprendere a tutela della sua incolumità, è un dato che può considerarsi pacificamente acquisito in almeno due processi definiti ormai con sentenze parimenti irrevocabili. Sul punto, nella memoria depositata il 5 luglio 2021 nella fase della discussione finale del presente giudizio d’appello, le difese di Mori e De Donno non si sottraggono al confronto con l’argomento su cui ha insistito il p.g. nella sua requisitoria; ma si limitano ad ammettere ciò che può evincersi dalle annotazioni contenute nelle agende del Contrada, che fanno parte del compendio dibattimentale.
Si ammette dunque che Mannino abbia incontrato Contrada il 25 giugno, ma da solo e non insieme a Subranni, e comunque dopo che era stata diramata (il 19 giugno ‘92) l’allarmata e allarmante nota del Ros, a firma del Generale Subranni, che segnalava il pericolo concreto di attentati ai danni di cinque personalità, tra cui il Ministro Calogero Mannino.
Ed ancora si ammette che Mannino abbia incontrato Subranni e Contrada insieme: ma una sola volta, e cioè il 13 ottobre ‘92 [...] ossia appena cinque giorni prima dell’ultimo di una serie (iniziata mesi prima) di molteplici incontri che De Donno, prima, e poi lo stesso De Donno insieme al Colonnello Mori, avevano avuto con Vito Ciancimino.
Mentre per la giornata dell’8 luglio risultano annotati sia un incontro con il Generale Subranni che un appuntamento in via Borgognone 47, presso lo studio dell’on. Mannino, ma sembrerebbe trattarsi di annotazioni separate. Quanto alla suggestione derivante dalla coincidenza temporale, ovvero il fatto che nello stesso torno di tempo si andava dipanando la vicenda dei contatti con Vito Ciancimino finalizzati, nelle dichiarate intenzione dei diretti protagonisti, a fermare le stragi, si può concedere al più che Subranni ne abbia informato Mannino, condividendone l’utilità anche ai fini della problematica legata alle preoccupazioni del ministro per la propria incolumità: ma senza per ciò stesso inferirne che quell’iniziativa sia nata e sia stata tra loro concertata per quella specifica finalità, dal momento che nulla smentisce l’assunto che l’idea originaria sia stata concepita da Mori e De Donno (quest’ultimo raccogliendo un input del suo comandante a ricercare fonti di livello superiore alle schiere di confidenti, che fossero utili ad acquisire conoscenze e informazioni sulle dinamiche criminali in atto).
Come non v’è prova di incontri tra Mannino e Subranni nel periodo di tempo compreso tra la strage di Capaci e la prima presa di contatto di De Donno con Massimo Ciancimino.
L’unico che si può desumere dalle pur evasive o reticenti dichiarazioni dell’ex capo della Dia, come già detto, è quello seguito alla notizia di un imminente attentato a Mannino: […]. Non sarebbe provato quindi, a tutto concedere, che Subranni si sia incontrato con Mannino in tempi compatibili con l’ipotesi che la presunta Trattativa Stato-mafia possa essere scaturita da un input di Mannino a Subranni, o addirittura da un apposito incarico conferito dall’ancora influente uomo politico al Comandante del Ros.
La difesa glissa sull’altra triangolazione, quella facente capo al Generale Tavormina (Mannino-Guazzelli, Guazzelli-Tavormina-Subranni), e che si sarebbe dipanata a cavallo dell’omicidio Guazzelli (4 aprile 1992). Ma è anche vero che questa ulteriore triangolazione, che in parte precede e in parte s’intreccia all’altra, risale ad almeno due mesi prima che venisse concepito e messo in atto il progetto di contattare Vito Ciancimino, che prenderà forma solo dopo la strage di Capaci.
Ciò posto, a rivelarsi fallace è la premessa su cui si fonda l’intero ragionamento che ha condotto il giudice di prime cure a riconoscere al Mannino un ruolo fondamentale per avere innescato e, in qualche modo, “ispirato” quel progetto.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Dopo la sentenza del maxi processo, minacce e un’intervista fantasma. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 17 ottobre 2022
«I rapporti di polizia parlano di pressioni fortissime esercitate su quegli esponenti politici che, secondo la mafia, non hanno voluto contrastare gli inasprimenti governativi o che non fanno nulla per cambiare le cose nel senso voluto dalla piovra»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Inoltre, Mannino aveva parlato anche pubblicamente delle minacce ricevute: il 15 ottobre 1991, intervista ad Enzo Biagi pubblicato su Corsera con un articolo dal titolo “Sicilia che uccide, anche con le parole”, in cui si parla dei tre mazzi di crisantemi davanti alla porta della sua abitazione; il 1° aprile 1992, articolo sul GdS: “Mannino, bomba nel comitato elettorale”, con riferimento all’attentato di Misilmeri a proposito del quale il Ministro esprime il convincimento che si trattasse di un attentato mafioso diretto contro la DC; il 5 aprile 1992, articolo pubblicato su La Sicilia, dal titolo eloquente: “L’onorevole nel mirino”; il 25 luglio 1992, articolo pubblicato su La Stampa, dal titolo: “Anche Mannino protetto in un luogo super segreto”, in cui si dà notizia che Mannino era stato trasferito in un luogo protetto fuori della Sicilia, perché, al pari di altri politici siciliani, ritenuto bersaglio di possibili e imminenti attentati, tanto da indurlo ad entrare nel nuovo governo (l’epoca è quella della pubblicazione dell’articolo di Padellaro che riporta sostanzialmente il contenuto dell’intervista ombra rilasciatagli da Mannino l’8 luglio); il 3 agosto 1992, articolo pubblicato su Il Giornale, dal titolo “La mafia minaccia Mannino” dà notizia che un rapporto del Ros aveva individuato, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, come possibili bersagli di nuovi attentati, alcuni politici siciliani e in primis Mannino, e cinque magistrati siciliani di cui si facevano i nomi; il 25 ottobre 1992: articolo pubblicato su Il Giornale dal titolo: “L’autobomba...allarme a Roma” in cui si parla di un probabile attentato a Roma con il tritolo ai danni del giudice Ayala o dell’ex ministro Mannino, indicato come leader dello Scudo crociato in Sicilia.
La sentenza d’appello del processo stralcio ne inferisce, con logica deduzione, che minacce e intimidazioni indirizzate al Mannino erano state puntualmente denunciate dall’interessato o dai suoi più stretti collaboratori (o dal personale di polizia addetto alla sua tutela); e soprattutto avevano avuto risalto mediatico anche grazie alle interviste rilasciate dallo stesso Mannino all’epoca dei fatti.
L’INTERVISTA “ANONIMA” A PADELLARO
Non sembra che dalla testimonianza Padellaro o dalle dichiarazioni de relato di Francesco Onorato siano emerse risultanze di segno contrario, e tali da inficiare la conclusione predetta.
Mannino ha riferito al giornalista Padellaro di un possibile e imminente attentato di cui gli avevano parlato, con dovizia di particolari, i carabinieri. Ma tale notizia con tutta probabilità si riferiva a quella segnalazione, pervenuta alla Dia e girata “per competenza operativa” al Ros, di cui ha parlato il generale Tavormina.
Mannino però rivelò a Padellaro anche di essere stato avvicinato da soggetti - di cui non fece nomi né indicò elementi che aiutassero a identificarli - che avrebbero fatto pressione per indurlo ad adoperarsi a favore dell’organizzazione mafiosa, spendendo la sua intelligenza e capacità d’influenza politica per procacciare concreti vantaggi e benefici ai mafiosi.
Onorato dal canto suo si è limitato a riferire di avere appreso da Salvatore Biondino che anche Mannino, così come Lima e altri esponenti politici accusati di avere voltato le spalle a Cosa nostra o di averne deluso le aspettative, era stato convocato al cospetto dei capi dell’organizzazione per rendere conto del suo comportamento.
Il collaboratore predetto non ha saputo precisare se Mannino rispose alla convocazione, o disertò l’appuntamento come Lima; ma è certo che ne era stata decretata la condanna a morte, mentre non gli risulta che tale condanna fosse stata revocata. Anzi, per la precisione, Onorato ha detto che, per quanto a sua conoscenza, non sopraggiunse alcun ordine di fermarsi: tutti coloro che erano iscritti nella black list detenuta da Salvatore Biondino delle persone da eliminare, e in particolare dei politici, dovevano essere ammazzati. E in quella lista è certo che c’era il nominativo di Mannino.
Ora non è qui in discussione l’attendibilità della “testimonianza” di Onorato con tutti i limiti derivanti dal fatto che riferisce fatti di cui non ha avuto conoscenza diretta; ma la fonte di riferimento era certamente qualificato e in grado di parlarne con cognizione di causa. Resta però il fatto che Onorato non sa se Mannino si presentò all’appuntamento, né è chiaro se tale appuntamento gli era stato dato per concedergli un’ultima chance di salvezza, o per mettere in esecuzione un verdetto irrevocabile già emesso dal tribunale di Cosa nostra. [...] L’unico elemento che può in qualche modo tornare a riscontro delle dichiarazioni de relato di Onorato è la confessione fatta dallo stesso Mannino a Padellaro di essere stato fatto segno ad avvertimenti minacciosi, sia pure sotto forma di amichevoli suggerimenti: e di tali avvertimenti si era guardato bene dal riferirne all’A.g. o ad organi di polizia.
Ma da ciò non può inferirsi addirittura la prova di una circostanza di cui neppure lo stesso Onorato può essere certo (e cioè che Mannino abbia risposto alla chiamata, e si sia messo a disposizione, nel senso di assumere l’impegno di adoperarsi per propiziare sviluppi favorevoli agli interessi di Cosa nostra), perché Biondino si limitò a dirgli che Lima aveva dato buca, cioè non si era presentato all’appuntamento, e quindi era divenuto urgente procedere alla sua eliminazione (e allora questo era diventato pericoloso, questa cosa che lui non si è presentato, ecco perché c'era la fretta di uccidere Salvo Lima. Perché quando una persona, se ci dai un appuntamento e non si presenta, si ci va subito a sparare, anche in Cosa nostra tra uomini d’onore era così, perché certamente se non si presenta vuol dire che ha capito qualcosa). Nulla gli disse degli altri politici che erano stati convocati (a me mi ha detto che l’appuntamento era stato dato a Lima con altri politici, però mi ha detto di Lima).
Ma è anche vero che nel corso della medesima disposizione, nel passaggio immediatamente precedente, aveva detto che nessuno degli altri politici convocati come Lima all’Hotel Perla del Golfo (di proprietà di un avvocato con cui Lima aveva rapporti d’affari) si era presentato («dopo la sentenza del maxi-processo c’è stato subito che avevano dato mi diceva Salvatore Biondino che avevano dato l’appuntamento a Salvo Lima e che liti aveva fatto buca, non si era presentato. Ma non solo Salvo Lima, anche queste persone che io ho parlato... di politici, di politici, tanti politici che sono stati fissati degli appuntamenti e non si sono neanche presentati»).
E tra i politici che aveva prima menzionato come obbiettivi da colpire, aveva fatto (ripetutamente) il nome di Calogero Mannino, così come quello del ministro Calogero Vizzini (lo chiama ripetutamente Calogero, ma è evidente che si tratta di un lapsus, che non dà però adito ad alcun dubbio di confusione con il ministro Calogero Mannino perché a specifica domanda, il collaboratore di giustizia ha precisato che si trattava di due diversi esponenti politici, entrambi condannati a morte da Cosa nostra).
D’altra parte, la convocazione di cui parla l'Onorato risalirebbe a febbraio del ‘92, poiché la mancata presentazione di Lima indusse a rompere gli indugi e procedere alle attività propedeutiche all’esecuzione del delitto che poi avvenne il 12 marzo.
[…] E in effetti, tra le pieghe della deposizione di Francesco Onorato si rinviene un episodio minore che confermerebbe questi esiti interpretativi. Il collaboratore di giustizia ha infatti confermato quanto aveva riferito già al Borsellino Ter: circa 20 giorni dopo l’uccisione di Lima, egli si stava preparando a porre in esecuzione anche l’omicidio già programmato del figlio di Lima (Marcello). Ma il Biondino lo stoppò, dicendogli che c’erano obbiettivi più importanti a cui lavorare, e gli disse che «dovevano rompere le corna a Falcone e al dr. Borsellino e sì, a tutti quelli, c'era anche Vizzini, c’erano tutti quelli che ho detto». (Non ha qui menzionato espressamente il ministro Mannino, ma ne aveva fatto il nome poco prima insieme agli altri politici da eliminare).
In entrambe le ipotesi sopra delineate, comunque, la testimonianza de relato di Onorato non è di alcun ausilio alla ricostruzione che vorrebbe Calogero Mannino partecipe di un accordo raggiunto con i vertici mafiosi che contemplasse il suo impegno ad avviare o gettare le basi di un negoziato tra Io Stato e Cosa Nostra (in cambio della sospensione o della revoca della sua condanna a morte).
Nella prospettazione accusatoria ribadita dal p.g. nella sua requisitoria, tale ipotesi ricostruttiva viene rilanciata — non avendo la pubblica accusa rinunciato all’assunto di un ruolo decisivo del Mannino nella vicenda che qui ci occupa, ad onta della sua definitiva assoluzione nel separato procedimento a suo carico — proprio sulla scorta della testimonianza di Giovanni Brusca, che ha parlato di un improvviso stop intimatogli da Biondino quando era ormai pronto a mettere in atto il piano per uccidere Mannino.
Ma, almeno per quanto concerne il contributo testimoniale di Onorato, deve ribadirsi che, pur valutato in combinato disposto con la testimonianza del giornalista Antonio Padellaro sulla cripto intervista a Mannino, il massimo risultato che se ne può trarre è nel senso di una conferma della circostanza che, già a cavallo dell’omicidio Lima, il ministro era stato fatto segno a tentativi di avvicinamento, e ad avvertimenti minacciosi e dal tenore inequivocabile, che lo ammonivano ad adoperarsi per promuovere l’adozione di misure a favore dell’organizzazione mafiosa, come lo stesso Mannino ebbe a confidare al Padellaro.
AVVERTIMENTI E MINACCE
E del resto, ulteriori riscontri fattuali alla validità di tal ricostruzione si ricavano dall’evidente intensificazione di minacce e atti di intimidazione subiti dal Ministro Mannino nel 1992, e anche dopo l’omicidio Lima, e dalla loro sequenza cronologica. Si spiega perfettamente che il risentimento e i propositi bellicosi contro Mannino da parte di Cosa nostra montino a partire dal 1991: egli era stato ministro del governo che aveva approvato alcuni dei provvedimenti più incisivi a supporto dell’azione repressiva del fenomeno mafioso.
Il link con la conclusione sfavorevole del maxi processo è indiretto: già prima che venisse emanata la sentenza, viene deliberata, prevedendo quell’esito, la strategia di attacco frontale allo Stato che contemplava l’eliminazione dei rami secchi della politica, ossia l’uccisione dei politici rivelatisi inaffidabili; e Mannino era divenuto inaffidabile, agli occhi degli affiliati a Cosa nostra, anche a prescindere dal non avere fatto nulla per favorire un esito propizio del maxi processo, al pari di Lima, o, come da ultimo sostenuto da Brusca, per non essersi interessato per l’aggiustamento del processo per l’omicidio del Capitano Basile — o almeno per non avere fatto quel che Riina voleva che egli facesse per favorire una decisione favorevole — o per essere divenuto inviso alle cosche agrigentine, già solo per aver fatto parte di una compagine di governo che aveva varato un pacchetto di misure antimafia, senza che egli avesse mosso un dito per contrastarle.
E tuttavia, solo quando il verdetto emesso consacrò un esito che veniva ornai dato per scontato, si decise di passare alla fase esecutiva: per Mannino come per Lima e per gli altri politici che avevano voltato le spalle a Cosa nostra (o almeno questa era la narrazione corrente tra le fila dell’organizzazione mafiosa, per quanto fu dato conoscere ai collaboratori di giustizia che ne hanno riferito) facendo infuriare Riina.
Ma se è vero che Lima era solo il primo di una nutrita lista di uomini politici da eliminare perché avevano voltato le spalle a Cosa nostra (insieme a magistrati e appartenenti alle forze dell’ordine che invece dovevano essere uccisi per avere strenuamente ed efficacemente combattuto l’organizzazione mafiosa), e in quella lista figurava tra gli altri il nominativo del Ministro Mannino, che senso avrebbe avuto rinnovare ancora fino a luglio e anche dopo la strage di via D’Amelio, minacce e intimidazioni?
È evidente quelle intimidazioni potevano ritenersi di matrice mafiosa solo ammettendo che l’intento fosse quello di concedere a Mannino un’ultima chance, e cioè, come lui stesso del resto ebbe a confidare al giornalista Padellaro, adoperarsi per salvaguardare gli interessi di Cosa nostra.
Ora, è vero che, a differenza degli atti di intimidazione oggetto di formali denunce o segnalazioni alle autorità di polizia (da parte dello stesso Mannino o di suoi stretti collaboratori), egli non fece altrettanto per le pressioni e gli avvertimenti minacciosi, magari paludati da amichevoli consigli, di cui riferì al Padellaro.
Ma è assolutamente comprensibile che non volesse renderle pubbliche, perché ciò lo avrebbe messo in grave imbarazzo, vuoi per l’identità dei soggetti da cui promanavano, vuoi perché sarebbe stato arduo farne materia di denuncia, non consistendo in minacce esplicite. Un’eventuale segnalazione non avrebbe sortito altro effetto che quello di accrescere la sua esposizione al pericolo. E tuttavia, non possiamo prenderci in giro.
Se l’ex ministro ne fece materia di rivelazioni confidenziali e off records ad un noto giornalista come Antonio Padellaro, e sapendo che egli stava curando un reportage sugli accadimenti siciliani, fu perché voleva che la notizia trapelasse all’esterno, sia pure con modalità che non lo esponessero più di tanto.
Pretese infatti che nell’eventuale articolo che il Padellaro avesse pubblicato, traendo contenuti e notizie dal loro colloquio confidenziale, non facesse il suo nome, né gli attribuisse alcun virgolettato, di tal che egli potesse in qualsiasi momento negare la paternità del dichiarato.
Ma al contempo, non si dolse, dopo la pubblicazione su L’Espresso dell’articolo “Con la morte addosso” (quello pubblicato il 26 luglio 1992, per intenderci), del fatto che esso contenesse elementi che consentivano di ricondurre proprio a lui l’innominato deputato democristiano siciliano ed ex ministro indicato dall’Arma come a rischio di attentati, nonché fatto segno a minacciose pressioni (“Dice di sé: cammino con la morte addosso. Se il deputato democristiano in cima alla lista di Cosa Nostra si attiene ai consigli dell’Arma...”; “I rapporti di polizia parlano di pressioni fortissime esercitate su quegli esponenti politici che, secondo la mafia, non hanno voluto contrastare gli inasprimenti governativi o che non fanno nulla per cambiare le cose nel senso voluto dalla piovra”. Ed ancora: “Ai parlamentari ed a ministri sotto tiro, non resterebbe quindi molta scelta: tenere duro o piegarsi...”); né avanzò nei riguardi del Padellaro alcuna rimostranza, neppure privatamente.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Niente di “disdicevole” nei rapporti tra politici e generali. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 18 ottobre 2022
Mannino si rivolse ai vertici dei maggiori apparati investigativi e di intelligence dell’epoca; o almeno a quelli cui più facilmente poteva accedere sfruttando le proprie relazioni e i propri apparati di conoscenza anche personali. Rapporti che ovviamente gli offrivano opportunità di accesso e di ascolto — e di essere ascoltato — che restavano preclusi a un comune cittadino
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Insomma, la lettura più ragionevole della decisione di Mannino di rilasciare quella sorta di intervista-confessione “fantasma” è che egli abbia sfruttato l’interesse del giornalista a raccogliere in esclusiva quelle confidenze per fare trapelare all’esterno, fra l’altro, la circostanza che egli era vittima anche di insidiosi avvertimenti, e che cosa si pretendeva da lui.
Che poi era un modo intelligente per tenere desta l’attenzione sul suo caso, accreditando di sé l’immagine di politico che non si era piegato al ricatto mafioso, ma al contempo (per) non essere lasciato solo a dover fronteggiare quelle pressioni, facendo chiaramente intendere (almeno a chi doveva intenderlo) quale fosse la posta in palio: o tenere duro, o piegarsi.
Si può persino intravedere, in una simile prospettazione, anche un appello accorato a che la Politica si assumesse le proprie responsabilità, e non fossero i singoli a dover fare quella scelta. Ma deve convenirsi che in ogni caso le esternazioni di Mannino, cui dare pubblico risalto per interposta persona e senza scoprirsi in modo esplicito, contrastano con l’ipotesi che lo prefigura quale ispiratore di trarne sotterranee volte ad avviare un dialogo con Cosa nostra.
È certo infatti che un’eventuale trattativa tra lo stato e Cosa nostra, per avere chance di successo, doveva svilupparsi sottotraccia e nel più assoluto riserbo, senza dare pubblicità ai termini della questione e alla posta in palio. E se stiamo alle risultanze acquisite, non si può dire che Calogero Mannino avesse fatto di tutto per occultare o mettere la sordina alle minacce ricevute e alla condizione di ricatto in cui lui stesso versava. Né può trarsi argomento di segno contrario dal riserbo con cui si svolsero — o si sarebbero svolti — gli incontri con Subranni, vertenti sul problema della sicurezza personale del ministro (o dell’onorevole) Mannino. Ed invero, alla luce delle risultanze emerse sul tenore dei rapporti tra Manino e Guazzelli, tra Mannino e Subranni e tra Subranni e Guazzelli non può escludersi in effetti che in epoca anteriore e prossima all’uccisione del maresciallo Guazzelli – e in un contesto di crescente emergenza legata alla sequela di attentati e omicidi – questi abbia incontrato Mannino per parlare delle problematiche relative alla sua sicurezza, come già era avvenuto in precedenza; e che di tali argomenti a sua volta Subranni abbia parlato con Guazzelli, sempre poco prima della sua morte, sollecitandone un abboccamento con Mannino: ciò che sarebbe avvenuto anche il giorno prima che venisse ucciso, quando Guazzelli rientrò in Sicilia reduce dalla trasferta romana [...].
Ma, al netto del riguardo e della sollecitudine usata (da Tavormina come da Subranni, come dal povero Guazzelli) anche in ragione di pregressi rapporti di conoscenza personale, o per ingraziarsi i favori di un potente uomo politico, non vi sarebbe nulla di disdicevole, o di inappropriato rispetto ai doveri istituzionali nel fatto che la sicurezza del Ministro fosse oggetto di particolare attenzione da parte dell’Arma, sia nella persona di uno dei sottufficiali più impegnati ed esperti di indagini antimafia nel territorio di provenienza del Ministro, sia nella persona degli alti Ufficiali che ricoprivano ruoli apicali negli organismi ed apparati di intelligence a livello nazionale [...].
Il Ros aveva particolari competenze e conoscenze per porre in essere una tutela “preventiva” dell’incolumità del ministro, attivando la propria rete di fonti info-investigative, ma anche predisponendo all’occorrenza sevizi particolari di protezione (in occasione di spostamenti della personalità a rischio o di particolari situazioni di pericolo) o rafforzando quelli ordinari (come sarebbe avvenuto proprio nell’estate del ‘92, secondo quanto il generale Tavormina aveva riferito all’udienza de 19.07.2000, nell’ambito del processo a carico di Calogero Mannino per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa — v. supra — salvo non serbarne memoria quando ha deposto, quasi 15 anni dopo, nel primo grado del presente giudizio).
Lo stesso poteva dirsi della Dia, almeno stando alle competenze previste dalla legge istitutiva, che ne faceva addirittura l’organo verso il quale avrebbero dovuto confluire tutte le informazioni raccolte su vicende e indagini in materia di criminalità mafiose da parte degli altri organismi investigativi. E peraltro tra i suoi primi compiti operativi, come ben rammenta il generale Tavormina, vi fu proprio la gestione di alcuni nuovi pentiti del calibro di Mutolo, Messina e, da settembre del ‘92, anche Marchese Giuseppe (anche se la sua collaborazione con la giustizia verrà formalizzata solo a novembre).
Mentre il fatto che della sua tutela fosse incaricata, come servizio di scorta, la polizia di stato nulla toglieva alla possibilità che altri organismi di polizia o di intelligence venissero mobilitati per la tutela di un’alta carica dello stato (Mannino all’epoca era ancora ministro in carica), disponendo dei mezzi e delle conoscenze e delle competenze necessarie per sventare attentati.
Così pure i (successivi) contatti tra Mannino e Subranni e tra Mannino e Contrada si sarebbero svolti con modalità sì riservate, ma rientravano nell’ambito delle rispettive competenze e non avevano in sé nulla di clandestino o occulto. Né il riserbo doveroso su quegli incontri, proprio per la delicatezza del loro oggetto e delle eventuali informazioni e valutazioni che i partecipanti si fossero scambiati, poteva di per sé far pensare a interessi reconditi e inconfessabili che esulassero da finalità istituzionali.
“SOLLECITAZIONI” ANCHE ALLA DIA E AL SISDE
Insomma, il giudice di prime cure, a parere di questa Corte, ha omesso di considerare il dato più significativo che emerge dalle triangolazioni di incontri sopra ricordate [...], precedute da altre triangolazioni, avvenute queste a cavallo dell’omicidio Lima, di cui aveva fatto parte il povero maresciallo Guazzelli e pure vertenti sul problema della sicurezza del ministro. E il dato più significativo è che il Mannino non rivolse soltanto ai carabinieri, rectius, al generale Subranni quale Comandante del Ros, la sollecitazione a intervenire in suo favore, contro il pericolo da cui si sentiva sovrastato; ma analoga sollecitazione rivolse al capo della Dia, nella persona del Generale Tavormina, e al nr. 2 o nr. 3 del Sisde, dott. Bruno Contrada.
In pratica, egli si rivolse ai vertici dei maggiori apparati investigativi e di intelligence dell’epoca; o almeno a quelli cui più facilmente poteva accedere sfruttando le proprie relazioni e i propri apparati di conoscenza anche personali. Rapporti che ovviamente gli offrivano opportunità di accesso e di ascolto — e di essere ascoltato — che restavano preclusi a un comune cittadino o anche ad un uomo politico che non disponesse delle sue entrature e relazioni.
E non si può certo dire che avesse bussato alle porte sbagliate, per non avere, gli interlocutori prescelti, alcuna competenza a provvedere sulla protezione delle personalità a rischio.
Va ribadito infatti che essi erano a capo, o ai vertici, di organismi investigativi di rilievo nazionale, altamente specializzati in attività info-investigative; ed era di loro specifica competenza Io svolgimento di indagini in materia di criminalità organizzata e mirate, tra l’altro, anche a sventare o prevenire il pericolo di eventuali attentati, o a individuarne e arrestarne i responsabili, o a catturare o favorire la cattura di pericolosi latitanti, e persino infiltrare le organizzazioni mafiose: tutti obbiettivi che potevano tornare utili a risolvere il problema della sicurezza personale del ministro Mannino, o almeno a rispondere al suo bisogno di protezione molto più efficacemente dei tradizionali servizi di scorta o di vigilanza fissa o dinamica.
Ma, al contempo, erano obbiettivi assolutamente fuori della portata del personale e degli organi preposti istituzionalmente ai servizi ordinari di tutela e scorta delle personalità a rischio.
E l’altro dato da considerare è che, […] attraverso l’intervento dei Carabinieri, egli si aspettava di ottenere risultati non diversi da quelli per i quali aveva contestualmente sollecitato l’intervento della Dia e Sisde. Né si può dire che Mannino si sentisse autorizzato a lasciarsi andare con il generale Subranni a sollecitazioni o inviti e richieste che non avrebbe potuto rivolgere agli altri qualificati interlocutori sul tema della sua protezione personale.
Sorvolando sulle ammissioni da parte di Contrada circa l’esistenza di una frequentazione e di incontri avvenuti in quel periodo anche per motivi squisitamente personali (ne dà conto la sentenza d’appello del processo stralcio, pur non avendo avuto ingresso in questa sede i verbali delle dichiarazioni rese dal Contrada e dallo stesso Mannino), è certo che il generale Tavormina, come lui stesso ha ammesso, aveva con il Mannino un rapporto di conoscenza e frequentazione e persino di (dichiarata) amicizia personale assai più profondo e risalente (si erano conosciuti nel 1982), considerato che Subranni avrebbe fatto la conoscenza di Mannino solo nel 1991, e che era stato proprio il generale Tavormina a presentarli l’uno all’altro.
Non v’è dunque ragione di escludere, e deve anzi ritenersi più che probabile, che la sollecitazione che Mannino trasmise ai carabinieri del Ros come pure alla Dia e al Sisde fu nel senso di attivare i rispettivi canali info-investigativi e di impiegare le proprie risorse per sviluppare le indagini mirate ad individuare la fonte delle minacce e neutralizzare il pericolo concreto di eventuali attentati.
Del resto, la nota a firma proprio del Generale Subranni del 19 giugno 1992, che allertava il comando generale dell’Arma perché si facesse carico di informarne le autorità centrali (e quindi a cascata tutti gli organi di polizia e le forze dell’ordine) e intraprendere le iniziative necessarie contro il pericolo di imminenti attentati alle cinque personalità ivi indicate, tra cui gli on. Calogero Mannino e Salvo Andò, sembra proprio rispecchiare il tenore più probabile di quei colloqui. Alcuni passaggi, in particolare, che assemblano le informazioni attinte da fonti fiduciarie con le indicazioni degli analisti dell’Arma sulla matrice delle minacce e sulle loro probabili finalità, soprattutto nella parte in cui si riferiscono al rischio di attentati ai due esponenti politici menzionati s’incrociano perfettamente con le preoccupazioni espresse dall’on. Mannino al Padellaro e con l’analisi della situazione in atto e dei recenti fatti di sangue in Sicilia dallo stesso uomo politico rassegnata al giornalista. Naturalmente, nella logica propria dei teoremi accusatori che non si curino di cimentarsi sul non facile terreno della verifica probatoria, si può sempre sostenere che quella nitidamente sintetizzata nel documento citato era la posizione “ufficiale” del Ros e del suo comandante (oltre che dell’Arma tutta).
Ma non esclude che sotto sotto il generale Subranni, in combutta con l’on. Mannino, brigasse in tutt’altra direzione. Ma di questo passo, non vi sarebbe ragione di escludere dalla trama occulta di un disegno volto ad avviare un negoziato con Cosa nostra anche le figure apicali della Dia e del Sisde che furono parimenti investite del problema loro segnalato dal Mannino.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei pezzi grossi dello stato un po’ troppo vicini ai don di Palermo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 ottobre 2022
Tra il generale Subranni e Vito Ciancimino c’era una conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Ciancimino nel 1984. In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, quando venne promosso a tenente colonnello
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ora, non v’è chi non veda come siano elementi di mera suggestione quelli che fanno riferimento ai profili personologici di due dei tre personaggi al vertice di altrettanti organismi investigativi e di intelligence che interloquirono con Mannino sul tema della sua sicurezza, e delle iniziative possibili per scongiurare il rischio di un attentato ai suoi danni.
Così per Bruno Contrada. Il 24 dicembre del 1992, e quindi appena due mesi dopo l’ultimo incontro, con l’on Mannino — e con il Generale Subranni — documentato dalle sue agende, egli veniva arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.
[…] Quel che importa rilevare è che la decisione della Cedu nel caso Contrada non entra minimamente nel merito della contestazione, né mette in discussione le prove a carico o la loro sufficienza a supportare una pronunzia di condanna, o la circostanza che i fatti contestati siano stati provati e quindi accertati; e neppure, a ben vedere, mette in discussione la loro idoneità ad integrare gli estremi del reato di concorso esterno in associazione mafiosa come messo a fuoco nei suoi tratti salienti dalla giurisprudenza affermatasi e consolidatasi a partire — nella valutazione della stessa Cedu — [...]: nulla di tutto ciò.
Sicché, pur essendo venuto meno il titolo di condanna, i fatti comprovanti non l’intraneità, ma la contiguità e la collusione con talune cosche mafiose palermitane o singoli esponenti di spicco delle stesse (da Stefano Bontate a Salvatore Inzerillo a Rosario Riccobono, ma anche Filippo Marchese e lo stesso Michele Greco, secondo le convergenti propalazioni dei collaboratori di giustizia che lo accusavano) restano sostanzialmente accertati.
Ora, al di là del dato temporale che confina le condotte concorsuali in un arco di tempo di circa un decennio, ma assai risalente e largamente anteriore all’estate del ‘92, oltre che legate a contatti e frequentazioni con esponenti mafiosi quasi tutti uccisi nel corso della c.d. seconda guerra di mafia o da anni detenuti e condannati anche all’ergastolo, non si può certo inferirne che l’on. Mannino si fosse rivolto, tra gli altri anche al Contrada perché sapeva di poter contare sulle sue entrature mafiose e quindi di poterlo coinvolgere in iniziative non ortodosse ed anzi stridenti con le finalità istituzionali di un appartenente di un apparato di sicurezza dello stato.
A tanto non arriva neppure la pubblica accusa poiché non risulta che il Contrada sia mai stato indagato per concorso nel medesimo reato di minaccia a corpo politico dello stato per cui si è (separatamente) proceduto a carico del Mannino.
Di contro è certo che all’epoca delle triangolazioni con lo stesso (ex)ministro e con il Generale Subranni — anche sulla vicenda del Corvo – Bruno Contrada, benché già attinto da propalazioni ancora segrete, come le rivelazioni sulla sua collusione anticipate da Mutolo, già nel corso del suo primo interrogatorio al dott. Borsellino, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze dell’amico e collega Giovanni Falcone circa i suoi sospetti sulla “infedeltà” dell’ex capo della mobile di Palermo, era ancora saldamente insediato in una posizione ai vertici di uno dei due servizi di intelligence; godeva di massima stima e piena fiducia da parte del capo della Polizia, Vincenzo Parisi (il quale, dopo il sorprendete arresto, farà il diavolo a quattro, protestando contro quello che riteneva essere un clamoroso errore giudiziario [...]), e aveva un ruolo ed una reputazione che gli permettevano di avere interlocuzioni frequenti con eminenti personalità della politica e delle istituzioni, e contatto o incontri, ancora tino a poche settimane dall’arresto, con lo stesso ministro dell’Interno.
Quest’ultimo, infatti, sarà a sua volta bersaglio di polemiche sulla stampa, e persino di interrogazioni parlamentari di cui v’è traccia anche nell’intervento di Nicola Mancino dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia in occasione della seduta del 15 gennaio 1993, per non avere con decisione e chiarezza, immediatamente dopo l’arresto del Contrada, preso le distanze da un servitore dello stato sul cui capo pendeva un'accusa così infamante.
E ritenere che, invece, Calogero Mannino fosse, all’epoca, già perfettamente edotto delle contiguità o frequentazioni mafiose di Bruno Contrada sarebbe ancora una volta aggrapparsi ad un assioma indimostrato.
I “CONTATTI” DI SUBRANNI
Ebbene considerazioni non dissimili valgono, a fortiori, per i presunti contatti e incontri con il generale Subranni. Con una differenza sostanziale e non di poco conto. Anche il generale Subranni è stato sottoposto a procedimento penale — molti anni dopo i fatti di causa - con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa; ma tale procedimento si è concluso con un decreto congruamente motivato ed emesso dal gip del tribunale di Caltanissetta su conforme richiesta della procura nissena in data 10 aprile 2012.
Ivi si dava atto come fosse rimasta isolata e priva di riscontri la rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, aveva attribuito al marito, che pochi giorni prima di essere ucciso — e precisamente il 15 luglio 1992, data alla quale fu possibile risalire in quanto la signora collocava con certezza tale rivelazione alla vigilia dell’ultima partenza del marito per Roma, avvenuta il 16 luglio — le aveva confidato che qualcuno, di cui non le disse il nome, gli aveva riferito che il generale Subranni, con il quale egli aveva un rapporto di stima e frequentazione per ragioni professionali, era “punciutu”.
In particolare, erano stati esaminati i collaboratori di giustizia che, all’epoca della rivelazione predetta, il dott. Borsellino aveva già iniziato ad interrogare (Mutolo, Schembri e Messina Leonardo), ma nessuno di loro aveva saputo riferire alcunché in ordine a eventuali rapporti collusivi del Subranni con esponenti mafiosi. E neppure scavando nel bagaglio di conoscenze di nuovo collaboratori di giustizia di acclarato spessore, come Giovanni Brusca era emerso nulla al riguardo, non avendo in particolare il Brusca riferito alcunché in merito al ruolo giocato da eventuali appartenenti all’Arma dei Carabinieri (e segnatamente in merito al Subranni) nella trattativa di cui gli aveva parlato Totò Riina.
Mentre doveva escludersi che il misterioso amico che avrebbe tradito il dott. Borsellino, come dallo stesso confidato alla dott.ssa Alessandra Camassa e al dott. Massimo Russo durante uno sfogo accorato cui s’era lasciato andare in occasione di una visita fattagli dai due giovani colleghi presso il suo ufficio alla Procura di Palermo nel giugno del ‘92, potesse identificarsi nella persona del Generale Subranni: sia perché con quest’ultimo non intercorrevano rapporti di amicizia personale, ma solo di frequentazione per ragioni d’ufficio; sia, e soprattutto, perché, per quanto fosse problematico datare l’episodio riferito concordemente dai dott.ri Camassa e Russo, esso non poteva che essere avvenuto a giugno e comunque prima del 4 luglio 1992, data della cerimonia di saluto dello stesso Borsellino ai colleghi di Marsala che fu anche l’ultima occasione in cui la dott.ssa Camassa lo vide. (E quindi l’episodio in questione doveva certamente essere occorso prima di quella cerimonia).
Di contro, si è accertato che il dott. Borsellino, al rientro dalla trasferta in Germania dove si era recato per andare a sentite alcuni nuovi pentiti, si era trattenuto a Roma per tutta la giornata del 10 luglio e aveva partecipato ad una cena, insieme a Mori e Subranni e altri Ufficiali dell’Arma, trascorrendo poi la giornata seguente in compagnia del generale Subranni, e accettando il passaggio da questi offerto in elicottero per raggiungere Salerno, dove la mattina del 12 luglio il dott. Borsellino partecipò alla festa per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero. Sicché almeno fino a quel momento, i rapporti con lo stesso Subranni sembravano essere rimasti immutati e improntati a massima cordialità.
Ebbene, la sentenza qui appellata, all’esito di un esame scrupoloso di un compendio istruttorio ancora più vasto di quello vagliato dall’a.g. nissena (perché integrato dalle propalazioni di Di Carlo e Siino, nonché dalla testimonianza de relato del Generale Gebbia sui rapporti con i cugini Salvo, sull’interessamento alle indagini sul sequestro Corleo e sulle iniziative intraprese per il recupero del cadavere del rapito, nonché sull’omissione di atti dovuti in relazione al mancato sequestro di armi da fuoco presenti in immobile di pertinenza dei Salvo), perviene alla conclusione dall’insieme delle risultanze acquisite, tra le quali è meritevole di apprezzamento la testimonianza di Luigi Li Gotti su episodi e circostanze apprese da confidenze fattegli dall’amico e collega avv. Ascari, residuano soltanto elementi idonei a comprovare l’esistenza di rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo, con Vito Ciancimino e con Andreotti.
Ma per quanto concerne i primi, le esigenze correlate alle indagini sul sequestro Corleo giustificavano ampiamente che il Generale Subranni, come peraltro da lui stesso ammesso, si trovasse ad incrociare in particolare Nino Salvo, personalmente interessato ad avere notizie dei suocero rapito (e successivamente a tentare di recuperarne almeno il corpo); e comunque il ruolo pubblico per anni ricoperto dai potenti esattori di Salemi, le generiche notizie su un rapporto di reciproca conoscenza non avrebbero alcuna valenza indiziante.
I RAPPORTI CON CIANCIMINO
Quanto a Vito Ciancimino, non hanno trovato il minimo riscontro le propalazioni del Di Carlo, peraltro generiche e indeterminate, oltre che a dir poco tardive, sul fatto che il generale Subranni si sarebbe interessato per non meglio precisati favori a esponenti mafiosi segnalatigli dal Ciancimino.
E quindi residua solo il dato della conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Vito Ciancimino in occasione del suo arresto nel novembre del 1984.
In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, ed è verosimilmente databile alla fine di aprile del 1978, quando il maggiore Subranni venne promosso a tenente colonnello e andò a comandare il Reparto operativo dei carabinieri di Palermo: molti anni dopo che si era conclusa l’esperienza di Ciancimino quale sindaco di Palermo, e in un’epoca in cui egli era già assai discusso non solo per la sua disinvoltura nel mescolare rapporti politici e di affari — che gli sarebbero costati in seguiti la sottoposizione a diversi procedimenti penale per reati contro la p.a due dei quali sfociati in condanne definitive — ma anche per presunti rapporti con esponenti mafiosi, per i quali era stato attenzionato dalla Commissione parlamentare antimafia.
Del resto, l’esistenza di rapporti cordiali tra i due, esplicitamente dichiarata dal Ciancimino in occasione dell’interrogatorio reso al g.i dott. Giovanni Falcone dopo il suo arresto nel novembre del 1984 emerge anche dalla narrazione che il Generale Mori ha fatto dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, se è vero che in occasione di uno dei loro primi incontri (insieme al capitano De Donno), lo stesso Ciancimino gli disse che aveva conosciuto diversi ufficiali dell’Arma tra i quali proprio il Generale Subranni, quando comandava il Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo; e si raccomandò di fargli avere i suoi saluti.
Può apparire, ed è poco commendevole la condotta di un alto ufficiale dei Carabinieri che non si peritava di continuare ad avere contatti o rapporti cordiali con un personaggio così chiacchierato, e sul conto del quale si erano accumulati atti e rapporti giudiziari fin dai primi anni settanta. Ma ciò, come riconosce il giudice di prime cure, in assenza di diverse risultanze può avere un rilievo soltanto “etico” (cfr. pag. 4959).
Né si può trascurare che, sebbene in declino per l’accumularsi di accuse sospetti e rapporti giudiziari su suo conto Ciancimino, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 era un personaggio influente nella vita pubblica e nella realtà politica locale, capace ancora di inserirsi nelle dinamiche di potere e nella competizione tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa, anche a livello nazionale.
Inoltre, si registra una singolare assonanza tra le propalazioni del Siino e quelle del Riccio a proposito dell’ambiguo tenore dei rapporti che il generale Subranni non disdegnava di coltivare con personaggi in odor di mafia, come usa dirsi o decisamente intranei all’organizzazione mafiosa.
Siino, che peraltro si è contraddetto sulle circostanze in cui avrebbe fatto la conoscenza di Subranni, ha fatto riferimento ad un approccio o un tentativo di approccio nei suoi confronti per avere informazioni sull’omicidio del colonnello Russo (salvo scoprire che ne sapeva, il Subranni, più di lui). E ad un raffreddamento dei loro rapporti quando Subranni non ricambiò il favore, come invece lui si attendeva, rifiutandosi di dargli notizie sull'indagine cui era interessato per i fatti di Baucina.
A dire di Michele Riccio, all’esito dell’incontro avuto a Roma con i procuratori di Palermo e Caltanissetta otto giorni prima di essere ucciso, Ilardo ebbe a confidargli che Subranni era uno dei suoi superiori di cui avrebbe dovuto diffidare. Ma lo stesso Riccio rammenta altresì che all’epoca dell’istituzione del Ros (3 dicembre 1990) si discuteva del modo in cui dovessero essere impostate le indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.
E in occasione di una di queste discussioni, Mori confidò a Riccio che Subranni aveva stretti rapporti con Vito Ciancimino, ma senza specificare o aggiungere altro. E tuttavia il discorso verteva sul modo in cui impostare le indagini di mafia in Sicilia e il metodo e gli strumenti e le risorse da impiegare in tale contesto, sicché quel riferimento buttato lì da Mori sembrava alludere alla possibilità di utilizzare Vito Ciancimino, grazie ai suoi pregressi rapporti con il comandante Subranni, come potenziale interlocutore o fonte di informazioni, se non proprio come fonte confidenziale nell’accezione comune del termine.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Encomi e benemerenze, l’accorata difesa del generale Subranni. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 20 ottobre 2022
La cospicua documentazione prodotta a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
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Analogamente per quanto concerne i rapporti con il senatore Andreotti. Deve convenirsi con la valutazione espressa dal giudice di prime cure secondo cui non v’è ragione di dubitare della genuinità della testimonianza dell’avv. Li Gotti, soprattutto nelle parti che si riferiscono a fatti da lui vissuti in prima persona.
