Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Rosario Livatino.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        E’ Stato la Mafia.

Paolo Cirino Pomicino per Dagospia il 19 settembre 2022.  

La storia di Scarpinato è lunga. Dopo il processo Andreotti, Scarpinato ha sfiorato il processo Mannino e poi la famosa trattativa Stato- mafia, processi entrambi risoltisi con una sconfitta della procura di Palermo che ha speso soldi e tempo per indagare sostanzialmente innocenti e che ha dovuto subire, in qualche caso, anche parole sprezzanti da diversi collegi giudicanti ed in particolare dalla suprema corte di cassazione. Eppure, insieme a Nino di Matteo, oggi che è a riposo Roberto Scarpinato continua a parlare ancora di mandanti oscuri, di ombre potenti che avrebbero coltivato questa fantomatica trattativa tra lo Stato e la Mafia.

Il mondo di Scarpinato ieri attaccava Giovanni Falcone, qualche volta anche in diretta televisiva, mentre oggi ne esalta la memoria così come fanno i rappresentanti del vecchio PCI che ricordano con enfasi Falcone e Borsellino mentre in Parlamento votavano contro tutti i provvedimenti adottati dal governo Andreotti per sconfiggere la mafia suggeriti proprio da Falcone. La disastrosa politica politicante.

La curiosità, però, non si limita alla figura di Roberto Scarpinato ma si estende anche alla sua gentile consorte, Teresa Principato, anch’essa PM nella più autorevole procura d’Italia secondo i mafiologi di turno. La trasmissione “Report” evidenziò qualche tempo fa una strana vicenda. La Principato aveva chiuso nella sua cassaforte un computer in cui erano registrati tutti i file sulle indagini a carico di Matteo Messina Denaro, comprese le registrazioni dei pentiti e le intercettazioni. 

Insomma l’intero patrimonio di notizie che, presumiamo, non avessero copie, per proseguire le indagini sul capo mafioso latitante da decenni. La cassaforte aveva due sole chiavi, una in possesso della Principato e l’altra del suo assistente il finanziere Pulici. Quest’ultimo fu processato ed assolto mentre nessuno si permise neanche di pensare ad una distrazione della Principato. Una sorta, insomma, di “noblesse oblige”. Ed allora chi prese tutto quel ben di Dio di notizie su Matteo Messina Denaro?

Forse la fata turchina o forse quelli che hanno, diciamo, occultato i rapporti tra Scarpinato e Antonello Montante (condannato a 8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione), rapporti puntualmente registrati da quest’ultimo e custoditi in una sua villa poi perquisita e oggi in possesso della procura di Palermo (Renzi lo ha ricordato). 

Capita a tutti qualche distrazione, qualche amicizia pericolosa ed in molti casi arriva appunto la fata turchina con sembianze umane che provvede a far scomparire tutto. In qualche caso anche la memoria! Potremmo aggiungere ancora qualcosa sulla famiglia Scarpinato ma scadremmo nel pettegolezzo mentre registriamo che in aggiunta al PD è arrivato anche Conte ed il suo Movimento che hanno cominciato a reclutare pubblici ministeri a riposo mentre noi aspettiamo da tempo e con indomita speranza che ci sia qualcuno che volendo reclutare un magistrato tra i propri parlamentari scelga finalmente un magistrato giudicante. Come si vede il peggio non ha mai fine.

Roberto Scarpinato, il grillino che faceva affari col condannato per mafia. Paolo Ferrari su Libero Quotidiano il 21 settembre 2022

Volano gli stracci fra Matteo Renzi e Roberto Scarpinato. Il motivo? I rapporti fra l'ex procuratore generale di Palermo, ed ora candidato di punta del M5S gestione Giuseppe Conte, con Antonello Montante, ex potentissimo presidente della Confindustria siciliana, condannato in appello ad 8 anni di carcere per associazione mafiosa. La vicenda, riportata nel libro intervista "Lobby e Logge" scritto dall'ex capo dell'Anm Luca Palamara con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, è tornata d'attualità l'altro giorno durante un incontro elettorale del leader di Italia Viva nel capoluogo siciliano. Nel libro, l'ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati aveva rivelato che quando era al Csm si sarebbe attivato il piano "salviamo il soldato Scarpinato". Tutto ebbe inizio in occasione dell'arresto di Montante, ufficialmente un paladino della lotta alla mafia. Durante la perquisizione a casa dell'imprenditore siciliano, erano stati infatti rinvenuti alcuni documenti da cui emergevano suoi rapporti molto intensi con Scarpinato, come diverse 'richieste' da parte di quest' ultimo.

MAPPE E NOMINE

In particolare, un appunto datato 3 maggio 2012 con la dicitura: «Scarpinato mi consegna composizione del Csm con i suoi iscritti per nuovo incarico, procura generale Palermo più Dna». L'appunto era una "mappetta" disegnata della sala del Plenum del Csm a Palazzo dei Marescialli con sopra indicati, in maniera assai precisa, i nomi dei vari componenti, laici e togati, e la loro rispettiva appartenenza politica o di corrente. Le successive attività per capire come mai un magistrato antimafia come Scarpinato si fosse rivolto ad un soggetto esterno alla magistratura per una nomina, si erano poi concluse senza addebiti nei confronti del diretto interessato. «Insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall'ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati», la replica al vetriolo di Scarpinato nei confronti dell'ex collega. Immediata la controreplica di Palamara che aveva invitato Conte a chiarire i suoi rapporti con il faccendiere, poi arrestato e coinvolto nelle trame di Piero Amara, Fabrizio Centofanti. La querelle Renzi-Scarpinato fa comunque tornare alla mente una interrogazione parlamentare del 1999 presentata dall'allora forzista Filippo Mancuso. All'epoca Palamara non c'era. 

RELAZIONE DETTAGLIATA

Scarpinato, raccontò Mancuso, aveva venduto ad una società siciliana che era rappresentata dalla signora Rosaria Di Grado, moglie del boss mafioso Salvatore Fauci, un immobile della propria famiglia. Lo aveva venduto per la somma esorbitante di quasi 700 milioni, quando ne valeva 300. Un immobile in Sciacca che oggi «è assolutamente abbandonato e da nessuno frequentato», disse Mancuso. E Fauci «era ben noto a Scarpinato, perché quest' ultimo, nel 1992, ne aveva chiesto il proscioglimento». Nel 1996, anno della compravendita, «Scarpinato, aveva dato atto», mentre gli vendeva l'immobile a caro prezzo, «che Fauci, il suo compratore o comunque il marito della sua acquirente era un mafioso indagato». Mancuso recuperò una relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documentava che il compratore o il marito della compratrice di Scarpinato «era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!». 

La vecchia interrogazione sul candidato 5 stelle. Chi è Roberto Scarpinato, il pm grillino integerrimo che vendeva casa ad un imputato. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

Pare che la notizia sia antica. Però nessuno la conosceva, e quando, ieri, me l’hanno portata, non ci credevo. Invece pare che sia tutto verificato. Roberto Scarpinato, fino qualche mese fa Procuratore generale a Palermo (una delle cariche più importanti in magistratura) e ora passato alla politica con il partito dei grillini e di Conte, ed esposto sempre su posizioni assolutamente integerrime, e di denuncia feroce del malcostume e della politica degli occhi mezzi chiusi con la mafia, beh proprio lui, quando già era un Pm molto noto a Palermo, vendette una casa di famiglia, a Sciacca (cittadina di circa 40 mila abitanti, sul mare, in provincia di Agrigento) ad un prezzo esorbitante e ad un acquirente un po’ sospetto.

La casa fu venduta per circa 700 milioni – scrisse all’epoca l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso – mentre – sempre secondo Mancuso, sul mercato non valeva neanche la metà di quei soldi. Fu un gran bell’affare. L’acquirente era stato processato per mafia, e questo Scarpinato lo sapeva. Si dice che l’acquirente fosse molto vicino ai Siino. Chi era Siino? veniva chiamato il ministro dell’economia di Riina, si occupava di appalti. Sugli appalti di Siino indagò il colonnello Mori ma poi la sua indagine, avviata da Falcone, fu archiviata, prima che Borsellino potesse prenderla in mano. Fu archiviata da Scarpinato e da un altro magistrato.

Coincidenze, coincidenze, coincidenze. Non è mica vietato vendere la casa a un probabile mafioso. Dov’è il reato? Non venitemi a parlare della solita bufala del concorso esterno in associazione mafiosa, per favore. È un reato che non esiste, lo abbiamo scritto mille volte.

Certo se il protagonista di quella vendita, invece di Scarpinato, fosse stato un deputato del centrodestra, o anche del centrosinistra, la Procura avrebbe aperto una indagine. Ma non era un deputato, il protagonista, e non ci fu indagine. Ora il protagonista ha la possibilità di diventare deputato. Tra gli integerrimi 5 stelle.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caso del pm. Quando Scarpinato vendette una casa al doppio del prezzo ad un suo imputato. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

L’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, vuole appendere la toga al chiodo di Palazzo Madama. Candidandolo come paladino dell’Antimafia nella sua Sicilia, il M5s di Giuseppe Conte gli ha promesso (e garantito, da capolista) uno scranno parlamentare. In quel Parlamento il nome di Scarpinato era già entrato, nel 1999. E non esattamente per un encomio. A farlo risuonare fu allora l’ex ministro della giustizia Filippo Mancuso che dai banchi dell’opposizione, dove sedeva per Forza Italia, indirizzò una circostanziata interrogazione al Governo.

L’atto di sindacato ispettivo partiva da un articolo pubblicato dal Velino il 26 ottobre di quell’anno. Rendeva noto un fatto che il ministro guardasigilli Oliviero Diliberto non ebbe modo di smentire nel merito. Scriveva Mancuso: «…Nel mirino degli investigatori c’è la vendita, fatta il 30 agosto del 1996, di un immobile a Sciacca e del quale Scarpinato Roberto, (al tempo, ndr) sostituto nella procura di Palermo, era comproprietario con la sorella Lidia Maria Giulia e altri parenti. La casa fu venduta per 690 milioni a una società, la Cesa, di cui è socia accomandataria gerente la signora Rosaria Di Grado. La signora Di Grado è la moglie di Salvatore Fauci, uno dei maggiori imprenditori siciliani specializzato nella produzione di laterizi. L’imprenditore, nel 1992, fu indagato dalla procura della Repubblica di Palermo assieme a decine di altri imprenditori in seguito al dossier De Donno sui rapporti tra mafia, politica e appalti. Attenzione: parliamo di Mafia e Appalti, l’inchiesta proibita costata qualche carriera e forse più d’una vita.

Occhio alle date che concatenano i tratti ora salienti, ora drammatici, di quella nefasta stagione del 1992: il 23 maggio la strage di Capaci uccide Giovanni Falcone, che insieme a Paolo Borsellino stava concentrando il lavoro su Mafia e Appalti. Il 13 luglio i pm di Palermo, Scarpinato e Lo Forte, chiedono l’archiviazione dell’inchiesta Mafia Appalti. Il 19 luglio il giudice Paolo Borsellino muore in un agguato sotto casa della madre, in via D’Amelio. Il 14 agosto viene concessa – con inusuale solerzia, alla vigilia di Ferragosto – l’archiviazione definitiva dell’indagine. E torniamo al 1992 con il documento agli atti parlamentari. Scriveva ancora l’ex magistrato Filippo Mancuso: «Nel 1992, comunque, la posizione di Fauci fu archiviata con decisione firmata dall’allora procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, dall’aggiunto Guido Lo Forte e da, appunto, Roberto Scarpinato. Il fatto di cui sopra non risulta finora in alcun modo smentito e, nella parte riguardante i menzionati magistrati, appare di notevole gravità sotto l’aspetto deontologico e funzionale». Fin qui i fatti riportati alla Camera dei Deputati.

Leggiamo il resoconto stenografico depositato a Montecitorio, perché nell’archivio documentale delle interrogazioni parlamentari il testo a oggi non appare leggibile. Chiese allora Mancuso al ministro Diliberto: «Chiedo di sapere quali iniziative di propria competenza intenda promuovere nei confronti dei magistrati che, in questa vicenda, siano coinvolti o in prima persona o come titolari dei doveri di vigilanza e/o disciplinari, a tutt’oggi trascurati». L’allora ministro della Giustizia del governo D’Alema rispose senza eccepire i fatti, ma decise di non dover procedere. La replica di Diliberto: «Dalla documentazione acquisita dal procuratore generale, dal procuratore della Repubblica di Palermo, nonché dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta, emerge in primo luogo che il dottor Scarpinato era nudo comproprietario per un sesto indiviso di un immobile a Sciacca pervenutogli in eredità dalla madre nel 1992. (…) Alla vendita per 690 milioni si provvide tramite una delle agenzie originariamente incaricate. Il dottor Scarpinato non partecipò alle trattative, ma alla stipula dell’atto, ovviamente, avvenuta nell’agosto 1996. Ad acquistare l’immobile fu la società Cesa di Di Grado Rosaria, moglie di Salvatore Fauci, già indagato in un procedimento instaurato a seguito di una informativa dei carabinieri del 1991 e alla trattazione del quale il dottor Scarpinato era stato designato nel maggio del 1992 con altri sette componenti del cosiddetto pool antimafia. Per il Fauci, come per altri venti dei complessivi ventisette indagati, fu chiesta l’archiviazione il 13 luglio 1992 con provvedimento a firma del procuratore Giammanco, del dottor Lo Forte e dello stesso Scarpinato. La richiesta fu accolta dal Gip il successivo 14 agosto».

Due date che coincidono con l’archiviazione di Mafia e Appalti, con lo spegnimento in tutta fretta di quello che era avviato ad essere il motore centrale delle indagini sul sistema corruttivo in Sicilia. Tanto che una parte della magistratura ha deciso di non arrendersi: la Procura di Caltanissetta a fine luglio di quest’anno ha riaperto il filone. Mafia e Appalti aveva messo in luce, tra le altre prime risultanze, il ruolo nevralgico di Angelo Siino: autentico regista degli affari dei Corleonesi, il “ministro dei Lavori pubblici” di Riina era un esperto di aste, gare e appalti. Nel suo sistema aveva previsto che per tutti gli affari conclusi in Sicilia, al “Capo dei capi” doveva essere assegnato lo 0,80%. Oltre a questa, le percentuali che doveva pagare chi otteneva l’appalto erano il 2% per i politici, il 2% per la famiglia mafiosa territorialmente competente e lo 0,50% per i pubblici controllori. Siino venne arrestato nel 1991 e iniziò a collaborare con la giustizia nel 1995; dai verbali dei suoi interrogatori derivano i dettagli sulle percentuali sugli appalti.

È scomparso l’anno scorso. Non potrà quindi dire la sua sulla vicenda di questa compravendita che ha riguardato la proprietà immobiliare del giudice Scarpinato e uno degli uomini ai quali sarebbe stato legato, il re dei laterizi Salvatore Fauci. E non potrà dire la sua Filippo Mancuso, scomparso nel 2011. Le sue ultime parole furono gridate nell’aula di Montecitorio: «Quella che vi sto mostrando è la relazione della procura della Repubblica di Palermo, firmata anche da Scarpinato, che documenta, anzi, come dire, confessa – data la situazione! – che il compratore o il marito della compratrice del pubblico ministero Scarpinato era un mafioso legato ai Siino, braccio destro del famoso Siino!». E concludeva: «Mentre sussisteva tutto questo, il dottor Scarpinato si elevava agli onori degli altari dell’antimafia, con un piglio che è ancora più grave dal punto di vista antropologico che da quello morale: un’indegnità comunque, in ogni caso». La risposta del Guardasigilli provò a dissolvere le ombre: «Nessun addebito di carattere deontologico e funzionale sembra poter essere rivolto al dottor Scarpinato. Peraltro ho provveduto a richiedere informazioni, come dicevo, anche alla procura di Caltanissetta. Questa ha riferito che non esistono indagini aventi ad oggetto il tema dell’interrogazione né alcun organo di polizia ha trasmesso comunicazione di notizia di reato attinente».

Nessun illecito, a parere del Ministro di allora, ma una dinamica tanto discutibile quanto scivolosa. Per la cronaca, stando alle valutazioni di Mancuso: l’immobile di Scarpinato, situato nel comune di Sciacca, pur essendo stato valutato 300 milioni di lire, venne venduto a quasi 700 milioni. Più del doppio del suo valore. Venne comprato dalla moglie di un indagato su cui lo stesso Scarpinato aveva svolto indagini e disposto l’archiviazione quattro anni prima di concludere l’affare. Nel giugno 2014 Siino iniziò a ricordare meglio il ruolo di Fauci: «Pagava il pizzo attraverso fatture gonfiate. Si aumentava il costo delle operazioni contabili, si riscuoteva il relativo importo e la differenza tra il valore reale e quello creato veniva consegnato in contante alla mafia». Fauci nel 2016 verrà condannato in Appello a un anno e mezzo per essere stato “Responsabile di false informazioni ai magistrati con l’aggravante dell’aver agevolato Cosa nostra”. Una storia che ha dell’incredibile, quella della casa di Scarpinato a Sciacca, su cui sarà indispensabile andare a fondo. Ieri lo ha chiesto Luca Palamara, oggi ci torna Matteo Renzi: «Ancora ieri c’è stata una polemica contro di me da parte del M5s e di Scarpinato, magistrato candidato con i grillini. Io vorrei chiedergli: perché invece di insultare me non risponde a Palamara?». Oppure a Filippo Mancuso, venti anni dopo.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Sotto accusa le rivelazioni dell'ex pm. Renzi a Scarpinato: “La lotta alla mafia non è cosa per te”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

“Renzi? Venga qui senza scorta a dire che vuole abolire il reddito di cittadinanza”, ha gridato sabato scorso Giuseppe Conte da un palco siciliano, alla presenza del candidato antimafia’ del M5S al Senato, l’ex procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato. Apriti cielo. La campagna si è infiammata, avvelenata da una intimidazione che ricorda quello degli squadristi: cento anni fa Roberto Farinacci aizzava dal palco con le stesse parole, a suon di minacce cui seguivano puntuali le manganellate ai rivali.

Matteo Renzi ha replicato duramente a Conte: “Un mezzo uomo che parla con un linguaggio da mafioso della politica”. Parole prese in prestito a Leonardo Sciascia che il senatore fiorentino ha scagliato dal comizio fatto proprio a Palermo. Poi il leader di Italia Viva ha rilasciato una intervista al Giornale di Sicilia dai toni altrettanto duri, E se l’è presa anche con Scarpinato. “Non prendiamo lezioni di antimafia da Roberto Scarpinato. Un ex premier che dice che devo andare a Palermo senza scorta non ha alcun senso delle istituzioni, sta istigando alla violenza con un linguaggio politico mafioso e non ha alcun rispetto per gli uomini e le donne delle forze dell’ordine che oggi sono qui a presidiare il territorio perché se qualcuno mi avesse messo le mani addosso lo avrebbe fatto perché sobillato da Conte e tutto il mondo parlerebbe di noi. Quella frase dimostra la statura dell’uomo, meschino e mediocre…”. Botte da orbi. E se l’analisi di Renzi poi va sull’antifona di Conte (“Io non prendo lezioni sulla povertà da Letta e Conte. Per uscire dalla povertà non ci vuole il reddito di cittadinanza, ma un lavoro pagato bene. Con sussidi e assistenzialismo la Sicilia non va da nessuna parte”) è a Scarpinato che il riferimento irriverente brucia di più.

L’ex magistrato, candidato con Conte nel collegio senatoriale Sicilia 1 e in Calabria, si ritrova in un denso passaggio de Il Sistema di Luca Palamara. Cosa rivelò su di lui l’ex capo della magistratura associata? Parlando di pratiche lottizzatorie tra le varie correnti della magistratura nei concorsi per il conferimento degli incarichi di vertice, Palamara ha raffigurato Scarpinato come persona vicina ad Antonello Montante, ex Presidente di Confindustria Sicilia, condannato dalla Corte di Appello di Caltanissetta a otto anni di reclusione per associazione a delinquere finalizzata a vari i reati. Stando al testo dell’ormai celebre libro di Palamara, Scarpinato avrebbe chiesto a Montante, allora particolarmente influente nelle dinamiche siciliane, una segnalazione per essere nominato Procuratore Generale a Palermo.

Scarpinato gli aveva replicato con un lungo articolo pubblicato sul Fatto quotidiano l’11 febbraio 2022, protestando che l’affermazione di Palamara era falsa: non avrebbe mai chiesto alcuna segnalazione a Montante. Le accuse nei suoi riguardi sono gravissime: secondo gli inquirenti, Antonello Montante sarebbe stato a capo di una rete di spionaggio dedita ad acquisire informazioni riservate (anche mediante accessi abusivi alla banca dati SDI delle forze di polizia), ivi comprese quelle riguardanti l’attività d’indagine che si stava svolgendo nei suoi confronti. La Commissione Antimafia dell’Assemblea regionale siciliana ha redatto un corposo documento, chiamato “Il sistema Montante”, che però non ha incluso gli eventuali episodi di contatto intervenuti tra lui e il dottor Scarpinato.

Nella polemica si inserisce Repubblica, che definisce Palamara “fonte (s)qualificata” di Renzi. “Grave che l’articolista abbia omesso di fare una verifica che gli avrebbe consentito di accertare che in realtà la fonte di questi rapporti è un appunto manoscritto rivenuto all’esito di una perquisizione presso l’abitazione del Montante e riferito all’imminente nomina di Scarpinato”. L’ex Procuratore generale di Palermo ieri ha risposto al leader di Italia Viva per le rime: “A pochi giorni dalle elezioni politiche nazionali del 25 settembre, Renzi che sino ad oggi non si era mai occupato della mia persona, ha sferrato un attacco nei miei confronti replicando insinuazioni calunniose e prive di alcun fondamento di Luca Palamara, ex magistrato radiato dall’ordine giudiziario per indegnità e rinviato a giudizio per gravi reati. Renzi è evidentemente preoccupato della costante crescita di consensi del M5S per il quale sono candidato come senatore. Nessuna meraviglia che Renzi non esiti a fare ricorso per biechi calcoli elettoralistici a tali squallidi metodi diffamatori nei confronti di chi ritiene essere temibile antagonista politico per la credibilità personale conquistata in decenni di attività al servizio dello Stato sul fronte del contrasto alla criminalità mafiosa ed ai suoi potenti complici nel mondo dei colletti bianchi”.

Poi dallo sfogo Scarpinato è passato a una escalation verbale tipica di chi ha fatto il callo con le reprimende in aula: “Non è un caso che la reputazione e la credibilità di Renzi siano progressivamente colate a picco via via che gli italiani hanno imparato a conoscerlo come portavoce prezzolato di interessi di potenze straniere, nemico dell’assetto della Costituzione e promotore di leggi dichiarate incostituzionali che hanno contribuito a svuotare i diritti dei lavoratori e ad impoverirli”. Niente meno. Per la difesa, il tweet di Renzi che replica a Conte: “Anche oggi Giuseppe Conte parla di me dicendo bugie. Tutto pur di non parlare del perché ha chiuso la struttura dedicata al dissesto idrogeologico e delle truffe miliardarie permesse dal suo Governo. Accetterà mai un confronto?”, la domanda aperta. Siamo agli ultimi quattro giorni di campagna elettorale e tra i leader non c’è stato alcun confronto a quattro. “Renzi vuole farsi pubblicità parlando di me”, gli risponde il leader del M5S. In effetti la querelle tra i due contendenti, direbbero forse i sondaggisti se potessero parlare, sembra abbia portato a una nuova polarizzazione degli elettori, insoddisfatti dal duello Letta-Meloni, oggettivamente meno vivace di questo.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

L'inchiesta. I misteri del senatore Scarpinato: dai rapporti con Montante alle compravendite immobiliari. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Wikipedia è stato aggiornato: “Roberto Maria Ferdinando Scarpinato (Caltanissetta, 14 gennaio 1952) è un politico ed ex magistrato italiano”, recita. Forse manca una ulteriore attività: “Mediatore immobiliare”. Perché se da senatore della Repubblica deve ancora insediarsi – lo farà la settimana prossima – e da magistrato si è già congedato, è l’attività di compravendita immobiliare che sembra averlo a lungo appassionato. Dalla Procura di Palermo ha chiuso la porta dietro di sé lasciando un alone di mistero sul quale facciamo parlare le carte: con i tanti interrogativi aperti sulla natura dei suoi rapporti con Antonello Montante, condannato in appello per associazione a delinquere, Scarpinato si troverà sempre a fare i conti.

Lo stesso Matteo Renzi, in campagna elettorale, aveva scoperchiato la pentola: “Io quando penso a Roberto Scarpinato penso alle pagine di Luca Palamara. Il sistema Montante, le raccomandazioni. Noi non prendiamo lezioni di antimafia da chi come Roberto Scarpinato ci cela il suo rapporto con Montante e siamo costretti a leggerlo sul libro di Palamara”. Ed ecco come Palamara riassume il caso, che parte da un compagno di cordata elettorale, anch’egli eletto (ma alla Camera) con il Movimento Cinque Stelle: “Cafiero de Raho nell’ottobre del 2017, come da accordi con Minniti, viene nominato alla Direzione nazionale antimafia, non prima di aver superato un pericoloso scoglio, la prestigiosa e inattesa candidatura per quello stesso posto del procuratore generale della Corte d’Appello di Palermo, Roberto Scarpinato”.

Luca Palamara dettaglia: “Ma anche Scarpinato, fortemente sostenuto dalle correnti di sinistra, all’ultimo incappa in un problema che giaceva dormiente al Csm dal 2016”. E già in quel dormiente giacere c’è la prima avvisaglia di qualcosa che non torna. Di cosa parla, Palamara, a proposito del sonnacchioso Csm? “Parliamo – scrive a pag. 163 de Il Sistema – dell’inchiesta che ha portato prima all’arresto e poi alla condanna in primo grado a 14 anni di carcere di Antonello Montante, il presidente di Confindustria Sicilia paladino dell’antimafia, che aveva organizzato una rete spionistica per controllare il sistema politico-economico siciliano e trarne indebiti vantaggi”. E qui si precisa meglio anche di quali fatti si parli.

“Nel fascicolo mandato al Csm si fa riferimento a un foglio trovato durante la perquisizione a Montante, con in dettaglio i voti che Scarpinato avrebbe dovuto conseguire nel plenum del Csm che nel 2013 lo nominò procuratore generale di Palermo. Per quella vicenda il pubblico ministero di Catania, Rocco Liguori, che indagava sul caso, decise l’archiviazione per un “comportamento discutibile, che però non costituisce reato”. Varrà la pena di andare a leggere le motivazioni dell’archiviazione. Scrive il giudice Liguori: “Il Montante dichiarava che il dottor Scarpinato non gli aveva mai parlato di quella sua candidatura, e in merito alla piantina dell’immobile sito nel centro di Palermo di proprietà di parenti del dottor Scarpinato, lo stesso Montante dichiarava di essersi sì interessato all’acquisto, ma di non aver dato seguito all’affare”. La chiosa di Palamara è amara: “Gli esposti arrivati al Csm su questa vicenda non decolleranno mai”.

Salta all’occhio la ricorrenza degli affari immobiliari, anche nel documento della Procura catanese. Una piantina “di un immobile sito nel centro di Palermo”. Avevamo dato conto qualche giorno fa dello strano caso segnalato al Ministro della Giustizia del 2001 da uno dei suoi predecessori, Filippo Mancuso. L’avvocato e parlamentare siciliano aveva chiesto alle istituzioni più alte del Paese, con una interrogazione parlamentare, di aprire gli occhi sulla vicenda della compravendita di un immobile a Sciacca (Agrigento), venduto da Scarpinato alla moglie di un suo ex indagato, nel frattempo archiviato. Il ministro guardasigilli dell’epoca, Oliviero Diliberto, aveva dato una risposta che non aveva soddisfatto il richiedente e che suonava pressappoco così: “La compravendita c’è stata, tramite agenzia immobiliare, anni dopo l’archiviazione. Non si ravvisano comportamenti che violano la legge o la deontologia”.

Una formula che ricorre spesso, nella vita di Scarpinato. Dove, per esempio? Apriamo il faldone con il quale la Procura di Catania provava a mettere in fila le carte: ci troviamo davanti a una ulteriore notizia di attività immobiliare, che se anche non sembra essersi finalizzata, certamente è stata intrapresa. Siamo nel novembre 2016, il caso della doppia vita di Montante, paladino antimafia di giorno e confidente delle famiglie di notte, è ormai esploso. Il Sostituto procuratore Liguori scrive in atti: “Nella perquisizione presso l’abitazione di Montante Antonello, sottoposto a indagini per concorso esterno in associazione a delinquere di stampo mafioso, venivano rinvenute, all’interno di dispositivi elettronici nella disponibilità del Montante (e di un suo stresso collaboratore), una serie di cartelle contenenti numerosi file relativi ai rapporti tra lo stesso Montante ed alcuni magistrati”. Le cartelle trasmesse facevano riferimento a quali magistrati? Le carte parlano di Roberto Scarpinato, dopo aver fatto la gimcana tra una serie di Omissis che appongono i sigilli della massima riservatezza all’atto di inchiesta.

È ancora la Procura di Catania a dirci che tra Scarpinato e Montante il dialogo è fitto e concreto: c’è uno scambio di richieste, di segnalazioni, di nominativi che l’uno raccomandava all’altro. Un po’ grigiamente, gli uffici giudiziari annotano: “Venivano evidenziati una serie di appuntamenti del Montante con il predetto magistrato”. La disamina del materiale rinvenuto è articolata, ma a richiamare l’attenzione del cronista è un paragrafo in particolare del foglio 2: “Tra gli appunti conservati dal Montante compariva in data 13.12.2010 la consegna di una piantina di un’abitazione sita a Caltanissetta di proprietà di parenti del Dr. Scarpinato. La stessa piantina veniva rinvenuta anche tra i file in sequestro al Montante”. Dunque risulta agli atti che un interessamento per l’acquisto di quell’immobile vi fu, e se a riceverlo fu come risulta il Montante, a sottoporgliene l’opportunità non poteva essere altri chi ne aveva indirettamente la disponibilità, Scarpinato.

Non sappiamo a che titolo Scarpinato sembra aver trattato con Montante la compravendita di quell’immobile, possiamo solo sperare di ricevere dall’interessato un chiarimento utile a fugare ogni dubbio. Quanto risulta agli atti, conferma la richiesta avanzata dal giudice: “Con riferimento all’abitazione sita nel centro storico di Caltanissetta, di proprietà dei parenti del dr. Scarpinato, il Montante riferiva che l’immobile era in vendita e di essersi interessato per l’acquisto, ricevendo anche la piantina dell’immobile, ma di non aver dato seguito a contrattazioni”. Ed ecco anche a Catania il ritorno della formula dell’archiviazione per il magistrato, previa solita tiratina d’orecchi: “Tale condotta, in assenza di altri elementi di difficile accertamento, per quanto discutibile, non può ritenersi penalmente illecita”.

Abbiamo iniziato a esaminare le carte e subito ci troviamo davanti a una condotta che gli stessi magistrati definiscono “discutibile” e che riguarda già, per quello che sappiamo, tre operazioni immobiliari che il neo senatore del Movimento Cinque Stelle aveva tanto a cuore da finire per parlarne perfino con soggetti non proprio raccomandabili, in odore di mafia: una a Sciacca, una a Palermo, una a Caltanissetta. In tanti casi i giornali hanno scritto del Risiko delle Procure. Nel caso di Scarpinato era piuttosto Monopoli.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

I pasticci del pm. Ci ha riquerelato Scarpinato, siamo terrorizzati! Redazione su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Ieri Nino Di Matteo, ex Pm palermitano e ora membro del Csm, ha criticato i partiti che hanno fatto sparire dai loro programmi la lotta alla mafia. Giusto. L’unica traccia di impegno contro le cosche lo hanno dato i Cinque Stelle candidando l’ex procuratore generale di Palermo. Che però… Proprio l’altro ieri è riemersa una storia che era stata dimenticata da tutti. Pare proprio che l’ex procuratore generale di Palermo (Roberto Scarpinato) qualche anno fa abbia venduto ad un prezzo altissimo una casa di famiglia nel paese di Sciacca a un suo ex imputato, che lui archiviò un paio di volte ma che poi fu condannato da altri. Non è una vicenda edificante.

La sollevò tanti anni fa l’ex ministro della Giustizia Filippo Mancuso, il quale sostenne anche che questo compratore di casa fosse amico dei Siino, una famiglia che aveva tra i suoi esponenti il cosiddetto “ministro dei lavori pubblici dei corleonesi di Riina”. Ahi ahi ahi. Nessun reato, pare, ma insomma per i Cinque Stelle che sospendono dal partito un assessore per una bazzecola qualunque, anche se non provata, questo è un macigno. Ieri ancora non era giunta la notizia di una nota di presa di distanze da Scarpinato da parte di Giuseppe Conte. E’ molto probabile che la nota arriverà oggi in giornata. E che Conte chieda a Scarpinato di impegnarsi a dimettersi dalla Camera in caso di elezione. (Sia chiaro: noi non siamo d’accordo; se il reato non c’è, non c’è. In nessuna parte del codice penale c’è scritto che un magistrato non possa fare affari con il proprio imputato. Però conosciamo purtroppo l’intransigenza morale di Conte).

Scarpinato ci ha riquerelato. Ha querelato il direttore di questo giornale perché abbiamo scritto di una casa di proprietà della sua famiglia, a Sciacca, che lui vendette alla bella cifretta di quasi 700 milioni a un signore che tempo prima era stato suo imputato ed era stato da lui archiviato. È un reato vendere la casa a un proprio imputato (che poi, da altri magistrati, fu condannato per altri fatti)? No. Pare che il codice penale non proibisca la compravendita di appartamenti tra magistrati e imputati e nemmeno proibisca pagamenti molto alti. Del resto che una casa a Sciacca, nel ‘96, valesse quasi settecento milioni quando a Roma trovavi un appartamento in zona semicentrale a 400 milioni non è un fatto così eccezionale. Sciacca è una cittadina di una certa importanza e non è lontana da Agrigento. Le case costano.

Non è chiaro però per cosa ci quereli Scarpinato. Nel comunicato che ha diffuso alle agenzie conferma tutte le notizie che noi abbiamo dato. Sorvola solo sul fatto che l’acquirente della abitazione fosse un suo ex imputato, però neanche lo smentisce questo fatto. E allora? Dov’è la diffamazione da parte nostra? Nell’aver riportato una interrogazione parlamentare regolarmente presentata da un deputato della Repubblica? Non credo. Nell’aver taciuto il fatto che questa interrogazione è vecchia di qualche anno? No, non lo abbiamo taciuto, lo abbiamo scritto bene bene in prima pagina. Nell’aver sostenuto che la vendita fu un reato? No, abbiamo spiegato e rispiegato che non c’è nessun reato. Abbiamo solo fatto notare che certo – ma questo è indiscutibile – se una cosa simile fosse successa a un assessore – non parliamo nemmeno di un deputato…- beh, quell’assessore avrebbe passato guai seri. Scarpinato non era un assessore e infatti – anche questo lo abbiamo scritto – la magistratura siciliana stabilì che non c’era niente su cui indagare e l’interrogazione del deputato – ed ex ministro della Giustizia – fu archiviata.

Giusto. E infatti anche questo lo abbiamo scritto. Dunque? Niente, le cose stanno così e noi siamo abituati. In Italia puoi scrivere quello che vuoi di chi vuoi, specie dei politici, ma dei magistrati o degli ex magistrati è meglio che non scrivi niente. Tacere, sopire, sopire, tacere. Così fan tutti. Pensate all’oblio nel quale è stato lasciato dai grandi giornali e dai politici il libro di Palamara e Sallusti. E vabbé, noi non ci adattiamo. Il nostro direttore ha già collezionato una ventina di querele dai magistrati. Si paga un prezzo alla libertà di stampa, no? La libertà dal potere dei magistrati è la più difficile. L’importante è non spaventarsi per le intimidazioni.

L'ex magistrato candidato del Movimento. Scarpinato e il falso su Wikipedia: non è mai stato nel pool di Falcone e Borsellino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Settembre 2022 

Giuseppe Conte è lui o non è lui? Alla manifestazione di chiusura della campagna elettorale del Movimento compare sul palco con una coreografia peronista di canti e cori, magliette e bandiere inneggianti al “progressismo del popolo”. È un mutante, Conte-Camaleonte, capace di assumere e metabolizzare le sembianze di chi lo circonda. È un gran commis con la pochette tra gli alti papaveri. Un rigido conservatore di destra quando presenta i Decreti Salvini con il sodale leghista. Ieri sera, davanti alla piazza di sinistra – quella storica della sinistra prodiana, Santi Apostoli – era diventato il capopopolo descamisado dei populisti. Proprio come Woody Allen in Zelig, diventa chi non è per proprietà transitiva. E la stessa magia si infonde, a quanto pare, su chi lo circonda. A partire dagli uomini-simbolo di cui si è circondato ancora ieri.

L’ex magistrato Roberto Scarpinato, per esempio. Un uomo che tiene tanto alla correttezza delle informazioni che circolano sul suo conto. Puntualizza i dettagli, si accerta che venga scritta la verità. E fa bene. Gli deve dunque essere sfuggita la pagina di Wikipedia che lo riguarda. Nella biografia pubblica di Scarpinato indicizzata da Google – come risulta effettuando una ricerca mentre scriviamo – si legge infatti: «Inizia la carriera in magistratura nel 1978. Dopo avere prestato servizio presso la Procura della Repubblica di Palermo nel 1989 entra a far parte del pool antimafia collaborando con Giovanni Falcone e con Paolo Borsellino». Colpiti, abbiamo fatto verifiche e chiesto ai più esperti. Non risulta affatto che Scarpinato sia mai stato un componente del gruppo. Non risulta ad esempio a Giuseppe Ayala, già sostituto procuratore a Palermo e pubblico ministero al primo maxiprocesso, che a domanda precisa risponde con un secco “No”.

Il pool antimafia venne ideato da Rocco Chinnici verso gli inizi del 1980 e dopo il suo assassinio venne guidato dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto. Facevano parte del gruppo Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello Finuoli, Leonardo Guarnotta. In seguito, a causa del trasferimento di Borsellino alla Procura di Marsala, vennero cooptati anche Giacomo Conte, Gioacchino Natoli e Ignazio De Francisci. Il lavoro del pool ha fatto in modo che fosse celebrato il celeberrimo Maxiprocesso di Palermo, contro i criminali appartenenti a Cosa Nostra. «Nel pool antimafia c’erano solo i giudici istruttori, non la Procura della Repubblica. Scarpinato non avrebbe potuto far parte del pool», puntualizza l’avvocato Stefano Giordano. E allora come la mettiamo con quella pagina di Wikipedia? Contiene un errore vistoso, attribuisce a Scarpinato una prossimità con Falcone e Borsellino che in quei termini non c’era. Conoscendolo, si premurerà senz’altro di far correggere l’indebita attribuzione.

Anche per non lasciar cadere in errore un Giuseppe Conte smodatamente infervorato sul tema. Fu proprio da Palermo, per la prima volta alla presenza di Scarpinato, che il leader 5 Stelle si lasciò andare: «Siamo nati per fare la guerra alla mafia con il rigore dell’etica pubblica e l’intransigenza morale. Non accettiamo compromessi e su questo siamo pronti a far cadere il governo», aveva anticipato Conte l’8 giugno scorso, confortato dal consenso dei magistrati presenti, cinque settimane prima di realizzare il suo piano. Ieri è tornato sulle sue parole d’ordine: il Reddito di cittadinanza, il cashback fiscale “per avere subito uno sconto sulle spese sanitarie e veterinarie”, il salario minimo. Si vota col portafogli e non con la testa, sembra aver capito Conte. Tutto come da copione, peccato per quelle due gaffe dal palco. Presenta Scarpinato come simbolo di lotta alla mafia dimenticando la vicenda della casa di famiglia venduta a un indagato per rapporti con Cosa Nostra. Poi Conte rivela, affannato dopo tanti camuffamenti e iperboreato dall’esultanza della piazza, come in un moto liberatorio, la sua autentica propensione. E sulla Russia cade anche il suo velo.

«Proprio perché l’Ucraina non poteva difendersi a mani nude dicemmo all’inizio di sì alle sanzioni ed all’invio delle armi anche se siamo pacifisti. Ma ora l’evoluzione attuale ci dice che la strategia decisa a Washington con la complicità di Londra che la Ue sta subendo passivamente ci porta ad abbracciare il rischio di una escalation militare». Le responsabilità di Putin non le vede. Non esistono, dall’alto del palco di Santi Apostoli, coperte da troppe bandiere. «Siete venuti in tanti da Napoli, dalla Calabria, dalla Sicilia», grida. Si sente, in cuor suo, Achille Lauro. Qualcosa l’ha dato, lanciando il reddito di cittadinanza con il suo governo. Qualcos’altro lo darà, se votate bene. Ed è così che lo ritrae Matteo Renzi: «Conte dice che il reddito di cittadinanza è una misura per i poveri. Ai poveri serve lavoro, sanità, istruzione. Non organizzare un sistema, spesso truffaldino, per garantire il consenso di alcune parti del Paese. Almeno Achille Lauro lo faceva coi suoi soldi, non coi soldi del contribuente».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Così i servizi segreti deviati volevano ribaltare l'Italia. In occasione della pubblicazione del suo libro, Armando Palmeri rilascia un'intervista in cui parla di come i servizi segreti abbiano tentato di sovvertire l'ordine democratico. Gianluca Zanella il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Solo un uomo... solo, questo il titolo di un libro recentemente pubblicato, un’intervista effettuata dal reporter Stefano Santoro al collaboratore di giustizia Armando Palmeri. Ma non solo. Oltre l’intervista, nel libro c’è un memoriale di Palmeri riportato – stando a quanto confermato da Santoro – integralmente. Ma chi è Armando Palmeri?

Uomo di fiducia del boss mafioso di Alcamo Vincenzo Milazzo, Palmeri è stato un mafioso sui generis. Cresciuto in una famiglia benestante, diventa criminale più per spirito d’avventura che per necessità. A capo di una batteria di rapinatori, gira l’Italia pistola alla mano fin quando non viene catturato. In carcere a Spoleto – da lui definito “Università del crimine” - viene a contatto con il gotha della criminalità nazionale, conosce estremisti di destra, camorristi, mafiosi, in un certo senso si fa un nome. Una volta fuori, tornato ad Alcamo nella seconda metà degli anni Ottanta, comincia ad essere corteggiato da Cosa nostra.

Spiccando per un grado d’istruzione non comune al profilo del mafioso medio e da una notevole dote per le pubbliche relazioni, il suo è un curriculum che fa gola a diversi clan, ma Palmeri – che non sarà mai affiliato ufficialmente – ci tiene alla sua indipendenza e, senza mai opporre un diniego secco alla avances che pure gli vengono fatte con insistenza, preferisce fare il “libero professionista”. In che ambito? Difficile dirlo con certezza. Leggendo il suo memoriale, sembra di capire che Palmeri abbia capitalizzato la sua abilità nel tessere reti di conoscenze trasversali, una sorta di faccendiere, per utilizzare un termine riconoscibile. Di certo c’è una cosa: non ha mai ammazzato nessuno e anzi, ci tiene a precisare di aver salvato molte vite sottratte ai plotoni d’esecuzione mafiosi con escamotage di volta in volta differenti.

In buoni rapporti con un pezzo da 90 come Antonino Gioè [mafioso affiliato ai corleonesi e coinvolto nella strage di Capaci, ndr], cugino di Franco Di Carlo [collaboratore di giustizia recentemente scomparso, accusato di essere esecutore materiale dell'omicidio di Roberto Calvi, ndr], dopo aver tergiversato per qualche anno, Palmeri finisce col diventare l’uomo di fiducia di Vincenzo Milazzo, l’unico con cui il giovane boss alcamese si confidasse. È a lui, infatti, che esprime tutta la sua apprensione per un incontro decisamente particolare. Il primo di altri due che avverranno nel giro di poco tempo, nella primavera del 1992.

E se il nome di Armando Palmeri spicca tra quello dei tanti collaboratori di giustizia, è proprio perché è stato lui a riferire di fronte al magistrato referente di questi incontri, quando due uomini dei servizi segreti – introdotti prima da uno stimato medico e poi da un imprenditore misteriosamente suicidato – proposero a Vincenzo Milazzo di prendere parte a un progetto di destabilizzazione della democrazia con una campagna di stragi e addirittura una guerra batteriologica.

Milazzo, consigliato anche da Palmeri, rifiuterà di prestarsi a questo gioco perverso, pur consapevole di esporsi così a un pericolo mortale. E infatti viene ammazzato dall’amico Nino Gioè, che sparandogli alla nuca confiderà a Palmeri di avergli evitato una morte ben peggiore. Sorte ancor peggiore per la sua fidanzata: Antonella Bonomo, 23 anni, incinta di tre mesi, viene presa a calci e strangolata da un commando di uomini d’onore di cui, tra gli altri, fanno parte lo stesso Gioè, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. La colpa della ragazza? Non solo quella di essere la compagna di Milazzo ma, forse, anche quella di avere uno zio al Sisde, il servizio segreto civile.

Grazie all’intercessione di Stefano Santoro, IlGiornale.it è riuscito a ottenere un’intervista da Palmeri che, notoriamente, è restio a concederne e che da anni porta avanti una solitaria crociata per stabilire delle verità difficili da digerire: a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta pezzi deviati dello Stato non si limitarono a fare affari con Cosa nostra, ma tentarono di sovvertire l’ordine democratico con un progetto stragista poi sposato in pieno dai corleonesi di Totò Riina. Ecco quello che ci ha detto: “Ad alcune domande, su argomenti delicati, sarò costretto a non rispondere. Ho conservato un 1% di fiducia nella magistratura, alcune cose devo dirle a loro. Credo che abbiano il dovere d’ufficio, con questo libro, di aprire un fascicolo. Mi auguro che lo facciano”.

C’è una domanda che ti poni nel memoriale recentemente pubblicato, te la facciamo anche noi, cercando di incoraggiare un’ulteriore riflessione: Per quale motivo degli uomini legati ai servizi segreti si sarebbero avvicinati in prima battuta a un boss certamente capace, ma di secondo piano come Vincenzo Milazzo? Perché non rivolgersi direttamente alla fazione dominante dei corleonesi, come comunque sembrerebbero aver fatto subito dopo?

Perché Milazzo era di un’altra caratura intellettuale. E poi non dimentichiamoci di un piccolo particolare: vicino a Milazzo c’ero io e i Servizi lo sapevano.

Cosa intendi?

Il modus operandi di Riina l’abbiamo visto qual è stato. È stato il suicidio di Cosa nostra.

Vuoi dire che rivolgendosi a Milazzo – che al suo fianco aveva non un killer, ma qualcosa di vicino a un consigliere – i servizi puntavano a fare un lavoro “pulito”? Cioè a compiere attentati e stragi ma preservando l’integrità di Cosa nostra?

Per rispondere ti voglio fare un piccolo esempio: andiamo a vedere la Strage dei Georgofili [Firenze, 27 maggio 1993, un ordigno sventra parte della Galleria degli Uffizi e uccide 5 persone, ndr]. Lì è stato assurdo, per l’organizzazione dell’attentato sono state coinvolte persone che con Cosa nostra non c’entravano nulla [come Antonino Messana, di Trapani ma residente a Prato, cognato di Giuseppe Ferro, il boss successore di Milazzo a capo di Alcamo. L’uomo fu sostanzialmente obbligato a fornire supporto logistico per l’attentato, ndr]. È stata una cosa da dilettanti, per organizzare una cosa del genere bastava una persona che sapesse cosa fare. È stato un modo per suicidarsi, il suicidio di Cosa nostra al comando di Totò Riina. Queste non sono operazioni serie.

Cioè i mafiosi sarebbero stati degli “utili idioti”?

Bravissimo, i capri espiatori... Totò Riina e chi gli stava vicino sono stati dei capri espiatori.

E non credi che se Milazzo avesse invece accettato di prestarsi al gioco di frange deviate dei servizi, l’esito sarebbe stato identico? Cosa nostra si sarebbe avviata ugualmente al suicidio?

Questo in effetti non saprei dirlo. Probabilmente se Milazzo avesse accettato di compiere le stragi, la storia della mafia sarebbe stata diversa. Al posto di Riina al vertice ci sarebbe stato lui, magari Bagarella, Brusca, ecc. sarebbero stati eliminati. Ma sono tutte supposizioni.

O magari il clan Milazzo avrebbe compiuto le stragi e poi sarebbe stato decimato dai suoi stessi committenti...

È un’ipotesi valida. Ma anche qui siamo sulle supposizioni.

Tornando agli “utili idioti”, dev’esserci stato necessariamente qualcuno a tirare i fili delle marionette. Tu parli nel tuo libro di “mafia impropria”, cosa intendi?

Io parlo di mafia impropria e quando dico questo mi riferisco a un potere molto, molto arzigogolato e articolato, che si approfitta dei poteri conferitigli dallo Stato, ma in grande scala. Ritengo che quello di infangare la mafia sia stato un progetto attentamente pensato. Fino a quell’epoca [1992/93, ndr] nei principi del mafioso non c’era quello di ammazzare i bambini.

Ti riferisci all’omicidio di Giuseppe Di Matteo? Il bambino di 12 anni rapito, tenuto in ostaggio dal 23 novembre 1993 fino all’11 gennaio 1996, quando venne strangolato e sciolto nell’acido? Il bambino che tu – come racconti nel libro – avevi individuato segnalandone invano la prigione alle forze dell’ordine?

Si, Giuseppe Di Matteo, che è stato ammazzato platealmente. Ma scherziamo? Cosa avrebbe potuto portare di bene a Cosa nostra? Riflettiamo un attimo. Cosa nostra non è un potere dove ci sono solo Brusca, l’ “ammazza-cristiani”, o Giuseppe Ferro, un analfabeta. Attenzione, chi comanda davvero, chi riesce a gestire Cosa nostra non è cretino. Siamo abituati a vedere solo i mafiosi analfabeti, i dementi, ma io ho conosciuto persone come Nino Gioè, che era un grandissimo stratega, una personalità incredibile. Un signore nei modi, lasciamo stare che era un criminale e un killer, ma tu non l’avresti mai detto. Gioè si avvicina a me perché capisce che non sono un sanguinario, che salvo vite umane.

Stai dicendo che, in qualche modo, c’è stata una strategia volta a favorire l’ascesa dell’ala sanguinaria di Cosa nostra, quella che tu definisci dei “dementi”, a discapito invece di uomini più “politici” o comunque inclini alla trattativa, come potevano essere un Gioè o un Milazzo?

In parte sì, anche se Gioè in fin dei conti si è prestato a quel gioco e poi ne ha pagato le conseguenze. Comunque è un dato di fatto: da un certo momento in poi Cosa nostra è stata governata da perfetti idioti. Sempre riguardo la strage di via dei Georgofili e in generale le bombe del 1993... ti sembra possibile che a scegliere quegli obiettivi siano stati Riina e i suoi? È fin troppo evidente che ci sia stata una regìa occulta di quelle che vengono definite “menti raffinatissime”. È un dato di fatto. Per non parlare della strage di Capaci. Un’operazione militare di altissimo livello, che non sarebbe stata possibile senza dei manovratori esterni.

Di quali manovratori stiamo parlando?

Non è da me fare supposizioni...

Passiamo oltre. Nel libro - ma anche nelle sedi competenti - hai parlato di questi incontri tra due uomini dei servizi segreti e Vincenzo MIlazzo. Ti sono mai stati sottoposti degli identikit, delle fotografie? Hai mai potuto ricondurre dei nomi a quei volti?

Io li so i nomi. Li ho dati in procura e sto vedendo cosa fanno.

Sono entrambi in vita?

Uno di loro si. Me lo ricordo, ho avuto la sfortuna di incontrarlo successivamente.

In un libro-intervista uscito qualche tempo fa, Franco Di Carlo, cugino di Nino Gioè che – lo ricordiamo – è morto impiccato in carcere, sostiene di essere stato più volte avvicinato nel corso degli anni, proprio come suo cugino, da uomini dei servizi segreti. In particolare, con uno di loro si è ritrovato in diverse situazioni: si tratta di Mario Ferraro, colonnello del Sismi, anche lui trovato impiccato in casa sua nel luglio del 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccavano terra. Ricordi di averlo mai incontrato?

Uscendo spesso con Gioè ne vedevo tanti di questi personaggi. Non mi pare di averlo mai sentito nominare.

Sempre nel libro parli di una donna della Dia con cui avresti effettuato un appostamento per liberare il piccolo Di Matteo e che, successivamente, hai visto in compagnia di quello che poi avresti scoperto essere Giovanni Aiello, più conosciuto come “Faccia da mostro”. Di lei conosci il nome?

No, né l’ho mai vista esposta sui media, come invece è successo con Aiello.

Territorio di Trapani, Alcamo. Si è tornati recentemente a parlare di questa zona della Sicilia in relazione alla presenza occulta e pervasiva della struttura semi-clandestina Gladio. Hai mai sentito nominare il Centro Skorpione?

No, so solo che hanno tentato di buttarla in quel posto a Gladio. In tutto e per tutto. Hanno cercato di mettere Gladio in mezzo a tante cose, ma secondo me è solo un grande depistaggio. Tutto ciò che è accaduto ad Alcamo in quel periodo è stato uno scontro tra polizia e carabinieri. E hanno cercato di fottere Gladio, usandola come capro espiatorio. Ma così non si arriva alla verità.

Tu hai conosciuto il gotha mafioso, hai vissuto e lavorato ad Alcamo, che si trova nel trapanese. Mi sarei aspettato almeno di sentirti nominare nel libro Matteo Messina Denaro. Non l’hai conosciuto?

Assolutamente no.

Che interpretazione dai alla sua lunga latitanza?

Non si vuole prendere. Non si deve prendere. Io sarei il primo a non collaborare per prenderlo. Perché rompere gli equilibri, chi ci dice che non possa nascere un nuovo Totò Riina?

Che intendi dire?

Nel trapanese non si ammazza più, c’è ordine, la gente sta bene. Perché devi rompere questo equilibrio? Per farla pagare a un uomo solo? Ubi maior minor cessat.

Eppure nel 2018 un ex poliziotto, Antonio Federico, in un’intervista rilasciata proprio a Stefano Santoro sostiene che tu gli avessi promesso di fargli catturare un latitante di grosso calibro, che lui intese essere Messina Denaro...

Era una sua supposizione, se ne occuperà l’autorità giudiziaria.

Torniamo un attimo su Antonio Federico, di cui ci siamo largamente occupati nei mesi passati. Federico in un suo libro racconta di essere stato avvicinato nel 1993 da una misteriosa fonte, tale Mark, un uomo che – secondo la sua ricostruzione – apparteneva proprio a Gladio. Questo Mark gli fa compiere alcune operazioni, tra cui la perquisizione in casa di un carabiniere, dove viene trovato un arsenale di armi e dove, in una libreria, viene trovata la foto in cui, quasi trent’anni dopo, si è riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice di Bergamo sospettata dalla procura di Firenze di essere la “biondina” delle stragi del 1993. Nel tuo libro sostieni che Mark fosse un tuo uomo, sulla base di cosa puoi affermare ciò?

Preferisco non rispondere.

Su quella foto ritrovata in casa del carabiniere? Puoi dirci qualcosa?

È un depistaggio. Antonio Federico è acerrimo nemico di La Colla e Bertotto [i due carabinieri coinvolti nel ritrovamento dell’arsenale, ndr], ha cercato, come si dice in Sicilia, di fare tragedia, però... spero di poterti dare risposte più certe tra qualche mese... mi sono interessato a questa situazione. Intanto ti posso dire una cosa: fin quando non sarà riconosciuta l’esistenza della “mafia impropria” non cambierà nulla, i segreti rimarranno sempre tali. Voi che siete giovani vi dovete battere su questo politicamente, sui giornali, io ormai sono al capolinea. E vedrai che ci saranno i primi collaboratori di giustizia di Stato. Ci saranno i primi magistrati che collaboreranno finalmente con la giustizia. Io non ci sarò più, ma tu forse ricorderai queste parole.

Le mafie vogliono essere la parte efficiente del Paese: questo giova ai loro affari. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.

Ho scelto la foto di Paolo Borsellino per ricordarlo come viene raccontato nel libro di Bianconi. Ne emerge il ritratto di una burocrazia che garantisce un divieto di sosta e di uno Stato che si racconta moderno ma è più vicino al Nordafrica che al Nord Europa. 

2 giugno 1992 il giudice Paolo Borsellino alla prefettura di Palermo. Morirà qualche settimana dopo, il 19 luglio

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola il 15 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Giovanni Bianconi ha una rara capacità, quella di dare vita carne sangue sudore e slancio alla cronaca. Bianconi ha il passo del cronista: la cronaca è la vita sua. Sa scovare notizie e scriverle velocemente. Le annusa, non ha bisogno di assaggiarle: dall’odore sente se si tratta di fake, veleno o storia nutriente e vera. In Un pessimo affare. Il delitto Borsellino e le stragi di mafia tra misteri e depistaggi non si smentisce. Il racconto della morte di Borsellino procede attraverso un carotaggio di tutti i momenti più assurdi e paradossali. Si vedrà come nulla è più impreparato dello Stato italiano, che ama raccontarsi come moderno ed efficiente, ma in realtà, in molti suoi aspetti, è più vicino al Nordafrica che al Nord Europa.

IL POMERIGGIO C’ERA SOLO UN’AUTO BLINDATA, MA I GIUDICI ERANO QUATTRO: DI SERA SI POTEVA MORIRE LIBERAMENTE

Rocco Chinnici viene ucciso con un’autobomba fuori casa, a Palermo; la burocrazia non era riuscita a garantire il minimo: il divieto di sosta in quei pochi metri di via Giuseppe Pipitone Federico. Stessa cosa accadrà in via D’Amelio: la burocrazia non riuscirà nemmeno a ottenere il divieto di parcheggio davanti casa della mamma del giudice Paolo Borsellino. In Commissione parlamentare antimafia, Borsellino dichiarò: «Poiché non lavoriamo solo la mattina, buona parte di noi non può essere accompagnata in ufficio di pomeriggio da macchine blindate, come avviene la mattina, perché il pomeriggio è disponibile solo una blindata che, evidentemente, non può andare a raccogliere quattro colleghi. Pertanto io, sistematicamente, il pomeriggio mi reco in ufficio con la mia automobile e ritorno a casa alle 21 o alle 22. Magari con ciò riacquisto la mia libertà, utilizzando la mia automobile, però non capisco che senso abbia farmi perdere la libertà la mattina per poi essere libero di essere ucciso la sera».

Questo veniva detto l’8 maggio dell’84. Da lì, sino alla sua morte, l’incapacità statale è sempre stata la migliore alleata delle organizzazioni criminali. Queste sì, organizzate, di fronte a una struttura statale completamente disorganizzata e quindi facile da infiltrare. Le mafie non sono l’Antistato, le mafie sono parte dello Stato, e usano la parte disorganizzata dello Stato per ottenere - questo nel libro di Bianconi si evince chiaramente - potere, consenso, profitto. Le mafie vogliono essere questo: la parte efficiente del Paese... quanto giova, invece, ai loro affari continuare a descriverli come rurali e trogloditi attaccabrighe? Sempre Borsellino racconta: «Mi ricordo che una volta Buscetta aveva detto che gli era stato presentato un capomafia di Bagheria mentre egli passeggiava in via Ruggiero Settimo. Nel mio scrupolo gli avevo confessato: ma come, passeggiava in via Ruggiero Settimo se lei era latitante? Signor Giudice, nel nostro ambiente si sapeva che dalle 2 alle 4 c’è la smonta, volanti non ne circolano, conseguentemente noi latitanti scendiamo a fare la passeggiata ».

Protagonista del libro è certamente Paolo Borsellino - ritratto nella foto che ho scelto questa settimana - ma in realtà la voce di sua figlia Fiammetta è importantissima. Dirà: «Mio padre era notoriamente uno che faceva battute, teneva banco con gli amici in situazioni varie, anche il suo affrontare in modo scherzoso il tema della morte era un modo per instillare dentro di noi questa possibilità e, per altro verso, di esorcizzare un dramma. All’epoca non c’erano i cellulari, quindi proprio quell’estate in cui io premevo per andare in luoghi un po’ sperduti, mi disse: Ma insomma dove vai? Se mi uccidono come ti raggiungo? Come ti chiamo?». E continua: «Mio padre scherzava sempre su questa quasi totale assenza di misure di protezione adeguate, era così drammatica questa inefficienza, che lui ci scherzava quando ci raccontava che cambiava le gomme in autostrada perché le macchine di scorta che avevano in dotazione si rompevano ogni due o tre. Una volta tornò dalla Germania sconvolto perché disse: Se lo stesso spiegamento di forze che mi hanno riservato lì lo avessi qui a Palermo sarebbe tutto più facile».

Si esce dal libro di Giovanni Bianconi consapevoli che il sabotaggio dei colleghi e l’inefficienza della macchina statale sono stati complici del potere mafioso; che l’invidia verso Falcone e Borsellino è stato l’elemento cardine che ha indebolito la loro sicurezza. Questo Stato, che noi consideriamo democratico, conserva in sé un’anima tirannica e autoritaria, quella dell’economia criminale. Ed è, questa, un’efficienza talmente endemica, che senza l’olio del crimine interi comparti economici sarebbero ancora più sclerotizzati. Ma ormai quelle che andiamo raccontando sembrano storie antiche, passate, ecco perché il libro di Bianconi è necessario, perché dà ossigeno alla possibilità di comprendere.

Linea di sangue. Dal terrorismo politico alle stragi della mafia eversiva. GIOVANNI BIANCONI su Il Domani il 13 giugno 2022

Morti e feriti si sono accavallati condizionando e indirizzando la gestione del potere, per garantire determinati equilibri o evitare pericolosi cambiamenti. Una strategia della tensione permanente, sia pure declinata in forme diverse.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

Nella storia repubblicana crimine e politica si sono intrecciati spesso. Sono andati a braccetto per lunghi tratti, si potrebbe dire. Dalla strage di Portella delle ginestre (1947) ai sanguinosi tumulti di piazza degli anni Sessanta con i proiettili sparati ad altezza d’uomo; dalle bombe nere esplose tra il 1969 e il 1974 al terrorismo rosso culminato con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro nel 1978, fino ai delitti di mafia: gli omicidi “eccellenti” degli anni Settanta e Ottanta, poi le stragi del 1992-93. E sullo sfondo le reiterate avvisaglie dei colpi di Stato, forse mai realmente tentati ma costantemente paventati, perché tanto bastava.

Morti e feriti si sono accavallati condizionando e indirizzando la gestione del potere, per garantire determinati equilibri o evitare pericolosi cambiamenti. Una strategia della tensione permanente, sia pure declinata in forme diverse.

Non c’è ovviamente un’unica regia, non fosse altro che per il trascorrere del tempo, in tutto quasi mezzo secolo. Ci sono però nomi che ritornano. E c’è un modus operandi, sia del crimine che del potere, che sembra ripetersi. Sia i terroristi che le organizzazioni criminali hanno inciso sul corso della vita istituzionale, ai livelli più alti, arrivando a togliere di mezzo (in un caso fisicamente, nell’altro politicamente) due potenziali presidenti della Repubblica: Moro nel 1978 e Giulio Andreotti nel 1992, con la sequenza omicidio Lima-strage di Capaci. Il terrore diffuso dalle organizzazioni neofasciste con le bombe di piazza Fontana e di piazza della Loggia, passando per Petano, la questura di Milano e il treno Italicus, s’è riproposto vent’anni più tardi con gli attentati in continente che nel 1993 hanno colpito Roma, Firenze e Milano, e sarebbero proseguiti nel 1994 se non si fossero verificati due “provvidenziali” coincidenze: il malfunzionamento dell’auto-bomba allo stadio Olimpico di Roma e, a seguire, l’arresto dei fratelli Graviano a Milano.

Ma accanto all’operare di mafiosi e terroristi, e in alcuni casi insieme ad esso, c’è l’attività di alcuni apparati di sicurezza che paiono riproporre gli stessi schemi: coperture e depistaggi, distruzione di prove e documenti spariti con modalità che si ripetono nel tempo, prima a protezione delle trame nere e poi di quelle mafiose. Oppure scelte politiche e prassi che finiscono per lasciare campo libero al terrorismo rosso dopo il 1974, quasi che gli obiettivi da colpire non fossero interesse esclusivo delle Br o gruppi simili, ma di centri di potere più o meno occulti; così come nel 1982 e poi ancora nel 1992 vittime della mafia come Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non sono – con ogni probabilità – solo vittime di mafia.

Misteri sui quali ci si interroga ancora oggi: trenta, quaranta, cinquanta anni dopo. E a volte anche di più.  

GIOVANNI BIANCONI

Il ritorno di Gladio: un pretesto o un passato che non passa? Gianluca Zanella il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un documento controverso che parla di rapporti tra mafiosi, Alto commissariato antimafia e strutture semi clandestine dello Stato riemerge dal passato in un momento in cui si torna a parlare di Gladio come di una struttura ancora attiva.  

Saranno i venti di guerra che agitano l’Europa o forse gli equilibri geopolitici messi come non mai in discussione dopo la dura batosta del periodo pandemico, ma – per chi non se ne fosse accorto – in Italia si sta tornando a parlare di Gladio, che può voler dire tutto e niente. La struttura semi clandestina, diretta emanazione della Nato e germogliata sotto l’ampio ombrello dell’operazione Stay Behind, che tante volte serve da paravento, che molto spesso funge da alibi, che quasi mai viene citata a proposito.

Ad aver incendiato il dibattito è stato Report con un’intervista ad Antonio Federico, il poliziotto che ha scritto un libro per raccontare la vicenda vissuta nelle campagne del trapanese tra la fine degli anni ’80 e il principio dei ’90, quando – in un’atmosfera che ricorda il successo di Spielberg ET – dà letteralmente la caccia agli uomini di Gladio. Lo stesso Antonio Federico che – stando a un racconto ancora non verificabile – nel 1993 ritrova, nel corso di una perquisizione, una foto molto particolare [ma nel libro, scritto nel 2012, di questo episodio non c’è traccia] di cui tanto abbiamo già parlato.

Ma che qualcosa bolla in pentole tenute opportunamente riservate lo si percepisce già da qualche mese: a Livorno una procura spinge per l’archiviazione della morte di Marco Mandolini, militare e agente segreto, nonostante la mole di documenti che sembrano avvalorare la bontà di una pista individuata qualche anno fa dal criminologo Federico Carbone, una pista che tiene insieme il fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone, le attività del centro Skorpione - arcinota base di Gladio a San Vito Lo Capo (Trapani) – e la morte in Somalia di Vincenzo Li Causi, che quella base un tempo segreta tornata prepotentemente sotto i riflettori l’aveva guidata dal 1987 al 1990.

Ed è proprio questo il periodo attenzionato da una nota “riservatissima” del Sisde [il servizio segreto civile] datata 14 febbraio 1991. Il documento – sulla cui attendibilità non ci sono pareri concordi, ma che se fosse un falso sarebbe in primis un ottimo lavoro, in secundis un’enorme polpetta avvelenata –, è per qualche ragione riemerso dalle nebbie del passato e in questi giorni sta circolando tra addetti ai lavori e non attraverso sistemi di messaggistica istantanea. Il motivo dietro questa “seconda vita” non è ancora chiaro, ma senz’altro curioso. Il documento di cui stiamo parlando ha come oggetto qualcosa di decisamente inquietante, soprattutto alla luce del clamore mediatico che si fa di giorno in giorno più assordante: “Anomalie operative attività ex Centro [...] Scorpione/Skorpio Trapani e periferiche”.

In questa nota del servizio segreto civile, i cui vertici di lì a un paio di anni sarebbero stati investiti da un colossale scandalo interno (giornalisticamente noto come Sisdegate, termine nobilitato dall’uso dell’inglese per raccontare un italianissimo “magna magna” di soldi pubblici), si accenna a un rapporto precedente, datato 23 gennaio dello stesso anno, in cui veniva trattato probabilmente lo stesso argomento: la stretta collaborazione tra il Centro Skorpione e l’allora Alto Commissario per la lotta alla mafia. Domenico Sica.

Fin qui nulla di strano, se pensiamo che il Centro Skorpione, venuta meno la minaccia di un’invasione sovietica dell’Europa (motivo per il quale era stato allestito, pur non trovandosi in una zona di confine “calda”), nelle intenzioni era deputato proprio a quello: il contrasto al fenomeno mafioso. Come poi si sia concretizzata questa azione di contrasto nessuno lo sa, né sapeva dirlo Vincenzo Li Causi, che succedette al colonnello Paolo Fornaro e che morì prima di poter essere sentito dal magistrato veneto Felice Casson.

Tuttavia, la nota riservatissima del Sisde – che fa seguito a un’altra informativa dell’Ucigos di Gorizia – pone la collaborazione tra l’Alto Commissario Sica e il Centro guidato da Li Causi in un contesto inquietante e ad oggi non verificato, ma che se fosse reale sarebbe a dir poco preoccupante. Leggiamo: “Nel periodo di comando del Centro, corrente tra gli anni 1987/1990, si sono svolti contatti anche fisici con elementi di spicco di alcune famiglie mafiose del trapanese e la stessa dirigenza dello Scorpione, anche nei perimetri interni dello stesso centro”. Come dicevamo, uno scenario inquietante, soprattutto se pensiamo che tra le famiglie mafiose del trapanese ci sono i Messina Denaro.

Lo ripetiamo e lo sottolineiamo, questo documento è stato al centro di una vicenda controversa. Disconosciuto dal Sisde, venne fornito al giornalista Luciano Scalettari da una fonte rimasta coperta del Sios Marina, il servizio d'intelligence appunto della Marina Militare, e finì nelle migliaia di pagine del procedimento per la morte del giornalista Mauro Rostagno.

Premesso doverosamente questo, non possiamo non considerare, a distanza di oltre trent’anni – e nel trentennale della strage di Capaci – la convinzione di Giovanni Falcone, che riteneva – come scritto dal giornalista Pino Arlacchi in una recente pubblicazione, Giovanni e io (Chiarelettere) – che dietro il fallito attentato all’Addaura ci fossero stati “i delinquenti del Sisde”. Né possiamo ignorare la figura di Domenico Sica, sul quale ci sarebbe molto da ragionare e al quale Francesco Pazienza – faccendiere ed ex agente segreto – ha dedicato molte pagine infuocate nel suo ultimo libro La versione di Pazienza (Chiarelettere). È nota la volontà di Sica di essere messo a capo del servizio segreto civile, così com’è nota la sua acredine nei confronti del collega Falcone. Questi sono dati di fatto che, tuttavia (lo sottolineiamo) possono essere mere suggestioni senza alcuna valenza.

Resta, come dicevamo all’inizio, una certezza incontrovertibile: qualche equilibrio dev’essersi incrinato. Qualche patto è venuto meno o, semplicemente, eventi che ritenevamo appartenere al passato sono più attuali di quanto non pensassimo. E in attesa che il premier Mario Draghi tenga fede a quanto promesso ormai un anno fa (cioè rendere pubblici documenti inediti relativi alla vicenda Gladio) non possiamo che assistere da spettatori al carosello di novità o pseudo-tali che ormai quasi quotidianamente arrivano ad arricchire il racconto sulla nostra (oscura) storia recente.

E poi chissà, magari un giorno scopriremo che, in fondo, non c’è mai stata una vera e propria regìa, che non c’è stato nessun grande vecchio, nessun complotto a manovrare gli italici destini. Magari scopriremo che, in determinati periodi, uomini e donne in grado di esercitare potere (a livello politico, imprenditoriale, criminale, accademico, ecc.) si siano uniti in consorterie più o meno clandestine e più o meno sovversive solo per raggiungere scopi a breve termine, servendosi di pezzi dello Stato, di sezioni/ombra di reparti militari altamente specializzati, di persone che, probabilmente, non sempre hanno prestato la loro competenza a queste consorterie consapevolmente.

Vittime a loro volta di un gioco incomprensibile se non a chi ha predisposto le pedine. Chissà, magari quel giorno scopriremo che – sotto sotto – la nostra Repubblica non esisterebbe senza queste forze centrifughe; scopriremo che queste forze fanno parte della nostra fragile democrazia in modo così radicato che, se non ci fossero, tutto franerebbe su sé stesso, quasi ci fosse bisogno di una perenne e incombente ombra scura affinché sia possibile apprezzare la luce.

CHI È VISSUTO PIÙ A LUNGO. Una storia italiana di potere, mafia e trent’anni di depistaggi. PAOLO MORANDO su Il Domani il 30 maggio 2022.

La lettura dell’ultimo libro di Enrico Deaglio, Qualcuno visse più a lungo, è abbastanza sconvolgente, poiché mette in fila responsabilità precise di più parti dello stato nel tremendo susseguirsi dei fatti (le morti di Falcone e Borsellino, le stragi in “continente”, la gestione dei collaboratori di giustizia, i processi, il caso Scarantino).

È un libro che si legge d’un fiato, un affresco di storia nazionale che parte ben prima dell’avvento di Silvio Berlusconi nella politica italiana (gennaio 1994, snodo esiziale) risalendo invece a quando la Sicilia ha iniziato a diventare un “narcostato”.

Spiega Deaglio: «Questo libro è un po’ il finale di partita, visto il trentennale: gli ho voluto dare una patina di qualcosa avvenuta in tempi passati, di cui rimangono ricordi vaghi, deformati. Ma, ad essere sinceri, è da un po’ di tempo che mi ha accompagnato un senso di rabbia per la capacità che il potere ha avuto di mentire, di deformare, di depistare coinvolgendo tutta l’Italia».

PAOLO MORANDO

Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).

Trentennale stragi. Deaglio: "Trent'anni di depistaggi, pigrizia e collusioni". Ricordando la morte dei giudici, celebriamo il loro coraggio e poco altro. In Sicilia non c'è stato il ricambio della classe dirigente e nel Paese la collusione con Cosa nostra ha influenzato l'azione di magistratura e politica. Enrico Deaglio, Giornalista e scrittore, Da lavialibera n°14 il 17 maggio 2022.

Il mio ultimo libro Qualcuno visse più a lungo – La favolosa protezione dell’ultimo padrino (Feltrinelli, 2022) ripercorre la storia di uno dei clan mafiosi più misteriosi di Palermo, i Graviano di Brancaccio. Passati sotto i radar per decenni, detentori di un patrimonio che li mette ai vertici delle ricchezze italiane, i due fratelli Graviano sono stati protagonisti delle stragi palermitane e di quelle continentali, in associazione con vertici dei carabinieri e dei servizi segreti. Il loro arresto, in un ristorante a Milano il 27 gennaio 1994, ha coinciso con la fine di ogni violenza terroristica in Italia. Appena pochi giorni prima, i Graviano avevano programmato un attentato allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe sicuramente messo fine alla democrazia in Italia. Perché il telecomando che doveva azionare la bomba non funzionò? È ancora oggi un mistero.

La saga dei Graviano è stata per me un’occasione per ripercorrere la storia della mafia siciliana e i cambiamenti che ha portato nella società italiana, giungendo a conclusioni che sono un po’ diverse da quelle correnti.

Il dittatore di Cosa nostra

Per esempio, mi è sembrato importante sottolineare il peso economico-finanziario che Cosa nostra ha avuto fin dagli anni Settanta del secolo scorso, quando, oltre al controllo della spesa pubblica siciliana (cemento, ma non solo), ha aggiunto il ben più lucroso monopolio dell’export dell’eroina in Usa e in Canada. Se si rileggono ora le vicende di Michele Sindona, tanto a New York quanto a Milano, e l’incredibile storia del suo finto rapimento (1979) credo si possa cogliere una dimensione internazionale del fenomeno, che solo Giovanni Falcone aveva intuito. Di fatto, la Sicilia di quel periodo era un narcostato; con le proprie rotte di acquisizione delle materie prime, una rete diffusa di raffinerie, un articolato sistema di distribuzione, il controllo totale del territorio, una presenza imponente nel nostro sistema bancario nazionale alimentato da una liquidità senza soste. Noi in genere datiamo il momento di crisi tra Cosa nostra e lo Stato nel 1992, quando l’organizzazione non riesce a ribaltare l’esito del maxiprocesso. Penso che si possa retrodatare il tutto di almeno dieci anni: il narcostato entrò in guerra quando venne approvata la legge Rognoni-La Torre, quando Buscetta e Contorno andarono a testimoniare in America, quando Falcone immaginò la Dia e collaborò con l’Fbi.

Falcone rimane sempre più isolato: i suoi colleghi condussero una lotta ignobile contro di lui, i vertici della polizia commissariarono la squadra mobile di Palermo al solo scopo di fermarlo, si tentò di ucciderlo e di infangarlo, la politica cercò di renderlo innocuo

Gli anni Ottanta sono quelli il cui il narcostato combatte la sua battaglia interna e la guerra (con un prezzo di diecimila morti e/o scomparsi in tutto il sud Italia, circa tremila nella sola Palermo) vede emergere un dittatore sanguinario, Salvatore Riina, che non ha le qualità del leader, ma solo quelle dell’enforcer. Nello stesso tempo, Falcone rimane sempre più isolato: i suoi colleghi condussero una lotta ignobile contro di lui, i vertici della polizia commissariarono la squadra mobile di Palermo al solo scopo di fermarlo, si tentò di ucciderlo e di infangarlo, la politica cercò di renderlo innocuo. Davvero, la sua eliminazione faceva comodo a troppi: Capaci e via D’Amelio hanno una lunga preparazione.

Un colpevolissimo silenzio

Stiamo parlando di eventi lontani nel tempo, ormai, con i protagonisti quasi tutti morti e la memoria diventata piuttosto vaga; ma si resta ancora adesso interdetti dalla quantità e ampiezza di depistaggi e tradimenti che hanno accompagnato la morte di Falcone e Borsellino e impedito la verità su quanto è successo in questo Paese.

La cronaca di allora mi ha dato molti spunti per arricchire la storia per come l’abbiamo finora conosciuta: l’importanza del boss Francesco Di Carlo, la sua "british connection" e la sua affiliazione a Gladio; le vere ragioni dell’omicidio del vicecapo della Mobile Ninni Cassarà; l’opera nefasta compiuta dal commissario Arnaldo La Barbera; il ruolo avuto dai servizi segreti nella campagna stragista. Un personaggio poi, balza fuori da un colpevolissimo silenzio: Nino Gioè, boss mafioso di Altofonte, paracadutista della Folgore, reclutato dai servizi fin dall’1988, organizzatore della strage di Capaci, arrestato nel marzo 1993 e poi “suicida” a Rebibbia pochi mesi dopo.

C'è un personaggio che balza fuori da un colpevolissimo silenzio: Nino Gioè, boss mafioso di Altofonte, paracadutista della Folgore, reclutato dai servizi fin dall’1988, organizzatore della strage di Capaci, arrestato nel marzo 1993 e poi “suicida” a Rebibbia pochi mesi dopo.

Era lui, insieme a Giovanni Brusca, ad azionare il telecomando dalla collinetta di Capaci, e credo che quell’immagine possa essere considerata simbolica di quanto è successo in Italia. E poi ci sono, naturalmente, i Graviano: un clan che cerca di assomigliare alla famiglia Corleone del Padrino; si fa fatica ad accettare che non siano mai stati sospettati e siano rimasti sempre molto ai margini delle inchieste sulle stragi. Con il paradosso che sono gli unici in grado oggi di raccontare come andarono le cose davvero. 

La falsa retorica della legalità

Non ho idea di che cosa celebreremo quest’anno. Certo, il coraggio di Falcone e Borsellino, ma poco altro. Riguardando a ciò che è successo in trent’anni, la prima cosa che si può dire è che il depistaggio, la pigrizia e la collusione con Cosa nostra e il suo mondo, sono stati  dominanti nel comportamento della magistratura e della politica.

L’impostura del falso pentito Scarantino ha dominato la scena per quindici anni. L’incredibile stupidaggine dell’inchiesta trattativa, altrettanti

L’impostura del falso pentito Scarantino ha dominato la scena per quindici anni; l’incredibile stupidaggine dell’inchiesta trattativa, altrettanti; i magistrati hanno fatto affidamento su pentiti fasulli, per incuria o per convenienza e si sono circondati di una lunga serie di funzionari, periti, doppi agenti, delatori e confidenti di cui sono rimasti succubi. La stessa storia della vittoria sui corleonesi sarebbe da riscrivere; ormai si sa che Riina non venne catturato, ma consegnato, proprio come successe con il bandito Giuliano. Il disinteresse della politica per la questione mafia è ormai notorio, tutti si accontentano del fatto che da trent’anni non ci sono più cadaveri eccellenti; e per quanto riguarda la moralità dell’antimafia, purtroppo le vicende dei beni confiscati e gli esempi numerosi della falsa retorica della legalità dominano la scena, insieme allo spettacolo indecoroso delle lotte intestine tra magistrati e fautori di un minimo di umanità nelle carceri. 

In Sicilia non c’è stato, purtroppo, alcun ricambio nella classe dirigente, né quella redenzione che il sacrificio dei due giudici avrebbe dovuto promuovere. Mi dispiace non poter portare note di ottimismo. Spero di essermi sbagliato e, se fosse così, mi perdonerete. Da lavialibera n°14

La strage di Capaci, trent'anni dopo. Una storia di mafia e depistaggi. Giuseppe Marinaro su Agoramagazine.it il 23 maggio 2022.

Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d'incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di colossali depistamenti. 

Un tempo tragico, oscuro e colmo di tensione. Cinquantasette giorni separano la strage di Capaci da quella di via D'Amelio. Trent'anni i due eccidi da una verità piena la cui ricerca e' ancora oggetto di processi e nuove indagini.

Gli attentati contro Giovanni Falcone e Paolo Borsellino si consumarono in un contesto d'incapacità e complicità che va ben oltre il livello della mafia, in un quadro, certificato da una sentenza, di "colossale depistaggio".

Il verdetto del processo Stato-mafia, sulla presunta trattativa tra pezzi delle istituzioni e i vertici di Cosa nostra, del 20 aprile 2018, aveva aperto scenari inediti, poi parzialmente richiusi dalla sentenza d'appello segnata da una serie di pesanti assoluzioni. 

"Avevano già iniziato a farli morire"

Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, direttore degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia e candidato alla carica di procuratore nazionale antimafia, era appena atterrato all'aeroporto di Punta Raisi con la moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato.

Alle 17.58, sull'autostrada Trapani-Palermo, nei pressi di Capaci, la tremenda esplosione che li uccise con gli uomini della scorta. Circa 500 chili di tritolo piazzati dentro un canale di scolo esplosero mentre transitavano le Croma.

La prima auto blindata - con a bordo i poliziotti Antonino Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo - venne scaraventata oltre la carreggiata opposta di marcia, su un pianoro coperto di ulivi. La seconda Croma, guidata dallo stesso Falcone, si schiantò contro il muro di detriti della profonda voragine aperta dallo scoppio. L'esplosione divorò un centinaio di metri di autostrada. 

Poco più di un mese dopo, il 25 giugno, Paolo Borsellino denunciò la costante opposizione al lavoro e al metodo di Falcone di parti consistenti delle istituzioni: "Secondo Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone cominciò a morire nel gennaio del 1988. Io condivido questa affermazione. Oggi che tutti ci rendiamo conto di qual è stata la statura di quest'uomo, ci accorgiamo come in effetti il Paese, lo Stato, la magistratura che forse ha più colpe di ogni altro, cominciò a farlo morire il primo gennaio del 1988, quando il Csm con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Meli".

A un certo punto, raccontò Borsellino, "fummo noi stessi a convincere Falcone, molto riottoso, ad allontanarsi da Palermo. Cercò di ricreare in campo nazionale e con leggi dello Stato le esperienze del pool antimafia. Era la superprocura". La mafia "ha preparato e attuato l'attentato del 23 maggio nel momento in cui Giovanni Falcone era a un passo dal diventare direttore nazionale antimafia".  

Palermo-Beirut

Paolo Borsellino, 51 anni, da 28 in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, pranzò a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia. Poi si recò con la sua scorta in via D'Amelio, dove vivevano la madre e la sorella. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa cento chili di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo anche i cinque agenti. 

Erano le 16.58. L'esplosione, nel cuore di Palermo, venne avvertita in gran parte della città. L'autobomba uccise Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto in una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cosina, 31 anni, e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l'agente Antonino Vullo.

Trattative. La "prova regina" e il verdetto ribaltato

Dopo 30 anni restano tanti buchi neri. La sentenza di primo grado del processo Stato-mafia, che ha condannato boss, ex alti ufficiali del Ros come Mario Mori e politici come Marcello Dell'Utri, a giudizio di molti aveva dato linfa e impulso a nuove inchieste a Caltanissetta sulle stragi. Tre poliziotti sono a processo con l'accusa di essere i tasselli di una complessa strategia di depistaggio delle indagini sull'eccidio di via D'Amelio. Ilda Boccassini, ex pm a Caltanissetta da ottobre '92 a dicembre '94, ha parlato di "prova regina inconfutabile circa il fatto che Scarantino stava dicendo delle sciocchezze: si era ancora in tempo per tornare indietro e fermarsi". Non lo si fece. 

Il 23 settembre 2021 verdetto ribaltato. La Corte d'assise d'appello di Palermo, dopo tre giorni di camera di consiglio, nell'aula bunker del Pagliarelli, ha assolto il senatore Marcello Dell'Utri, "per non avere commesso il fatto", e gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, "perché il fatto non costituisce reato".

Pena leggermente ridotta a 27 anni al boss Leoluca Bagarella; confermati i 12 anni al medico mafioso Antonino Cinà, fedelissimo di Bernardo Provenzano. Rispondevano del reato di minaccia a un corpo politico. La trattativa, ma intesa come dialogo per fare cessare la stagione delle bombe e degli attentati, senza alcuna concessione da parte dello Stato, non fu reato.

Borsellino quater è cassazione

Ergastolo per i boss Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, sì alle condanne dei falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta per calunnia: è la sentenza pronunciata il 5 ottobre scorso in via definitiva dalla Cassazione che ha confermato la decisione emessa dalla Corte d'assise d'appello di Caltanissetta nel novembre 2019 nel processo Borsellino quater.

Se per Pulci è stata confermata la condanna a 10 anni dì reclusione, per Andriotta - condannato in appello a 10 anni - i giudici del Palazzaccio hanno disposto solo un lieve sconto di pena, pari a 4 mesi.

Sostanzialmente confermato il verdetto pronunciato dai giudici d'appello, i quali, da parte loro, avevano condiviso le conclusioni contenute nella sentenza di primo grado, nelle cui motivazioni, depositate nell’estate 2018, si sosteneva che, sulle indagini relative alla strage di via D'Amelio - nella quale, il 19 luglio 1992, il giudice Paolo Borsellino morì con gli agenti della sua scorta - ci fu "uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana".