E alcune apparenti incongruenze — come l’essere il Generale Subranni già in pensione quando si sarebbe interessato, su input del senatore Andreotti ad una vicenda che coinvolgeva il fratello del giornalista Minoli — oppure alcune imprecisioni — come l’avere smentito Claudio Martelli di avere mai acquistato una villa sulla via Appia, dove però aveva avuto nella propria disponibilità una villa in affitto per la quale altri si sobbarcavano l’onere di pagare per lui un ingente canone di locazione— non valgono a inficiarne l’attendibilità complessiva.
Ma, come per i cugini Salvo, la genesi dei rapporti con il sette volte presidente del Consiglio e più volte ministro in svariati governi della Repubblica non presenta di per sé nulla di sospetto o di anomalo, tenuto conto del ruolo pubblico dello stesso Andreotti e delle tante occasioni e ragioni di incontri e contatti per ragioni istituzionali, potendosi al più censurare sotto il profilo dell’etica pubblica che il generale Subranni, come parrebbe evincersi dalla testimonianza dell’avv. Li Gotti, continuasse a coltivare quel rapporto, prestandosi persino a impiegare mezzi e risorse del proprio ufficio o, da pensionato, le proprie conoscenze negli apparati investigativi, per convenienze e motivi di interesse privato del plurititolato Andreotti (ammesso che vi sia stato un concreto interessamento del Subranni alle vicende riferite dal Li Gotti), anche dopo che nei suoi confronti s’era instaurato il procedimento per concorso esterno in associazione mafiosa.
PROFILI DI OPACITÀ NELLA FIGURA DI SUBRANNI
Ciò posto, simili risultanze nel loro insieme potrebbero esitare al più il ritratto in parte “opaco” di un alto ufficiale dell’Arma non alieno ed anzi aduso a tessere e coltivare rapporti di reciproco interesse, o di subalternità e compiacenza nei riguardi del potente di turno (un tempo i cugini Salvo, o Vito Ciancimino, o il senatore Andreotti come l’on. Mannino), anche quando fosse attinto da sospetti o accuse di contiguità ad ambienti e personaggi della criminalità mafiosa, o addirittura sottoposto a procedimento penale per gravissime imputazioni che avrebbero consigliato o imposto di prendere le distanze.
Ma a contrastare tale esito valutativo, certo non lusinghiero, ha buon gioco l’appassionata autodifesa svolta dal generale Subranni all’udienza del 22.09.20 17 e supportata dalla cospicua documentazione prodotta, nello sciorinare, a riprova di una condotta integerrima ed esemplare, una nutrita serie di benemerenze e titolo acquisiti nel corso della sua lunga e brillante carriera, impreziosita da encomi solenni (come quello tributatogli dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: [...]), plurimi attestati di stima e piena fiducia provenienti da figure predare di magistrati (E mi riferisco ai Dottori Chinnici, Falcone, Borsellino, Grasso, Ajala, Silena, Aliquò, Forte, Aldo Rizzo, Giovanni Puglisi, Pignatone, Pizzillo, solo per citarne alcuni), esponenti istituzionali, o noti personaggi preposti agli apparati investigativi e di sicurezza, come il Prefetto Giuseppe De Gennaro [...], che nel corso degli anni avevano avuto modo di cooperare con il generale Subranni e di conoscerne ed apprezzarne il valore.
Spiccano, tra gli attestati di stima, la dedica apposta dal giudice Giovanni Falcone (“Al generale Subranni, con stima ed amicizia. Giovanni Falcone”) alla copia del libro “Cose di Cosa nostra” di cui gli fece dono (con la precisazione che la copia in questione è quella edita nel 1991, che corrisponde alla prima edizione del libro, sicché il dono risale ad epoca anteriore e prossima alla morte del dott. Falcone).
E meritano ancora di essere segnalati i motivati apprezzamenti espressi in alcuni passaggi della sentenza-ordinanza di rinvio a giudizio che diede luogo al maxi processo, e a firma tra gli altri del dott. Falcone e del dott. Borsellino, a proposito della qualità del lavoro investigativo condensato nel rapporto giudiziario Riina Salvatore+25 tutti indiziati — e tra loro anche Gaetano Badalamenti e capi e gregari delle cosche mafiose sia corleonesi che badalamentiane -di associazione a delinquere di stampo mafioso, traffico di stupefacenti e altri gravi reati, che, a parere degli estensori della stessa sentenza-ordinanza, forniva una lettura rivelatasi di grande lungimiranza sulle possibili traiettorie di quella che si preannunciava come sanguinosa contesa per l’egemonia tra schieramenti antagonisti all’interno di Cosa nostra.
Quel rapporto giudiziario peraltro faceva seguito ad altre importanti operazioni di polizia giudiziaria le cui risultanze erano compendiate in altrettanti rapporti giudiziari di denuncia dei presunti responsabili di una serie di delitti di sequestro di persona e omicidio che vennero letti come sintomatici di una vera e propria offensiva dei corleonesi contro esponenti dello schieramento mafioso antagonista.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Ombre e sospetti sui capi dei reparti speciali dei carabinieri. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 21 ottobre 2022
Detto questo è innegabile che persistono, sulla figura e sull’operato del generale Subranni, pesanti ombre che ne appannano l’immagine di ufficiale integerrimo e fedele servitore dello Stato, sempre determinato a portare avanti con il massimo impegno la lotta alla mafia, nell’ambito delle sue competenze.
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Detto questo è innegabile che persistono, sulla figura e sull’operato del generale Subranni, pesanti ombre che ne appannano l’immagine di ufficiale integerrimo e fedele servitore dello Stato, sempre determinato a portare avanti con il massimo impegno la lotta alla mafia, nell’ambito delle sue competenze.
Così pesa come un macigno, è inutile girarci intorno, la terribile rivelazione fatta da dott. Borsellino alla moglie appena quattro giorni prima di esse ucciso, quando le disse di avere saputo — o capito — che il generale Subranni era punciutu. Anche se tale rivelazione, pur sempre de relato, da sola non poteva bastare a determinare, né giustificherebbe, un epilogo diverso da quello sancito con il decreto di archiviazione del procedimento che ne scaturì a carico dello stesso Subranni per il reato di associazione mafiosa, poiché, nonostante le approfondite indagine espletate, non fu possibile allora come non appare neppure oggi possibile risalire alla fonte di quella notizia -se davvero si trattò di una notizia appresa da qualcuno — o alle ragioni per cui il dott. Borsellino avesse maturato il convincimento sintetizzato in quell’icastica asserzione. Né si è riusciti a trovare alcun significativo riscontro alla fondatezza di quella rivelazione, dal momento che né i nuovi pentiti che il dott. Borsellino aveva iniziato in quei giorni di luglio del ‘92 a interrogare, ma neppure tutti gli altri ex affiliati a Cosa nostra che negli anni successivi sono andati ad ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia, compresi “pentiti” di innegabile spessore, come Giovanni Brusca o Antonino Giuffrè, hanno saputo riferire alcunché circa eventuali collusioni mafiose del Subranni.
E non può certo conferirsi dignità di riscontro alle velenose insinuazioni del Di Carlo sui rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo e con l’on. Lima, che ne avrebbero favorito avanzamenti di carriera insolitamente rapidi (insinuazione smentita peraltro dallo stato di servizio versato in atti); o alle più che tardive propalazioni dello stesso Di Carlo sul ruolo che l’allora maggiore Subranni avrebbe avuto nel depistare, sempre su sollecitazione di Nino Salvo, le prime indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, nel senso di essersi adoperato per una fulminea chiusura delle indagini che, escludendo la pista mafiosa, allontanasse ogni sospetto sulla possibile matrice mafiosa del tragico evento e dirottasse le indagini dalla locale cosca mafiosa che faceva capo a Gaetano Badalamenti.
Peccato che Di Carlo abbia indicato come proprie uniche fonti di conoscenza di quella devastante “verità” due soggetti morti da anni (come Nino Badalamenti, ucciso nel 1981, e Nino Salvo, morto per cause naturali nel 1986), e quindi impossibilitati a smentirlo; e che ne abbia parlato per la prima volta nel 2012, circa sedici anni dopo che aveva iniziato a collaborare con la Giustizia; e
soprattutto che non avesse fatto il minimo cenno al ruolo attribuito (dalle sue fonti) al Subranni nei due procedimenti aventi specificamente ad oggetto quel delitto, il primo definito dalla Corte d’Assise di Palermo con il rito abbreviato a carico di Palazzolo Vito, esponente di spicco della cosca mafiosa di Cinisi (...); ed il secondo celebrato da altra sezione della stessa Corte d’Assise con il rito ordinario a carico del capo riconosciuto di quella cosca, Gaetano Badalamenti (...), pur essendo stato sentito nel processo celebrato con rito ordinario e nella fase delle indagini che avevano preceduto quello definito in abbreviato.
Tanto meno possono assurgere a dignità di riscontro le insinuazioni fatte sul conto del Subranni dall’allora maresciallo Canale, e raccolte dalla dott.ssa Camassa, la quale, nel confermare che Paolo Borsellino nutriva un rapporto di stima e affetto per i Carabinieri ed aveva rapporti di amicizia con molti ufficiali dell’Arma, rammenta altresì che lo stesso Canale, che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori del dott. Borsellino, le aveva confidato, in occasione della cerimonia di commiato tenutasi alla procura di Marsala (il 4 luglio del ‘92) la sua preoccupazione per il fatto che egli si fidasse troppo del generale Subranni o del Col. Mori, che invece erano a suo dire personaggi “pericolosi”, senza specificare altro.
Ma la stessa dott.ssa Camassa ha precisato di non poter escludere che il Canale — il quale dal canto suo ha recisamente smentito la confidenza che la dott.ssa Camassa gli attribuisce: ma sono comprensibile le sue remore ad ammetterla, considerato che militava ancora nell’Arma quando è stato sentito sul punto - non le abbia fatto espressamente quei nomi e si sia limitato a fare riferimento ai vertici del Ros, sicché può essere stata lei a dedurne che potesse trattarsi di Mori e Subranni.
In ogni caso si tratta di asserzioni rimaste generiche e apodittiche, che potevano anche essere frutto di invidie o gelosie professionali, tant’è che lo stesso Canale o non ne fece mai cenno al dott. Borsellino, o, se lo fece, le sue preoccupazioni dovevano essere talmente disancorate da elementi specifici che il valoroso magistrato non ritenne di darvi alcun seguito. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quelle confidenze che Paolo Borsellino fece a sua moglie Agnese. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 22 ottobre 2022
E l’espressione “punciutu” non alludeva all’essere il Subranni formalmente affiliato a Cosa nostra con il classico rito del “santino”, ma era solo un modo per enfatizzare il concetto che egli aveva inteso esprimere nel confidare alla moglie quel terribile segreto...
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Ma tornando alla rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto attribuisce al marito, si può convenire, dando massimo risalto al contesto in cui quella frase fu pronunciata e al suo carattere anche di sfogo emotivo, su una lettura che ne stemperi il significato letterale, interpretandola nel senso che la notizia che tanto aveva turbato il dott. Borsellino era che il Subranni avesse avuto rapporti o tenuto comportamenti che ne implicavano una sostanziale collusione con l’organizzazione mafiosa.
E l’espressione “punciutu” non alludeva all’essere il Subranni formalmente affiliato a Cosa nostra con il classico rito del “santino” che brucia tra le mani del nuovo adepto, ma era solo un modo per enfatizzare il concetto che egli aveva inteso esprimere nel confidare alla moglie quel terribile segreto, quasi a voler trarre un minimo sollievo dal condividere con lei il turbamento che ne aveva ricavato sia nel venirne a conoscenza (tanto da avere provato conati di vomito), sia nel farne cenno alla moglie.
Ma era comunque una notizia così impressionante ed esplosiva, che, contrariamente a quanto eccepito dalla difesa del Subranni, e dallo stesso imputato nelle citate dichiarazioni spontanee, è del tutto plausibile che non si sia sentito di fame il minimo cenno con nessuno con i colleghi con i quali si vide ed ebbe contatti in quegli stessi giorni per ragioni di lavoro. Non era una notizia da poter commentare o comunicare con nessuno, al di là del fugace sfogo avuto con la moglie e compagna di una vita in un momento di particolare scoramento; e tanto meno poteva correre il rischio che una notizia simile. appresa pochi giorni prima, trapelasse in ufficio e dall’ufficio prima di avere fatto le necessarie verifiche e i doverosi riscontri.
D’altra parte, nessuno dubita della genuinità della testimonianza della vedova Borsellino, che peraltro nessuna ragione avrebbe avuto per calunniare, a distanza di tanti anni dalla morte di suo marito, il generale Subranni. E della sua sincerità sembrano essere convinti persino i suoi due coimputati, Mori e De Donno, per come si espressero (più il secondo che il primo, limitandosi Mori ad assentire con monosillabi alle esuberanti considerazioni del De Donnpo) nel corso della conversazione telefonica intercettata l'8 marzo 2012 e vertente proprio sulla testimonianza della signora Leto, come puntualmente annotato alle pagg. 1257 e 1258 della sentenza impugnata (che richiama anche la successiva conversazione intercorsa tra lo stesso De Donno e tale Raf, non meglio identificato: «perché poteva raccontare pure che cazzo voleva a dire la verità secondo me quindi, secondo me, forse la signora dice la verità io poi non la conosco la Signora Agnese, perché...perché dovrebbe inventarsi sta cazzata su Subranni... per cui presumo pure che probabilmente Borsellino l’abbia pure fatta sta battuta con la signora però bisogna vedere che cazzo intendeva lui, cioè chi glielo ha detto...»).
L’affidabilità poi del ricordo (fatta salva la remota possibilità che a distanza di tanti anni o anche in tempi più prossimi al colloquio del 15 luglio, la signora Agnese possa essere incorsa in un lapsus con conseguente scambio di persona sul nominativo dell’alto ufficiale del quale il dott. Borsellino avrebbe scoperto che era punciutu) anche con riferimento alle circostanze in cui aveva ricevuto dal marito la tremenda rivelazione, è puntellata dalla testimonianza di Diego Cavallaro, magistrato e amico di famiglia dei Borsellino, che continuò anche dopo la morte di Paolo, a intrattenere rapporti di amicizia e frequentazione con i congiunti del collega ucciso.
Questi, in occasione di una visita a casa Borsellino, che ha collocato temporalmente tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, e in un momento in cui si trovò a conversare in un clima di assoluta confidenza a quattro occhi con la signora Leto, ne ricevette la stessa rivelazione di cui la signora Agnese avrebbe riferito all’a.g., per la prima volta, soltanto 5 o 6 anni dopo.
LA DIFESA DI SUBRANNI
Per il resto, tutte le obbiezioni mosse dal Subranni nella sua appassionata autodifesa - e dai suoi difensori nel proposto gravame - si infrangono contro le persuasive argomentazioni spese dal giudice di prime cure nel motivare il giudizio di attendibilità della testimonianza della vedova Borsellino: argomentazioni che questa Corte ritiene di dover sottoscrivere integralmente e per le quali si rimanda alle pagg. 1254- 1257 della sentenza in atti.
Valga solo ribadire che la signor Leto ha offerto una spiegazione plausibile del ritardo con cui ha riferito all’A.G. quell’episodio, così svelando un segreto che aveva custodito per anni, senza fame parola con nessuno, nonostante I’ inesausta passione con cui aveva sempre onorato la memoria del marito, anche attraverso il suo personale impegno a dare il proprio contributo all’accertamento dei fatti nei tanti processi in cui era stata chiamata a deporre e prima ancora, o contestualmente, nelle indagini mai conclusesi per individuare i responsabili della strage di via D’Amelio, inclusi eventuali mandanti occulti.
Ha spiegato in sostanza la vedova Borsellino che temeva di danneggiare l’immagine dell’Arma intera, se avesse reso pubblica quella sconcertante confidenza. E, avendo mutuato da suo marito un rapporto di stima e ammirazione nei confronti dei Carabinieri, che in lui non era venuto meno neppure dopo l’orribile scoperta fatta nei suoi ultimi giorni di vita, aveva sempre ritenuto che essa fosse circoscritta alla persona del Subranni; e tale doveva rimanere, se non voleva fare torto all’Arma e a suo marito.
Non v’era quindi motivo di estendere un inevitabile giudizio di riprovazione nei riguardi dell’ufficiale infedele ai tanti altri ufficiali dell’Arma con cui suo marito aveva lavorato, nutrendo per loro una stima incondizionata, ed essendo legato, ad alcuni di loro, anche da rapporti di amicizia. Come non v’era ragione di che la signora Piraino Leto provasse imbarazzo nell’incontrare alti ufficiali dell’Arma (ma non il generale Subranni tra loro), come pure è provato che sia avvenuto in più occasioni (come la cena annotata dal generale Mori alla data del 16 febbraio 1993; o gli incontri con il comandante generale dell’Arma, Federici, che sono avvenuti il 13 maggio 1993 e il 28 gennaio 1994, come documentato agli atti del Comando generale; o in tante altre occasioni di incontri con ufficiali dei Carabinieri per cerimonie o eventi pubblici cui però non risulta abbia partecipato anche il generale Subranni).
E così si spiega anche la ferma volontà dei familiari del dott. Borsellino, confermata da più fonti, che fossero ufficiali del Ros a presenziare alla perquisizione dell’abitazione del loro congiunto, nell’immediatezza della strage di via D’Amelio.
Mentre resta solo un’astratta congettura, a fronte di un materiale probatorio così aleatorio e improbabile, l’ipotesi adombrata dalla pubblica accusa (peraltro solo nella requisitoria della discussione finale del giudizio di primo grado) che la ritenuta e brusca accelerazione dell’iter attuativo della strage di via D’Amelio possa ricondursi in qualche modo proprio alla sconcertante scoperta fatta dal dott. Borsellino negli ultimi giorni della sua vita su presunte collusioni mafiose del generale Subranni.
Basti rammentare, per tacere d’altro, che, se davvero vi fu l’asserita accelerazione, essa rimonterebbe comunque a diversi giorni, anzi a diverse settimane prima del 15 luglio ‘92.
L’indagine dei carabinieri di Subranni sull’omicidio di Peppino Impastato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 23 ottobre 2022
La prima fase delle indagini era stata inesorabilmente segnata da una catena inenarrabile di omissioni, inerzie o anomalie. E, circostanza incomprensibile e ingiustificabile, l’avere omesso qualsiasi attività d’indagine nei riguardi di personaggi denunciati da Giuseppe Impastato.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Altre ombre sulla trasparenza e correttezza del modo di operare del generale Subranni nelle indagini più delicate provengono dalle risultanze del procedimento penale cui è stato sottoposto per l’accusa di avere depistato in favore del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e comunque della locale cosca mafiosa le indagini sulla morte di Giuseppe Impastato, che furono condotte, nell’immediatezza del fatto, dai carabinieri del Reparto operativo, all’epoca comandato dal maggiore Subranni.
Su sollecitazione del p.g. è stata acquisita la documentazione relativa ai più significativi atti d’indagine, unitamente alle sentenza emesse sull’omicidio Impastato, al fine di comprovare la gravità del depistaggio che oggettivamente si consumò fin dai primi giorni d’indagine per avere gli inquirenti imboccato senza tentennamenti, e senza neppure considerare la possibilità di ipotesi alternative, una pista - e cioè quella di un attentato suicida, o, in alternativa, della morte accidentale della vittima, mentre tentava di compiere un attentato dinamitardo con finalità terroristiche, consacrata nei rapporti giudiziari a firma dell’allora maggiore Subranni trasmessi all’a.g. in data 10 e 30 maggio 1978 - che doveva presto rivelarsi priva di qualsiasi fondamento; e per avere invece scartato a priori quella “pista mafiosa” che si è poi rivelata fondata, e che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere ritenuta quanto meno meritevole di particolare attenzione.
Ed è stato acquisito anche il decreto emesso il 25 agosto 2018 con cui il gip di Caltanissetta ha archiviato, per intervenuta prescrizione, il procedimento a carico del generale Subranni, indiziato di favoreggiamento aggravato, e dei sottufficiali dell’Arma Canale Carmelo, Abramo Francesco e Di Bono Francesco per falso in atto pubblico. Un provvedimento che, al di là dell’esito in posto dal tempo trascorso, nel passare in rassegna le più significative risultanze emerse — proprio per documentare le quali il p.g ha chiesto e ottenuto che venisse acquisita la documentazione prodotta - perviene a conclusioni che, a parere dello stesso p.g., equivalgono ad una virtuale pronuncia di condanna del Subranni.
In realtà, il gip di Caltanissetta ha ritenuto che il fatto nella sua materialità fosse provato, giacché «l'ufficiale cli polizia giudiziaria che (...) prospetti una sola possibile ricostruzione del fatto, contemporaneamente omettendo — attraverso l‘ingiustificata obliterazione di elementi indiziariamente rilevanti, ben noti all‘ufficiale medesimo — la prospettazione di altra ricostruzione, dotata di pari se non maggiore plausibilità, realizza una condotta oggettivamente idonea ad intralciare il corso delle indagini che l’Autorità giudiziaria ben potrebbe attivare nei confronti delle persone individuabili quali destinatarie delle, investigazioni, proprio sulla scorta della ricostruzione del fatto della quale sia stata ingiustificatamente omessa la prospettazione. Detta condotta (certamente lontana da quella doverosa), invero, è oggettivamente idonea a frapporre un ostacolo al proficuo e tempestivo svolgimento delle indagini da parte dell'Autorità Giudiziaria e quindi a porre in pericolo l’interesse dell‘amministrazione della giustizia al regolare svolgimento del procedimento penale nella fase delle investigazioni, già in atto o anche solo possibili dopo la consumazione del reato»; mentre non è necessario, ai fini della sussistenza del reato ex art. 378 c.p. che l’a.g. ne risulti effettivamente fuorviata.
Anche se, nel caso di specie, non è certo implausibile sostenere — si legge ancora nel provvedimento finale di archiviazione - che l’omessa prospettazione della pista mafiosa nei due rapporti giudiziari citati avesse ingenerato difficoltà e ritardi pregiudizievoli per l'accertamento della verità. E in effetti la prima fase delle indagini era stata inesorabilmente segnata da una catena inenarrabile di omissioni (come l’avere ignorato una pietra macchiata di sangue e rinvenuta — come riferito ance dal necroforo comunale - nel casolare poco distante dal punto in cui era avvenuta l’esplosione che aveva dilaniato il corpo della vittima; o il non avere interrogato il personale addetto al vicino casello ferroviario; o l’avere ignorato gli spunti investigativi offerti dall’esposto che già in data 11 maggio 1978 indicava plurime e specifiche ragioni a sostegno dell’ipotesi dell’omicidio) o inerzie (come l’avere consentito l’immediato ripristino della linea ferrata danneggiata dall’esplosione prima ancora che sul posto giungesse la squadra di artificieri che avrebbe dovuto procedere ai necessari rilievi tecnici; e il non avere proceduto ad accertamenti nei riguardi dei proprietari delle cave ubicate nei dintorni, come la cava di Finazzo Giuseppe, imprenditore vicino a Gaetano Badalamenti.
Che distava duecento metri in linea d’aria dal luogo del presunto attentato, e in cui veniva utilizzato lo stesso tipo di esplosivo usato per simulare l’attentato), anomalie (come il “sequestro informale” di una cospicua documentazione rinvenuta preso l’abitazione della zia materna della vittima, e di cui v’era traccia in una nota dell’1 giugno 1978 a firma dell’allora maggiore Frasca, che delegava agli uomini del nucleo informativo da lui comandato di identificare le persone ivi menzionate, mentre non se ne faceva menzione nei verbali di sequestro in atti), oggettivi travisamenti del contenuto o del senso di certi documenti o di taluni reperti (come il manoscritto in cui l'Impastato enunciava propositi di suicidio, ma che risaliva a diversi mesi prima ed era frutto di un momento transitorio di particolare prostrazione, ampiamente superato come poi si accertò sulla base di inequivoche testimonianze, ed appariva smentito anche dall’attivismo e l’impegno profusi dalla vittima nella campagna per le elezioni amministrative, essendo Giuseppe Impastato candidato nelle liste di Democrazia proletaria; o l’aver scambiato i fili elettrici che fuoriuscivano dal cofano dell’auto della vittima per cavi di attivazione di un congegno esplosivo mentre si trattava dei fili della batteria utilizzati per collegarvi l’altoparlante utilizzato in quei giorni per la campagna elettorale).
E più in generale, costituiva circostanza incomprensibile e ingiustificabile, si legge ancora nel corpo della motivazione del decreto in esame, l’avere omesso qualsiasi attività d’indagine nei riguardi di personaggi riconducibili agli ambienti oggetto delle reiterate denunce pubbliche di Giuseppe Impastato.
Al generale Subranni si contestava dunque l’avere risolutamente sposato e caldeggiato una tesi assertiva sulle cause della morte di Giuseppe Impastato del tutto avulsa da una analisi di contesto del fatto investigato, certamente esigibile da un ufficiale superiore preposto al comando di un reparto operativo.
E il contesto inspiegabilmente ignorato era appunto quello notoriamente segnato dalla oppressiva presenza mafiosa, pubblicamente e costantemente denunciata dallo stesso Impastato, con pubblicazioni ed esternazioni varie e soprattutto dai microfoni di Radio-Aut, emittente che grazie ai successi di ascolto dei suoi programmi aveva amplificato la portata della pubblica denuncia di specifici illeciti o sordide collusioni politico-mafiose-affaristiche che investivano il boss mafioso locale Gaetano Badalamenti, sarcasticamente apostrofato come il Gran Capo Tano Seduto, e figure di imprese e singoli imprenditori vicini od organici alle cosche mafiose (come Pino Lipari, socio della società che gestiva il Camping Z-1O; e il già citato Giuseppe Finazzo, costruttore accusato di varie speculazioni edilizie).
Si trattava di un’attività di pubblica denuncia dagli effetti dirompenti, considerati i tempi e il contesto ambientale, e l’Arma ne era certamente a conoscenza, non foss’altro attraverso le sue articolazioni territoriali. Come era a conoscenza, risultando da rapporti anche recenti, del fatto che il territorio di Cinisi recava tracce cospicue della presenza della criminalità mafiosa, mentre non altrettanto poteva dirsi per l’esistenza o le attività di gruppi terroristici.
E se era vero che si erano verificati a Cinisi e nei territori limitrofi anche negli ultimi tempi numerosi attentati con l’impiego di esplosivi da cava, ciò era avvenuto ad opera di gruppi mafiosi e per finalità estorsive e non certo per iniziativa di (inesistenti) frange estremiste, dedite ad attentati dinamitardi per finalità di terrorismo. Tutti elementi che avrebbero reso doveroso quanto meno inserire nel ventaglio di ipotesi investigative meritevoli di approfondimento anche la pista mafiosa.
LE INIZIATIVE INVESTIGATIVE DI SUBRANNI
Sul versante dell’elemento soggettivo, però, il gip esprime valutazioni più prudenti e interlocutorie, rimarcando la singolarità di alcune iniziative investigative ascrivibili — anche personalmente - al Subranni, al di là dei due rapporti citati e comunque una serie di sconcertanti anomalie nell’operato degli uomini al suo comando che avrebbero meritato una verifica dibattimentale, ormai preclusa dall’intervenuta prescrizione, potendosi porre a base del procedimento induttivo di ricostruzione del dolo.
Ora, è pacifico che le valutazioni espresse dal gip di Caltanissetta all’esito di un sintetico ma puntuale scrutinio delle più significative risultanze acquisite non hanno alcuna efficacia vincolante nel presente giudizio, come non l’avrebbero neppure se il procedimento si fosse concluso con un giudicato di condanna invece che con un provvedimento di archiviazione.
Ma anche volendo esaminare tali risultanze funditus e prescindendo dalla lettura che ne ha offerto il gip predetto, esse non appaiono comunque sufficienti né idonee a sciogliere il nodo che qui più interessa: e cioè se deviazioni e sviamenti che “oggettivamente” si consumarono nella prima fase delle indagini sul delitto Impastato siano state altresì volontarie, perché intenzionalmente dirette a
preservare il boss della locale cosca mafiosa, o singoli affiliati ad essa, da un’incriminazione che una serena valutazione di quelle stesse risultanze avrebbe reso probabile.
In realtà, costituisce un dato processualmente acquisito che all’incriminazione di Gaetano Badalamenti— e del suo braccio destro, Vito Palazzolo — si giunse solo molti anni dopo, e in forza delle propalazioni di una serie di ex affiliati mafiosi che avevano intrapreso nel frattempo il percorso di collaborazione con la giustizia e che con le loro rivelazioni, sia pure de relato, suggellarono sul piano probatorio l’ipotesi della matrice mafiosa del delitto. E soprattutto vi si giunse grazie alla specifica e circostanziata chiamata in correità di un collaboratore di giustizia (Palazzolo Salvatore, omonimo del mafioso accusato di essere stato tra gli esecutori materiali del delitto) che proveniva dalle fila della medesima cosca mafiosa capeggiata da Gaetano Badalamenti.
LE ACCUSE DI FRANCESCO DI CARLO
Ciò premesso, non si può sottacere che le dichiarazioni di Francesco Di Carlo, nella parte in cui accusa l’allora maggiore Subranni di essersi adoperato, su sollecitazione dei cugini Salvo, per una rapida chiusura dell’inchiesta che escludesse la pista mafiosa, così da fugare anche il semplice sospetto che si trattasse di un delitto ordinato dal boss Gaetano Badalamenti, appaiono tutt’altro che affidabili. Esse sono state già liquidate dai giudici della Corte d’Assise di primo grado di questo processo come prive di riscontri, rimandando però la sentenza appellata, per ogni valutazione conclusiva su eventuali responsabilità del Subranni nell’ipotizzato depistaggio, all’esito di un procedimento che alla data della pronuncia di primo grado era ancora sub iudice. Il procedimento in questione si è concluso con il citato provvedimento di archiviazione, ma, a prescindere da tale esito, deve ribadirsi che le dichiarazioni del Di Carlo, in parte de qua, restano inaffidabili. […]. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Un colossale depistaggio orchestrato “solo per idee politiche diverse”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 24 ottobre 2022
La condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; la sua ipotesi investigativa, in sintonia con il clima dell’epoca, appariva “giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine”, e “avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Dall’esame degli atti processuali sull’omicidio Impastato e sulle relative indagini emerge che vi fu, nella fase iniziale di dette indagini, una chiusura pregiudiziale a far luogo ad accertamenti e acquisizioni, sia documentali che testimoniali, che potessero avvalorare una pista alternativa a quella dell’eclatante gesto suicida o della morte accidentale del presunto attentatore.
Ma è pure vero che il compendio probatorio, integrato e arricchito da quelle risultanze che la fretta di chiudere le indagini dirette dall’allora Maggiore Subranni aveva precluso, consentì al giudice istruttore dell’epoca di affermare che si era trattato di un delitto e di accreditarne con ragionevole certezza la matrice mafiosa.
Ma non fu possibile andare oltre l’archiviazione per essere rimasti ignoti gli autori del delitto, anche se, nel chiosare tale conclusione, lo stesso g.i non mancò di imputare anche “agli irreparabili ritardi derivati da quello che nella requisitoria del pm viene definito l’iniziale “depistaggio delle indagini”, oltre che alla sopravvenuta uccisione di Finazzo Giuseppe, le cause che avevano impedito di tradurre in ben definite responsabilità individuali le verità che emergono dalle carte processuali.
Nella stessa sentenza del g.i dott. Caponnetto si dà atto che il Subranni (nel frattempo promosso al grado di Colonnello), già estensore dei due rapporti in data 10 e 30 maggio 1978 nei quali esprimeva la ferma convinzione che l'Impastato Giuseppe si fosse “suicidato compiendo scientemente un atto terroristico”, ammetteva sostanzialmente di esseri sbagliato.
In particolare, nella deposizione resa il 25.12.1980, egli precisava di avere appreso, dai suoi contatti con l’A.g., che dalle ulteriori indagini erano scaturiti “elementi tali da far ritener plausibile una causale diversa da quella formulata con il rapporto”. E nella successiva deposizione resa il 16.07.1982, lo stesso colonnello Subranni “in termini ancora più espliciti e con una lealtà che gli fa onore, dichiarava: «Nella prima fase delle indagini si ebbe il sospetto che l'Impastato morì nel momento in cui stava per collocare un ordigno esplosivo lungo la strada ferrata. Questi sospetti però vennero meno quando in sede di indagini preliminari, svolte da magistrati della Procura, emersero elementi che deponevano più per l’omicidio dell'Impastato che per una morte accidentale cagionata dall’ordigno esplosivo. Dalle indagini a suo tempo svolte, emerse in maniera certa che l'Impastato era seriamente e concretamente impegnato nella lotta contro il gruppo di mafia capeggiato da Gaetano Badalementi, che l'Impastato accusava di una serie di illeciti, anche di natura edilizia, In ordine a questa ultima circostanza, muoveva anche accuse ad un certo Finazzo, ritenuto mafioso e legato al Badalamenti».
Sempre nella sentenza Caponnetto viene richiamato il rapporto giudiziario del 10 febbraio 1982 a firma del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Partinico che attesta quanto fossero mutati gli orientamenti e le convinzioni degli inquirenti — e dei carabinieri in particolare — in ordine alle circostanze, alle cause e alle modalità del tragico avvenimento verificatosi la notte del 9 maggio 1978. lvi si parla infatti del Finazzo Giuseppe come affiliato al clan mafioso capeggiato dal noto Gaetano Badalamenti, e lo si indica come indiziato di vari delitti il più grave dei quali risaliva al 9/05/78, ed era “la soppressione di Impastato Giuseppe, noto esponente di democrazia proletaria, di Cinisi, che pubblicamente non cessò mai, fino al giorno della sua morte, di accusare, arrivando financo a ridicolizzarlo, il Finazzo Giuseppe, il Badalementi Gaetano e gli altri esponenti della mafia”.
In realtà, sulla causale del delitto e quindi sulla sua stessa matrice mafiosa, persistevano differenze di valutazioni e di convinzioni in seno all’Arma, che trascendevano e prescindevano dalle iniziali e improvvide prese di posizioni, presto ritrattate, del Subranni.
Convinzioni che riflettevano radicati pregiudizi politico-ideologici, quando non addirittura meschine antipatie personali, assai più che non sordidi interessi collusivi con la criminalità mafiosa (fatta salva la possibilità di strategiche convergenze, sempre da dimostrare, nel comune interesse e nell’atavico obbiettivo di arginare il pericolo rosso, cioè l’avanzata dei comunisti o comunque della sinistra nella paventata marcia verso la conquista del potere in Italia).
LA SCONCERTANTE NOTA DEL CAPITANO HONORATI
Ne costituisce riprova la sconcertante Nota del 20 giugno 1984 a firma del nuovo comandante del nucleo operativo del gruppo carabinieri di Palermo, Maggiore Tito Baldo Honarati (citato anche che nel decreto di archiviazione del procedimento a carico del Subranni per il reato di favoreggiamento aggravato in relazione all’omicidio Impastato).
Questi, infatti, nel rispondere alle richieste dei comandi superiori che sollecitavano, anche a seguito delle polemiche seguite all’intervenuta archiviazione, ulteriori indagini per fare luce sul caso Impastato, ribadiva come le indagini — definite molto articolate e complesse — condotte dal nucleo operativo al suo comando — hanno condotto al convincimento che l'Impastato Giuseppe abbia trovato la morte nel predisporre un attentato di natura terroristica; e tale esito non lasciava prevedere né giustificava allo stato ulteriori possibilità investigative.
Nella Nota si sottolineava che «L‘ipotesi di omicidio attribuito all‘organizzazione mafiosa facente capo al boss Gaetano Badalamenti operante nella zona di Cinisi è stata avanzata e strumentalizzata da movimenti politici di estrema sinistra ma non ha trovato alcun riscontro investigativo ancorché sposata dal Consigliere Istruttore del tribunale di Palermo, dr. Rocco Chinnici, a sua volta, è solo opinione di chi scrive, solo per attirarsi le simpatie di una certa parte dell'opinione pubblica conseguentemente a certe sue aspirazioni elettorali, come peraltro è noto, anche se non ufficializzato ai nostri atti, alla scala gerarchica».
Che si arrivasse a dire tanto del dr. Chinnici, a meno di un anno dalla sua tragica morte in occasione della strage mafiosa di via Pipitone Federico, lascia ancora oggi basiti. Ma quel che interessa qui segnalar è che, nel merito, l’estensore delta nota si sforzava di motivare il rilancio della tesi della morte dell'Impastato nel compimento di un attentato per finalità terroristiche, richiamando gli elementi a suo tempo forniti dal medesimo nucleo operativo, ed evidenziando le ragioni che facevano (a lui) ritenere assai fragile la pista alternativa dell’omicidio di mafia: «si vuol fare
osservare, e ciò è di immediata intuizione per chi conosca anche specificatamente questioni di mafia, come una cosca potente, e all'epoca dominante, come quella facente capo al Badalemnti, non sarebbe mai ricorsa per l'eliminazione di un elemento fastidioso ad una simulazione di un fatto così complesso nelle sue componenti anche di natura ideologica, ma avrebbe organizzato o la soppressione eclatante ad esempio e monito di altri eventuali fiancheggiatori dell'Impastato, o la più sbrigativa e semplice eliminazione con il sistema della lupara bianca che ben difficilmente avrebbe comportato particolari ripercussioni».
Erano passati sei anni dal delitto e quasi quattro anni da quando per la prima volta l’allora maggiore (rectius, colonnello) Subranni aveva ritrattato il suo iniziale convincimento.
[…] Ed allora, sul punto può concludersi che la condotta dell’allora maggiore Subranni non fu affatto ineccepibile ed esemplare; ma non può inferirsene che essa sia stata frutto di un deliberato proposito di favoreggiamento nei riguardi della locale cosca mafiosa e non l’espressione, piuttosto, del pervicace attaccamento all’ipotesi investigativa più in sintonia con il clima dell’epoca (oltre che con orientamenti ideologici verosimilmente a quel tempo ancora molto radicati nell’Arma): un’ipotesi investigativa che appariva peraltro giustificata dalle prime evidenze percepibili sulla scena del crimine, e che avrebbe consentito una conclusione dell’inchiesta rapida e funzionale ad alimentare il teorema di infiltrazioni terroristiche tra le fila dell’estrema sinistra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quei “rapporti privilegiati” tra il ministro Mannino e i vertici del Ros. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 ottobre 2022
Il ridimensionamento del ruolo riconosciuto a Calogero Mannino nella vicenda ma ancora di più la sottovalutazione delle reali finalità che spinse gli ex ufficiali del Ros ad intraprendere i contatti con Vito Ciancimino poi sfociati in una doppia trattativa, ha indotto il giudice di primo grado a minimizzare il tema dell’indagine mafia/appalti,
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ridimensionamento del ruolo riconosciuto a Calogero Mannino nella vicenda che ci occupa, ma ancora di più la sottovalutazione dell’importanza che, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti degli ex ufficiali del Ros odierni imputati, riveste l’accertamento delle reali finalità che li spinsero ad intraprendere i contatti con Vito Ciancimino poi sfociati in una doppia trattativa (avuto riguardo al diverso tenore delle proposte che gli avrebbero rivolto nelle due diverse fasi in cui si articolarono tali contatti) ha indotto il giudice di prime cure a minimizzare il tema dell’indagine mafia/appalti, che era stato invece aspramente dibattuto per tutto il corso del giudizio di primo grado.
La sentenza qui appellata esprime quasi rammarico per l’eccessivo spazio dedicato dall’istruzione dibattimentale, soprattutto su sollecitazione della difesa, ad approfondire un tema che poco o nulla avrebbe a che vedere con l’oggetto specifico di questo processo, se non fosse per l’esile filo — cosi testualmente si scrive in sentenza — costituito dalla ulteriore prova dell’esistenza di rapporti privilegiati tra alcuni esponenti politici, e segnatamente Calogero Mannino, e alti ufficiali dell’Arma, tra i quali il generale Subranni.
Ma non era necessario, a parere del primo giudice, scavare tanto su questo particolare capitolo della storia delle indagini che s’inscrivono nel filone mafia e appalti — che oltretutto riguarderebbe vicende risalenti a diversi anni prima dell’epoca in cui si collocano i fatti di causa – per dimostrare, l’accusa, e confinare, la Difesa, la tesi che esistessero rapporti non commendevoli di sudditanza o compiacenza di alcuni alti ufficiali dell’Arma e ambienti della politica o singoli esponenti politici. La prova conclamata ditali rapporti può infatti desumersi, sempre a parere del primo giudice, da ben altre fonti. Argomenti entrambi infelici, in realtà.
“MAFIA E APPALTI”
L’indagine “mafia e appalti” che era stata curata dai carabinieri del Ros intrecciando varie investigazioni da tempo in corso su eventi delittuosi connessi alla gestione illecita degli appalti in alcune cittadini dell’entroterra palermitana e si era poi allargato all’intero territorio siciliano, aveva trovato un primo bilancio nella corposa informativa depositata presso la procura della Repubblica di Palermo in data 20 febbraio 1991 (essendo stata consegnata dal suo estensore, il capitano De Donno, a mani del procuratore aggiunto Giovanni Falcone).
Ma quell’indagine avrebbe registrato un salto di qualità proprio sul finire dell’estate del ‘92, con il deposito in data 5 settembre di una seconda altrettanto corposa informativa che conteneva significativi indizi del possibile coinvolgimento di esponenti politici di rilievo anche nazionale, tra i quali l’on. Salvo Lima (che però nel frattempo era stato ucciso), il ministro Mannino, il presidente della Regione siciliana Rino Nicolosi, portando così alla luce un versante dell’indagine fino ad allora rimasto sottotraccia, e cioè quello delle compromissioni e collusioni di pezzi importanti del mondo politico con il sistema di spartizione degli appalti e relative tangenti, in cogestione con le cosche mafiose.
E se è vero che i fatti monitorati in quelle informative erano piuttosto datati, al pari delle intercettazioni che li documentavano, non è men vero che alcune di quelle intercettazioni lambivano o investivano la posizione di Calogero Mannino. Donde la polemica e i sospetti sulle ragioni per cui non si fosse approfondito per tempo quel versante dell’indagine.
Inoltre, ad ottobre dello stesso anno, e quindi in coincidenza con lo sviluppo della trattativa intrapresa dagli stessi carabinieri del Ros con Vito Ciancimino, veniva depositata un’ulteriore informativa, questa volta alla procura della Repubblica di Catania, cui facevano seguito la trasmissione degli atti per competenza alla procura di Palermo e l’esplosione di nuove polemiche con reciproci scambi di accuse (di insabbiamento o depistaggio) tra alcuni ufficiali del Ros e segnatamente il capitano De Donno e alcuni magistrati della procura di Palermo, già titolari dell’indagine mafia e appalti, nonché tra la stessa Procura e l’omologo ufficio requirente di Catania.
Tutte circostanze, quelle appena ricordate, che, secondo le loro difese, spiegherebbero le remore di Mori e De Donno a informare la procura di Palermo della trattativa instaurata con Ciancimino, soprattutto dopo che era venuto a mancare all’interno di quell’ufficio giudiziario un sicuro punto di riferimento come Paolo Borsellino.