"I giudici di merito - scriveva la Cassazione nella sentenza depositata a novembre 2021 - non mancano di confrontarsi con le persistenti 'zone d'ombra' sulla vicenda della strage di via D'Amelio, rimarcando comunque la paternità mafiosa dell'attentato. A proposito di tali 'zone d'ombra', la sentenza impugnata - ricorda la Cassazione - richiama la 'sparizione' dell'agenda rossa di Paolo Borsellino, le dichiarazioni di testi intervenuti nell'immediatezza della deflagrazione, dichiarazioni rivelatrici di contraddizioni che gli accertamenti svolti non hanno consentito di superare", nonché "l'anomalia del coinvolgimento del Sisde nelle indagini" e i "condizionamenti esterni e interni" sull'inchiesta.

Nella "sintesi ricostruttiva offerta dalla sentenza impugnata", osservano ancora i giudici del 'Palazzaccio' citando la Corte d'appello nissena, "la strage di via d'Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta da paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il 'maxiprocesso'": i "dati probatori relativi alle richiamate 'zone d'ombra'", ricorda la Suprema Corte ripercorrendo le sentenze di merito, "possono al più condurre a ipotizzare la presenza di altri soggetti o di gruppi di potere (co-)interessati all'eliminazione' di Paolo Borsellino", ma ciò "non esclude il riconoscimento - si legge nella sentenza odierna - della 'paternità mafiosa' dell'attentato di via D'Amelio e della sua riconducibilità alla 'strategia stragista' deliberata da Cosa Nostra, prima di tutto, come 'risposta' all'esito del maxiprocesso". 

Nel luglio 2020 si è chiuso in Corte d'Assise d'Appello a Caltanissetta, il Falcone bis: condannati i boss Salvo Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro, Lorenzo Tinnirello. Vittorio Tutino assolto come in primo grado. Il 14 giugno tocca alla Cassazione.

Per l'accusa, il boss palermitano di Cosa nostra Salvo Madonia è stato uno dei mandanti della strage, mentre gli altri sarebbero stati coinvolti nella fase esecutiva dell'attentato. Nel corso del processo, alcuni collaboratori di giustizia hanno detto che "oltre a dovere uccidere il giudice Giovanni Falcone, si dovevano eliminare Maurizio Costanzo, Michele Santoro e Pippo Baudo per allontanare l'attenzione dalla Sicilia e creare un certo allarme nel centro Italia". Ognuno "aveva un compito ben preciso e Messina Denaro diede 5 milioni di lire ciascuno per quella trasferta. A un certo punto arrivò l'ordine di tornare in Sicilia".

Poliziotti alla sbarra: "Colossale e inaudito depistaggio"

E' alle battute finali il processo di primo grado sul presunto depistaggio delle indagini successive alla strage di via d'Amelio. L'11 maggio scorso, al termine della sua requisitoria, il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca ha chiesto la condanna a 11 anni e 10 mesi di reclusione per Mario Bo e a 9 anni e 6 mesi ciascuno per Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, i tre poliziotti, ex componenti del Gruppo Falcone Borsellino, accusati di calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra. 

"Questo gigantesco, inaudito depistaggio - ha detto De Luca ha voluto coprire delle alleanze strategiche di altro livello di Cosa nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza. Tutti sapevano che Scarantino era un personaggio delinquenziale di serie C". E' finita archiviata, invece, da tempo, a Messina, l'indagine a carico di alcuni magistrati sulla presunta manipolazione di Scarantino.  

L'ultimo padrino

Fissata per il 22 giugno, con la riapertura dell'istruttoria dibattimentale, l'udienza del processo in Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta nei confronti di Matteo Messina Denaro accusato di essere stato tra i mandanti delle stragi di Capaci e via D'Amelio. Chiamato a deporre in aula, in quella data, un perito che riferirà sulle trascrizioni effettuate su una conversazione ambientale.

Il superlatitante nell'ottobre del 2020 in primo grado venne condannato all'ergastolo. Capo della mafia trapanese, ricercato dal 1993, è ritenuto uno dei responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai corleonesi di Totò Riina con il quale, avrebbe pianificato negli anni '90 l'attacco alle istituzioni. Il boss di Castelvetrano era già stato condannato per le bombe al nord Italia del 1993. Resta l'ultimo padrino. AGI

La massoneria, le mafie e quel Sistema criminale in grado di condizionare le scelte politiche. Marta Capaccioni e Mattia Fossati su antimafiaduemila.com il 29 Maggio 2022.

A Milano la conferenza con Giuseppe Lombardo, Salvatore Borsellino e Alessandro Di Battista

“Questo Paese è indegno nella misura in cui si accontenta di verità parziali, di verità distorte e non ha la forza di cercare fino fondo le risposte che servono per diventare davvero un Paese civile”. Sono state le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo intervenuto all’incontro dello scorso venerdì, intitolato “Mafie e Massoneria: il patto letale per strangolare l’Italia”. Al dibattito, introdotto dal Consigliere Luigi Piccirillo e moderato dal caporedattore di ANTIMAFIADuemila Aaron Pettinari, hanno partecipato anche Alessandro Di Battista e Salvatore Borsellino.

Durante il convegno, caduto il giorno dell’anniversario dell’attentato di Via dei Georgofili a Roma e a quattro giorni da quello della strage di Capaci, non si è parlato solo del rapporto tra mafia e massoneria, ma anche di mancate verità, di passerelle politiche e di molto altro. Come ha detto Salvatore “a trent’anni di distanza dalle stragi, a Palermo si è scatenato una sorta di carnevale, perché alle commemorazioni erano presenti persone che dovrebbero nascondere i propri volti con delle maschere. Mentre si proclamano come eroi Falcone e Borsellino, si procede ad eliminare quel patrimonio di leggi che avevamo per combattere la mafia e arrivare alla verità sulle stragi”. Chiaro riferimento alla nuova legge sull’ergastolo ostativo di cui il Parlamento discuterà durante l’estate e che a novembre potrebbe subire una pesante modifica da parte della Corte Costituzionale. Un colpo di mano bissato dalla riforma della giustizia, approvata dal Parlamento nel settembre del 2021. “Oggi - ha affermato Borsellino - la giustizia che vorrei vedere è sempre più lontana. La riforma della giustizia attuale è una rinuncia dello Stato ad essere uno stato di diritto. L’improcedibilità è un concetto assurdo, la corte europea ci chiede di accorciare la durata dei processi non di annullarli”. Un’amara constatazione che potrebbe rendere vero un altro pensiero di Salvatore Borsellino: “Si dovrebbe scrivere in tribunale che la legge non è uguale per tutti dato che i potenti potrebbero procrastinare a vita il proprio processo”. Ecco perché, sostiene il fratello di Paolo, è fondamentale continuare a supportare il lavoro dei magistrati: “Sono sempre salito sulle barricate per difendere i magistrati. Ho difeso De Magistris quando gli sono state sottratte le sue inchieste, così come ho sempre difeso Nino Di Matteo. Continuerò a salire sulle barricate anche a 90 anni per difendere la magistratura”. Quest’evento, infatti, è stato fortemente voluto da Salvatore sia per accendere un faro sul rapporto tra le stragi del ’92 –‘93 e la massoneria che per denunciare la mordacchia che la politica sta mettendo alla giustizia. Un campanello d’allarme colto anche da Alessandro Di Battista, anche lui relatore dell’evento: “Oggi la magistratura è delegittimata per colpa di quei magistrati che hanno voluto la delegittimazione. Devono continuare a lavorare a testa bassa al servizio della collettività”. Ecco perché è importante che parlino non solo attraverso le sentenze ma anche in incontri pubblici con i cittadini, come sottolinea lo stesso ex deputato del Movimento 5 Stelle: “Io mi ricordo che conobbi il pm Lombardo qualche anno fa, quando lo invitammo alla Camera assieme a Nino Di Matteo per parlare di lotta alla mafia. Credo sia un nostro diritto ascoltare Lombardo quando parla di 'Ndrangheta perché è un dovere dei giudici parlare, non solo attraverso le sentenze. Queste occasioni poi sono anche un modo per spiegare perché è intollerabile fare parte di questo governo. Stiamo parlando di un governo dove c’è anche Forza Italia”. 

Di Battista ha evidenziato l’ipocrisia di “persone che qualche anno fa protestavano davanti al tribunale di Milano” e che “ora sono tutti lì solo per la poltrona”. 

Figure che hanno votato la fiducia ad un governo in cui è presente anche il partito fondato da Silvio Berlusconi e dall’ex senatore Dell’Utri (condannato definitivo per concorso esterno), con la scusa della “campagna di vaccinazione”. "Cosa rispondevo loro? - ha aggiunto Di Battista - che c’è anche la lotta alla mafia che ora non fa più nessuno”.  

Per l’ex grillino stare dalla parte dei magistrati significa ribellarsi nei confronti di quella classe politica che sta facendo qualsiasi cosa per impedire alla magistratura di proseguire le proprie inchieste, in particolare quelle riguardanti i mandanti a volto coperto delle stragi e le collusioni con i servizi segreti. “Mi ricordo che qualche anno fa, il magistrato Roberto Scarpinato nel giorno dell’anniversario di Via d’Amelio parlò di tutti i depistaggi avvenuti in Italia, dalla strage di Portella della Ginestra alle bombe del ‘93. Tutto questo ci permette di dire che non bisogna più parlare di servizi segreti deviati, ma di servizi segreti che hanno obbedito a degli ordini. Qualcuno ha ordinato di compiere quelle azioni di depistaggio. La sentenza Borsellino Quater ha affermato che quella vicenda è stato uno dei più grandi depistaggi della storia giudiziaria italiana, si parla del principale depistaggio della storia repubblicana. Io ricordo che Francesca Castellese, moglie di Santino Di Matteo, venne intercettata mentre disse al marito di non parlare degli infiltrati della polizia in Via d’Amelio perché ‘abbiamo anche un altro figlio’”.

Nel suo intervento ha poi ricordato un’intervista recente sul Post Internazionale, in cui Lucio Caracciolo affermava che “Dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale siamo diventati una democrazia a sovranità limitata e questo può spiegare anche le stragi”. 

Una frase che apre un mondo. 

“Il mio sospetto - ha aggiunto Di Battista - è che i veri ideatori di quella stagione siano tuttora al potere. Sono sicuro infatti che se Paolo Borsellino, dopo la strage di Capaci, avesse rilasciato un’intervista soft nella quale affermava di volersi prendere una pausa e poi iniziare la caccia dei killer che avevano ucciso il suo più caro amico molto probabilmente non sarebbe stato ucciso. A volte, le interviste servono per mandare dei precisi messaggi”. 

Lombardo: 'Ndrangheta militare non conta nulla, è la componente invisibile che ha potere reale

“La ‘Ndrangheta di base, militare, cioè quella visibile non conta nulla, non ha nessun potere reale. Quello che conta sta ad un livello talmente alto che non sembra ‘Ndrangheta: è la componente invisibile della ‘Ndrangheta che conta davvero e quella è una componente massonica”. Con poche e semplici parole Giuseppe Lombardo ha descritto l’evoluzione della ‘Ndrangheta dagli anni ’90 ad oggi, la politica di sommersione che le ha permesso di non apparire mai coinvolta nelle stragi e la capacità di strutturarsi in modo tale da preservare l’organizzazione mafiosa dalle collaborazioni con la giustizia, che invece fin dagli anni ’80 hanno fatto emergere gli assetti interni di Cosa Nostra. Attualmente non si può parlare di Cosa Nostra senza parlare anche di ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita o altre organizzazioni criminali. Infatti, come ha spiegato Lombardo “parlare di mafie storiche oggi è assolutamente errato”, in quanto si tratta di qualcosa ormai di “superato e antistorico”. Ma in questo Paese da parte della maggior parte dei mezzi di informazione “è semplicissimo raccontare ciò che è stato accertato, ciò che probabilmente non è più attuale e ciò che certamente non fa più paura”. “Ci sono acquisizioni di grande rilievo, di 30 anni fa”, ha continuato il procuratore, “che ci dicono che questo tipo di approccio non porta a nulla. Questo era il metodo Falcone, il metodo di chi ha capito che un approccio settoriale non fornirà mai risposte chiare su quelle che sono le componenti apicali di questo sistema criminale e spesso e volentieri occulte”. Già 30 anni fa, nel 1992, l’ultimo collaboratore di giustizia sentito fuori verbale da Paolo Borsellino, Leonardo Messina, aveva parlato davanti alla commissione antimafia presieduta da Luciano Violante, di verità che oggi purtroppo in pochi prendono in considerazione. Rispondendo alle domande dei parlamentari, Messina tra le tante cose parlò, citando le sue parole, di “strutture segrete o riservate di Cosa nostra che non comunicano”, perché “non è che tutti gli uomini devono sapere. Vi sono uomini che non sanno oltre la propria famiglia, o la propria decina; non tutti gli uomini, cioè, vengono messi al corrente di tutto”.  

Poi parlò della componente massonica all’interno di Cosa Nostra e del fatto che ci sono persone all’interno dell’organizzazione mafiosa il cui nome deve restare sconosciuto in quanto “rivestono cariche politiche, o perché sono uomini pubblici e nessuno deve sapere chi sono. Lo sa soltanto qualcuno”. Il collaboratore rivelò anche l’esistenza di una commissione mondiale della mafia, di cui Totò Riina a partire dagli anni ’90 sarebbe diventato rappresentante e che non era solo sede di consultazione ma anche sede di decisioni importanti. Davanti a tutto questo “si può fare un contrasto evoluto senza conoscere la verità di 30 anni fa?”, è la domanda che si è fatto Giuseppe Lombardo.

In effetti oggi all’opinione pubblica viene tenuto nascosto il riferimento a questa componente invisibile o riservata che opera oltre o sopra le organizzazioni mafiose e che detiene il vero potere reale: si tratta di due mondi, il “sottomondo” e il “sovramondo”, il cui collegamento il procuratore ha spiegato utilizzando la metafora di una clessidra. La parte che poggia a terra è “la componente di base” che è “necessaria per avere il legame con determinati tipi di territori perché poi bisogna generare delle ricadute sul territorio. Poi c’è il collo stretto della clessidra che crea il collegamento tra il sottomondo e il sovramondo”. Quest’ultimo “è la parte superiore della clessidra. Il sovramondo non si palesa agli occhi della componente di base e comunica con questa attraverso un ristretto numero di soggetti che dalla componente di base vengono considerati la componente apicale e che dalla componente di vertice vengono considerati la parte di base”. La forza della ‘ndrangheta sta quindi proprio nella sua capacità di creare un’apparenza interna, per cui gli associati si sentono parte della struttura criminale e sono anche convinti di prendere decisioni, ma in realtà non sono a conoscenza dell’esistenza del mondo invisibile e quindi di quei pochissimi soggetti che veramente hanno la possibilità di decidere e che dissimulano le decisioni. L’ignoranza della componente di base rispetto alla parte che veramente conta permette all’organizzazione mafiosa di proteggersi da eventuali collaborazioni con la giustizia che potrebbero rivelare la struttura del sovramondo. 

Potere economico-finanziario delle mafie in grado di condizionare scelte politiche degli Stati

“Quel sistema criminale di cui parlavamo prima che si è ulteriormente evoluto a cavallo delle stragi, negli anni successivi a quel terribile periodo storico, ha riprogrammato il suo modo di agire, recuperando una dimensione che nei primi anni ’90 del secolo scorso in parte aveva perso: la dimensione economico-finanziaria”, ha spiegato Giuseppe Lombardo. “E lo ha fatto”, ha continuato il dottore, “non perché ha il desiderio di accumulare ricchezze su ricchezze, lo ha fatto perché essendo un crimine particolarmente evoluto e moderno, sa che il potere reale sta lì e il potere reale non significa che il potere economico-finanziario è fine a sé stesso e quindi ha un peso solo all’interno di determinati circuiti, ma anche per la possibilità di condizionare le scelte finanziarie degli Stati. Nel momento in cui quegli enormi capitali c’è il rischio che siano collocati, anche in relazione ai titoli del debito pubblico, questo diventa anche un potere politico”. In effetti, se si considera che gli ultimi dati rispetto alle dinamiche criminali evolute parlano di un volume di affari di circa 220 miliardi di fatturato all’anno, si comprende bene che, ove queste cifre, per esempio, venissero collocate anche solo in parte sui titoli del debito pubblico di uno Stato, “diventano condizionanti sulle scelte politiche”.

Inoltre, un ulteriore elemento che permette di capire la reale evoluzione della ‘ndrangheta nella gestione mondiale del narcotraffico e nell’utilizzo dei nuovi strumenti finanziari, è che questa già nel 2018 “era pronta a pagare partite di cocaina in criptovalute”. Per tale motivo, ha ripetuto Lombardo, “dobbiamo essere immediatamente in grado di immaginare quali sono le tendenze evolutive di questi fenomeni così complicati e complessi, perché dobbiamo ridurre enormemente la distanza nella reazione investigativa che bisogna contrapporre a questi fenomeni”.  

L’importanza di un’informazione corretta e il ruolo dei cittadini nel contrasto alle mafie

“Uno dei problemi più seri in questa Nazione è la presenza di agenzie di disinformazione, assolutamente presenti e operanti quali componenti di un determinato sistema criminale”, ha spiegato Lombardo. Sono quelle agenzie che parlano ancora nel 2022 di mafie storiche, che deviano la realtà dei fatti o che raccontano che oggi in Italia è rimasto da catturare un solo grande latitante, Matteo Messina Denaro.

“La Calabria”, ha aggiunto il procuratore, “è totalmente fuori da qualsiasi circuito informativo che abbia una rilevanza nazionale e anche internazionale e per il ruolo che la 'Ndrangheta ha a livello mondiale questo è inaccettabile, perché l’informazione ha un ruolo fondamentale, per la capacità di trasformare il linguaggio giuridico in un qualche cosa che diventi un elemento in grado di demolire culturalmente i fenomeni mafiosi. Senza informazione quelle sentenze rimarranno nella disponibilità di pochissimi”. In questo ognuno di noi, indipendentemente dal ruolo che riveste nella società, può trasformarsi in “veicolo di conoscenza a favore di chi non vive all’interno dei circuiti giudiziari o di polizia giudiziaria”. Così si rendono le mafie “immediatamente riconoscibili e contrastabili attraverso azioni quotidiane, a volte anche banalissime, che diventano particolarmente decisive quando sono strutturate all’interno di una rete di supporto che non fa percepire al singolo cittadino che le subisce un senso di solitudine e di impotenza, che è inaccettabile. Questo dovrebbe fare uno Stato particolarmente evoluto e soprattutto dovrebbe fare uno Stato come il nostro che ha vissuto quello che ha vissuto”. “Io una certezza ce l’ho”, ha concluso il procuratore, “noi siamo molto più forti di loro. Le persone devono avere sempre chiaro qual è la parte giusta della barricata. E la parte buona di questo Paese non sono soltanto i magistrati, i poliziotti, i finanzieri. La parte buona di questo paese siete voi. Fate fino in fondo la vostra parte e il giorno in cui arriverà la notizia che Messina Denaro è stato catturato fatevi i complimenti”.

Capaci, trent’anni fa la «sfida» più atroce. «Il dolore e la vergogna» titola un editoriale. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Maggio 2022.

«La sfida più atroce» titola La Gazzetta del Mezzogiorno di trent’anni fa. Il 24 maggio 1992 l’Italia è sconvolta dalla notizia della strage di Capaci, avvenuta il giorno prima, in cui morirono i giudici Giovanni Falcone e Francesca Morvillo e i tre poliziotti della scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. In prima pagina, oltre alla foto del giudice simbolo della lotta alla mafia, anche uno scatto del luogo della carneficina sull’autostrada Trapani-Palermo. «Il dolore, la vergogna» è il titolo dell’editoriale di Pietro Marino, che riporta le prime reazioni dei leader di partito. Ma, si chiede il giornalista, «i politici hanno finalmente capito che così non si può andare avanti? Può darsi (ma non ci giuriamo) che il Parlamento dia subito la prima risposta al nuovo violentissimo attacco criminale ponendo fine all’indecoroso spettacolo di rissosa impotenza che sta offrendo alla gente: oggi stesso – si mormora – potrebbe essere eletto il Capo dello Stato». In quei giorni, infatti, si sta consumando «il gioco al massacro», per usare le parole di Craxi, per eleggere il successore di Cossiga: circola il nome di Spadolini come favorito. Sarà eletto, invece, Oscar Luigi Scalfaro.

«Perché proprio ora?», si domanda Marino. «Il coinvolgimento della moglie richiama alla mente l’uccisione del generale Dalla Chiesa con la sua sposa. La spaventosa potenza dell’esplosione somiglia alle stragi dei treni, dalla stazione di Bologna all’Italicus. La fine dei tre agenti, ancora una volta eroi anonimi e umili del servizio allo Stato, tutti e tre figli della Puglia – (per alcune ore circola la notizia, errata, che Schifani fosse originario di Ostuni)–, ripropone quello dello scorta di Aldo Moro in via Fani».

Gli agenti, appunto: «tre vite spazzate, cancellate dalla violenza omicida della Piovra. Erano tre ragazzi venuti dal Sud, entrati a far parte della scorta di Giovanni Falcone da diversi anni». Sfogliando le pagine del quotidiano si avverte la complessità del momento: oltre alla terribile strage, grande spazio è dedicato alle dimissioni irrevocabili del segretario della Dc Forlani, allo sviluppo dell’inchiesta «Mani pulite», condotta dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro, al conflitto in Bosnia Erzegovina.

Anche in Puglia, però, qualcosa si sta muovendo sul piano della lotta alla criminalità: significativa è l’intervista di Dionisio Ciccarese all’arcivescovo di Bari sull’emergenza «malavita» nella città vecchia. « È l’ora del coraggio», afferma Mons. Magrassi.

Estratto dell’articolo di Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 21 maggio 2022.

[…] Non è una famiglia come tante quella ritratta nella foto che Repubblica è in grado di mostrare in esclusiva. L'anziano ammalato - che morirà pochi mesi dopo, il 17 novembre 2017 - è Salvatore Riina, il famigerato capo dei capi di Cosa nostra siciliana: alla fine degli anni Settanta aveva scatenato la guerra allo Stato, nel 1992 fece saltare in aria i giudici Falcone e Borsellino. Il padrino arrivato da Corleone era al carcere duro dal 15 gennaio 1993, in quell'ala dell'ospedale di Parma era stato trasferito nel 2015, quando le sue condizioni di salute si erano aggravate.

Aveva una corsia blindata solo per lui, un 41 bis in ospedale, con uno staff di medici di prim' ordine. Quel giorno, erano venuti a trovarlo i figli Salvo e Maria Concetta, con Ninetta Bagarella. 

[…] In quei giorni del 2017, si sollevò un gran dibattito dopo che le condizioni di Riina si aggravarono. Ecco la questione: giusto o no continuare a tenere al carcere duro un mafioso di 87 anni? La Cassazione intervenne per ribadire il «diritto a morire dignitosamente », lo scrisse in un provvedimento che accoglieva un ricorso dei legali del padrino di Corleone. 

Un ricorso contro la decisione del tribunale di sorveglianza che aveva negato a Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute: i giudici della Cassazione chiesero una nuova istruttoria. Alla fine, il boss restò comunque nel suo bunker in corsia.

Intanto, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria assicurava non solo il massimo della sorveglianza in ospedale per il capo di Cosa nostra, ma anche il colloquio mensile con i suoi familiari. Tutto secondo le regole del 41 bis stabilite all'indomani della strage Falcone.

Riina era tenuto sotto controllo 24 ore su 24 non solo dal reparto di eccellenza della polizia penitenziaria, il Gom, ma anche dai magistrati della procura di Palermo: le intercettazioni venivano esaminate con cura dal sostituto procuratore Roberto Tartaglia (oggi vice capo del dipartimento delle carceri) e dal procuratore aggiunto Vittorio Teresi, che indagavano su alcuni strani movimenti dei mafiosi corleonesi in Sicilia.

A rivedere oggi quell'immagine di Riina con i suoi familiari, tratta dai video di sorveglianza in corsia, viene da pensare che lo Stato abbia rispettato il monito della Cassazione: «Anche i mafiosi hanno diritto a morire dignitosamente». Senza che venga tolto il conforto dei propri cari. […]

Dedicato a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, per non dimenticare. Le esplosioni delle bombe sono sempre troppo assordanti per far finta di niente. Sono anni sfiancanti. Per l’Italia, per il mondo. L’Espresso è stato uno dei pochi giornali che ha sostenuto i due magistrati in quel periodo buio e avvelenato. E a trent’anni dalle stragi siamo tornati a fare memoria. Lirio Abbate su L'Espresso il 13 Maggio 2022.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino segnano in modo irrevocabile prima la lotta alla mafia, e poi le idee di un Paese intero. Cristallizzati e idealizzati nel momento del sacrificio, assurgono allo stato di eroi senza macchia, abbattuti vigliaccamente dai cattivi. E si sa che i cattivi sono sempre quelli che attirano di più l’interesse del pubblico. Comincia così una sorta di fascinazione per gli esponenti più in vista dell’organizzazione mafiosa: Giovanni Brusca, Filippo e Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro.

Il 1992 è quello che più di ogni altro rappresenta il punto di passaggio tra il prima e il dopo. Già da decenni in realtà, per non dire da secoli, la mafia spadroneggiava, uccideva e imponeva la sua legge: non è certo questa la novità. Ciò che cambia dopo i fatidici 57 giorni che separano il cratere di Capaci dalla devastazione di via d’Amelio è la disposizione d’animo della nazione. Se prima si dimenticava, si cercava di non vedere, adesso d’un tratto il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Quello tra Cosa nostra e il Paese è un rapporto incancrenito e denso di sofferenze. Sono un po’ come due amanti alla fine di una storia malata: l’Italia sempre pronta a cedere alla secolare tentazione di dimenticare e di girare pagina, la mafia che torna, vuole fare male, riapre di continuo la vecchia ferita.

Tra il 1992 e il 1993, se c’è qualcuno che spera di chiudere gli occhi e scordarsi del passato, viene bruscamente riportato alla realtà, mese dopo mese. Le esplosioni delle bombe sono sempre troppo assordanti per far finta di niente.

L’apogeo della potenza e della capacità distruttiva della mafia è racchiuso in un periodo tutto sommato breve: dopo le stragi del 1992, già nel gennaio del 1993 viene arrestato Riina, mentre nel gennaio del 1994 fanno la stessa fine anche Giuseppe e Filippo Graviano. Con le sue macchinose procedure, con le sue mille incertezze bizantine, l’elefantiaco corpo dello Stato ha iniziato a reagire. A pungolarlo è un’opinione pubblica sempre più accesa, e non solo dallo sdegno provocato dal sacrificio dei due eroi civili. L’arresto dei Graviano simbolicamente può essere visto come la chiusura di un’era breve e sanguinaria. Da quel momento la mafia cambia strategia, dalle bombe si passa al silenzio. I criminali cercano di inabissarsi, di togliersi dai riflettori. Troppo clamore non fa bene agli affari.

Gli anni del sangue sono quindi in realtà poco più di ventidue mesi, tra il maggio del 1992 in cui perde la vita Falcone e il gennaio del 1994 in cui i due Graviano finiscono in manette. Sarebbe impossibile comprendere il senso profondo dell’offensiva mafiosa e della risposta dello Stato senza tracciare anche solo a grandi linee il contesto nazionale e internazionale. Nei ventidue mesi fatali sono compressi infatti molti punti di svolta per un gran numero di questioni diverse. Impossibile condensarne le complessità in un solo termine. Anche se forse c’è una parola che potrebbe fare da etichetta a questo lungo e spesso atroce intervallo: sfiancante.

Sì, sono anni sfiancanti. Per l’Italia, per il mondo. L’Espresso quegli anni li ha raccontati. Ed è stato uno dei pochi giornali che ha sostenuto Falcone e Borsellino in quel periodo buio e avvelenato per i due magistrati. In linea con l’identità di questo giornale. Ieri, oggi e lo sarà anche domani.

A trent’anni da quelle stragi noi siamo tornati a ricordare, a fare memoria, a testimoniare, e perciò ringrazio tutti quelli che hanno accettato di scrivere per questo speciale che trovate in edicola da domenica 15 e online. Dedicato a Falcone e Borsellino e alle vittime innocenti della mafia. 

Anticipazione da “Oggi” il 18 maggio 2022.

Tony Gentile, il fotografo dello scatto più famoso di Falcone e Borsellino, esposto negli uffici pubblici, nelle caserme, nelle scuole, racconta a OGGI, in edicola da domani, cosa c’è dietro quell’istantanea, la numero 17 del rullino, e rivela che per decisione di un giudice non un’opera dell’ingegno e quindi, trascorsi 20 anni, è di tutti.

«Eppure per lei ho ricevuto anche un’onorificenza, qualcuno le ha riconosciuto un valore e allora dico: è giusto che venga difesa, protetta», dice. La sentenza è del 2020, confermata in Appello, ora Tony Gentile attende la Cassazione «con fiducia, ma non tanto», mentre un nuovo rifiuto è giunto a inquietarlo. La foto è diventata il soggetto della moneta da 2 euro con cui verranno ricordate le stragi del ‘92: 3 milioni di pezzi inonderanno l’Italia.

«Mi contattò la Zecca», spiega, «per chiedermi una liberatoria all’utilizzo del soggetto da parte dell’incisore. Poi più niente. Il motivo? Nel frattempo avevano saputo della sentenza, non c’era più bisogno del mio consenso. Lo Stato, dico lo Stato, che certifica che io non esisto, che quella foto non vale nulla. Sia chiaro, mi trovo a difendere un principio che sembra interessare pochi: la musica, l’arte e io dico anche la fotografia sono sempre il frutto di una scelta, di un gesto creativo».

 Rita Atria, la settima vittima di via D'Amelio. Documenti inediti nel libro di Cucè, Furnari e Proto. Lucio Luca su La Repubblica il 9 Giugno 2022.  

Il volume pubblicato da Marotta&Cafiero Editori sarà presentato sabato 11 giugno alle ore 18 a Palermo nel corso di Una Marina di libri a Villa Filippina.

Quel 19 luglio, in via D’Amelio, esattamente trent’anni fa, le vittime non furono sei. Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, certo. Ma non soltanto loro. Perché a distanza di un migliaio di chilometri, in uno squallido appartamento del quartiere Tuscolano, quel giorno cominciò a morire anche una ragazzina trapanese di nemmeno 18 anni, figlia e sorella di mafiosi uccisi nella terribile faida di Partanna, che a Borsellino aveva affidato la sua vita di collaboratrice di giustizia. Si chiamava Rita Atria, il 19 luglio del 1992 capì che per lei non c’era più alcun futuro.

“Io sono Rita, la settima vittima di via D’Amelio”, pubblicato da Marotta&Cafiero Editori, la casa editrice indipendente open access di Scampia, non è soltanto un libro che ripercorre il calvario di quella ragazzina, fuggita dalla sua famiglia, da una madre che la voleva chiusa in casa, un fidanzato spacciatore nelle mani della mafia, gli sguardi di un paese che non sentiva più suo. No, si tratta piuttosto di una contro-inchiesta giudiziaria fatta sulle carte ingiallite della Procura che, finalmente, sono venute fuori grazie alla determinazione di tre donne: Giovanna Cucé, giornalista del Tg1, Nadia Furnari, fondatrice e vicepresidente nazionale dell’Associazione Antimafie Rita Atria e Graziella Proto, direttrice della rivista antimafia Le Siciliane/Casablanca.

Rita Atria Documenti e verbali inediti e una serie di dubbi sui quali, con ogni probabilità, regnerà per sempre il mistero. L’unica impronta ritrovata nell’appartamento del Tuscolano e mai nemmeno comparata con quelle di Rita dopo il suicidio della ragazza avvenuto il 26 luglio del ’92, una settimana dopo la strage di via D’Amelio. L’agendina di Rita, con tanti numeri “sensibili”, fatta sparire con una semplice richiesta - senza un nome né un cognome - al magistrato incaricato dell’inchiesta quando la giovane trapanese era ancora all’obitorio dell’ospedale, i suoi spostamenti senza protezione, i venti giorni in un liceo classico della capitale dove era stata trasferita dall’Alto Commissariato antimafia, le indagini sulla morte della ragazza chiuse – forse – un po’ troppo in fretta.

Non ci sono accuse ma solo una minuziosa ricostruzione di quella settimana terribile conclusa con quel corpo che si lascia cadere dal settimo piano di una palazzina anonima del Tuscolano. Dove, peraltro, Rita era riuscita a trasferirsi solo da qualche giorno, dopo aver convissuto per mesi con la cognata Piera Aiello – oggi parlamentare – anch’essa collaboratrice di giustizia dopo l’uccisione del marito Nicola.

“Se dovessi morire non devi piangere, anzi, brindare, perché, finalmente, raggiungerò le persone che ho veramente amato, mio padre e mio fratello”, è il saluto inaspettato che Rita rivolge a Piera quando gli agenti la accompagnano nella sua nuova – ultima – dimora di via Amelia. “Ho preso una decisione importante, ma non posso dirti niente, te lo dirò al tuo ritorno”.

Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto “Ci sono storie che non sbiadiscono, storie che racchiudono in sé tutti i fotogrammi di una tragedia antica ed al contempo raccontano anche la nostra triste attualità – scrive nella prefazione del libro Franca Imbergamo, sostituta procuratrice nazionale antimafia - La storia di Rita Atria, la ragazza che ancora minorenne raccontò a Paolo Borsellino ed alle sue sostitute procuratrici, i segreti della mafia di Partanna, è in realtà un percorso dentro la vita di una famiglia mafiosa e di un’intera società”.

“Questo libro, scritto con autentica sincerità ed impegno civile – continua Imbergamo - ci porta a conoscere uno spaccato di vita siciliana, ci rende visibile l’essenza del dominio mafioso. Ed è anche la storia della passione di chi mette in gioco tutto in solo momento, quello della decisione di collaborare. Una passione che la porterà ad un gesto terribile, un esito tragico maturato nella solitudine vergognosamente inflitta ad una ragazza non ancora maggiorenne senza che le istituzioni chiamate a proteggerla si fossero curate della sua fragilità e della necessità di adeguato sostegno”.

Il libro: Io sono Rita. Rita Atria: la settima vittima di via D’Amelio di Giovanna Cucè, Nadia Furnari e Graziella Proto Marotta&Cafiero

Salvatore Borsellino: ''L'Italia non meritava il sacrificio di Falcone e Borsellino''. Fonte: AndKronos -AMDuemila 11 Maggio 2022

Il fratello del giudice assassinato: "A trent'anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia"

"Viene davvero da pensare che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone abbiano sacrificato la propria vita per un Paese che non lo meritava. Purtroppo al peggio non c'è mai fine. Quello a cui stiamo assistendo in questi giorni in Sicilia è quanto non ci si doveva e poteva aspettare". Così ha detto all'AdnkronosSalvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, il magistrato ucciso insieme agli agenti della scorta il 19 luglio 1992 in via D'Amelio, a Palermo.

Il suo duro atto di accusa si accosta alle parole pronunciate ieri da Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo, magistrato e moglie di Giovanni Falcone, assassinata dal tritolo dei boss 30 anni fa nella strage di Capaci assieme al marito.

"A trent'anni dalle stragi la Sicilia è in mano a condannati per mafia", aveva detto Alfredo partecipando alla presentazione del libro 'Francesca. Storia di un amore in tempo di guerra' di Felice Cavallaro.

Salvatore ha raccolto queste parole: "Purtroppo non posso che essere d'accordo - ha detto - Alfredo Morvillo utilizza toni pacati nella sua denuncia, ma dice cose vere e lo fa con forza". Il riferimento è alla campagna elettorale per le amministrative di Palermo e al ritorno al centro delle cronache politiche nelle ultime settimane di Marcello Dell'Utri e Totò Cuffaro. Entrambi hanno avuto delle vicende giudiziarie legate a Cosa Nostra. L'ex presidente della Regione siciliana dopo aver scontato una condanna per favoreggiamento a Cosa nostra, ha rifondato la 'Nuova Dc', partito che sostiene nella corsa a Palazzo delle Aquile il candidato sindaco del centrodestra, Roberto Lagalla. 

Mentre Marcello Dell'Utri, cofondatore di Forza Italia, era stato condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa. Condanna finita di scontare nel 2019.

"È assurdo che due persone con condanne per mafia possano fare da grandi elettori per le elezioni siciliane - ha sottolineato il fondatore del movimento delle Agende rosse - Ancora di più che i candidati appoggiati non si dissocino in nessun modo da questo sostegno, finendo anzi per accettarlo e, in qualche caso, per ricercarlo". Insomma, avverte Salvatore Borsellino, "il problema non è Cuffaro", anche perché "nel nostro Paese esiste il diritto all'oblio", ma chi accetta il suo appoggio. "Lui è padrone di fare ciò che vuole, ha pagato il suo debito con la giustizia. Il problema è chi accetta l'appoggio di una persona dalla quale per i suoi trascorsi giudiziari dovrebbe invece assolutamente prendere le distanze". E' un tema di "opportunità morale", ha ribadito. "Esiste qualcosa che è al sopra delle leggi: l'etica e la morale, anche se in Italia non so ancora quanto esistano e che peso abbiano". Ma "non c'è da aspettarsi molto in un Paese in cui un condannato per frode fiscale, indagato dalla Procura di Firenze per cose ancora più gravi, ha potuto ipotizzare di candidarsi alla Presidenza della Repubblica tenendo in sospeso per mesi le trattative con la sua ingombrante presenza".

Ancora una volta, a 30 anni dalle stragi, il fratello di Paolo Borsellino, ha fatto sapere che non parteciperà alle cerimonie in programma il 23 maggio. "Mio fratello è stato ucciso il 19 luglio. Queste unificazioni di anniversari, forse per lavarsi la coscienza più in fretta, non le ho mai accettate e continuerò a non accettarle". Il 23 maggio non sarà all'Aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo. "Non ci sono mai stato e non farò un'eccezione quest'anno. Le manifestazioni istituzionali non mi interessano", dice Salvatore Borsellino, per il quale quelle stesse "Istituzioni che ancora non sono state capaci a 30 anni di distanza di dare verità e giustizia dovrebbero evitare di presenziare a cerimonie in ricordo di servitori dello Stato che per fare fino all'ultimo il loro dovere hanno sacrificato la loro vita".  L'invito, allora, è "a non fare passerelle". In via D'Amelio il 19 luglio non ci saranno palchi e interventi. "Poiché in questo 30ennale delle stragi si scateneranno i megafoni della retorica e parlerà anche chi, come disse mio fratello tanti anni fa, ha perso il diritto di parlare, quest'anno faremo una manifestazione all'insegna del silenzio. La chiameremo 'La voce del silenzio'. Non ci saranno né palchi né dibattiti, perché ai megafoni della retorica vogliamo rispondere con il silenzio". Su una semplice pedana allestita là dove il tritolo di Cosa nostra spezzò le vite del giudice Paolo Borsellino e dei suoi 'angeli' si esibirà il violoncellista Luca Franzetti. "Eseguirà le sei Suites per violoncello di Bach, in particolare la numero 2, ispirata alla rabbia, e la 3 all'amore: i due sentimenti che mi hanno tenuto in piedi in questi 30 anni", ha concluso Salvatore Borsellino.

Il fratello di Borsellino: "Quest'anno via D'Amelio vietata alle passerelle". La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Basta alle passerelle di autorià. celebrazioni vietate a chi non collabora alla verità su via D'Amelio. Lo dice, alla vigilia del trentennale della strage, il fratello del giudice paolo Borsellino, Salvatore: "Sono passati trenta lunghi anni senza verità. Sono stati celebrati numerosi processi, ma ancora attendiamo di conoscere tutti in nomi di coloro che hanno voluto le stragi del '92-'93. Abbiamo chiaro che mani diverse hanno concorso con quelle di Cosa nostra per commettere questi crimini, ma chi conosce queste relazioni occulte resta vincolato al ricatto del silenzio. Ora chiediamo noi il silenzio. Silenzio alle passerelle. Silenzio alla politica".

E così via D'Amelio, epicentro delle manifestazioni del 19 luglio, diventa strada "vietata alle passerelle politiche".

"Invece di fare tesoro di ciò che in questi trent'anni è successo - aggiungono Salvatore Borsellino e il movimento delle Agende rosse - ci accorgiamo che la lotta alla mafia non fa più parte di nessun programma politico. Anzi, alcuni recenti provvedimenti legislativi, come la cosiddetta riforma che introduce il principio dell'improcedibilità per numerosi tipi di reati e la cosiddetta riforma dell'ergastolo ostativo in discussione presso il Senato, fanno carta straccia degli insegnamenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Adesso basta con queste disonestà. I cittadini si aspettano dalle istituzioni azioni concrete, dissociazioni dalla mafia e soprattutto trasparenza per riavere la loro fiducia. Quest'anno la nostra giornata di memoria si intitolerà "Il suono del silenzio" e poichè niente deve poter rompere questo silenzio, se non la musica, ci sarà in via D'Amelio soltanto una pedana sopra la quale un grande violoncellista, Luca Franzetti, che abbiamo scelto non soltanto per la sua arte ma anche per il suo grande impegno civile, suonerà e commenterà le sei suites per violoncello solo di Bach, in particolare la numero 2, ispirata alla rabbia e la numero 3, ispirata all'amore".

Fiammetta Borsellino: «Non partecipo agli anniversari di via D’Amelio. Mio padre fu lasciato solo e tradito». su L'Espresso il 24 giugno 2022.  

La figlia di Paolo Borsellino diserterà le cerimonie. E a L’Espresso dice la sua su magistrati, depistaggi e riforme​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​​. «Una parte si è appropriata della memoria, anche indebitamente, monopolizzandola. Quando ho denunciato la solitudine di mio padre e il tradimento da parte dei suoi colleghi ho sentito il gelo intorno a me». Piero Melati su L'Espresso il 24 giugno 2022.  

Il trentennale della strage di via D’Amelio per Fiammetta Borsellino è cominciato così. Una mattina si è affacciata al balcone della sua abitazione, nel quartiere palermitano della Kalsa, lo stesso dove suo padre è nato e cresciuto. Sul muro di fronte, come una apparizione, ha visto un murales a colori che ritraeva il giudice Paolo Borsellino, in giacca e cravatta, con la mano sinistra in tasca e con la destra a reggere quella borsa che è stata sottratta il 19 luglio del 1992 dalla sua auto blindata ancora in fiamme, dopo l’esplosione dell’autobomba.

Parla la figlia del magistrato. “Paolo Borsellino tradito dai Pm, non è stato ucciso solo dalla mafia”, parla Fiammetta la figlia del magistrato vittima della strage di via D’Amelio. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

«Ho deciso di disertare tutte le manifestazioni ufficiali per la strage di via D’Amelio fino a quando lo Stato non spiegherà cosa è accaduto davvero e non dirà la verità: nonostante le celebrazioni, si è sempre fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio». A dirlo è Fiammetta Borsellino, la figlia di Paolo, il magistrato palermitano che trenta anni fa perse la vita nell’attentato di via D’Amelio assieme a cinque agenti della sua scorta. Fiammetta, in questi giorni non si trova a Palermo e nessuno è riuscito a farle cambiare idea. «Mio padre non è stato ucciso solo da Cosa nostra, ma il lavoro di Cosa nostra è stato ben agevolato da persone che sicuramente hanno tradito», prosegue Fiammetta.

Erano le 16:58 del 19 luglio del 1992 quando una Fiat 126 rubata e imbottita di 90 chilogrammi di esplosivo telecomandato a distanza esplose in prossimità del civico 21, proprio nel momento in cui il magistrato stava entrando nella casa della madre. Da quel giorno un susseguirsi di presenze continue nell’abitazione di casa Borsellino invase la vita dei tre figli Lucia, Manfredi e Fiammetta, oltre che della moglie Agnese. «A casa mia da quando è morto mio padre, è entrato chiunque. Ma se all’inizio questa presenza continua era giustificata come forma di attenzione, alla luce di tradimenti e depistaggi, ci ha fatto capire che c’era una forma di controllo, una necessità di una sorta di ‘stordimento’. Ad una finta attenzione non è infatti seguito alcun percorso di verità: abbiamo avuto solo tradimenti e false rappresentazioni». Fiammetta, la più giovane dei tre figli del magistrato, ha ingaggiato una battaglia di verità soprattutto negli ultimi anni da quando, dopo la sentenza di primo grado del Borsellino Quater, poi confermata dalla Cassazione, si è accertato che le dichiarazioni rese dall’allora super teste dell’accusa Vincenzo Scarantino furono “al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.

Furono diversi i magistrati che si occuparono di Scarantino, ad iniziare da Ilda Boccassini. «Lei non sapeva dire di no alle pressioni del questore Arnaldo La Barbera», puntualizza Fiammetta: «Per mettersi il ferro dietro la porta ha scritto una letterina al procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra. Io dico che se la dottoressa Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo». «La Boccassini – ricorda Fiammetta – è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino nel super carcere di Pianosa e poi si è saputo che servivano a fargli dire il falso con torture e minacce». «Ilda Boccassini chiede ai colleghi di applicare le norme del codice perché si rende conto di ciò che fanno, una cosa così grave non la puoi scrivere in una letterina. E darla a un procuratore che poi la mette in un cassetto e la lascia lì. Per me la denuncia è un’altra cosa. La si fa pubblicamente. Come mi ha insegnato mio padre. Io l’ho letto come un mettersi il ferro dietro la porta. Questa non è una denuncia o stoppare un percorso deviato», continua Fiammetta. La figlia del magistrato è da sempre critica verso quella magistratura che non ha saputo (o voluto), a tempo debito, effettuare indagini efficaci per scoprire gli autori della strage.

Fu solo grazie al pentito Gaspare Spatuzza che Scarantino si scoprì essere un taroccatore. «Abbiamo avuto magistrati che non hanno fatto le verbalizzazioni dei sopralluoghi nei garage dove Scarantino diceva di avere rubato la macchina. Se fosse stato fatto un verbale ci si sarebbe resi subito conto della inattendibilità di Scarantino che non sapeva neppure come si apriva quel garage, se non avessero delegato segmenti di indagine ai servizi segreti, se avessero esercitato quel controllo previsto dalla legge sugli organi investigativi il depistaggio non ci sarebbe stato. Tutto questo non può avvenire sotto gli occhi di chi invece deve controllare e coordinare, cioè i magistrati», prosegue ancora Fiammetta.

«Se un medico avesse sbagliato un’operazione di questo tipo – aggiunge – sarebbe stato messo subito dietro le sbarre, qui invece si è deciso di non avviare nessuna indagine, né sul piano disciplinare o penale. E quel poco che si è fatto è stato subito archiviato. C’era la volontà della magistratura di non guardare dentro se stessa, perché si doveva partire da quella frase che disse mio padre quando definì la Procura di Palermo ‘quel nido di vipere’”. «Mio padre, pochi giorni prima di quel tragico 19 luglio 1992 disse a mia madre che “non sarà la mafia ad uccidermi, ma i miei colleghi che glielo permetteranno”. Bene, qualcuno vuole andare a vedere finalmente cosa c’era dentro quel ‘nido di vipere’?», conclude Fiammetta. Paolo Comi

Borsellino, ritratto di famiglia dall'interno. Piero Melati su L'Espresso il 15 Luglio 2022.

Il lutto, l’incontro con i killer del padre, il gelo con lo Stato, le scuse mai arrivate. I figli del giudice si raccontano in un libro. Nato al tavolino di un bar

Questo libro, Paolo Borsellino, per amore della verità, è stato tessuto da due donne, Lucia e Fiammetta Borsellino. L’autore ha fatto semplicemente da telaio. Con Fiammetta, la figlia minore del giudice, avevamo una consuetudine. Prima della pandemia, ci incontravamo al mattino in un paio di bar del quartiere palermitano della Kalsa, mentre le sue figlie Felicita e Futura erano a scuola.

La figlia di Borsellino e le accuse choc: “Papà e Giovanni Falcone morti perché abbandonati dai colleghi”. Il Tempo il 19 maggio 2022

«Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito, a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre». A parlare in maniera così forte in un’intervista a Repubblica è Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso dalla mafia di Cosa Nostra il 19 luglio 1992 nella strage di via D’Amelio. 

«C’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento. L’ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi» le parole di fuoco della figlia del giudice antimafia, che poi continua: «Dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D’Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l’intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così».  

Quanto alla prossima sentenza del processo a Caltanissetta sul depistaggio la Borsellino dice: «Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano».

Brunella Bololli per “Libero quotidiano” il 20 maggio 2022.

L'atto d'accusa arriva a pagina 25 de La Repubblica, eppure le parole di Fiammetta Borsellino meriterebbero la ribalta in un momento in cui c'è chi s' interroga ancora sull'opportunità di organizzare un referendum sulla giustizia italiana e se è il caso di votare sì per cambiare le cose, oppure se è meglio aspettare. 

Chissà quando. La figlia del giudice assassinato dalla mafia 30 anni fa era una ragazzina quando ha realizzato che nulla sarebbe più stato come prima, la sua famiglia distrutta dall'assenza di un padre tanto amato, la decisione comunque di restare a Palermo e poi anni di processi, testimonianze, ricerca di colpevoli funestata da continui depistaggi perfino da parte di chi doveva indagare.

Ora, mentre si organizzano cerimonie e i vertici della magistratura fanno discorsi pieni di retorica per omaggiare Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, Fiammetta si sfoga. «Ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria», dice.

«Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che lo affermino e che tanto non arriveranno mai. Per noi», continua la figlia del giudice, «sono chiare le connivenze, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale a balbettare sfilze di “non ricordo”.

Ad essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza del popolo italiano». Parole coraggiose, come quelle che affido a Libero il 25 settembre all’indomani della sentenza sul processo trattativa Stato-mafia. Perché non vi e dubbio che ci sia stata la mano armata di Cosa nostra a Palermo e a Capaci, ma «anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d’argento».

Fiammetta Borsellino: "Mio padre e Falcone consegnati alla mafia dai loro colleghi". La Repubblica il 18 maggio 2022.

Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all’idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. Perchè nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre.

Alessandra Ziniti per “la Repubblica” il 19 maggio 2022.

Dalla sua terrazza nel centro storico, Fiammetta Borsellino guarda Palermo senza alcun rancore. «Non è questa città che ha ucciso mio padre e Giovanni Falcone. Sono passati 30 anni e ormai ci siamo rassegnati all'idea che noi familiari di tutte le vittime delle stragi non avremo mai una verità giudiziaria. 

Perché nessuno ha voluto guardare dove si doveva guardare da subito: a quel palazzo di giustizia covo di vipere, come lo chiamava mio padre. Lui e Giovanni Falcone, almeno nell'ultimo anno della loro vita ne avevano piena consapevolezza». 

Lei era ancora una ragazzina nel 1992. Si ricorda cosa diceva suo padre?

«Dopo la strage di Capaci disse a mia madre: "La mafia ucciderà anche me quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che adesso sono rimasto davvero solo"».

E così è stato?

«Senza dubbio. C'è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando le teste di Falcone e Borsellino su un piatto d'argento. L'ormai famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone. Io oggi da figlia sono consapevole che mio padre è morto perché è stato abbandonato dai suoi colleghi». 

Parole dure le sue

«Che occorreva dire. E dirò anche di più. Fin quando siamo stati zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. 

Da quando invece io ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi di Capaci e via D'Amelio sono a più livelli, da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che ci stava attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, per l'intitolazione di una strada ad Emanuela Loi, una degli agenti di scorta uccisi con lui. 

Sono rimasta sola. Nessuno, dico nessuno dei magistrati presenti, mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così». 

L'ultimo processo, quello sul depistaggio, andrà a sentenza proprio in coincidenza con i 30 anni delle stragi. Non crede che riuscirà a stabilire la verità?

«Ho assistito a decine di testimonianze di magistrati, avvocati, investigatori, una sfilata di reticenza, di "non ricordo" di fatti che avrebbero dovuto segnare anche le loro vite. Una cosa, dal punto di vista umano, veramente inaccettabile, misera, pietosa. Dall'aula della corte d'assise di Caltanissetta sarei potuta uscire con un sentimento umano diverso se solo avessi percepito una disponibilità alla ricerca della verità che non ho visto».

Tanta amarezza dunque in questo trentennale dalle stragi?

«Mi creda, ormai, abbiamo trovato pace. Tutto finalmente è chiaro. Non abbiamo più bisogno di sentenze di condanna che tanto non arriveranno mai. Per noi ormai sono chiare le connivenze vere, le omissioni, le menzogne, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un'aula di tribunale e a balbettare monosillabi. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l'intelligenza del popolo italiano».

Come ha raccontato alle sue figlie la storia del nonno e di Giovanni Falcone?

«Capisco che può sembrare strano ma non c'è stato bisogno di raccontare loro nulla. In casa siamo stati sempre circondati dai nonni anche quando non c'erano più. C'è la bicicletta di mio padre appesa a una parete, la vecchia insegna della farmacia di famiglia, le foto della cena di riappacificazione di mio padre e Leonardo Sciascia. Ne parliamo sempre con grande serenità.

Posso dire che i nostri figli hanno vissuto quel passato come presente. Certo, a scuola, qualche volta è capitato che gli abbiano detto: "Tuo nonno è morto con un'autobomba" ma anche loro hanno imparato a gestire questa parte pubblica».

Qual è la più grande eredità che le ha lasciato suo padre?

«La faccia pulita dell'Italia, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grandissima relazione che ho con tantissima gente onesta, vera. Ricca non certo materialmente. Quando papà è morto sul suo conto corrente abbiamo trovato un milione di lire. Perchè oltre alla nostra famiglia portava avanti quella di una sua sorella rimasta sola con sette figli e aiutava anche quelle di alcuni uomini delle forze dell'ordine a lui vicini. Era il papà silenzioso di tanti».

Il j’accuse di Fiammetta Borsellino: «L’omertà è nello Stato, questa è una certezza». Fiammetta Borsellino su L'Espresso il 18 maggio 2022. 

È accettabile che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ma è inaccettabile il silenzio di pezzi delle istituzioni.

No che non mi sentirò appagata dall’esito dei processi sulla morte di mio padre e, soprattutto, su quel che è successo dopo: il più grande depistaggio della storia, come è stato definito. E so che tanta parte dell’opinione pubblica la pensa esattamente come me.

Nonostante l’encomiabile sforzo di pochi, pochissimi, magistrati come Stefano Luciani e Gabriele Paci, la verità giudiziaria non potrà dare conto dell’omertà di Stato che ha coperto e copre chi ha lavorato nelle istituzioni per inquinare tutto. Più mi addentro in questa melma e più il marcio risulta evidente. So però che anche questa è una verità, patrimonio ormai di tutti. O quasi.

È accettabile, fa parte della loro natura, che i mafiosi si trincerino dietro i «non ricordo». Ho incontrato i Graviano, loro negano perfino la loro stessa esistenza, negano l’evidenza. I mafiosi preferiscono morire in galera anziché parlare.

È inaccettabile però constatare il silenzio di pezzi dello Stato. I “non ricordo” di magistrati e poliziotti. L’ostinata negazione delle loro omissioni e delle loro manipolazioni. Per queste, non solo non hanno pagato ma, al contrario, sono stati premiati con riconoscimenti di carriera. Sono tutti giunti all’apice dei loro uffici. E anche questa è una verità che ci viene spiattellata davanti con violenta evidenza.

Nessuno può veramente credere che solo un manipolo di poliziotti abbia depistato le indagini sulla strage senza avalli e coperture da parte di chi ha orchestrato tutto. Senza connivenze di poteri istituzionali e della magistratura. Perché in definitiva è per questa gente che mio padre è morto. Sono le stesse persone, gli stessi settori delle istituzioni che hanno ostacolato, isolato e mandato a morire un uomo che aveva una incrollabile fede nello Stato.

Per questo, anche nell’amarezza, non resta che andare avanti, facendo tesoro di quanto abbiamo capito fin qui. La nostra consapevolezza è la spinta che mi porta a rifuggire dalle commemorazioni di facciata, anche da quelle con il crisma dell’ufficialità, e aderire con slancio, al contrario, a tutte le occasioni di confronto diretto e franco con i giovani delle scuole.

Ho ricevuto nei giorni scorsi l’invito a partecipare a un evento da parte del procuratore generale della Cassazione. Quando mi ha cercato, credevo volesse darmi conto delle doverose iniziative istituzionali adottate per sanzionare chi ha permesso che nelle istituzioni si lavorasse contro la verità. Mi ha spiegato che la prescrizione impedisce qualsiasi intervento. Ho ribattuto che dovrebbe sentire la responsabilità di spiegarlo al Paese che ha il diritto di sapere. Dovrebbe avvertire l’onere di informare tutti noi sulle ragioni che non permettono di punire gli errori commessi. Sarebbe quantomeno un atto di onestà intellettuale.

In assenza di questo, ogni altra richiesta suona come offensiva. Se il cancro della menzogna e dell’omertà infesta i palazzi, c’è una speranza che viene dal senso di giustizia e dalla purezza che constato nei giovani che incontro. Raccolgo con loro il principale insegnamento di mio padre e li invito, malgrado tutto, a considerare lo Stato come amico e non come un nemico. Perché non possiamo correre il rischio di cedere alla sfiducia, di cadere nel disfattismo. Tradiremmo il senso dell’impegno di Paolo Borsellino.

Noi stessi, noi figli siamo andati avanti e crediamo ancora nell’essenza di quello stesso Stato in cui credeva mio padre. Nell’impegno per fare della nostra terra, della nostra città un posto dove è bello vivere e per il quale vale la pena spendersi.

Dobbiamo tutti quanti andare avanti, andare oltre. Senza mai dimenticare. E se il depistaggio rende impossibile il miracolo della completa verità giudiziaria, abbiamo già tutti gli elementi per giudicare e comprendere ciò che è realmente accaduto. 

30 anni dalla strage di Via D'Amelio. La furia di Fiammetta Borsellino: “Sulla strage di via D’Amelio lo Stato non ci ha detto la verità”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Luglio 2022. 

Ci sono due date nei prossimi giorni che non potranno essere dimenticate: il 19 luglio, perché saranno trent’anni da quando è stato assassinato Paolo Borsellino, e il 12 luglio, perché una sentenza potrebbe produrre un pezzetto di giustizia sul più grande depistaggio di Stato, la costruzione del falso pentito Vincenzo Scarantino. È tornata alla carica in questi giorni Fiammetta, combattiva figlia del magistrato vittima della mafia, che ha le idee molto chiare sulle responsabilità, ed è chiaro che quando parla di “uomini che lavorano per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio”, il suo pensiero non va a quei tre poliziotti, di cui due ormai in pensione, che rischiano la condanna per calunnia nell’aula del tribunale di Caltanissetta.

La famiglia Borsellino non andrà alle celebrazioni ufficiali. Ci asterremo, ha detto Fiammetta in occasione della presentazione di un libro su suo padre, “…fino a quando lo Stato non ci spiegherà cosa è accaduto davvero, non ci dirà la verità: nonostante tutte queste celebrazioni si è fatto un lavoro diametralmente opposto su questo barbaro eccidio”. Non salva nessuno, la figlia del magistrato, anche se la catena è lunga. Non assolve nemmeno l’ex pm “antimafia” Ilda Boccassini, la prima tra i magistrati che operarono in quegli anni in Sicilia (fu applicata per due anni a Caltanissetta, dopo le stragi di mafia, dal 1992 al 1994) ad avanzare dubbi sulla genuinità delle parole di Scarantino. Aveva lasciato una relazione scritta al procuratore capo Tinebra, prima di tornare a Milano. A Fiammetta Borsellino questo non basta: “Io dico che se la Boccassini aveva qualche dubbio sul falso pentito Scarantino doveva fare una denuncia pubblica, così è troppo comodo. La Boccassini è quello stesso magistrato che ha autorizzato dieci colloqui investigativi di Scarantino a Pianosa e poi si è saputo che servivano a fare dire il falso a Scarantino con torture e minacce…”. La ex pm, conclude la figlia del magistrato, non avrebbe dovuto limitarsi a una “letterina”. Perché avrebbe potuto far esplodere il caso. Forse. O forse no, visti i tempi.

Già, i tempi. La fila delle responsabilità è lunga, dovrebbe partire da quegli agenti di polizia penitenziaria che fisicamente furono addosso tra il 1992 e il 1993 ai detenuti, mafiosi e non, deportati nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara. E poi quegli altri che tramite i colloqui investigativi si attivavano per costruire il “pentitificio” che avrebbe consentito a questori, capi di polizia, magistrati e governi di risolvere i “casi” delle stragi di Cosa Nostra. Le uccisioni di Falcone e Borsellino e tutte le altre, in modo da chiudere in bellezza (si fa per dire) un’intera storia. Con le leggi speciali, i colloqui investigativi senza controlli e qualche capro espiatorio da tenere in galera a vita. Non Totò Riina e gli altri boss, perché erano tutti latitanti. Se il 12 luglio prossimo Mario Bò, l’ex capo del gruppo di indagine Falcone- Borsellino e gli ispettori in pensione Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, imputati a Caltanissetta per calunnia aggravata, dovessero essere condannati, forse si sarebbe raggiunto un pezzetto di giustizia. Il pubblico ministero Stefano Luciani ha usato parole durissime, prima di chiedere le condanne rispettivamente a undici anni a dieci mesi al primo e nove anni e mezzo agli altri due.

Non saremo noi a chiedere per loro più carcere, per una severità che somiglia tanto alle famose lacrime di coccodrillo. Perché, anche a voler partire dalla coda, dovremmo chiamare a processo dei fantasmi, prima di tutto. Cioè coloro che, obbedendo a ordini o a “suggerimenti”, ha messo le mani su quei corpi reclusi, ha picchiato e torturato, ha messo vermi e pezzetti di vetro nelle minestre ed è arrivato a terrorizzare eseguendo persino le finte esecuzioni. Nessuno è sul banco degli imputati per questi reati, quelli che, attraverso i colloqui investigativi, hanno costruito il falso pentito. Ci sono solo le calunnie, dopo che un “pentito” vero, Gaspare Spatuzza nel 2017 ha dato una verità più credibile sulla strage di via D’Amelio, facendo anche liberare otto innocenti dopo quindici anni di carcere ingiusto. Ma dovrebbero esserci anche ben altre responsabilità. Risalendo nella piramide, troviamo il questore di Palermo Arnaldo La Barbera, che fece una brillante carriera dopo aver collaborato a “risolvere” il tragico caso della morte di Borsellino.

Lui non c’è più, ma anche se fosse sopravvissuto al disvelamento di questo scandalo, difficilmente si troverebbe sul banco degli imputati. Perché avrebbe trascinato con sé un bel po’ di persone. A meno che non vogliamo pensare che un questore e un po’ di poliziotti abbiano potuto costruire il più grande depistaggio della storia degli ultimi trent’anni, quasi un colpo di Stato, all’insaputa della magistratura. Qui entra in scena un altro personaggio, ormai deceduto da vent’anni, il procuratore capo di Caltanissetta, il regista delle indagini sulle morti di Falcone e Borsellino, Giovanni Tinebra. Di lui Ilda Boccassini dice che le avrebbe impedito di prolungare la sua permanenza in Sicilia per poter smascherare le falsità di Scarantino. Certo è che, come dice la figlia del magistrato Fiammetta, forse la pm avrebbe potuto insistere, denunciare, strillare. Lo ha fatto con molto ritardo, da testimone al processo contro i poliziotti nel 2020, raccontando anche che il falso pentito si chiudeva per ore nell’ufficio del procuratore Tinebra, prima o dopo gli interrogatori. Che venivano svolti dai pm di Caltanissetta Annamaria Palma, Carmelo Petralia e il giovane Nino Di Matteo.

Tutti usciti (il giovincello non è stato mai neppure indagato, avendo svolto un ruolo minore) freschi e puliti dalle indagini con le archiviazioni perché, disse il giudice di Messina, non c’erano le prove che avessero partecipato o diretto il depistaggio. Una storia da far scoppiare il cervello. È mai possibile che un ragazzotto tossicodipendente e frequentatore di prostitute trans fosse il tipo più affidabile per i boss di Cosa Nostra, tanto da essere incaricato di procurare un’auto e imbottirla di tritolo per uccidere il nemico numero uno della mafia? Enzino della Guadagna, lo ricorda ancora Fiammetta Borsellino, non era neanche capace di aprire la porta di quel garage dove diceva di aver tenuto l’auto. E poi, nessuno tra i capi e neanche i livelli intermedi dell’organizzazione mafiosa lo conosceva. Possibile, possibile che quei magistrati fossero tutti cretini, oltre che ingenui e sprovveduti?

Ma c’è dell’altro. Perché, dopo che era stata resa pubblica la lettera in cui la moglie di Scarantino accusava esplicitamente Arnaldo La Barbera di far torturare suo marito per trasformarlo in “pentito”, si mossero alti vertici dello Stato a costruire un bel cordone sanitario intorno al questore. Ma anche intorno al falso pentito. Fu Giancarlo Caselli, procuratore di Palermo, a prendere l’iniziativa di una conferenza stampa, accompagnato dal procuratore generale e dal prefetto. Le massime autorità di Palermo in quell’occasione difesero l’onore di La Barbera, ma anche l’autenticità di Scarantino. Disinformati in buona fede? Mah. Ciliegina sulla torta, nella piramide delle responsabilità, quando meno politiche, l’ex procuratore generale della cassazione Riccardo Fuzio, cui le figlie di Paolo Borsellino avevano scritto una lettera in cui venivano circostanziati fatti e misfatti degli uomini delle istituzioni e che tenne lo scritto nel cassetto per un anno, lamentando poi ipocritamente di non poter fare niente solo alla vigilia delle sue forzose anticipate dimissioni dopo il “caso Palamara”.

Il Csm infine, come raccontato proprio dall’ex capo delle spartizioni di carriera tra le toghe nel suo secondo libro. Il Consiglio superiore della magistratura (cui si era rivolta Fiammetta Borsellino), che finse di impegnare i suoi migliori uomini della prima commissione, quella che tratta le azioni disciplinari, sulle responsabilità di qualche magistrato. Ce ne siamo infischiati, dice con sincerità Luca Palamara, abbiamo “fatto ammuina”. Non interessava sapere se qualche toga avesse sbagliato. Ecco perché le eventuali celebrazioni di Borsellino del 19 luglio, cui la famiglia giustamente non parteciperà, saranno solo una presa in giro. E l’eventuale condanna di tre poliziotti per calunnia, sarebbe solo un pezzetto di giustizia.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza. Attilio Bolzoni su Il Domani il 26 giugno 2022

C’è l’attentato del 19 luglio 1992, ci sono i sicari di Cosa Nostra e quegli uomini “in giacca e cravatta” che si materializzano in via Mariano D'Amelio poco dopo l'esplosione. Ci sono montagne di atti processuali ma non c'è ancora una piena verità su chi ha voluto morto Paolo Borsellino.

Una sentenza di Corte d'Assise definisce l'inchiesta sull'uccisione del procuratore “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, il caso però non è chiuso e forse solo la storia ci dirà cosa è accaduto a Palermo in quell'estate.

A trent'anni dalla strage in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta – Agostino Catalano, Eddie Walter Cusina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina ed Emanuela Loi – qualcosa di oscuro affiora dal passato e fa molta paura. Perché coinvolti nel massacro ci sono “soggetti inseriti negli apparati dello Stato”, gli stessi che hanno indotto il “pupo” Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni accusando innocenti, quelli che hanno fatto sparire l'agenda rossa del magistrato, quelli che in più momenti hanno tentato in tutti i modi di sviare le indagini.

E poi quei cinquantasette giorni che separano il 23 maggio dal 19 luglio.

Il procuratore Paolo Borsellino mai ascoltato come testimone dai suoi colleghi di Caltanissetta, i titolari dell'inchiesta sul massacro di Capaci. L'isolamento subito da Borsellino dentro la procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco, le indagini affidate “irritualmente” dal procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra ai servizi segreti, in particolare a Bruno Contrada che appena qualche mese dopo sarà accusato di connivenza con i boss.

Omertà di mafia e omertà di Stato.

Nel trentennale di via D'Amelio sul Blog Mafie pubblicheremo per circa un mese ampi stralci del libro "Uomini Soli” di Attilio Bolzoni

LA STRAGE DI VIA D’AMELIO. Paolo Borsellino, il giudice tradito e venduto. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 giugno 2022

Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio. Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Porta in spalla la bara di Giovanni Falcone, gli restano ancora cinquantacinque giorni.

Una pioggia violenta lava Palermo, il carro funebre è già scomparso fra i vicoli che scendono verso il mare. Anche il becchino ha fretta di seppellire il morto.

È solo, adesso è solo come non lo è stato mai. Neanche quando la sua vita è cambiata in una notte di maggio di tanti anni prima, il capitano di Monreale steso a terra e lui precipitato in un incubo.

Dicono che è l’erede, l’ultimo testimone. Ora è diventato anche il bersaglio.

Ha poco tempo. Vuole parlare. Non lo fanno parlare. Vuole indagare. Non lo fanno indagare.

Si scopre abbandonato, mandato allo sbaraglio da gente di Roma che nell’ombra sta trattando la resa. Sono in molti a tremare per i suoi segreti. Forse aspettano un miracolo o un’altra bomba.

Uomo di legge e di coraggio, siciliano di fibra forte, fino all’ultimo non si rassegna. Ha rabbia e orgoglio per non piegarsi nemmeno ai nemici più invisibili.

Si getta nel vuoto Paolo Borsellino, magistrato di Palermo, assassinato dall’esplosivo mafioso e dal cinismo di un’Italia canaglia che l’ha visto morire senza fare nulla. Tradito e venduto.

Va incontro al suo destino accarezzando i figli, tenta disperatamente di sopravvivere fino a quella domenica afosa di mezza estate. Il 19 luglio del 1992.

L’agenda rossa che ha sempre con sé non si troverà mai. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

A Monreale le lacrime per il capitano Emanuele Basile. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 giugno 2022

È la notte del 4 maggio del 1980. Alla camera mortuaria dell’ospedale civico di Palermo, il medico di guardia certifica «il decesso di Basile Emanuele, nato a Taranto il 27 luglio del 1949». È un capitano dei carabinieri, il comandante della Compagnia di Monreale. La città di un Duomo superbo e di una mafia sconosciuta.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Un lenzuolo bianco avvolge il cadavere. È scoperto solo un piede, dallo spago intorno all’alluce pende un cartoncino.

Scrivono un nome.

È la notte del 4 maggio del 1980. Alla camera mortuaria dell’ospedale civico di Palermo, il medico di guardia certifica «il decesso di Basile Emanuele, nato a Taranto il 27 luglio del 1949».

È un capitano dei carabinieri, il comandante della Compagnia di Monreale. La città di un Duomo superbo e di una mafia sconosciuta.

Il capitano ha appena consegnato in Tribunale un rapporto di sessantadue pagine. La sua condanna a morte.

Le carte sono nell’armadio blindato del giudice istruttore

Paolo Borsellino, il magistrato che assieme a lui ha seguito fin dall’inizio l’indagine e che questa notte esplode in un pianto disperato. È in lacrime, in fondo ai viali dell’ospedale. «Mi hanno ammazzato un fratello», singhiozza nel buio.

In meno di un anno, ne ha persi due di amici che davano la caccia ai boss di Monreale.

Il 21 luglio del 1979, il capo della squadra mobile Boris Giuliano. E ora Emanuele Basile. Chi sono gli assassini?

«Li abbiamo presi, questa volta li abbiamo presi», avvisa un ufficiale dei carabinieri.

Sono già rinchiusi in una caserma di Palermo. Uno è Armando Bonanno, l’altro Vincenzo Puccio, il terzo Giuseppe Madonia.

Li hanno fermati in aperta campagna, due ore dopo il delitto.

Sono sporchi di fango. Lungo un sentiero trovano anche l’auto usata per la fuga. Dentro c’è una pistola che ha appena sparato.

Dicono i killer: «Siamo qui perché abbiamo avuto un incontro galante con donne di Agrigento, signore sposate, siamo dei gentiluomini e non faremo mai i loro nomi». È il loro alibi. Sarà per sempre il loro alibi. Da quando incontra quei tre sicari di mafia, Paolo Borsellino entra in un’altra vita. Gli assassini del capitano decidono il suo futuro.

Il comandante della compagnia dei carabinieri di Monreale è stato ucciso in mezzo alla folla del Santissimo Crocifisso, la processione che, da tre secoli e mezzo, si ripete nella notte fra il 3 il 4 maggio. Per la prima volta, la statua l’hanno portata per le strade nel 1626 e il Santissimo Crocifisso ha spazzato via il «morbo rio», la peste di Monreale.

Emanuele Basile ha in braccio la figlia Barbara, la moglie Silvana è fra bancarelle stracolme di ceci abbrustoliti, torrone caramellato, semi di zucca secchi. I tre sbucano da una stradina, in un attimo gli sono alle spalle. Fanno partire i primi colpi quando il cielo s’illumina dei fuochi d’artificio. Esplode la masculiata, l’atto finale dei giochi pirotecnici, i botti.

Silvana scambia il primo sparo per un mortaretto. Poi Barbara, quattro anni, si ritrova in mezzo al sangue del padre. Due testimoni vedono tutto. Parlano, raccontano, riconoscono gli assassini. Non è mai capitato a Palermo. «È un’inchiesta facile che si può chiudere in fretta», annuncia Paolo Borsellino ai suoi colleghi della procura.

Manca solo la prova del guanto di paraffina.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Un processo simbolo della giustizia “aggiustata” nella Sicilia mafiosa. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 giugno 2022

Paolo Borsellino sa già tutto. Conosce ogni piega dell’indagine, ha esaminato i profili dei personaggi coinvolti, ora all’Ucciardone ci sono anche i tre killer del capitano. Sembra un incastro perfetto. Un caso chiuso.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Il giudice non lo sa ancora: quella sui tre sicari di Emanuele Basile si rivelerà l’inchiesta più tormentata degli Anni Ottanta, il simbolo della giustizia «aggiustata» nella Sicilia mafiosa.

L’omicidio è avvenuto a Monreale ma è la Cupola che l’ha ordinato.

Il capitano ha portato avanti un’indagine iniziata dal commissario Boris Giuliano, valigie piene di dollari sequestrate a Punta Raisi, direttori di banca collusi, un traffico di eroina tra Altofonte e gli Stati Uniti. E non solo. L’ufficiale ha scoperto anche gli

oscuri rapporti fra alcuni boss e alti prelati dell’arcivescovado.

La diocesi di Monreale è la più ricca, la più estesa e la più misteriosa dell’isola. Vescovi chiacchierati e preti mafiosi.

Paolo Borsellino sa già tutto. Conosce ogni piega dell’indagine, ha esaminato i profili dei personaggi coinvolti, ora all’Ucciardone ci sono anche i tre killer del capitano.

Sembra un incastro perfetto. Un caso chiuso.

Quando l’inchiesta riprende, ciò che appariva chiaro s’intorbida all’improvviso. Nel suo ufficio si presentano falsi testimoni. Qualcuno tenta di manipolare una perizia balistica. Arrivano «consigli» e minacce ai medici legali, agli avvocati di parte civile, a lui stesso.

Il giudice sospetta che qualcuno stia spiando i suoi movimenti. E ogni atto dell’indagine.

Non è un processo facile. È un inferno.

Borsellino conduce la sua istruttoria scansando insidie e trappole.

Quasi un anno dopo, il 6 aprile del 1981, rinvia a giudizio Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia per l’uccisione del capitano Basile.

Il processo è fissato per l’autunno.

Gli imputati sono tre, ma è tutta la mafia di Palermo alla sbarra.

È la prima volta che tre sicari di «famiglie» importanti sembrano non avere scampo. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Boss e “talpe“, una finta rivolta all’Ucciardone nella Palermo collusa. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 giugno 2022

Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone». Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo. Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

All’alba del 4 maggio del 1980 sono ancora a Monreale, fra i vicoli dove è passata la processione del Santissimo Crocifisso.

Di mattina scendo alla caserma «Carini» di Palermo, dietro il mercato del Capo.

Ci sono tre ufficiali dei carabinieri stravolti, per tutta la notte hanno interrogato – e forse anche torturato – i tre killer del capitano.

Ma quelli non hanno aperto bocca.

Verso le dieci arriva la notizia che sono stati appena arrestati una ventina di mafiosi della borgata dell’Uditore. Gli Spatola, gli Inzerillo, i Gambino. È un’altra operazione, questa volta si è mossa la polizia.

C’è confusione. Noi giornalisti siamo disorientati. Non riusciamo a capire il collegamento che c’è fra i tre killer del capitano Basile e i boss dell’Uditore.

Sappiamo ancora poco di quello che sta accadendo dentro la mafia palermitana, non conosciamo esattamente chi sono i Corleonesi di Totò Riina. Nei nostri articoli chiamiamo «vincenti» quelli che vengono dai paesi della provincia e «perdenti» quegli altri della città.

Sto per tornare al giornale per scrivere in fretta il mio «pezzo», ed è allora che si diffonde la notizia.

Non è solo una voce.

Il questore di Palermo Vincenzo Immordino, all’una del mattino, ha svegliato tutti i funzionari della squadra mobile e li ha convocati d’urgenza «per sedare una sommossa all’Ucciardone».

Ma non c’è rivolta, nei bracci del carcere è tutto tranquillo.

Il questore Immordino ha fatto scortare alla Lungaro – da agenti scelti da lui, uno per uno – i funzionari della squadra mobile.

E li ha rinchiusi lì dentro, nella caserma della polizia stradale, fino all’alba.

Sono «consegnati» in alcune stanze, praticamente prigionieri. Non possono uscire, non possono telefonare, non possono parlare con nessuno. Il questore non si fida di loro.

Deve partire la retata contro i boss dell’Uditore e, per non farseli scappare, ha chiamato poliziotti da fuori. Alcuni sono arrivati da Roma, altri da Reggio Calabria. Non so come iniziare il mio articolo. Dall’arresto dei killer del capitano? Dal sequestro di persona compiuto dal questore Immordino? Dalla retata? 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Le pesanti accusate. L’avvocato di Borsellino contro Di Matteo: “Ha difeso il depistaggio di Scarantino screditando Spatuzza”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Giugno 2022. 

Al processo che è in corso a Caltanissetta sul depistaggio delle indagini sull’omicidio di Paolo Borsellino e la strage della sua scorta, ieri ha parlato l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, e ha sparato bordate pesantissime contro alcuni Pm, e in particolare contro Nino Di Matteo, cioè il protagonista – seppure sconfitto – del processo sulla cosiddetta trattativa stato mafia, che dopo molti anni di tribolazioni – soprattutto per il generale Mario Mori, risultato poi del tutto innocente – si è concluso qualche mese fa con una bolla di sapone.

Trizzino ha accusato Di Matteo innanzitutto di avere pervicacemente difeso il depistaggio delle indagini sull’uccisione di Borsellino (cioè l’oggetto del processo in corso) condotto attraverso la falsa testimonianza del falso pentito Vincenzo Scarantino, che portò alla carcerazione e alla condanna di diversi innocenti, e al sabotaggio, di fatto, delle indagini sulle piste vere. Ormai – ha detto Trizzino – il danno provocato da questi depistaggi è irreparabile, però è giusto ricostruire come sono andati i fatti.

La parte più severa dell’arringa di Trizzino è stata riservata proprio a Di Matteo, che oggi è un autorevolissimo membro del Csm. Ha detto testualmente Trizzino: «Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da Pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino due, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose.»

Trizzino si riferisce all’intervento dell’epoca di Nino Di Matteo, che si oppose alla richiesta di protezione di Gaspare Spatuzza, pentito molto importante, il quale aveva del tutto smentito la ricostruzione di Scarantino cioè della ricostruzione che fu poi lo strumento del depistaggio. Per quale ragione, si è chiesto l’avvocato Trizzino, Di Matteo “si doveva occupare di dare il proprio parere su Spatuzza? Cosa gli interessava del processo Borsellino uno e del Borsellino bis? Non è questo uno schizzo di fango su Di Matteo, è una analisi critica e non possiamo far finta di niente. Solo perché uno fa il magistrato o il poliziotto non deve parlare? Non ci sto.” Poi Trizzino ha aggiunto: “Il danno provocato dall’incapacità di alcuni magistrati è fatto. Non si può riparare. Quale verità stiamo cercando ora? La ricerca della verità, a mio giudizio, in questo paese è stata affidata a persone che erano in conflitto di interesse”.

L’accusa di Trizzino, cioè della famiglia del magistrato Borsellino è pesantissimo. Conflitto di interesse, per Di Matteo, nelle indagini e nelle richieste del magistrato. Oltretutto Trizzino, oltre ad essere l’avvocato della famiglia è anche il marito di una delle figlie di Paolo Borsellino. Nel processo in corso la questione Di Matteo può anche essere tralasciata, visto che gli imputati sono solo tre poliziotti, perché i giudici hanno deciso di archiviare la posizione di due magistrati che erano stati indagati (non Di Matteo). Però il problema posto da Trizzino è grande come una casa. L’accusa è sanguinosa: conflitto di interesse e sulla base di questo conflitto errore giudiziario clamoroso con conseguenze devastanti per la ricerca della verità. C’è un pezzo di magistratura che ha scommesso tutta la propria credibilità e la propria carriera sull’ipotesi della trattativa stato mafia, ipotesi in contrasto con altre ipotesi, che erano quelle giuste, che però erano state oscurate dal depistaggio.

Può succedere che questa parte della magistratura rinunci a rendere conto, senza che nessuno, tranne la famiglia Borsellino, gliene chieda la ragione? Oggi noi sappiamo di non poter sapere la verità sull’omicidio Borsellino per colpa di un depistaggio sostenuto dalla magistratura inquirente. Vi pare poco? Lo stesso Csm può far finta che le parole di Trizzino non siano mai state pronunciate? La logica dice che o si dimostra che non è vero che Di Matteo chiese di levare la protezione a Spatuzza, e allora che Trizzino ha detto cose non vere, oppure occorre intervenire. Ne va o no della credibilità della magistratura? Qualcuno risponderà a queste domande o ci si affiderà, al solito, solo al sicuro silenzio del grandi giornali amici?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Primo magistrato siciliano con la scorta e la “mania” delle indagini. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani 30 giugno 2022

Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Quando muore il capitano, Lucia ha dieci anni, Manfredi otto, Fiammetta sei. Sono i tre figli di Paolo Borsellino.

Ricorda sua moglie Agnese: «Fino all’omicidio di Emanuele Basile la nostra è stata una vita normale, come quella di tante famiglie palermitane. Ci incontravamo nei giorni di festa con i parenti o con gli amici, qualche collega di mio marito, i ragazzi erano spensierati». Poi è il finimondo.

Paolo Borsellino è il primo magistrato siciliano con una scorta. Tre carabinieri e una sgangherata Alfa Romeo color amaranto che divide con Antonino Gatto, il sostituto procuratore della repubblica titolare con lui dell’inchiesta sull’uccisione dell’ufficiale dei carabinieri. È una tranquilla vita borghese quella che viene sconvolta.

Tutta la città è testimone della metamorfosi di un uomo e di un giudice.

«Chi te lo fa fare?», gli dice qualche amico.

«Tanto la medaglia non te la danno lo stesso», lo avvertono alcuni colleghi.

Paolo Borsellino scuote la testa, perde il sorriso. Non gli piacciono quei discorsi. Non li manda giù. Sente un groppo in gola. È un magistrato, un uomo perbene, ha giurato di far rispettare la legge. Quelle chiacchiere non lo fermano. Ma neanche lui sa ancora in quale fossa si sta per infilare.

Né Paolo Borsellino né nessun altro, in quegli ultimi mesi del 1980, può sospettare che dietro a quei tre sicari presi a Monreale ci siano i nuovi capi della mafia siciliana.

C’è Totò Riina.

In un Tribunale dove è consuetudine «buttarsi dietro il pietrone», confondersi, nascondersi, Paolo Borsellino si ritrova sempre un passo avanti agli altri. È in vista, allo scoperto. Additato come un giudice troppo audace e con la «mania» delle indagini.

Lui è convinto di aver fatto tutto quello che doveva fare nell’istruttoria sulla morte di Basile. Ed è sicuro che i tre sicari del capitano saranno condannati. C’è ressa al Palazzo di Giustizia, la mattina del 7 ottobre del 1981. Una folla di parenti. Nonne, figli, nipoti. Nella prima aula della Corte di Assise di Palermo comincia il processo per l’agguato nella notte del Santissimo Crocifisso.

Una bella giornalista americana della Cbs si aggira per il tribunale con la sua troupe, i principi del Foro sono tutti schierati, gli imputati ai ceppi. Ridono spavaldi, i tre. Come se non temessero l’ergastolo.

Un giudice popolare viene subito cacciato. È pregiudicato. Un altro è già stato «avvicinato» da un avvocato del suo

paese. Alla quarta udienza, il primo presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo firma a sorpresa un’ordinanza di espulsione dall’aula di tutti i fotografi e cineoperatori. Vuole «evitare elementi di distrazione».

È quasi un processo a porte chiuse.

Più il dibattimento va avanti e più s’intuisce che in quel processo c’è un solo imputato: il giudice istruttore. È lui, Paolo Borsellino, la fonte di tutte le «disgrazie» dei tre dietro le sbarre. È lui che non ha creduto a certi testimoni, che non ha tenuto conto di una nuova perizia sulle armi, che ha voluto investigare solo su di loro scartando fin dal principio qualsiasi altra pista. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Un giudice nel mirino, così Cosa Nostra ha trovato il suo bersaglio. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il domani l'01 luglio 2022

Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via. I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi». Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

La mafia di Palermo ha individuato il suo obiettivo.

In procura, per una volta sono tutti uniti. Il pubblico ministero Vincenzo Geraci chiede tre ergastoli. Il processo sembra segnato. La sentenza è vicina.

Ma non è così. Una mattina, il presidente della Corte di Assise Carlo Aiello ordina la sospensione del dibattimento.

Il pretesto è una macchia. Una macchia bianca ritrovata su uno stivale di cuoio nero di Giuseppe Madonia e mai esaminata

dai periti. Da dove viene? Cos’è? Perché nessuno l’ha mai notata prima?

Un processo che si sta avviando verso la conclusione viene fermato. Tutti gli atti tornano al giudice istruttore. A Paolo Borsellino.

Deve ordinare una perizia su quella macchia bianca. È una manna che cade dal cielo per i tre killer.

La «prova del fango», come viene definita con evidente allusione dai palermitani, dura quindici mesi.

La perizia non accerta niente. È servita solo a prendere tempo.