I BUONI RAPPORTI TRA MANNINO E IL ROS
Quanto all’esistenza di un asse di rapporti privilegiati tra Mannino e i vertici del Ros, è a dir poco azzardato ritenere che da altre fonti potesse desumersi un rapporto di compiacenza o di sudditanza tale da potere giustificare o anche solo rendere plausibile che ne potesse sortire addirittura un disegno concertato di svendere la linea della fermezza dello Stato per salvare la vita a un politico influente, disonorando, gli ufficiali predetti, la divisa che indossavano. A meno di non voler ritenere:
che le delazioni del Corvo 2 avessero un minimo fondamento, invece che essere — come convennero da subito e con pubbliche esternazioni praticamente tutti i vertici degli apparati investigativi dell’epoca, Sco della polizia di stato incluso - il frutto di un tentativo di sollevare un polverone utile solo a gettare discredito sulle istituzioni e creare imbarazzo con una non peregrina commistione di elementi di verità e invenzioni calunniose ad una serie nutrita di note personalità del mondo della politica, dell’imprenditoria siciliana e della stessa magistratura;
che sia da elevare a sospetto il fatto stesso che Subranni abbia incontrato Mannino per parlare con lui, unitamente al Contrada, delle accuse lanciate nei suoi confronti dall’autore o dagli autori di quell’esposto anonimo. Al riguardo, può giudicarsi censurabile o disdicevole che Subranni non abbia avuto alcuna remora a incontrarlo, posto che il suo reparto era stato delegato dall’A.g. a svolgere accertamenti preliminari in merito al contenuto dell’esposto (si può sostenere infatti che evidenti ragioni di opportunità avrebbero dovuto prevalere sul galateo istituzionale, e indurlo a declinare l’invito a parlare riservatamente di certi argomenti). Ma va pure rammentato che il relativo procedimento venne incardinato, prima, a carico di ignoti e poi di noti per il reato di calunnia. Ed è certo che Mannino non fu l’unico politico siciliano, ma di rilievo nazionale, ad essere stato preso di mira nell’esposto anonimo predetto con accuse tanto infamanti quanto destituite di qualsiasi fondamento; come non fu l’unico politico che, pur essendo potenzialmente inquisito, si sia incontrato a sua volta con Bruno Contrada o con altri esponenti di vertice degli apparati investigati o di intelligence dell’epoca. D’altra parte, il Generale Tavormina, già nel corso delta deposizione resa all’udienza del 19.07.2000 nel processo a carico di Calogero Mannino per concorso esterno in associazione mafiosa aveva dichiarato in un primo momento di non potere escludere e poi di essere certo di avere parlato direttamente con lo stesso Mannino del contenuto dell’anonimo “Corvo2”, sebbene non avesse titolo a svolgere accertamenti al riguardo perché la Dia non aveva ricevuto alcuna delega d’indagine; circostanze confermate anche nella deposizione resa al dibattimento di primo grado di questo processo;
che la sollecitudine di Subranni nel farsi carico delle preoccupazioni di Mannino per la propria incolumità avessero un timbro diverso e sottintendesse una disponibilità ben diverse dalla sollecitudine che anche altri soggetti con cariche apicali degli apparati investigativi e di intelligence — e non ci si riferisce solo a Bruno Contrada, ma anche al citato generale Tavormina - ebbero nei confronti di una personalità che era pur sempre un noto protagonista della vita politica siciliana e nazionale, e, all’epoca dei fatti, ministro in carica;
che, dandosi per dimostrata la sensibilità e, ancora una volta, la sollecitudine del Subranni, ma anche del generale Tavormina, a dare una mano al ministro affinché si facesse chiarezza nel più breve tempo possibile sulle propalazioni accusatorie del pentito Spatola Rosario, ne fosse sortita, con la complicità del povero maresciallo Guazzelli, una “manipolazione” delle indagini scaturite da quelle rivelazioni e quindi una loro rapida conclusione, mentre ben altro esito avrebbero potuto avere se non vi fosse stato l’intervento inquinante dello stesso Guazzelli. Ma a quest’ultimo riguardo, è appena il caso di ricordare che lo stesso Spatola ritrattò le sue accuse con una lettera di scuse indirizzata all’On. Mannino; e che l’indagine a carico di quest’ultimo si chiuse in effetti in tempi rapidi, con un decreto di archiviazione congruamente motivato, ed emesso dal gip del Tribunale di Sciacca in data 11 ottobre 1991 su conforme richiesta avanzata dal Procuratore della Repubblica Messana, dopo che gli atti erano stati trasmessi per competenza dalla procura di Marsala; e che nessun riscontro probante alle accuse dello Spatola — che indicava il Mannino come uomo d’onore e organico alle cosche agrigentine, ma poi ammetteva di non poter riferire nulla, né per conoscenza diretta, né per notizie apprese da altri, circa eventuali condotte del Mannino in favore della consorteria mafiosa – era emerso dalle indagini; e che queste ultime erano state espletate non dai carabinieri del Ros bensì, per alcuni accertamenti specifici, dal N.o carabinieri di Agrigento, ma per la gran parte dalla Squadra Mobile di Trapani e poi dal Commissariato p.s di Sciacca. E ciò in evasione, rispettivamente, ad una corposissima delega d’indagine che era stata conferita, prima di trasmettere gli atti per competenza alla Procura di Sciacca, dal procuratore di Marsala Paolo Borsellino, e ad una successiva delega d’indagine dello stesso Procuratore di Sciacca. Anche se quest’ultimo, sia pure solo a conclusione delle indagini predette, aveva altresì richiesto ai carabinieri del Ros ulteriori informazioni sul conto dell’On. Calogero Mannino in ordine ad una sua eventuale appartenenza o vicinanza a gruppi di criminalità organizzata, ricevendone una risposta seccamente negativa.
Vi fu dunque un coinvolgimento informale, dei carabinieri del Ros, ed una sollecita e netta presa di posizione in favore del politico inquisito che sembrerebbero comprovare l’esistenza di buoni rapporti all’epoca intercorrenti tra il politico siciliano e il Ros comandato dal generale Subranni. Questi, peraltro, a dire del generale Tavormina, aveva conosciuto personalmente proprio quell’anno, e quindi pochi mesi prima, il ministro Mannino. Ma L’intervento del Ros sarebbe stato comunque del tutto marginale e giunto a indagini praticamente concluse. Altro è inferire che vi sia stato un intervento decisivo di inquinamento delle carte in favore del ministro inquisito. […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’inchiesta “mafia & appalti”, una questione cruciale per la difesa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 25 ottobre 2022
Era interesse della difesa dimostrare quanto infondato fosse il sospetto di favoritismi e di avere tenuto una condotta men che corretta nello svolgimento dell’indagine su mafia e appalti; e come tale indagine, anzi, mirasse a portare alla luce il groviglio di interessi politico-affaristico-mafiosi che inquinava il sistema di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ciò premesso, non poteva questa Corte assecondare l’impostazione, né condividere la valutazione del giudice di primo grado, tese entrambe a minimizzare la rilevanza del tema ora in esame.
Perché se fosse provato che i carabinieri del Ros avevano indagato a fondo e senza riserve la posizione di Calogero Mannino e degli altri esponenti politici di rilievo nazionale indiziati di essere coinvolti nel sistema tangentizio e di spartizione degli appalti; se fosse provato che non avevano omesso di riferire all’A.g. gli elementi che andavano emergendo a carico del Mannino — o di altri — nello svolgimento dell’indagine mafia e appalti (che non era affatto conclusa nell’estate del ‘92); se fosse provato che non avevano amputato il compendio di intercettazioni allegato alla prima informativa depositata in procura delle intercettazioni che contenevano gli elementi più compromettenti o comunque di maggiore interesse investigativo sul conto di Mannino (o di altri); se dunque fosse provato che avevano indagato sulle ingerenze politico mafiose nel sistema degli appalti - e continuavano a farlo, avuto riguardo all’informativa “Sirap”, depositata il 5 settembre ‘92 — senza sconti per l’on. Mannino; se tutto ciò fosse provato, allora sarebbe arduo continuare a sostenere, o anche solo ipotizzare, che gli stessi carabinieri del Ros contestualmente si adoperassero, su input e nell’interesse preminente del medesimo uomo politico, per creare le premesse di un negoziato tra lo stato e i vertici di Cosa nostra.
Era dunque, ed è, precipuo interesse della Difesa, e degli odierni appellanti approfondire talune vicende da un’angolazione e con esiti che fossero idonei a trarne elementi utili a confutare alla radice l’ipotesi accusatoria.
Un’ipotesi, va rammentato, che attribuisce anzitutto all’on. Mannino il ruolo di istigatore, sia pure indiretto e quindi “morale”, del reato per cui si procede, per avere innescato la sciagurata iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros attraverso i contatti instaurati con Vito Ciancimino e finalizzata a tutelarne l’incolumità, anche a costo di concessioni che esaudissero le richieste di Cosa nostra, in sfregio alla linea della fermezza dello stato nell’azione di contrasto alla mafia.
E in particolare, era interesse della Difesa dimostrare quanto infondato fosse il sospetto di favoritismi e di avere tenuto una condotta men che corretta nello svolgimento dell’indagine su mafia e appalti; e come tale indagine, anzi, mirasse a portare alla luce il groviglio di interessi politico-affaristico-mafiosi che inquinava il sistema di aggiudicazione degli appalti di opere pubbliche, involgendo autorevoli e influenti uomini politici tra i quali proprio il ministro Mannino.
Su quest’ultimo il Ros non avrebbe mai smesso di indagare, su delega della procura della Repubblica di Palermo, retta dal nuovo procuratore Caselli (formalmente insediatosi proprio il 15 gennaio 1993), fino al suo arresto, avvenuto nel febbraio del 1995 (ed eseguito dai carabinieri del Ros).
L’INDAGINE E LE TENSIONI CON LA PROCURA DI PALERMO
E proprio tale indagine, la cui importanza si sarebbe confermata negli anni a venire fungendo da apripista a tutto un filone investigativo che avrebbe poi conseguito risultati straordinari nell’azione di contrasto alla corruttela affaristico-mafiosa, sarebbe stata all’origine di contrasti e tensioni con la procura di Palermo, o almeno con alcuni magistrati di quell’Ufficio, già titolari dell’inchiesta “mafia e appalti”, oltre che di valutazioni divergenti sulla reale consistenza delle risultanze acquisite e sulla possibilità concreta di ulteriori sviluppi di quell’indagine.
In tale prospettiva, era interesse della Difesa rinvangare anche vicende di contorno utili a rappresentare il clima di tensione, diffidenze e sospetti reciproci nei rapporti del Ros con la procura di Palermo. Un clima tale, secondo la lettura che ne offre la stessa Difesa, da giustificare in qualche misura le remore ad informare la procura di Palermo, almeno fino a quando non s’insediò il nuovo procuratore, dell’iniziativa concretizzatasi nella trattativa con Vito Ciancimino (con fasi alterne e un brusco cambio di spartito ad un certo momento, ma complessivamente protrattasi per circa sei mesi): tenendo presente, sempre nell’ottica difensiva, che non vi fu mai alcuna reale intenzione di aprire un negoziato con Cosa nostra, ma solo l’obbiettivo di spingere un personaggio accreditato di un notevole spessore mafioso di collaborare con gli inquirenti.
D’altra parte, come già segnalato, delle due condotte in cui secondo l’accusa si sarebbe sostanziato il concorso di Calogero Mannino al reato per cui qui si procede il giudice di prime cure ha ritenuto di doversi occupare solo della prima, derubricandola a mero antecedente causale della vicenda che ci occupa.
Ora, si può convenire sulla valutazione secondo cui tale condotta, in sé considerata, non avrebbe alcuna rilevanza penale, poiché non integra gli estremi di un’istigazione sussumibile nello spettro dell’art. 110 c.p. in relazione all’ipotesi di minaccia a corpo politico dello stato (art. 338 c.p.). Si tratterebbe al più di un’istigazione a istigare, e allora poco importa che l’iniziativa in questione sia stata concertata: essa si dislocherebbe in una fase in cui non è ravvisabile alcun comportamento penalmente rilevante, neppure da parte degli ufficiali del Ros, così come non è ancora una condotta penalmente rilevante l’avere contattato Vito Ciancimino, essendo quei contatti preliminari suscettibili degli esiti più disparati (ed allora poco importa che li avessero intrapresi di propria iniziativa o in forza di un disegno previamente concertato con l’on. Mannino o addirittura su incarico di quest’ultimo).
Ma resta il fatto che, anche nella ricostruzione fattuale sposata dal primo giudice, quella condotta costituirebbe pur sempre un antecedente causale necessario, che spiegherebbe e quindi connoterebbe gli sviluppi successivi della vicenda della trattativa stato-mafia; e, in particolare, essa ipotecherebbe l’illiceità delle successive condotte poste in essere dagli ufficiali del Ros, odierni imputati: altro è attivarsi per tutelare un’alta personalità politica dal rischio di attentati, senza con ciò esondare sostanzialmente dalle proprie competenze e dai propri poteri (e soprattutto dai propri doveri); altro è, invece, che un pugno di ufficiali abusi dei propri poteri per imbastire, su input e comunque nell’interesse di un influente uomo politico (anche se in questo caso l’interesse consisteva in ultima analisi nel salvarsi e salvargli la vita) di trame sotterranee mirate a influenzare ed orientare le decisioni dell’autorità di governo.
LA TRATTATIVA E LE REALI FINALITÀ DEL ROS
Ma poiché è provato che la trattativa con Vito Ciancimino si svolse in effetti attraverso una trama sotterranea di cui vennero edotti, per sommi capi e non senza ambiguità nel prospettare natura e le reali finalità dell’iniziativa, solo i vertici politico-istituzionali, per riceverne la copertura e il sostegno necessari perché andasse a buon fine, non è irrilevante stabilire se gli odierni imputati fossero mossi dalla finalità esclusiva di fermare le stragi, anche a costo di dovere, lo stato, fare delle concessioni ad un’organizzazione criminale come Cosa nostra; o se finalità precipua fosse quella di salvare la vita a un potente uomo politico con il quale intercorressero relazioni di scambio (di favori e protezioni): fino a sacrificare a interessi privati la linea della fermezza dello Stato nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Ecco perché è tutt’altro che secondario stabilire se vi fosse o non una propensione a farsi carico degli interessi dell’on. Mannino, sia che si trattasse di provvedere alla sua incolumità, sia che si trattasse di preservarlo da inchieste che potevano attentare alla sua immagine pubblica e alla reputazione politica, o addirittura portare alla luce profili di responsabilità penale per illeciti commessi nell’aggiudicazione o nella gestione spartitoria degli appalti o nel loro finanziamento, e in altri lucrosi affari.
La stessa sequenza di incontri e triangolazioni tra Mannino e Subranni e Guazzelli, Mannino, Subranni e Contrada, già scrutinata senza trame implicazioni rilevanti per l’accusa, potrebbe essere (ri)letta in una luce diversa, se fosse provata una tendenziale compiacenza e sudditanza del generale Subranni e degli ufficiali al suo comando verso interessi personali e “privati” del Mannino.
Pertanto, era ed è essenziale per le Difese appellanti dimostrare che non vi furono né compiacenza né sudditanza; e che anzi il Ros comandato dal generale Subranni, nel quadro delle investigazioni condotte e coordinate in prima persona dal capitano De Donno sugli intrecci tra mafia e appalti, indagò senza riserve e senza favoritismi anche su fatti che involgevano la persona dell’on. Mannino; e non nascose all’A.g. nulla di quanto emerso e nulla di quanto andava emergendo sul suo conto nel corso delle indagini.
Già sotto questo primo aspetto era doveroso da parte di questa Corte non precludere alle difese più interessate la possibilità di coltivare una serie di approfondimenti istruttori che, senza appesantire più di tanto l’iter del giudizio d’appello (consistendo quasi esclusivamente in richieste di acquisizioni documentali), miravano ad evidenziare la fragilità delle basi dell’accusa nei riguardi in particolare, degli ufficiali del Ros odierni appellanti. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La consegna in massa dei latitanti e il rifiuto di don Vito Ciancimino. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 ottobre 2022
Vito Ciancimino ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero, gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile, ovvero la consegna dei latitanti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Sotto altro aspetto, poi, si coglie un’ulteriore ragione per riconoscere la rilevanza del tema relativo all’indagine mafia e appalti. È, invero, tutt’altro che sottile il filo che lo lega all’oggetto specifico del presente giudizio, ove si abbia riguardo alla possibile incidenza — che la sentenza appellata afferma perentoriamente esservi stata — dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quell’indagine, e della sua determinazione a riprenderla ed approfondirla, sulla (presunta) brusca accelerazione che sarebbe stata impressa all’attuazione del progetto già pendente di ucciderlo.
In realtà, nella costruzione del percorso logico-probatorio che ha condotto il giudice di primo grado ad affermare la penale responsabilità di Subranni, Mori e De Donno quali concorrenti nel reato di minaccia a un corpo politico dello stato, un momento importante è dato dall’assunto, che si assume provato con certezza, secondo cui fu proprio l’avere avuto sentore che uomini dello Stato si erano fatti sotto per sollecitare l’apertura di un dialogo a indurre Salvatore Riina a imprimere quella brusca accelerazione, così sconvolgendo o modificando la sua scaletta degli attentati in programma (come quello in danno del Ministro Mannino).
E nella valutazione del primo giudice questa circostanza offrirebbe un primo e tutt’altro che secondario riscontro logico-fattuale all’ipotesi che Riina, non soltanto fu informato di quella sollecitazione al dialogo, ma vi intravide l’opportunità di sfruttare l’improvvida iniziativa dei carabinieri per trame il massimo vantaggio, nel senso di poter trattare da una posizione di forza.
A tal fine sarebbe servito dare alla controparte una nuova terrificante dimostrazione della potenza di Cosa nostra, che, implementandone in modo cruento il potere “contrattuale”, inducesse lo stato ad accettare condizioni altrimenti difficilmente proponibili e ad accogliere richieste altrimenti irricevibili.
Riina, quindi, avrebbe fatto precedere dalla nuova strage la formulazione di specifiche richieste, o le avrebbe formulate subito dopo la strage, affinché la controparte istituzionale comprendesse, senza possibilità di equivoco, che non esistevano margini per una possibile trattativa, cioè per un vero negoziato. In altri termini, una volta costatato che dopo e proprio a seguito della strage di Capaci lo stato manifestava segni di cedimento e di debolezza sollecitando l’avvio di un negoziato per fare desistere Cosa nostra da ulteriori spargimenti di sangue, un nuovo eccidio – e tale fu la strage di via D’Amelio per il modo in cui fu concepita oltre che attuata – sarebbe quindi servito a Riina a metterlo nelle condizioni di poter trattare da una posizione di forza, anzi di impostare la trattativa con lo Stato nell’unico modo a lui congeniale che non contemplava un estenuante negoziato ma solo l’accettazione delle condizioni da lui imposte.
E in questo senso talune affermazioni di Riina, nelle conversazioni con il co-detenuto Lorusso, captate a loro insaputa al carcere di Opera, e segnatamente quando dice di sé di non avere mai trattato con nessuno […] , deporrebbero non nel senso di negare che una trattativa vi sia stata, ma solo che egli abbia mai “negoziato” con qualcuno, consistendo l’unica trattativa per lui concepibile appunto nell’imporre le proprie condizioni in cambio della rinuncia a soddisfare le proprie pretese con la violenza.
E infatti quando dice che “Riina non trattava, ma furono gli altri che trattarono con lui” (cfr. conversazione intercettata il 10 ottobre 2013 [...]), esprime il medesimo concetto, volendo significare che erano stati altri a pendere l’iniziativa di trattare: con ciò implicitamente confermando, come rileva il giudice di prime cure, che una trattativa c’era stata, ma per iniziativa di altri che lo avevano invitato a far conoscere le sue richieste.
Sarebbe allora indirettamente provato, attraverso la logica concatenazione dei fatti accertati, anche ciò che i diretti protagonisti di quella trattativa (a parte lo stesso Riina) hanno, con accenti diversi, sempre negato o mai ammesso: e cioè che Riina fece avere, attraverso il canale aperto dai carabinieri con Ciancimino e Cinà un “pacchetto” di specifiche richiese, il c.d. “papello” da intendersi come condizioni (non negoziabili) per la cessazione di omicidi e stragi.
CIANCIMINO, CINÀ E LA TRATTATIVA
Invece, come s’è visto, Cinà, ammette di essere stato informato da Vito Ciancimino dei contatti intrapresi con i carabinieri del Ros, senza che, peraltro, gli specificasse cosa volessero («Ricordo bene che mi disse testualmente che preferiva morire piuttosto che tornare in carcere. Mi disse anche voleva ottenere il passaporto. A questo punto, aggiunse che mi doveva dire una cosa importante ovverosia che si erano rivolti a lui i Carabinieri facendomi il nome del colonnello Mori e del Capitano De Donno, ma non mi disse né le ragioni né cosa volessero»); ammette di avere altresì ricevuto dallo stesso Ciancimino la richiesta di metterlo in contatto con Riina («aggiunse ancora che voleva mettersi subito in contatto con la controparte»); nega però di averne informato il capo di Cosa Nostra, e afferma di avere detto subito a Ciancimino che questi aveva maggiori possibilità di lui di contattare le persone cui si riferiva («gli risposi comunque che era impossibile che io potessi aiutarlo, spiegandogli che non avevo modo di contattare nessuno, atteso che potevo incontrare le persone cui lui si riferiva solo su loro richiesta e solo dopo laboriosa accortezza. Gli accennai anche che era impossibile contattarli attraverso comunicazioni scritte, considerato che sarebbe trascorso almeno un mese. Aggiunsi che lui aveva sicuramente più possibilità di me per poterli contattare») suggerendogli tuttavia, giusto per chiudere il discorso, di farsi aiutare dai carabinieri ad aggiustare i suoi processi («nell'occasione, constatando il suo stato di prostrazione e depressione per i motivi che ho già detto, ne approfittai per suggerirgli, per chiudere il discorso, ritenendo improbabile che, se davvero il contatto vi fosse stato, di chiedere ai Carabinieri di aiutarlo nei suoi processi»).
Vito Ciancimino a sua volta, sia nelle sue dichiarazioni all’A.g che nei suoi scritti ha riferito di avere ricevuto dai vertici mafiosi, attraverso l’ambasciatore, alias Antonino Cinà, una piena delega a trattare con i carabinieri. Ma sostiene che la trattativa si chiuse, almeno in quella prima fase, non appena alla sua richiesta di sapere cosa offrissero (in cambio), gli stessi carabinieri avanzarono una proposta irricevibile (ovvero la consegna dei latitanti). Come si vedrà nel prosieguo, Ciancimino non dice, ma neppure esclude, di avere ricevuto da Riina richieste o almeno indicazioni specifiche su cosa chiedere alla controparte in cambio della cessazione delle stragi, glissando su punto.
Quanto a Mori e De Donno, entrambi negano fermamente di avere mai avuto in visione un papello di richieste provenienti da Riina o altro esponente di vertice dell’organizzazione mafiosa, o che Ciancimino abbia fatto loro il minimo cenno a specifiche richieste avanzate dai vertici mafiosi, confermando che quel simulacro di trattativa — giacché a loro dire non avevano mai avuto alcuna reale intenzione di negoziare — si sarebbe infranta non appena i carabinieri, invitati dal Ciancimino a dire cosa fossero disposti ad offrire (per conto di chi li mandava), e non sapendo cosa dire, buttarono lì una proposta che loro per primi ritenevano ovviamente irricevibile per Cosa nostra.
Ebbene, è stato sforzo comune alle difese di Mori, Subranni e De Donno quello di provare che, se vi fu accelerazione nell’iter attuativo della strage di via D’Amelio — presupposto che non è affatto scontato — la causa ditale accelerazione non ha nulla a che vedere con la presunta trattativa, ma deve piuttosto ricercarsi nel rinnovato interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti; e nel timore dei vertici mafiosi — e degli influenti potentati con cui Cosa nostra aveva allacciato lucrose relazioni d’affari strutturate in un vero e proprio sistema di spartizione degli appalti — per i suoi potenziali sviluppi.
Nella diversa prospettazione difensiva, coltivata anche nel presente giudizio d’appello, verrebbe quindi meno, o ne sarebbe essenzialmente corroso, uno dei pilastri della piattaforma probatoria che supporta l’impugnata pronuncia di condanna, atteso che, nella ricostruzione sposata dalla Corte d’Assise di primo grado, la condotta costitutiva del reato per cui si procede prese corpo con la formulazione di specifiche richieste avanzate da Riina come condizione per la cessazione delle stragi, in tale correlazione sostanziandosi l’esternazione della minaccia a corpo politico dello stato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Depistaggi veri e presunti intorno al mistero di una doppia informativa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 28 ottobre 2022
La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dalle dichiarazioni del sedicente collaborante Li Pera e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile a Cosa nostra.
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La tesi dell’esistenza di una seconda versione del rapporto mafia/appalti, molto più completa e approfondita soprattutto nella parte concernente gli approfondimenti o quanto meno i materiali raccolti (id est, trascrizioni di intercettazioni telefoniche) sul versante delle collusioni politico-affaristiche-mafiose e del coinvolgimento nelle indagini, se non in specifici fatti illeciti inerenti alla gestione degli appalti pubblici, era caldeggiata dalla pubblica accusa, per la rilevanza che si riteneva di potervi annettere, sotto un duplice profilo.
Anzitutto, ne uscirebbe comprovato il legame di solidarietà tra alti ufficiali del Ros e alcuni esponenti politici tra i quali, in particolare l’on. Calogero Mannino il cui coinvolgimento nelle vicende oggetto d’indagine sarebbe stato deliberatamente occultato, escludendo dalla copia del rapporto consegnato ai magistrati della Procura di Palermo titolari del procedimento mafia/appalti gli atti e segnatamente le intercettazioni in cui si parlava di noti esponenti politici siciliani e nazionali, tra i quali appunto il predetto Mannino: con la conseguenza che potrebbe inferirsene un ulteriore, ancorché indiretto riscontro all’ipotesi accusatoria che prefigura la trattativa intrapresa con Ciancimino come frutto di un disegno mirato non già a favorire la cattura dei boss latitanti e neppure a porre fine alle stragi, bensì più prosaicamente a salvare la vita al Mannino, ovvero a sventare la minaccia — fondata e incombente — di essere l’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti la prossima vittima, dopo Lima, propiziando uno scambio tra la concessione di favori e vantaggi a Cosa Nostra e la revoca della sentenza di condanna a morte già emessa dal “tribunale” mafioso.
Ma sotto questo aspetto, ha buon gioco la difesa a replicare che, anche volendo dare credito ad una tesi che in realtà si è rivelata infondata o comunque non supportata da idonei elementi di prova (con il suggello, adesso del giudicato assolutorio nei riguardi dell’illustre coimputato), l’on. Mannino non era l’unico esponente politico di cui sarebbe stato omesso il nome o nascosto il possibile coinvolgimento nell’indagine mafia/appalti.
E di contro, la sentenza qui appellata — che sulla questione della doppia refertazione sembra piuttosto sospendere il giudizio, reputandola ininfluente ai fini della decisione - replica che quei legami sono aliunde provati, come è provato che l’on. Mannino fu realmente fatto segno ad un progetto di attentato che all’epoca dei fatti era già in fase avanzata di esecuzione; così come sarebbe provato che, attinto da minacce specifiche e concrete — ancorché dissimulate da amichevoli consigli - e venuto a conoscenza dell’esistenza di un progetto di attentato ai suoi danni, lo stesso Mannino aveva mobilitato le conoscenze ed entrature di cui disponeva all’interno degli apparati di polizia, non solo per verificare la fondatezza delle minacce e la gravità del pericolo cui si sentiva — ed era — esposto, ma per trovare una via d’uscita al problema della sua sicurezza personale, al di fuori di canali ufficiali e istituzionali: fino ad esplorare anche la possibilità di aprire un negoziato con i vertici mafiosi che avevano decretato la sua morte.
Nella ricostruzione sposata dalla sentenza di primo grado, piuttosto nebulosa sul punto, si conferma che fu Mannino a innescare l’iniziativa intrapresa dagli ufficiali del Ros e si propende per l’ipotesi che ne sia stato altresì l’ispiratore; ma non si esclude la possibilità che egli si sia limitato a prospettare, al generale Subranni come al generale Tavormina, i termini del problema che lo assillava e a rivolgere una sollecitazione (non meglio definita) anche solo implicita, premendo per una soluzione che sarebbe stata poi ideata o sviluppata da Subranni e da questi concertata con gli ufficiali del Ros alle sue immediate dipendenze, che a loro volta vi diedero concreta attuazione.
IL PRESUNTO OBIETTIVO DEL ROS
In realtà non sarebbe poi così ininfluente la prova che gli ufficiali del Ros odierni imputati si fossero a suo tempo adoperati per preservare l’on. Mannino dal rischio di un coinvolgimento nelle indagini mirate ad approfondire il nodo degli intrecci collusivi tra mondo della politica e delle istituzioni, ambienti imprenditoriali e criminalità mafiosa, con specifico riguardo alla creazione di un inedito network criminale tra grossi gruppi imprenditoriali e organizzazioni mafiose.
Se ciò fosse provato, ne uscirebbe infatti corroborata, sia pure indirettamente, l’ipotesi che gli stessi ufficiali dell’Arma, già adusi a condotte contrarie ai propri doveri d’ufficio, o di aperto favoreggiamento, possano avere concepito e concertato un’iniziativa non meno contraria a quei doveri per venire incontro a pressanti esigenze di un influente esponente politico della cui sorte già in un recente passato si erano fatti carico e con cui intrattenevano, in ipotesi, relazioni di mutuo interesse.
Ma questa Corte non si nasconde che l’assunto di una doppia informativa nella prospettazione accusatoria potrebbe anche avere ben altra rilevanza.
La (presunta) seconda copia, cioè quella integrata con gli atti da cui si desumerebbe il coinvolgimento nella illecita gestione degli appalti da parte di noti esponenti politici, e arricchita dagli ulteriori elementi scaturiti dalle propalazioni del sedicente collaborante Li Pera (geometra e già capo area per la Sicilia di una delle più grosse imprese, di rilievo nazionale, investite dall’investigazione del Ros) e dalle indagini che ne erano seguite, devierebbe, rispetto all’impostazione iniziale, nel ricostruire il ruolo ascrivibile all’organizzazione mafiosa.
Un ruolo che, alla luce delle propalazioni del Li Pera, tornava ad essere ancillare o secondaria sullo sfondo di una vicenda di corruttela politico-amministrativa non dissimile da quella che su scala nazionale era stata portata alla ribalta dall’indagine Mani Pulite del pool di magistrati della procura di Milano, e dalle analoghe indagini svolte da tanti altri uffici requirenti.
E questo dichiarato ridimensionamento del ruolo di Cosa nostra, e conseguente affievolimento dell’attenzione sul coinvolgimento dei capi dell’organizzazione criminale, sarebbe stato funzionale al disegno in quel momento in corso di esecuzione della “trattativa” intrapresa con gli stessi vertici mafiosi attraverso l’intermediazione di Vito Ciancimino.
Insomma, si spegnevano i riflettori, o si abbassava la luce sul coinvolgimento dei capi di Cosa Nostra nella creazione e nella gestione unitaria e verticistica di un sistema di spartizione degli appalti, per favorire la trattativa in corso o per creare un clima favorevole al suo svolgimento.
In tale prospettiva, non rileverebbe tanto stabilire se all’epoca della consegna della prima informativa sull’indagine mafia/appalti (20 febbraio ‘91) ne esistesse già una seconda versione, più completa e con i nomi dei maggiori esponenti politici coinvolti (il presidente della Regione siciliana, Rino Nicolosi,. l’on. Lima e l’on. Mannino, ma anche l’on. Carlo Vizzini) e per quale ragione si omise di segnalare già nel primo rapporto quei nominativi che invece figureranno poi nel corpo o negli allegati delle informative depositate successivamente (quella del 5 settembre; l’informativa “Caronte” depositata alla procura di Catania il 1° ottobre 1992; e ancora, l’informativa trasmessa alla Procura di Palermo nel novembre 1992).
Piuttosto la vicenda assumerebbe una certa rilevanza, nella prospettiva accusatoria, perché disvelerebbe un tentativo surrettiziamente perpetrato dai carabinieri del Rosdi valorizzare le propalazioni del Li Pera — sollecitato a rendere dinanzi all’A.g. di Catania dichiarazioni sulle stesse vicende già oggetto del procedimento principale nr. 2789/90 R.G.N.R. a carico di Siino Angelo e altri e dei procedimenti ad esso connessi come: il proc. 11. 2811/89 a carico di Pinello Giuseppe, scaturito dalle rivelazioni in ordine ai metodi di manipolazione degli appalti pubblici dell’ex sindaco di Baucina, Giaccone Giuseppe, a sua volta imputato del reato di cui all’art. 416 bis C.P.; il proc. N. 198 1/89 a carico di Modesto Giuseppe e altri, imputati del reato di cui all’art. 416 bis c.p., sempre in ordine ai metodi di illecita manipolazione degli appalti pubblici da parte di esponenti mafiosi tra i quali proprio il Siino; e il proc. N. 1155/90 N.C. originato dalle dichiarazioni rese alla Commissione Antimafia da vari sindaci di Comuni delle Madonie sul fenomeno del racket delle progettazioni nel settore degli appalti— e di svolgere ulteriori indagini sui medesimi temi, all’insaputa della procura di Palermo e dei magistrati titolari dell’inchiesta cui gli stessi carabinieri avevano lavorato, condensandone le prime risultanze nel rapporto mafia/appalti depositato il 20 febbraio 1991.
UN’IPOTESI IMPORTANTE
L’ipotesi di un potenziale sviamento delle indagini nel 1992, messo in atto (con l’informativa “Sirap” e l’informativa “Caronte”) dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, e per accreditare la tesi di un sistema di manipolazione delle gare e di spartizione degli appalti pubblici gestito mediante un triangolo costituito solo da politici e amministratori corrotti e da imprenditori, senza alcuna significativa presenza della mafia (in palese contrasto con l’assunto investigativo sostenuto dallo stesso Ros nell’originaria informativa depositata il 20 febbraio 1991), era stata formulata dalla Procura della Repubblica di Palermo nella citata relazione del 5 giugno 1998 a firma dei due Aggiunti (Lo Forte e Croce) e dei sostituti titolari di inchieste del filone mafia-appalti, indirizzata al procuratore capo Caselli e da questi consegnata al Csm nel corso di un’audizione tenutasi a Palermo il 3 febbraio 1999. Ivi si richiamavano le considerazioni svolte già nella “Relazione sui procedimenti instaurati a Palermo su mafia e appalti”, depositata presso il Csm in data 7 dicembre 1992, secondo cui tra le anomalie che avrebbero contrassegnato lo svolgimento dell’indagine mafia e appalti istruita dalla Procura di Palermo spiccherebbe il tentativo di sviarne gli sviluppi per accreditare la falsa tesi di un sistema di manipolazione degli appalti operante anche in Sicilia senza alcuna significativa presenza di Cosa Nostra.
E in tal senso avrebbero militato le indagini curate dal cap. De Donno lungo la linea suggerita dalle dichiarazioni rese dal geometra Li Pera all’A.g. catanese, con l’effetto (potenziale) di determinare, a beneficio degli imputati sotto processo in quel momento a Palermo (in data 9 marzo 1992 era stata avanzata richiesta di rinvio a giudizio per Siino Angelo, Farinella Cataldo, Falletta Alfredo, Li Pera Giuseppe, Buscemi Vito e Cascio Rosario, e al 19 ottobre era stata fissata la data di inizio del processo) la sostanziale fuoriuscita di Cosa nostra dall’orizzonte processuale delle vicende di illecita spartizione degli appalti, attribuendosi all’organizzazione mafiosa un ruolo del tutto marginale o episodico; e, come effetto immediato più tangibile, la derubricazione dell’accusa, per tutti gli imputati, da associazione mafiosa. ex art. 416 bis ad associazione a delinquere comune, ex art. 416 c.p.p.. con la conseguente prevedibile scarcerazione di tutti gli imputati”.
Le citate relazioni sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia-appalti (e cioè quella del 7 dicembre 1992 e la relazione del 5 giugno 1998), per la parte concernente il triennio 1989/1992 lasciavano però aperto l’interrogativo circa le reali finalità dell’ipotizzato sviamento delle indagini, limitandosi a segnalare le negative ripercussioni di natura processuale che esso avrebbe avuto nel processo che stava per iniziare a carico di Siino Angelo e gli altri coimputati del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso (finalizzata al controllo e alla gestione illecita di appalti pubblici in Sicilia).
Nella ri-lettura della medesima vicenda operata dalla pubblica accusa nel presente processo, il disegno consistito nell’aver ridimensionato il ruolo di Cosa n0ostra, asseverando una rappresentazione del sistema di spartizione degli appalti in Sicilia non dissimile da quello disvelato su scala nazionale dall’inchiesta Mani Pulite, avrebbe mirato ad oscurare le effettive responsabilità dei vertici mafiosi per favorire l’apertura di un dialogo finalizzato a far cessare le stragi. Una sorta di depistaggio, insomma, a beneficio del buon esito di quella trattativa occulta.
Dal raffronto dei verbali delle dichiarazioni del geometra Giuseppe Li Pera (già rappresentante per la Sicilia della RIZZANI-DE ECCHER. impresa di rilievo nazionale, tratto in arresto in esecuzione dell’o.c.c. emessa il 9 luglio 1991 dal GIP di Palermo nel procedimento a carico di Siino Angelo e altri) nel corso della sua sedicente collaborazione con varie autorità giudiziarie (compresa la procura di Milano, come attesta il verbale d’interrogatorio reso dal Li Pera al pm Antonio Di Pietro il 12 novembre 1992) emerge sicuramente il tentativo dello stesso Li Pera di introdurre surrettiziamente, per proprie convenienze difensive, nel procedimento a suo carico per il reato di associazione mafiosa, imputazione per la quale era alle viste la conclusione della fase delle indagini preliminari e poi l’inizio del processo, una rappresentazione del sistema di aggiudicazione degli appalti che, oltre a minimizzare il suo ruolo personale (descrivendosi come una rotella vittima di un ingranaggio molto più grande di lui), oscurasse il ruolo della componente mafiosa, a beneficio, sia pure indirettamente, della sua posizione processuale, essendo il Li Pera imputato appunto del reato di associazione mafiosa in relazione alla sua partecipazione a quel sistema.
Se, infatti, al pm di Catania dott. Lima il dichiarante si sforzava di accreditare quella rappresentazione in relazione alle vicende per cui era indagato presso l’A.g. di Palermo, interrogato, invece, dalla procura di Milano non aveva alcuna remora ad attribuire all’organizzazione mafiosa un ruolo specifico nel sistema di illecita spartizione degli appalti in Sicilia, e tale da farne una componente essenziale di quel sistema.
L’INDAGINE SULLA SIRAP
Quanto all’impostazione complessiva dell’informativa depositata il 5 settembre 1992, non va dimenticato che essa fu redatta in evasione alla delega d’indagine del 26 luglio 1991, e rispecchiava - e rispettava - una precisa direttiva formulata in quella complessa e articolata delega, con la quale venivano disposte dalla Procura di Palermo approfondite e ampie indagini sulla Sirap Spa (società partecipata dalla regione attraverso l’Espi, con sede a Palermo e incaricata della progettazione e realizzazione di 20 aree attrezzate per attività produttive, per un importo complessivo di mille miliardi di vecchie lire).
Ed invero, come si legge nella citata relazione sulle indagini mafia-appalti, da varie acquisizioni processuali (intercettazioni telefoniche, dichiarazioni testimoniali e interrogatori degli indagati del procedimento a carico di Siino ed altri) «risultava che il centro di interessi dell’organizzazione mafiosa era costituito dalle gare d’appalto bandite per un importo complessivo di mille miliardi dalla predetta Spa, società a capitale pubblico incaricata dalla Regione Siciliana di curare l’espletamento di gare finalizzate alla realizzazione di venti insediamenti industriali-artigianali in vari comuni della Sicilia».
Da qui il conferimento ai carabinieri del Ros di una complessa e articolata delega di indagine per accertare, tra l’altro, la natura dei finanziamenti ottenuti dalla Sirap e le scelte relative alla loro utilizzazione ed i criteri di individuazione logistica delle aree da attrezzare; e per escutere gli amministratori della Sirap, anche con riferimento a quanto emerso dagli interrogatori degli indagati, nonché tutti i pubblici amministratori degli Enti locali ove erano state o si sarebbero realizzare tutte le opere menzionate nell’informativa, con specifico riferimento alle modalità di finanziamento delle stesse ed ai loro eventuali rapporti con gli indagati; e le decine di altre persone già indicate come informate sui fatti; oltre a completare l’acquisizione dei documenti relativi alle
gare d’appalto menzionate nell’informativa e dare esecuzione a decreti di perquisizione negli uffici della Sirap e in altri uffici pubblici e abitazioni private e svolgere tutte le indagini conseguenziali riferendo con ulteriore informativa.
In sostanza, oltre a neutralizzare gli esponenti più pericolosi dell’organizzazione mafiosa, o che tali apparivano sulla base delle risultanze fino a quel momento acquisite e nei confronti dei quali erano stati acquisiti idonei elementi di colpevolezza - obbiettivo che era stato già conseguito con l’emissione (il 9 luglio 1991) di ordinanze di o.c.c. nei riguardi di Siino Angelo, Farinella Cataldo, Faletta Alfredo e Li Pera Giuseppe, capaci di reggere tutte al vaglio del Tribunale del Riesame e confermate in cassazione — la strategia della Procura palermitana mirava ad acquisire ulteriori elementi in ordine ad altri soggetti già indagati in quanto individuati nell’informativa dei carabinieri, senza che però si fossero raggiunti prove sufficienti a supportare la richiesta di provvedimenti cautelari.
Ma soprattutto, con la delega di indagine sulla Sirap e alcune amministrazioni locali, si puntava a individuare i referenti politico-amministrativi dell’organizzazione mafiosa, nella convinzione che il sistema di controllo mafioso si integrava in alcuni casi con fenomeni di corruzione politico—amministrativa.
Indagini ad alta tensione che si incrociano fra Palermo e Catania. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 ottobre 2022
Secondo i giudici d’appello, “non può comunque ascriversi al breve capitolo catanese dell’indagine del ROS sulle attività della SIRAP e delle imprese interessate all’aggiudicazione dei relativi appalti e alle risultanze rassegnate con l’informativa Caronte alcuna finalità di depistaggio rispetto all’impostazione originaria dell’indagine su mafia e appalti”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
L’informativa depositata il 5 settembre 1992, al pari del resto dell’informativa Caronte, che a dire dello stesso dott. Lima si fondava quasi esclusivamente su copie atti contenuti nel fascicolo del procedimento istruito dall’A.g. palermitana, compendiava quindi le risultanze dell’indagine Sirap: ossia la separata - ancorché connessa a quella oggetto del procedimento originario - indagine mirata ad approfondire, in evasione alla specifica delega impartita dalla stessa procura palermitana il 26 luglio 1991, il versante della corruttela politico-amministrativa che si intrecciava, con proprie peculiarità, al fenomeno dell’ingerenza mafiosa; e a ricostruire i meccanismi di manipolazione delle gare di appalto e la formazione di accordi di cartello e cordate tra imprenditori e amministratori o politici compiacenti. Peraltro tale direttrice di indagine traeva origine dall’annotazione a firma del Cap. De Donno del N.O. dei Carabinieri del Gruppo Palermo I, n. 2608/7 del 2 luglio 1990, redatta nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria esperite in merito
a un'associazione a delinquere di tipo mafioso tendente al controllo e/o gestione di attività economiche, concessioni appalti e servizi pubblici (art. 416 bis C.P.) nel territorio della regione Sicilia, come recita l’oggetto della medesima Annotazione. In pratica, si trattava di una delle prime informative dell’indagine mafia e appalti, che infatti risulta indirizzata ancora al procuratore della Repubblica Aggiunto dr. Giovanni Falcone e al sost. Proc. dr. Guido Lo Forte.
L’informativa segnalava come dalle indagini concernenti le attività illecite di una serie di personaggi direttamente e/o organicamente inseriti nelle principali famiglie mafiose locali, ed in particolare in quella di Corleone, fosse emerso, grazie alle attività espletate di intercettazione telefonica e servizi di o.p.c., che elementi di spicco di tale organizzazione criminale avevano il controllo e verosimilmente la gestione degli appalti indetti dalla società “Siciliana Incentivazioni Reali per Attività Produttive S.p.A.” (Sirap).