Il processo riprende in un clima di terrore. Minacciano altri avvocati. I giudici popolari tremano. E intanto il presidente della

prima Corte di Assise cambia. Non è più Carlo Aiello ma Salvatore Curti Giardina. È un anonimo magistrato che ha fatto una carriera silenziosa nei Palazzi di Giustizia di mezza Sicilia, fino a quando arriva a Palermo e si ritrova difronte ai tre killer di Emanuele Basile.

Il processo che a qualunque costo non si doveva celebrare, è un’altra volta alla vigilia del verdetto. Sembra scontato. Condanne. Ergastoli.

Il 31 marzo del 1983, nemmeno tre anni dopo l’uccisione del capitano, gli imputati vengono assolti. Tutti per insufficienza di

prove. I testimoni non vengono creduti, le prove spazzate via.

Clamorose le motivazioni del presidente della Corte: «Paradossalmente bisogna concludere, quindi, che meno problematico, se non addirittura certo, sarebbe stato il convincimento di colpevolezza di questa Corte in presenza di un più ristretto numero di indizi».

Troppi indizi per una condanna.

Così, il presidente Salvatore Curti Giardina ordina «l’immediata scarcerazione se non detenuti per altra causa» di Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia. Gli avvocati difensori sono euforici: «Per fortuna ci sono ancora magistrati coraggiosi».

I carabinieri si sfogano: «Qui a Palermo succedono cose molto gravi, ora sappiamo che non possiamo contare sull’appoggio di altre forze dello Stato».

Il giudice Paolo Borsellino è annichilito.

La sua istruttoria è stata demolita con cavilli e mosse fraudolente. L’assoluzione lo lascia ancora più solo, indifeso. Nel mirino.

Il giorno dopo la sentenza, firma un’ordinanza di «accompagnamento coatto» degli imputati del processo Basile in tre comuni della Sardegna. Al soggiorno obbligato. Ci stanno due settimane. Poi fuggono indisturbati su grossi motoscafi d’altura.

Tornano a Palermo. Per uccidere. È la prima volta che Paolo Borsellino ha veramente paura. Per sé e per la sua famiglia. Nella sua casa di via Cilea quei nomi – Bonanno, Madonia, Puccio – si ripetono sottovoce ogni giorno. Sono fuori. Sono «innocenti» e pronti a sparare ancora

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Palermo brucia, un’altra strage di carabinieri. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 02 luglio 2022

La sera del 13 giugno 1983 Rocco Chinnici e Paolo Borsellino sono davanti a un altro morto. È il nuovo comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo, l’ufficiale che ha preso il posto di Emanuele Basile. Con lui sono morti anche i brigadieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Paolo Borsellino ormai è dentro ai gironi infernali di Palermo.

La città brucia.

Una sera d’inizio estate, qualche mese dopo la facile evasione dei tre sicari, qualcuno attacca un cartello alla vetrina della gelateria di via Scobar. È una stradina al confine fra le borgate della Noce e dell’Uditore.

Una scritta in rosso: «Fate pagare questa strage a chi ha assolto i killer di Emanuele Basile».

Il consigliere istruttore Rocco Chinnici e il giudice Paolo Borsellino, la sera del 13 giugno 1983 sono davanti a un altro morto.

È il nuovo comandante della Compagnia dei carabinieri di Monreale Mario D’Aleo, l’ufficiale che ha preso il posto di Emanuele Basile.

È a qualche metro dal palazzo dove abita Antonella, la sua fidanzata. Non ci arriva mai al portone. Accanto all’auto sono morti anche i brigadieri Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Il capitano D’Aleo, sceso in Sicilia cinque settimane dopo l’uccisione di Basile, aveva ripreso le sue indagini.

Il messaggio che i boss lanciano allo Stato è molto diretto: l’Arma dei carabinieri non può e non deve occuparsi della mafia di Monreale.

Con Mario D’Aleo, sono ventisei i carabinieri uccisi nella provincia di Palermo negli ultimi vent’anni.

La mattina dopo l’agguato di via Scobar, l’Alto Commissario per la lotta alla mafia Emanuele De Francesco, quello nominato dal governo con poteri speciali nei giorni successivi alla morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, convoca i giornalisti a Villa Whitaker e indica pubblicamente i mandanti della strage.

Dice che sono stati i Gambino, gli Spatola, gli Inzerillo. Tutte «famiglie» mafiose ormai decimate dalle vendette dei

Corleonesi.

L’Alto commissario mente o ignora tutto di Palermo? Depista o è all’oscuro di vicende che persino noi giornalisti conosciamo? 

DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Lapidi e ricordi, gli incontri col capitano Mario D’Aleo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 03 luglio 2022

Mario è più ragazzo. Come me. La sera di via Scobar non riesco ad avvicinarmi al marciapiedi dove c’è il suo cadavere. Comincio a tremare. Più di venticinque anni dopo, andando in giro per San Giovanni, a Roma, una mattina mi trovo a passare per caso da via Imera. E vedo una lapide che lo ricorda e una corona di fiori appassiti.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

«Stasera sali a Monreale e poi ce ne andiamo su, a San Martino delle Scale, in una trattoria in mezzo al bosco», mi dice Mario un pomeriggio.

San Martino delle Scale, quasi a 600 metri, un monastero benedettino, carne alla brace, forno a legna per le pizze.

Siamo quasi coetanei, lui ha ventinove anni, io ventotto. Ci siamo conosciuti in Tribunale, ogni tanto ceniamo insieme. A volte ci sono altri due ufficiali, Diego Minnella e Tito Baldo Honorati.

Mario D’Aleo è romano. Altissimo, magro come un chiodo. Si sente solo a Monreale. Ha bisogno di compagnia.

È molto diverso da Emanuele Basile, che ho conosciuto solo fra i corridoi delle caserme e della procura. Basile era un uomo molto formale, sempre impeccabile nella sua divisa nera e le scarpe tirate a lucido, di poche parole, grande investigatore, serissimo.

Mario è più ragazzo. Come me.

La sera di via Scobar non riesco ad avvicinarmi al marciapiedi dove c’è il suo cadavere. Comincio a tremare.

Più di venticinque anni dopo, andando in giro per San Giovanni, a Roma, una mattina mi trovo a passare per caso da via Imera. E vedo una lapide che lo ricorda e una corona di fiori appassiti.

Era la sua casa.

C’è un cancello, resto lì per dieci minuti, non so cosa fare, se bussare alla porta, chiedere di qualcuno, presentarmi – come, dopo tutto quel tempo? – e raccontare a qualche parente che io lo conoscevo, che l’ho visto a San Martino delle Scale e anche in via Scobar.

Non ce la faccio. Sfioro la lapide con la mano e me ne vado.

Qualche mese fa, ho letto una piccola notizia sulle pagine di cronaca. Il 15 ottobre 2011, durante la manifestazione violenta dei black bloc a Roma, qualcuno ha preso a martellate quella targa di via Imera.

Sarà stato un ragazzo. Uno dei tanti che non sa niente di questa Italia. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Palermo come Beirut, un’autobomba uccide Rocco Chinnici. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 04 luglio 2022

Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri. Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici. Si rintana nel bunker. Con Giovanni Falcone. Con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Dopo l’omicidio di Mario D’Aleo, a Palermo c’è paura di un’altra strage.

Gli apparati investigativi sono allo sbando. I funzionari della squadra mobile una mattina si ribellano, protestano a Villa Whitaker contro «i ministri di Roma». Davanti alla prefettura ci sono centinaia di poliziotti respinti a forza da altri poliziotti.

Il Palazzo di Giustizia è una sacca di veleni. Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola La Penta, è in Sicilia con una delegazione di parlamentari per ascoltare i magistrati. Dopo tre giorni di audizioni annota nella sua relazione: «La Commissione ha potuto osservare negli incontri con i giudici siciliani atteggiamenti molto diversi. Vi è una larga fascia che fa il proprio dovere, senza però spingersi molto in avanti. Vi è anche qualche pusillanime. Ve ne sono quattro o cinque che dimostrano uno straordinario coraggio e ogni giorno rischiano la vita».

Sta parlando del consigliere Rocco Chinnici, dei giudici Giovanni Falcone, Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello. E di Paolo Borsellino.

Non passano due mesi dall’agguato di via Scobar e, il 29 luglio 1983, salta in aria anche il consigliere istruttore Rocco Chinnici.

Palermo è nel dramma.

Quella mattina Paolo Borsellino è nella sua casa in riva al mare, a Villagrazia di Carini. Squilla il telefono.

Il giudice sbianca in volto. Dice alla moglie come un automa: «È morto Rocco».

Rocco Chinnici è uno di famiglia. Arriva a casa loro senza annunciarsi. È affettuoso, protettivo. Per Lucia, la primogenita di Paolo e Agnese, è come uno zio. La settimana prima, è andata con Chinnici e sua figlia Caterina in gita a Pantelleria in elicottero.

Borsellino si ritrova ormai circondato da cadaveri.

Boris Giuliano. Emanuele Basile. Mario D’Aleo. Rocco Chinnici.

Si rintana nel bunker. Con Giovanni Falcone. Con Leonardo Guarnotta. Si immerge nelle indagini. Affoga fra le sue carte. Ha un debito d’amore verso gli amici che non ci sono più e verso se stesso.

«Chi te lo fa fare?», continuano a ripetergli conoscenti e colleghi.

Taglia rapporti, seleziona le frequentazioni, si fa sempre più guardingo. Si tiene vicino solo gli amici veri.

È un uomo diritto Paolo Borsellino, ha il culto della parola data, il senso dell’onore, è leale, generoso, sanguigno.

L’uccisione di Rocco Chinnici l’ha scaraventato in una Palermo sempre più minacciosa che nasconde tanti tradimenti.

Sfila come testimone davanti ai suoi colleghi di Caltanissetta che indagano sulla morte del consigliere istruttore, racconta gli ultimi giorni di Rocco Chinnici, trascina gli esattori Nino e Ignazio Salvo in un vortice. È solo anche in quel momento.

Molti magistrati palermitani «dimenticano» quello che aveva in mente Chinnici, le sue indagini sui potenti cugini di Salemi, la sua intenzione di indagarli per mafia. Borsellino riferisce ogni dettaglio, spiega tutto. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Cresciuto alla Kalsa, il giudice recitava Goethe a memoria in tedesco. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 05 luglio 2022

Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto. È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato. Non ci pensa un istante a mollare. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Palermo l’ha indurito, vive nel dolore. I suoi figli stanno crescendo in una città che non riconosce più. Lo sa che rischia lui e rischia anche tutta la sua famiglia.

Ma Paolo Borsellino ha passione, sentimenti forti, resiste a ogni compromesso, è di una semplicità disarmante, vero, colto, capace di parlare per mezz’ora in un siciliano strettissimo e poi, all’improvviso, di recitare a memoria il Paradiso o i versi di Goethe sulla sua Palermo in tedesco.

È un uomo che ha paura per sé e per i suoi figli ma non arretra mai. È indignato.

Non ci pensa un istante a mollare. E finisce giù anche lui.

Muore neanche due mesi dopo la strage di Capaci. Come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino viene dalla Kalsa. Da bambini hanno abitato a pochi passi l’uno dall’altro. 

La farmacia è lì dalla fine dell’Ottocento. Il palazzo dove vivono è proprio difronte, in via della Vetreria. Al piano nobile ci sono i padroni, i marchesi Salvo, al secondo piano c’è la loro casa. Dieci stanze, pavimenti con i mosaici, soffitti altissimi, un grande terrazzo dal quale si scorge il mare del Foro Italico.

Diego Borsellino e Maria Lepanto si sposano nel 1935. Nello stesso anno si ritrovano tutti e due dietro il bancone di legno

della farmacia.

Nel 1938 la prima figlia, Adele. Nel 1940 nasce Paolo. Nel 1942 Salvatore. Nel 1945 arriva Rita.

È una famiglia rispettata alla Magione, quella dei Borsellino.

È benestante, molto religiosa. In casa sono conservatori, credono nel fascismo e sono affascinati dal Duce. Quando la guerra finisce e sbarcano gli americani crolla un mondo.

In via della Vetreria c’è anche lo zio Ciccio, fratello della madre, ex ufficiale di cavalleria, che fa rivivere Mussolini e l’Impero con i suoi strabilianti racconti sulle «campagne» d’Africa.

Paolo Borsellino non ha ancora dieci anni e lo ascolta estasiato. Raccoglie tutto quello che trova sui Savoia, studia la storia di Umberto I e di Vittorio Emanuele III, cataloga tutto quello che trova sulla famiglia reale.

Cominciano però i tempi duri, alla Kalsa. Quello che più di mille anni prima era approdo di emiri e condottieri, ora è un quartiere sopravvissuto ai bombardamenti. Paolo Borsellino cresce in una Palermo che fa fatica ad uscire dalla miseria. La farmacia di via della Vetreria non ha più i clienti di una volta, i Borsellino cambiano casa. Vanno ad abitare in una più piccola, in via Roma.

Il gelato è solo nei giorni di festa.

Alla Marina, sotto la passeggiata delle Mura delle Cattive. Da Ilardo. Spongati. Spumoni. Pezzi duri. Semifreddi. Fette brasiliane e fette gianduia.

Dopo le medie Paolo s’iscrive al «Meli», il liceo classico. La maturità nel 1958. Poi Giurisprudenza. E la politica. Entra alla «Giovane Italia» che poi diventerà Fuan, il Fronte Universitario di Azione Nazionale. È un movimento neofascista.

Davanti alle facoltà ci sono sempre scontri fra studenti. Una mattina c’è una rissa violenta. Feriti. Lì in mezzo c’è anche lui.

Lo denunciano. L’inchiesta finisce a Cesare Terranova, un magistrato che non nasconde le sue simpatie per i comunisti. Paolo Borsellino viene ascoltato in Tribunale. Dice che non c’entra niente con il pestaggio. Terranova gli crede. Archivia.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

A ventitré anni, Paolo Borsellino è il magistrato più giovane d’Italia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 06 luglio 2022

Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia. Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Si laurea nel 1962. Quell’anno muore anche suo padre. Lo vede spegnersi. Paolo Borsellino ha ventidue anni.

La farmacia ha bisogno di un titolare ma in famiglia non c’è.

Viene data in affitto per una cifra bassissima, in attesa che la sorella Rita prenda la laurea in farmacia. È un periodo difficile, di sacrifici.

Paolo racimola qualche soldo con le lezioni private, italiano.

Fa pratica nello studio di un avvocato. Intanto si prepara a sostenere gli esami per entrare in magistratura. Ci riesce un anno dopo. A ventitré anni è il più giovane giudice d’Italia.

Per uno di quegli strani giochi del destino finisce a fare l’uditore nella stanza di Cesare Terranova, il magistrato che l’ha prosciolto qualche tempo prima dall’accusa di rissa fra gli studenti di Giurisprudenza.

Comincia al «civile» ad Enna, al centro della Sicilia. Dopo due anni, nel 1967, è pretore a Mazara del Vallo. Va avanti e indietro, dalla mattina alla sera. In uno studio notarile conosce Agnese Piraino Leto, la figlia del presidente del Tribunale di Palermo.

Un anno dopo, nel 1968, Paolo e Agnese si sposano.

Da Mazara del Vallo a Monreale. Ancora in pretura. È il 1969. Sei anni tranquilli. Nel 1975 è a Palermo. Prima giudice di Tribunale e, alla fine dell’estate del 1975, giudice istruttore.

È una città addormentata Palermo. Sembra fuori dall’Italia. Brilla di luce propria. Si sente diversa, lontana. La sua magistratura affonda nel ventre molle di una Sicilia complice.

Ma l’uomo è quello che è. Giusto. Intransigente. Educato ai vecchi principi, cresciuto con il senso del dovere.

Rispettosissimo delle regole. E della legge. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Stanza numero 63 e stanza numero 64, una grande amicizia in tribunale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 07 luglio 2022

La sua stanza all’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone. Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Uno dei primi fascicoli che arriva nel suo ufficio è un’indagine preliminare sulle ruberie della Valle del Belice, i fondi che sono spariti per la ricostruzione dei paesi distrutti dal terremoto del 1968. Comincia a indagare su un presidente della Regione. È un’inchiesta choc. In città parlano tutti del giudice che è partito all’attacco dei potenti.

Arriva sulla sua scrivania anche l’indagine su un appalto sospetto che coinvolge il presidente della Provincia Gaspare Giganti.

Si convince della sua colpevolezza, piomba in consiglio provinciale insieme agli agenti di polizia giudiziaria, sequestra documenti, firma contro di lui un mandato di cattura.

Gaspare Giganti è il primo uomo politico di Palermo che entra all’Ucciardone.

Gli anni di Palermo «felicissima» stanno per finire. Cominciano quelli della paura e dei «grandi delitti».

Anche l’inchiesta sull’uccisione del commissario Boris Giuliano è sua. Mese dopo mese, insieme al capitano Emanuele Basile, si avvicina alla mafia di Monreale. E alla notte del Santissimo Crocifisso.

La sua stanza all’ufficio istruzione del tribunale di Palermo è la numero 64. La numero 63 è quella di Giovanni Falcone.

Si conoscono fin da ragazzi, fra i vicoli e della Kalsa e i cortili intorno alla chiesa della Magione. Si rivedono nelle aule della facoltà, a Giurisprudenza. Si rincontrano lì, al Palazzo di Giustizia, tanto tempo dopo.

Nel 1979 Borsellino ha trentanove anni, Falcone uno di più. Sono fianco a fianco, giorno dopo giorno. Lo resteranno fino alla primavera del 1992.

La scrivania di Paolo Borsellino è un mare di carte, faldoni, rapporti di polizia.

C’è l’inchiesta sul Palazzo dei Congressi, uno scandalo sulle alleanze mafiose e imprenditoriali svelate nel 1982 da Pio La Torre e dal generale Carlo Alberto dalla Chiesa.

C’è quella sull’avvocato Salvatore Chiaracane, un penalista legato alla feroce cosca di Corso dei Mille.

C’è anche l’indagine su Giancarlo Parretti, il cameriere di un hotel di Siracusa, Villa Politi, che dopo pochi anni è diventato un noto finanziere e il boss della società cinematografica più famosa del mondo, la Metro Goldwyn Mayer.

Paolo Borsellino va ad ascoltare Luciano Liggio nel carcere di Bad’ e Carros in Sardegna. Interroga Vito Ciancimino, per la prima volta in carcere, a Rebibbia.

Lui e Giovanni Falcone sono legatissimi, due fratelli. E buoni sono anche i rapporti con gli altri giudici dell’ufficio istruzione. Soprattutto con Leonardo Guarnotta. Tutti indagano su tutto. Si scambiano informazioni, incrociano nomi e dati. Mafia. Traffico di droga e armi. Riciclaggio. Cominciano le prime rogatorie internazionali. Singapore. Ankara. New York. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

L’estate di fuoco e il soggiorno “sicuro” nel carcere dell’Asinara. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'08 luglio 2022

Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone. I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Paolo Borsellino, un giorno, deve affrontare un viaggio molto lungo, arrivare fino in Brasile per interrogare quattro mafiosi a Belo Horizonte. Gli altri, così, scoprono che ha paura di volare.

Salire su un aereo per lui è un incubo. Si affida sempre a riti scaramantici. Sono in quattro, in Brasile. C’è Falcone. C’è il sostituto procuratore Giuseppe Ayala e c’è anche Ninni Cassarà, il capo della sezione investigativa della squadra mobile.

La sentenza ordinanza del maxi processo nell’estate del 1985 è quasi conclusa. Ma, a pochi mesi dall’inizio del dibattimento, Ninni Cassarà muore ammazzato. Una settimana prima hanno ucciso anche Giuseppe Montana, il suo collega che dà la caccia ai latitanti.

Un funzionario di polizia avverte il consigliere istruttore Antonino Caponnetto che una sua «fonte», all’interno delle carceri, gli ha raccontato che stanno per far fuori anche due giudici. Prima Borsellino e poi Falcone.

I due giudici vengono caricati dopo poche ore su un elicottero. Borsellino, la moglie Agnese, i tre figli. Falcone, la compagna Francesca e la madre di lei. Conoscono il luogo dove li nasconderanno solo in volo: l’isola dell’Asinara. Li rinchiudono in un carcere di massima sicurezza. Sono al sicuro soltanto in mezzo al mare.

La tragedia pubblica di Palermo per Paolo Borsellino è anche una grande tragedia privata.

Lucia, la figlia più grande, si ammala. Non mangia più. Da molti mesi è scivolata in un malessere profondo. È una ragazzina, la vita blindata del padre la sta devastando. La sera prima dell’Asinara, nella loro casa sul mare di Villagrazia irrompono all’improvviso gli agenti dei corpi speciali. C’è anche un mezzo blindato per trasportare la famiglia Borsellino fino all’aeroporto.

Su quei giorni all’Asinara, il ricordo di Lucia è affidato al giornalista Umberto Lucentini:

Sono lì da una settimana quando decido di passeggiare, di esplorarla un po’ quest’isola dove ci hanno spedito lontano dal pericolo di vendetta della mafia. È il momento che mi rendo conto che nemmeno all’Asinara possiamo stare tranquilli… Nell’attimo in cui metto un piede fuori dal giardino che circonda la foresteria e mi incammino con mia sorella tra i campi, scorgo un corteo di persone che ci

seguono, si nascondono dietro i cespugli, con i mitra spianati… mi crolla il mondo addosso, altro che rifugio sicuro.

Da quell’attimo mi passa la voglia di passeggiare, di fare qualsiasi cosa. Mi rinchiudo in camera per cinque giorni di fila. Non ho

più fame. Ogni giorno che passa è sempre peggio. Mio padre capisce subito cosa sta succedendo. Io no: quando mi chiede «Perché non mangi?» non so dargli risposta. Gli dico che vorrei tornare a casa.

Papà sa che il rischio è altissimo, ma non sente ragioni: prende me e Fiammetta, ci infila in gran segreto in elicottero e ci accompagna fino a Palermo. Restiamo con i nonni a Villagrazia, lui torna all’Asinara. Sono ridotta a uno scheletro quando papà torna a Palermo. Da quel momento papà non mi lascia un secondo. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Dal pool antimafia di Palermo alle misteriose terre trapanesi. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 09 luglio 2022

Ultime settimane del 1985. Paolo Borsellino decide di presentare domanda al Consiglio Superiore della Magistratura per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala. Non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Paolo Borsellino è segnato dal dolore. Fuori la guerra a Cosa Nostra e una città nemica, in famiglia il dramma di Lucia. Ma quel 1985 non è ancora finito. Gli ultimi mesi riservano altre sofferenze.

È il 25 novembre e un corteo blindato attraversa a tutta velocità le strade di Palermo. È all’altezza di un incrocio di via Libertà, quasi davanti al «Meli», il liceo che ha frequentato Borsellino. Sbuca un’utilitaria, una delle Alfette dei carabinieri sbanda e finisce su un marciapiedi dove stanno gli studenti appena usciti dalla scuola. Biagio Siciliano, 15 anni, muore sul colpo, Maria Giuditta Milella, 16 anni, muore dopo sette giorni. Altri tre sono in coma.

Sull’auto blindata ci sono Paolo Borsellino e il suo amico Leonardo Guarnotta.

Per la Palermo infastidita o spaventata dalle indagini antimafia, è il momento ideale per scatenarsi. Per rilanciare le polemiche sulla magistratura che sta «rovinando» la città. Gli sciacalli non mancano. Si avvicina l’inizio del maxi processo.

E ogni occasione è buona per dare addosso ai giudici del pool.

Ricomincia la campagna contro una Palermo sotto assedio. La «lotta alla mafia» che porta solo sventure in Sicilia. Uccide «anche gli innocenti».

Ogni sera, Paolo Borsellino va a trovare in ospedale i ragazzi feriti. Parla con i loro genitori. Per gli anni che gli restano si trascinerà un profondo senso di colpa per i ragazzi del «Meli».

La monumentale istruttoria è conclusa. Nel bunker dell’ufficio istruzione c’è molta eccitazione, l’aula bunker ha bisogno degli ultimi ritocchi. Una cinta esterna, le telecamere, un camminamento sotterraneo per trasferire ogni mattina in sicurezza i detenuti rinchiusi all’Ucciardone.

Il lavoro del pool è finito, per il momento.

È in quelle ultime settimane del 1985 che Paolo Borsellino decide di presentare una domanda al Consiglio Superiore della Magistratura: è in pista per la nomina a procuratore capo della repubblica a Marsala.

Ne parla con gli amici del pool. Sono tutti felici. Il sostituto procuratore Vincenzo Geraci – il pubblico ministero che ha

sostenuto in aula l’accusa contro gli assassini del capitano Basile nel primo processo – è al Consiglio Superiore della Magistratura e gli annuncia il suo appoggio e quello della sua corrente.

Paolo Borsellino non sta abbandonando la prima linea, non sta scappando da Palermo. Al contrario. Marsala è una città al centro di una provincia, quella di Trapani, dove da vent’anni non si celebra un processo alla criminalità organizzata. Il territorio, dal golfo di Castellammare fino alla Valle del Belice e a Mazara del Vallo, è governato da decine di famiglie mafiose.

Nessuno ha mai indagato. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Invidie, sentenze cassate e tanti veleni nel palazzo di Giustizia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 10 luglio 2022

Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala. Candidato a quel posto di procuratore c’è anche Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise, più tardi arrestato e rinviato a giudizio. Verrà accertato “il suo contrasto livoroso” per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Paolo Borsellino vuole ricominciare da lì. Da Marsala.

Candidati a quel posto di procuratore ci sono altri due magistrati. Tutti e due godono di una maggiore anzianità in magistratura. Uno è Giuseppe Alcamo, presidente di una sezione del Tribunale di Palermo. L’altro è Giuseppe Prinzivalli, presidente di Corte di Assise.

Il più giovane fra loro è proprio Paolo Borsellino. Ma è anche quello che, dopo quasi sei anni all’ufficio istruzione, ha accumulato una straordinaria esperienza in materia di indagini mafiose.

Il Consiglio Superiore deciderà a breve. Paolo Borsellino è in attesa.

Ma intanto a Palermo una sua inchiesta viene cancellata con una sentenza.

«Un brutto segnale per il maxi processo», scrivono sui giornali i commentatori di cose di mafia.

È l’istruttoria sul massacro di piazza Scaffa, otto morti ritrovati la notte del 18 ottobre 1984 in una stalla nei quartieri orientali della città. Macellavano clandestinamente senza l’«autorizzazione» dei boss di Ponte Ammiraglio e di Sant’Erasmo, gli Zanca e i Vernengo. Uno sgarro che provoca la strage.

Paolo Borsellino istruisce l’inchiesta sulle accuse della moglie di una delle vittime – Pietra Lo Verso – e di due pentiti, Vincenzo Sinagra e Stefano Calzetta.

Per la Corte di Assise, la denuncia della donna «è il risultato di uno scambio di idee fra comari». Ai pentiti non credono. Tutti assolti anche questa volta. Anche i latitanti Carmelo Zanca e Pietro Vernengo.

Il presidente della Corte di Assise è Giuseppe Prinzivalli, uno dei «concorrenti» di Paolo Borsellino alla guida della procura della repubblica di Marsala.

L’aula bunker è avvolta nel silenzio quando all’improvviso sento una voce: «Quel giudice ha coraggio da vendere: ha due

palle come il mio mulo di Ciaculli». Mi volto e vedo un sorridente Michele Greco aggrappato alle sbarre della sua cella. Sta commentando la sentenza con la quale – per la prima volta – una Corte lo ha appena assolto dal reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Con lui, altri 78 imputati vengono dichiarati innocenti. È il verdetto di un troncone del maxi processo, presidente è Giuseppe Prinzivalli, giudice intento solo a demolire tutte le inchieste del pool antimafia. Chiacchierato da anni per i suoi benevoli giudizi nei confronti dei boss della Cupola, Prinzivalli è «chiamato» da alcuni pentiti che raccontano di borse piene di soldi e di favori che non si possono rifiutare.

Condannato a 10 anni in primo grado per l’«aggiustamento» di processi, condannato a 8 anni in Appello, il presidente Prinzivalli viene graziato dalla Cassazione e poi ancora condannato da un’altra Corte di Appello. Ma è troppo tardi. Il reato contestato ormai è prescritto. Anche se viene accertato «il suo contrasto livoroso» per tutte le inchieste del giudice Falcone e la sua disponibilità «ad assecondare le richieste degli imputati di mafia».

Il mulo di Ciaculli non gli somigliava per niente

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Paolo Borsellino è a Marsala e scopre una mafia sconosciuta. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 luglio 2022

L’uomo è espansivo, estroverso, generoso. Più che un procuratore sembra un fratello maggiore. Pranza con loro, ascolta i loro problemi, li guida, li consiglia, li aiuta. È fatto così Paolo Borsellino. Poi il procuratore si rivela anche a Marsala, mai violata fino a quel momento dalle indagini antimafia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

È estate piena quando arriva dall’altra parte della Sicilia. Il 4 agosto 1986 Paolo Borsellino «prende possesso» come capo

della procura della repubblica di Marsala.

La sua stanza è enorme. Lui, piccolo di statura è là in fondo avvolto in una nuvola di fumo. Il pacchetto di Dunhill in mano, una sigaretta in bocca, l’altra ancora accesa e dimenticata nel posacenere.

Il Consiglio Superiore della Magistratura, alla fine, ha scelto lui per guidare quella procura.

Il silenzio di una città è spezzato per sempre.

Il primo uomo che incontra in Tribunale è un maresciallo dei carabinieri. Si chiama Carmelo Canale, diventa la sua ombra. Il maresciallo è anche lui palermitano. E come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone è originario del quartiere della Kalsa.

Il nuovo procuratore capo è circondato da giudici ragazzini. Quasi tutti sotto i trent’anni, tutti freschi di concorso in magistratura.

Diego Cavaliero viene da Napoli. Antonina Sabatino e Antonio Ingroia da Palermo, Massimo Russo è di Mazara, Alessandra Camassa e Giuseppe Salvo sono marsalesi.

Dopo gli anni del pool con Antonino Caponnetto e Giovanni Falcone, questa è la sua nuova squadra.

Paolo Borsellino è un personaggio già famoso, è uno dei magistrati del maxi processo a Cosa Nostra, un mito per i suoi giovani colleghi. Se le ritrovano come loro capo e sono tutti emozionati. La vera sorpresa, però, è quando lo conoscono.

L’uomo è espansivo, estroverso, generoso. Più che un procuratore sembra un fratello maggiore. Pranza con loro, ascolta i loro problemi, li guida, li consiglia, li aiuta. È fatto così Paolo Borsellino.

Poi il procuratore si rivela anche a Marsala, mai violata fino a quel momento dalle indagini antimafia.

Vicino c’è Mazara del Vallo con la sua grande flotta peschereccia, barconi che navigano nel Mediterraneo e davanti alle coste dell’Africa occidentale. Paolo Borsellino mette gli occhi su quattro fratelli, ricchi macellai e forse anche trafficanti di eroina.

Comincia la sua prima inchiesta.

Arrivano le indagini sulla corruzione nella pubblica amministrazione. La città non è abituata a perquisizioni negli uffici, funzionari accusati di peculato, scandali.

Arrivano anche le indagini sui boss. La mafia in provincia di Trapani è Mariano Agate, uno della Cupola. È amico di Totò Riina, il suo regno è Mazara dove si nascondono molti Corleonesi latitanti e forse anche lo stesso capo dei capi di Cosa Nostra.

Paolo Borsellino trova alloggio in un appartamento sopra il commissariato di polizia di Marsala. Torna spesso a Palermo.

Incontra gli amici del pool. Ogni tanto è sua moglie Agnese che va a trovarlo nella sua nuova città.

Questa nuova avventura lo carica, lo emoziona. Le tensioni vissute durante l’istruttoria del maxi sono alle spalle, Lucia sta meglio, lui è felice del suo nuovo incarico, il grande processo alla mafia è iniziato a febbraio e tutto il mondo ha scoperto per la prima volta Cosa Nostra. Ci sono anche il suo sudore e il suo coraggio lì dentro.

Intorno a lui tutto sembra tutto più tranquillo e tutto più normale quando viene ricacciato nell’arena.

DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

«I professionisti dell’Antimafia», l’attacco di Sciascia contro Borsellino. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 12 luglio 2022

La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità».  L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

La mattina del 10 gennaio 1987 un articolo in prima pagina su Corriere della Sera parla di lui. E di come è diventato procuratore capo della repubblica di Marsala.

Il titolo è una perfetta sintesi: «I professionisti dell’Antimafia».

L’articolo è di Leonardo Sciascia, il siciliano che ha fatto conoscere con i suoi libri la mafia agli italiani.

Che cosa scrive Sciascia?

Prende spunto da una documentata analisi dello storico inglese Christopher Duggan sulla mafia ai tempi del Fascismo, ricorda le retate del prefetto Mori, poi sostiene che l’antimafia può trasformarsi in «uno strumento di potere». E fa due esempi. Il primo è quello del popolarissimo sindaco di Palermo: Leoluca Orlando. È un democristiano che, proprio sul tema dell’antimafia, ha diviso e fatto rivivere Palermo. Leonardo Sciascia non cita il suo nome. Cita però quello di Paolo Borsellino.

È lui il secondo «campione» di quell’antimafia che può raggiungere «un potere incontrastato e incontrastabile».

La riflessione di Sciascia parte proprio dalla nomina del nuovo procuratore capo di Marsala, scelto per «meriti di antimafia» a scapito dei criteri di «anzianità». Borsellino, grazie alla sua attività nel pool di Caponnetto e di Falcone, ha superato in graduatoria colleghi – come Alcamo e Prinzivalli – che potevano contare su una più lunga carriera in magistratura.

L’articolo del Corriere ha l’effetto di una bomba. Con Leonardo Sciascia si schiera quasi tutta l’Italia. Intellettuali. Professori. Uomini politici al di sopra e al di sotto di ogni sospetto. E tutti i personaggi di quella Sicilia livorosa che detesta il pool. C’è chi non sta più nella pelle per la felicità: uno dei più grandi scrittori italiani del secolo è al loro fianco.

Non se ne può più di indagini nel mucchio. Finiamola con i talebani della giustizia. È la dittatura dell’antimafia.

Contro Leonardo Sciascia scrivono Eugenio Scalfari, Giampaolo Pansa, Nando dalla Chiesa e pochi altri.

La polemica monta giorno dopo giorno.

Si scopre anche che un paio di vecchi giudici del Tribunale di Palermo hanno incontrato Sciascia per consegnargli la copia della sentenza sulla strage di piazza Scaffa, il verdetto del presidente Giuseppe Prinzivalli che ha annullato e mortificato l’istruttoria di Paolo Borsellino.

Il procuratore di Marsala è nella tempesta. Per alcuni giorni tace. Tutti lo cercano, Borsellino si fa negare. Anche perché lui, come moltissimi siciliani, ha sempre amato i libri di Sciascia.

Le parole dello scrittore offrono a tutti i nemici dell’antimafia l’occasione di scatenarsi una volta ancora contro i giudici. Il maxi processo è in corso. La sentenza è attesa per la fine dell’anno.

DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Il mistero del boss ucciso da Riina prima dell’attentato a Borsellino. GIACOMO DI GIROLAMO su Il Domani il 13 luglio 2022

Trent'anni dopo quel terribile 1992,  c’è un episodio che è snodo importante per capire il senso di quella guerra di Cosa nostra allo Stato. Ed è l’omicidio di Vincenzo Milazzo. Capomafia di Alcamo.

Il suo omicidio è uno degli episodi più significativi e meno raccontati, finora, di quel periodo. Avviene il 14 Luglio 1992,  pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. Per anni si è ritenuto che l’ eliminazione di Milazzo fosse da inserire nella lotta per il controllo del  traffico di droga  o per le proteste sulla sua gestione delle entrate della “famiglia”.

Ma alcuni elementi hanno sempre destato sospetto: il periodo dell’omicidio -  tra le grandi stragi di mafia,   il meno opportuno per un regolamento di conti - la partecipazione di Matteo Messina Denaro, amico di Milazzo, all’omicidio, alla presenza di tutti i giovani rappresentanti delle altre famiglie, e l’uccisione, dopo qualche giorno, della sua compagna.

GIACOMO DI GIROLAMO. Giornalista. Si occupa di criminalità organizzata e corruzione per il portale Tp24.it e per la radio Rmc 101. Autore della biografia del boss Matteo Messina Denaro: L’invisibile (2017), di Cosa Grigia (il Saggiatore 2012, finalista al premio Piersanti Mattarella), Dormono sulla collina (il Saggiatore 2014), Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016). Con Andrea Bulgarella ha scritto La partita truccata (Rubbettino, 2018).

UN PASSATO DI MISTERI. La storia del principe palermitano all’origine della strategia della tensione. PAOLO MORANDO su Il Domani il 13 luglio 2022

Giovanni Tamburino è stato il magistrato che nel 1974 a Padova ha condotto l’inchiesta contro l’organizzazione neofascista Rosa dei venti.

Ora, in un libro e con documenti inediti, ha scoperto le connessioni di Gianfranco Alliata con l’eversione italiana. A partire dalla strage di Portella della Ginestra.

Il capitolo finale del libro, Dalla Rosa dei venti a Portella della Ginestra, si chiude infatti con un’incalzante serie di asserzioni conclusive, frutto di meticolose ricerche anche nel Fondo Alliata riversato all’Archivio storico della Camera dai familiari del principe, dopo la sua morte avvenuta il 20 giugno 1994. 

PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Domani, Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).

Quell’articolo sul Corriere, le polemiche e una ferita che sanguina sempre. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 13 luglio 2022

Le ferite per quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia» non si sono ancora rimarginate. Paolo Borsellino non ha mai dimenticato l’articolo sul Corriere. «È cominciato tutto da lì», dice la sera del suo ultimo discorso pubblico, appena un mese dopo l’uccisione di Giovanni Falcone.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

La bufera di accuse e controaccuse sul «potere» di chi combatte Cosa Nostra, in verità si accende violentissima quando il «Coordinamento Antimafia» di Palermo – un movimento di trecento fra ragazzi e vecchi militanti, ci sono quelli delle Acli e dell’Arci, del Pci e di Democrazia Proletaria – scrive una lettera aperta a Sciascia e «lo colloca ai margini della società civile».

Gli dà anche del quaraquaquà.

E un vocabolo utilizzato dallo stesso Sciascia ne Il Giorno della Civetta per indicare uomini «inutili», senza spina dorsale.

Quel quaraquaquà infiamma gli animi.

Per una settimana, la stampa non fa che parlare dei «meriti antimafia» di certi giudici.

Come Paolo Borsellino, che dopo una vita blindata a Palermo adesso è a Marsala, sempre prigioniero fra il Tribunale dove lavora e il commissariato di polizia dove abita.

Una mattina il Giornale di Sicilia pubblica l’elenco completo, nome per nome, degli iscritti al «Coordinamento Antimafia» che hanno «osato» insultare Leonardo Sciascia. Una lista di proscrizione.

Oggi, venticinque anni dopo, le ferite per quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia» non si sono ancora rimarginate.

Paolo Borsellino non ha mai dimenticato l’articolo sul Corriere.

«È cominciato tutto da lì», dice la sera del suo ultimo discorso pubblico, appena un mese dopo l’uccisione di Giovanni Falcone.

«Sono stato io a scrivere quel comunicato. Non rinnego nulla», mi svela Francesco Petruzzella.

È il 6 gennaio del 2007 e, nel ventennale della polemica, in Italia ancora si dibatte su Sciascia e sui «meriti» dell’antimafia. Chiamo Francesco a Palermo per farmi raccontare qualche particolare – un ricordo, un retroscena – su quella riunione in cui il «Coordinamento» aveva deciso di attaccare lo scrittore frontalmente e con quell’espressione.

Francesco Petruzzella è un analista informatico della procura della repubblica. Vent’anni prima era uno studente di Giurisprudenza.

Mi prende di sorpresa: «Sai, sono stato io a dare del quaraquaquà a Sciascia, puoi scriverlo, dopo vent’anni mi sembra anche giusto uscire allo scoperto». Perché l’hai fatto? «Quando ho letto il suo articolo sono rimasto pietrificato, vivevo in una Palermo di morti e non riuscivo a comprendere come aveva potuto indicare proprio quei due uomini, il sindaco Orlando e il procuratore Borsellino. Ero in preda alla rabbia».

Francesco Petruzzella è nato a Racalmuto, il paese di Sciascia. E, come ogni siciliano, fin da bambino ha sempre letto i suoi libri. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Quel “dito” di Sciascia che anticipò l’isolamento di Falcone e Borsellino. Vincenzo Ceruso, allievo di don Pino Puglisi, nel libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” ha ricostruito sia la nascita della mafia corleonese sia la via crucis che hanno dovuto affrontare i due magistrati. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 luglio 2022.

Non manca la letteratura sul fenomeno mafioso, così come non mancano i libri su Giovanni Falcone e Paolo Borsellino che, puntualmente, escono nelle librerie a ridosso di ogni anniversario delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Negli ultimi anni, però, è sempre più difficile trovare libri sul tema che si distinguano in qualche modo dai romanzi fantasy, senza una vera ricerca delle fonti, lettura degli atti processuali, verbali, testimonianze credibili e che restituiscano il vero pensiero dei due giudici. Ciò sta creando un analfabetismo culturale di ritorno. La mafia scompare come attore principale, e a lei si sostituiscono non meglio precisate entità. Manca un punto di riferimento sia per i giovani che cominciano ad approcciarsi alla storia terribile di Cosa nostra, sia per quelli che hanno una conoscenza maggiore ma rischiano di perdersi.

Un libro utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi

Da qualche tempo, però, nelle librerie è uscito il libro edito da Newton Compton Editori, dal titolo “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia”. L’autore è Vincenzo Ceruso e gli va riconosciuto il merito di aver ricostruito in maniera scrupolosa sia la nascita della mafia corleonese che la via crucis che dovettero affrontare Falcone e Borsellino. Un libro che è utile anche per gli addetti ai lavori, magistrati compresi. Vincenzo Ceruso è un palermitano, allievo di padre Pino Puglisi, si è occupato di devianza con la comunità di Sant’Egidio e ha già scritto numerosi libri sulla mafia. Balza subito all’occhio che l’autore per scrivere questo libro ha svolto una scrupolosa ricerca, non tralasciando nulla e arricchendo di particolari, anche inediti, la genesi delle stragi.

Chi si aspetta la solita storia di entità che eterodirigono la mafia, rimarrà deluso. Così come, d’altronde, rimasero delusi coloro che da Falcone attendevano una narrazione alla James Bond e di una Spectre che governava gli eventi. La questione è più semplice e complessa nel contempo. Il sistema binario, in questo libro non è contemplato. Si intravvedono sfumature, dubbi, ma anche fatti certi e inoppugnabili che aiutano lo spirito critico. Tale esercizio va fatto costantemente, ma solo se si ha la conoscenza dei fatti. Questo libro è indispensabile per chi vuole intraprendere tale percorso.

Un capitolo del libro fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”

“Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” però narra anche la lotta, sofferenza e isolamento dei due giudici. I primi a colpirli, soprattutto Falcone, sono stati i loro colleghi. C’è un capitolo del libro dove si fa un riferimento intellettuale al “dito di Leonardo Sciascia”. L’autore cita una riflessione dello scrittore di Racalmuto relativa all’assassinio del procuratore Gaetano Costa. Lo fa dopo alcune settimane dal delitto eccellente di Cosa nostra, in una intervista rilasciata a Felice Cavallaro. Alla domanda su cosa ne pensava della riunione nel corso della quale Costa, in contrasto con alcuni magistrati, decise di firmare i mandati di cattura contro i bossi del traffico di droga, Sciascia ha risposto così: «Uno scrittore americano, Damon Runyon, un umorista, usa un termine mutuato dal gergo della malavita, il dito. Chiama così colui che indica le persone da uccidere, da sequestrare, da rapinare. Credo che in Italia, in ogni ambiente ed in ogni categoria, ci sia un dito, e questo vale anche per certi omicidi del terrorismo. Il dito può funzionare per volontà, consapevolmente, e può funzionare incidentalmente; per esempio, lasciando solo la persona che vuol fare qualcosa».

Falcone fa riferimento a Sciascia in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso

Vincenzo Ceruso rivela che questa intervista è stata molto apprezzata da Falcone, il quale la cita durante un convegno. Ma soprattutto, il riferimento a Sciascia è nitido in una pagina dell’ordinanza che avvia il maxiprocesso. L’autore del libro “Le due stragi che hanno cambiato la storia d’Italia” l’ha scovata e si tratta di un passaggio fondamentale relativo all’omicidio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie e l’agente di scorta. Anche in questo caso vale la pena riportarlo: «Un noto scrittore siciliano, a proposito degli omicidi di pubblici funzionari, ha elaborato una interessante teoria secondo cui la mafia attacca e uccide quando la vittima, particolarmente distintasi per l’impegno profuso nella repressione del fenomeno mafioso, non appare assistita e circondata dall’appoggio e dal consenso delle istituzioni, per cui appare all’esterno come una monade isolata, impegnata in una sorta di crociata personale».

“Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino

Inutile dire che, leggendo questo passaggio, inevitabilmente la pelle è attraversata da un brivido. È esattamente quello che poi accadrà a lui stesso: il ditino contro Falcone che proviene dai suoi stessi ambienti lavorativi. Cosa che poi dovrà affrontare anche Borsellino. Quel dito che in qualche modo sembra rievocarlo quando, proprio il giorno prima dell’attentato a Via D’Amelio, il giudice disse alla moglie Agnese che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò potesse accadere. “Il dito di Sciascia” che riappare sulla bocca di Borsellino. Un dito che però, di fatto, viene ricercato altrove. Lo stesso Ceruso, in un capitolo del libro fa riferimento a una audizione di un magistrato che sembra mutuare le parole di Borsellino.

Ceruso ricorda che Falcone e Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra

Scompaiono i colleghi e appaiono i servizi segreti deviati. Le “entità”, definizione che va di moda. Ma quel dito, nel caso delle stragi, soprattutto quella di Via D’Amelio crea l’humus per poter neutralizzare i giudici, sia per vendetta che per cautela preventiva. Soprattutto quest’ultima che va ad inserirsi nell’interessamento dell’indagine su mafia appalti. L’autore, e per la prima volta lo troviamo in maniera dettagliata in un libro, spiega bene ogni minimo particolare. Solo leggendolo, con tanto di riferimenti documentali, un lettore desideroso di conoscenza può comprenderne l’importanza. Ceruso ci tiene a ricordare che sia Falcone che Borsellino erano considerati nemici numero uno da Cosa nostra fin da subito. Comincia con l’ascesa di Totò Riina – qui l’autore spiega molto bene la sua figura che è l’incarnazione vivente dell’anti-trattativa -, il quale non scende a patti con nessun potere, distrugge la vecchia mafia e ne crea una nuova. Soprattutto desiderosa di eterodirigere l’amministrazione pubblica fino ad essere quotata in Borsa.

L’omicidio del capitano Basile stravolse la vita di Borsellino

Ceruso ricorda le indagini di Borsellino che colpirono a segno la mafia e l’episodio che gli stravolse la vita. Primo tra tutti, l’omicidio del capitano Emanuele Basile. La mafia proverà ad avvicinarlo attraverso dei segnali, ma rifiutò e andò avanti con l’indagine entrando nel cuore del mandamento di San Giuseppe Jato. Siamo nel 1980 e Totò Riina voleva ucciderlo, e con lui ha individuato Basile che era riuscito a fare una indagine capillare. Quest’ultimo sarà ucciso alle spalle dai sicari mentre, assieme alla moglie e figlia piccola, mentre partecipava a una processione del santissimo crocifisso di Monreale. Dirà il giornalista Attilio Bolzoni: «Quella sera cambiò per sempre la vita di Paolo Borsellino».

Il libro va letto tutto, perché ci sono dettagli che nel tempo sono sfuggiti, oppure evaporati tra tesi giudiziarie inconcludenti, seppur affascinanti. La vicenda di Cosa nostra e le stragi, non sono un romanzo. Non si può fantasticare su fatti tragici. Basta Cosa nostra stessa che, durante l’epoca corleonese, usava una tecnica – così ricorda l’autore nel libro – che evoca la strategia terrorista sudamericana: attuava omicidi e stragi depistandoli attraverso sigle come quella della “falange armata”. Ai tempi dell’impoverimento culturale, dove purtroppo mancano intellettuali e storici di riferimento, il libro di Ceruso è una boccata d’ossigeno. Da leggere per chi vuole riconciliarsi con la verità storica e giudiziaria. E magari riprendere il percorso tracciato da Falcone stesso.

Lo studio di Paolo Borsellino e quella corrispondenza con Leonardo Sciascia. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 15 luglio 2022

Ero stato diverse volte a trovare Paolo Borsellino lì. Solo di sera e solo nel suo studio. Non avevo mai visto le altre stanze della casa. Con Manfredi rientro nello studio di Paolo Borsellino. Mi fa vedere la lettera di Sciascia, con la quale chiede di entrare in possesso del vecchio processo di Joseph Bonanno. Parliamo di suo padre.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Passano due mesi e Leonardo Sciascia spedisce un’altra lettera a Paolo Borsellino: «Le Scrivo per chiederLe un favore: spero non Le sia, la mia richiesta, di troppo fastidio. Non so se Lei ha letto il libro di Joseph Bonanno, di cui la Mondadori ha pubblicato la traduzione nel 1985… Bonanno è allergico alle date ma il suo processo potrebbe essere stato celebrato, a Trapani, fra il 1912 e il 1914. Quel che Le chiedo è dunque questo: è possibile, trovandosi l’incarto, che io possa prenderne visione…».

Questa lettera, datata 26 ottobre 1988, me la dà Manfredi Borsellino, il figlio.

È il 2002 e gli dico che mi piacerebbe pubblicare tutta la corrispondenza fra suo padre e Leonardo Sciascia, a proposito dell’“Uomo cane” di Mazara del Vallo. Mi fa vedere anche questo messaggio dello scrittore.

Manfredi è un funzionario della Polizia di Stato, lo conosco da qualche anno. Non lo incontro da un po’. Ho un momento di smarrimento. La somiglianza con Paolo Borsellino è impressionante. Manfredi è un ragazzo garbato e riservato.

Un paio di giorni dopo mi invita a casa sua, in via Cilea. Ero stato diverse volte a trovare Paolo Borsellino lì. Solo di sera e solo nel suo studio. Non avevo mai visto le altre stanze della casa.

Con Manfredi rientro nello studio di Paolo Borsellino. Mi fa vedere la lettera di Sciascia, con la quale chiede di entrare in possesso del vecchio processo di Joseph Bonanno. Parliamo di suo padre. Gli racconto: «Io sono venuto diverse volte in questa casa ma tuo padre non mi ha mai fatto varcare quella porta oltre lo studio, teneva moltissimo alla famiglia e cercava di tenere rigorosamente separato il suo lavoro da voi. Conosco solo questa stanza e ho sempre ho avuto la sensazione che fosse staccata dal resto della casa».

Manfredi sfila da uno scaffale uno dei tanti faldoni custoditi da suo padre. Paolo Borsellino segnava e conservava tutto.

Incontri, interviste, appunti, fotografie, ritagli di giornale.

Poi sorride e mi dice: «In effetti non hai avuto una sensazione sbagliata: questa stanza era della casa accanto, i miei genitori l’hanno comprata successivamente dal vicino per allargare il nostro appartamento».

A Palermo sono gli ultimi giorni di Antonino Caponnetto. Il consigliere istruttore sta tornando a Firenze e il giudice Falcone è sicuro di prendere il suo posto. Non sarà così. Quando all’ufficio istruzione arriva il nuovo capo Antonino Meli, in pochi mesi viene disintegrato il pool antimafia.

Paolo Borsellino non ha dimenticato gli amici di Palermo. È uno di loro. Giovanni Falcone non può parlare, è un giudice di quell’ufficio e deve rispettare regole e gerarchie. Paolo Borsellino, invece, sta fuori e può dire ciò che pensa. È sempre a Marsala. Aspetta soltanto l’occasione per denunciare quello che ha dentro. 

DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Il giallo del fisico Ettore Majorana sul tavolo del procuratore Borsellino. DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 luglio 2022

Leonardo Sciascia è incuriosito da una storia che i quotidiani locali stanno seguendo da qualche giorno. Ci sono due fratelli di Mazara del Vallo, Edoardo e Antonio Romeo, che si rivolgono al procuratore Borsellino sostenendo che conoscono la vera identità di un barbone morto molti anni prima nella loro città. «Era Ettore Majorana», gli dicono.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Il maxi processo finisce nel mese di dicembre del 1987. È una vittoria per il pool. E per un’Italia che spera ancora.

Paolo Borsellino è sempre a Marsala. È passato ormai quasi un anno dalla polemica sui «professionisti dell’Antimafia».

E un giorno, sulla sua scrivania, trova una lettera di Leonardo Sciascia:

«Caro Dottor Borsellino, Le scrivo confidenzialmente, amichevolmente, a proposito dell’inchiesta che, dai giornali, apprendo Lei sta conducendo sul cosiddetto “Uomo cane” di Mazara del Vallo…».

C’è qualcuno che crede di sapere dove, per mezzo secolo e avvolto nel mistero, ha vissuto Ettore Majorana, il fisico siciliano misteriosamente scomparso nel 1938.

Alla sua sparizione, Leonardo Sciascia ha dedicato un bellissimo libro nel 1975. Nessuno ha mai più avuto notizie di lui. Qualcuno dice che è riparato in Sudamerica. Qualcun altro in un convento in Calabria. Molti sono sicuri che sia in fondo al mare.

Suicida, annegato, durante il suo ultimo viaggio sul postale Palermo-Napoli.

Leonardo Sciascia è incuriosito da una storia che i quotidiani locali stanno seguendo da qualche giorno.

Ci sono due fratelli di Mazara del Vallo, Edoardo e Antonio Romeo, che si rivolgono al procuratore Borsellino sostenendo che conoscono la vera identità di un barbone morto molti anni prima nella loro città. «Era Ettore Majorana», gli dicono. E aggiungono: «Lui ci ha raccontato che era stato un insegnante di fisica, aveva sulla mano destra una cicatrice identica a quella di Majorana. Ci ha fatto giurare che potevamo svelare il suo segreto a quindici anni dalla sua morte».

Il nome del barbone era Tommaso Lipari ma per tutti era l’“Uomo cane”. Si sosteneva con un bastone con incise due iniziale: E.M. Proprio come Ettore Majorana.

Paolo Borsellino affida l’indagine al maresciallo Carmelo Canale e aspetta i risultati delle sue verifiche.

Intanto Leonardo Sciascia gli manda quella lettera.

L’incontro con lo scrittore è a Marsala. Di mattina si vedono allo Stagnone di Mozia davanti alle isole Egadi, a pranzo sono seduti in una trattoria sul mare. C’è anche Agnese, la moglie di Paolo Borsellino.

È un momento di distensione dopo quell’articolo sui «professionisti dell’Antimafia». Con loro c’è pure il giudice Giuseppe

Alcamo, uno dei tre «concorrenti» nel 1986 a procuratore capo di Marsala.

Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia parlano delle comuni origini agrigentine, dei figli, del loro lavoro.

Dopo qualche settimana si scopre che Tommaso Lipari è in effetti Tommaso Lipari e non il fisico Ettore Majorana. Il barbone, tantissimi anni prima, era finito nel carcere di Favignana dopo aver insultato un vigile urbano. Ci sono ancora le sue impronte digitali. Il mistero è chiarito per sempre.

DA "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI 

La denuncia della fine del pool antimafia, così esplode il “caso Palermo”. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 16 luglio 2022

Borsellino comincia a raccontare cosa sta accadendo a Palermo. Nel bunker del Tribunale. Nel pool antimafia dove fino a un paio di anni prima c’era anche lui. Il suo atto di accusa è durissimo. Paolo Borsellino dice che: «la lotta al crimine organizzato è stata azzerata»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Arriva il 16 luglio del 1988, ad Agrigento. Paolo Borsellino è alla presentazione di un libro di Giuseppe Arnone, il leader siciliano di Legambiente che ha raccolto gli atti di un processo di mafia nella sua città, il primo dopo quarantadue anni. Con lui c’è Luciano Violante, il responsabile dei problemi per la giustizia del Pci, c’è il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, c’è l’avvocato Alfredo Galasso.

Nel chiostro di San Nicola si parla dei «ritardi» dello Stato, della mafia agrigentina mai esplorata. Poi, all’improvviso

Borsellino comincia a raccontare cosa sta accadendo a Palermo. Nel bunker del Tribunale. Nel pool antimafia dove fino a un paio di anni prima c’era anche lui. Il suo atto di accusa è durissimo. Paolo Borsellino dice che: «la lotta al crimine organizzato è stata azzerata», che l’«ultimo rapporto di polizia degno di questo nome risale al 1982 ai tempi di Montana e di Cassarà», che da quando il consigliere Antonino Meli è «all’ufficio istruzione di Palermo i processi si perdono in mille rivoli».

I giornali locali non pubblicano niente. Nessuno viene informato su cosa ha detto il procuratore Borsellino ad Agrigento.

Giuseppe Arnone chiama me e Saverio Lodato dell’Unità. Ricostruisce per noi la giornata agrigentina del procuratore Borsellino. Il pomeriggio successivo siamo a Marsala. È il 19 luglio del 1988.

Paolo Borsellino è in piedi, dietro la sua scrivania. «Siete venuti fin qui per consumarmi? Per farmi ripetere quello che ho detto ad Agrigento e che non è fregato niente a nessuno?», chiede sorridendo.

Ci rilascia un’intervista sulla solitudine di Giovanni Falcone. Sul pool smembrato. Sulla lotta alla mafia che è finita. Sugli apparati investigativi che girano a vuoto. Per una settimana la sua denuncia cade nel silenzio. Tutti in Italia fanno finta di niente.

Poi, il presidente della Repubblica Francesco Cossiga dice che vuole sapere cosa sta accadendo in Sicilia.

Il Capo dello Stato chiede al Consiglio Superiore della Magistratura di ascoltare i giudici di Palermo.

A Palazzo dei Marescialli aprono subito un «procedimento» contro Paolo Borsellino per l’intervista che ci ha concesso.

È il «caso Palermo» che esplode. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Tradito e venduto, Paolo Borsellino è andato solo incontro alla morte. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 18 luglio 2022

Dalla strage di Capaci all’attentato di via D’Amelio, cinquantasei giorni che hanno segnato la sorte dell’Italia. Dalle rivendicazioni della Falange Armata alle informative dei carabinieri nascoste dal suo capo Pietro Giammanco, dalla caccia ai diari di Falcone a un anonimo che annuncia terrore.

Sono passati più di venti giorni dall'attentato e nessuno, fra i procuratori che indagano sulla strage, ha ancora trovato il tempo per interrogarlo. Perché? Non è lui, più di chiunque altro, a custodire le confidenze e i segreti di Falcone? 

Il tritolo che arriva a Palermo, il tam tam di radio carcere che dà “Borsellino morto“, un misterioso incontro a Viminale 

Attilio Bolzoni per editorialedomani.it il 19 luglio 2022.

Una pioggia violenta lava Palermo, il cielo è nero, la piazza vuota. Dentro la chiesa Paolo Borsellino è in ginocchio davanti a un prete, si sta confessando. Esce per ultimo dalla basilica di San Domenico, si guarda intorno, è fradicio d’acqua, cerca con gli occhi gli uomini della sua scorta e poi si ripara sotto la pensilina del 101, l’autobus che scende da via Libertà fino alla stazione. 

È lunedì 25 maggio 1992, Giovanni Falcone non c’è più da trentasei ore. E il suo amico, il fratello, quello che tutti indicano come l’erede, è sotto un temporale d’estate, disperato come lo sarà sempre nei cinquantasei giorni che seguiranno. Solo, sta andando incontro alla morte. Basta mettere in fila le date e gli avvenimenti per intuire che Paolo Borsellino doveva saltare in aria, basta ricordare come è stato tradito da alcuni suoi colleghi per capire che non aveva altro destino. La cronaca dei fatti, nuda, scarna, a volte spiega tanto.

I funerali di stato sono finiti, la rivolta dei poliziotti sedata, il becchino ha già seppellito Giovanni Falcone. Il presidente del Consiglio Giulio Andreotti non è a Palermo, ma fa sapere di una telefonata anonima dopo il “botto” di Capaci: «È un regalo di matrimonio di Salvino Madonia». Salvino Madonia, uno dei quattro figli del patriarca della Piana dei Colli don Ciccio, che si è sposato all’Ucciardone proprio il giorno della strage, il 23 maggio. 

Il capo del governo parla anche di altre due telefonate, una alla redazione Ansa di Genova e un’altra alla redazione Ansa di Bari. La rivendicazione dell’uccisione del giudice, firmata Falange armata, una sigla al tempo molto misteriosa, miscuglio di spioni e boss della Cupola. Andreotti dedica poche parole alla strage: «Non facciamo certo discriminazioni fra le vittime, ma quando cadono uomini come Falcone, siamo colpiti in modo tutto particolare».

Alla fine della giornata non è lui, come aveva lungamente sperato, il nuovo presidente della Repubblica. L’omicidio nel marzo precedente di Salvo Lima, il suo console siciliano, l’ha messo fuori gioco per sempre. Dopo 15 scrutini segreti e 15 fumate nere dal 13 maggio, i deputati e i senatori finalmente eleggono il capo dello stato. 

È Oscar Luigi Scalfaro, ex magistrato, un democristiano più volte sottosegretario e ministro. Il “botto” ha avuto un effetto politico “stabilizzante”, il terrorismo mafioso unisce i due rami del parlamento che si ritrovano insieme per resistere alla minaccia eversiva. 

Nel mio taccuino segno alcune parole: il botto di Capaci, la bomba di Capaci, l’inferno di Capaci, segno anche “la disgrazia di Capaci”, come mi dirà qualche giorno dopo Antonina Brusca, dama di carità di San Vincenzo e madre di Giovanni, il mafioso che il 23 maggio era sulla collinetta con un radiocomando fra le mani.

Il conto alla rovescia forse può iniziare il 26 maggio, un martedì. Il nuovo capo dello stato è a Palermo, scende a Punta Raisi e va subito a pregare sul curvone dove il cratere butta ancora fumi e veleni. Poi è a villa Withaker, sede della prefettura. In quelle stesse ore, dall’altra parte dell’Atlantico, sta partendo una squadra di agenti speciali dell’Fbi, destinazione Sicilia. Indagano anche loro sull’attentato. A Washington annunciano una commemorazione al Congresso, repubblicani e democratici firmano una risoluzione: «L’uccisione del giudice italiano Giovanni Falcone è un delitto commesso anche contro gli Stati Uniti d’America». 

Mercoledì, 27 maggio. Vado a Caltanissetta perché è quella procura della repubblica che, per competenza, indaga su Capaci. Scopro che il procuratore capo Salvatore Celesti non è mai andato sul luogo del massacro, investiga “in differita”. Celesti è in scadenza, sono i suoi ultimi giorni a Caltanissetta. Per sostituirlo c’è solo un pretendente, Gianni Tinebra, un magistrato che da quasi un quarto di secolo è nello stesso distretto giudiziario.

La Sicilia intanto è stordita dalla strage, l’Italia è stordita dalla strage, noi che viviamo a Palermo siamo in stato di tranche. Vediamo tutto e vediamo niente. Giovedì 28 maggio. A Roma, il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti candida a sorpresa Paolo Borsellino a capo della neo procura nazionale antimafia. Borsellino non ne sa niente, è disorientato, impaurito: quella candidatura lo fa diventare ancora di più bersaglio dopo l’uccisione di Falcone. Due giorni da brivido. 

Perché il nome di Borsellino viene scaraventato all’esterno? Il procuratore scrive una lettera a Scotti e declina l’invito, dice che il suo posto è a Palermo. Tutta Italia crede però che lui, solo lui andrà alla Superprocura.

Il mese di giugno inizia male. Ci sono pentiti che non vogliono più parlare «perché non si sentono tutelati dallo stato», fra loro anche Totuccio Contorno e Antonino Calderone. A Palermo intanto rafforzano la scorta a Borsellino. Un’altra auto blindata, una vigilanza più intensa intorno alla zona rimozione sotto la sua casa in via Cilea e davanti alla chiesa di Santa Luisa di Marillac dove il procuratore va almeno una volta la settimana. 

Gli agenti che lo proteggono chiedono al questore Vito Plantone e al prefetto Mario Iovine di trasformare via Mariano D’Amelio, la via dove abita la madre di Borsellino, in una grande area protetta. Non ricevono risposta. Palermo è terrorizzata. Al palazzo di Giustizia arrivano tre o quattro magistrati da altre procure per seguire, indirettamente dal capoluogo siciliano, le indagini sull’uccisione di Giovanni Falcone. 

Vengono da Catania e da Messina, si aggirano come fantasmi nei lunghi corridoi della procura, non conoscono le strade della città, non conoscono le mappe criminali – organigrammi, composizione delle famiglie, capi e sottocapi – non conoscono la mafia. Noi giornalisti facciamo la spola fra Palermo e Caltanissetta, riempiamo pagine di niente, titoloni a sei colonne, il vuoto dentro gli articoli. Notizie che si rincorrono, si scrive tutto e il contrario di tutto.

Sono più concrete le informazioni che vengono dalla politica, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli stanno preparando un “decretone” di misure contro la mafia: è lo stato che reagisce alla strage. Protezione e aiuto economico ai mafiosi che collaborano, aboliti i benefici di legge ai boss che non parlano, l’introduzione del 41 bis, il carcere speciale. È ancora tutto sulla carta: non se ne farà nulla sino a dopo il 19 luglio. Ma c’è chi intuisce che sta succedendo qualcosa di importante, qualcosa che può portare un grave danno a Cosa nostra. 

E così si rifà viva la fantomatica Falange armata: «I politici hanno ottenuto quello che volevano, noi no. Certe cose non sono state rispettate». Nel disordine di quei giorni nessuno fa caso più di tanto alla Falange armata e a quella telefonata anonima, la voce di un uomo con un marcato accento catanese. Ma quali “cose” non sono state rispettate? C’è stato un patto? Ci sono state promesse?

Nel caldo insopportabile dello scirocco Palermo il 9 giugno si sveglia con le lenzuola bianche che scendono dai balconi dei palazzi. È una rivolta di massa. Dietro al “Comitato dei lenzuoli” c’è Giuliana Saladino, intellettuale raffinata, giornalista del quotidiano L’Ora per tre decenni, autrice di memorabili inchieste sul malaffare siciliano. Il Comitato chiede all’arcivescovo, il cardinale Salvatore Pappalardo, di far suonare le campane di tutte le chiese della città alle 17.58 del 23 giugno, un mese dopo Capaci. 

Ci sono mafiosi che non vogliono parlare più e ci sono mafiosi saltano il fosso. Uno è della provincia di Caltanissetta, si chiama Leonardo Messina, è a conoscenza di tanti segreti. Il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti torna sulla strage di Capaci: «È stato un delitto di mafia che ha trasceso i confini nazionali, il modo in cui è stato perpetrato, le tecniche che sono state usate: tutto punta verso una matrice non esclusivamente siciliana».

Paolo Borsellino ogni mattina è nella sua stanza al secondo piano del palazzo di Giustizia di Palermo. È barricato, stravolto, schiacciato. Un giorno lo vado a trovare. La porta si apre, ha ancora il telefono in mano: «Ho appena parlato con Antonio Di Pietro sull’informatizzazione della Giustizia, io sono il referente qui a Palermo». 

Gli chiedo se i suoi colleghi di Caltanissetta l’hanno già chiamato come testimone per dire tutto ciò che sa su Giovanni Falcone. Risponde: «No, sto ancora aspettando». Sono passati più di 20 giorni dall’attentato e nessuno, fra i procuratori che indagano sulla strage ha ancora trovato il tempo di interrogarlo. Perché? Non è lui, più di chiunque altro, a custodire le confidenze e i segreti di Falcone? Tutti la pensano così, tutti tranne i magistrati della procura di Caltanissetta.

In un’atmosfera cupa che non annuncia niente di buono al comando generale dell’Arma dei carabinieri viene trasmesso un rapporto con oggetto “Minacce nei confronti di personalità e inquirenti”. 

È firmato dal generale Antonino Subranni, l’ufficiale che guida il Ros, il raggruppamento operativo speciale. Nel dossier vengono indicati i possibili obiettivi: l’ex ministro dell’Agricoltura Calogero Mannino e il ministro della difesa Salvo Andò, il capitano dell’Arma Umberto Sinico e infine lo stesso Paolo Borsellino. Sono numerose le fonti “ascoltate” dal Ros, dentro e fuori Cosa nostra. È venerdì 19 giugno.

Il giorno dopo, sabato 20, Giuseppe Ayala, amico di Falcone, pubblico ministero al maxi processo e da qualche mese parlamentare eletto fra le fila dei repubblicani, rivela: «Falcone aveva un diario dove scriveva tutto». 

È caccia al diario. Chi ce l’ha? È nelle mani degli inquirenti? È sparito? A Roma intanto viene nominato il presidente del Consiglio, è il socialista Giuliano Amato, sarà lui a guidare un governo in mezzo fra la Prima e la Seconda Repubblica dopo il terremoto di Tangentopoli e il cratere di Capaci. Il 24 giugno Paolo Borsellino entra al mattino presto in procura ed esce di sera. Il 24 giugno Il Sole 24 ore, a firma Liana Milella, pubblica alcuni stralci dei diari di Falcone. 

Sui contrasti il procuratore capo Pietro Giammanco, sull’emarginazione subita dai suoi colleghi, sulla lentezza delle indagini sui cosiddetti “delitti politici”. Si eseguono perizie sui computer di Falcone: alcuni file sono stati cancellati, altri «consultati da ignoti». Dalle carceri si diffonde un tam tam: «Borsellino è morto». 

Sempre più sospettoso e sempre più isolato, il magistrato chiede di parlare, «ma fuori dalla procura» con il colonnello Mario Mori e con il capitano Giuseppe De Donno del Ros dei carabinieri. L’appuntamento è alle 15.30 del 25 giugno alla caserma Carini, la postazione dell’Arma dietro il teatro Politeama. Cosa si dicono? Per quale ragione Borsellino vuole un incontro clandestino con i due ufficiali?

Secondo le successive testimonianze di Mori e di De Donno per parlare dell’inchiesta “Mafia e appalti”, una contestatissima indagine che aveva provocato una divisione fra il Ros e la procura di Palermo, inchiesta sottovalutata se non addirittura insabbiata per i due ufficiali, inchiesta ancora tutta da sviluppare per i magistrati.

Il 25 giugno 1992 Mori e De Donno non riferiscono a Borsellino che, qualche giorno prima, avevano avuto un faccia a faccia con l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. I due ufficiali, attraverso Ciancimino, volevano catturare Totò Riina, il capo dei capi di Cosa nostra all’epoca latitante da 24 anni. 

In realtà nessuno sa nulla di cosa sia veramente accaduto nel primo pomeriggio del 25 giugno in una stanza della caserma Carini: le versioni sono troppo contrastanti e traballanti. Per i magistrati palermitani quell’incontro sarà la “prova” dell’inizio della famosa trattativa fra stato e mafia, che sfocerà in un processo con una sfilza di condanne in primo grado e una sfilza di assoluzioni in appello per gli uomini delle istituzioni.

Il 25 giugno, di sera, succede anche altro. Alla biblioteca di Casa Professa, a Palermo, in un dibattito organizzato dalla rivista Micromega, c’è il sindaco Leoluca Orlando, ci sono l’avvocato Alfredo Galasso e Nando dalla Chiesa, arriva anche Borsellino. È il suo ultimo discorso pubblico. 

Dice: «In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone e avendo vissuto a lungo la mia esperienza accanto a Giovanni Falcone e avendo raccolto comunque come amico tante sue confidenze, prima di parlarne qui devo riferirle all’autorità giudiziaria». È passato più di un mese da Capaci, Borsellino manifesta la sua ansia di raccontare ciò che sa. Ma i procuratori di Caltanissetta ancora non lo hanno chiamato. 

In famiglia Paolo Borsellino si sfoga. Confida alla moglie Agnese: «Ho capito tutto». Allude alla morte di Giovanni Falcone. E poi aggiunge: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri». 

Il 28 giugno è domenica e Paolo Borsellino e sua moglie sono a Fiumicino, aspettano l’aereo per Palermo. Con loro c’è Liliana Ferraro, che era la vice di Falcone agli Affari penali del ministero della Giustizia. A Fiumicino c’è anche il ministro della Difesa Andò, vede Borsellino, si avvicina. Gli chiede cosa ne pensa delle ultime minacce arrivate – un’altra informativa del Ros – contro lo stesso Andò, contro Borsellino, contro il sostituto procuratore Antonio Di Pietro.

Borsellino è furioso: nessuno l’ha avvertito. L’informativa è finita sulla scrivania del suo capo Pietro Giammanco ma il suo capo non l’ha avvisato. Lunedì 29 giugno di primo mattino Borsellino entra nella stanza di Giammanco e urla, sbatte i pugni sulla sua scrivania. 

Il procuratore capo fa il vago, dice che la competenza per quelle minacce è della procura di Caltanissetta, farfuglia qualcosa. Paolo Borsellino si sente in trappola. «Lo arrestano, vedrete che prima o poi l’arrestano», ripete ossessivamente fra le mura di casa come ricorda la figlia Lucia a Piero Melati nel libro Paolo Borsellino per amore di verità scritto per Sperling & Kupfer e appena uscito. Parlava di Pietro Giammanco?

Luglio. Il primo giorno del mese c’è il nuovo governo, al posto di Vincenzo Scotti all’Interno arriva Nicola Mancino. Borsellino è a Roma. C’è un nuovo pentito da ascoltare, è Gaspare Mutolo, l’ex autista di Riina. Alla fine del 1991 Mutolo aveva chiesto di parlare Falcone. 

Ma Falcone, direttore degli Affari penali è fuori ruolo, non può interrogarlo. Così Mutolo dice: «Mi fido solo di Borsellino». La richiesta di Mutolo è sempre sul tavolo del procuratore capo Giammaco che, ancora una volta, non avverte Borsellino e delega altri magistrati per l’interrogatorio del pentito. Borsellino lo viene a sapere qualche giorno dopo. È un altro scontro con il suo capo, Giammanco alla fine cede e consente che Mutolo parli anche con Borsellino.

L’interrogatorio si apre alle 15 nella sede romana della Dia, la direzione investigativa antimafia. Con Borsellino e il procuratore aggiunto Aliquò ci sono il colonnello dei carabinieri Domenico Di Petrillo e il vicequestore Francesco Gratteri.

Il pentito ha già anticipato che farà rivelazioni su due personaggi famosi a Palermo, il primo è Domenico Signorino, uno dei due pubblici ministeri al maxi processo, il secondo è Bruno Contrada, il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. Mentre Mutolo svela i misteri di Palermo, Borsellino riceve una telefonata dal Viminale. 

Interrompe l’interrogatorio e, con Aliquò, va verso il centro di Roma dove si è appena insediato il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Lì, al Viminale - e questa è la versione di Mutolo - avrebbe incontrato “casualmente” il capo della polizia Vincenzo Parisi con accanto proprio Bruno Contrada, uno dei nomi appena fatti dal pentito. Un avvertimento? Mancino non ricorda di avere mai incontrato Borsellino quel giorno.

L’aria di Palermo si fa sempre più velenosa. Il 2 luglio un anonimo molto informato spedisce otto cartelle a 39 indirizzi, vertici dello stato, uomini politici e giornalisti. Si riferisce di summit fra ministri e latitanti, di un pentimento di massa dei mafiosi, di quello che avverrà nei prossimi mesi in Sicilia e in Italia. 

Ci sono notizie vere mischiate a notizie false: è un’operazione di intossicazione. Il giorno dopo la Falange armata rivendica l’anonimo: «Se questo deludente risultato hanno sortito quelle otto cartelle, allora vuol dire che ulteriori segnali forti, chiari, devastanti necessariamente si impongono». 

Sabato 4 luglio Paolo Borsellino va a Marsala per l’ultimo saluto ai giovani sostituti che hanno lavorato al suo fianco, martedì 7 luglio il premier Giuliano Amato dice che «l’assassinio di Falcone è avvenuto a Palermo ma probabilmente deciso altrove perché la criminalità è un fenomeno internazionale con più teste in più paesi», lunedì 13 luglio a Palermo arriva il tritolo per uccidere Paolo Borsellino.

Lui ascolta ancora il pentito Mutolo, torna a Palermo e mette in cassaforte i verbali. Poi passa in procura – è il 17 luglio – e saluta uno per uno una mezza dozzina di giovani sostituti. Il giorno dopo, il 18 luglio, bacia il portiere del suo palazzo. Non l’aveva mai fatto. 

La mattina di domenica 19 luglio si sveglia presto. Una telefonata con la figlia Fiammetta che è in vacanza in Thailandia, il pranzo a Marina Longa nel villino del suo amico Pippo Tricoli, poi si congeda da suo figlio Mandredi e da Angese: «Vado a prendere mia madre, devo portarla dal dottore».

La guerra ai giudici e ai poliziotti dell’Antimafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 luglio 2022.

ll giudice Falcone annuncia le sue dimissioni dal pool e poi – convinto dalle pressioni degli amici – le ritira. Gli altri magistrati dell’ufficio istruzione confermano la denuncia di Borsellino «sulla fine della lotta alla mafia». Sotto accusa, però, torna il pool antimafia. E l’imputato principale ancora una volta è lui: Paolo Borsellino.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attento di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Il primo «caso Palermo». Ce ne saranno molti altri negli anni a venire.

I magistrati vengono convocati a Roma, a Palazzo dei Marescialli, per tutto il mese di agosto. Il Tribunale è spaccato.

Il Csm vuole censurare il procuratore Borsellino «perché si è rivolto alla stampa e non nelle sedi istituzionali».

Vogliono la testa di Paolo Borsellino.

Il Consiglio Superiore della Magistratura non può prendersela con se stesso per la scelta di qualche mese prima – la vergognosa esclusione di Falcone a capo dell’ufficio istruzione e la nomina di Antonino Meli – e cerca a tutti i costi un colpevole per la polemica che sta scuotendo l’Italia.

Il giudice Falcone annuncia le sue dimissioni dal pool e poi – convinto dalle pressioni degli amici – le ritira. Gli altri magistrati dell’ufficio istruzione confermano la denuncia di Borsellino «sulla fine della lotta alla mafia». Il consigliere Meli vuole querelarlo per diffamazione. Straparla anche di Falcone. Getta sospetti.

È la realtà che viene capovolta. Sotto accusa torna il pool antimafia. E l’imputato principale ancora una volta è lui: Paolo Borsellino.

Lo ascoltano al Consiglio Superiore della Magistratura. Dice: «Ho riferito solo mie convinzioni mentre si discuteva dello stato delle indagini antimafia. O parliamo per enigmi e per allusioni e parliamo di “una caduta di tensione” e la gente poi non capisce bene che cosa significa, oppure, se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente, dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire che c’è un organismo centrale delle indagini antimafia che in questo momento non funziona più».

Paolo Borsellino ripete il suo atto di accusa a Palazzo dei Marescialli.

Il Guardasigilli Giuliano Vassalli annuncia alla commissione giustizia del Senato: «Io non punirò Borsellino». E invia un ispettore ministeriale in Sicilia, Vincenzo Rovello, un magistrato di grande esperienza e di straordinaria umanità che qualche anno dopo sarà nominato procuratore generale a Palermo.

In una relazione di 54 pagine, l’ispettore Rovello ricostruisce ciò che è avvenuto nel Palazzo di giustizia di Palermo negli ultimi mesi. Conferma al ministro la denuncia lanciata da Borsellino: il consigliere istruttore Antonino Meli ha distrutto il pool antimafia.

Il Consiglio Superiore della Magistratura fa finta di niente. Alla fine di una lunghissima seduta notturna, decide di non «punire» il procuratore capo di Marsala per la sua intervista. Certifica che Paolo Borsellino «ha sbagliato», ma «in buona

fede». È il 14 settembre del 1988. Borsellino se ne torna a Marsala. Falcone resta al suo posto all’ufficio istruzione. Sempre più solo e sempre più disarmato.

Ricominciano gli attacchi a mezzo stampa. Questa volta è il Giornale di Indro Montanelli che va alla carica contro Giovanni Falcone e il pool. Dietro, ci sono i soliti «suggeritori» del Palazzo di giustizia di Palermo. Quelli che odiano Giovanni Falcone sono sempre più numerosi. Sono giorni molto difficili per Palermo. Il sindaco Orlando parla di una mafia che «ha il volto delle Istituzioni».

Alla squadra mobile di Palermo vengono rimossi tutti i capi. Cambia anche l’Alto Commissario Antimafia. Il prefetto Pietro Verga viene sostituito da Domenico Sica. I poliziotti che quell’estate si schierano al fianco di Paolo Borsellino e dei giudici del pool di Palermo, vengono tutti trasferiti. Qualcuno nei commissariati della città. Uno nel luogo più distante da Palermo, dall’altra parte dell’Italia.

È Francesco Accordino, capo della sezione omicidi della squadra mobile, uno dei migliori investigatori siciliani. Prima lo «comandano» a Bressanone, in provincia di Bolzano. Poi lo nominano capo della polizia postale di Reggio Calabria.

Dalle indagini sui boss al furto delle raccomandate. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Le indagini di Borsellino su mafia e politica nella Sicilia più ambigua. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI Il Domani il 18 luglio 2022

Il pentito Rosario Spatola fa a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia. Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino. È uno degli uomini più potenti della Sicilia, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. E Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

E, in Sicilia, ricominciano anche a uccidere i magistrati.

Ce n’è uno che ha appena condannato i tre killer del capitano dei carabinieri Emanuele Basile. Ma Totò Riina condanna a morte lui.

È il 25 settembre del 1988 e il presidente della Corte di Appello Antonino Saetta è ucciso insieme al figlio Stefano.

Le motivazioni della sentenza con la quale Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia vengono ritenuti colpevoli dell’omicidio sono depositate in cancelleria intorno a mezzogiorno del 16 settembre 1988. Un’ora dopo, a Palermo, rubano l’auto che servirà per l’agguato al giudice.

È finito dopo quattordici anni e dodici dibattimenti. Cancellato a più riprese dalla Cassazione, si è lasciato alle spalle una scia

di morti. Il processo Basile pesa un quintale di carte nel 1994, quando l’ultimo imputato minore – un favoreggiamento – è sballottato fra una Corte e l’altra indecise su chi lo deve giudicare.

Iniziato nel 1981, sospeso per una perizia e rinviato alla primavera del 1983, i sicari del capitano ucciso ricevono la prima grazia dai giudici di Palermo. Condannati in Appello all’ergastolo il 24 ottobre del 1984, il processo viene annullato per un cavillo da Corrado Carnevale il 23 febbraio 1987 e rimandato a un’altra Corte di Assise di Appello. Passa un altro anno.

È il 23 giugno quando 1988 i tre sicari vengono condannati ancora all’ergastolo. La sentenza definitiva arriva solo nel febbraio del 1992. Ma ormai due dei tre sicari del capitano sono morti. Uno, Armando Bonanno, lo fanno sparire. Un altro, Vincenzo Puccio, viene assassinato nella cella dell’Ucciardone dove è stato rinchiuso qualche mese prima.

Rimane vivo solo Giuseppe Madonia.

L’INCHIESTA SU “CALIDDU”

Il procuratore Borsellino è ormai da tre anni a Marsala. Ha cominciato a indagare sulla mafia della provincia con il «metodo» sperimentato al pool dell’ufficio istruzione, paese dopo paese, famiglia dopo famiglia. Prima Partanna, poi Castelvetrano. Adesso tocca a Campobello di Mazara.

Una mattina, il maresciallo Carmelo Canale entra nella sua stanza e gli comunica che un grosso trafficante di droga vuole

«parlare», collaborare con la giustizia. Si chiama Rosario Spatola, è solo un omonimo dello Spatola dell’Uditore sul quale ha indagato Giovanni Falcone nei primi Anni Ottanta.

Rosario Spatola è originario di Campobello di Mazara e non ha conti con la giustizia da regolare. Ha qualcosa di più importante da difendere: la vita. I suoi vecchi amici sospettano che abbia fatto sparire un carico di cocaina, lo cercano per ucciderlo. Comincia a svelare particolari dell’omicidio di un sindaco a Castelvetrano, degli interessi economici dei Madonia di Palermo nel trapanese, del delitto di un siriano a Milano. Paolo Borsellino lo studia, capisce che sta dicendo la verità.

Ha grande esperienza il procuratore. Ma Spatola è un tipo stravagante, non sembra il classico mafioso, veste vistoso, è chiacchierone, molto esuberante. Con lui, il procuratore di Marsala stabilisce un rapporto ravvicinato ma sempre dentro le regole. Appena si accorge che Spatola fa le bizze, ne approfitta, Borsellino lo fa rinchiudere in un carcere. Quando esce, un mese dopo, il pentito elenca a Borsellino alcuni nomi di uomini politici invischiati in faccende di mafia.

Soprattutto gliene fa uno: Calogero Mannino.

È uno degli uomini più potenti della Sicilia. Enfant prodige della Democrazia Cristiana agrigentina, in quel 1989 Mannino è la stella del partito nell’isola. Dicono che, forse, è ancora più potente di Salvo Lima. È il padrone dei voti, nella Sicilia occidentale e in quella orientale. È uno degli uomini voluti dal segretario nazionale della Dc Ciriaco De Mita per portare avanti il «rinnovamento» al Sud, è ministro della Repubblica, uno che conta molto anche a Roma. Il pentito Spatola racconta a Borsellino che i mafiosi lo chiamano confidenzialmente Caliddu. Nella suggestione di questo nomignolo, Caliddu, qualcuno imbastisce un’operazione per «azzoppare» o avvertire – non si è mai capito – l’interessato, il ministro Mannino.

La notizia del coinvolgimento di Calogero Mannino in un’inchiesta di mafia finisce sulle prime pagine dei giornali a tempo di record.

Non è l’indagine del procuratore Borsellino, è una parallela aperta a sua insaputa da un magistrato di Trapani che ascolta Rosario Spatola senza informarne lui, titolare del caso, il procuratore di Marsala. Con nomi e cognomi gettati in pasto all’opinione pubblica ancor prima di far partire una verifica o un riscontro.

Paolo Borsellino sospetta una trappola. Frena, procede con prudenza, prova a districarsi da una polemica dove altri lo vogliono trascinare a ogni costo. Una cautela – altra lezione appresa negli anni del pool a Palermo – che però in questo caso rischia di travolgerlo. Qualcuno insinua perfino che intenda «insabbiare» l’inchiesta su Calogero Mannino e gli altri personaggi politici. Fanno girare la falsa voce che per lui «è pronto un seggio al Senato» nelle liste socialiste. Prima gli «bruciano» l’inchiesta e poi tentano di sputtanarlo. Come uno che si è venduto al potere.