Tra le intercettazioni più significative allegate all’Annotazione figuravano quelle effettuate su utenze in uso al vicepresidente della Sirap, La Cavera Domenico, con particolare riguardo a conversazioni intercorse tra lo stesso La Cavera e il presidente della Sirap, Ciaravino Antonino, nonché un noto esponente politico siciliano e nazionale (l’on. Emanuele Macaluso). Tali conversazioni offrivano spunti investigativi ritenuti di notevole interesse, ancorché relativi ad altre vicende, apparentemente non collegate con quella in fase di sviluppo.
LA NOTA DEL 19 APRILE 1991
Ebbene, con Nota datata 19 aprile 1991 a firma dei sost. procuratori Lo Forte e De Francisci, che figuravano nel pool di magistrati cui era stato assegnato il dossier mafia-appalti (dopo il deposito dell'informativa datata 16 febbraio 1991, che in un primo tempo era stata assegnata soltanto ai sostituti Lo Forte e Pignatone), veniva disposta, previo esame degli atti del proc. nr. 2789/90 N.C. contro Siino Angelo ed altri, la separazione dallo stesso dell’annotazione di p.g. N. 2608/7 di Prot. del 2 luglio 1990 — “attesa la mancanza di connessione con i fatti costituenti oggetto del citato procedimento”, come recita la parte motiva del provvedimento — concernente l'intercettazione di talune conversazioni telefoniche di La Cavera Domenico; e l’iscrizione degli atti così stralciati, e comprensivi anche delle intercettazioni e dei documenti allegati all’Annotazione dei carabinieri, in un separato fascicolo da annotarsi nel Registro N.C. come “indagini preliminari relative a talune conversazioni telefoniche di La Cavera Domenico indicate nell'annotazione del Nucleo Operativo dei Carabinieri del Gruppo Palermo In. 2608/7 di prot. del 2.07.1990”.
Pertanto, giusta o sbagliata che fosse — o anche inopportuna in quella fase dell’indagine mafia e appalti — la scelta di separare gli atti del filone d’indagine scaturito principalmente dalle intercettazioni a carico del La Cavera Domenico fu motivata dalla convinzione dell’ufficio requirente che gli spunti investigativi che esse offrivano afferissero a vicende autonome e distinte da quelle oggetto del procedimento originario, e configurabili in chiave di corruttela politico-amministrativa. Ma questa fu comunque una scelta dell’Ufficio di procura non sollecitata né condizionata dal Ros e tanto meno dalle dichiarazioni del Li Pera che erano ancora da venire.
D’altra parte, la Nota del 28 ottobre 1992 con la quale il procuratore della Repubblica presso il tribunale di Catania trasmetteva alla procura di Palermo, per competenza, un voluminoso fascicolo, comprensivo dell’informativa Caronte, segnalava che le indagini del Ros. (compendiate nell’informativa predetta) avevano evidenziato l’esistenza di un’articolata struttura associativa finalizzata al controllo, nell’ambito della Regione siciliana, degli appalti di opere pubbliche che tuttavia non rientrava nella competenza territoriale dell’Ufficio requirente catanese, avendo operato, per quanto emerso dall’abbondante materiale probatorio acquisito e arricchito dalle informazioni rese nel corso delle indagini preliminari da Li Pera Giuseppe, prevalentemente ed essenzialmente nell’ambito del territorio (circondariale e/o distrettuale) della procura della Repubblica di Palermo. Infatti, “detta struttura associativa mirava alla gestione. secondo criteri distributivi tra le imprese gravitanti nell‘ambito della stessa, degli appalti gestiti dalla Sirap spa., ente di natura pubblica, concessionaria della Regione Siciliana per la realizzazione di insediamenti artigianali e industriali dei Comuni della Sicilia”.
La medesima Nota, pur rimettendo ogni valutazione circa la natura di detta struttura associativa (“se semplice o di natura mafiosa”) all’A.g. individuata come territorialmente competente, e “che risulta aver già proceduto nei confronti di Siino Angelo ed altri per il reato di associazione per delinquere di stampo mafioso finalizzata proprio al controllo degli appalti (“processo che attualmente si sta celebrando dinanzi al tribunale di Palermo)”, non mancava di esprimere quale fosse il proprio convincimento al riguardo: “Orbene, allo stato degli atti, non v’è dubbio che sussistono elementi sintomatici che possano far ritenere che anche l’associazione di che trattasi rientra nel modello di stampo mafioso previsto dall‘art. 416 bis c.p.; militano in tal senso sia la partecipazione ad essa di personaggi certamente collegati ad ambienti mafiosi o, addirittura essi stessi indiziati di appartenenza ad associazioni mafiose (come Siino Angelo e Farinella Cataldo), sia il comprovato ricorso all‘intimidazione, attraverso violenze e minacce, direttamente o indirettamente, risultano aver fatto ricorso per l’attuazione delle finalità del gruppo (controllo degli appalti nell‘ambito della Regione Siciliana, con particolare; riferimento agli appalti gestiti dalla Sirap SPA.)”.
Se questo fu l’esito della collaborazione tra il Ros e l’A.g. catanese nell’indagine che andò oggettivamente a incrociare le vicende oggetto del processo carico di Siino Angelo e altri (per i quali era stata già fissata al 19 ottobre 1992 la data di inizio del dibattimento), nonché all’indagine oggetto dell’originario proc. N. 2789/90 che era proseguito a carico di 21 indagati (tra i quali De Eccher Claudio, Zito Giorgio, Catti De Gasperi Paolo, Lipari Giuseppe, Buscemi Antonino e altri: ma per tutti venne avanzata in data 13/22 luglio richiesta di archiviazione poi accolta dal GIP con decreto emesso il 14 agosto 1992), si può ancora discutere sulle conseguenze derivanti dal non avere la procura palermitana potuto fare uso delle dichiarazioni del Li Pera, in quanto ne fu messa al corrente solo a seguito della trasmissione dell’informativa Caronte e quindi alla fine di ottobre 1992 (ossia solo dopo che era stata avanzata e accolta la richiesta di archiviazione delle posizioni di De Eccher Claudio ed altri 20 indagati del proc. n. 2789/90 R.G.N.R.); si può eccepire che, o discutere se gli elementi acquisiti nel corso dell’indagine “catanese”, ove tempestivamente segnalati alla competente procura palermitana, avrebbero realmente impedito l’archiviazione del procedimento a carico di De Eccher e delle altre persone come lui indagate a Catania.
Ma non può comunque ascriversi al breve capitolo catanese dell’indagine del Ros sulle attività della Sirap e delle imprese interessate all’aggiudicazione dei relativi appalti e alle risultanze rassegnate con l’informativa Caronte — non meno di quelle rassegnate con l’informativa depositata il 5 settembre 1992 — alcuna finalità di depistaggio rispetto all’impostazione originaria dell’indagine su mafia e appalti.
Non si può poi trascurare, a riprova di come ci si muova su un terreno scivoloso fatto di insinuazioni velenose e congetture prive di idonei riscontri, che la stessa relazione su mafia e appalti stilata il 7 dicembre ‘92 dai magistrati della procura della Repubblica di Palermo che si erano occupati dell’inchiesta dà atto che, nei successivi interrogatori resi dal Li Pera alla stessa procura - dopo che per più di un anno si era rifiutato di rispondere - il dichiarante ha iniziato a fare le prime timide ammissioni sull‘interferenza di Cosa nostra nei mondo degli appalti, mostrando così i segni di un primo parziale rapporto di attendibile collaborazione, (cf. pg. 43). Ma al contempo nel medesimo passaggio della citata relazione si rimarca come ciò sia avvenuto soltanto dopo la trasmissione degli atti alla procura di Palermo.
Una “cantata” incerta e la spregiudicata azione di un capitano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 30 ottobre 2022
Il Cap. De Donno partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale contemporaneamente stava espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Insomma, ove si volesse ancora dare credito alla pRospettazione accusatoria, dovrebbe sostenersi che vi sarebbe stato un tentativo di depistaggio orchestrato dal Cap. De Donno, che però non conseguì l’obbiettivo prefissato (e cioè quello di ridimensionare il ruolo di Cosa nostra nel sistema di gestione unitaria e verticistica della Spartizione e aggiudicazione degli appalti pubblici in Sicilia), ed anzi sortì l’effetto contrario, inducendo finalmente il Li Pera, le cui propalazioni avrebbero dovuto servire da propellente per quel disegno di depistaggio, a iniziare con l’A.g. palermitana un primo parziale rapporto di collaborazione attendibile.
Ma se il Ros., attraverso l’azione spregiudicata del Cap. De Donno (che partecipa agli interrogatori del Li Pera dinanzi all’A.g. catanese senza farne cenno a quella stessa A.g. palermitana per conto della quale stava nel medesimo torno di tempo espletando una complessa indagine sulle medesime vicende sulle quali vertevano le dichiarazioni rese dal Li Pera al pm di Catania, dr. Lima) avesse avuto interesse a valorizzare le dichiarazioni del sedicente o aspirante collaboratore per depistare l’indagine in corso su mafia e appalti, non si vede per quale ragione non acquisire quella fonte agli atti della medesima inchiesta.
Invece, come si evince sempre dalla citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti, nella ulteriore corposa informativa redatta dallo stesso Cap. De Donno e consegnata alla procura di Palermo il 5.09.1992, avente ad oggetto gli stessi fatti, e cioè l’attività della Sirap Spa su cui riferiva il Li Pera (...) non vi era traccia delle dichiarazioni che costui stava rendendo (cfr. pag. 28). Si può anche comprendere che De Donno scontasse l’imbarazzo di dover trasmettere ai magistrati della procura palermitana gli atti relativi alle escussioni de Li Pera, in quanto questi aveva tra l’altro formulato pesanti accuse nei riguardi di taluni magistrati del medesimo ufficio, indicandoli come autori dell’illecita divulgazione del rapporto mafia-appalti avvenuta prima ancora del suo arresto. Ma tale spiegazione non regge per i primi verbali — e cioè quelli del 13 e 15 giugno che sono stati qui acquisiti – nei quali già il Li Pera illustra il sistema triangolare di Spartizione degli appalti, senza che vi sia traccia di accuse contro i magistrati della procura di Palermo, ai quali inizialmente il Li Pera addebitava solo di non avere avuto interesse a sentirlo, nonostante egli avesse fatto pervenire attraverso il proprio difensore la propria disponibilità.
E in effetti, come puntualmente rilevato nella corposa ordinanza di archiviazione del gip di Caltanissetta del 15 marzo 2000, le prime accuse del Li Pera ai magistrati palermitani risultano verbalizzate nell’interrogatorio reso al cap. De Donno delegato dal pm. Lima ad assumerlo, in data 20 luglio 1992. Sicché, a volere indugiare sul terreno di astratte e improbabili congetture, se ne potrebbe persino inferire che il De Donno omise di inserire le propalazioni del De Donno nell’informativa Sirap. proprio perché esse potevano pregiudicare o mettere in discussione l’impianto originario dell’indagine mafia-appalti.
IL TRAVAGLIATO PERCORSO COLLABORATIVO DI LI PERA
Piuttosto, è la stessa Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a fornire una chiave di lettura del travagliato e incerto percorso collaborativo del Li Pera che l’affranca da qualsiasi ipotesi di intenzionale depistaggio sobillato dal Ros, traendone anzi un indiretto riscontro al ruolo di progressivo protagonismo assunto in Sicilia da Cosa nostra nel sistema di “tangentopoli”: ruolo che ne faceva un caso unico nel panorama nazionale e che rende ragione dei motivi per citi, a differenza che in altre regioni d’Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente inchiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’Autorità Giudiziaria.
Ivi si rimarca infatti che lo stesso Li Pera fu vittima delle pressioni intimidatorie esercitate da qualificati esponenti mafiosi nell’intento di interferire sulle indagini in terna di mafia e appalti. E che solo dopo essere stato sottoposto a programma di protezione aveva iniziato a riferire le notizie di cui era in possesso anche sii/la realtà mafiosa, mentre in una prima fase, e cioè quella della sua collaborazione con l’A.g. catanese, si era limitato a riferire quanto a sua conoscenza sul versante della corruzione politico—amministrativa.
Per la verità, già dal verbale dell’interrogatorio reso al pm. dott. Lima (sempre nell’anomala veste di persona informata sui fatti - il 15 giugno risulta che il dichiarante aveva iniziato a fare qualche ammissione, sia pure velata da palese reticenza. Infatti, egli, da un lato, nega di avere mai avuto un qualsiasi contatto con organizzazioni criminali (e quindi nega anche di avere avuto problemi nel suo lavoro con la delinquenza organizzata); […]. Ma poi aggiunge: «In ogni caso, poiché ero consapevole della situazione che c‘è in Sicilia, ho sempre prevenuto questo tipo di problemi subappaltando quanta più parte possibile del lavoro ad imprese del posto dove realizzavamo il lavoro stesso. Inoltre, compravo tutti i materiali dai fornitori locali e assumevo quanta più gente possibile del posto. Questo ci assicurava la tranquillità».
[…] Certo è che quel velo di reticenza sembra essersi dissolto il 12 novembre 1992, quando Io stesso Li Pera renderà al pm. dott. Antonio Di Pietro, magistrato di punta del pool di “Mani Pulite”, dichiarazioni (presente all’atto istruttorio anche il Capitano De Donno: v. infra) che denotano un’approfondita conoscenza dei meccanismi di funzionamento dei comitati d’affari che presiedevano alla Spartizione degli appalti, tra politici di rilievo corrotti (fra i quali indicherà Salvo Lima, ma anche Turi Lombardo, Rino Nicolosi e proprio Calogero Mannino) e le cordate e cartelli imprenditoriali di cui erano partecipi i più importanti imprenditori dell’epoca, sia siciliani (come Graci, Costanzo, Rendo Salamone, Vita, Siino Angelo, e Farinella Cataldo), che nazionali (come Astaldi, Torno, Lodigiani, Tor di Valle, Cogefar, C.M.C., Edilter, Grassetto Costruzioni, Todini, Tosi, Matauro, Ilva, Codelfa e altri), attribuendo un ruolo preminente all’interno dei comitati predetti ad alcuni imprenditori in particolare, come Filippo Salamone Ma al contempo, il dichiarante ammette senza riserve che in Sicilia esisteva anche la componente mafiosa, che aveva un ruolo di primaria importanza nell‘assicurare la funzionalità degli stessi comitati.
Inutile aggiungere poi che lo sforzo profuso dal Capitano De Donno per valorizzare una fonte come Li Pera - che non lesinava accuse ai politici tra i quali proprio Calogero Mannino - sia pure con condotte discutibili o decisamente censurabili sotto il profilo della correttezza e lealtà dei suoi rapporti di cooperazione con le autorità giudiziarie di riferimento, denota quanto infondato sia anche solo il sospetto di compiacenza nei riguardi dell’ex ministro per gli interventi nel Mezzogiorno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le informative del Ros e quei nomi di politici che appaiono e scompaiono. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 31 ottobre 2022
Per i giudici d’appello è impossibile sostenere che i magistrati della procura palermitana fossero già a conoscenza, prima dell’informativa del 5 settembre 1992, “di elementi specifici e concreti che dessero contezza del possibile o probabile coinvolgimento di esponenti politici quali Lima, Nicolosi e Calogero Mannino”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È una vicenda emblematica di come gli organi preposti all’azione di prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata abbiano saputo farsi del male, talvolta, più di quanto non vi siano riuscite le organizzazioni criminali mafiose che essi erano — e sono – chiamati a contrastare.
1 Il dato certo e innegabile è che i nominativi dei più noti e influenti esponenti politici coinvolti nell’inchiesta, o di cui l’indagine mafia e appalti aveva evidenziato un possibile coinvolgimento in specifiche vicende riconducibili al sistema di illecita spartizione degli appalti, e in cui risultavano certamente coinvolte figure di spicco delle famiglie mafiose locali, e di quella corleonese in particolare, non figurano nell’informativa che fu depositata il 20 febbraio 1991, ossia quella conosciuta da Falcone.
2 Si è accertato che le trascrizioni delle conversazioni da cui si ricaverebbero elementi di prova o indizi del possibile coinvolgimento dei vari Lima, Nicolosi, Mannino, De Michelis, non figurano tra quelle allegate all’Informativa predetta (fatta eccezione per un fugace cenno, in una delle trascrizioni allegate, al ministro De Michelis).
3 Quei nominativi non figurano neppure nelle due schede riepilogative che contengono i nomi dei personaggi ritenuti di maggiore interesse investigativo, rispettivamente, per l’ipotesi di associazione a delinquere di stampo mafioso (il primo elenco nominativo); e per l’ipotesi di associazione a delinquere semplice (secondo elenco nominativo). Nel primo elenco non comparivano nomi di esponenti politici; nel secondo, figuravano solo Domenico Lo Vasco e Giuseppe Di Trapani, all’epoca Assessori nella Giunta comunale di Palermo. Accanto ad ogni nominativo era indicata l’intercettazione telefonica in cui si faceva riferimento allo stesso personaggio.
4 Nel corpo dell’informativa, e in numerose pagine, si riportano stralci di conversazioni telefoniche intercettate, nelle quali si fa riferimento ad alcuni noti uomini politici, ma sempre “all‘interno di contesti discorsivi fra terze persone che non evidenziavano di per sé fatti illeciti” (così a pag. 33 della cit. “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”). Si può dissentire da tale apprezzamento, perché i riferimenti contenuti in alcune delle intercettazioni predette (per una puntuale rassegna di tali riferimenti, cfr. pagg. 128- 130 dell’ordinanza di archiviazione del gip di Caltanissetta del 5 marzo 2000) deporrebbero per condotte illecite o per gravi irregolarità, sia pure restando impregiudicati eventuali profili di responsabilità penale, soprattutto per i politici citati nel corso delle conversazioni captate).
GLI ESPONENTI POLITICI CHIAMATI IN CAUSA
Ma è certo e indiscutibile che si tratta di esponenti politici locali, anche se tra loro ne figurano alcuni che ricoprivano o avevano ricoperto incarichi ministeriali, come l’on. Fiorino, all’epoca Sottosegretario al ministero per il Mezzogiorno, chiamato in causa per alcune gare di appalto al comune di Naro; o il Senatore Coco, già sottosegretario alla Giustizia; e poi ancora gli on.li Pumilia, Alessi e Cicero, oltre all’On. Bernardo Alaimo, all’epoca Assessore Regionale alla Sanità, al quale si fa cenno in varie parti dell’Informativa. E talvolta i riferimenti contenuti nelle telefonate intercettate non consentono di risalire all’identità degli esponenti politici cui si allude, oppure non è chiaro il ruolo che avrebbero avuto nelle vicende che interessano agli interlocutori; oppure il riferimento è a personaggi non meglio identificati e indicati come vicini a noti uomini politici, ma non direttamente a questi ultimi.
Nessun riferimento indiziante a carico di personalità politiche di rilievo nazionale o a ministri in carica. E in particolare non risulta citato in tal senso nessuno di quei personaggi che avevano suscitato l’interesse della stampa nazionale (con gli articoli richiamati nella cit. Relazione su mafia e appalti, pubblicati su “Il Secolo XTX” e sul Corriere della Sera, oltre che sul quotidiano “La Sicilia”). In particolare, non si facevano i nomi di Lima, Nicolosi e Mannino, che invece figurano per la prima volta nell’informativa depositata il 5 settembre 1992 e nelle intercettazioni allegate a quest’ultima informativa (e all’informativa “Caronte” trasmessa il 1° ottobre 1992 alla procura di Catania).
Quanto al nome dell’on. De Michelis, chiamato in causa in un articolo a firma di Alberto Cavallaro sul Corriere della Sera del 20 luglio 1991 (che riportava pesanti accuse all’operato della procura della Repubblica di Palermo, attribuendole ai Carabinieri che avevano condotto l’indagine, e cioè al Ros; ma per quanto concerneva De Michelis si limitava a dire che era in buoni rapporti con uno degli indagati), indizi di un suo coinvolgimento in affari illeciti inerenti alla gestione di appalti nel Nord est emergono in un’informativa del Ros trasmessa il 12 novembre 1991 alla procura di Palermo, che però disponeva lo stralcio degli atti e la loro trasmissione per competenza alla procura di Roma. In precedenza, all’on. De Michelis faceva riferimento solo una delle conversazioni intercettate su un’utenza in uso all’Ing. La Cavera, allegata all’informativa del 2 luglio l990. Ma in tutte le altre conversazioni allegate alla medesima informativa ed anche alla successiva Informativa del 5 agosto 1990 — che fu certamente portata a conoscenza della procura di Palermo, nella persona del Proc. Aggiunto Giovanni Falcone e del Sost. Proc. dott. Lo Forte — figurano riferimenti a vari uomini politici alcuni dei quali noti e influenti a livello regionale [...], altri anche di rilievo nazionale, come Lima, Gunnella, Turi Lombardo: ma quasi sempre in contesti tutt’altro che perspicui. Ma ancora non figurava, nelle informative predette, alcun riferimento al possibile coinvolgimento nell’ipotizzata gestione unitaria e verticistica del sistema di illecita spartizione degli appalti, o comunque in illeciti concernenti vicende in materia di appalti pubblici, di esponenti politici quali lo stesso Lima, Nicolosi e Calogero Mannino.
L’unico “Mannino” il cui nominativo figurava in una delle conversazioni intercettate su un’utenza in uso al La Cavera, chiamato in causa peraltro per vicende che nulla avevano a che vedere con l’indagine su mafia e appalti, venne identificato in Mannino Antonino (già segretario provinciale del P.C.I.), ed escusso dal pm Dott. Lo Forte proprio per chiarimenti in ordine alle conversazioni in cui era scaturito il suo cognome.
Si riferisce sicuramente all’oggetto dell’indagine mafia e appalti, e precisamente a presunti illeciti commessi nella gara di aggiudicazione dei lavori per il Palazzo dei Congressi, vinta dall’impresa Costanzo, che aveva prevalso sull’impresa Tosi, la conversazione telefonica dell’ing. La Cavera intercettata il 26 maggio 1990 e allegata all’informativa del 5 agosto ‘90. Ivi si fa riferimento a due uomini politici, uno dei quali era l’ex ministro Gunnella mentre l’altro era il deputato regionale Lauricella. Ma ancora una volta, nessun riferimento a Lima, Nicolosi e Calogero Mannino figurano nelle più significative conversazioni, intercettate su utenze Sirap o su utenze private, ma comunque in uso all’ing. La Cavera, alle quali si dà risalto nelle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990 e le cui trascrizioni sono allegate alle medesime informative (cfr., in particolare, conversazioni intercettate il 13 -14 e 30 maggio ‘90; 2-5-6 e 13 giugno ‘90, richiamate sia nell’ordinanza Lo Forti che nella Relazione Mafia e appalti).
CINQUE INTERCETTAZIONI IMPORTANTI
Il raffronto delle conversazioni predette con quelle cui invece venne dato congruo risalto nelle informative trasmesse rispettivamente alla procura di Palermo il 5 settembre 1992 e alla procura di Catania il 1 ottobre 1992 (c.d. Informativa “Caronte”), entrambe a firma del Capitano De Donno, non dà adito al minimo dubbio.
Nella relazione Mafia e appalti si passano in rassegna in particolare 5 conversazioni intercettate:
il 19.03.1990, tra Ciaravino e La Cavera, con ripetuti cenni al coinvolgimento degli on.li Mannino (Calogero), Nicolosi e Lombardo nell’affare Sirap, pilotato da Angelo Siino; il 6.04.’90, tra Ciaravino e Salvo Lima, con riferimenti al rapporto dello stesso Lima con l’imprenditore mafioso Cataldo Farinella, che sarà segnalato dai carabinieri nella prima Informativa su mafia e appalti nel febbraio ‘91, e poi arrestato nel luglio ‘91 siccome indiziato del reato di cui all’art. 416 bis c.p.; il 22.04.’90, tra Ciaravino e Grammauta, con riferimenti compromettenti all’on. Nicolosi, all’Assessore Gorgone, all’on. Capitummino; il 9.05.’90. tra Ciaravino e un interlocutore non meglio identificato: contiene riferimenti all’on. Turi Lombardi; l’8.06.’90, ancora tra Ciaravino e La Cavera, con molteplici riferimenti agli on.li Salvo Lima, Turi Lombardo, Calogero Mannino, e Rosario Nicolosi.
È di tutta evidenza che si tratta di intercettazioni realizzate sulle medesime utenze o su utenze collegate a quelle già monitorate e nel medesimo periodo (primavera del 1990) o addirittura nelle stesse settimane in cui erano state realizzate le intercettazioni allegate alle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990. Ma le “nuove” intercettazioni saranno portate a conoscenza dei magistrati della procura di Palermo solo con l’Informativa depositata il 5 settembre 1992.
Una parte, quindi, delle intercettazioni realizzate sulle stesse utenze, o su utenze collegate, non venne resa nota ai magistrati titolari dell’inchiesta, o almeno non v’è prova che fosse stata loro resa nota.
E tale prova non può inferirsi, come sostiene la Difesa richiamando un discutibile costrutto inferenziale del GIP Lo Forte, dal fatto che l’attività d’intercettazione nel corso della quale furono captate le suddette “nuove” conversazioni (nuove nel senso che se ne fa menzione per la prima volta nell’informativa del 5 settembre 1992) era stata regolarmente autorizzata dagli stessi magistrati: le autorizzazioni, invero, che furono certamente rilasciate, erano motivate dalla rilevanza delle intercettazioni, incluse quelle sulle utenze Sirap e sulle utenze Ciaravino, portate a conoscenza dei magistrati con le prime informative in cui veniva segnalata l’opportunità di sottoporre quelle utenze a intercettazione: che sono appunto le informative del luglio e dell’agosto 1990.
Ora, eventuali e successive richieste o sollecitazioni ad autorizzare la proroga di quelle intercettazioni, o a disporre l’intercettazione su nuove utenze - di cui comunque non v’è traccia nella pur certosina ricostruzione operata dal gip di Caltanissetta — non potevano che trarre spunto da altre conversazioni, captate nel prosieguo dell’attività di intercettazione già in corso nella primavera del ‘90, o quanto meno in giorni e settimane diverse e successive a quelle cui risalivano le intercettazioni già segnalate nelle informative di luglio e agosto ‘90. Altrimenti, perché non segnalarle subito?
UNA VERSIONE POCO CREDIBILE
Orbene, a tutto concedere, si può ancora sostenere che già nel periodo compreso tra la primavera e l’estate del 1990, la procura di Palermo era in possesso di elementi concreti e spunti investigativi che potevano far ipotizzare un possibile coinvolgimento, in quello che si andava delineando come un sistema strutturato di gestione verticistica e unitaria degli appalti in Sicilia, anche di esponenti politici di rilievo nazionale, ancora da identificare o il cui ruolo andava messo a fuoco.
Conseguentemente, in linea puramente teorica, e a tutto concedere, si può sostenere che le indiscrezioni giornalistiche che cominciano a comparire in una serie di articoli di cronaca pubblicati prima e nell’imminenza degli arresti di Siino e soci [...], fossero frutto di una fuga di notizie originatasi negli ambienti giudiziari, grazie a buone entrature in seno alla procura di Palermo dei giornalisti che divulgarono quelle notizie.
Fermo restando che in nessuno degli articoli citati, come già rammentato, si faceva specifico riferimento all’identità degli esponenti politici che si presumevano coinvolti nell’inchiesta (a parte il cenno di cui s’è detto all’on. De Michelis); e che nessun interesse avrebbero avuto i magistrati dell’Ufficio predetto a montare o sobillare o dare comunque adito ad una campagna di stampa che sostanzialmente accusava lo stesso Ufficio giudiziario di volere insabbiare quell’inchiesta o di volere coprire le responsabilità dei politici coinvolti.
Ma detto questo, ciò che non può, ad avviso di questa Corte, sostenersi, perché contrario alla logica e alle evidenze disponibili, è che i magistrati della procura palermitana fossero già a conoscenza, prima di esserne edotti con l’informativa del 5 settembre 1992, di elementi specifici e concreti che dessero contezza del possibile o probabile coinvolgimento nelle vicende oggetto del procedimento di cui erano titolari anche di esponenti politici quali Lima, Nicolosi e Calogero Mannino.
Non può militare a sostegno di tale tesi la nota indirizzata al dott. Falcone in data 30 agosto 1990, con la quale si preannunciava come imminente il deposito di un’informativa di carattere complessivo, precisandosi tuttavia che “sono in atto ulteriori complessi accertamenti tesi alla identificazione di personaggi legati al inondo economico-politico nazionale che, in base alle funzioni e agli incarichi svolti, valenti sull'intero territorio dello Stato, forniscono valido ed insostituibile aiuto al raggiungimento degli scopi illegali dell’organizzazione stessa”.
In pratica, la nota testé citata non contiene riferimenti espliciti a personaggi politici di primo piano, ed anzi precisa che era ancora in corso l’attività mirata alla loro identificazione. Inoltre, preannuncia il deposito di un’informativa di carattere complessivo — che è ovviamente qualcosa di più e di diverso dalle periodiche richieste o sollecitazioni ad autorizzare proroghe di intercettazioni — avente ad oggetto proprio il versante d’indagine concernente le collusioni politiche in vicende di ingerenza mafiosa nella gestione degli appalti (poiché era questo l’oggetto dell’investigazione in
corso da parte dei carabinieri). Ma la prima Informativa che risponda a questa tipizzazione è quella depositata il 5 settembre 1992. O meglio, essa è la prima in cui quelle collusioni vengono, sia pure come ipotesi investigative, esplicitate.
Se poi per informativa di carattere complessivo si doveva intendere un rapporto indiziario - come usava dirsi un tempo — che compendiasse le risultanze acquisite in ordine all’ipotesi investigativa originaria dell’esistenza di un sistema che si era andato strutturando in senso unitario e verticistico per la spartizione degli appalti con un ruolo preminente di Cosa Nostra, allora quella informativa complessiva poteva ben essere quella datata 16 febbraio 1991, che fu consegnata personalmente dal Capitano De Donno al procuratore Aggiunto Giovanni Falcone.
Nessun credito merita quindi la versione rilanciata dallo stesso De Donno nel corso dell’esame dibattimentale cui si sottopose al processo Mori/Obinu, secondo cui si era concordata con i magistrati titolari del procedimento, e quindi con lo stesso Giovanni Falcone, il deposito di una sorta di informativa preliminare sui profili e le vicende che coinvolgevano i politici di maggiore rilievo (i cui nominativi quindi sarebbero stati fatti ai magistrati addirittura prima ancora del deposito dell’informativa del febbraio 1991, o contestualmente ad essa) che avrebbe poi dovuto essere successivamente implementata con le risultanze acquisite in esito alle ulteriori
indagini. E in questa pre-informativa - come testualmente la definisce il De Donno - che sarebbe stata consegnata al dott. Falcone e al dott. Lo Forte un mese prima (dell’informativa datata 16 febbraio 1991) era contenuto l’elenco nominativo, o comunque si facevano i nomi di tutti i politici che i carabinieri ritenevano coinvolti in questa indagine.
Di quella che De Donno battezza come una sorta di informativa preliminare, o pre-informativa, non v’è traccia agli atti, e non se n’è trovata traccia neppure nella certosina ricostruzione e opera di acquisizione anche documentale operata dal gip di Caltanissetta che istruì il procedimento, anzi, i procedimenti — poi sfociati nella citata ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quell’omissione “assai significativa” su Lima, Nicolosi e Mannino. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l'1 novembre 2022
“Colpisce il fatto che tra le intercettazioni realizzate, “siano rimaste fuori del compendio che era stato certamente portato a conoscenza dei magistrati all’epoca titolari dell’indagine su mafia e appalti con le note del 2 luglio e del 5 agosto giusto quelle che contengono specifici riferimenti ai vari Lima, Nicolosi e Mannino. Ciò avvalorerebbe il sospetto che l’omissione non sia stata accidentale, ma intenzionale, quali che fossero le finalità di chi la commise”.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non giova poi alla tesi difensiva neppure l’argomento secondo cui le conversazioni più significative s’inquadrerebbero in un’attività tecnica di intercettazione che risale al 1990, è proseguita senza soluzione di continuità in virtù delle autorizzazioni a nuove intercettazioni o alla proroga di quelle già in corso, che erano state disposte (o richieste al gip) dagli stessi magistrati della procura di Palermo che si occupavano dell’indagine.
Se ne dovrebbe inferire — ed è la conclusione cui perviene il gip Lo Forti nella citata ordinanza di archiviazione — che i medesimi magistrati avessero contezza delle trascrizioni di conversazioni che deve presumersi fossero allegate alle richieste di proroga delle operazioni di intercettazione, per motivarne la necessità. Il ragionamento però, oltre che ingeneroso nei riguardi dei magistrati predetti — implicitamente tacciati o di non avere voluto tenere conto delle intercettazioni segnalate dai carabinieri, o di negligenza o superficialità nella lettura delle Annotazioni di polizia giudiziarie loro indirizzate — si rivela, ad un più attento esame, decisamente fallace nelle sue premesse.
Non v’è prova, infatti, di un solo atto o di una sola nota di sollecitazione ad ulteriori proroghe di intercettazioni che siano riferibili a quelle depositate come allegati all’informativa del 20 febbraio, o a quelle allegate alle Informative del 2 luglio e del 5 agosto 1990. Anzi, deve ribadirsi che le conversazioni più compromettenti, e che saranno segnalate come tali nelle successive informative (“Sirap” e “Caronte”) sono quelle realizzate sulle utenze Sirap e su utenze in uso a La Cavera e Ciaravino nel periodo compreso tra marzo e giugno 1990.
Ma si tratta delle medesime utenze — o di utenze collegate agli stessi soggetti — su cui erano state realizzate nel medesimo torno di tempo, le intercettazioni allegate alle citate informative trasmesse nell’estate del ‘90 ai magistrati titolari dell’inchiesta (e segnatamente ai dott.ri Falcone e Lo Forte), e che andranno poi a confluire nella corposa Informativa “Sirap”, depositata il 5 settembre 1992, cioè due anni dopo.
Orbene, la tesi difensiva è che non solo i nuovi allegati (contenenti le trascrizione delle intercettazioni più compromettenti per i politici in questione) erano già a conoscenza dei magistrati della procura di Palermo che a suo tempo avevano autorizzato le relative operazioni di intercettazione; ma era addirittura intervenuto un accordo tra gli investigatori e i magistrati di riferimento per quell’inchiesta, nel senso di stralciare le posizioni e gli atti che involgevano possibili responsabilità di esponenti politici di rilievo anche nazionale, per fame oggetto di separati e più specifici approfondimenti.
Sicché fu in forza ditale accordo che si decise di depositare una prima informativa — che sarebbe quella datata 16 febbraio 1991 - che compendiasse le risultanze fin lì acquisite, con esclusione degli atti che si riferivano a indagati o potenziali indagati le cui posizioni necessitavano di ulteriori approfondimenti.
LA RICOSTRUZIONE DELLA DIFESA
È in parte la versione di De Donno, che però vi apporta una variante, sostenendo che le posizioni da approfondire e i nomi dei politici che i carabinieri ritenevano coinvolti erano già contenuti in una preinformativa che sarebbe stata depositata ufficialmente prima di quella del febbraio ‘91. Circostanza che, come s’è detto, non risulta affatto e che quindi nella migliore delle ipotesi deve attribuirsi a un cattivo ricordo del dichiarante.
La ricostruzione difensiva - a parte il cattivo ricordo di De Donno – sembrerebbe però trovare conforto nelle dichiarazioni rese al P.M. di Caltanissetta in data 13.07.1993 dal dott. Pignatone (riportate a pag. 124 dell’ordinanza del gip Lo Forti) secondo cui nel mese di novembre 1990 era stata concordata con De Donno la redazione di una prima informativa e la prosecuzione dell’ascolto sulle utenze rivelatesi utili. Ma queste precisazioni non sciolgo il vero nodo della questione.
Il dot. Pignatone parla infatti di una prima informativa, riferendosi appunto a quella che fu depositata tre mesi dopo (e cioè nel febbraio del ‘91). E parla di un accordo per la prosecuzione dell’ascolto, e quindi delle attività di intercettazione, sul presupposto che fossero utili all’accertamento di eventuali profili di responsabilità per le posizioni che necessitavano di ulteriori approfondimenti.
Ma l’accordo predetto sarebbe intervenuto a novembre del 1990 - infatti dopo tre mesi venne depositata quella che, in base a tale accordo, doveva essere una prima informativa, vertente sulle posizioni che erano state già sufficientemente messe a fuoco - e autorizzava la prosecuzione delle attività di intercettazione sulle utenze ritenute utili.
Ma il nodo della questione è che le intercettazioni che fanno la differenza tra la prima “refertazione” sullo stato delle indagini, e cioè quella consacrata nell’Informativa datata 16 febbraio 1991, e la seconda refertazione, che è quella delle Informative “Sirap” e “Caronte”, risalgono tutte alla primavera del ‘90, e segnatamente ad un periodo compreso tra marzo e giugno di quell’anno. Esse, quindi, sono anteriori e non successive all’accordo intervenuto soltanto nel novembre del ‘90; e sono altresì anteriori alle informative del 2 luglio e del 5 agosto del medesimo anno, che pure non ne fanno cenno; e pertanto, non furono il frutto della prosecuzione dell’ascolto di nuove intercettazioni a cui si riferiva l’accordo predetto.
IL GIUDIZIO DELLA CORTE
È possibile però che proprio qui si annidi l’equivoco che ha offuscato e avvelenato l’intera vicenda (a parte i successivi miasmi originati da un’infelice gestione del rapporto confidenziale instaurata da Mori e De Donno con Angelo Siino nella veste di confidente dal gennaio del ‘93 alla fine del 1995, per cui si rimanda alla complessa indagine compendiata nell’ordinanza di archiviazione emessa dal gip di Caltanissetta il 15 marzo 2000).
È plausibile, infatti, che le intercettazioni compromettenti per le posizioni dei politici più noti o di maggior rilievo (come Lima, Nicolosi e Calogero Mannino), sebbene realizzate nell’ambito della medesima indagine e affatto “nuove” rispetto al compendio istruttorio già acquisito all’epoca del deposito della prima Informativa, siano state allegate per la prima volta alle successive Informative Sirap e Caronte in quanto frutto non già della prosecuzione delle operazioni di intercettazione già in corso all’epoca, bensì di un’attività - essa si “nuova” - di ri-ascolto delle intercettazioni già acquisite (che assommavano a diverse centinaia di conversazioni), o di un più accurato riesame dei verbali di trascrizione e dei brogliacci che si riferivano alle intercettazioni già oggetto di un precedente ascolto.
In tal senso militerebbe la circostanza che il Capitano De Donno, dopo avere chiesto e ottenuto l’autorizzazione al ritardo nel deposito dei risultati delle intercettazioni (cf. note del 23 e del 30 aprile 1990 citate a pag.124 dell’ordinanza Lo Forti), provvide a depositare in procura l’intero compendio costituito dalle bobine delle intercettazioni e relativi brogliacci e verbali di trascrizione.
Ma successivamente, e proprio per dare corso all’incarico di approfondire le posizioni più “sensibili”, in relazione alla vicenda Sirap, per cui era stato disposto con il cit. provvedimento del 19 aprile 1991 (v. supra) lo stralcio degli atti che facevano parte dell’originario procedimento Siino+43, e in vista della redazione dell’informativa che venne poi depositata il 5 settembre 1992, aveva chiesto l’autorizzazione al ri-ascolto delle telefonate intercettate, e segnatamente quelle intercettate sulle utenze Sirap, e/o in uso a La Cavera e Ciaravino; e l’autorizzazione al riascolto fu concessa con nota dal dott. Lo Forte in data 28 maggio 1992, con provvedimento steso in calce alla richiesta che era stata avanzata dal Capitano De Donno in data 26 maggio ‘92.
Non ci si può tuttavia esimere dal rilevare come colpisca il fatto che tra le intercettazioni realizzate a carico del La Cavera e del Ciaravino su utenze personali o della Sirap nei mesi di maggio e giugno 1990, o comunque nella primavera di quell’anno, siano rimaste fuori del compendio che era stato certamente portato a conoscenza dei magistrati all’epoca titolari dell’indagine su mafia e appalti con le Note del 2 luglio e del 5 agosto giusto quelle che contengono specifici riferimenti ai vari Lima, Nicolosi e Mannino (Calogero).
Ciò avvalorerebbe il sospetto che l’omissione non sia stata accidentale, ma intenzionale, quali che fossero le finalità di chi la commise; ed è comunque certo che tale omissione non era giustificata da accordi intervenuti con i magistrati della procura di Palermo, che, se vi furono, intervennero alla fine di agosto ‘90 (come si evincerebbe dalla Nota indirizzata dal Cap. De Donno al procuratore Aggiunto Giovanni Falcone, che però è assai generica) e poi a novembre del medesimo anno, come risulta dalle citate dichiarazioni del dott. Pignatone.
A dir poco frettoloso e sommaria appare dunque la conclusione cui ritenne di pervenire il gip di Caltanissetta con la sua ordinanza del 15 marzo 2000 quando afferma che già nella primavera-estate del 1990 i magistrati della procura di Palermo erano a conoscenza degli elementi investigativi da cui poteva evincersi il coinvolgimento degli esponenti politici in questione.
In realtà, le informative trasmesse ai predetti magistrati prima che venisse depositato il rapporto mafia e appalti del febbraio 1991 non contengono riferimenti agli esponenti politici sunnominati. E nella certosina opera del gip di Caltanissetta di ricostruzione e di acquisizione di materiali e documentazione varia proveniente dagli incartamenti relativi ai vari procedimenti i cui atti sono stati compulsati per ricavarne elementi utili alla propria indagine non v’è alcuna traccia di altre informative o annotazioni di p.g. che possano essere state trasmesse agli stessi magistrati, magari in epoca successiva all’agosto 1990, per sollecitare proroghe delle attività d’intercettazione in corso e nelle quali figurino specifici o espressi riferimenti ai personaggi politici in questione o alle quali siano allegate le intercettazioni che saranno invece allegate alle Informative Sirap e Caronte. LA SENTENZA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA
Il dossier Mafia e Appalti e le “regole” di un colonnello troppo ardito. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 02 novembre 2022
Una condotta poco rispettosa di regole e procedure o addirittura spregiudicata nello svolgimento delle attività info-investigative, nell’uso delle informazioni raccolte e nella gestione delle fonti confidenziali, contrassegnata da un’opacità che andava ben oltre i limiti di autonomia e discrezionalità. Il tutto condito da insofferente alla sottoposizione alle direttive e al controllo dell’autorità giudiziaria
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Ma allora cosa resta, ai fini del presente giudizio, della vicenda della “doppia refertazione” sulle risultanze dell’indagine mafia e appalti?
Resta il fatto che essa offre uno spaccato crudo ed eloquente di un discutibile modo di operare del Ros, o, più esattamente del gruppo di ufficiali che si strinsero sotto il comando del generale Subranni e dell’allora Col. Mori: un modus operandi sostanziatosi in una condotta poco rispettosa di regole e procedure o addirittura spregiudicata nello svolgimento delle attività info-investigative, nell’uso delle informazioni raccolte nel corso ditale attività e nella gestione delle fonti confidenziali, contrassegnata da un’opacità che andava ben oltre i limiti di autonomia e discrezionalità fisiologicamente intrinseci all’azione investigativa che si avvalga di questo genere di strumenti. Il tutto condito da insofferente alla sottoposizione alle direttive e al controllo dell’A.g. cui pure competeva la direzione delle indagini e da una visione ipertrofica della propria autonomia come organo di polizia, come se gli ufficiali predetti non riconoscessero altra legittima autorità all’infuori di quella inserita e riconosciuta nella loro catena di comando.
Così nel caso di Mori e De Donno, quest’ultimo particolarmente impegnato sul versante dell’indagine mafia e appalti: sono loro a decidere se, quando e soprattutto cosa riferire all’A.g. delle indagini loro delegate, o delle iniziative da loro autonomamente intraprese (per l’indagine mafia e appalti come per i contatti intrapresi con Vito Ciancimino, prima e con Angelo Siino poi, per non parlare di Li Pera).