Non perde la calma. Fa la sua indagine. Anni dopo sarà ripescata anche dalla procura palermitana di Gian Carlo Caselli che mette sotto accusa il ministro per concorso esterno in associazione mafiosa. Assolto in primo grado, condannato in Appello, Calogero Mannino sarà definitivamente scagionato dalla Cassazione. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

E la “picciridda” Rita Atria consegna la sua vita al procuratore. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 19 luglio 2022.

Rita è una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera Aiello spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta. Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Con Rosario Spatola, c’è qualcun altro che decide di vuotare il sacco. È Giacoma Filippello, la donna di Natale L’Ala, il boss di Campobello. Lo vede morire e consuma la sua vendetta raccontando tutto quello che sa a Paolo Borsellino.

Un anno dopo, sono due donne che si presentano al procuratore capo della repubblica di Marsala. Sono cognate. Piera Aiello e Rita Atria. Sono tutte e due di Partanna, in fondo alla provincia di Trapani. Piera è la moglie di Nicola Atria, un mafioso ucciso dai boss rivali. Anche il padre di Nicola – Vito – è morto ammazzato tanto tempo prima. Rita è figlia di una vittima e sorella dell’altra.

È una ragazzina di diciassette anni. Lei e Piera spezzano il vincolo di omertà della famiglia. Paolo Borsellino le ascolta.

Rita è fragilissima, per raccontare il mondo mafioso ha dovuto abbandonare tutto. Famiglia, amici, fidanzato. Vengono allontanate dal loro paese, Borsellino sente ogni giorno Rita, appena può la va trovare.

Una settimana dopo il 19 luglio 1992 Rita Atria, una «picciridda» che aveva creduto nello Stato, decide che non ha più senso vivere. Si lancia dal settimo piano di un palazzo di Roma, sulla Tuscolana, dove è nascosta.

Si pente con Paolo Borsellino anche Vincenzo Calcara, uomo d’onore della famiglia di Castelvetrano. Il procuratore lo incontra nel carcere di Favignana. Il mafioso lo abbraccia e gli dice: «Mi avevano incaricato di ucciderla. Con un fucile di precisione». Se non avesse trovato lui, Calcara aveva l’ordine di far fuori uno dei suoi «ragazzi» di Marsala, uno dei giovani sostituti al suo fianco.

Paolo Borsellino chiama il ministero e fa assegnare la scorta a tutti. Vuole dare subito la sua blindata ad Antonio Ingroia, quello che si muove più per le indagini, che si sposta, viaggia. Ingroia è il più esposto. Anche Marsala adesso è come Palermo. Un fortino assediato.

«Mi piacerebbe conoscere Borsellino», mi dice Giorgio Bocca. Dopo qualche giorno è in Sicilia. Alloggia in una bella stanza sul mare di Villa Igiea, un pomeriggio un taxi lo porta in pochi minuti a casa del procuratore. Stanno insieme per quattro ore. Bocca ne rimane incantato. Mi racconta tutto a cena. Entriamo in un ristorante di Mondello e mentre ci avviciniamo al tavolo, qualcuno mi ferma. Ufficialmente lo spione è in polizia, ma tutti in città sanno che lavora per i «servizi».

Saluta e lancia il suo avvertimento: «Ne avevano cose da dirsi oggi il giudice Borsellino e il dottor Bocca eh…». Sapeva già dell’incontro. Tenevano d’occhio lui o il procuratore. O tutti e due insieme. Glielo racconto. Lo ricorderà anche nel libro che sta scrivendo, L’Inferno, che uscirà un anno dopo. Come scriverà anche quello che mi dice quella sera a cena, fra un polpo bollito e i ricci di mare.

«Paolo Borsellino è uno che non parla l’italiano del potere ma dei provinciali che l’hanno studiato come una lingua straniera e ne hanno fatto qualcosa di essenziale, di scarno, con pochi aggettivi e nessuno eclatante, un italiano che va dritto al cuore delle cose con evidente fastidio per i ghirigori e i salamelecchi»

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Giovanni Falcone e l’idea della “Superprocura” antimafia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 20 luglio 2022

Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia. Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation. Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico.

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È il gennaio del 1991. Sono settimane di grande fermento. Il suo amico Falcone sta per lasciare la Sicilia e trasferirsi a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia.

Giovanni Falcone lancia l’idea di una Superprocura, un organismo di coordinamento di tutti i pubblici ministeri antimafia.

Pensa anche alla Dia, la Direzione Investigativa Antimafia, una polizia sul modello americano del Federal Bureau of Investigation.

Paolo Borsellino, per la prima volta dopo tanti anni, non è d’accordo con il suo vecchio amico. La Superprocura gli sembra un organismo «pericoloso», troppo potere concentrato in una sola struttura per indagini da sviluppare non solo in Sicilia ma in tutta Italia e nel mondo. Borsellino ha molti dubbi. Ne parla privatamente con Giovanni Falcone. Discutono per settimane.

Falcone non riesce a convincere nessuno. Neanche Paolo. Quando il dibattito sulla Superprocura diventa pubblico 63 magistrati italiani firmano un documento contro il decreto Martelli che istituisce la Procura nazionale antimafia. Ci sono i nomi degli amici di una vita e di quasi tutti i colleghi che stimano Falcone, che l’hanno sempre sostenuto.

Firmano Armando Spataro e Mario Almerighi, Gian Carlo Caselli e Roberto Scarpinato, Gerardo D’Ambrosio e Giuliano Turone. Firma anche Paolo Borsellino.

La Superprocura passa. E negli uffici giudiziari sedi di Corte di Appello vengono istituite le procure «distrettuali», le sole che d’ora in poi saranno titolate a condurre inchieste antimafia. Procure come quelle di Marsala non potranno più indagare sui boss ma trasferire gli atti a Palermo.

«Che ci faccio io qui?», si sfoga Borsellino con i giudici del pool di Palermo.

Si muove tutto velocemente fra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Nei piani del ministro della Giustizia Claudio Martelli, il giudice Falcone è destinato alla Superprocura. Se Borsellino torna a Palermo potrebbe diventare il suo punto di riferimento per la mafia siciliana.

E Borsellino torna a Palermo, in procura c’è il capo nemico di Falcone. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 21 luglio 2022

Paolo Borsellino decide di presentare domanda per procuratore aggiunto a Palermo. Il capo è sempre Pietro Giammanco, quello che nei mesi precedenti ha ostacolato in tutti i modi Giovanni Falcone.

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Paolo Borsellino decide di presentare domanda per procuratore aggiunto a Palermo. Il capo è sempre Pietro Giammanco, quello che nei mesi precedenti ha ostacolato in tutti i modi Giovanni Falcone.

«Andare a Palermo e non occuparmi di mafia? Farmi bloccare da Giammanco come è accaduto a Giovanni?», riflette Borsellino nel timore di scivolare anche lui in una trappola.

Alla fine decide. Presenta domanda per procuratore aggiunto.

Chiama Piero Giammanco e glielo annuncia. Il procuratore capo gli assicura che, quando arriverà a Palermo, sarà lui il magistrato ad indagare sulla mafia di Trapani e di Agrigento.

Con lui si trasferisce a Palermo Antonio Ingroia. Vogliono seguirlo anche Alessandra Camassa e Giuseppe Salvo, altri due dei suoi sostituti di Marsala. E pure il maresciallo Carmelo Canale.

Con qualche telefonata – una al Ros, l’altra al Comando generale dell’Arma – Canale viene «aggregato» al

Raggruppamento operativo speciale e sbarca a Palermo.

È un uomo soffocato dal dolore. La figlia Antonella, una ragazzina, ha un tumore. Paolo Borsellino gli starà vicino come un fratello sino alla fine. Qualche anno dopo il maresciallo sarà sospettato di rapporti troppo ravvicinati con i boss. Processato e assolto.

Paolo Borsellino arriva a Palermo ed entra in una procura che è immobile.

Trova quello che ha appena lasciato Giovanni Falcone.

Paolo Borsellino si «prende» le deleghe per la mafia di Trapani e Agrigento. La città di Palermo è invece affare del procuratore capo Piero Giammanco. Ci pensa lui a proteggere i suoi amici. «Per cominciare a indagare su Palermo è solo questione di tempo, bisogna avere pazienza», confida lui. Ma tempo non ce n’è più. Il 12 marzo del 1992 uccidono Salvo Lima.

La storia della Sicilia cambia per sempre.

L’omicidio del potente uomo politico rivela violentemente la rottura di antichi patti. Annuncia scenari tragici.

«Non finirà con Lima», confessa Giovanni Falcone a Paolo Borsellino barricato nella sua stanza al secondo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Allarme ai piani alti. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, a Roma tremano. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 22 luglio 2022

Il capo della Polizia Vincenzo Parisi teme stragi. Fra i personaggi a rischio vengono indicati il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i ministri siciliani Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvò Andò, il ministro della Giustizia Claudio Martelli.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Sono passati appena quattro giorni dalla morte di Salvo Lima e un nuovo inquietante messaggio scuote i Palazzi. Questa volta arriva dagli uffici del Viminale.

È un telegramma inviato dal capo della Polizia, Vincenzo Parisi, a prefetti e questori, comandanti dei Carabinieri e della Guardia di Finanza per segnalare il rischio di una campagna terroristica in grande stile che punterebbe all’eliminazione di politici di primo piano dei maggiori partiti.

L’allarme, che fa riferimento a documenti e telefonate anonime, parla di “eventi omicidiari” e “strategie destabilizzanti che in breve tempo potrebbero insanguinare il Paese”.

Il capo della Polizia teme stragi. Fra i personaggi a rischio vengono indicati il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, i ministri siciliani Calogero Mannino, Carlo Vizzini e Salvò Andò, il ministro della Giustizia Claudio Martelli.

Ma il suo avvertimento cade nel vuoto.

«È lo scherzo di un pataccaro», si precipita a dichiarare il capo del governo Andreotti. Anche il presidente della Repubblica Cossiga ridimensiona il pericolo.

Alcuni degli uomini politici nel mirino della mafia siciliana però hanno paura. Vogliono salvarsi la pelle. E, dopo l’omicidio di Salvo Lima, sanno bene che potrebbe toccare a loro.

Così incaricano uomini di fiducia dei servizi segreti e dei reparti investigativi di agganciare i boss per fermare i sicari.

È il principio di quella che – si scoprirà solo molti anni dopo – diventerà la prima trattativa fra Stato e mafia. Un patto che non cerca la mafia ma che vuole lo Stato.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Sicilia insanguinata, l’agguato al maresciallo Giuliano Guazzelli. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 23 luglio 2022

Il 4 aprile cade in un agguato Giuliano Guazzelli, un carabiniere che conosce tutta la mafia dell’agrigentino e che da mesi lavora con Paolo Borsellino nelle indagini sulle famiglie di Porto Empedocle, Ribera, Canicattì, Palma di Montechiaro.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

In Sicilia, intanto, si continua a uccidere.

Il 4 aprile cade in un agguato Giuliano Guazzelli, un carabiniere che conosce tutta la mafia dell’agrigentino e che da mesi lavora con Paolo Borsellino nelle indagini sulle famiglie di Porto Empedocle, Ribera, Canicattì, Palma di Montechiaro.

Sono sotto il viadotto Morandi, un ponte che sembra sospeso nell’aria. Da una parte ci sono i palazzi di Agrigento costruiti sull’argilla, in bilico sul tempio della Concordia. Giù c’è il cadavere di Guazzelli.

Non è un maresciallo qualunque, è un’«antenna» dell’Arma sul territorio.

La mattina dopo sfoglio i quotidiani locali. Le prime pagine sono dedicate all’omicidio del carabiniere.

Più indietro, nelle cronache cittadine, c’è un articolo su un altro delitto del giorno prima. Alla stessa ora del maresciallo Guazzelli.

Gli occhi mi cadono su una foto. Conosco quella faccia. Leggo il titolo: «Assassinato boss di Pietraperzia».

È Liborio Micciché. In classe lo chiamavamo «Borino». Era mio compagno di banco al primo anno di liceo scientifico, sezione «D», all’“Alessandro Volta” di Caltanissetta, quando la scuola stava ancora in un vecchio convento nella discesa della pescheria di San Francesco.

A fine anno, «Borino» lasciò il liceo. Non l’ho più visto. Però sapevo cos’era diventato. Non immaginavo fino a che punto.

L’ho scoperto molti anni dopo.

Un pentito ha raccontato che, a fine febbraio del 1992, aveva visto Liborio Micciché a Pietraperzia mentre aspettava Totò Riina, Bernardo Provenzano, Nitto Santapaola. La Cupola.

Erano tutti attesi in un casolare «a forma di ferro di cavallo» sulla strada che porta a Barrafranca per decidere – così ha detto il pentito – gli agguati contro Salvo Lima e Giovanni Falcone.

La mafia siciliana stava preparando i suoi piani. Poi cambierà programma per Falcone. Sceglieranno Capaci, useranno l’esplosivo.

Ho ripensato molte volte a «Borino» Micciché. In Sicilia capita spesso di trovarsi vicino a persone con un diverso destino

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Il cratere di Capaci e l’amico Giovanni Falcone che non c’è più. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 24 luglio 2022

Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 Paolo Borsellino è dal barbiere. Arriva la chiamata. È paralizzato. Corre a casa. Telefona. Non riesce a parlare. Poi esplode in un grido disperato: «Giovanni, Giovanni è ferito… Capaci… un attentato». Poi se ne va anche Giovanni Falcone. «Mi è morto fra le braccia», dice fra le lacrime Paolo Borsellino alla figlia Lucia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Il pomeriggio del 23 maggio del 1992 Paolo Borsellino è dal barbiere. Arriva la chiamata. È paralizzato. Corre a casa.

Telefona. Non riesce a parlare. Poi esplode in un grido disperato: «Giovanni, Giovanni è ferito… Capaci… un attentato».

S’infila nell’utilitaria della figlia Fiammetta e attraversa Palermo. Fino all’ospedale civico.

Francesca Morvillo si è appena spenta. Poi se ne va anche Giovanni Falcone.

«Mi è morto fra le braccia», dice fra le lacrime Paolo Borsellino alla figlia Lucia.

Il nuovo presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è a Palermo il 26 maggio. Al Quirinale è entrato da meno di ventiquattro ore. «La strage di Capaci ha avuto un effetto stabilizzante», dicono in Sicilia. Dopo sedici votazioni a vuoto e una bomba l’Italia ha un nuovo Capo dello Stato. Il presidente della Repubblica è a Villa Whitaker con il prefetto Mario Iovine.

La Falange Armata rivendica l’attentato. Nessuno sa niente di quest’organizzazione. C’è puzza di spie.

Il Consiglio superiore della Magistratura nomina Giovanni Tinebra procuratore della repubblica di Caltanissetta, l’ufficio giudiziario che per competenza dovrà indagare sull’uccisione di Giovanni Falcone.

Paolo Borsellino è nella sua stanza in procura, si tormenta. Ripensa agli ultimi giorni, agli ultimi incontri con Giovanni Falcone, alle ultime confidenze ricevute.

È sera quando decide di uscire allo scoperto.

Lo va a trovare Giuseppe D’Avanzo. Rilascia un’intervista che spiega molte cose.

Purtroppo la Procura di Palermo non è titolare delle indagini. Dico “purtroppo" perché, se avessi avuto io la possibilità di seguire questa indagine, avrei trovato un lenimento al mio dolore. Quando si è verificato il primo omicidio che mi ha coinvolto emotivamente – l’omicidio del capitano Emanuele Basile – sono riuscito, facendo il mio dovere di magistrato, a superare la paura enorme e a spezzare il blocco emotivo. Per indagare sulla morte di Giovanni ho sollecitato la mia ‘applicazione’ a Caltanissetta, ma mi hanno ricordato che in quella città non c’è la funzione di procuratore aggiunto. In ogni caso andrò a Caltanissetta. Ci andrò come testimone. Per raccontare piccole cose che possono aiutare l’inchiesta. Riferirò fatti, episodi e circostanze. Racconterò gli ultimi colloqui avuti con Giovanni.

Io sono riuscito finora soltanto a fare un ragionamento essenziale in merito a tre questioni. Perché hanno ucciso Giovanni; perché lo hanno ucciso ora; perché lo hanno ucciso a Palermo. Va osservato che c’è una coincidenza tra l’omicidio e una notizia che io avevo appreso qualche giorno fa: Giovanni Falcone aveva ormai nel Csm la maggioranza per essere nominato procuratore nazionale antimafia. Avevo detto a Giovanni che queste condizioni ormai c’erano. Dell’esistenza di questa maggioranza avevo saputo, durante un convegno a Napoli la domenica prima dell’attentato, da alcuni membri del Consiglio. Nonostante la fortissima opposizione della magistratura alla sua candidatura, dunque, Giovanni ce l’aveva fatta. Era una sensazione che si era diffusa in questo palazzo. Voglio dire che non so se la notizia che Falcone sarebbe stato il nuovo procuratore antimafia era conosciuta fuori.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Una corsa contro il tempo, Paolo Borsellino sempre più isolato. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 25 luglio 2022

Paolo Borsellino capisce che nemmeno la strage di Capaci è servita a qualcosa. Da alcuni giorni è sempre impegnato a riempire i fogli di un’agenda. È di colore rosso, con lo stemma dell’Arma dei carabinieri in copertina. Lì dentro, probabilmente, ci sono tutti i segreti della morte di Giovanni Falcone. E anche altro. Borsellino annota tutto. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Il giorno dopo Paolo Borsellino chiama il nuovo procuratore di Caltanissetta. Gli fa sapere che è pronto ad affiancarlo, a collaborare subito per raccontargli tutto quello che ha saputo dal suo amico Falcone.

Gli dice anche che ha informato il Csm della sua disponibilità per un trasferimento a Caltanissetta: vuole buttarsi a capofitto, con un ruolo istituzionalmente riconosciuto, nell’inchiesta su Capaci. Anche nel dolore è pronto ad andare avanti. Indagare per rendere giustizia a Giovanni Falcone.

Passano pochi giorni e qualcuno dal Consiglio Superiore della Magistratura – presidente è Giovanni Galloni – comunica «amichevolmente» a Paolo Borsellino «l’inopportunità di una sua partecipazione alle indagini per il suo coinvolgimento emotivo». Il procuratore resta di sasso. Non ne parla con nessuno.

A Caltanissetta vengono inviati intanto alcuni sostituti procuratori da Catania e Messina, magistrati che non conoscono quasi niente di Cosa Nostra.

Borsellino è avvilito. E mette in fila cattivi pensieri: il Consiglio superiore che non lo vuole trasferire a Caltanissetta è lo stesso che, qualche settimana prima, si è violentemente opposto alla nomina di Falcone al vertice della Superprocura.

Paolo Borsellino capisce che nemmeno la strage di Capaci è servita a qualcosa.

Da alcuni giorni è sempre impegnato a riempire i fogli di un’agenda.

È di colore rosso, con lo stemma dell’Arma dei carabinieri in copertina. Lì dentro, probabilmente, ci sono tutti i segreti della morte di Giovanni Falcone. E anche altro.

Borsellino annota tutto. Incontri. Telefonate. Ordini che riceve dal suo capo Giammanco. Segna data e ora di ogni appuntamento con ufficiali dei carabinieri e funzionari del ministero dell’Interno, con giornalisti e avvocati. Meticoloso, riporta ogni particolare. Vorrebbe urlare al mondo quello che sa, ma aspetta.

Aspetta che i magistrati di Caltanissetta lo convochino per ascoltarlo. Un interrogatorio formale, vero, e non quelle due battute al volo scambiate nei corridoi. Aspetta una settimana. Aspetta due settimane. Aspetta inutilmente. Nessun magistrato di Caltanissetta si fa vivo.

Il testimone chiave della strage di Capaci, l’uomo più vicino a Falcone negli ultimi dieci anni, il depositario dei suoi segreti, il suo erede non sarà mai interrogato dai magistrati titolari delle indagini su Capaci.

Perché? 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

L’ultimo discorso pubblico a Palermo è il suo testamento. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 26 luglio 2022

La sera del 25 giugno Paolo Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta. È un dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» nella biblioteca comunale di Casa Professa. L’atrio è stracolmo. Paolo Borsellino arriva con qualche minuto di ritardo. Non ha niente di scritto. Parla con il cuore e a braccio

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Così Paolo Borsellino va da solo incontro alla morte. Da solo.

In un incontro pubblico a Roma il ministro degli Interni, Vincenzo Scotti, lo candida alla carica di Superprocuratore. Dice di parlare anche a nome del ministro della Giustizia Claudio Martelli. Paolo Borsellino è frastornato. Non gli hanno comunicato niente, prima. Lo sta sapendo solo ora, in diretta, alla presentazione di un libro. Borsellino pensa che Falcone sia stato ucciso anche perchè stava per diventare Superprocuratore. E, adesso, indicano lui per quell’incarico.

Comincia il mese di giugno. Comincia anche il conto alla rovescia. Gli agenti della scorta di Borsellino segnalano mancanza di protezione in via D’Amelio, dove il procuratore va a trovare l’anziana madre. «Non si possono lasciare parcheggiate tutte quelle auto nella strada: è troppo pericoloso», dicono i poliziotti.

Il questore Vito Plantone e il prefetto Mario Iovine non si muovono. Il 20 giugno il socialista Giuliano Amato è il nuovo capo del governo.

La mattina del 25 giugno il procuratore Paolo Borsellino viene a sapere che alcuni ufficiali dei reparti speciali dei carabinieri stanno incontrando l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. È un’altra trattativa fra pezzi dello Stato e i Corleonesi. Cercano Totò Riina e chiedono aiuto a don Vito. In cambio di che cosa?

Contro ogni patto da sempre, Paolo Borsellino è turbato. La sera del 25 giugno Paolo Borsellino parla in pubblico per l’ultima volta. È un dibattito organizzato dalla rivista «Micromega» nella biblioteca comunale di Casa Professa. L’atrio è stracolmo. Paolo Borsellino arriva con qualche minuto di ritardo. Non ha niente di scritto. Parla con il cuore e a braccio. Intorno a lui ci sono l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Nando dalla Chiesa, l’avvocato Alfredo Galasso e Tano Grasso, il leader dei commercianti di Capo d’Orlando che si sono ribellati al racket.

E una Palermo sfregiata dal dolore. Paolo Borsellino ricorda l’amico Falcone e «il giuda che si impegnò a prenderlo in giro», ricostruisce i due fatti che secondo lui hanno segnato il percorso tormentato di Giovanni Falcone: la scelta di avergli preferito il consigliere Meli e la polemica sui «Professionisti dell’Antimafia».

È il testamento di Paolo Borsellino. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

La “cantata” di Gaspare Mutolo sul super-poliziotto Bruno Contrada. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 27 luglio 2022

Quando esce dalla stanza del ministro, Borsellino incrocia il capo della polizia Vincenzo Parisi. Lui sa che Borsellino è a Roma per interrogare Mutolo. Alle spalle di Parisi c’è un uomo, Bruno Contrada, lo stesso funzionario indicato qualche ora prima dal pentito di Palermo come «colluso».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

In quei giorni Totò Riina sta stilando un «papello» da sottoporre allo Stato, una serie di richieste – l’abolizione del carcere duro, la modifica della legge sui pentiti, nuove norme sulla confisca dei beni – per fermare le stragi.

Borsellino non lo sa ancora. Ma altri uomini dello Stato stanno scendendo a patti.

In procura arriva una segnalazione su un possibile attentato contro di lui. Non gli dicono niente. Va ad ascoltare un nuovo pentito, Leonardo Messina. Decide di collaborare con la giustizia anche Gaspare Mutolo, il mafioso che nel dicembre precedente aveva chiesto di parlare con Giovanni Falcone.

«Mi pento ma mi fido solo di Borsellino», fa sapere questa volta Mutolo.

Il procuratore capo Piero Giammanco gli spedisce un altro magistrato. L’aspirante pentito fa scena muta. Borsellino, di ritorno dalla Germania per una rogatoria, va su tutte le furie.

Il 1 luglio è anche lui a Roma – con il procuratore aggiunto Vittorio Aliquò – per ascoltare Gaspare Mutolo.

Il mafioso annuncia subito a Borsellino che ha «delle cose importanti da dire» su «esponenti delle istituzioni che sono collusi». Si avvicina a Borsellino e gli bisbiglia un nome all’orecchio: «Il dottore Contrada…».

È il poliziotto più famoso di Palermo. Ex capo della squadra mobile della città ed ex capo della Criminalpol della Sicilia occidentale, Bruno Contrada in quel luglio del 1992 è il numero tre del Sisde, il servizio segreto civile. E ha anche un incarico operativo all’Alto Commissariato antimafia. Paolo Borsellino ascolta e comincia a verbalizzare. Gaspare Mutolo è un fiume in piena, ha una memoria di ferro, ricorda tutto. Va avanti per più di due ore e mezzo fino a quando, alle 17.40, sul cellulare del procuratore arriva una telefonata. È il Viminale. Un funzionario comunica a Borsellino che il nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino – nominato proprio quel 1 luglio – lo vuole incontrare.

Il magistrato chiude il verbale e dà appuntamento a Mutolo per le 19.

Un’auto blindata porta lui e Vittorio Aliquò a tutta velocità nel centro di Roma, al Viminale. Neanche venti minuti dopo entrano nella stanza di Mancino. Una brevissima chiacchierata, i soliti convenevoli per l’insediamento di un nuovo ministro. Mancino non ricorderà mai, in futuro, di avere incontrato quel giorno Paolo Borsellino. Nemmeno quando glielo chiederanno i procuratori: «Quel giorno ho visto tanta gente…», risponde. Quando esce dalla stanza del ministro, Borsellino incrocia il capo della polizia Vincenzo Parisi. Lui sa che Borsellino è a Roma per interrogare Mutolo. Alle spalle di Parisi c’è un uomo, Bruno Contrada, lo stesso funzionario indicato qualche ora prima dal pentito di Palermo come «colluso». Glielo aveva appena detto Mutolo: «Il dottore Contrada…». Paolo Borsellino torna dal pentito Mutolo. Quello ricomincia a parlare.

Dopo mezz’ora, quattro pagine di verbale sono piene del racconto di Gaspare Mutolo sul poliziotto più famoso della Sicilia. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

«Non sarà la mafia ad uccidermi», le ultime parole sussurrate alla moglie. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 28 luglio 2022

La mattina del 18 luglio prende per mano Agnese, percorrono da soli un viottolo e scendono fino al mare. Finalmente il magistrato parla. Dice ad Agnese: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi…».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Paolo Borsellino torna a Palermo. È carico di pensieri neri. E ha paura. La «cantata» di Mutolo è solo all’inizio. Ha tanti altri nomi da fare. Tutti importanti. Avvocati. Alti magistrati. Commercialisti. Uomini politici. Altri poliziotti. Medici. Notai. Imprenditori. Tutta la Palermo che conta, la Palermo più insospettabile. Di giorno Borsellino legge e rilegge i verbali del pentito e di notte – chiuso nel suo studio di casa, in via Cilea – riempie la sua agenda rossa.

E mentre lui entra in un gorgo di solitudine e di terrore per la sua famiglia che lascerà – è sicuro di morire Paolo Borsellino, ormai è certo che da un momento all’altro lo ammazzeranno – a Palermo accade qualcosa di definitivo.

È la mattina del 10 luglio. La signora Pietrina Valenti entra nella stazione dei carabinieri «Oreto» per denunciare il furto della sua Fiat 126 color amaranto, parcheggiata in una stradina della borgata della Guadagna. Non è un furto qualsiasi.

Quell’auto serve a qualcuno per imbottirla di esplosivo e fare una strage.

«È arrivato il tritolo per me», dice Paolo Borsellino ai pochi amici che gli sono rimasti in Procura.

Il 14 luglio c’è «Il Festino», è Santa Rosalia patrona di Palermo, la Santuzza quest’anno è tutta per Giovanni Falcone e Francesca Morvillo assassinati a Capaci.

È venerdì 17 luglio. Paolo Borsellino è ancora a Roma per interrogare Gaspare Mutolo. Di sera torna a Palermo, poi va a Villagrazia di Carini dove – in una casetta in riva al mare – Agnese e i suoi figli si sono trasferiti da alcuni giorni. Una notte agitatissima, di incubi. Paolo Borsellino è segnato. La mattina del 18 luglio prende per mano Agnese, percorrono da soli un viottolo e scendono fino al mare. Una passeggiata sulla spiaggia, senza la scorta. Non c’è nessuno. Camminano in silenzio per qualche minuto, le prime barche cariche di pesce stanno tornando a riva. Borsellino e sua moglie sono lì, incantati, a guardarle. Poi un altro lungo silenzio. E finalmente il magistrato parla. Dice ad Agnese: «Non sarà la mafia ad uccidermi ma saranno altri. E questo accadrà perché c’è qualcuno che lo permetterà. E fra quel qualcuno, ci sono anche miei colleghi…».

Agnese è senza fiato. Si copre il viso con le mani e scoppia in un pianto. Paolo Borsellino è venuto a sapere della trattativa fra Stato e mafia. Il giorno dopo, di pomeriggio, qualcuno vede uscire il procuratore dalla casa di Villagrazia di Carini, lo segue a distanza. Qualcun altro tiene sotto controllo i telefoni nell’appartamento della madre. I mafiosi sanno che Paolo Borsellino sta per arrivare lì, in via Mariano D’Amelio, alle 17 di domenica 19 luglio. 

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Il boato, il fumo nero, le auto distrutte. Ecco l’inferno di via D’Amelio. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 29 luglio 2022

Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

Le due auto blindate del magistrato imboccano via Sampolo, proseguono in via Ammiraglio Rizzo e svoltano a tutta velocità su via Mariano D’Amelio. Giuseppe Graviano aspetta che le due macchine si fermino davanti al palazzo. Poi schiaccia il pulsante.

Alle 16.58 e 20 secondi il procuratore salta in aria con i cinque poliziotti della sua scorta. I resti di Emanuela Loi, pezzi di carne insanguinata, finiscono appiccicati al quinto piano sulla parete dell’edificio. Morti anche Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

La prima notizia Ansa viene battuta alle 17.16: «Un attentato dinamitardo è avvenuto a Palermo nei pressi della Fiera del Mediterraneo. Vengono richieste ambulanze da tutti gli ospedali. Secondo le prime indicazioni della polizia, sembra che sia rimasto coinvolto nell’attentato un magistrato»

La seconda Ansa è delle 17,47: «Secondo le prime notizie fornite dalla polizia, nell’attentato di Palermo sarebbe rimasto ferito il giudice Paolo Borsellino».

La terza esce alle 18.14: «Il giudice Paolo Borsellino è rimasto ucciso nell’attentato».

Fumo, urla, fiamme, sirene, terrore. Cinquantasei giorni dopo Capaci, hanno ammazzato anche Paolo Borsellino.

Tornano i ministri a Palermo. Tornano anche le rivendicazioni della Falange Armata.

La zona dell’attentato non viene recintata. Una folla di curiosi avanza fra i rottami delle due auto blindate e i copertoni che ancora bruciano. C’è qualcuno che prende in mano un parafango, chi rovista fra i sedili delle auto, chi calpesta la carcassa della Croma del magistrato. Non c’è protezione della scena del crimine.

Fra i resti delle auto blindate si aggirano centinaia di uomini. In divisa e in borghese. Ci sono magistrati, poliziotti, carabinieri, giornalisti, avvocati, tantissimi palermitani attirati dal fuoco.

Nello scompiglio c’è però qualcuno che si muove con freddezza. Sa che deve trovare qualcosa lì in mezzo: la borsa di cuoio di Paolo Borsellino. E un’agenda rossa. Un’agenda di pelle con lo stemma dell’Arma dei carabinieri stampato sulla copertina.

C’è un uomo che apre il portabagagli della Croma del magistrato, la blindatura ha risparmiato tutto quello che si trovava al suo interno. La borsa di Paolo Borsellino è intatta. Passa di mano in mano, poi finisce in quelle di un capitano dei carabinieri e ancora in quelle di qualcun altro. Alla fine sparisce. L’agenda dove Borsellino segnava ogni suo pensiero dal giorno della morte di Giovanni Falcone, è ormai al sicuro. Nelle mani di chi non vuole fare sapere certi segreti.

La borsa di cuoio viene subito consegnata ai familiari di Paolo Borsellino. Non manca niente. Sigarette. Fogli di interrogatorio. Oggetti personali. C’è tutto tranne quell’agenda rossa.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Una strage senza verità, falsi pentiti e “assassini” innocenti. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 30 luglio 2022

Gli «assassini» di Paolo Borsellino si trovano presto. Dopo pochi mesi. Per quasi vent’anni alcuni di loro marciscono in carcere. Poi tornano in libertà. È un falso pentito quello che li ha accusati, l’indagine è stata avvelenata per portare tutti lontano dalla verità. Come sempre, in Italia.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul giudice Paolo Borsellino e sull’attentato di via d’Amelio a trent’anni di distanza.

La notte del 19 luglio 1992 non prendo sonno. Resto in piedi fino all’alba, quando mi avvertono che i parà della Folgore sono penetrati nei bracci dell’Ucciardone. Stanno caricando sugli elicotteri i boss detenuti per trasportarli nelle carceri di Pianosa e dell’Asinara.

Per tutta la notte, vengo inseguito da paure e dubbi che poi sono le paure e i dubbi di qualunque altro siciliano che conosce la sua terra: questa volta non sono stati loro i mandanti veri, questa volta c’è qualcun altro che ha voluto la strage.

Troppo ravvicinate le morti di Falcone e Borsellino, troppo «clamorose» per rientrare in una logica di mafia pura. Troppo controproducenti per loro, dannose, letali, quelle bombe e quei massacri in rapida successione.

Ho pensato: sono finiti, i Corleonesi dopo via Mariano D’Amelio sono finiti.

Le conseguenze della strage sarebbero state spaventose per la mafia siciliana. È così è stato.

E allora, perché Totò Riina e i suoi macellai avrebbero deciso ugualmente di uccidere Paolo Borsellino dopo Giovanni Falcone? Quale vantaggio ne avrebbero avuto, cosa avrebbe messo all’incasso Cosa Nostra se non una repressione poliziesca senza precedenti, carcere duro, indagini, processi, confisca di beni, caccia grossa fino all’ultimo latitante?

Per anni mi sono arrovellato su tutto questo, poi mi sono dato una spiegazione semplice: Totò Riina non era più utile, Totò Riina è stato messo nel sacco, usato e gettato via, armato e sacrificato.

Lui e tutti i suoi lanzichenecchi – il popolo mafioso – dopo le stragi sono stati seppelliti per sempre sotto una caterva di ergastoli. Non usciranno mai più dalle galere. Sono marchiati a vita anche i loro figli. E i figli dei loro figli.

Quello che dovevano fare a Palermo, l’hanno fatto. Pio La Torre, Carlo Alberto dalla Chiesa, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino. E tutti gli altri. Non c’è più bisogno di loro. Tanto, ormai lo sappiamo, la mafia cambia sempre. Quelle facce sconce sono diventate «impresentabili». Serve una mafia più rassicurante che non abbia il volto di Totò Riina. Una mafia più simpatica, più pettinata e, all’occorrenza, anche politicamente corretta. 

Gli «assassini» di Paolo Borsellino si trovano presto. Dopo pochi mesi. Per quasi vent’anni alcuni di loro marciscono in carcere. Poi tornano in libertà. È un falso pentito quello che li ha accusati, l’indagine è stata avvelenata per portare tutti lontano dalla verità. Come sempre, in Italia

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

La mafia uccide il giudice Borsellino. Trent’anni fa, ieri la strage di via D’Amelio. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Luglio 2022.

«Guai a noi se perderemo questa battaglia»: con le parole del presidente Oscar Luigi Scalfaro «La Gazzetta del Mezzogiorno» tragicamente annuncia, sulla prima pagina dell’edizione del 20 luglio 1992, la strage di via D’Amelio.

«Nuovo pomeriggio d’inferno a Palermo. Esplode un’autobomba. Alle 17 è stato ucciso Paolo Borsellino, procuratore aggiunto, magistrato di punta nella lotta alla mafia, possibile candidato alla Superprocura antimafia, amico ed erede di Giovanni Falcone. Con lui sono morti cinque agenti (tra i quali una donna) della scorta. Una trentina i feriti, in gran parte inquilini di due palazzi sventrati (alcuni si sono lanciati dai balconi), decine di auto distrutte. L’attentato è stato compiuto davanti alla casa della madre: Borsellino era solito andare a trovarla ogni domenica. I primi ad accorrere sul luogo della strage non hanno creduto ai propri occhi: cadaveri e resti umani sull’asfalto, automobili che bruciavano».

Paolo Borsellino, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina muoiono due mesi dopo l’assassinio dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre uomini della scorta. Sulla «Gazzetta» si ripropone integralmente l’ultima intervista concessa dal giudice Borsellino al giornalista Lello Parise. L’incontro era avvenuto il 27 giugno a Giovinazzo, dove il magistrato si trovava per un convegno: «Camminiamo uno di fianco all’altro lungo i vialetti dell’Hotel Riva del sole. Alle nostre spalle gli uomini della scorta non ci perdono mai di vista. Gli facciamo una domanda che gli avranno fatto centinaia di volte: che cos’è per lei la paura ? Si stringe nelle spalle, quasi storce il muso, annoiato: «Sono abituato a conviverci. È inevitabile che questo accada». Il giudice parla con Parise per circa due ore, e il saluto finale tra i due è inaspettato: «Vinceremo, in qualche modo la vinceremo questa guerra contro la mafia».

Borsellino ha fiducia soprattutto nei giovani siciliani, non più avvinti dalla cultura mafiosa: «I giovani di oggi sono diversi da quando eravamo giovani noi. Pensi che io e Giovanni Falcone, nati e cresciuti nel quartiere popolare dell’Albergheria, quando avevamo 15-16 anni, credevamo che i mafiosi fossero dei modelli, se non proprio da imitare, da considerare con il massimo rispetto». Oggi, a 30 anni di distanza, ancora non si è arrivati a una ricostruzione convincente dell’attentato di via D’Amelio. Nessun passo avanti è stato compiuto con l’ultima sentenza del processo contro gli inquirenti e poliziotti, accusati di aver ostacolato e distorto l’orientamento dell’inchiesta giudiziaria, pronunciata a Caltanissetta pochi giorni fa.

Paolo Borsellino, trent’anni dopo via d’Amelio cosa sappiamo (e cosa no) di quella strage. Le indagini, le conseguenze politiche, i depistaggi e le domande ancora senza risposta. Luca Tescaroli su L'Espresso il 19 Luglio 2022.  

Dopo appena 57 giorni dall’assassinio di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, il 19 luglio 1992, nella medesima città a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, si verificava la strage di via Mariano d’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e a 5 agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Eddie Walter Cusina.

Un attacco terroristico ed eversivo diretto al cuore delle istituzioni, capace di generare disordini, panico e sgomento tra i cittadini, idoneo a intervenire sui poteri fondamentali dell'assetto costituzionale, quello giudiziario e quello legislativo, di compromettere la sicurezza dello Stato, posto che faceva emergere l'incapacità degli organi statali a tutelare i suoi funzionari più esposti a rischio, attuato con un'autobomba imbottita da circa 90 chilogrammi di esplosivo plastico Semtex-H di tipo militare e di produzione cecoslovacca, che cosa nostra aveva già impiegato.

Sui reperti trovati a seguito della strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984, furono, infatti, rinvenute tracce sia di pentrite sia di T4 (RDX), componenti del Semtex, alcuni pani del quale sono stati rinvenuti sia nella villa di Pippo Calò immersa nel verde del rietino, a Poggio San Lorenzo, sia nel deposito bunker di San Giuseppe Jato, in contrada Giambascio, costruito dall'imprenditore Giuseppe Monticciolo, genero di Giuseppe Agrigento, arrestato il 20 febbraio 1996, che immediatamente iniziò a collaborare con la giustizia. La strage di via d'Amelio, a livello istituzionale, produsse un condizionamento del potere legislativo, che si concretizzò nella conversione in legge il 7 agosto del decreto legge dell'8 giugno 1992, superando le difficoltà connesse alle contrapposizioni politiche che fino al quel momento avevano accompagnato il difficoltoso cammino parlamentare.

Quel decreto aveva varato misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa, fra le quali, l'estensione del regime del carcere duro ai mafiosi di cui all'art. 41 bis O. P. (che in molti oggi intendono eliminare) e un inasprimento della regolamentazione dell'ergastolo ostativo per i mafiosi che impediva loro l'ottenimento dei benefici penitenziari, fra i quali, quelli della liberazione condizionale e dei permessi premio (che, nel 2019 e nel 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale).

Il giorno dopo l'attentato vennero sottoposti al 41 bis centinaia di mafiosi, che vennero spediti nelle carceri di Pianosa e dell'Asinara; di lì a qualche giorno vennero inviati in Sicilia 7000 uomini dell'esercito. Una prima prova di forza del Ministro di Grazia e Giustizia e del nuovo Governo presieduto dall'on. Giuliano Amato, che il 18 giugno precedente aveva ricevuto l'incarico di formare il nuovo esecutivo dal neo eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Indicato pubblicamente dal Ministro dell'Interno in carica come naturale successore di Falcone nella guida della Procura Nazionale Antimafia, consapevole di essere isolato una vittima designata, Borsellino aveva compreso l'intreccio esistente tra l'area criminale di cosa nostra e le sfere istituzionale, imprenditoriale e politica per averlo costatato nel corso del suo lavoro. Nei frenetici cinquantasette giorni che precedettero la sua morte, è risultato impegnato nella gestione di plurimi collaboratori di giustizia: Leonardo Messina, il quale aveva iniziato a collaborare con lui a seguito della strage di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli appalti pubblici tra cosa nostra, gli esponenti politici e gli imprenditori e delle correlate tangenti pagate da questi ultimi; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino; Gaspare Mutolo, che aveva iniziato a lanciare accuse nei confronti di appartenenti alle istituzioni e, in particolare, dei Servizi Segreti, il quale riferì che, mentre Borsellino lo stava interrogando, quest'ultimo aveva ricevuto una telefonata da parte del Ministro dell'Interno e che il magistrato, una volta recatosi al Ministero, aveva trovato il capo della Polizia dottor Vincenzo Parisi e il dottor Bruno Contrada al posto del Ministro.

Borsellino aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, aveva fatto riferimento a Vittorio Mangano, e sostenuto di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale, citando l'esistenza di una indagine nei confronti di Marcello Dell'Utri. E aveva pubblicamente manifestato l'intenzione di essere sentito come testimone dai magistrati di Caltanissetta per mettere a disposizione quanto a sua conoscenza sulla strage di Capaci, ma non venne ascoltato. Perciò, non sapremo mai cosa avrebbe riferito.

In quel lasso temporale del 1992, i vertici di cosa nostra ricevettero un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa da parte di esponenti delle istituzioni (ufficiali del ROS). Nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista, proiettata a colpire lo Stato minacciandolo per ottenere benefici, fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali. Se fosse stato informato dei negoziati in corso tra i vertici del sodalizio ed esponenti delle istituzioni, Borsellino si sarebbe certamente opposto. La strage inghiottì l'agenda rossa dell'Arma dei Carabinieri che il magistrato portava con sé, ove annotava i dati rilevanti. Venne fatta scomparire dopo l'attentato e a oggi non sono stati ancora raccolti elementi chiarificatori in grado di dipanare, in maniera definitiva, la matassa relativa alle modalità della sparizione. Certamente non fu opera di cosa nostra.