IL COMPORTAMENTO DI DE DONNO
De Donno, in particolare, ha imbastito o propiziato l’avvio di un’indagine dell’A.g. di Catania sostanzialmente sui medesimi fatti che erano già oggetto di un procedimento pendente presso l’A.g. di Palermo e di un’indagine dalla stessa Autorità palermitana delegata al Ros e a lui affidata; ha attivamente cooperato con diversa autorità giudiziaria per sviluppare questa sorta di indagine parallela, coltivando per di più, o almeno, favorendo un’ipotesi ricostruttiva dei medesimi fatti che, quanto meno, si discostava dall’impostazione seguita dalla procura di Palermo.
E lo ha fatto valorizzando, dopo un numero imprecisato di colloqui investigativi cui - paradossalmente - era stato autorizzato dalla procura di Palermo, una fonte che figurava già tra gli indagati del procedimento “palermitano”: ma tutto ciò senza dame notizia all’A.g. di Palermo, così come ha taciuto all’A.g. catanese che il sedicente nuovo collaboratore di giustizia, contrariamente a quanto da lui dichiarato per giustificare la propria decisione di iniziare a collaborare con la procura di Catania, era stato più volte sentito dalla procura di Palermo che lo indagava per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., ma per ben due volte si era avvalso della facoltà di non rispondere e poi aveva reso un lungo interrogatorio (in data 5 marzo 1992) dinanzi ai magistrati della procura di Palermo titolari del procedimento ormai prossimo alla conclusione della fase delle indagini preliminari, insistendo nel protestare la propria innocenza e senza fornire alcun elemento utile per ulteriori sviluppi dell’inchiesta: una circostanza che avrebbe dovuto essere resa nota al pm di Catania, non fosse altro come elemento di valutazione dell’attendibilità del dichiarante.
De Donno non ha informato neppure il dr. Borsellino della decisione di Li Pera di aprirsi a un’iniziale collaborazione con la procura di Catania, benché ne avesse avuto la possibilità in occasione dell’incontro che ebbero il 25 giugno 1992 alla Caserma Carini (episodio che trova conferma nelle testimonianze di Sinico e Canale, anche se quest’ultimo, come rammenta il giudice di prime cure, dà una versione diversa delle ragioni per cui il dott. Borsellino aveva sollecitato quell’incontro che lo stesso Canale avrebbe poi provveduto a organizzare, o almeno della ragione che ne aveva fornito il pretesto).
Era un’occasione particolarmente ghiotta se si considera che, a suo dire, era stato lo stesso Borsellino a sollecitare quell’incontro per verificare la disponibilità di De Donno e del Ros a riprendere e approfondire un’indagine che entrambi convenivano fosse di assoluto rilievo nella lotta alla criminalità mafiosa; ma che tino a quel momento aveva sortito, sul piano giudiziario (con 6 imputati a giudizio, mentre per tutti gli altri dell’originario procedimento Siino+45 si profilava una imminente archiviazione) risultati di gran lunga inferiori a quelli auspicati e attesi dagli stessi inquirenti.
L’allora capitano De Donno, al pari del resto dell’allora colonnello Mori, nelle dichiarazioni rese al pm di Caltanissetta (nell’ambito del procedimento poi conclusosi definitivamente con il provvedimento di archiviazione più volte citato del 15 marzo 2000, in atti) si è detto certo che il dr. Borsellino fosse stato informato che Li Pera aveva deciso di collaborare e stava rendendo dichiarazioni alla procura di Caltanissetta. Ma sulle circostanze e da chi il dr. Borsellino ne sarebbe stato informato, De Donno ha reso dichiarazioni confuse e contraddittorie, oltre ad essere poco credibili ex se, spingendosi a fare affermazioni che sono state perentoriamente smentite da uno dei magistrati — peraltro contitolare dell’inchiesta su mafia e appalti — che era stato chiamato in causa come terminale attraverso cui la notizia, che sarebbe stata trasmessa riservatamente e in via ufficiosa dal pm di Catania, era pervenuta al dr. Borsellino.
È certo però che non ha mai detto di essere stato lui, De Donno ad informarlo. E quindi resta motivo di grave perplessità che non abbia sentito il bisogno di farlo lui stesso; o quanto meno, senza fare nomi e senza entrare nel merito della vicenda, per non violare il dovere di riserbo investigativo rispetto all’indagine condotta dall’A.g. di Catania, non avesse colto l’occasione di quell’incontro per allertare Borsellino sulla possibilità che vi fosse un nuovo collaboratore di giustizia disposto a riferire proprio sui fatti che avevano formato oggetto dell’indagine mafia e appalti cui lo stesso Borsellino si mostrava tanto interessato da sollecitarlo — una sollecitazione che dice di avere accolto, pur sapendo che erano altri i magistrati della procura di Palermo titolari dell’inchiesta - a svolgere un’indagine per la quale avrebbe dovuto rapportarsi solo a lui; e non lo avesse invitato a prendere contatti con l’Ufficio omologo di Caltanissetta.
L’INCONTRO CON BORSELLINO DEL 25 GIUGNO
Così come desta serie perplessità che, sempre in occasione dell’incontro sollecitato da Borsellino ed effettivamente tenutosi il 25 giugno, nè Mori nè De Donno abbiano ritenuto di informarlo dell’iniziativa che avevano intrapreso di compulsare Vito Ciancimino come possibile fonte di informazioni utili ad analizzare e comprendere il contesto criminoso in cui inquadrare l’escalation di violenza mafiosa in atto: e ciò a prescindere dal fatto che De Donno avesse già incontrato l’ex sindaco di Palermo o fosse in procinto di incontrano, trattandosi comunque di un programma di lavoro investigativo che ben poteva integrarsi con il proposito loro esternato dal dr. Borsellino di sviluppare l’indagine sugli intrecci collusivi di natura politico affaristico mafiosa. Tanto più che, a dire dello stesso De Donno, il dr. Borsellino era convinto, anche se non glielo aveva detto espressamente, che l’indagine su mafia e appalti avesse un rilievo strategico perché puntava al cuore del potere mafioso e della sua più recente evoluzione e che su quel versante poteva annidarsi la vera causale della strage di Capaci.
D’altra parte, la dott.ssa Ferraro ricorda perfettamente che il capitano De Donno, alla sua obbiezione che di quell’iniziativa i carabinieri avrebbero dovuto e riferire all’A.g. e quindi al dr. Borsellino, piuttosto che al Ministro, le assicurò che ovviamente ne avrebbe informato il dr. Borsellino. E lo stesso Mori, nel datare sia pure con appRossimazione l’incontro tra la Ferraro e il De Donno, esclude che avessero già incontrato Vito Ciancimino perché se così fosse stato ne
avrebbero certamente parlato con il dr. Borsellino: così dando addirittura per scontato che l’allora procuratore aggiunto della procura di Palermo dovesse esserne informato.
Sta di fatto che Borsellino ne fu informato dalla Ferraro, e non dagli ufficiali del Ros.
Ed ancora più discutibile è stata la scelta sia di Mori che di De Donno di non rivelare quell’episodio, tacendo per anni: fino a quando non vennero chiamati dalla procura di Caltanissetta per chiarimenti sulle circostanze emerse dalla deposizione di altro magistrato che aveva riferito sui filoni d’indagine particolarmente attenzionati dal dr. Borsellino negli ultimi tempi, indicando tra gli altri proprio l’indagine su mafia appalti, della quale lo stesso Borsellino avrebbe parlato in particolare con il capitano De Donno.
La giustificazione addotta — e cioè che a quell’incontro non aveva fatto seguito neppure la redazione di un programma di lavoro e quindi tutto era rimasto allo stato di mero proposito, sicché nessuno dei due ufficiali ritenne che quell’episodio potesse avere il minimo interesse per l’A.g. che indagava sulla strage di via D’Amelio — non fuga il sospetto di reticenza. Non poteva sfuggire ai due ufficiali la rilevanza dell’episodio, e comunque la necessità che la competente A.g. ne fosse messa a conoscenza, considerati, da un lato, lo sforzo profuso per tentare di individuare la causale della strage proprio a partire dall’analisi delle più significative indagini curate dal dr. Borsellino o da lui attenzionate. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La verità a due facce sull’accelerazione della strage di via d’Amelio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 03 novembre 2022
La tesi della difesa è che, se vi fu un’effettiva accelerazione nel dare concreta attuazione alla decisione già adottata da tempo di uccidere il dottore Borsellino, essa fu dovuta ad un coacervo di cause concomitanti che nulla hanno a che vedere con la presunta trattativa stato-mafia
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
L’episodio dell’incontro alla Caserma Carini, del 25 giugno ‘92, introduce al secondo profilo di rilevanza, stavolta in un’ottica squisitamente difensiva, dell’indagine su mafia e appalti.
La tesi della difesa è che, se vi fu un’effettiva accelerazione nel dare concreta attuazione alla decisione già adottata da tempo di uccidere il dott. Borsellino, essa fu dovuta ad un coacervo di cause concomitanti che nulla hanno a che vedere con la presunta trattativa Stato-mafia; e su tutte e prima di tutte, risalterebbe il rinnovato interesse del magistrato per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire tale indagine, che mirava a uno dei gangli vitali del potere mafioso. Da qui la preoccupazione dei vertici mafiosi di stroncare sul nascere qualsiasi velleità di sviluppare questo filone d’indagine, eliminando il dott. Borsellino prima ancora che potesse mettere in atto il suo proposito.
La sentenza appellata reputa provato sia l’interesse che il proposito predetti, richiamando al riguardo le convergenti dichiarazioni di una serie nutrita di fonti testimoniali (cfr. Canale, Natoli, Vizzini, Aliquò, Ferraro) in aggiunta e a riscontro di quanto dichiarato da Mori e De Donno in ordine alle intenzioni e intuizioni loro esternate dal dott. Borsellino in occasione dell’incontro del 25 giugno ‘92. E tuttavia esclude, per molteplici ragioni (cfr. pagg. 1234-1236), che possano avere avuto una concreta incidenza nell’accelerazione dell’iter esecutivo della strage (così andando, va detto, in contrario avviso rispetto ai più recenti arresti giurisprudenziali sul tema, come risulta dalle sentenze di merito del processo “Borsellino quater”, ed anche rispetto alla sentenza, divenuta irrevocabile, n. 24/2006 della Corte d’Assise d’Appello di Catania, che ha definito quale giudice di
rinvio i procedimenti riuniti aventi ad oggetto le due stragi siciliane); come pure esclude (cfr. pag. 1237) la possibile incidenza degli avvenimenti e delle circostanze che decine di giudici nei vari processi istruiti e definiti sulle due stragi siciliane hanno di volta in volta ipotizzato come possibili cause o concause di quell’accelerazione (quali la collaborazione di nuovi pentiti di rilevante spessore, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo, che il dott. Borsellino aveva iniziato ad interrogare il 1° luglio ‘92, e altri pentiti proveniente da[l’agrigentino; nonché le incaute esternazioni risalenti all’ultima decade di giugno ‘92 dei ministri Scotti e Martelli circa una possibile designazione a procuratore Nazionale Antimafia del dott. Borsellino, quale naturale erede del giudice Falcone nel ruolo di leader dell’attività di contrasto alla mafia). E perviene infine alla conclusione che «è giocoforza ritenere che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo — ed in sostanza di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci — pervenuti a Salvatore Rima, attraverso Vito Ciancimino proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via D’Amelio».
Quei segnali sarebbero quindi l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a «sconvolgere la “scaletta” del proprio programma criminoso ed a anticipare, quindi, un delitto, che, in quel momento. all’apparenza, sarebbe stato totalmente controproducente per gli interessi dell’organizzazione mafiosa se non altro per l’effetto catalizzatore che avrebbe avuto contro la tracotanza mafiosa e di conseguente inevitabile tacitamento delle opposizioni di carattere garantista”, interne ed esterne al Parlamento, che si erano levate di fronte al ‘giro di vite” che il Governo si apprestava ad attuare nell’azione di contrasto alle mafie».
L’INTERESSE DI BORSELLINO
Ebbene, va detto subito che gli argomenti che inducono il giudice di prime cure ad escludere che l’interesse del dott. Borsellino per l’indagine mafia e appalti e la sua determinazione a riprendere e approfondire quel tema d’indagine abbiano avuto concreta incidenza nell’accelerazione della strage di via D’Amelio (nella sua fase esecutiva) appaiono tutt’altro che irresistibili e convincenti.
Vero è che nel periodo in considerazione si occupava anche - persino di più - di altre indagini, nella sua qualità di coordinatore dei magistrati titolari delle inchieste sulle consorterie mafiose operanti nelle province di Trapani e Agrigento. Ma è chiaro che, in un’ottica di tutela preventiva degli interessi mafiosi, le indagini in corso, o quelle che il dott. Borsellino si accingeva ad intraprendere, non avevano tutte lo stesso peso. C’è indagine e indagine: bisogna vedere quale, delle tante di cui egli si stava occupando, poteva destare maggiore allarme in Cosa nostra, per la sua valenza strategica e i possibili sviluppi. E la medesima considerazione vale per l’obbiezione che segue immediatamente alla prima.
Vero è che L’innegabile interesse per l’indagine mafia e appalti e i lungimiranti propositi di Borsellino di riprendere quel filone investigativo e approfondirlo — magari proprio avvalendosi degli input che potevano venirgli dai nuovi pentiti di cui aveva iniziato a raccogliere le prime dichiarazioni — non si erano concretizzato ancora in specifici atti istruttori e neppure in una delega d’indagine che potesse concretamente impensierire i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Ma anche sotto questo aspetto è agevole replicare che, sempre in un’ottica di tutela preventiva, se Cosa nostra aveva motivo di temere conseguenze gravemente pregiudizievoli per i propri interessi da un’eventuale approfondimento dell’indagine mafia e appalti che conducesse ben oltre gli approdi del procedimento a carico di Siino e gli altri 5 tra sodali e imprenditori collusi che erano stati arrestati e poi rinviati a giudizio per il reato di associazione mafiosa (essendo previsto per ottobre l’inizio del dibattimento), allora aveva altresì interesse a prevenire quel rischio: e quindi a stroncare sul nascere la possibilità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, attraverso l’annientamento del magistrato che forse più di ogni altro in quel momento avrebbe saputo mettere un patrimonio inestimabile di conoscenze e acquisizioni e capacità di analisi del fenomeno mafioso al servizio di un’indagine tesa a sviluppare un’intuizione che il dott. Borsellino aveva mutuato dal giudice Falcone, a proposito della sua probabile evoluzione nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, e negli ambienti dell’alta finanza e della grande impresa.
Un’evoluzione che, a partire dall’esigenza di riciclare e fare fruttare gli ingenti capitali provento dei traffici illeciti, e accumulati fin dalla seconda metà degli anni ‘70, aveva marciato lungo traiettorie che, nella prospettiva di una valenza non più soltanto predatoria o parassitaria dell’ingerenza di Cosa nostra nel sistema di illecita spartizione e gestione degli appalti, andavano ad incrociare le indagini sulle vicende di corruzione e concussione che ormai in tutto il Paese, al seguito dell’inchiesta Mani Pulite, investivano pezzi importanti della nomenclatura politica fino ad allora dominante, e non risparmiavano i più grossi gruppi imprenditoriali interessati ad aggiudicarsi lucrosi appalti anche in Sicilia.
Pertanto, cade anche l’ulteriore obbiezione del giudice di prime cure secondo cui, tutto sommato, l’indagine mafia e appalti già curata dal Ros si era sostanzialmente conclusa, senza andare molto oltre gli esiti compendiati nella prima Informativa del febbraio 1991. Essa non aveva sortito un gran danno per Cosa nostra, a parte il sacrificio di Siino, che aveva fatto velo all’ascesa di altri personaggi (come i fratelli Buscemi o l’imprenditore agrigentino Filippo Salamone), rimasti ai margini di quell’indagine, e chiamati invece a ricoprire ruoli anche più importanti rispetto a Siino, nel fare da tramite tra l’organizzazione mafiosa, i rappresentanti dei più grossi gruppi imprenditoriali associati alle cordate di imprenditori locali negli accordi di spartizione degli appalti e i politici o gli amministratori che li propiziavano dietro versamento di congrue tangenti.
Saranno proprio le indagini e i processi del filone mafia e appalti che seguiranno negli anni successivi a svelarlo, come si evince dalla mole di documenti qui acquisiti.
Ma in quella primavera-estate del ‘92, era uno scenario ancora latente. E quindi non vale obbiettare che il rapporto mafia e appalti del capitano De Donno aveva sortito magri risultati sul piano giudiziario e non poteva rappresentare un pericolo per Cosa nostra; o che tra i politici e imprenditori che erano stati solo lambiti da quell’indagine - e che ovviamente non avrebbero gradito un suo approfondimento - non vi fossero personaggi talmente compenetrati agli interessi (strategici) di Cosa nostra da poter sollecitare l’organizzazione mafiosa a prendere i provvedimenti più opportuni per scongiurarne il rischio.
Sono obbiezioni che ancora una volta sottostimano le esigenze di tutela preventiva per gli stessi interessi mafiosi contro i rischi di un’indagine che andasse ad aggredire gangli strategici del potere mafioso, quali le sue fonti di arricchimento (e di fruttuoso reimpiego degli ingenti capitali accumulati) e i suoi crescenti e sempre più pervasivi collegamenti con ambienti qualificati del mondo politico e imprenditoriali, perseguiti e realizzati proprio attraverso l’inedito protagonismo di Cosa nostra nel settore degli appalti che apriva canali e opportunità formidabili per implementare quei collegamenti.
Sempre in un’ottica di tutela preventiva, ciò che poteva temere Cosa nostra era ben altro dal rischio che qualche politico “amico” o qualche imprenditore rampante e più o meno colluso restasse invischiato nelle maglie di un’inchiesta come quella sfociata nell’arresto di Angelo Siino e pochi altri suoi sodali.
Il vero pericolo era che un approfondimento di quel tema d’indagine, sotto la sapiente regia e la determinazione di un magistrato esperto qual certamente era il procuratore aggiunto di Palermo unanimemente additato come erede di Giovanni Falcone, e nel solco di un’intuizione che era stata dello stesso Falcone, portasse alla luce o squarciasse il velo di silenzio che avvolgeva gli scenari davvero inquietanti di cui ha parlato, anche nella deposizione resa dinanzi a questa Corte, come già aveva fatto nel “BorsellinoTer”, il senatore Di Pietro (v. infra). Ma di cui v’è cospicua traccia, oltre che nelle sentenze di merito dello stesso “BorsellinoTer” (e in quella emessa dalla Corte d’Assise di Caltanissetta nel processo “BorsellinoQuater”), in diversi altri documenti come i due decreti (e relative richieste) di archiviazione dei procedimenti istruiti dalla Ddda nissena a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, la richiesta di archiviazione del procedimento De Eccher+20, e la citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti a firma dei magistrati titolari dei primi procedimenti istruite su questo tema d’indagine dalla procura di Palermo, e sui successivi sviluppi. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022
Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.
Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.
Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).
Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.
Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».
IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA
In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.
Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.
In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).
Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.
E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,
Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022
Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.
In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.
La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.
La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.
L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.
Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).
LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO
Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze:
«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.
Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.
Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.
Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.
Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.
Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.
Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.
Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.
Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.
Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.
Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.
Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022
La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello
facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.
Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.
Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.
Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del
Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.
La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.
Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.
A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.
Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura.
LA PISTA ELVETICA
Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.
È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.
E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).
Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.
Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.
È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.
Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022
Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.
Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.
Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».
[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La scarsa attendibilità di Brusca nella ricostruzione della trattativa. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’08 novembre 2022
Tace, la sentenza di primo grado, che la datazione offerta da Brusca, a partire dal momento in cui per la prima volta cambia versione - e cioè al processo “Borsellino ter” - rispetto a quella su cui aveva insistito anche in pubblici dibattimenti, è incompatibile con una ragionevole ricostruzione dei tempi di sviluppo della trattativa.
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Quanto alla conclusione secondo cui l’essere venuto a conoscenza, attraverso il canale Ciancimino-Cinà, che uomini delle istituzioni si fossero fatti avanti per sollecitare un possibile dialogo con i vertici di Cosa nostra (ovvero per negoziare la cessazione delle stragi) costituirebbe l’unico fatto nuovo, sopravvenuto dopo la strage di Capaci e prima di quella di via D’Amelio che può avere indotto Riina a sconvolgere la scaletta del suo programma criminoso anticipando l’esecuzione di un delitto che sarebbe stato controproducente — per Cosa nostra - commettere in quel frangente, il ragionamento del giudice di prime cure elude il confronto con i dati fattuali.
Esso infatti dà - o sembra dare, nel primo dei passaggi motivazionali dedicati al tema - per indiscutibilmente provato che Salvatore Riina fosse stato informato proprio nel periodo immediatamente precedente la strage della sollecitazione al dialogo proveniente da autorevoli rappresentanti dello stato; ma non si preoccupa più di tanto di dimostrare che lo sviluppo dei contatti tra gli ufficiali del Ros. fosse giunto, già prima della strage di via D’Amelio, ad uno stadio talmente avanzato da consentire al capo di Cosa nostra di avere una chiara e certa contezza, attraverso il canale Ciancimino-De Donno, che lo stato fosse disponibile ad avviare un negoziato con l’organizzazione mafiosa.
Il timing della vicenda che si desumerebbe dalle dichiarazioni dei diretti protagonisti racconterebbe tutt’altro, perché prima della strage di via D’Amelio vi sarebbero stati soltanto due o tre incontri a quattro occhi del Capitano De Donno con Vito Ciancimino, che s’inscrivevano ancora nella fase delle schermaglie preliminari.
Mentre il Col. Mori, la cui partecipazione ai “colloqui di pace” era stata ritenuta indispensabile a garanzia del livello della trattativa e della legittimazione dei carabinieri a proporsi come emissari di un’Autorità politica o istituzionale sovraordinata, sarebbe intervenuto solo successivamente.
D’altra parte, gli elementi che possono ricavarsi dalle testimonianze di Liliana Ferraro e di Fernanda Contri ci dicono di contatti ancora da instaurarsi o comunque ancora in fase del tutto embrionale nell’ultima decade di giugno e a cavallo del trigesimo della strage di Capaci (v. incontro della Ferraro con De Donno), e persino al 22 luglio, data dell’incontro della Contri con il colonnello Mori.
COSA DICE LA SENTENZA DI PRIMO GRADO
Di contro, le fonti che avrebbero potuto avvalorare, con le loro dichiarazioni, l’ipotesi che la trattativa avesse avuto uno sviluppo molto più celere e fosse giunta, in epoca anteriore e prossima alla strage di via D’Amelio, ad uno stadio molto più avanzato e maturo di quanto non vogliano far credere Mori e De Donno (per non parlare di Vito Ciancimino) sono liquidate dallo stesso giudice di prime cure l’uno, Massimo Ciancimino, come totalmente inaffidabile ai fini dell’accertamento di tutti i fatti di cui ha parlato e straparlato; l’altro, Giovanni Brusca, come assai poco affidabile quanto alla datazione degli avvenimenti che qui interessano — e segnatamente la vicenda del papello — per le incertezze palesate e soprattutto per avere reso dichiarazioni quanto mai ondivaghe tutte le volte che è stato sentito su quella vicenda.
O meglio, più che di oscillazioni, si deve dare atto di un vero e proprio mutamento di versione rispetto alle dichiarazioni che Brusca aveva reso già il 10 e il 14 agosto del ‘96, […] e il 10 settembre ‘96, […] e quindi all’inizio della sua collaborazione, quando aveva collocato con certezza il primo colloquio con Riina sul papello in epoca successiva alla strage di via D’Amelio: versione che però aveva sostanzialmente confermato anche in pubblici dibattimenti, come gli è stato contestato nel corso del controesame cui è stato sottoposto all’udienza del 12.12.2013. […] Ed ancora, dal verbale del 19 gennaio 1998, processo per le stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze: […]. Tace, la sentenza di primo grado, che la datazione offerta da Brusca, a partire dal momento in cui per la prima volta cambia versione - e cioè al processo “Borsellino ter” - rispetto a quella su cui aveva insistito anche in pubblici dibattimenti (come il primo processo sulle stragi in continente dinanzi la Corte d’Assise di Firenze e il processo “Borsellino bis” dinanzi la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta) e su cui peraltro ritornerà, inopinatamente, il 3.05.2011 dinanzi la Corte d’Assise di Firenze nel processo Tagliavia, almeno per ciò che concerne il secondo dei colloqui vertenti sul papello (v. infra), è incompatibile con una ragionevole ricostruzione dei tempi di sviluppo della trattativa.
TUTTE LE INCONGRUENZE DELLO “SCANNACRISTIANI”
Essa postula infatti che già prima della strage di via D’Amelio il Riina non solo fosse stato informato della sollecitazione al dialogo, ma avesse deciso di accettarla, inoltrando le sue richieste per il tramite di Ciancimino […]. Ma se il secondo dei due incontri in cui Riina gli parlò del papello fosse davvero avvenuto alla fine di giugno o al più ai primi di luglio, in netto contrasto, peraltro, con quanto lo stesso Brusca aveva dichiarato all’udienza del 3/05/2011 nel processo di Firenze a carico di Tagliavia Francesco sempre per le stragi in continente, il precedente incontro a tutto concedere sarebbe avvenuto intorno all’ultima decade di giugno (dando per buona la versione di tempi rapidissimi tra le richieste avanzate da Riina e la risposta della controparte, in barba alla difficoltà di un’interlocuzione che richiedeva varie intermediazioni e quindi vari passaggi).
Il contrasto con il racconto fatto al processo Tagliavia - che sembrerebbe segnare un ritorno alla versione originaria - è più che evidente. Ma addirittura disarmante è la spiegazione che lo stesso Brusac ha offerto, quando quella difformità gli è stata contestata, imputandola ad una sua contingente “mancanza di serenità”. […] In ogni caso, stando alla “nuova” versione (per intenderci: quella resa nel presente processo, che corrisponderebbe alla versione resa al “Borsellino ter”), per ritrovare il momento in cui Riina sarebbe stato informato della sollecitazione a far conoscere le sue richieste per far cessare le stragi […] occorrerebbe risalire alla prima metà di giugno: altro che schermaglie preliminari e gioco delle parti nei colloqui tra De Donno e Ciancimino e poi anche con Mori. Ma neppure Massimo Ciancimino è arrivato a tanto.
Di contro, stando a questa datazione, la trattativa si sarebbe chiusa, con la deludente risposta della controparte istituzionale, già tra le fine di giugno e i primi di luglio. E Riina avrebbe quindi deciso di procedere senza indugio alla strage, sia per ritorsione contro l’atteggiamento irriguardoso della controparte, che si era mostrata disposta a concedere solo briciole […]; sia per implementare l’efficacia intimidatoria della minaccia mafiosa e costringere la controparte istituzionale ad accogliere le richieste che erano state respinte come eccessive.
Ma allora come spiegare la successiva decisione di dare un altro colpetto, nell’autunno del ‘92, per indurre gli stessi soggetti che, a suo tempo, si erano fatti sotto, a tornare a trattare? Se non era servito un colpo tremendo quale quello inferto con la strage di via D’Amelio, un semplice colpetto non avrebbe certo potuto far superare la situazione di stallo.
E infatti, in un successivo passaggio della motivazione, sempre dedicato alla ricerca della conferma della trattativa anche nelle parole di Brusca, la sentenza appellata valorizza con convinzione le dichiarazioni che il Brusca ebbe a rendere nell’immediatezza della sua collaborazione, e rese utilizzabili nel presente giudizio attraverso la contestazione dei verbali utilizzati nel corso dell’esame dibattimentale del dichiarante e nei limiti di quanto confermato, e segnatamente quella consacrata nel verbale d’interrogatorio del 14 agosto 1996.
In quella sede, Brusca aveva fatto risalire ad epoca successiva alle due stragi, e addirittura alla vigilia delle festività natalizie, il momento in cui Riina aveva avuto contezza che non meglio specificati emissari istituzionali gli avevano chiesto cosa volesse per porre termine alle stragi […]. Al dibattimento ha sostanzialmente confermato il contenuto e la sequenza dei colloqui vertenti sul papello, salvo datarli entrambi alla fine di giugno del 1992 e comunque - con certezza e sulla base di assenti riferimenti temporali rivenuti nei meandri della sua memoria a distanza di anni — entrambi prima della strage di via D’Amelio.
E la sentenza appellata, con apparente disinvoltura (a pag. 1634) supera l’incertezza che ne verrebbe in ordine all’affettiva concatenazione causale dei fatti da ricostruire, dando sì atto che la collocazione temporale prospettata da Brusca è stata oggetto di dichiarazioni nel tempo diverse e spesso contraddittorie, ma assicurando al contempo che la Corte «intende prescindere da tale dato (che. peraltro, come meglio si preciserà nel prosieguo non appare determinante ai fini della contestazione di reato in esame nel presente processo) e concentrarsi, quindi, soltanto sul contenuto del colloquio avuto con Riina (quale che sia il periodo in cui questo avvenne, comunque. per il suo contenuto, collocabile nel secondo semestre del 1992), che. invece, come detto, nel suo nucleo centrale (quello che appare possibile, quindi, utilizzare) è stato sempre confermato dal Brusca in tutte le sue dichiarazioni lino a quelle rese in questo dibattimento».
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strage di via D’Amelio fu “anticipata” dal Capo dei capi di Corleone? SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 09 novembre 2022
L’operazione via D’Amelio ha inizio alla fine di giugno ‘92, nel senso che a quella data è già in itinere, con l’incarico a Spatuzza di rubare la Fiat 126 da utilizzare come autobomba: e ciò significa che era stata già stabilita questa modalità di esecuzione, e, d’altra parte, erano già disponibili sia i telecomandi necessari per comandare l’ordigno a distanza sia l’esplosivo.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
A parere di questa Corte, per fare chiarezza sulla questione in esame occorre risalire ai pochi punti processualmente certi.
Una ricostruzione ancorata alla datazione come “rettificata” da Brusca, mentre anticipa troppo i tempi della trattativa tra Ciancimino e i carabinieri (e lo stesso giudice di prime cure finisce per ritenerla inattendibile), perviene al risultato di far corrispondere l’inizio dell’iter esecutivo al momento in cui deve in effetti ritenersi - sulla base delle risultanze acquisite nei processi celebrati sulla strage Borsellino e non inquinate dalle false propalazioni di Vincenzo Scarantino - che abbia avuto concreto inizio l’operazione via D’Amelio: e cioè fine giugno primissimi giorni di luglio.
Già Cancemi collocava alla fine di giugno la riunione in casa di Guddo Girolamo in occasione della quale egli ebbe contezza che Riina aveva fretta di eliminare Borsellino [...].
Spatuzza ha reso dichiarazioni che, raccordate con risultanze più certe, consentono di datare ai primi di luglio il furto della Fiat 126 che fu poi tenuta in un garage per essere poi portata nell’officina in cui furono fatti gli ultimi lavori all’impianto dei freni.
Il dato certo è che il 10 luglio venne sporta da Pietrina Valenti formale denuncia di furto dell’auto intestata alla madre (D’Aguanno Maria). La denunciante asseriva che le era stata rubata la notte prima; ma sentita dagli inquirenti e poi al dibattimento del primo processo sulla strage ricordava perfettamente che si era recata a sporgere denuncia la domenica mattina, ma aveva dovuto tornare successivamente perché la caserma era chiusa, essendo domenica.
Sennonché il 10 luglio era un venerdì, e quindi se il furto fosse avvenuto la notte prima, cioè il 9 luglio, non si spiegherebbe il ricordo di essersi recata in caserma a sporgere denuncia la domenica mattina. E tuttavia la donna riferiva anche di essersi rivolta ad un conoscente, Salvatore Candura perché desse voce nel quartiere per farle trovare l’auto. E il Candura confermò la circostanza e ammise di avere convinto la Valenti ad attendere qualche giorno prima di sporgere denuncia (circostanza confermata anche da Valente Luciano, fratello di Pietrina).
È quindi più che probabile che il furto sia avvenuto la settimana prima, e precisamente nella notte tra il 4 luglio — che era sabato — e il 5 luglio; e che la donna recatasi in caserma a porgere la denuncia e, alla richiesta dei carabinieri di tornare in un giorno non festivo, e prima di formalizzare la denuncia, si sia rivolta al Candura perché l’aiutasse a recuperare l’auto; e avrebbe quindi atteso qualche giorno, come lo stesso Candura ha ammesso di averle suggerito, prima di recarsi nuovamente dai carabinieri. D’altra parte, Spatuzza nel rievocare con comprensibile approssimazione a distanza di tanti anni quelle circostanze, conserva il ricordo di alcune complicazione che certamente ritardarono l’espletamento dell’incarico che gli era stato conferito da Giuseppe Graviano tramite Fifetto Cannella.
IL FURTO DELLA FIAT 126
In sostanza, quando gli fu dato, la mattina del sabato precedente alla strage, l’incarico di rubare le targhe da apporre alla Fiat 126 per consentirne lo spostamento in via D’Amelio, vi provvide lo stesso giorno (con la complicità di Orofino Giuseppe, presso cui era ricoverata per riparazioni l’altra Fiat 126 di proprietà di Sferrazza Anna, da cui vennero asportate le targhe). Invece, per il furto dell’auto passarono alcuni giorni rispetto al momento in cui gli era stato dato l’incarico.
Spatuzza non era un ladro d’auto e allora dovette chiedere l’autorizzazione ad avvalersi di Tutino Vittorio, più esperto di lui in materia. Inoltre, si pose un problema di competenza, perché voleva essere certo di potere effettuare il furto in qualsiasi pane del territorio di Palermo, anche fuori del mandamento di Brancaccio. Si rivolse quindi a Cannella che a sua volta dovette interpellare Giuseppe Graviano. E passò qualche giorno prima di avere la risposta. E solo allora Spatuzza poté concordare con il Tutino il giorno in cui vedersi per andare a rubare un’auto del tipo richiesto.
Deve quindi convenirsi con la conclusione cui sono pervenuti i giudici del Borsellino quater — che peraltro si riportano a risultanze già acquisite nel corso dei precedenti processi sulla strage di via D’Amelio, annotate nelle sentenze versate anche agli atti di questo processo -secondo cui l’incarico di Giuseppe Graviano a Gaspare Spatuzza per rubare una Fiat 126 può senz’altro collocarsi alla fine del mese di giugno 1992.
Anche se alcuni dei preparativi, come il collaudo dei telecomandi effettuato in località Case Ferreri dietro il Sigros di Palermo, di cui ha riferito, per avervi preso parte, il collaboratore di giustizia Giovanbattista Ferrante, furono compiuti molto più a ridosso del 19 luglio (Sabato li luglio, come il Ferrante aveva detto deponendo al Borsellino ter; o, come ha dichiarato in questo processo, una settimana o dieci giorni prima della strage).
E c’è un’altra risultanza che ci viene dalle pagine dei processi celebrati sulla strage di via D’Amelio, e che non è stata scalfita dalle revisioni dei giudicati a seguito delle verità emerse in relazione al depistaggio attuato con le sue false propalazioni dal sedicente pentito Vincenzo Scarantino.
La scelta del luogo e del giorno (la domenica) non lii né casuale né estemporanea, ma dovette essere preceduta da un’accurata attività di pedinamento e di osservazione degli spostamenti abituali del magistrato, che condusse gli assassini a individuare il luogo più propizio in cui piazzare l’autobomba in via D’Amelio, dove era ubicata l’abitazione non della madre del dott. Borsellino, ma della sorella Rita, presso la quale la madre soleva stare, in genere, nei fine settimana: quando appunto il dott. Borsellino si recava in via D’Amelio per fare visita all’anziana madre.
Tale attività preparatoria deve avere richiesto diverse settimane (come in effetti sembrerebbe evincersi dalla pur scarne dichiarazioni rese al riguardo in particolare da Galliano Antonino), come si evince dal passaggio che segue della sentenza nr. 29/97 della Corte d’Assise di Caltanissetta: […]. Il dato dell’abitualità delle visite in via D’Amelio, nei fine settimana, per andare a trovare la madre, a fronte dell’incertezza delle visite a casa dell’altra sorella, che avveniva durante i giorni feriali, ma non con regolarità, conferma che lo studio delle abitudini della vittima e dei suoi spostamenti più abituati deve essersi protratta per diverse settimane.
CI FU ACCELERAZIONE?
Ebbene, la sentenza impugnata ha totalmente omesso di confrontarsi con le risultanze sopra richiamate, nello sforzo di dimostrare non solo che vi fu una brusca accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio; ma anche che tale accelerazione ivi dovuta a uno specifico evento sopravvenuto dopo la strage di Capaci: un evento nuovo, non previsto e di tal portata da stravolgere il programma criminoso di Riina, e sopravvenuto poco prima del 19 luglio, tanto da indurre Riina a stoppare altri progetti omicidiari già in fase avanzata di esecuzione (come l’attentato a Mannino, di cui ha parlato Brusca, che però nella datazione degli eventi rettificata rispetto alle sue prime dichiarazioni, colloca pur sempre lo stop a giugno) e dare ordine ai suoi uomini di attivarsi per eseguire l’attentato a Borsellino nel girodi pochi giorni.
Lo stesso Riina avrebbe infatti confermato, in alcune delle conversazioni, intercettate a sua insaputa, con il codetenuto Lo Russo, che la strage fu studiata alla giornata, e attuata, nella sua concreta esecuzione — poiché la condanna a morte di Borsellino risaliva invece a diverso tempo prima — nel giro di pochi giorni. […] Ma che la strage Borsellino possa essere stata decisa, organizzata e attuata nel volgere di pochi giorni e a seguito di un evento imprevisto quale la sollecitazione al dialogo pervenuta a Riina proprio in quei giorni, attraverso il canale Ciancimino-Cinà, e proveniente da quelli che lo stesso Riina aveva motivo di credere fossero emissari di organi di governo, o rappresentanti dello Stato appare frutto di una chiara forzatura di tutti i dati disponibili.
L’operazione via D’Amelio ha inizio alla fine di giugno ‘92, nel senso che a quella data è già in itinere, con l’incarico a Spatuzza di rubare la Fiat 126 da utilizzare come autobomba: e ciò significa che era stata già stabilita questa modalità di esecuzione, e, d’altra parte, erano già disponibili sia i telecomandi necessari per comandare l’ordigno a distanza (Biondino aveva provveduto a procurare cinque coppie di telecomandi e Ferrante ne aveva sentito parlare fin da marzo) sia l’esplosivo, che era stata “lavorato” (da Spatuzza) insieme a quello utilizzato per la strage di Capaci.
D’altra parte, volendo prestare fede al racconto di Brusca, nella versione rettificata, lo stop al progetto già in fase avanzata di uccidere Mannino gli sarebbe stato impartito nel mese di giugno (e dobbiamo fare uno sforzo per sorvolare, come s’è visto, sul persistente contrasto con la narrazione di La Barbera e sulla diversa datazione del “fermo” indicata dallo stesso Brusca nelle sue prime dichiarazioni).
E sempre alla fine di giugno lo stesso Cancemi — che neppure il giudice di prime cure si sente tuttavia di poter assumere come riscontro rassicurante all’attendibilità della ricostruzione che si ricaverebbe dal racconto di Brusca — colloca l’episodio della riunione a casa di Guddo in cui Riina avrebbe manifestato, parlandone con il fido Raffaele Ganci, la fretta di procedere all’eliminazione del dott. Borsellino. (E per inciso, se si prestasse fede alle rivelazioni di Cancemi, se ne dovrebbe inferire una traiettoria ricostruttiva degli eventi che condurrebbe molto lontano dall’ipotesi che la fretta di Riina traesse origine dall’essere venuto a conoscenza della “trattativa”, o meglio della proposta di trattativa, perché la lettura che ne offre lo stesso Cancemi è tutt’altra).
Si può comunque affermare che Riina al più tardi nell’ultima decade di giugno abbia dato disco verde all’esecuzione della decisione - già adottata peraltro diversi prima — di uccidere il magistrato che dopo Falcone era il simbolo della Lotta alla mafia e ne aveva preso anche in tale veste il testimone.
LA “SOLLECITAZIONE” DEL ROS
Ma se così è, il collegamento che si vorrebbe contestare con la sollecitazione al dialogo rivolta dai carabinieri del Ros ai vertici mafiosi per il tramite di Ciancimino, anche prescindere dalle legittime perplessità suscitate dalle ondivaghe datazioni di Giovanni Brusca, non appare compatibile con i tempi di svolgimento dei contatti instaurati, prima dal solo De Donno e poi dal De Donno insieme a Mori, con l’ex sindaco di Palermo.
Non parliamo ovviamente dei tempi descritti dai due ex ufficiali del Ros (e tanto meno della datazione di Ciancimino che sarebbe troppo spostata in avanti, a dire degli stessi ex ufficiali odierni imputati, laddove afferma di avere deciso solo dopo la strage di via D’Amelio di accettare la richiesta del capitano De Donno di incontrarlo; e di avere successivamente incontrato anche il colonnello Mori), che sono molto lontani da uno svolgimento conforme a quello che si vorrebbe — in sentenza — asseverare. Ma non si può nascondere — come si vedrà in proseguo - che la stessa testimonianza della Ferraro non consente di dare per provato che a cavallo del 23 giugno 1992 il capitano De Donno avesse già incontrato Ciancimino, e non fosse piuttosto in procinto di incontrarlo proprio in quei giorni. E tanto meno può inferirsene la prova che vi fosse stato già un primo incontro di Mori con Ciancimino. Parimenti deve dirsi per la testimonianza di Fernanda Contri: la sua impressione che gli incontri di Mori con Ciancimino fossero un’iniziativa in fieri può lasciare il tempo che trova,
come semplice impressione personale. Ma è certo che lo stesso Mori nel fargliene cenno, le fece intendere che si trattasse di un approccio preliminare, senza nulla di definito e men che meno con dei primi risultati concreti.
E quindi, in quell’ultima decade del mese di giugno cui, come s’è visto, risale l’inizio dell’iter esecutivo della strage, l’interlocuzione dei carabinieri con Ciancimino, ammesso che fosse a sua volta iniziata, doveva essere ancora in una fase embrionale, tanto da potersi escludere che i carabinieri avessero già scoperto le carte e detto chiaramente a Ciancimino che volevano che si facesse da tramite con i vertici di Cosa nostra per sondarne la disponibilità ad allacciare un dialogo per far cessare le stragi.
E tanto meno può credersi che Ciancimino avesse avuto già il tempo di informarne prima il Cinà, e attraverso quest’ultimo — che, non va dimenticato, in un primo momento non si prestò a fare da tramite come da lui stesso ammesso, salvo poi ripensarvi (come sostiene Vito Ciancimino, che parla al riguardo di un ritorno di fiamma delle persone a cui si era rivolto e che inizialmente avrebbero irriso alla sua richiesta).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le tempistiche della trattativa e la confusione del popolo di Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 10 novembre 2022
In sostanza, secondo la lettura di Brusca le stragi avrebbero costretto lo stato a venire a patti, sia pure creando le premesse per nuovi scenari politici; secondo la lettura di Cancemi, invece, le stragi dovevano servire a destabilizzare il quadro politico e istituzionale per favorire l’ascesa di nuove forze che si sarebbero fatte carico di realizzare quelle riforme che stavano a cuore ai mafiosi
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Il punto di frizione tra la versione rettificata proposta da Brusca per gli incontri con Riina vertenti sulla vicenda del papello e le vecchie e nuove risultanze in ordine ai contatti tra Vito Ciancimino e gli ufficiali del Ros nella sua prima fase - e cioè quella sfociata nella proposta da recapitare ai vertici mafiosi di avviare un dialogo - attiene ai tempi di svolgimento della trattativa; o, più esattamente, al momento in cui si può ritenere che Riina abbia avuto contezza del fatto che uomini dello Stato si era fatti sotto per trattare. E, a cascata, se e, in caso affermativo, quando fece avere ai suoi interlocutori istituzionali, o quanto meno a Ciancimino perché li recapitasse ai destinatari, le richieste compendiate nel famoso “papello”.
La proposta di trattativa o di sondare la disponibilità ad intavolare un negoziato, che fu avanzata esplicitamente da Mori, poteva essere presa in considerazione da Ciancimino solo se avesse avuto l’avallo di un autorità superiore a quella di un capitano dei carabinieri (come il comandante del Ros, poiché Mori non mancò di fare sapere a Ciancimino che Subranni era il suo superiore e che gli avrebbe portato i suoi saluti, con ciò lasciando chiaramente intendere che la sua iniziativa era o sarebbe stata condivisa dal Comandante del Ros).
Ecco perché, dopo avere accettato o addirittura dopo essere stato lui stesso a sollecitare a De Donno la partecipazione diretta di Mori ai loro colloqui, Ciancimino pretese altresì di poter fare i loro nomi a quella che apostrofava come “l’altra sponda”.
Ed ecco perché diventa decisivo stabilire il momento della discesa in campo di Mori per rivolgere a Vito Ciancimino l’invito a fare avere ai vertici mafiosi [...] la sollecitazione ad avviare un dialogo finalizzato a fare cessare le stragi: e, conseguentemente, potere stabilire se Riina ne abbia potuto esserne informato prima della strage di via D’Amelio.
E qui deve convenirsi con il rilievo formulato nella sentenza impugnata, che segnala come i tre protagonisti di quei contatti abbiano fatto a gara per spostare in avanti quel momento, allontanandolo in particolare dalla strage di via D’Amelio, sia pure con un taglio diverso. Infatti, sia Ciancimino che De Donno sembrano attribuire un rilievo dirompente a quel tragico evento, che avrebbe indotto De Donno a forzare i tempi e la mano a Ciancimino - chiedendogli se fosse disposto a incontrare Mori, per alzare il livello della loro interlocuzione e della posta in palo — e avrebbe indotto Ciancimino, per l’orrore che gli aveva suscitato, ad accettare di ricevere il De Donno (25 agosto) per sentire cosa intendesse proporgli e subito dopo ad incontrare Mori (1° settembre), con quel che ne segui. Mentre Mori glissa completamente su quell’evento.
Tutte le fonti esterne al terzetto predetto, che la sentenza si preoccupa di compulsare per trarne riscontri utili a comprovare anche i tempi di svolgimento della trattativa intrapresa attraverso i contatti con Vito Ciancimino, non dicono nulla o non forniscono elementi che possano dare certezza di una diversa datazione, tale da spostare indietro nel tempo, e in particolare al periodo compreso tra la strage di via Capaci e la strage di via D’Amelio, il momento topico di quella trattativa.
A parte Massimo Ciancimino, che per la sua inaffidabilità non può far testo, e le testimonianze di Liliana Ferraro e di Fernanda Contri, di cui si è già fatto cenno, vanno riesaminate al riguardo le dichiarazioni di Cancemi e Giuffré; nonché le testimonianze dell’avv. Giorgio Ghiron e di Giovanni Ciancimino. Mentre, per le ragioni illustrate dallo stesso giudice di prime cure, non può far testo la
deposizione dell’altro figlio, parimenti avvocato, Roberto Ciancimino perché della vicenda sarebbe venuto a conoscenza, per avergliene parlato suo padre, la prima volta, solo nel mese di settembre, ovvero circa due mesi dopo la strage di via D’Amelio. Sicché Roberto Ciancimino può solo confermare che a quella data — cioè a settembre — un’ipotetica trattativa fosse già pendente e in fase avanzata.
LE DICHIARAZIONI DI ANTONINO GIUFFRÉ
Corroborano la prova che Riina fu informato della sollecitazione proveniente da uomini dello Stato a “trattare” e autorizzò tale trattativa, ossia autorizzò Ciancimino a sentire cosa avessero da chiedere i carabinieri e a farsi latore della sua risposta. Tale prova si ricaverebbe già dalle dichiarazioni di Brusca e Cancemi, ma inevitabilmente soffrirebbe delle criticità che investono l’attendibilità delle loro propalazioni, se ad esse non si aggiungesse il puntello di un’autorevole conferma qual è quella proveniente dal Giuffré. Riina viene informato dell’invito a far conoscere le sue richieste (e quindi viene informato solo dopo che Ciancimino ha avuto da Mori in persona la conferma della ragione per la quale lo avevano contattato), e autorizza Ciancimino a “trattare”, cioè a farsi latore della sua risposta e ad attendere un riscontro dalla controparte. Ma il dubbio e il cruccio di Giuffré, stando al suo racconto, era che Ciancimino avesse di propria iniziativa avviato contatti con i carabinieri, ovvero avesse accettato di incontrarli (anche più volte) senza esserne previamente autorizzato. E Provenzano, stando sempre al racconto dell’ex boss di Caccamo, avrebbe fugato tale dubbio e la conseguente preoccupazione del Giuffré, dicendogli appunto che quei contatti erano stati autorizzati e che Ciancimino stava trattando con i carabinieri perché era in missione per conto di Cosa nostra […]. In ogni caso, le dichiarazioni di Giuffré nulla dicono in ordine ai contenuti dell’interlocuzione avviata attraverso i contatti di Ciancimino, debitamente autorizzati, con i carabinieri; né consentono di stabilire a quale stadio del suo sviluppo fosse giunta la “trattativa”. Ma, giusta l’ipotesi adombrata sulla probabile dislocazione temporale della confidenza fatta da Provenzano, se ne dovrebbe inferire che Provenzano fosse convinto che la missione di Ciancimino non era finita, ma era ancora — a marzo del 1993 - in pieno svolgimento, nonostante che, nel frattempo, fosse intervenuta la cattura di Riina. E quindi è lecito dubitare, già per la portata dirompente di un evento che sconvolgeva gli scenari precedenti, che la missione predetta si identificasse con quella a suo tempo autorizzata da Riina.
I “ TEMPI” DI CANCEMI
Colloca a giugno del 1992 e qualche settimana dopo la strage di via Capaci l’episodio della riunione ristretta di Riina alla villa di Guddo con alcuni capi tra quelli a lui più vicini (Biondino e Raffaele Ganci) nel corso della quale Riina sventolò un foglietto in cui erano appuntate una serie di questioni, invitando i presenti ad aggiungere eventuali loro richieste; e diede ampie rassicurazioni che sarebbero andate a buon fine, perché sarebbero state recapitate a persone degne della massima fiducia (Berlusconi e Dell'Utri) che si sarebbero fatto carico di farle accogliere. La prima volta ne parla nell’interrogatorio reso alle procure di PA e CL il 23 aprile 1998 (v. pag.1573-1574 della sentenza); e poi lo ripeterà in pubblica udienza al Borsellino bis, udienza 4.04.2001.
Al dibattimento di I grado del processo sulla strage di Capaci (udienze del 19 e 20.04.1996) Cancemi ammette di avere avuto colloqui informali con il Mar. Scibilia e altri carabinieri del Ros, proprio nel periodo più travagliato del suo sofferto percorso collaborativo. In particolare, a Scibilia avrebbe confidato che c’erano delle cose che ancora non aveva detto e intendeva rivelare ai giudici (cfr. pag. 66 del verbale udienza del 20.04.1996).
Non è allora azzardato ipotizzare che Cancemi si sia deciso a rievocare l’episodio della sollecitazione di Riina ad aggiungere eventuali ulteriori richieste a quelle che lui aveva già annotate — per farle avere a chi, suo dire, sarebbe stato in grado di farle accogliere — non solo per le remore a fare i nomi di Berlusconi e Dell'Utri come terminali delle rivendicazioni di Cosa nostra, ma anche perché della trattativa avevano riferito in pubblica udienza, appena pochi mesi prima e cioè nel gennaio del 1998, Giovanni Brusca e gli ufficiali del Ros, cioè del reparto che, surrogando il servizio centrale di protezione, gestiva di fatto la sicurezza del Cancemi.
Questi si sentiva quindi affrancato da ogni remora a fare rivelazioni che potessero risultare imbarazzanti o compromettenti per i suoi “tutori”.
Ma, detto questo, è evidente che la trattativa che, sia pure con dichiarazioni tardive e non immuni dal sospetto di contaminazione con conoscenze acquisita nel frattempo dalle cronache di altri processi, Cancemi lascia intravedere, è distonica rispetto a quella desumibile dal “combinato disposto” delle rivelazioni di Brusca sul papello e di quelle di Mori e De Donno, unitamente alle dichiarazioni di Vito Ciancimino sui contatti intrapresi nei giorni o nelle settimane successive alla strage di Capaci. Diverse gli intermediari, diversi gli ipotetici terminali e nessun cenno ad un possibile ruolo di Vito Ciancimino; e diversa era anche la cornice strategica delle stragi, perché, a dire di Cancemi, attraverso queste azioni il Riina voleva sfiduciare coloro che all’epoca erano in sella; e si riprometteva di portare al potere Berlusconi e Dell'Utri, risultato questo che avrebbe rappresentato un bene per tutta Cosa nostra.
In sostanza, secondo la lettura di Brusca le stragi avrebbero costretto lo stato a venire a patti, sia pure creando le premesse per nuovi scenari politici: secondo la lettura di Cancemi, invece, le stragi dovevano servire a destabilizzare il quadro politico e istituzionale per favorire l’ascesa al potere di nuove forze nuovi soggetti che si sarebbero fatto carico di realizzare quelle riforme che stavano a cuore ai mafiosi; e da questi stessi soggetti sarebbe venuta non già la sollecitazione ad avviare un dialogo per far cessare le stragi, ma al contrario un input o un incoraggiamento ad attuare la strategia stragista per raggiungere i rispetti obbiettivi. […].
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
L’avvocato dei Ciancimino, un ambiguo personaggio con legami nei “servizi”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani l’11 novembre 2022
Non si può fare a meno di formulare riserve sull’ambiguità del ruolo di questo personaggio, in ragione dei suoi legami con lo stesso Mori, e una presunta contiguità ai servizi; nonché per la singolare tempestività della sua comparsa sulla scena, giusto in coincidenza con la vicenda del passaporto di Ciancimino...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non si può fare a meno di formulare riserve sull’ambiguità del ruolo di questo personaggio (che sarà poi coimputato dei familiari di Vito Ciancimino nel processo per trasferimento fraudolento di valori e intestazione fittizia di beni), in ragione dei suoi legami con lo stesso Mori, e una presunta contiguità ai servizi (su cui si è soffermato nel corso della sua lunga deposizione il Col. Giraudo); nonché per la singolare tempestività della sua comparsa sulla scena, giusto in coincidenza con la vicenda del passaporto che si colloca nella fase in cui la trattativa con Ciancimino avrebbe radicalmente cambiato registro.
Ma anche di là di tali riserve, la sua testimonianza, nel processo Mori/Obinu (il relativo verbale del 30.06.20 10 è transitato perché prodotto dalle difese degli ex ufficiali del Ros e perché atto irripetibile essendo lo stesso Ghiron deceduto nel 2012 e quindi nelle more del giudizio di primo grado), è la meno idonea a offrire elementi di certezza sulla datazione e i tempi di sviluppo della trattativa. […].
LE AMBIGUITÀ DI GHIRON
A motivo delle riserve accennate su tale figura di dichiarante, val rammentare che egli ha palesemente “minimizzato” il suo rapporto di conoscenza con il col. Mori, che indica come “amico” di suo fratello Gianfranco Ghiron. Dice di non sapere nulla delle circostanze in cui sarebbe nata quell’amicizia, ma non manca di precisare che suo fratello gli parlava spesso di Mori. Del resto, di suo fratello si limita a dire che svolgeva l’attività di giornalista.
Dalla testimonianza del Col. Giraudo sembra però emergere una verità diversa, perché Gianfranco Ghiron aveva avuto rapporti con il Sid, anche se mai chiariti nella loro vera natura.
In effetti, a dire del Giraudo, i rapporti di Mori sia con Gianfranco che con Giorgio Ghiron possono essere ricostruiti solo sulla base di dichiarazioni rilasciate in tempi diversi dai diretti interessati. In particolare, le attività svolte dal Gianfranco Ghiron per conto dei Servizi sono rimaste nell’assoluta clandestinità, non essendo consacrate in alcun atto ufficiale o relazione di servizio. Negli archivi dell’Aise sono stati tuttavia rinvenuti diversi documenti che attestano come fosse un soggetto monitorato e persino sospettate di fare il doppio gioco, spacciandosi per agente infiltrato. Anzi, il Col. Giraudo ha precisato che è stata trovata documentazione comprovante che il Ghiron Gianfranco è stato una fonte esterna dei servizi, ma il suo “manipolatore” era il Cap. La Bruna.
E proprio per questa ragione, in quanto era un ufficiale dei carabinieri, non era possibile annotare l’identità della fonte in un documento ufficiale (esistono anche dei precedenti, come la fonte “Gian”), perché avrebbe dovuto essere associato ad una fonte attiva il nominativo di un agente del Servizio che però svolgeva anche compiti di ufficiale di polizia giudiziaria.
Nel caso della fonte “Ghiron” il nome in codice che risulta in documenti agli atti dell’archivio che l’Aise ha ereditato dal disciolto SISMI e prima ancora Sid era “Crocetta”. Non vi sono però atti a firma Mori o Marzolla — suo diretto superiore — concernenti la fonte “Crocetta”. E ciò si spiega agevolmente ove si consideri che i numeRosissimi atti che documentano l’attività svolta dal Ghiron per conto del servizio segreto risale ad epoca diversa e pregressa rispetto a quella in cui Mori ha fatto parte del raggruppamento centri di Cs.
In particolare, è documentalmente provato che dal 1961 il Ghiron lavora come agente o ausiliario dell’Ufficio “R” che si occupava dello spionaggio oltre cortina. Questo rapporto di collaborazione si interrompe perché cominciano a diffondersi negli ambienti del Servizio voci che additano il Ghiron come soggetto poco affidabile e di dubbia lealtà. E viene fatto oggetto di un’azione investigativa culminata in una perquisizione della sua camera d’albergo e del suo bagaglio (operazione ovviamente coperta e annotato con la sigla “Ghi”, dalle lettere iniziali del cognome dell’indagato).
È anche vero che l’Ufficio “R”, rispetto a questa indagine interna, assume un atteggiamento “protettivo” nei confronti della propria fonte. Sta di fatto che a a partire dal 1964, scompare dalla documentazione agli atti del Servizio. Ma negli anni successivi, secondo quanto dallo stesso Ghiron rivelato quando fu escusso a s.i.t., fece diversi tentativi per rientrare tra i ranghi del collaboratori esterni del Servizio, fino a stringere un rapporto personale con il colonnello Mori.
Peraltro, nella documentazione inerente alla gestione della fonte — valutazione, rimborsi spese richieste fondi — da trasmettere all’ufficio amministrativo, difficilmente avrebbe potuto trovarsi un atto firmato dal col. Mori, perché l’input della trasmissione veniva dal capo del raggruppamento Centri di Roma, in cui era inquadrato Mori. E tutt’al più veniva interessato sulla base di una prassi instaurata di fatto da Marzolla, il direttore del Servizio, cioè il generale Miceli.
Nel 1970, il capo centro di Palermo, Magg. Umberto Bonaventura comunica all’Ufficio D da cui dipendevano tutti i centri Cs del Sid che il Ghiron Gianfranco in più occasioni aveva tentato di accreditarsi come fonte del Servizio, comportamento che lo faceva ritenere poco affidabile.
Risulta anche che negli anni ‘70 il Ghiron gestì, insieme ad un agente del servizio americano, delle fonti libiche che svolgevano attività contro informativa e in tale contesto aveva avuto contatti con esponenti della criminalità mafiosa.
E nel 1975 il G.i. di Brescia. dott. Arcai, che indagava sulla strage di p.zza della Loggia, chiese al servizio tutta la documentazione concernente Ghiron Gianfranco. Ma gli fu trasmessa una documentazione largamente incompleta, su input dell’Amm. Casardi che era subentrato al generale Miceli, arrestato nell’ambito delle indagini sul golpe Borghese.
I RAPPORTI PERSONALI CON MORI
Il rapporto personale con Mario Mori è comprovato, oltre che da varie dichiarazioni testimoniali, anche da un documento da cui risulta che lo stesso Mori fu testimone di nozze del Ghiron (Gianfranco) in occasione del matrimonio con la sua prima moglie.
Quanto a Giorgio Ghiron, negli anni in cui Mori prestò servizio al Sid, svolgeva un’attività di consulenza legale e imprenditoriale con diversi studi, il più importante dei quali aveva sede a New York. Era anche titolare di una società di import-export. E fu oggetto di un’attività info investigativa del Servizio, nel quadro di un’indagine concernente tal Motter (operazione “Marmotta”) ex agente della Cia, perché si accertò che Giorgio Ghiron aveva con questo ex funzionario americano una frequentazione asSidua.
E’ datata 15 settembre 1975 la relazione “GIAN”. E’ una relazione di servizio che compendia le informazioni fornite da una fonte confidenziale di cui poi è stata rivelata l’identità. La relazione è opera del manipolatore di quella fonte. La fonte era un ufficiale dei carabinieri, Giancarlo Servolini. E l’agente Sid che lo “manipolava” era il cap. La Bruna. Sarà proprio quest’ultimo a rivelare il tutto al G.I. Salvini, che indagava tra l’altro sulla strage di p.zza Fontana. L’attività di manipolazione della fonte in questione risalirebbe all’epoca in cui il La Bruna, a capo del Nod, si occupava delle indagini sulle trame nere. In uno dei documenti che riportano informazioni della fonte Gian risulta messo in chiaro il nome della fonte, e si parla proprio del Servolini.
Èstato acquisito anche il fascicolo personale di questo ufficiale dei carabinieri da cui risulta che era in congedo temporaneo per convalescenza nel periodo in cui fu incaricato di svolgere l’attività informativa per conto del Servizio con il nome in codice “Gian”.
Il giornalista Norberto Valentini consegna al G.I. Antonio Lombardi, che indagava sulla strage alla questura di Milano del 17 maggio 1973 una copiosa documentazione che gli era stata fatta avere dal cap. La Bruna. In una delle cartelle che riportano i vari produttori, cioè le fonti d’informazione, è annotata parte della produzione della fonte Gian.
Il gruppo Taddei-Ghiron, operava in sinergia con il gruppo di militari Marzolla-Venturi-Mori. Gianfranco Ghiron viene definito come soggetto poco affidabile e agente prezzolato al soldo dell’Ufficio “R”. Giorgio Ghiron confermerà, in un colloquio databile a maggio 1975 alla fonte Gian quanto già alla stessa fonte era stato rivelato da suo fratello Gianfranco, e cioè che avevano avuto successo le pressioni esercitate sui periti incaricati di verificare la genuinità delle bobine contenenti le registrazioni delle conversazioni intercorse a Lugano tra il cap. La Bruna e Remo Orlandini, e aventi ad oggetto le rivelazioni dell’Orladini sull’attività cospirativa culminata tra l’altro nel tentativo di Golpe Borghese. Nella pag. 2 della relazione si fa esplicito riferimento a Mori e al suo prodigarsi insieme al Ghiron per esercitare quelle pressioni. (cfr. deposizione del Col. Giraudo, udienza 20.10.20 16).
STRANE COINCIDENZE
Certo è che l’avv. Ghiron compare sulla scena proprio in coincidenza con la fase di intensificazione dei contatti tra V.C. e il Col. Mori, ossia quando questi si sforza di assecondare le richieste del potenziale collaborante: il libro, da fare avere a eminenti personalità; il passaporto (al processo Mori-Obinu ha ammesso di essere stato lui a redigere la richiesta di rilascio del passaporto, oltre ad accompagnare personalmente il Ciancimino all’ufficio passaporti, in Questura, perché Ciancimino camminava male); un colloquio riservato con l’on. Violante. E con tutto il rispetto per la competenza professionale, è lecito il dubbio che questa improvvisa comparsa non fosse determinata dalla necessità di sostituire il prof. Campo o l’avv. Gaito nel mandato a difendere V.C. nel procedimento che pendeva a suo carico in appello (a Palermo, e non a Roma). Tanto più che l’avv. Ghiron era soprattutto un avvocato d’affari (svolgendo l’attività di consulente legale e imprenditoriale, ed essendo anche titolare di una società di export-import), o comunque, per restare in ambito forense, era di formazione civilistica, come rammenta Nicolò Amato.
Del resto, lo stesso Ghiron ha chiarito al processo Mori/Obinu, udienza 30giugno 2010 il tipo di assistenza professionale nei riguardi di V.C., che fa risalire addirittura al 1980 e che si sarebbe protratta fino al 2002, anno della morte del Ciancimino.
Lo assisteva anche per procedimenti penali ma solo a Roma, perché a Palermo aveva difensori di vaglia del calibro dell’avv. Restivo e delI’avv. Campo. Erano loro i suoi difensori anche nel processo d’appello a Palermo, che però anche lui seguiva da Roma, consultandosi con i colleghi. Il suo apporto atteneva alle sue competenze di avvocato internazionalista, effettivamente più confacente alle sue competenze; ma anche per i procedimenti penali Vito Ciancimino a Roma non aveva altri difensori.
Giorgio Ghiron, divenuto l’avv. di fiducia anche di Massimo Ciancimino ne condivise la vicissitudine giudiziaria sfociata nella condanna in primo e secondo grado per riciclaggio e intestazione fittizia di beni. Erano suoi coimputati Massimo Ciancimino e l’avv. Gianni Lapis tributarista, anche loro condannati. Al processo Mori/Obinu venne sentito nella veste di teste assistito perché la condanna non era ancora definitiva, pendendo il giudizio in cassazione. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Sulla trattativa poche certezze e nessuna prova di un patto con Totò Riina. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 12 novembre 2022
Per ammissione degli stessi giudici della Corte d’Assise di primo grado, ciò che si può dare per provato con certezza è solo che Riina venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Non è risolutivo, per una datazione certa, neppure l’episodio di cui Giovanni Ciancimino aveva fatto cenno già al processo Mori/Obinu e che ha confermato anche in questa sede.
Un giorno, non sa precisare quando, ma era il ‘92, suo fratello Massimo, che era l’unico dei fratelli Ciancimino che viveva con il padre a Roma e lo assisteva quotidianamente, gli disse che il capitano De Donno doveva andare a trovare so padre insieme a un colonnello. Qualche tempo dopo, sempre Massimo, gli disse che l’incontro era avvenuto, e che anzi c’erano un via via di carabinieri per casa. Giovanni non aveva dato molto peso a queste confidenze del fratello, che ne diceva tante e spesso non si riusciva neppure ad afferrare il filo delle sue esternazioni. […] Ma comunque in cuor suo escluse che quelle confidenze di Massimo (ammesso che fossero veritiere: «mio fratello Massimo parlava di carabinieri, era vero, non era vero, che cosa c ‘era, proprio e ‘è l’imbuto, andiamo a fare la cernita») potessero riferirsi al discorso fattogli da suo padre a proposito della trattativa avviata per conto di personaggi altolocati, che immaginava essere soggetti di statura superiore a quella di due ufficiali dell’Arma […]. Il ragionamento di Giovanni Ciancimino - per il fatto stesso di essersi posto il problema - fa pensare che le confidenze di Massimo risalissero più o meno allo stesso periodo dei colloqui in cui suo padre gli parlò dell’incarico che a lui, Giovanni, aveva messo i brividi. Ma al di là di questa precisazione non sembra si possa andare.
Gli è stato contestato che, all’udienza dell’8.04.2014 nel processo Borsellino quater, aveva collocato, sia pure dopo una faticosa sequela di domande a chiarimento, in epoca successiva alla strage di via D’Amelio la notizia, datagli da suo fratello, che l’incontro che De Donno avrebbe dovuto avere insieme a un colonnello con suo padre, di cui Massimo gli aveva parlato in precedenza, era effettivamente avvenuto.
Ciò rispecchierebbe il timing prospettato da Mori e De Donno, quanto meno nella palle in cui esso colloca il primo incontro di Vito Ciancimino con i due ufficiali il 5 agosto 1992, ossia alcune settimane dopo la strage di via D’Amelio. E tuttavia dal medesimo verbale risulta che il teste ribadì, in quella sede, che il primo colloquio con suo padre sul tema della trattativa e dell’incarico che aveva ricevuto da personaggi altolocati era già avvenuto quando Massimo gli diede la notizia dell’avvenuto incontro del padre con i due ufficiali dell’Arma. Sicché residua l’incertezza sulla datazione di quel primo colloquio, e in particolare se esso fosse avvenuto prima o dopo la morte di Borsellino.
Può solo aggiungersi che se dovesse tenersi fede al ricordo che lega il primo colloquio di Giovanni con il padre al turbamento seguito alla strage di Capaci, andrebbe riscritto o il timing della trattativa o il contenuto delle interlocuzioni tra Vito Ciancimino e i due ufficiali del Ros.: perché vorrebbe dire o che c’era già stato (prima di via D’Amelio) almeno un primo incontro con Mori, e questi aveva avanzato la sua proposta (ma tale evenienza sembrerebbe esclusa da quanto il teste ebbe a dichiarare al Borsellino quater); oppure che Vito Ciancimino doveva ancora incontrare Mori e tuttavia, già nel corso dei colloqui a quattrocchi con il solo Capitano De Donno, gli era stato detto o lasciato intendere che il senso di quelle visite e di quei colloqui era di invitarlo ad adoperarsi per sondare la disponibilità dei vertici mafiosi ad avviare un dialogo: e ciò spiegherebbe per quale motivo Vito Ciancimino non avesse ancora raccolto l’invito, rimandando la decisione a quando avesse ricevuto dal colonnello Mori la garanzia della serietà e del livello della proposta, ovvero che non fosse soltanto un’iniziativa da “sbirri”.
In ogni caso, solo all’esito di tale garanzia, e di una conferma ed esplicitazione della proposta, egli poteva correre il rischio di informare Riina del fatto di essere stato contattato in via riservata da due ufficiali dell’Arma: ciò che avrebbe come minimo condensato sulla sua testa il sospetto di essere un confidente o peggio una spia dei carabinieri, se questi ultimi non fossero stati quelli che dicevano o lasciavano intendere di essere, e cioè meri emissari di più alte autorità.
LE DICHIARAZIONI PIÙ RECENTI DI VITO CIANCIMINO
Neppure può trarsi dalle dichiarazioni più recenti rese in alcuni interrogatori del 1997 e 1998 (cfr. pag. 1367 della sentenza: tre verbali di dichiarazioni rese da Vito Ciancimino al pm rispettivamente in data 3 giugno 1996, 5 agosto 1997 e 3 aprile 1998), o dallo scritto intitolato “I Carabinieri”, la certezza -rassegnata invece dal giudice di prime cure - che Vito Ciancimino abbia ricevuto due deleghe a trattare: la prima, riferita ai suoi contatti preliminari con il (solo) capitano De Donno; e la seconda a trattare più in generale con i carabinieri, di tal che possa inferirsene che Ciancimino abbia avvisato i suoi referenti mafiosi fin da quei primi contatti che sono sicuramente avvenuti prima della strage di via D’Amelio.
In realtà, anche nelle dichiarazioni successive, e nei passaggi in cui è ritornato su quanto aveva dichiarato già nel verbale d’interrogatorio del 17 marzo 1993, ha sempre detto che la delega a trattare — e peraltro ha parlato sempre di una sola delega — gli fu data a seguito di un ritorno di fiamma, e dopo che lui stesso aveva speso i nomi sia di De Donno che di Mori.
Si vorrebbe però ricavare dalla frase “piena delega a trattare, oltre al capitano De Donno, i carabinieri”, che le deleghe furono in realtà due (“Ci fu poi un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto le quali mi diedero piena delega a trattare oltre al Capitano poi pure carabinieri ci fu un ritorno di fiamma delle persone delle quali ho sopra detto, ai quali richiedettero che la delega a trattare da queste stesse persone”).
Ora, è innegabile, anzitutto, che la frase è inserita in un periodo tra i più confusi e contorti, oltre che sgrammaticati, della narrazione sciorinata da V.C. nei vari interrogatori in cui ha parlato o fatto cenno della vicenda in questione, e sarebbe problematico già solo per questa ragione pretendere di ricavarne elementi utili a dirimere la questione.
Ma soprattutto, è lo sviluppo logico della sequenza incentrata sul ritorno di fiamma a fare escludere che esso sottintendesse una precedente delega “parziale”, invece che piena, ovvero un’autorizzazione a incontrarsi con il solo De Donno.
Intanto, la scelta del termine “delega” è già sintomatica di un’investitura che va ben oltre l’autorizzazione a uno o più incontri. Ma poi, la sequenza che si intravede nella parole di Ciancimino è unica e unitaria: non esiste la scissione tra un primo contatto di Ciancimino con i vertici mafiosi per informarli della richiesta di De Donno di incontrarlo (e ne sarebbe scaturita la prima delega/autorizzazione); e poi un secondo incontro, per informarli della proposta (che però sarebbe stata avanzata da Mori e non da De Donno), cui sarebbe seguito prima uno sprezzante commento e poi un ripensamento (il ritorno di fiamma) con l’autorizzazione a proseguire l’interlocuzione con i carabinieri. Assecondare una simile ricostruzione equivale a riscrivere letteralmente la partitura delle dichiarazioni di Ciancimino, o adattarle a misura dell’esigenza di poter dare per provato, come si legge a pag. 2069 della sentenza appellata, «che certamente Vito Ciancimino ebbe ad informare Riina già sin dal suo primo approccio con il capitano De Donno (dunque a giugno 1992), tanto da essere subito “delegato” a portare avanti quel contatto prima che subentrasse anche il Col. Mori».
Ed invero, la locuzione “delega piena’ non autorizza a pensare che vi dovesse essere una precedente “delega parziale”: ma allude alla portata e al contenuto dell’unico incarico conferito dai vertici mafiosi a Ciancimino, una volta informati del tenore della proposta.
D’altra parte, la Corte di I grado si contraddice rispetto all’assunto che vorrebbe ricavare dalle più recenti dichiarazioni o da successivi scritti un chiaro indizio del fatto che Vito Ciancimino avesse informato i suoi referenti mafiosi già prima di accettare di incontrarsi con De Donno, per avviare quella fase di contatti “preliminari”. E la contraddizione balza evidente nel momento in cui la stessa Corte perviene alla conclusione che né dalle dichiarazioni del Ciancimino né dai suoi scritti è possibile ricavare elementi idonei a supportare una ricostruzione adeguata dei tempi di svolgimento della trattativa (cfr. pag. 1405):[...]. Ed anche valorizzando gli scarni spunti offerti dalla testimonianza dì Giovanni Ciancimino, che, come s’è visto, è l’unica fonte di prova che fornisce un minimo appiglio alla ricostruzione sposata in sentenza, l’esito sul piano probatorio non è comunque quello prospettato dal primo giudice.
RIINA, CIANCIMINO E IL ROS
Una significativa anticipazione dei tempi di svolgimento della trattativa tra Ciancimino e i carabinieri del Ros, rispetto alla narrazione che questi ultimi ne hanno fatto, sarebbe in ogni caso imprescindibile per convalidare l’assunto secondo cui Riina venne informato già prima della strage di via D’Amelio che uomini dello Stato si erano fatti sotto per trattare con Cosa nostra (o per sollecitare l’avvio di un negoziato); e che tale circostanza lo indusse a modificare i suoi piani, dando precedenza assoluta all’attentato al dott. Borsellino, che quindi sarebbe stato organizzato in tutta fretta. Ebbene, uno specifico passaggio della sentenza impugnata fa comprendere come lo stesso giudice di prime cure creda poco a tale anticipazione, o non si senta di asseverarla con certezza.
Nel motivare infatti l’attendibilità e la rilevanza probatoria delle propalazioni di Giovanni Brusca sulla vicenda del papello, la sentenza evidenzia che tali propalazioni, nel loro contenuto sostanziale — e cioè al netto degli ondeggiamenti e delle discutibili rettifiche nella datazione degli eventi — sono rimaste immutate nel tempo, e s’incrociano perfettamente con una narrazione, qual è quella fatta dai Mori e De Donno, di cui si avrà pubblica notizia solo nel gennaio 1998, grazie al risalto mediatico delle deposizioni rese dai due ufficiali del Ros al processo di Firenze sulle stragi in continente.
Ma poi aggiunge (pag. 1635): «La propalazione di Brusca, dunque, anche per la sua prima collocazione temporale e per l’originalità del contenuto su fatti che in quel momento non apparivano particolarmente significativi in assenza di ulteriori conoscenze del contesto in cui gli stessi di inserivano, si appalesa attendibile e conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che effettivamente, quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non giù dopo la prima strage (quella di Capaci), Rima fu contattato da soggetti istituzionali che, con l’evidente intento di superare la contrapposizione frontale che si era creata, gli chiesero a quali condizioni avrebbe potuto porre termine alla strategia stragista».
Sono considerazioni e valutazioni in parte condivisibili (come meglio si dirà tra breve). Ma riguardo al tema in esame, ne discende che, per ammissione degli stessi giudici della Corte d’Assise di primo grado, ciò che si può dare per provato con certezza è solo che (effettivamente) Riina venne contattato da emissari istituzionali per chiedergli di fare sapere a quali condizioni era disposto a fare cessare le stragi. Non è altrettanto certo e provato quando ciò sia accaduto [quanto meno dopo le due stragi del 1992 se non già dopo la prima strage quella di Capaci].È dunque possibile, ma solo possibile, che sia avvenuto già prima della strage di via D’Amelio, ma non si può affatto escludere che sia accaduto invece solo dopo le due stragi siciliane.
Disarmante è però la disinvoltura con cui la sentenza appellata, dando atto dell’impossibilità di un’esatta collocazione temporale degli sviluppi fattuali dei contatti intrapresi dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino (per i contrasti tra le rispettive dichiarazioni e «anche per le ambigue risultanze degli scritti e delle dichiarazioni di Vito Ciancimino e per talune (almeno apparenti) contraddizioni della ricostruzione offerta da Mori e De Donno, alcune delle quali ben messe in evidenza già anche dalla Corte di Assise di Firenze con la sentenza prima ricordata del 6giugno 1998), perviene all’inopinata conclusione che tutto sommato non importa ricostruire con certezza i tempi di svolgimento di quei contatti; [...]. Ciò che conta, in questa nuova — e inattesa — prospettiva, è che risulti provato - ma non lo è affatto - che Riina venne informato da Ciancimino fin dal primo approccio che questi aveva avuto con il capitano De Donno, prima ancora che il colonnello Mori avesse modo di esplicitare personalmente a Ciancimino la sua proposta di dialogo: come se Riina avesse avuto la capacità divinatoria di intuire deve andasse a parare il primo approccio di De Donno a Ciancimino, o quest’ultimo lo avesse intuito da sé, senza bisogno di averne esplicita conferma da Mori.
E che Ciancimino avesse informato subito Riina, fin dal primo approccio di De Donno, la Corte d’Assise di primo grado pretende di inferirlo da una sola frase, con la quale Vito Ciancimino enuncia di avere ricevuto, dopo il ritorno di fiamma dei referenti mafiosi, una piena delega a trattare con i carabinieri, oltre che con il Capitano De Donno. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La “grande suggestione” dei 57 giorni fra una strage e l’altra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 13 novembre 2022
Si dà per scontato che un intervallo temporale di “soli” 57 giorni — poiché tanti ne passarono tra i due eventi delittuosi, la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio — sia troppo esiguo, come se esistesse un prontuario delle stragi mafiose
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Incertezze interne e palesi aporie o forzature riscontrate nella ricostruzione sposata dalla Corte d’Assise di primo grado circa un possibile link tra l’improvvida iniziativa intrapresa dai carabinieri del Ros attraverso i loro contatti con Vito Ciancimino e la presunta accelerazione della strage di via D’Amelio nella sua fase esecutiva non implica che abbia ragione la difesa - nonostante la forza di persuasione di taluni argomenti dedotti, supportati dalla cospicua documentazione qui allegata - a sostenere che a determinare quell’accelerazione sia stato invece il rinnovato interesse del dott. Borsellino per l’indagine su mafia e appalti e la sua conseguente determinazione a riprenderla e approfondirla.
E, alla luce delle considerazioni che precedono, è tempo di chiedersi se non sia sbagliato interrogarsi sulle cause della (presunta) accelerazione della strage di via D’Amelio; l’errore, cioè, prima che nelle diverse risposte che sono state date, si anniderebbe già nella domanda.
Ed invero, quando si afferma che vi fu un’accelerazione, o addirittura una repentina accelerazione dell’iter esecutivo, per cui ci si interroga poi sulle cause che l’avrebbero determinata (e si formulano le ipotesi più disparate), si sottintende che, se non fosse avvenuto qualcosa che modificò i piani di Riina, all’eliminazione del dott. Borsellino, la cui morte era stata da tempo decretata, si sarebbe giunti ugualmente, o almeno Cosa nostra ci avrebbe provato, ma non a distanza di così poco tempo dalla strage di Capaci.
E ovviamente si dà per scontato che un intervallo temporale di “soli” 57 giorni — poiché tanti ne passarono tra i due eventi delittuosi — sia troppo esiguo, per non pensare all’intervento di uno o più fatti nuovi che abbiano imposto di abbreviare i tempi: come se esistesse un prontuario delle stragi (mafiose) che insegni quale sia il tempo canonico che è opportuno far passare tra una strage e l’altra per cui, pur disponendo dei mezzi, degli uomini delle capacità organizzative e tecnico-logistiche, nonché del potenziale bellico necessari all’impresa, Cosa nostra avrebbe dovuto attendere più di due mesi (ma quanto di più, naturalmente, nessuno dei convinti assertori dell’accelerazione lo dice), prima di replicare un delitto altrettanto eclatante della strage di Capaci.
Il rischio è che si annidi una suggestione psicologica collettiva del tutto legittima ben inteso ma che può inquinare il ragionamento: dopo Capaci, con tutta la sua terribile carica distruttiva, nessuno di buon senso avrebbe mai voluto assistere a scene di distruzione e di morte come quelle ripetute in via D’Amelio ed allora il tempo tra questi due eventi sembra restringersi, quasi a fondere questi eventi, ma solo perché in effetti neanche uno di essi è accettabile; il tutto, per di più, in una micidiale combinazione, uno-due, in danno dei magistrati che personificavano la lotta a Cosa nostra trucidati con esplosioni eclatanti e devastatrici.
E si dà per scontato — senza peritarsi di indicare le fonti che lo provino — che l’offensiva stragista, posto che la strage di Capaci segnava il punto più alto raggiunto da una strategia più complessiva di sfida allo Stato e di attacco frontale alle istituzioni, ma non la sua fine, avesse una sua tabella di marcia; e che questa sinistra tabella di marcia non contemplasse che due mesi dopo la strage di Capaci si mettesse mano ad un altro delitto, altrettanto eclatante. Un delitto, può aggiungersi, tanto importante da dovere avere la precedenza rispetto ad altri, benché già in programma o in itinere nella loro realizzazione concreta. Come l’uccisione del figlio di Salvo Lima, per il quale Onorato Francesco aveva concluso l’attività preparatoria ed era pronto ad entrare in azione quando si incontrò con Biondino, a marzo o aprile del ‘92, e questi gli disse di lasciar perdere perché si stavano preparando omicidi abbastanza delicati, gravi. Mi dice: no, lascia stare, ci sono altre persone. (E in quella circostanza il Biondino gli avrebbe detto che gli doveva rompere le corna, scusando la frase, al dottor Borsellino e al dottor Falcone, perché si dovevano pulire i piedi e avevano fatto condannare gli amici del Maxi processo). O come l’attentato all’on. Mannino, di cui ha parlato (soltanto) Giovanni Brusca (peraltro con tutte le incertezze di cui s’è detto sull’effettiva collocazione temporale dell’episodio).
E se è vero che la strage di Capaci era stato un vero e proprio atto di guerra oltre che di sfida allo Stato, ma non aveva concluso l’offensiva scatenata da Riina che semmai con quell’attentato aveva compiuto un salto di qualità, elevando a livelli mai visti in precedenza lo scontro con le istituzioni, allora, in una logica di tipo militare, qual è quella che si conviene ad una vera e propria guerra, era più che plausibile che gli attentati ai danni di soggetti già individuati come obbiettivi da colpire si susseguissero nel più breve tempo possibile, se v’era la capacità di realizzarli, senza dare respiro al “nemico”, e, in questo caso, senza dare allo Stato il tempo di riorganizzarsi, di serrare le fila e apprestare una reazione adeguata.
UNA LUNGA SCIA DI SANGUE
Quanto fragile sia l’argomento della brevità dell’intervallo temporale tra le due stragi siciliane lo dimostra del resto il lugubre calendario degli eventi delittuosi che cadenzano la guerra scatenata dai corleonesi allo Stato. In particolare, la strage di Capaci avviene 72 giorni dopo l’omicidio Lima, che aveva segnato l’avvio della campagna di guerra allo stato, varata già nella riunione di fine anno ‘91 della Commissione provinciale di Palermo (di cui hanno riferito Brusca, Cancemi e Giuffré) e in quella tenutasi ai primi giorni del nuovo anno della Commissione regionale (di cui è traccia nelle propalazioni dei collaboratori di giustizia che provengono dalle fila delle cosche catanesi: Malvagna, Pulvirenti e Avola). È in effetti un intervallo più lungo, ma solo di 15 giorni.
Ma l’intervallo si accorcia tra la strage Borsellino e la ripresa dell’offensiva corleonese dopo la “pausa” estiva: 56 giorni dopo si registra l’attentato a Germanà (14 settembre ‘92); e tre giorni dopo, e quindi a distanza di 59 giorni dalla strage di via D’Amelio, l’omicidio di Ignazio Salvo.
Ed ancora, sempre a distanza di due mesi (a novembre 1992) si collocherebbe il successivo episodio riconducibile alla campagna stragista, ovvero il mancato attentato al giudice Grasso (di cui hanno riferito, stavolta in termini sostanzialmente concordanti, Brusca e La Barbera).
Infine, 61 giorni distanziano temporalmente le stragi di Roma e Milano (la notte tra il 27 e il 28 luglio 1993) da quella di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993), che segue di soli 13 giorni l’attentato di via Fauro (14 maggio). Sempre due mesi circa (giorno più, giorno meno). Mentre il più consistente distacco temporale delle stragi in continente rispetto alle stragi del ‘92 trova evidente giustificazione nello scombussolamento seguito tra le fila di Cosa nostra alla cattura di Riina e nel travaglio interno che precedette e accompagnò la decisione di riprendere l’offensiva stragista.
Ora, nel rammentare l’impressionante regolarità della cadenza con cui si susseguono i tragici avvenimenti del biennio ‘92-’93 non si vuoi certo insinuare che via una sorta di kabala nella successione dei più gravi episodi delittuosi in cui si è sostanziata la guerra dei corleonesi allo Stato.
Più prosaicamente si deve ritenere che in questa apparente (tragica) regolarità vi sia una componente di causalità, legata a possibili intoppi e circostanze fortuite che possono aver ritardato o al contrario affrettato l’esecuzione di questo o quell’attentato.
Ma vi è, con tutta probabilità, anche una componente di “ragione criminale” legata invece all’esigenza di una pianificazione accurata di ogni successivo attentato, all’attivazione di nuove risorse, in termini di uomini e mezzi, o al recupero di quelle già impiegate in un precedente attentato; alla scelta dell’obbiettivo cui dare precedenza; e, non ultima, la necessità di far decantare l’innalzamento di attenzione, tensione e capacità di reazione delle forze dell’ordine e degli apparati repressivi dello Stato, (in termini di dispiegamento di uomini e mezzi, posti di blocco, perquisizioni, mobilitazioni di fonti confidenziali e canali infoinvestigativi, attività tecniche di intercettazioni telefoniche e ambientali, controlli sul territorio), nonché lo zelo e l’impegno del personale operante nel dare concreta esecuzione ad eventuali nuove e più stringenti misure repressive: tutti fattori che raggiungono la massima intensità nei giorni immediatamente seguenti ad un delitto eclatante, ma di regola sono destinati ad affievolirsi con il trascorrere delle settimane.
E i corleonesi ne aveva una più che consolidata esperienza, avendo costruito la loro sanguinosa ascesa al vertice di Cosa nostra a suon di delitti eccellenti come l’assassinio: del giornalista Mario Francese; del segretario provinciale della Democrazia Cristina Michele Reina; del capo della Squadra Mobile di Palermo, Boris Giuliano; del Consigliere Istruttore Cesare Terranova e l‘agente Mancuso, nel 1979; del il Presidente della Regione Siciliana Piersanti Mattarella, del capitano dei carabinieri Emanuele Basile e del procuratore della Repubblica di Palermo Gaetano Costa nel 1980; del M.llo dei Carabinieri Vito Jevolella nel 1981; del segretario regionale e parlamentare del P.C.I. Pio La Torre insieme all’autista e collaboratore Rosario Di Salvo, e cinque mesi dopo il Generale Dalla Chiesa, insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente di scorta, nel 1982; del Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo Rocco Chinnici nel 1983, insieme agli agenti di scorta Salvatore Bartolotta e Mario Trapassi e al portiere dello stabile Stefano Li Sacchi; 1985; l’attentato al giudice Carlo Palermo a Pizzolungo, che provocò la morte della signora Barbara Rizzo Asta con i suoi due figlioletti gemelli, Giuseppe e Salvatore Asta, ed ancora il vice commissario Beppe Montana e qualche giorno dopo il Commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia; poi nel 1988: l’agente di polizia Natale Mondo, scampato alla strage di viale Croce Rossa, e due giorni dopo l’ex sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco; ed ancora, a Trapani, il giudice Alberto
Giacomelli; poi il giudice Antonino Saetta insieme al figlio disabile Stefano e il giorno dopo il giornalista Mauro Rostagno, della Comunità Saman sempre a Trapani; 1989: l’attentato all’Addaura (21 giugno); il duplice assassinio dell’agente di polizia Antonino Agostino insieme alla moglie Ida Castellucci (5 agosto); ed ancora, 1990: il giudice Rosario Livatino; 1991: il giudice Antonino Scopelliti (9 agosto), in predicato di rappresentare la procura Generale nella trattazione del maxi processo dinanzi alla Corte di Cassazione, e poi (29 agosto) l’imprenditore Libero Grassi). E non mancano in questo terrificante elenco di morte delitti commessi con le modalità e i connotati di vere stragi e di stragi (Dalla Chiesa, Chinnici, viale Croce Rossa, e Pizzolungo), due delle quali commesse con la tecnica libanese di devastanti autobombe, come la strage Chinnici e la strage di Pizzo Lungo.
E mai li aveva frenati, o aveva costituito una remora ad agire, il timore delle prevedibili reazioni in termini di dispiegamento di forze di polizia sul territorio e intensificazione della caccia ai latitanti o delle indagini sui presunti affiliati alle cosche operanti nelle zone o nei territori direttamente interessati dalla consumazione di quegli eventi delittuosi. Certo, era prevedibile, da parte delle Istituzioni, e degli apparati repressivi, una reazione veemente, che però non vi fu, dopo una strage delle proporzioni di quella di Capaci che colpiva lo Stato in quello che era divenuto il simbolo vivente della lotta alla mafia.
Nell’estate del 1992 Cosa nostra “non giocava in difesa ma in attacco”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 14 novembre 2022
Come scrivono i giudici del processo di primo grado del “Borsellino ter”, «La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa Nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione...».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
E quindi, si obbietta, buon senso e prudenza avrebbero dovuto consigliare di lasciare calmare le acque, prima di mettere in atto un secondo clamoroso attentato che avrebbe reso inevitabile un ulteriore inasprimento della risposta repressiva, con un incremento esponenziale di possibili contraccolpi negativi per tutta l’organizzazione mafiosa.
L’obbiezione è, in astratto, ragionevole. Ma trascura di considerare che il successo dell’impresa di Capaci, oltre a galvanizzare il popolo mafioso di Cosa nostra ed eccitare il delirio di onnipotenza del suo capo incontrastato (e ve n’è traccia cospicua traccia in diverse conversazioni intercettate in carcere tra Riina e il codetenuto Lo Russo, e segnatamente nelle parole di trionfale compiacimento e smisurato orgoglio con cui a distanza di tanti anni commenta la “mattanza” di cui rivendica di essere il principale artefice) aveva provocato un tale sgomento e scoramento, complice anche la distrazione di una classe politica nazionale alle prese con altre problematiche e con emergenze che si affiancavano a quella criminale, che la risposta dello Stato non fu all’altezza di quella che ci si poteva attendere e che gli stessi corleonesi avevano messo in conto.
Essa si concretizzò in realtà nel varo di un pacchetto di misure, quelle contenute nel d.l. che già riprendeva alcune indicazioni del giudice Falcone, e che, una volta andate a regime, avrebbero sicuramente comportato un inasprimento della stretta repressiva nell’azione di contrasto al fenomeno mafioso.
Ma intanto quelle misure — come l’ampliamento delle ipotesi di fermo di polizia, o della possibilità di sottoporre a sequestro e confisca i beni dei mafiosi o di disporre intercettazioni telefoniche e ambientali, per non parlare dell’introduzione di nuove l’intestazione di beni fittizi e soprattutto il regime speciale del 41 bis, di cui ancora nessuno poteva prevedere e percepire quale sarebbe stato l’impatto - non avevano ancora trovato applicazione concreta e ci sarebbe voluto del tempo per metterle in atto e perché producessero i loro frutti; inoltre, la stessa conversione in legge del decreto predetto era legata all’esito tutt’altro che certo di un’aspra battaglia parlamentare, al punto che, fin dall’inizio, si metteva in conto che non si sarebbe fatto in tempo a completare l’iter in tempo utile per evitarne la decadenza.
Ma come è emerso dalle testimonianze di Scotti, Martelli e Gargani, il Governo era assolutamente determinato a ripresentare il decreto nell’ipotesi in cui non fosse stato convertito; e semmai il dilemma che, a dire di Scotti, si pose era tra il lasciarlo decadere per mancata riconversione, per poi ripresentarlo magari con piccoli ritocchi, per guadagnare tempo e consensi, oppure impegnarsi nella battaglia parlamentare con il rischio che venisse convertito con modifiche che ne stravolgessero
il contenuto (l’On. Gargani però oltre a sottolineare che in tutti i passaggi parlamentari il suo partito votò compatto per l’approvazione del disegno di legge di conversione, nega di avere mai prospettato al suo collega di partito Scotti una simile alternativa).
Ora, è vero che la strage di via D’Amelio, come comprovato dalla documentazione relativa ai lavori parlamentari dell'iter di conversione del d.l. 8 giugno 1992 n. 306- non mancò di incidere pesantemente sull’andamento dei lavori e sull’esito finale: ma non perché si fossero modificati gli orientamenti delle varie forze politiche lacerate da contrasti trasversali che avevano generato uno schieramento composito che si opponeva all’impianto complessivo e ai contenuti più innovativi del decreto (in quanto lesivo dei diritti di difesa, e per l’effetto di stravolgimento delle linee portanti del nuovo codice di procedura penale entrato in vigore da appena tre anni).
Sotto questo aspetto, i contrasti persistevano e chi si opponeva non cessò di farlo. Ma è certo che l’appello al senso di responsabilità delle forze politiche di fronte al divampare dell’emergenza criminale non cadde nel vuoto.
GLI EMENDAMENTI DEL GOVERNO
Il Governo fece la sua parte, presentando il 21 luglio un maxi emendamento all’originario disegno di legge che, nell’intento di facilitare un accordo parlamentare, raccoglieva alcuni dei rilievi critici emersi nel corso del dibattito sulle più significative modifiche del quadro normativo; e ponendo la questione di fiducia per blindarne l’approvazione, dopo che neppure uno degli innumerevoli emendamenti presentati dalle opposizioni era stato ritirato (e il 24 luglio il Senato approvò con modifiche); e le conferenze dei capi gruppo dei due rami del parlamento sortirono una calendarizzazione dei lavori con cadenza serrata, rinunciando gli oppositori a qualsiasi manovra di ostruzionismo. E ciò nondimeno, il decreto fu convertito (con modifiche) in legge ad un giorno appena dalla scadenza.
È facile, con il senno di poi, rimarcare che se Riina e soci avessero avuto la pazienza di attendere tre settimane, invece di fare esplodere l’autobomba in quel pomeriggio del 19 luglio in via D’Amelio, il decreto Scotti-Martelli non sarebbe stato convertito in legge, restando impantanato nelle secche di un accesissimo scontro parlamentare.
Ma con quali risultati concreti?
Si è già visto che la mancata conversione in tempo utile fin dall’avvio dell’iter parlamentare era stata messa in conto dal Governo che tuttavia era determinato a ripresentarlo. E a meno di non ipotizzare spaccature su quel tema in seno alla maggioranza parlamentare che lo sosteneva, era altrettanto probabile che alla fine sarebbe stato approvato, sia pure al prezzo di qualche modifica. D’altra parte, era stata persino prospettata l’opportunità di lasciare scadere il decreto per poterlo ripresentare nella sua interezza (cfr. ancora Scotti e anche Violante), per evitare mutilazioni o modifiche che ne stravolgessero l’impianto, approfittando di una prassi quella della reiterazione dei decreti legge, che all’epoca era assolutamente abituale.
D’altra parte, è arduo credere che Riina, in pieno delirio di onnipotenza dopo la clamorosa impresa di Capaci, e determinato a portare avanti un’offensiva senza precedenti contro lo Stato, legasse le proprie scelte strategiche alle incerte previsioni sugli esiti di una battaglia parlamentare dalla quale poteva sortire il varo di un’ulteriore stretta repressiva. Anche perché quando venne deciso di porre concretamente mano all’esecuzione della condanna a morte del dott. Borsellino, e si decise di farlo con modalità eclatanti, mancavano assai più di tre settimane alla scadenza del termine per la conversione in legge del decreto in questione.
Del resto, esisteva già un funesto precedente storico, di come i corleonesi non si facessero minimamente condizionare da dinamiche politico-parlamentari, almeno per ciò che concerneva l’iter di formazione delle leggi, comprese quelle che più direttamente investivano i suoi interessi. Il disegno di legge n. 1581 a firma di Pio La Torre e altri, concernente l’introduzione del reato di associazione mafiosa e nuove misure in materia di prevenzione e indagini patrimoniali a carico degli indiziati mafiosi, presentato nel marzo del 1980 alla Camera dei deputati, era rimasto impantanato per quasi due anni prima che, all’indomani dell’omicidio del Segretario Regionale del Pci, ne riprendesse l’iter parlamentare.
Ed era in discussione quando venne consumata la strage Dalla Chiesa, che ebbe l’effetto di imprimere una straordinaria accelerazione all’approvazione del disegno di legge predetto, nel testo integrato con quello a firma del Ministro Rognoni (e fu così che vide la luce la Legge Rognoni-La Torre la cui abrogazione o modifica in senso favorevole ai mafiosi costituiva nove anni dopo uno degli obbiettivi strategici di Riina).
L’ESTATE DEL ‘92
Ma soprattutto, Cosa nostra nell’estate del ‘92 non giocava in difesa, ma in attacco, e l’obbiettivo prioritario non era quello di scongiurare il rischio di un ulteriore inasprimento della legislazione antimafia o dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. Quello era un contraccolpo da mettersi in conto, come effetto immediato; ma l’obbiettivo finale era di costringere lo Stato, a forza di bombe, a prendere allo che inasprire le misure repressive contro la mafia sarebbe servito solo a provocare ritorsioni sempre più violente da parte di Cosa nostra e quindi l’unica via era quella di fare concessioni o almeno trattare con i vertici mafiosi un allentamento delle misure repressive.
Perché ciò che i fautori della tesi dell’accelerazione dimenticano è che se Riina si era determinato a compiere un delitto eclatante come la strage di Capaci era anche perché la situazione si era già fatta tanto insostenibile, per gli interessi mafiosi, a causa delle modifiche normative già varate e andate a regime nel corso del trascorso biennio, da rendere più che sopportabile il rischio che ad una nuova strage potesse fare seguito una reazione vibrante dello stato sul piano dell’intensificazione dell’azione repressiva: nella convinzione, tuttavia che un governo e una classe politica tutt’altro che solidi, in un contesto segnato dalla crisi irreversibile cui erano avviati i partiti della debole maggioranza quadripartita che sorreggeva il primo, sotto i colpi dell’inchiesta “Mani pulite” (mentre lo stesso governo era alle prese con altre emergenze, oltre a quella criminale, come la vertenza sul costo del lavoro nel quadro di una crisi economica e finanziaria da fare tremare le vene ai polsi, e aggravata dalla necessità di rispettare i parametri contenimento del deficit imposti dal trattato di Maastricht, che era stato siglato pochi mesi prima, e di mettere al più presto mano a riforme di struttura come quelle di previdenza e sanità, oltre alla privatizzazione degli enti delle partecipazioni statali e degli altri grandi enti pubblici economici) non avrebbero retto a lungo di fronte alla minaccia di ulteriori spargimenti di sangue e alla conclamata incapacità di difendere l’ordine pubblico e l’incolumità dei cittadini.
Come scrivono i giudici del processo (di primo grado) Borsellino ter, «La prudenza avrebbe dunque dovuto consigliare a Cosa nostra di non porre in essere altri delitti eclatanti in quel periodo per non peggiorare la situazione, ma l’evidenza dei fatti oggettivi conferma le dichiarazioni dei predetti collaboranti, secondo cui il sentimento prevalente in Cosa nostra era quello per cui anche la situazione preesistente alla strage di Capaci era inaccettabile per l’organizzazione, che quindi, non doveva limitarsi ad evitare ulteriori inasprimenti ma doveva spingere la sua offensiva sino alle estreme conseguenze, non fermandosi sino a quando non avesse raggiunto il suo scopo, la garanzia cioè che sarebbero state modificate tutte quelle nonne che consentivano un più incisivo contrasto del fenomeno mafioso. anche se ciò avrebbe potuto comportare per un certo periodo “dei sacrifici”». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Strage di Capaci, il punto di non ritorno per il “terrorista” di Corleone. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 15 novembre 2022
Una volta imboccata la strada dell’attacco armato di stampo terroristico per costringere lo stato a venire a più miti consigli, non c’era alternativa alla scelta di proseguire su quella strada, fino a quando lo stato non avesse ceduto o mostrato segni di cedimento
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Già nella seconda metà del 1990, ma ancor più nel periodo in cui Giovanni Falcone aveva ricoperto le funzioni di Direttore degli Affari Generali del ministero di Grazia e Giustizia, erano state varate, come già rammentato, una serie di misure e modifiche anche normative di straordinaria efficacia e incisività sul terreno della repressione del crimine mafioso, anche sotto il profilo dell’azione di prevenzione dei fenomeni di infiltrazione del tessuto economico ed istituzionale.
Basterà ricordare tra i provvedimenti più significativi il decreto legge 3 maggio 1991, n. 143, recante “misure urgenti per limitare l’uso dei contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l’utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio”, poi convertito con modifiche nella legge 5.7.1991, ii. 197; il D.l 13 maggio 1991, n. 152, contenente misure urgenti “in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa”, convertito con modifiche nella legge del 12.7.1991 n. 203, decreto questo con cui si introducevano rigorosi limiti alla possibilità per i condannati per delitti di criminalità mafiosa di usufruire della liberazione condizionale e delle altre misure alternative alla detenzione e si prevedeva un’aggravante ad effetto speciale per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall‘art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni di tipo mafioso, nonché un’attenuante pure ad effetto speciale per i reati di criminalità mafiosa, da applicare nei confronti di coloro che avessero fornito un contributo rilevante nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l’individuazione o la cattura degli autori dei predetti reati.
I DECRETI NORMATIVI
Quest’ultima norma assumeva un particolare rilievo nella produzione legislativa in materia di contrasto alla criminalità organizzata perché introduceva per la prima volta, dopo lunghe polemiche ed incertezze, lo strumento – già collaudato con straordinari risultati nella lotta al terrorismo – dell’incentivazione premiale alla collaborazione di associati alle organizzazioni di tipo mafioso, tradizionalmente chiuse verso l’esterno dal muro dell’omertà.
Particolarmente significativi erano, altresì, il D.l 31 maggio 1991 n. 164, recante “misure urgenti per lo scioglimento dei consigli comunali e provinciali e degli organi di altri enti locali, conseguente a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso”, convertito con modifiche nella legge 22.7.1991 n. 221; il D.l 9 settembre 1991 n. 292, recante “disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimento di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti”, convertito con modifiche nella legge 8.11.1991 n. 356; il D.l 29 ottobre 1991, n. 345, poi convertito con legge 30.12.1991 n. 410, recante “disposizioni urgenti per il coordinamento delle attività informative ed investigative nella lotta contro la criminalità organizzata”, che tra (‘altro istituiva nell’ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza la Direzione investigativa antimafia (Dta), con il compito di coordinare le attività di investigazione preventiva in materia di criminalità organizzata e di effettuare indagini di polizia giudiziaria per i delitti di associazione mafiosa o comunque ricollegabili all’associazione medesima; il D.l 20 novembre 1991 n. 367, convertito con modificazioni nella legge 20.1.1992 n. 8, contenente norme di “coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”, che tra l’altro istituiva la Direzione Nazionale Antimafia (Dna), con il compito di promuovere e coordinare a livello nazionale le indagini per i reati summenzionati, che venivano attribuite in via esclusiva alle Direzioni distrettuali antimafia (Dda), una sorta di “pool” riconosciuto dalla legge, istituito presso le procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto; il D.l 31.12.1991 n. 419, relativo alla “ Istituzione del Fondo di sostegno per le vittime di richieste estorsive”, convertito con modificazioni nella Legge 18.2.1992, n. 172; la Legge 18 gennaio 1992 n. 16, recante “norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali”, che prevedeva tra l’altro delle cause di ineleggibilità a determinati uffici pubblici locali di coloro che avessero riportato condanne o fossero imputati di determinati reati.
E insieme alla produzione normativa, un’efficace azione di contrasto si giovava anche di misure concrete di organizzazione degli uffici giudiziari più sensibili, come nel caso della turnazione nelle assegnazioni dei processi in materia di c.o. alle sezioni della corte di Cassazione o del monitoraggio delle decisioni della suprema corte elevate a sospetto; o il dichiarato appoggio alla candidatura di Giovanni Falcone a ricoprire l’incarico di procuratore Nazionale Antimafia.
A questo implacabile trend normativo era andato ad aggiungersi l’esito disastroso del maxi processo che aveva per così dire suggellato la rottura definitiva del tacito patto di non belligeranza o di pacifica coabitazione nei rapporti tra le organizzazioni mafiose e la Politica, stroncando qualsiasi residua speranza di poter beneficiare di coperture e connivenze che per anni avevano assicurato ai mafiosi l’impunità per i crimini commessi, o la possibilità di godere di dorate latitanze.
Invertire questo trend negativo ricorrendo alla principale risorsa strategica e la più congeniale ai metodi con cui i corleonesi erano usi regolare i loro affari e tutelare i propri interessi, senza tuttavia trascurare la ricerca di nuove alleanze politiche (e in tale direzione convergono le propalazioni di Cancemi, Brusca e Giuffrè), era divenuta quindi una scelta obbligata per Riina e i capi corleonesi che si stringevano attorno alla sua leadership. E qui affondava le sue radici la decisione dei vertici mafiosi di scatenare un’offensiva senza precedenti contro lo Stato e le Istituzioni.
LA STRATEGIA DEL TERRORE
Ebbene, la strage di Capaci, in quanto vero e proprio atto di guerra con evidenti valenze terroristiche, aveva segnato un punto di non ritorno di quell’offensiva.
Infatti, una volta imboccata la strada dell’attacco armato di stampo terroristico per costringere lo stato — che si presumeva ormai votato a incalzare le organizzazioni mafiosi con incisive misure normative e organizzative, ma pur sempre incapace di sopportare un costo di vite umane che ne avrebbe decretato il fallimento nella principale delle sue funzioni, e cioè quella di assicurare il rispetto dell’ordine pubblico e tutelare l’incolumità dei cittadini — a venire a più miti consigli, non c’era alternativa alla scelta di proseguire su quella strada, fino a quando lo Stato non avesse ceduto o mostrato segni di cedimento: pena il dover riconoscere, Riina e tutti i suoi luogotenenti, il fallimento di quella strategia, quando invece tra le ragioni che avevano indotto ad optare per l’uccisione di Falcone con modalità eccezionalmente eclatanti v’era anche quella di rilanciare, con una dimostrazione di forza senza precedenti, una leadership messa in discussione dall’esito disastroso del maxi processo e dagli effetti che cominciavano a farsi sentire delle misure varate dalla compagine governativa nel trascorso biennio (oltre all’insofferenza per i metodi autoritari di gestione dell’organizzazione che tre anni prima aveva prodotto una fronda interna stroncata nel sangue da Riina: il cd. complotto Puccio).
Sotto altro profilo deve convenirsi come possa ormai darsi per acquisito, all’esito dei tanti processi celebrati e definiti ormai con sentenze divenute irrevocabili, che a saldare la strage di via D’Amelio a quella di Capaci in un disegno criminoso unitario non fu solo la finalità ritorsiva – e cioè la vendetta da tempo covata contro due nemici “storici” di Cosa nostra – essendo i due eventi delittuosi accomunati anche dall’ulteriore finalità di ricatto allo stato.
Nel senso che si voleva esercitare sul governo e sulla classe politica, mediante reiterate esplosioni di inaudita violenza, una pressione tale da costringere lo Stato a venire a più miti consigli, e a recedere da quella Linea dura a cui Cosa nostra avrebbe opposto reazioni sempre più vilente e sanguinose, dimostrando di averne la capacità di metterle in atto (e su ciò convergono le propalazioni dei collaboratori di giustizia sia palermitani, come Cancemi, Brusca, Giuffrè, Cucuzza, o trapanesi, come Sinacori, che catanesi, come Malvagna, Pulvirenti e Avola), e in particolare a fare concessioni significative sui temi di maggiore interesse per gli affiliati mafiosi: la revisione del maxiprocesso,
L‘allentamento della stretta carceraria mediante l’ampliamento delle possibilità di accesso per i mafiosi ai benefici della Legge Gozzini, la revisione in senso più restrittivo della legislazione sui collaboratori di giustizia, e di quella in materia di misure di prevenzione, con riferimento ai sequestri e alle confische dei beni dei mafiosi erano già allora gli obbiettivi che stavano più a cuore dei mafiosi.
Ora, se ciò è vero, come ci dicono tanti processi e relative sentenze definitive, e lo confermano le prove testimoniali raccolte anche nel presente processo, allora una nuova manifestazione di terrificante potenza che facesse seguito nel più breve tempo possibile a quella esibita con la strage di Capaci, colpendo al pari di questa e con modalità altrettanto eclatanti un altro simbolo vivente della lotta dello stato a Cosa nostra, non solo era funzionale a quella strategia, ma ne costituiva il più naturale, logico e quindi anche prevedibile sbocco.
Come scrivono i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta, nel processo “Borsellino ter”, «in sostanza può senz’altro affermarsi che la ragionevole prevedibilità della strage di via D’Amelio non è frutto di un giudizio formulato a posteriori, giacché le stesse modalità dell’attentato di Capaci avrebbero dovuto rendere palese che, nel mirino di Cosa nostra, c’erano i magistrati che l’avevano affrontato con maggiore determinazione, tra cui, in prima linea, Paolo Borsellino, naturale erede di Giovanni Falcone, ed ideale continuatore della linea da lui tracciata».
Ed il primo ad esserne convinto, tanto da sentire di avere i giorni se non le ore contati, con la lucida consapevolezza che gli derivava probabilmente anche dalla profonda conoscenza della logica e del mondo di Cosa nostra, era proprio Paolo Borsellino: come è emerso, in effetti, dalle drammatiche testimonianze dei familiari e dei colleghi di lavoro a lui più vicini, odi soggetti con i quali aveva avuto negli ultimi tempi contatti per ragioni legate al suo lavoro.
Spiccano su tutte le dichiarazioni rese dalla Signora Agnese Piraino Leto già nel primo processo (“Borsellino Uno”) su via D’Amelio, e riportate in diverse sentenze acquisite, secondo cui «mio marito era preoccupatissimo e mi diceva sino a quando ci sarà Giovanni vivo mi farà da scuso, Giovanni è morto ed era sì, molto, molto preoccupato. Mi diceva ‘faccio una corsa contro il tempo, devo lavorare, devo lavorare tantissimo, se mi fanno arrivare.... Io ho capito tutto della morte di Giovanni...».
E non meno drammatiche le testimonianze dei colleghi a dire dei quali dopo la strage di Capaci, il dott. Borsellino si definiva come “un morto che cammina”, o addirittura evitava di farli salire in auto con lui per evitare loro rischi inutili.
Ve n’è un’eco precisa anche in questo processo nelle parole di Fernanda Contri, la quale rammenta che, quando si videro con Borsellino circa 15 giorni prima della sua morte, le disse che stava facendo avanti e indietro dalla Germania, per sentire nuovi pentiti; e le raccomandò di caldeggiare presso il Presidente del Consiglio le proposte e i disegni di legge che riguardavano i collaboratori di giustizia, sottolineando che aveva molta premura. […]. E le stesse annotazioni sull’agenda di lavoro del magistrato trucidato con la sua scorta, incrociate alle testimonianze dei colleghi, documentano eloquentemente il ritmo incalzante e persino frenetico con cui si susseguirono i suoi impegni professionali (a far data in particolare dal 25 giugno, e comprese due trasferte a Roma per andare a sentire due nuovi penti, e una trasferta in Germania, sempre per andare a sentire nuovi pentiti).
D’altra parte, è di tutta evidenza che Paolo Borsellino non era solo uno dei tanti obbiettivi da colpire, ma fu fin dall’inizio dell’offensiva stragista che era stata varata nel corso delle riunioni della Commissione provinciale e della commissione regionale di Cosa nostra tra la fine del ‘91 e l’inizio del ‘92, uno degli obbiettivi principali di quella campagna di morte e di terrore.
E Paolo Borsellino diventa il nemico numero uno per i boss mafiosi. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 16 novembre 2022
Secondo il pentito Nino Giuffré, ci furono sondaggi prima delle stragi, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Ed è altrettanto evidente che, dopo l’eliminazione del giudice Falcone, il dott. Borsellino era divenuto l’obbiettivo primario, anche, ma non soltanto, per il valore simbolico associato alla sua figura; ed era lui stesso il primo, come s’è visto ad averne consapevolezza.
Sicché l’assunto secondo cui un intervallo di 57 giorni era troppo breve per non tradire qualche evento sopravvenuto medio tempore che imponesse di affrettare i tempi, potrebbe essere rovesciato nel suo esatto contrario: era un intervallo di tempo anche troppo lungo, se è vero, come pure è provato, che Cosa nostra aveva la capacità e i mezzi per sferrare un secondo micidiale colpo contro colui che, nell’immaginario mafioso, ne era divenuto, dopo la morte di Falcone, “il nemico numero uno”.
LE DICHIARIAZIONI DI CANCEMI E LA “FRETTA” DI RIINA
E allora ciò basterebbe a spiegare la fretta che secondo Cancemi trapelava dai toni perentori con cui Riina, in quella riunione (ristretta) che il dichiarante colloca nell’ultima decade di giugno ‘92, e nel corso della quale si ripeté il nome di Borsellino tra gli obbiettivi da colpire, ebbe a rammentare a Faluzzo (cioè a Raffaele Ganci, capo della famiglia mafiosa della Noce, i cui uomini sarebbero stati poi impiegati nelle attività preparatorie e poi nel pattugliamento delle zone di interesse per l’esecuzione del delitto) che “la responsabilità è mia”, alludendo alla necessita di procedere senza indugio all’uccisione di Borsellino «E quindi io mi ricordo in quella riunione che il Ganci, proprio questo mi è rimasto impresso, quindi la cosa più forte che mi è rimasto è che si appartò, diciamo, sempre nella stessa stanza, nello stesso salottino che c'era là, con Riina e io c'ho sentito dire: “La responsabilità è mia”. Poi, quando ce ne siamo andati con Ganci, Ganci mi disse: “Questo ci... ci vuole rovinare a tutti”, quindi la cosa era... il riferimento era per il dottor Borsellino […] Io ho capito che il Riina aveva una premura, come vi devo dire, una cosa... di una cosa veloce, aveva.., io avevo intinto questo, che il Rima questa cosa la doveva.., la doveva fare al più presto possibile, come se lui aveva qualche impegno preso, qualche cosa che doveva rispondere a qualcuno».
Lo stesso Cancemi dà, di quella premura, una lettura diversa e non del tutto, anzi, per nulla convergente con le conoscenze sciorinate da Giovanni Brusca circa ragioni e finalità che accomunavano le due stragi. Ma anche l’espressione testuale profferita da Riina e che tanto aveva impressionato Cancemi (“La responsabilità è mia”) poteva essere, molto più semplicemente, un modo per tagliare corto, rispetto alle perplessità magari anche solo tacitamente manifestate dal Ganci, facendogli presente che era sua la responsabilità di quella scelta (cioè di agire subito) e quindi non c’era da discutere.
Di contro, attendere per un tempo indefinito avrebbe diluito l’effetto di sgomento e smarrimento prodotto dalla strage di Capaci, consentendo sia all’opinione pubblica che allo stato di assorbire il colpo; e dando al Governo e agli apparati di polizia il tempo di serrare le fila e attrezzarsi per una risposta adeguata, con la conseguenza di rendere più difficoltosa l’esecuzione della nuova strage e meno efficace il suo effetto intimidatorio.
È plausibile poi che lo straordinario successo (“successo” ovviamente per i mafiosi) dell’impresa di Capaci, e la debolezza della reazione da parte dello stato che è attestata dalle polemiche esplose fin dalle prime ore successive all’eccidio di via D’Amelio (che porteranno a indignate proteste e denunce di gruppi politici, associazioni della società civile, organizzazioni sindacai, semplici cittadini, oltre a varie iniziative di protesta dei magistrati: v. infra) e che sono documentate dalle cronache del tempo, abbiano concorso, unitamente alla sicurezza che derivava ai corleonesi dall’impunità immancabilmente seguita ai tanti delitti eccellenti, stragi comprese, che avevano commesso in precedenza ed anche in anni non lontani, a rafforzare la convinzione e la previsione di Riina — una previsione che i fatti si sarebbero di lì a poco incaricati di smentire — che un secondo mortale colpo, lungi dal provocare una reazione veemente da palle dello stato, ne avrebbe stroncato ogni velleità di resistenza alla violenza mafiosa e lo avrebbe ridotto in ginocchio, ancora di più di quanto non lo fosse già dopo Capaci.
Insomma, se di una guerra si trattava, bisognava incalzare il nemico fino a quando non avesse ceduto, o almeno non avesse manifestato segni di cedimento mostrandosi disponibile a negoziare la pace. Proprio come recitava il proposito che, parafrasando il noto brocardo latino, Filippo Malvagna attribuisce a Riina e che riassume l’essenza della strategia stragista ordita dai corleonesi: qua bisogna prima fare la guerra per poi fare la pace (frase che suona come un’evidente parafrasi del noto brocardo latino, facendo persino pensare a un’intelligenza più raffinata di quella di Riina come fonte d’ispirazione e che lo stesso Riina avrebbe pronunziato, secondo quanto il Malvagna dice di avere appreso dallo zio, Pulvirenti Giuseppe, in occasione della riunione della Commissione regionale di Cosa nostra, tenutasi ad Enna all’inizio del 1992).
"CI VOLEVANO I MORTI”
E le modalità eclatanti di commissione del delitto in questione, tali da provocare spargimenti di sangue, non importa se anche a danno di vittime innocenti, non erano solo funzionali a massimizzare il terrore della violenza mafiosa e dare prova della terrificante potenza di cui Cosa nostra era capace, perché (al contrario di quanto può ritenersi per le stragi in continente) “ci volevano i morti”, per costringere lo stato a trattare: come abbiamo appreso dalla viva voce di Salvatore Riina, nella conversazioni intercettata il 18 agosto 2013 al carcere di Opera [...].
Se poi è vero che le previsioni di Riina furono un calcolo sbagliato sull’intensità della reazione che lo stato, ma anche l’opinione pubblica sarebbero stati in grado di opporre alla violenza mafiosa, è possibile che a questo clamoroso errore di calcolo abbiano concorso altri fattori, oltre a quelli già accennati, come la debolezza congenita del Governo Amato e le impegnative emergenze che si trovava simultaneamente ad a fronteggiare.
E tra questi fattori, anche le rassicurazioni che già prima della strage di Capaci sarebbero state date a Riina dai personaggi influenti con cui egli si era incontrato nel periodo di gestazione di quella strage, secondo il breve cenno che ne fece Cancemi nell’interrogatorio del 15 marzo 1994.
Un racconto succinto che non sembra lasciare spazio alla conoscenza da parte dello stesso Cancemi di chi fossero quegli autorevoli personaggi; e che deve quindi vagliarsi al netto di tutti i dubbi sull’attendibilità delle tardive rivelazioni che avrebbe fatto solo alcuni anni dopo, quando indicò i nomi di Berlusconi e Dell'Utri a proposito dell’identità degli autorevoli personaggi del mondo politico e imprenditoriale da cui Riina avrebbe ricevuto la garanzia che si sarebbero impegnati a portare a buon fine le istanze di Cosa nostra. E tuttavia, residua da quel racconto la certezza, condivisa da Riina con i suoi più fedeli luogotenenti proprio in ragione dei rapporti che lo legavano a non meglio specificati personaggi influenti esterni a Cosa nostra, che lo stato non avrebbe reagito.
Anche se, sempre Cancemi, è stato altrettanto chiaro nel precisare che quella convinzione era circoscritta a Riina e a quello che all’epoca poteva definirsi come il suo cerchio magico di capi mandamento più fedeli e sanguinari, mentre tra le fila del popolo d Cosa nostra serpeggiavano dubbi e preoccupazioni: […]. E che una qualche forma di rassicurazione — o più d’una — fossero state date a Riina, e allo stesso Provenzano prima delle due stragi, lo lascia intendere anche Antonino Giuffré’. Questi, all’udienza del 28.11.2013, alla domanda se gli risultasse che Cosa nostra, prima di accingersi a delitti eccellenti come quelli di Falcone e Borsellino, si preoccupasse di verificare le possibili ripercussioni di delitti del genere in ambienti qualificati ed estranei a Cosa nostra, ha dato una risposta eloquente, sottolineando come la commissione di un delitto eccellente, soprattutto quando siano in gioco rilevanti interessi economici che vanno oltre Cosa nostra per investire importanti ambienti imprenditoriali, richiede una preliminare verifica del grado di isolamento (alludendo all’isolamento all’interno delle istituzioni) del soggetto da colpire: «Quando si parla di isolamento degli individui che poi devono essere colpiti, è sotto inteso che c’è tutto un lavoro antecedentemente prestabilito per quanto riguarda un determinato omicidio eccellente.
Appositamente viene sempre più montata la pericolosità non solo nel contesto mafioso, ma in oggetto a questi discorsi che, in modo particolare stiamo parlando di interessi economici che vanno oltre gli interessi di Cosa nostra, che vanno nel mondo imprenditoriale, diciamo che è un discorso portato avanti di isolamento, di delegittimazione da parte degli interessati, quali il dottore Falcone, il dottore Borsellino o anche altri delitti più o meno eccellenti. C’è un discorso di isolamento e poi vengono... quando si reputa che questo lavoro è stato fatto bene, viene eseguita la sentenza».
“SONDAGGI PRELIMINARI” CON PERSONE IMPORTANTI
Ma ancora più esplicito era stato al “Borsellino quater”, parlando di sondaggi preliminari, effettuati con persone importanti del mondo economico e politico. E sia Falcone che Borsellino, scrivono i giudici del Borsellino quater richiamando le dichiarazioni di Giuffré, erano pericolosi non solo per Cosa nostra, ma anche per quegli ambienti politici e imprenditoriali che erano interessati a convivere pacificamente e proficuamente con Cosa nostra, facendo lucRosi affari con i mafiosi. E non era estraneo a questa “contaminazione” il mondo delle professioni, con le più disparate categorie di persone (come commercialisti, medici, professori e, aggiunge Giuffré, servizi più o meno deviati).
Questi “sondaggi” preliminari suscitarono la convinzione che Falcone e Borsellino fossero personaggi scomodi ed invisi anche alloro mondo, e quindi “isolati” [...]: ciò che rendeva più facile colpirli, perché si poteva fare affidamento sul fatto che la loro uccisione non avrebbe scatenato una
reazione vibrante. E se nella decisione di eliminare i due magistrati aveva avuto un peso proprio il loro isolamento, scrivono ancora i giudici del Borsellino quater, attingendo ancora alle dichiarazioni del Giuffré, «La stessa strategia terroristica di Salvatore Rima traeva la sua forza dalla previsione (rivelatasi poi infondata anche a causa della paura insorta in buona parte del mondo politico e della conseguente reazione dello stato) che passato il periodo delle stragi si sarebbe ritornati alla normalità. L’inquietante scenario descritto dal collaboratore di giustizia trova, in effetti, precisi riscontri negli elementi di prova emersi nell’ambito del presente procedimento. che evidenziano l’isolamento creatosi intorno a Paolo Borsellino. e la sua convinzione che la sua uccisione sarebbe stata resa possibile dal comportamento della stessa magistratura».
D’altra parte, se tra gli obbiettivi perseguiti da Riina, per quanto potesse sembrare irrealistico realizzarlo, v’era anche la revisione delle condanne del maxi processo, e più in generale un ammorbidimento delle misure di contrasto alla mafia, sarebbe stato arduo che il Governo o singoli esponenti politici potessero caldeggiare proposte di modifiche del quadro normativo a favore di Cosa nostra fino a quando fossero rimasti in vita Falcone e Borsellino, con il loro carisma e la loro ferrea volontà di portare avanti senza cedimenti di alcun genere la lotta alla mafia. Motivo di più per legare l’uccisione di Borsellino in rapporto di consecuzione logico-temporale a quella di Falcone, nel senso che il successo della strage di Capaci non sarebbe stato pieno se e fino a quando alla morte di Falcone non avesse fatto seguito quella di Borsellino.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Le ultime settimane prima della strage, l’atto di accusa di un giudice solo. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 17 novembre 2022
Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Si intuiva che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Detto questo, deve però concedersi che, nei giorni e nelle settimane successive alla strage di Capaci, e fino a quell’ultima decade di giugno-primi di luglio cui può farsi risalire l’avvio sul piano operativo dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio, sono certamente avvenuti fatti e maturate circostanze che potrebbero avere vieppiù corroborato il convincimento di Riina e dei capi corleonesi a lui più vicini che non vi fossero motivi validi per procrastinare ancora la concreta esecuzione di una deliberazione di morte che era stata da tempo adottata nei riguardi del dott. Borsellino; e che anzi fosse il caso di procedervi senza ulteriore indugio.
S’è detto delle ripetute esternazioni, sia pure in ambienti ristretti e legati al circuito delle sue relazioni professionali, del suo interesse per l’indagine mafia e appalti, culminato con l’incontro del 25 giugno 1992 alla caserma Carini con Mori e De Donno (per organizzare il quale s’era adoperato il suo più stretto collaboratore dell’epoca, l’allora M.llo Canale, che poi sarà processato — e assolto — per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa).
Ma già era stato motivo di allarme per Cosa nostra il trasferimento del dott. Borsellino alla procura di Palermo, a partire da gennaio, con l’incarico di procuratore Aggiunto e l’immediato inserimento — che ne aveva costituito la ragione principale della domanda di trasferimento — nella Dda che era stata istituita con D.L: 20 novembre 1991, n. 367, conv. con modificazioni in L. 20 gennaio 1992, n. 8 (“norme di coordinamento delle indagini nei procedimenti per reati di criminalità organizzata”): essendo le Direzioni Distrettuali Antimafia una sorta di pool di magistrati, previsto dalla legge e istituito presso le Procure della Repubblica aventi sede nei capoluoghi di distretto cui veniva attribuita in va esclusiva la competenza per i reati di c.o., dei quali quindi il dott. Borsellino non avrebbe più potuto occuparsi restando alla procura di Marsala.
E sebbene dal procuratore Giammanco egli avesse ricevuto la delega ad occuparsi solo dei procedimenti per reati di mafia commessi nei territori di Trapani e Marsala, competenza poi estesa anche al territorio di Agrigento e Sciacca (che meglio conosceva in ragione della sua pregressa attività come procuratore capo a Marsala) egli non aveva tardato ad imporsi come punto di riferimento per le indagini nel settore della criminalità organizzata, in ragione del prestigio e della competenza e delle conoscenze acquisite già come componente del pool che aveva istruito il maxi processo, sia all’interno dell’ufficio – soprattutto per i colleghi più giovani – che all’esterno.
La morte di Falcone, come già accennato, lo aveva automaticamente caricato, anche nell’immaginario collettivo, del ruolo di suo naturale erede nella lotta alla mafia. E lui stesso non aveva fatto mistero della sua determinazione a proseguirne l’opera, e a venire a capo della causale della sua uccisione, partendo proprio dai filoni d’indagine che avevano maggiormente assorbito l’attenzione e l’impegno di Giovanni Falcone negli ultimi periodi di servizio alla procura di Palermo, prima di trasferirsi al ministero di Grazia e Giustizia a Roma per andare a dirigere l’ufficio della direzione generale Affari penali.
L’EREDE DI GIOVANNI FALCONE
A questo fattore di sovraesposizione si aggiunse una sorta di investimento istituzionale sulla sua figura. Il 28 maggio ‘92, in occasione della presentazione dell’ultimo libro del sociologo Pino Arlacchi (La mafia imprenditrice) in una nota libreria di Roma, l’allora ministro dell’Interno Vincenzo Scotti espresse il convincimento che Paolo Borsellino fosse il candidato più idoneo a ricoprire la carica di procuratore Nazionale Antimafia.
E il ministro della Giustizia Martelli fece anche di più, chiedendo al C.S.M. di riaprire i termini per la presentazione delle candidature a quell’incarico, per consentire la partecipazione al concorso di quei magistrati che, essendo ancora in vita Falcone, avevano ritenuto di non presentare domanda perché convinti che la candidatura di Falcone fosse la migliore.
Borsellino si affrettò a declinare l’incarico, ma lo fece con lettera privata — contro il parere di alcuni colleghi a Lui particolarmente vicino che gli avevano segnalato con viva preoccupazione il surplus di pericolo che poteva provenire da quella pubblica investitura e perciò gli avevano consigliato di rendere pubblico il suo rifiuto – lettera che però venne resa nota dallo stesso Scotti solo dopo la morte del magistrato.
Nel frattempo, in un crescendo che non sfuggì all’attenzione dei colleghi che gli erano più vicini, e compatibilmente con i ritmi frenetici di lavoro che si era imposto, il dott. Borsellino, nelle settimane successive alla barbara uccisione dell’amico e collega Falcone, in deroga al rigoroso riserbo cui si era in precedenza attenuto, non aveva lesinato esternazioni in pubblico sui temi della lotta alla mafia, denunciando, a partire dall’isolamento e dagli ostacoli frapposti anche all’interno dell’ambiente giudiziario che avevano amareggiato l’ultimo periodo di servizio di Falcone quale procuratore Aggiunto, le vischiosità e le connivenze annidate all’interno delle istituzioni.
Ne fanno fede le dichiarazioni rese nel corso dell’audizione dinanzi il Csm e versate in atti dalla dott.ssa Sabbatino, all’epoca magistrato in servizio alla procura di Palermo e legata da personale amicizia a Paolo Borsellino […] La stessa dott.ssa Sabbatino precisava però che Paolo Borsellino aveva cambiato bruscamente atteggiamento dopo che, sul giornale di Sicilia del 30 giugno 1992 erano state estrapolate alcune dichiarazioni che aveva reso nella precedente intervista a proposito dei contrasti insorti tra Falcone e Giammanco: forse proprio perché in quell’articolo, che, a partire dal titolo (“Non fu per i contrasti con Giammanco che Falcone andò via dalla procura”) dava risalto a quelle dichiarazioni, benché avessero impegnato una parte minima dell’intervista, era stato travisato il suo pensiero al riguardo; o forse perché sempre più assorbito dal lavoro e consapevole di avere i giorni contati, o perché timoroso di partecipare a eventi pubblici, per essere lui stesso una fonte di rischio per chi gli stesse vicino: “Fatto sta che da allora, Paolo, e dopo questa pubblicazione anche falsata dell‘intervista che avviene poi il 30 giugno, non interviene più da nessuna parte, nessun incontro, proprio cambia totalmente atteggiamento, a differenza del primo mese successivo alla strage di capaci, in cui era presente ovunque, lui approfittava anche di una commemorazione in una chiesa per parlare... ovunque, lui non parla più, in pubblico non dice più titilla e mi disse che quello era un momento particolare e che aveva in corso indagini delicate, quindi io, mi parlò di alcuni pentiti, siamo nei primi giorni di luglio...”.
Ma quel ritrarsi da esternazioni in pubblico poteva anche spiegarsi con la preoccupazione di non dare la stura a polemiche che avrebbero potuto danneggiare le indagini, che erano la cosa che più gli premeva in quel momento, e che registravano un’eccezionale intensificazione del suo impegno di lavoro: [...].
LE ULTIME INTERVISTE DI BORSELLINO
Ma soprattutto, con interviste rilasciate ai giornali, o la partecipazione a eventi pubblici (almeno fino a quando non si inabissò, secondo il ricordo della dott.ssa Sabbatino nel lavoro di indagine), Paolo Borsellino aveva fatto appello alla coscienza dei cittadini, e al comune desiderio di libertà per sensibilizzare le forze sane della società civile a ribellarsi alla prepotenza mafiosa; e questo impegno, intensificatosi proprio nel mese di giugno, di pubblica di sensibilizzazione della collettività siciliana e nazionale sui terni della lotta alla mafia, ne aveva implementato la statura di figura iconica ed erede di Falcone nell’azione di contrasto alla criminalità mafiosa.
Al contempo, egli aveva ripetutamente e pubblicamente manifestato il proposito di impegnarsi concretamente a fare luce sulle vere ragioni che avevano indotto Cosa nostra a progettare e attuare l’attentato di Capaci — come ricorda Giovanni Brusca, non occorrevano talpe o fonti confidenziali per venire a conoscenza di tale proposito, perché il dott. Borsellino lo gridava pubblicamente - dopo che era stato commesso un delitto come l’omicidio Lima, che, in una valutazione condivisa da Borsellino con Giovanni Falcone, aveva segnato la rottura violenta, e quindi carica di valenze strategiche, di un atavico e scellerato connubio tra l’organizzazione mafiosa e uno dei più potenti ed influenti esponenti politici siciliani, ancora accreditato del ruolo di leader della corrente andreottiana in Sicilia.
E se aveva rinunciato a chiedere di essere applicato alla procura della Repubblica di Caltanissetta per seguire direttamente le indagini sulla strage, già incardinate presso quell’Ufficio giudiziario, tuttavia, come puntualmente evidenziato dai giudice del “Borsellino ter”, «Borsellino aveva manifestato pubblicamente la propria volontà di collaborare a quell’inchiesta. riversando sui magistrati che ne erano titolari il cospicuo patrimonio di conoscenze che gli derivava sia dalla esperienza professionale che dalle confidenze raccolte da Falcone in occasione dei frequenti ed anche recenti incontri con lo stesso. Tale intento Borselino aveva, ad esempio, esternato in un’intervista al quotidiano “La Repubblica”, comunicando il proprio rammarico per non poter seguire direttamente l’indagine perché in ciò avrebbe “trovato un lenimento al mio dolore, così come era successo per l’omicidio del capitano Emanuele Basile” ed asserendo che sarebbe comunque andato a Caltanissetta “come testimone” per riferire al procuratore “fatti, episodi, circostanze, gli ultimi colloqui avuti con Falcone”».
IL DISCORSO DI CASA PROFESSA
In alcune delle sentenze versate in atti sono riportati ampi stralci del toccante discorso pronunciato dal dott. Borsellino la sera del 25 giugno 1992 in occasione della commemorazione della morte di Falcone tenutasi all’atrio della Biblioteca Comunale (Casa Professa) a Palermo.
In tale occasione, egli tra l’altro ribadì la propria convinzione di essere in possesso di concreti elementi probatori che avrebbero potuto contribuire a fare luce sulla strage di Capaci; e di essere pronto a rappresentare, nella veste di testimone, alla competente A.g. non già ciò che pensava, ma ciò che sapeva sui fatti sottesi al tragico evento sfociato nella morte di Giovanni Falcone («In questo momento inoltre, oltre a magistrato, io sono testimone, sono testimone perché, avendo vissuto a lungo la mia esperienza cli lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto.... degli elementi probatori che porto dentro di me, io debbo per prima cosa rappresentarli all’autorità giudiziaria che è l’unica in grado cli valutare quanto queste cose che io so, non che io penso, che io so, possono essere utili alla ricostruzione dell‘evento che pose fine alla vita di Giovanni Falcone...»).
Non serve spendere parole di commento per significare l’effetto di sovraesposizione prodotti da simili coraggiose esternazioni. Borsellino in pratica enunciava di essere a conoscenza di fatti specifici e in possesso quindi di concreti elementi probatori per fare luce sulla strage di Capaci; e che era pronto a metterli a disposizione dell’autorità giudiziaria nissena che stava conducendo l’indagine. Se ne inferiva inoltre che non era stato ancora sentito, a distanza di un mese dai fatti, dagli inquirenti; ma che era pronto e ansioso di farlo.
Era quindi altresì prevedibile, dopo quelle pubbliche esternazioni cui aveva fatto seguito un immediato e notevole risalto mediatico (v. articolo pubblicato su Repubblica del 27 giugno, dal titolo “L’atto di accusa di Borsellino”) che quanto prima sarebbe stato finalmente sentito da magistrati nisseni nella veste di persona informata sui fatti (in effetti, secondo quanto ebbe poi a confermare il dott. Giordano, pubblico ministero di Caltanissetta, il dott. Borsellino doveva essere sentito a inizio della settimana successiva al 19 luglio).
V’è poi traccia in atti di altre interviste ai giornali, non solo locali, (come quella pubblicata sulla Gazzetta per il Mezzogiorno il 3 luglio 1992, sugli scenari mafiosi in atto e l’ipotesi di una crescente anche se ancora latente conflittualità tra i due capi corleonesi, Riina e Provenzano, descritti come due pugili che si fronteggiano su un ring); dell’intervento nell’ambito di “Lezioni di mafia”, registrato presso il centro Rai di Palermo la mattina del 26 giugno e la contestuale intervista rilasciata al giornalista Antonio Prestifilippo, pubblicata su Il Mattino di Napoli (v. ancora audizione della dott.ssa Sabbatino dinanzi il Csm); ed ancora di altra intervista al giornalista Attilio Bolzoni pubblicata su il Venerdì di Repubblica, del 22 maggio, nella quale il magistrato si sofferma sulle peculiarità, legate al ruolo pervasivo della criminalità organizzata, che contraddistinguono, in Sicilia e nel Meridione in genere, i fenomeni di corruzione e concussione o comunque di uso spregiudicato del denaro pubblico che sono diffusi in tutto il territorio nazionale: peculiarità che ostacolano lo sviluppo delle indagini (“Ecco perché a Palermo è più difficile scoprire certi affari: perché incontriamo le stesse difficoltà investigative che troviamo quando indaghiamo su fatti di mafia”).
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Quell’ultima intervista su Berlusconi e lo stalliere Vittorio Mangano. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 18 novembre 2022
Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi. L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Nei giorni 18,19 e 21 maggio — e quindi appena due giorni prima della strage di Capaci – Borsellino rilascia una lunga intervista al giornalista francese Fabrizio Calvi (che lo aveva conosciuto tramite il Consigliere Rocco Chinnici e poi l’aveva incontrato nuovamente nel 1989, ricevendone indicazioni e notizie utili per il suo libro inchiesta “Vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi, edito da Rizzoli).
L’intervista viene registrata con l’ausilio di una troupe televisiva di cui fa parte anche il regista produttore Jean Pierre Moscardo, (celebre per avere realizzato le ultimi immagini fumate della precipitosa fuga degli americani da Saigon nel 1975, nonché per il film documentario “Charter per l’inferno, sul fenomeno della droga e relativo indotto illecito); e avrebbe dovuto andare in onda sull’emittente televisiva francese Canal plus nell’ambito del docufilm di cui era autore il predetto Moscardo sugli affari della mafia.
L’intervista verteva sulla ricostruzione della marcia di avvicinamento di Cosa nostra ai circuiti dell’alta finanza, cominciata nei primi anni ‘70 quando si pose il problema di riciclare e reinvestire l’enorme massa di denaro provento soprattutto del narcotraffico gestito da Cosa nostra. In questa vicenda un ruolo importante sarebbe stato ricoperto da Vittorio Mangano, che tramite Marcello Dell’Utri era stato assunto alle dipendenze di Silvio Berlusconi, all’epoca imprenditore milanese in ascesa.
E Borsellino si soffermava sui trascorsi criminale del Mangano, precisando però che, quanto ai rapporti con Berlusconi era una vicenda di cui non si era occupato e quindi non si sentiva autorizzato a dire nulla, essendoci indagini in corso (“Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla....so che c’è un‘inchiesta ancora aperta”).
Pur insistendo nella necessità di astenersi da riferimenti a nominativi specifici, sul fenomeno generale dell’evoluzione di Cosa nostra nel senso di una progressiva penetrazione nei circuiti dell’economia legale, per l’esigenza di gestire una massa enorme di capitali di provenienza illecita, Borsellino dichiara che «questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente per questa ragione cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo da poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso».
E alla domanda se trovasse normale che Cosa nostra si interessasse a Berlusconi, rispondeva: «È normale che il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente, questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale ad un certo punto della stia storia si è trovata di fronte, è stata portata ad una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare tino sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali».
Quanto a Mangano, già da due decadi operava a Milano ed aveva attività commerciali, sicché «è chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa nostra, in grado di gestire questi rapporti».
L’intervista si chiudeva con la consegna di alcuni fogli consultati nel corso della stessa, ricavati dalla stampa del file contenuto nel computer del magistrato e in essi comparivano i nomi dei personaggi citati (Mangano, Dell'Utri, Berlusconi, Rapisarda Alamia). Alla domanda su quando sarebbe finita l’inchiesta ancora aperta di cui aveva fatto cenno, Borsellino rispondeva: «Entro ottobre di quest’anno».
UN DOCUFILM MAI ANDATO IN ONDA
Ebbene, il docufilm di Moscardo non sarà mai realizzato per motivi a tutt’oggi non del tutto chiariti. L’intervista invece venne pubblicata in Italia, ma solo due anni dopo, nel marzo del 1994, in un lungo reportage de L’Espresso (“Borsellino, il testo dell‘intervista, Un cavallo per Marcello”: cfr. produzione documentale del pm). Né vi sono elementi per ritenere che Cosa nostra ne fosse venuta a conoscenza in tempo reale, o comunque prima che, a dire di Brusca, lui stesso ebbe modo di leggere quel reportage su L’Espresso.
Infine, nel mese di giugno trapela la notizia di due nuovi collaboratori di peso, come Leonardo Messina e Gaspare Mutolo. Entrambi chiederanno — sollevando un vespaio di polemiche e di tensioni all’interno della procura di Palermo di essere sentiti da Paolo Borsellino, che il 28 giugno confiderà alla dott.ssa Ferraro la sua amarezza e preoccupazione per la decisione del procuratore Giammanco di assegnare il fascicolo relativo alle indagini legate alle rivelazioni di Mutolo ad altri magistrati del suo Ufficio: decisione rientrata già alla fine di giugno, forse anche grazie alla mediazione della dott.ssa Ferraro che incontrò personalmente il procuratore di Palermo per sponsorizzare la designazione di Borsellino. E a partire dal 1° luglio, inizieranno gli interrogatori sia di Mutolo che di Messina condotti dal dott. Borsellino insieme al collega Aliquò e poi ai sostituti Lo Forte e Natoli.
E deve convenirsi (ancora una volta con quanto scrivono i giudici del Borsellino ter: v. pag. 591 della sentenza in atti) che l’allarme suscitato in Cosa nostra dalle esternazioni del dott. Borsellino non poteva che lievitare, atteso il più che fondato timore che egli potesse nuovamente ripetere, dall'alto della sua esperienza e capacità e grazie alle più recenti acquisizioni probatorie che i predetti consentivano, le fruttuose inchieste che avevano portato al primo maxi processo.
D’altra parte, Riina e i suoi fedelissimi non potevano essere certi di quale fosse il livello di conoscenza di vicende delittuose e retroscena che i due nuovi pentiti avrebbero potuto riversare sul magistrato più esperto e capace in tema di indagini antimafia; né potevano sapere che le rivelazioni più immediate e scottanti avrebbero riguardato, per ciò che concerneva Mutolo, personaggi delle istituzioni, accusati di infedeltà, collusioni mafiose o comportamenti inappropriati, e non sodali dell’organizzazione mafiosa e delitti di particolare gravità commessi da Cosa nostra (sicché non appare conducente l’argomento addotto dal giudice di prime cure per confutare la rilevanza delle notizie filtrate sulle due nuove collaborazioni come fattore che può avere concorso a rompere gli indugi nel dare esecuzione alla strage Borsellino).
Ebbene, nessuno degli eventi sopra richiamati appare così decisivo da potere sconvolgere i piani di Riina o una ipotetica tabella di marcia degli attentati in programma; e tuttavia essi nel loro insieme erano certamente idonei, come detto. A rafforzare il convincimento che si dovesse dare concreta esecuzione alla decisione di uccidere Borsellino senza immorare oltre.
LA STRAGE DI VIA D’AMELIO E LA TRATTATIVA CIANCIMINO-ROS
Tirando le fila dell’excursus che precede, può così concludersi sul punto in esame. È possibile, ma non è provato, che Riina sia stato informato poco prima della strage di via D’Amelio dell’invito proveniente da emissari istituzionali ad allacciare un dialogo per fermare l’escalation di violenza mafiosa.
Ma anche se così fosse, l’operazione Borsellino era già in itinere; ed allora si può concedere che l’essere venuto a conoscenza che uomini dello stato si erano fatto sotto per negoziare non ebbe l’effetto di dare la precedenza all’attentato a Borsellino, sconvolgendo un’ipotetica diversa scaletta del suo programma criminoso: più semplicemente, non fece cambiare di una virgola, a Riina, i suoi piani.
Anzi, egli ne trasse un incoraggiamento ad andare avanti, non perché non fosse interessato alla proposta di avviare un negoziato, ma perché, pur volendo raccogliere tale sollecitazione, ritenne, non del tutto irragionevolmente, che una nuova terrificante dimostrazione di (onni)potenza distruttiva da parte di Cosa nostra avrebbe giovato alla sua causa, consentendogli di trattare da una posizione di forza e fiaccando ogni residua velleità dello stato di opporsi alle sue pretese.
È però possibile, ed anzi assai più probabile, incrociando le varie fonti di datazione degli avvenimenti in oggetto, che Riina sia stato edotto dell’iniziativa dei carabinieri del Ros e della sollecitazione rivolta attraverso Ciancimino soltanto dopo che la strage di via D’Amelio era stata commessa.
Ebbene, anche in tale evenienza, egli ne avrebbe tratto un incoraggiamento a persistere nei suoi piani, perché, se uomini dello stato si erano fatti avanti per trattare, dopo una seconda terrificante strage, ciò voleva dire che la strategia stragista “pagava”, nel senso che era un metodo efficace per ottenere che lo stato si piegasse alle richieste di Cosa nostra. E non era impensabile avanzare allora richieste altrimenti irricevibili, essendo tali richieste presidiate da una minaccia terribile e divenuta ancora più credibile di quanto non fosse già in precedenza.
Sotto questo profilo il nucleo essenziale del costrutto accusatorio esce validato dalla verifica probatoria: ma senza bisogno di evocare l’incidenza della sollecitazione al dialogo su una presunta accelerazione dell’iter esecutivo, accelerazione che non vi fu, o almeno non vi fu nell’accezione in cui la intende anche la sentenza qui appellata, nel solco di un refrain comune alle sentenze che hanno definito quasi tutti i processi celebrati sulle due stragi siciliane.
Se accelerazione vi fu, essa si verificò soltanto sul piano strettamente operativo e con riferimento alla sequenza finale della fase esecutiva, non appena si ebbe conferma che il dott. Borsellino quella domenica si sarebbe recato in via D’Amelio per fare visita alla madre, come in effetti soleva fare nei fine settimana (e come gli uomini di Cosa nostra cui era stato affidato il compito di organizzare e realizzare l’attentato sapevano, grazie alle attività di pedinamento e appostamento dispiegate nelle settimane precedenti), essendosi profilata, giusta quella conferma, l’opportunità di colpire nel luogo più idoneo tra quelli che erano stati studiati.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
E don Vito disse ai carabinieri del Ros: «Quelli accettano il dialogo». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 19 novembre 2022
Riina non soltanto accolse la “sollecitazione al dialogo”, ma concretizzò la sua risposta con la formulazione di specifiche richieste. Tale prova si raggiunge infatti sulla base di ben altre fonti, a partire dalle dichiarazioni – attendibili – di Giovanni Brusca sul cosiddetto “papello”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
In realtà, non vi fu alcuna accelerazione della strage di via D’Amelio, o, almeno, non nel senso in cui l’ha intesa il giudice di prime cure: e cioè come se uno specifico evento, che la sentenza individua appunto nella sollecitazione ad avviare un eventuale negoziato, fosse sopravvenuto medio tempore tra le due stragi a sconvolgere la scaletta del programma criminoso di Riina.
Come s’è visto, è possibile, ma tutt’altro che provato con certezza, che il capo di Cosa nostra abbia avuto sentore dell’iniziativa dei carabinieri de Ros e ne abbia subito compreso le finalità (quelle, s’intende, fatte credere anche a Vito Ciancimino nella prima fase della “collaborazione” intrapresa con gli stessi Carabinieri) o ne sia stato compiutamente edotto già prima della strage di via D’Amelio, ma comunque quando quest’ultima era già in itinere anche nella sua concreta esecuzione.
Quand’anche così fosse, egli avrebbe persistito nei suoi piani, traendone anzi incoraggiamento e predisponendosi alla formulazione di specifiche richieste, che, proprio in quanto avanzate dopo che Cosa nostra aveva dato l’ennesima prova della sua terrificante potenza, dovevano intendersi come condizione non negoziabile della cessazione della violenza mafiosa.
Da qui la minaccia implicita nella formulazione stessa di quelle richieste.
La sconfessione della tesi dell’accelerazione della strage Borsellino non fa dunque venir meno la prova che Riina non soltanto accolse la “sollecitazione al dialogo”, ma concretizzò la sua risposta con la formulazione di specifiche richieste. Tale prova si raggiunge infatti aliunde, e cioè sulla base di ben altre fonti che non l’illusorio riscontro logico che si vorrebbe desumere dalla presunta accelerazione della strage di via D’Amelio.
L’ATTENDIBILITÀ DI BRUSCA
[…] Il nucleo portante della prova anzidetta è costituito dal riscontro incrociato delle propalazioni di Brusca con la “narrazione” della trattativa Ciancimino-Ros, avuto riguardo ai contenuti e ai tempi di svolgimento che essa avrebbe avuto nella prima fase della collaborazione che l’ex sindaco di Palermo intraprese con i carabinieri nell’estate del ‘92, fino alla sua brusca interruzione, cui sarebbe poi seguita una seconda fase contrassegnata da un drastico mutamento di spartito (nei termini e nelle finalità della collaborazione predetta).
Ed invero, questa corte ritiene di dover condividere la valutazione del giudice di prime cure secondo cui le propalazioni di Giovanni Brusca sulla vicenda del “papello”, al netto delle ondivaghe dichiarazioni sulla datazione dei colloqui con Riina vertenti su tale tema, sono pienamente credibili.
In più d’uno dei passaggi motivazionali, la sentenza mette in guardia sulla necessità di vagliare con estrema cautela le dichiarazioni di Brusca. E non solo per il pregiudizio normativo legato allo status del dichiarante, che era imputato per gli stessi fatti su cui vertevano le sue dichiarazioni.
Ma anche perché alle ombre residuate dal faticoso percorso collaborativo segnato da dichiarati tentativi iniziali di depistaggio (sia pure in relazione a specifiche vicende del tutto estranee ai fatti per cui qui si procede) si aggiungono, e questa volta in relazione alla materia di questo processo, talune incongruenze e soprattutto mutamenti di versione: nel quadro, aggiungiamo, di una generale propensione a rimodulare le proprie propalazioni a seconda delle emergenze processuali — e dei contesti processuali in cui è stato esaminato — e della difficoltà di secernere ciò che è frutto di sue originarie conoscenze, acquisite nel corso della sua militanza criminale, da notizie, informazioni e acquisizioni sedimentate nei tanti processi in cui è stato chiamato a riferire.
Per non parlare dell’inevitabile contaminazione dovuta sia al risalto mediatico di alcune delle vicende oggetto delle sue propalazioni, sia agli inevitabili e talora inconsapevoli “aggiustamenti” operati a seguito delle tante contestazioni che gli sono state mosse nei vari processi, incluso il presente giudizio.
E un’ulteriore insidia che ricorre nelle sue propalazioni sta nel fatto che Brusca non resiste alla tentazione di arricchire la narrazione di ciò che sa con deduzioni e collegamenti più o meno plausibili tra gli avvenimenti di cui è a conoscenza: come quando presume che vi possa essere stata un’accelerazione della strage Borsellino deducendolo dall’ordine di sospendere l’attentato a Mannino o dall’essere lo stesso Borsellino come del resto anche Falcone un ostacolo da eliminare se si voleva sperare di raggiungere l’obbiettivo cui stragi e delitti eclatanti erano finalizzati.
O come quando, venuto a sapere della trattativa di Ciancimino con i carabinieri del Ros, la ricollega non solo alle rivelazioni di Riina sul papello, ma anche a quanto riferitogli anni dopo da Spatuzza Gaspare a proposito del fatto che a dire di Matteo Messina Denaro obbiettivo del progettato attentato allo stadio Olimpico di Roma erano proprio i carabinieri, protagonisti di quella trattativa non andata a buon fine, ed anzi valutata quasi alla stregua di una presa in giro. E via discorrendo.
La Corte d’Assise di primo grado non manca del resto di annotare scrupolosamente, punto per punto (v. pagg. 16 17-1626) le difformità e le discrasie tra le dichiarazioni rese nel tempo — e nei vari processi — da Brusca emerse attraverso il fuoco di fila di contestazioni che ne hanno contrappuntato il contro-esame cui è stato sottoposto all’udienza del 12.12.2013.
E tuttavia deve darsi atto, come puntualmente rammentano i giudici di primo grado, che «in molti altri processi già conclusi con sentenze irrevocabili è stata riconosciuta l'importanza e la rilevanza del contributo fornito dal Brusca per la ricostruzione di vicende delittuose e per l’individuazione dei relativi responsabili (tanto che al detto odierno imputato è stata in molte occasione formalmente riconosciuta la circostanza attenuante speciale della collaborazione)»; e che proprio nel presente processo sono stati acquisiti i due straordinari e imprevedibili riscontri alle dichiarazioni di Brusca, che la sentenza richiama (alle pagg. 1629-1632) con riferimento alle intercettazioni ambientali delle conversazioni di Riina con il co-detenuto Lo Russo.
Anche se, giusta le diverse conclusioni cui questa Corte è pervenuta sul tema della presunta accelerazione della strage di via D’Amelio, il primo dei due “riscontri” degrada al più a indiretta conferma della decisione di Riina di dare precedenza assoluta, sul piano operativo, all’esecuzione della strage predetta rispetto a qualsiasi altro progetto di attentato, ancorché in itinere.
LE DICHIARAZIONI SUL “PAPELLO”
Ma per ciò che concerne la vicenda del papello, deve convenirsi che il nucleo sostanziale del racconto che Brusca ne ha fatto, al netto come già rammentato delle oscillazioni sulle date, non è mai mutato, nel corso degli anni e nelle varie sedi processuali in cui è ritornato su tale tema, ricalcando sempre lo stesso canovaccio, fin dalle dichiarazioni rese nella fase iniziale della sua collaborazione, ossia negli interrogatori resi nell’agosto e nel settembre del ‘96.
Egli ha sempre parlato di due distinti approcci al tema della “trattativa”, intendendo per tale quella che i vertici di Cosa nostra intesero avviare ed effettivamente avviarono nell’estate del ‘92, attraverso la mediazione di Vito Ciancimino (e di Antonino Cinà) con coloro che ritenevano essere emissari dello stato. Due approcci che si rispecchiano in un unico colloquio o in due distinti colloqui che Brusca (nell’interrogatorio del 14 agosto’96 aveva parlato di un unico colloquio, mentre nelle dichiarazioni successive riferirà di due distinti colloqui) avrebbe avuto a quattr’occhi con Riina, nel contesto di altrettante riunioni di capi mandamento.
E in entrambe le occasioni sarebbe stato Brusca a prendere l’iniziativa, sollecitando Riina ad aggiornarlo sugli sviluppi della situazione, in quanto desideroso di sapere se la strategia che avevano varato e cominciato a mettere in atto di attacco frontale allo stato stesse dando i frutti sperati. E non è un dettaglio secondario che Brusca abbia sempre detto di essere stato lui ad affrontare il discorso con il capo di Cosa nostra, poiché ciò vale a neutralizzare un’ovvia obbiezione che le più avvedute tra le argomentazioni difensive non hanno mancato di sollevare: come mai di una questione di tal rilievo strategico e che sicuramente doveva stare a cuore di tutti i capi mandamento, non si discusse apertamente nel corso delle riunioni a margine delle quali Brusca colloca i colloqui che dice di avere avuto personalmente con Riina?
A tale obiezione in effetti Brusca ha replicato che non può né affermare né escludere che anche gli altri capimandamento fossero stati a loro volta informati sull’andamento della situazione per ciò che concerneva i contatti riservati con i presunti o sedicenti emissari dello stato, giacché era lo stesso Riina a decidere se e cosa comunicare agli altri capi mafia. Al dibattimento ha aggiunto che Riina gli disse, quando già lui sentiva l‘odore che poteva essere tratto in arresto, che della questione del papello, così come dei piani o delle attività che lo stesso Riina aveva in quel frangente temporale, erano al corrente Salvatore Biondino e Matteo Messina Denaro.
Ma proprio il carattere estremamente riservato di quei contatti e la delicatezza della questione, unitamente all’incertezza sull’esito della trattativa, rende più che plausibile che Riina ne avesse messo a parte solo i capi a lui più vicini e fedeli, evitando di discuterne apertamente, sia pure nell’ambito di riunioni ristrette, come tutte quelle susseguitesi dopo l’ultima riunione “plenaria” della Commissione provinciale, che, come Brusca ha ribadito al dibattimento, fu, per quanto a sua conoscenza, quella tenutasi alla fine del ‘91.
L’ACCETTAZIONE DELLA TRATTATIVA
Venendo al merito della vicenda, tre sono i momenti che scandiscono il contenuto del report complessivo che Brusca avrebbe ricevuto da Riina sulla vicenda del papello: 1) c’erano stati dei contatti con soggetti presentatisi come emissari delle Istituzioni, anche se Riina non gli precisò di chi si trattasse («Si sono fatti sotto...»), i quali avevano chiesto cosa volesse Cosa nostra per finirla, con tutta quella violenza («Cosa vuoi per finire queste cose?»); 2) Riina aveva risposto presentando un pacchetto cospicuo di richieste, confidando nel loro accoglimento; 3) le richieste non erano state accolte perché ritenute eccessive («...Riina mi disse di avere fatto un papello di richieste, ma che la risposta era stata negativa, erano troppe...»).
E questa è sostanzialmente la versione che ritorna nelle dichiarazioni rese anche nel presente processo. Ed è di tutta evidenza come la scansione predetta combacia perfettamente con i contenuti e l’andamento dei contatti instaurati dai carabinieri del Ros nell’estate del ‘92 con Vito Ciancimino, fino alla brusca rottura che sarebbe intervenuta quando Mori e De Donno alla richiesta di Ciancimino di scoprire le carte e dire cosa offrissero (in cambio della cessazione delle stragi), risposero con una proposta “irricevibile” (qual era la consegna dei capi di Cosa nostra e dei latitanti più pericolosi).
Sicché tra le due vicende non c’è soltanto una corrispondenza cronologica e una generica similarità ma una totale sovrapposizione, avuto riguardo soprattutto al senso della proposta che era stata fatta inizialmente a Ciancimino e al successivo svolgimento della vicenda.
Infatti, furono i carabinieri ad assumere l’iniziativa, presentandosi a Ciancimino come emissari di un’autorità istituzionale loro sovraordinata: o almeno questo è ciò che gli lasciarono intendere. E si presentarono come latori di una proposta il cui senso, come declinato nelle parole di Mori («Ma signor Ciancimino, ma cos‘è questa storia qua? Ormai è muro contro muro.
Da una parte c‘è Cosa nostra, dall‘altra parte c‘è lo stato? Ma non si può parlare con questa gente?») e nelle ulteriori esplicitazioni di De Donno (al processo di Firenze, udienza 24.01.1998, ma anche Mori/Obinu, udienza 8.03.2011, pag. 93-94: “Gli proponemmo a Ciancimino di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell‘organizzazione mafiosa Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di questa attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello stato. E Ciancimino accettò”) corrispondeva esattamente al tenore della richiesta che, a dire di Brusca, era pervenuta a Riina da parte di non meglio precisati emissari istituzionali (“...«cosa vuoi per finire queste cose?»....; frase confermata anche in sede dibattimentale: “...«Per finirla cosa volete in cambio?»....”). E la proposta, recepita in quegli stessi termini dai vertici mafiosi, fu accettata, secondo quanto Brusca dice di avere appreso da Riina: esattamente come Vito Ciancimino riferì ai carabinieri dicendo loro che i suoi interlocutori avevano accettato la “trattativa” («Guardi, quelli accettano la trattativa»).
Brusca non ha mai detto di sapere che i misteriosi emissari di cui gli aveva parlato Riina fossero dei Carabinieri; anzi ha detto l’esatto contrario. Fino al (primo) processo di Firenze, sulle stragi in continente ha sempre dichiarato che Riina non gli svelò l’identità dei misteriosi emissari; ed anche successivamente ha dichiarato di avere appreso solo dalla lettura di un articolo di cronaca pubblicato su La Repubblica che si trattava dei carabinieri: o meglio, in quell’articolo (che per inciso è stato acquisito) si parlava dei contatti dei carabinieri del Ros con Ciancimino e si facevano anche i nomi di Cinà, Mori e De Donno.
E lui ricollegò quelle notizie alla vicenda del papello di cui gli aveva parlato Riina. Ed ha aggiunto che mai avrebbe immaginato che gli emissari istituzionali con i quali in sostanza Riina aveva trattato per conto di Cosa nostra fossero dei carabinieri; aveva sempre ritenuto che potesse trattarsi di esponenti politici, magari proprio quelli che in precedenza avevano contattato lo stesso Riina, proponendosi come referenti al posto di Lima .
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Cosa nostra trattò, ma con i capi del Ros e mai con lo stato. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domaniil 20 novembre 2022
Ciò che conta, ai fini del presente giudizio è la prova che Riina colse l’occasione che gli si era offerta dell’apertura di un canale di comunicazione con quelli che riteneva essere emissari dello Stato per far sapere — e per dettare - le condizioni poste da Cosa nostra per interrompere la campagna stragista. Ebbene quella prova, a parere di questa corte, è stata in effetti raggiunta.
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Lo stupore di Brusca è un elemento che denota la sincerità anche delle pregresse dichiarazioni, che, come puntualmente annota la sentenza appellata, furono rese quando effettivamente Brusca ignorava che tra coloro che si erano fatti sotto v’erano i Carabinieri.
Il racconto primigenio del papello non è quindi ritagliato sulla conoscenza che solo in seguito si ebbe della interlocuzione avviata con Ciancimino da Mori e De Donno, che ne parlarono per la prima volta in pubblico dibattimento alla fine di gennaio del 1998, e Mori, prima ancora, nelle dichiarazioni rese alla procura di Firenze (1° agosto 1997) e alla procura di Caltanissetta (23 settembre 1997): dichiarazioni, queste ultime, consacrate in verbali ai quali vennero allegate altrettante copie del memoriale in cui lo stesso Mori ha fornito la sua versione dei fatti, quanto ai contatti intrapresi con Ciancimino e alla loro evoluzione fino all’arresto intervenuto il 19 dicembre.
Quei verbali avrebbero dovuto restare riservati, ma qualcosa era trapelato, a giudicare dall’articolo di Francesco Viviano citato da Brusca. Ma è innegabile che le prime dichiarazioni di Brusca precedono il memoriale Mori e ogni possibile indiscrezione sulle dichiarazioni di quest’ultimo alla procura di Firenze e alla procura di Caltanissetta.
E la corrispondenza tra la vicenda evocata da Brusca e la narrazione della “trattativa” Ciancimino-Ros non si ferma qui. Essa riguarda anche l’interruzione della presunta trattativa. Secondo quanto Brusca dice di avere appreso dalla viva voce di Riina, la risposta alle sue richieste non era stata quella sperata: le richieste erano state respinte perché ritenute eccessive.
E tuttavia la partita non era definitivamente chiusa, perché quella risposta non escludeva la possibilità di proseguire il dialogo su basi negoziali diverse (ovvero, ridimensionando le pretese di Cosa nostra). Tant’è che, sempre secondo il racconto di Brusca, lo stesso Riina ritenne utile, per sbloccare la situazione di stallo in cui versava, dare un altro “colpetto” per indurre i riluttanti emissari delle Istituzioni a tornare al “tavolo dei negoziati”.
UNA “TRATTATIVA” INTERROTTA PER RICHIESTE RITENUTE ECCESSIVE
Ebbene, è proprio questo lo scenario che sembra intravedersi in controluce alla narrazione da parte di Mori e De Donno e dello stesso Ciancimino circa l’interruzione della trattativa seguita all’irricevibile proposta avanzata dai carabinieri.
Tutti e tre convennero che Ciancimino non poteva trasmettere quel tipo di proposta ai suoi referenti mafiosi; e quindi concordarono di far sapere che la trattativa doveva intendersi congelata, ma in modo da lasciare aperto uno spiraglio alla possibilità di riprendere il dialogo.
È quindi del tutto plausibile che la risposta pervenuta a Riina, opportunamente “filtrata” da Vito Ciancimino, fosse stata nel senso che le sue richieste erano state ritenute eccessive; e che, conseguentemente, la trattativa non era definitivamente chiusa, ma solo sospesa, in attesa di rinegoziare i termini di un possibile accordo (cfr. De Donno: «Quindi lasciammo cadere la cosa, però lasciammo aperta la porta a questo dialogo»).
Deve quindi convenirsi con l’apprezzamento espresso dal giudice di prime cure, secondo cui l’anteriorità delle rivelazioni di Brusca sul “papello” rispetto alla divulgazione delle notizie sulla trattativa Ciancimino-Ros e l’originalità del loro contenuto in un momento in cui la vicenda non aveva assunto il risalto anche mediatico che solo diversi anni dopo avrebbe avuto non può che avvalorarne l’attendibilità.
E deve aggiungersi che le due narrazioni, dunque, combaciando nei loro contenuti salienti, e non soltanto nella corrispondenza cronologica, si riscontrano vicendevolmente, posto che esse traggono origine da fonti di conoscenza del tutto autonome e non sospettabili di reciproca contaminazione.
Brusca racconta che Riina fu raggiunto da una sollecitazione ad avviare un dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi emissari dello stato e decise di raccogliere tale sollecitazione che del resto realizzava uno degli obbiettivi della guerra che aveva scatenato contro le Istituzioni. E lo dichiara, ignorando che in quell’interlocuzione erano coinvolti i carabinieri, con largo anticipo rispetto a quando filtrano le prime indiscrezioni sui contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino.'
E come puntualmente rilevato dal primo giudice, dalla Nota a firma del Generale Mori, datata 25 gennaio 1998, indirizzata ai Comandi Provinciali dei Carabinieri di Roma e Palermo per sollecitare gli opportuni adempimenti a tutela dell’incolumità di Vito Ciancimino e dei suoi familiari prova inequivocabilmente che, fino a quando Mori e De Donno non ne parlarono espressamente e in pubblico dibattimento all’udienza del 24 gennaio 1998 del processo di Firenze sulle stragi in continente, la notizia della “trattativa” tra Ciancimino e il Ros non era affatto di dominio pubblico.
D’altra parte, l’ex sindaco di Palermo, già nell’interrogatorio reso il 17 marzo 1993, aveva dichiarato - non potendo certo immaginare che tre anni dopo Giovanni Brusca avrebbe parlato in termini analoghi di un’interlocuzione avviata tra Riina e non meglio precisati emissari delle Istituzioni – che “l’altra sponda”, cioè i vertici mafiosi, contattati attraverso il dottore Antonino Cinà, avevano accettato la proposta di avviare un dialogo che, nelle parole di De Donno, era finalizzato proprio a trovare un punto d’intesa per far cessare la violenza stragista.
E Mori e De Donno a loro volta si sono detti certi che Ciancimino non avesse mentito, nel senso che era effettivamente riuscito a contattare i vertici mafiosi come gli era stato chiesto, anche se loro stessi non lo avevano creduto capace di tanto, ancorando tale certezza non già ad una mera deduzione (come vorrebbe la difesa dell’imputato Cinà), ma ad un dato estremamente tangibile e da loro percepito con assoluta immediatezza: la reazione violenta, in un mix di ira e di paura, opposta dal Ciancimino nel sentire la proposta irricevibile che, gettando la maschera, si era determinati a fargli.
NARRAZIONI DIVERGENTI
Ma su un punto le due “narrazioni” sembrano divergere. Un punto che riveste particolare importanza per l’accertamento dei fatti, perché attiene alla prova che Riina non soltanto fu raggiunto dalla sollecitazione al dialogo, ma accettò la proposta di “trattativa” - in tali termini quella sollecitazione gli fu trasmessa da Ciancimino per il tramite di Cinà — avanzando una serie di specifiche richieste (il “papello” di cui parla Brusca).
Infatti, Ciancimino sul punto si è limitato a dichiarare — e a scrivere — che la trattativa si interruppe bruscamente non appena Mori alla sua richiesta di scoprire le carte e dire cosa avessero da offrire in cambio della cessazione delle stragi, rispose con un’intimazione, e cioè la consegna dei latitanti, accompagnata dall’offerta di trattare bene le famiglie dei latitanti mafiosi che si fossero consegnati alla giustizia (si tornerà in proseguo su alcune discrasie tra le versioni rese al riguardo dai tre protagonisti di quella surreale interlocuzione).
Ciancimino non ha mai parlato — o scritto — di avere ricevuto da Riina particolari istruzioni o richieste da rappresentare alla controparte, ma solo di avere ricevuto una piena delega a trattare. E comunque sul punto gli si è usata, da parte di chi lo interrogava (rectius, da parte di chi si limitò a raccoglierne le dichiarazioni) la cortesia di non insistere più di tanto per averne i dovuti chiarimenti.
Mori e De Donno invece in più sedi hanno escluso di avere mai ricevuto da Ciancimino un documento contenente richieste provenienti dai vertici di Cosa Nostra; così come hanno escluso che lo stesso Ciancimino gliene avesse mai fatto il minimo cenno. Il loro assunto è che non si arrivò neppure a discutere di possibili condizioni “negoziali”, anche perché essi non avevano avuto alcuna autorizzazione a negoziare e mai era stata loro intenzione negoziare alcunché.
Naturalmente ogni dubbio sarebbe frugato se potesse credersi all’autenticità del documento che fu consegnato da Massimo Ciancimino, a margine di uno dei tanti interrogatori, contenente un’elencazione di richieste (in effetti omogenee, almeno alcune, a quelle di cui è traccia nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che hanno riferito delle principali questioni che all’epoca stavano a cuore di Riina e dei Brusca, Cancemi, Giuffré, Naimo, Lipari).
Ma se non vi sono elementi che ne provino la falsità, neppure ve ne sono che comprovino la sua autenticità. Anzi, il fatto stesso che a “garantirla” sia una fonte inaffidabile come Massimo Ciancimino è un elemento che impone ex se di elevare a sospetto l’autenticità di quel documento. E Massimo Ciancimino ci ha aggiunto del suo per avvalorare il sospetto che si tratti di un artefatto, tanto contorte, involute e contraddittorie sono le dichiarazioni che ha reso su modalità e circostanze in cui sarebbe venuto in possesso del documento in questione.
C’È LA PROVA DEL DIALOGO COSA NOSTRA-ROS
In realtà, come giustamente chiosa la sentenza appellata, poco importa che Riina avesse recapitato a Ciancimino un documento del tipo di quello prodotto dal figlio Massimo; o che si fosse limitato a fargli avere precise istruzioni e indicazioni su cosa chiedere per conto di Cosa Nostra; o che le sue indicazioni siano state da altri annotate in un appunto scritto, e magari dallo stesso Vito Ciancimino, una volta edotto (dall’ambasciatore Cinà) su quali fossero i “desiderata” di Riina.
Ciò che conta, ai fini del presente giudizio, è la prova che Riina colse l’occasione che gli si era offerta dell’apertura di un canale di comunicazione con quelli che riteneva essere emissari dello stato per far sapere — e per dettare - le condizioni poste da Cosa Nostra per interrompere la campagna stragista, facendo pervenire le sue richieste a Ciancimino in risposta alla sollecitazione al dialogo proveniente dai Carabinieri. E poco importa che fossero condensate proprio nel “papello” consegnato da Massimo Ciancimino o in altro documento (mai rinvenuto) di analogo tenore; o che fossero semplicemente appuntate in un foglio o che fossero state trasmesse oralmente a Ciancimino e poi da questi annotate per iscritto anche come pro-memoria.
Ebbene quella prova, a parere di questa Corte, è stata in effetti raggiunta, attraverso un variegato coacervo di fonti e di elementi che corroborano l’attendibilità delle rivelazioni di Giovanni Brusca.
SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La misteriosa cattura di Totò Riina e la spaccatura nella Cupola. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 21 novembre 2022
E Bernardo Provenzano manifestò tutto il proprio dissenso sull’opportunità di proseguire sulla linea stragista. Fu allora che Leoluca Bagarella lo avrebbe schernito: «Ti metti un cartellone così, prendi un pennello e gli scrivi: “Io non so niente”»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Scorrendo il compendio scrutinato dal giudice di prime cure, soccorrono anzitutto le dichiarazioni rese dal generale Cancellieri (comandante della regione carabinieri Sicilia) nel corso della conferenza stampa seguita alla cattura di Riina il 15 gennaio 1993.
Si è accertato, attraverso la deposizione dello stesso Cancellieri, che questi, del tutto ignaro all’epoca dei contatti che gli ufficiali del Ros avevano instaurato con Vito Ciancimino, in buona sostanza si limitò a riportare il contenuto degli appunti che erano stati predisposti dal Col. Mori; né il relativo testo era stato minimamente concordato con i magistrati presenti (incluso il nuovo procuratore capo di Palermo).
E quindi, è farina esclusiva del sacco di Mori anche l’esplicita attribuzione a Riina del disegno di indurre lo stato a trattare: un proposito criminoso di cui lo stesso Mori aveva potuto avere contezza grazie e in esito ai contatti con Vito Ciancimino, e all’interlocuzione per suo tramite avviata con i vertici dell’organizzazione mafiosa.
Da Ciancimino, infatti, il Col. Mori aveva ricevuto la conferma dell’interesse di Riina a “trattare” (“Guardi quelli accettano la trattativa”). Ma ciò non sarebbe bastato per attribuire con tale certezza a Riina il proposito criminale (“... un piano anche, chiamiamolo in termini militari, strategico.... di mettere in discussione l'Autorità Istituzionale”) di indurre lo stato a piegarsi alla violenza mafiosa, facendo inaccettabili concessioni, e cosi barattando la propria autorità in cambio della cessazione della minaccia all’incolumità pubblica (“Quasi a barattare, o istituire una trattativa per la liquidazione di una intera epoca di assassini, di lutti, di stragi in tutti i settori della vita nazionale”).
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