A distanza di trent'anni, decine di ergastoli sono stati irrogati, con plurimi verdetti della Corte di Cassazione, fra i quali, quelli del 17-18 gennaio 2003 e del 18 settembre 2008. Tre processi celebrati (c. d. via d'Amelio bis, ter e quater) hanno condotto al riconoscimento del coinvolgimento di cosa nostra nella deliberazione, ideazione ed esecuzione della strage, con condanna definitiva dei componenti degli organi di vertice del sodalizio: la commissione provinciale di Palermo e la commissione regionale. Sono state individuate le ragioni dell'eccidio: la vendetta di un acerrimo nemico di cosa nostra, protagonista del maxiprocesso; l'esigenza di natura preventiva dell'uccisione del dottor Borsellino, derivanti dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto, attuato nel triennio 92-94, in cui l’evento delittuoso si inserì tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo (l’on. Calogero Mannino).

Uomini d’onore appartenenti alle famiglie mafiose di San Lorenzo, di Porta Nuova, di Brancaccio, di Corso dei Mille e della Noce sono stati coinvolti nell’esecuzione della strage. Una porzione significativa della stessa è stata ricostruita ancora una volta con il fondamentale ausilio di più collaboratori di giustizia, fra i quali, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza e Fabio Tranchina, che hanno anche consentito di smascherare il depistaggio attuato da un soggetto non appartenente a cosa nostra Vincenzo Scarantino, con l'ausilio di Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Calogero Pulci, che aveva portato alla condanna anche di sette mafiosi innocenti (poi, assolti a seguito di giudizio di revisione).

Sono stati accusati di aver contribuito al depistaggio anche appartenenti alle forze dell'ordine e il relativo processo è in fase di celebrazione. Una settimana prima della strage, Fabio Tranchina compì due appostamenti in via Mariano d'Amelio insieme a Giuseppe Graviano, il quale gli chiese, in un primo momento, anche di procurargli un appartamento nelle vicinanze, per poi dirgli che aveva deciso di piazzarsi nel giardino dietro un muretto in fondo a via d'Amelio per azionare il telecomando che provocò l'esplosione. Su incarico di Giuseppe Graviano (veicolato tramite Cristofaro Cannella), Gaspare Spatuzza e Vittorio Tutino rubarono una Fiat 126, tra la fine della prima settimana di luglio e la sera del giorno nove. La proprietaria dell’auto, Pietra Valenti sporse denuncia di furto il 10 luglio 1992. Dopo le iniziali difficoltà, Tutino riuscì a rompere il bloccasterzo con un «tenaglione» e l’auto venne portata via a spinta. La ricoverarono nel magazzino di via Gaspare Ciprì, n. 19, a Palermo.

Dopo il furto, Spatuzza incontrò Giuseppe Graviano a Falsomiele nella casa di Cesare Lupo (cognato di Fabio Tranchina) e lo informò di alcuni problemi che l’autovettura presentava alla frizione e ai freni. Graviano gli raccomandò di ripristinarne l’efficienza e di togliere dalla macchina ogni elemento che potesse consentire di risalire al proprietario. E così fece. Si era, perciò, rivolto a un meccanico di sua conoscenza, che lavorava presso l’officina di Agostino Trombetta per farle riparare e per questo aveva pagato 100.000 lire.

Poi, Spatuzza la trasportò sabato 18 luglio 1992, mentre Cannella e Antonino Mangano lo precedevano alla guida di due auto per indicargli il percorso, nel garage di via Villasevaglios, ove Lorenzo Tinnirello, Francesco Tagliavia e altri membri del commando operativo la imbottirono di esplosivo. Tutino e Spatuzza recuperarono due batterie e un'antenna per alimentare e collegare i micidiali dispositivi destinati a far brillare la carica, nonché le targhe, che venivano consegnate a Giuseppe Graviano, da apporre alla 126 rubata per dissimularne la presenza sui luoghi della strage. Su incarico di Giuseppe Graviano, Tranchina procurò il telecomando. Salvatore Biondo (classe 1955), l'omonimo Salvatore Biondo (classe 1956), Domenico e Stefano Ganci, Cristofaro Cannella e lo stesso collaboratore Ferrante hanno provato il funzionamento del telecomando e dei congegni elettrici che servirono per l'esplosione e segnalato telefonicamente, anche procedendo a pedinamenti, gli spostamenti del giudice Borsellino e della scorta fino a poco prima della strage (dato che ha trovato conferma nell’analisi dei tabulati telefonici delle utenze poste nella loro disponibilità).

Salvatore Biondino, in particolare, avvisò Ferrante perché la domenica 19 luglio si sarebbe dovuto colpire il dottor Borsellino e lo incaricò di segnalare lo spostamento del giudice dalla sua abitazione. Raffaele Gangi, il quale fornì un notevole contributo, informò Salvatore Cancemi che l'attentato sarebbe avvenuto quella domenica sotto casa della madre del giudice. Biondino aveva già riferito a Giovanni Brusca di «essere sotto lavoro». I membri del commando operativo si incontrarono a casa di Priolo immediatamente dopo l’evento per brindare al buon esito della strage.

Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Non si è appurato, infatti:

chi azionò il telecomando che fece esplodere l'autobomba il 19 luglio 1992;

le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino;

se vi sia stata una finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per tale strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato;

la persona rimasta sconosciuta, indicata da Spatuzza, presente al momento della consegna della Fiat 126 nel garage di via Villasevaglios;

a chi sono gli infiltrati in via D'Amelio ai quali si riferiscono Mario Santo Di Matteo e la moglie nella nota intercettazione del loro dialogo;

perché è cessata la campagna stragista, in cui si inserisce l'attentato del 19 luglio 1992, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico del 23 gennaio 1994.

Luca Tescaroli è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Paolo Borsellino, storia di un eroe condannato a morte. Fernando Massimo Adonia su Culturaidentita.it il 18 Luglio 2022

Il 19 luglio è il trentesimo anniversario della strage di Via d’Amelio, l’attentato costato la vita a Paolo Borsellino (e due mesi prima toccò a Falcone sull’autostrada per Capaci) e agli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli, Eddie Walter Cosina: è vero che Riina anticipò l’attentato prima che Borsellino verbalizzasse le sue scoperte sui retroscena della strage di Capaci? Chi caricò di esplosivo l’auto parcheggiata in via D’Amelio? Che fine ha fatto l’agenda di Borsellino? (Redazione)

Perdendo la vita, Paolo Borsellino ha donato una grande opportunità ai giovani italiani (e siciliani in particolare): quella di poter onorare un eroe vicino, semplice e figlio dei tempi, senza doverlo andare a rintracciare in chissà quale paese straniero o epoca lontana. Un eroe, sì. Non soltanto una vittima eccellente del terrorismo mafioso, ma un esempio cristallino di umanità e dedizione alla toga. Un professionista scrupoloso, un lavoratore infaticabile, un padre esemplare. Se durante le udienze del Maxi-processo l’attenzione dei media fu tutta per Giovanni Falcone, lui non ne ebbe affatto gelosia. A Borsellino interessava il risultato: quello di assicurare alla giustizia quella banda di balordi che aveva preso in ostaggio la Sicilia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi. Ha lavorato tantissimo per raggiungere quell’obiettivo, con disciplina, inseguendo i necessari riscontri a tutte le ipotesi investigative portate in aula.

Falcone e Borsellino sono morti perché hanno lavorato bene. Lo ha detto la Cassazione quando ha confermato le condanne emesse nell’aula-bunker di Palermo. Un giudizio tutt’altro che sereno, tant’è che il procuratore generale della suprema corte, Antonio Scopelliti, chiamato a studiare i faldoni, fu ucciso il 9 agosto 1991 da Cosa Nostra per intimidire tutto il collegio. Le bombe contro i giudici palermitani sono esplose soltanto quando Totò Riina e soci hanno capito che non sarebbe stato più possibile ribaltare i primi due gradi di giudizio. 

Tra il tritolo di Capaci e quello di via D’Amelio ci sono 57 giorni di angoscia. Morto Falcone, sa che tocca a lui. È consapevole che la condanna a morte è già stata emessa. Ma è l’unico che ha le capacità investigative, la libertà di spirito, per continuare il lavoro del collega ucciso.

Comincia una battaglia solitaria, abbandonato anche dai colleghi. Non si risparmia: partecipa a incontri pubblici drammatici, segue piste complicatissime, assaggia l’amarezza del tradimento. Ha fretta. Va avanti nonostante abbia saputo che a Palermo è arrivato il tritolo che lo farà saltare in aria. Chi gli è stato accanto in quei giorni dice che vivesse con distacco anche i rapporti coi figli, per rendere loro meno pesante il lutto. Un profilo ascetico che solo i santi sanno decifrare.

Non è un caso che il suo nome e volto siano diventati simboli di vittoria. Chi ha deciso la sua morte ha sbagliato tutto. Quel sangue ha riscattato un territorio spesso vile. All’appello però manca ancora una fetta importante di verità. La sentenza del Borsellino IV ha parlato del “più grande depistaggio della storia repubblicana”. La famiglia, intanto, attende risposte a molte domande. Una su tutte: chi ha sottratto l’agenda di Paolo dal luogo della Strage?

Vidi la strage di via D’Amelio e a trent’anni di distanza apro lo scrigno dei ricordi. Nicola Fragassi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2022. 

Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia

Per non dimenticare. Io non dimenticherò mai! Non preoccupatevi, non è l’attacco stereotipato di un post social dei tanti che vogliono surfare sull’onda lunga dei luoghi comuni in anniversari come questo. Io c’ero davvero ed a distanza di trenta lunghi anni non dimentico (ma nemmeno lo voglio) quelle emozioni, quelle sensazioni, quelle scene, quelle lacrime, quei momenti di tensione scatenati da una tragedia come quella della strage di via D’Amelio. Io c’ero davvero e raccontai dalle pagine de La Gazzetta del Mezzogiorno, quei giorni che fecero la storia del nostro Paese e che scrissero pagine fondamentali per la guerra alla mafia. A trent’anni di distanza, ho deciso di aprire lo scrigno dei ricordi e raccontare, come fosse un diario.

Ero arrivato in Sicilia ventiquattr’ore prima della strage, precisamente a Patti inviato dal giornale al seguito del compianto avv. Paolo Pinto che, proprio in quei giorni, aveva in programma un’altra delle sue imprese: la traversata a nuoto dello stretto di Messina. La mattina del 19 era trascorsa in tranquillità con Pinto alle prese con gli allenamenti. Intorno alle 16 di quel pomeriggio bussano alla porta del mio bungalow, un addetto della reception del villaggio che ci ospitava mi invita ad andare in ufficio per una telefonata urgente. Nel 1992 i cellulari in giro erano ancora pochi, io ne avevo uno ma il segnale… Dall’altro capo del telefono sento la voce del mio capocronista di allora, Dionisio Ciccarese, che mi dice di andare immediatamente a Palermo perché «hanno ucciso il giudice Borsellino e la sua scorta». Io, giovane cronista, mi faccio prendere dal panico e dalla paura di non essere all’altezza. Ho ancora impresse nella mia mente (e nelle mie orecchie…) le urla (non solo di incoraggiamento…) del mio capo che mi ordina di fare i bagagli e catapultarmi in via D’Amelio. Lo ringrazio ancora perché lui era già convinto che io fossi all’altezza. E così fu…

Corro al volante della mia auto e parto per Palermo, un viaggio lungo, difficile perché in quegli anni le strade di collegamento tra Messina e Palermo non erano così «comode». Se a questo si aggiungono i mille interrogativi che affollano la mia mente, il quadro è davvero completo. Durante il lungo tragitto ci pensa il caro collega Manlio Triggiani a tenermi informato sui fatti: in auto c’è un cellulare fisso che, quello sì, riesce a captare il segnale anche tra tornanti e strade impervie della Sicilia più interna. Tra un aggiornamento e l’altro, arrivo a Palermo, è la prima volta che sono nel capoluogo siciliano e non ho proprio alcuna idea di dove possa essere via D’Amelio. I navigatori? Trent’anni fa, al massimo c’erano le piantine delle città. Ma non ho bisogno di alcun aiuto perché è sufficiente mettermi all’inseguimento delle decine e decine di auto di polizia e carabinieri o dei mezzi di soccorso per arrivare a pochi metri da via D’Amelio. Con il cuore in gola, arrivo fino all’inizio di quella che è diventata la strada simbolo della lotta alla mafia.

Ovviamente, c’è una barriera umana di uomini delle forze dell’ordine, l’ingresso alla strada è delimitato dal classico nastro bianco e rosso. Mostro il tesserino professionale e, stranamente, mi fanno passare senza fare storie e a distanza di 30 anni ho capito il perché: volevano che tutti noi della stampa testimoniassimo cosa fosse accaduto vedendolo con i nostri occhi.

Il tragitto dall’inizio della strada all’area dell’esplosione è un vero incubo: per terra ci sono fogli, cartelline, indumenti, vetri e… tanto altro. E schiuma, una marea di schiuma utilizzata dai vigili del fuoco. A trent’anni di distanza, quando qualcuno mi chiede la prima sensazione di quel giorno rispondo secco: non so ancora oggi cosa io abbia calpestato sotto i miei piedi…

Negli occhi di tutti si legge disperazione e rabbia, la colonna sonora di quel pomeriggio è fatto dal rumore assordante dei mezzi dei vigili del fuoco che sono ancora al lavoro e dal suono delle sirene che rompe il silenzio degli altri quartieri della città, quelli più distanti dal luogo della strage, una città ancora incredula di quanto la mafia avesse alzato il tiro.

Faccio domande, non ottengo risposte, vedo uomini e donne piangere ed anche il mio viso comincia a rigarsi di lacrime: penso a vite spezzate, sogni infranti, mogli diventate vedove e figli orfani. E la rabbia di quanto dolore l’uomo possa causare. Devo recuperare la lucidità perché in redazione aspettano il mio pezzo. E allora, torno in auto, prendo penna e taccuino e scrivo. Scrivo quello che ho visto, racconto le mie emozioni e detto il pezzo per telefono: i colleghi della Cronaca di Bari si trasformano in dimafoni per cercare, così, di ridurre i tempi e dare alla direzione il testo per la prima pagina.

Trent’anni e quelle emozioni e sensazioni sono sempre le stesse, non cambiano, non si cancellano e mai verranno cancellate. Così come, quelle stesse lacrime tornano a rigare il mio viso al ricordo di quelle vite spezzate, di uomini e donne che si sono sacrificati per rendere migliore la nostra amata Italia.

Via D’Amelio, 19 luglio 1992: voci dall’altra strage. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022. 

Nella seconda puntata speciale di Giovanni Bianconi a trent’anni dall’omicidio del giudice, l’esplosione in via D’Amelio è appena avvenuta. Ma da subito ci si rende conto che molte cose non tornano, come le troppe persone non identificate sul luogo della strage. La voce di Lucia Borsellino, figlia del magistrato, racconta tutti gli aspetti che ancora oggi non sono stati chiariti

Non sappiamo i loro nomi, ma a uccidere Borsellino non è stata solo la mafia. ATTILIO BOLZONI Il Domani il 19 luglio 2022

Con l’autobomba del 19 luglio 1992 hanno assassinato Borsellino e “suicidato” la Cosa Nostra di Totò Riina. Un piano perfetto.

La regia è altrove e se ne rintracciano indizi fin da prime indagini. Mai un'investigazione ha raccolto in sé tante anomalie e forzature, mai tanti inganni sono riusciti a passare al vaglio di procure della repubblica, corti di assise e corti di assise di appello fino a ricevere il bollo ultimo della Cassazione.

Il depistaggio di cui tanto si parla non è partito dopo l'attentato, il depistaggio è partito prima. Pentiti fabbricati in laboratorio, atti spariti, procuratori ben disposti a prendere ordini dagli apparati. Una giustizia piegata a interessi non di giustizia.

"Hanno ammazzato il giudice Borsellino. Minchia". Il racconto di quel luglio del 1992. Davide Enia su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Tra fine della scuola, esami, l'attentato a Capaci di pochi mesi prima. Lo scrittore Davide Enia ricorda quei giorni d'estate di trent'anni fa.

Li hai presenti i pesci? I pesci che saltano fuori dall’acqua, i pesci muti…

O i vitelli che camminano per il mondo e l’osservano sempre col loro occhio commosso…

O i gabbiani che volano veloci e ci mostrano da un cielo alto e azzurro il culo bianco come un giglio…

Mi piacciono gli animali. E mi piace Nina.

Strage di via D’Amelio: parlano gli eroi silenziosi della lotta alla mafia. Emanuele Beluffi su culturaidentita.it il 17 Luglio 2022 

​Gli eroi silenziosi, memorie dei grandi servitori dello Stato è il convegno che si terrà lunedì alle 18.30 a Villa Cuturi a Marina di Massa in occasione del trentennale dell’assassinio di Paolo Borsellino e della strage di via D’Amelio. Presenti quegli uomini che hanno affrontato la lotta al crimine organizzato a Palermo ai diretti ordini dei grandi magistrati vittime di attentati mafiosi. L’evento è organizzato dall’associazione La Rivincita, guidata dall’avvocato Carmela Federico (che introdurrà i lavori) e dalla vice presidente Mirka Morandi. Col vice sindaco e assessore al Turismo del Comune di Massa Andrea Cella ci saranno Roberto Pennisi già sostituto procuratore impegnato nell’antimafia, il colonnello Angelo Jannone autore del libro Un’arma nel cuore e il Generale della Guardia di Finanza Emilio Errigo: il dibattito sarà moderato dal direttore di CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini. Presenti anche gli onorevoli Gianluca Cantalamessa (Responsabile Nazionale Dipartimento Antimafia) e Manfredi Potenti (Responsabile Dipartimenti Giustizia e Antimafia Toscana).  Gli eroi silenziosi  riserva alla memoria collettiva una serie di testimonianze uniche e mai finora riunite in un unico evento, proprio a pochi giorni dalla sentenza del tribunale di Caltanissetta nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio che ha dichiarato prescritte le accuse contestate. Durante il convegno saranno esposte opere degli artisti locali Manola Caribotti, Mafalda Pegollo e Emanuele Rebughini.

«Io, caposcorta di Borsellino all’ultimo cambiai turno: salvo per un testa o croce». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.  

L’agente Nicola Catanese a 30 anni dalla strage: devo tutto a mia moglie: stavamo per sposarci, era il suo compleanno e voleva che stessi con lei, così le feci una sorpresa. «Il magistrato mi disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo più per voi»

A decidere fu il lancio della monetina, testa o croce. «Uscì croce e chiedemmo il cambio ai colleghi del turno pomeridiano, che arrivarono a Villagrazia di Carini e ci sostituirono. Se invece fosse uscito testa avremmo riaccompagnato noi il giudice Borsellino in via D’Amelio, e il cambio lo avremmo fatto dove c’era l’autobomba. Che sarebbe successo? I colleghi arrivati prima avrebbero notato la macchina sospetta o, com’è più probabile, saremmo morti anche noi?». Il vice-sovrintendente di polizia Nicola Catanese — 59 anni, in servizio da 36, uno dei capiscorta di Paolo Borsellino — se lo chiede da trent’anni. Da quel 19 luglio del 1992 in cui salutò il magistrato nella sua casa sul mare per apprendere, qualche ora dopo, che era stato ammazzato insieme a chi avrebbe dovuto proteggerlo. Poteva toccare a lui, la sorte decise che fossero altri.

Il compleanno della moglie e il cambio di turno

Essendo fuori Palermo dal mattino, c’era la possibilità di attivare lo straordinario (guadagnando qualcosa in più su una busta paga non ricca) e spostare il cambio turno al rientro in città; ma si poteva anche chiedere il rimpiazzo all’orario previsto, fuori Comune. Un’alternativa decisa da una coincidenza: il compleanno della futura moglie di Catanese, nata il 20 luglio, che viveva a Messina come lui. «Io tendevo ad accumulare i turni di riposo — ricorda il poliziotto — per avere qualche giorno in più quando tornavo a casa, e quella domenica avevo deciso di non rientrare. Dunque potevamo rimanere con il giudice fino al ritorno a Palermo. Verso fine mattinata, da una cabina telefonica, chiamai Sofia, la mia fidanzata, e le confermai che non sarei andato, ma si dispiacque. Così pensai di farle una sorpresa e di andare, senza dirglielo. Tornai dai colleghi e dissi: io vorrei smontare, voi che dite? Eravamo in sei, il responso fu tre a tre. A quel punto potevo decidere io, ma per non scontentare nessuno scelsi di affidarmi alla monetina: testa restiamo, croce chiediamo il cambio».

Il lancio della monetina e l’autobomba

Croce. Dopo poco, a Villagrazia arrivarono le due pattuglie guidate da Agostino Catalano e Claudio Traina, insieme a Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi e Antonio Vullo. Tutti saltati in aria con Borsellino tranne Vullo, l’unico superstite della strage di via D’Amelio. Cinque vittime «collaterali» selezionate dal caso, come in una sliding door, di un attentato dato per certo dallo stesso bersaglio. Al punto di preoccuparsi non per sé, ma per i morti che si sarebbe tirato dietro.

«Disse: è arrivato l’esplosivo per me, ma temo per voi»

Come racconta Catanese: «Da qualche giorno lo vedevo nervoso e più preoccupato del solito, così il lunedì precedente la strage gli chiesi se ci fosse qualcosa che non andava. Borsellino mi rispose “Sono dispiaciuto per voi”. Domandai perché e lui aggiunse: “Perché so che è arrivato l’esplosivo destinato a me, e mi dà angoscia pensare che possano colpire anche voi”. Io cercai di tranquillizzarlo, poi ne parlai con gli altri colleghi: eravamo tutti coscienti del rischio che correvamo, e decidemmo di continuare a proteggerlo. Con la paura, certo, ma anche con la convinzione di fare una cosa giusta, tentando di farla nel miglior modo possibile. Anche perché il giudice si faceva volere bene, ci trattava sempre con grande rispetto e riguardo, non potevamo abbandonarlo».

la visita del giudice alla madre

Le sirene quasi sempre accese, la tensione al massimo in ogni spostamento, l’attenzione ai minimi particolari, nella consapevolezza che non tutti i pericoli si potessero evitare: «Il giudice doveva continuare a fare la sua vita. Non sempre, ad esempio, poteva aspettare che arrivasse la seconda macchina di scorta prima di muoversi da casa». Accadde pure alla vigilia della strage, il pomeriggio del 18 luglio. «Mi comunicò che doveva andare dalla madre, era con un’altra persona, probabilmente un medico. Io gli dissi di attendere qualche minuto, il tempo di far arrivare l’altra auto, ma lui aveva premura, volle partire subito, e così fece arrivare la staffetta direttamente in via D’Amelio».

Le troppe auto parcheggiate in via D’Amelio

In quella strada Catanese era già stato altre volte — «di solito la domenica mattina dopo la messa, anche se noi sconsigliavamo le abitudini fisse» — e aveva notato con disappunto le tante auto parcheggiate davanti al portone dove entrava Borsellino: «Segnalai la situazione al dirigente dell’ufficio, si sarebbe dovuta istituire la zona rimozione, ma in quel periodo non era facile per le proteste dei residenti, le concedevano solo per le abitazioni dei potenziali obiettivi». Davanti a casa Borsellino fu messa solo qualche settimana dopo la strage di Capaci.

La 126 carica di tritolo

Grazie al mancato divieto di parcheggio, i mafiosi poterono sistemare la Fiat 126 carica di tritolo davanti al civico 19 di via D’Amelio. Probabilmente la sera di sabato 18 luglio o la mattina di domenica 19: in trent’anni di indagini non si è arrivati a ricostruire nel dettaglio le ultime fasi della preparazione e dell’esecuzione dell’attentato. Quella domenica il magistrato cambiò programma, rinviando la visita alla madre al pomeriggio. «La mia squadra montò alle 7 — racconta Catanese —, e verso le 9 il giudice mi avvisò che saremmo andati nella casa di Villagrazia».

La gita al mare

Borsellino aveva deciso di trascorrere qualche ora al mare con la moglie, il figlio e alcuni amici. «Avvertii la staffetta — continua il caposcorta — aspettammo il suo arrivo e siamo partiti. Verso la tarda mattinata decise di fare un giro in motoscafo, io provai a dire che non era prudente ma lui andò ugualmente. Chiamai la sala operativa per sapere se c’era una motovedetta o un elicottero in zona per controllare, ma mi risposero di no. Dopo nemmeno mezz’ora il giudice tornò a casa. Poi arrivò l’ora di cambio turno, telefonai alla mia fidanzata e tirai la monetina».

«Sono vivo grazie a te»

Rientrato in caserma a Palermo, l’agente scelto Nicola Catanese si liberò dell’equipaggiamento, salì sulla sua macchina e partì per Messina. Senza avvisare nessuno, e senza sapere nulla della strage. Arrivato a casa, aprì la porta e trovò la madre in lacrime che gli gettò le braccia al collo: «Non capivo perché, e mio padre mi indicò il televisore con le immagini della strage; si sapeva che c’erano dei poliziotti morti e pensavano che io fossi tra loro. Rimasi a lungo immobile davanti alla tv, piansi anch’io. E a Sofia, la donna che poi diventò mia moglie dissi: “Sono vivo grazie a te”. Perché è andata proprio così».

Borsellino e il «pessimo affare» di Totò Riina. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022. 

A trent’anni dalla strage di via D’Amelio, dove insieme al magistrato furono trucidati Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi.

Moltissimo è stato scritto in occasione del XXX anniversario della strage di via d’Amelio, dove insieme al grande Paolo Borsellino furono trucidati Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi . Mi ha colpito il bel libro di Giovanni Bianconi ( «Un pessimo affare» - Solferino ed.), che oltre alla preziosa e obiettiva esaltazione dei grandi meriti e dell’eccezionale coraggio di Borsellino contiene una ricostruzione dei fatti che fa riflettere.

In particolare, Bianconi ricostruisce nel dettaglio la storia del decreto -legge varato dal Consiglio dei ministri l’8 giugno 1992 dopo la morte di Falcone. Un giro di vite contro la mafia che introduce il cosiddetto «doppio binario» - cioè una normativa pensata con concreto riferimento alla «specificità» della mafia - che in particolare incentiva i pentimenti e introduce un carcere finalmente duro (per porre fine alla vergogna di una detenzione che confermava ogni giorno, anche in galera, la supremazia della mafia sullo stato). Contro questo decreto si scatenò una campagna ostile (contestazioni pesanti di avvocati penalisti e detenuti in rivolta), sicché la conversione in legge del decreto procedeva a rilento. Quando i tempi stavano ormai per scadere, sulla spinta dell’autobomba di via d’Amelio il Parlamento, lavorando a tappe forzate, riuscì a convertire il decreto in legge.

Riveleranno poi alcuni «pentiti» che un mantra del «capo dei capi» (Riina) era che si sarebbe giocato anche i denti, volendo dire una cosa preziosa, e cioè che avrebbe fatto di tutto per far annullare la legge sui pentiti ed eliminare l’articolo 41 bis che costringendo all’isolamento i mafiosi poteva determinare nuovi pentimenti. Invece, uccidendo dopo Falcone anche Borsellino (per di più - come pare certo - accelerandone la morte) Riina ha di fatto agevolato l’approvazione di una legge da lui stesso osteggiatissima. Una mossa controproducente, un «pessimo affare». Oltretutto ....recidivo! Perché già dieci anni prima la strage di via Carini, con la morte del prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa, si era trasformata in un «pessimo affare» per la mafia. La reazione dello Stato aveva prodotto la Legge Rognoni-LaTorre, con il 416 bis e l’aborrito attacco alle ricchezze illegali: quanto di peggio i mafiosi abbiano mai dovuto registrare.

Difficile immaginare - sostiene Bianconi - che Riina non abbia previsto questi effetti nefasti per l’organizzazione criminale. E allora si potrebbe pensare che qualcuno lo abbia mal consigliato o possa averlo condizionato o convinto, prospettandogli chissà che. Qualcuno che magari conosceva bene la psicologia mafiosa. Vale dunque la pena parlare anche di questo profilo.

Il mafioso interiorizza Cosa nostra come l’unico mondo nel quale vi sono individui degni di essere riconosciuti come «persone». Il mondo esterno è invece una realtà «nemica» da depredare, nella quale vivono individui destinati a essere assoggettati, «oggetti» che non hanno dignità umana. Una «reificazione» del mondo esterno che sfocia nell’assoluta mancanza di senso di colpa dei Killer e di chi li comanda. La convinzione di appartenenza a una entità speciale crea infatti un totale distacco emotivo che disattiva la sfera dei sentimenti.

L’identità psicologica perversamente deviata del mafioso si intreccia poi con una «sacralità atea»: il mafioso ostenta una «fede» che è soltanto superstizione. E questa sua «religione» la interpreta in modo blasfemo, come conferimento di una specie di «missione» che tutto giustifica, anche le peggiori nefandezze. Dopo l’appartenenza, un ulteriore fattore di forza.

Se tutto ciò vale per il mafioso «medio», figuriamoci per il «capo dei capi». Temuto e ossequiato da tutti (mafiosi e non); forte di protezioni, anche politiche, di alto livello e di una immensa fortuna economica; proiettato verso obiettivi di egemonia totalizzante; trionfatore in guerre di mafia, con migliaia di avversari sterminati o «scappati»; regista di una decapitazione sistematica e feroce di tutti i vertici istituzionali; capace per decenni di una «comoda» latitanza. E allora, è possibile accostare al «capo dei capi» una sindrome tipo delirio di grandezza? Si può ipotizzare che abbia finito per convincersi di essere un super-uomo irraggiungibile e invulnerabile, quasi un Dio? E che qualcuno di questa sindrome possa aver approfittato?

Viene utile, a questo punto, una frase di Falcone scelta da Bianconi come esergo: «Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa nostra - per un’evidente convergenza di interessi - nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi».

Da oggi.it il 16 luglio 2022.

Il 3 febbraio del 1992 Sara Caon, studentessa di 17 anni del Liceo scientifico Alvise Cornaro di Padova, scrisse «su un foglio protocollo avanzato dalla versione di latino» una lettera a Paolo Borsellino, lamentando la sua mancata partecipazione, per un equivoco, a un incontro nella sua scuola e ponendo nove domande sulla mafia. 

Il magistrato iniziò a risponderle proprio la mattina del giorno in cui fu ucciso sebbene, scrisse, «oggi non è certo il giorno più adatto per risponderle perché la mia città si è di nuovo barbaramente insanguinata ed io non ho tempo da dedicare neanche ai miei figli, che vedo raramente perché dormono quando esco da casa e al mio rientro, quasi sempre in ore notturne, li trovo nuovamente addormentati. Ma è la prima domenica, dopo almeno tre mesi, che mi sono imposto di non lavorare e non ho difficoltà a rispondere, però in modo telegrafico, alle Sue domande».

Sara Caon ne aveva parlato solo al «Mattino» di Padova nel 1993 e torna farlo adesso con OGGI, da domani in edicola, perché «a chiedermelo è stato Giovanni Paparcuri (collaboratore di Falcone e Borsellino, curatore del museo a loro dedicato nel “bunkerino” di Palermo, ndr), cui tutti noi dobbiamo riconoscenza. E perché il nostro è un Paese che non coltiva la memoria: ci sono generazioni che non sanno chi sia Borsellino, invece quella sua lettera andrebbe scolpita sui muri».

A OGGI racconta come nacque il suo impegno antimafia, lontano mille chilometri dalla Sicilia. «La molla scattò con Saveria Antiochia (attivista antimafia, madre di un poliziotto ucciso da Cosa Nostra, ndr). Era stata invitata a parlare di donne e mafia qui a Padova. Le sue parole mi incollarono alla sedia. Poi mi guardai intorno e notai che ero l’unica sotto i 40: avevo 15 anni. Mi sono detta: “Se i miei coetanei non vengono qui, la porto io da loro”. E la invitai nella mia scuola. Di lì in poi ho organizzato tanti altri incontri sulla mafia».

OGGI pubblica anche la lettera del giudice, che rispose a tre delle nove domande prima di interrompersi per non poter più proseguire. Un’ultima testimonianza sulla mafia e una prova del suo impegno anche culturale, nelle scuole, nella battaglia per sconfiggerla:

«Intanto vorrei rassicurarla che non mi sono affatto trincerato dietro un compiacente centralino telefonico… Se le sue telefonate sono state dirette a Marsala non mi meraviglio che non mi abbia mai trovato. Comunque il mio numero di telefono presso la Procura di Palermo è 091/***963, utenza alla quale rispondo direttamente».

«Cose nostre», puntate sulla mafia da far circolare nelle scuole. Ado Grasso su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Con il suo avamposto di autori, Emilia Brandi riesce a redigere un altro capitolo sulle imprese delittuose della criminalità organizzata. 

Due figure chiave nella lunga storia che contrappone lo Stato alla mafia: Ninni Cassarà e Natale Mondo. Cassarà era Vice Questore Aggiunto della Polizia di Stato in forza presso la questura di Palermo , sposato e padre di tre figli. Il 6 agosto 1985 un gruppo di circa dieci uomini armati sparava sull’Alfetta che trasportava il funzionario e i tre agenti che lo scortavano. Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia restano uccisi nel conflitto a fuoco, uno degli altri agenti riporta ferite gravissime, il quarto agente, Natale Mondo resta illeso (ma sarebbe stato ucciso il 14 gennaio 1988). Cassarà muore tra le braccia della moglie, accorsa in strada. Braccio destro di Cassarà, Mondo faceva parte di quella squadra di superpoliziotti della questura di Palermo, l’«avamposto degli uomini perduti» diretto da Boris Giuliano, che dava la caccia ai latitanti più pericolosi della Sicilia.

Sposato e padre di due bambine, Mondo lavorava anche come infiltrato: così viene arrestato con la più infamante delle accuse, quella di essere la talpa dei clan all’interno della questura di Palermo. Dopo un lungo calvario giudiziario riesce a dimostrare ai magistrati la sua innocenza, ma questo segna anche la sua condanna a morte. Il doppio gioco è ormai venuto alla luce e la mafia non perdona. Ancora una volta, con «Cose nostre» (Rai1), Emilia Brandi e il suo avamposto di autori, riesce a redigere un altro mirabile capitolo sulla mafia, ricostruendo con precisione i fatti, intervistando i superstiti (commovente l’intervista a Francesco Accordino, allora capo della squadra omicidi e unico sopravvissuto alla mattanza degli eroici servitori dello Stato), ricomponendo le tessere di un mosaico che ancora sanguina. Non dovrebbe essere difficile far circolare le puntate di «Cose nostre» nelle scuole italiana. Basterebbe solo la buona volontà.

Strage di via D’Amelio, la grande impostura. Cinquantasette giorni dopo Capaci viene ucciso Paolo Borsellino, l’alter ego di Falcone, arrivato a un passo dalla verità. E dopo la sua morte, colleghi e investigatori inscenano il gigantesco depistaggio utilizzando il falso pentito Scarantino. Enrico Bellavia su L'Espresso il 18 maggio 2022.

Una chiamata all’alba della domenica in cui l’avrebbero ucciso. Il procuratore capo Pietro Giammanco avverte l’incongrua urgenza di dirgli a quell’ora e in quel giorno che «sì, potrà finalmente indagare su Palermo. Così la partita si chiude». «Si apre, invece», è la replica gelida di chi sa di essere alla resa dei conti.

È cronaca di una morte annunciata quella di Paolo Borsellino. Mandato al patibolo in quelle stesse eccellentissime stanze in cui, sostenendo di indagare sulla sua fine, avrebbero poi inscenato per anni la più grottesca delle imposture. In un Paese che pure non si è mai risparmiato menzogne. Non arriva mai, invece, lo squillo che Borsellino ha atteso nei 57 giorni precedenti. Consumati invano nella disperata corsa per riscattare la morte dell’amico Giovanni Falcone. E salvare sé stesso. Né il Csm, né la procura di Caltanissetta, dove il capo Giovanni Tinebra, violando la legge, si è già consegnato, su indicazione del capo della polizia Vincenzo Parisi, al Sisde di Bruno Contrada, hanno sentito la necessità di ascoltarlo. 

16,58 del 19 luglio di 30 anni fa, Palermo, via D’Amelio: budello nel ventre dell’Italia dell’eterno compromesso, strada cieca di una Repubblica che ancora oggi non sa trovare via d’uscita. Dista 500 metri dal vicolo Pipitone dove sbirri, spioni doppiogiochisti con licenza di uccidere, e padrini padreterni che li hanno a libro paga si danno appuntamento. Nel pomeriggio assolato di una città che si è già messa alle spalle l’orrore del cratere di Capaci, il bagliore di un’altra bomba inghiotte altre vite e verità. Con il procuratore aggiunto di Palermo muore la prima e unica donna delle scorte assassinata, Emanuela Loi, spedita in trincea al primo incarico. E muoiono Agostino Catalano, il veterano del gruppo, e i colleghi Eddie Walter Cosina, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli. Si salva soltanto Antonio Vullo. 

A meno di due mesi dalla morte di Giovanni Falcone, tocca all’uomo che ne è da sempre l’alter ego. Dai tempi dell’oratorio alla toga. Dal concorso in magistratura all’ufficio istruzione. Dalla precipitosa reclusione all’Asinara per stendere l’ordinanza del maxiprocesso, al successo di una sentenza che sancisce la fine dell’impunità di Cosa nostra. Dalle accuse di protagonismo al cocente isolamento.

Non occorrono pronostici nella città che sussurra. Lo dicono nei vicoli, lo bisbigliano nei salotti, lo sanno bene i suoi colleghi, lo registrano le informative dei servizi. Borsellino, 52 anni, da uno procuratore aggiunto di Palermo, è il prossimo. I missini lo hanno pure votato come presidente della Repubblica, i ministri del governo Andreotti, Claudio Martelli, Giustizia, e Vincenzo Scotti, Interno - che lascerà il posto a giugno a Nicola Mancino, quando a Palazzo Chigi arriva Giuliano Amato - lo vorrebbero capo della Direzione nazionale Antimafia.

Eppure la Squadra Mobile di Arnaldo La Barbera e l’ufficio scorte non gli hanno rinforzato la tutela, non hanno piazzato una zona rimozione davanti casa della madre, niente rilevatori d’esplosivo, né bonifiche preventive. Non hanno preso uno straccio di precauzione. Lo mandano incontro ai boia quasi avessero deciso deliberatamente di farlo, tradendolo anche all’ultimo miglio.

Per Cosa nostra è un’altra spunta nell’elenco che Totò Riina ha stilato nel 1991 e che rivede subito dopo la strage di Capaci dando priorità assoluta a Borsellino. Il giudice, nell’estate del 1992, corre per capire. Riprende in mano l’indagine sugli appalti che ha già portato Falcone a ipotizzare una finanziarizzazione della mafia con l’ingresso in Borsa dietro il paravento di colossi dell’imprenditoria nazionale, come la Calcestruzzi di Raul Gardini. Scambia informazioni con il pool milanese di Tangentopoli. Ma corre anche il capo di Cosa nostra. Avverte la pressante esigenza di impedire che il giudice giunga alle conclusioni.

Serve un’altra strage, preventiva.

Poco prima di morire, nell’intervista ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo insabbiata per anni - la cui trascrizione è stata pubblicata da L’Espresso nel 1994 e la cui sintesi video, sepolta in Rai, sotto montagne di nastri, è rispuntata solo nel 2001 - Borsellino parla a lungo di un semisconosciuto Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore e del fratello di Marcello Dell’Utri, il braccio destro di Silvio Berlusconi, ancora solo un magnate televisivo.

Lascia intendere che la storia dei traffici di droga lungo l’asse Palermo-Milano è una traccia da approfondire, forse per arrivare alle opache origini delle fortune immobiliari del patron del Biscione. Ha ascoltato il pentito Leonardo Messina. E, ingaggiando una battaglia con Giammanco che vorrebbe impedirglielo, sta già sentendo Gaspare Mutolo che a fine 1992 porterà in carcere proprio Bruno Contrada. Mentre Borsellino interroga in gran segreto il pentito viene chiamato al Viminale per l’insediamento di Nicola Mancino. Lì, con Parisi ci trova proprio lo 007, di cui Falcone diffidava e che Mutolo accusa. Contrada sa dell’interrogatorio e glielo dice.

Nel fumo dell’inferno di via D’Amelio, tra pezzi di corpi volati fin su nei balconi, tra macerie e macchine a fuoco, nello stordimento di un boato udito a chilometri di distanza, uomini in abito scuro e camicie inamidate, sbucati dal nulla con le tessere del ministero dell’Interno in mano, trafficano tra le lamiere, portandosi via l’agenda del giudice. Sparita dalla borsa di cuoio trafugata e ricomparsa, vuota, dopo un mese, sul divano dell’ufficio di La Barbera. Al centro Sisde di Palermo, in contemporanea, c’è un insolito traffico telefonico mai registrato prima di domenica.

Il resto, lo fanno scrivendo subito di una 126 rubata e imbottita di tritolo. Serve quel dettaglio per far combaciare ciò che hanno in mente. Prima ancora che gli artificieri si raccapezzino tra i rottami, hanno già confezionato la premessa per la più dubbia delle conclusioni. Si mettono a caccia dell’auto, scovano miracolosamente un’intercettazione. Individuano gli autori del furto e tirano fuori dal cilindro delle invenzioni un balordo di periferia, Vincenzo Scarantino. Uno spacciatore di droga che hanno già provato a far riconoscere al padre del poliziotto assassinato Nino Agostino nel 1989. Scarantino diventa il pupo del grande depistaggio. La Barbera e soci lo presentano come un mafioso, lo spediscono nel lager di Pianosa, lo imbeccano e lo istruiscono, lo minacciano e lo ricattano con la stessa determinazione con cui lo blandiscono. Schiere di pm, anche di esperienza, non capiscono nulla. I dubbi, se li hanno, li tengono per loro. Al massimo scrivono una nota a futura memoria per pararsi. Non sollevano alcun caso pubblico neanche quando, dopo le ritrattazioni di Scarantino che si pente di essersi pentito e poi si ripente, 11 innocenti finiscono al 41 bis e condannati per una strage di cui non sanno nulla.

A fermare pm e giudici abbindolati da La Barbera e dai suoi superiori, non serve constatare che la storia del furto della 126 fa acqua da tutte le parti. Né sono sufficienti le parole chiare degli altri collaboratori che bollano Scarantino come inattendibile. Il pupo vestito ha perfino raccontato che della strage Borsellino ascoltò il momento clou della decisione di ucciderlo, prelevando una bottiglia d’acqua dal frigo, durante un summit della cupola. Gli credono anche quando le difese degli 11, otto all’ergastolo, sollevano più di un interrogativo sulle note a margine dei verbali depositati che sembrano, e lo sono, istruzioni per l’uso. E continuano a farlo quando nel 1998 Gaspare Spatuzza, non ancora pentito, li mette in guardia su Scarantino. Bisognerà arrivare al 2008 e tornare a Spatuzza, il vero artefice del furto della 126, finalmente collaboratore di giustizia, per convincere tutti che Scarantino ha mentito. E con lui chi lo ha gestito. Qualcuno è morto e qualcun altro ha fatto carriera. I sepolti vivi nel girone del carcere duro vengono liberati. E sul perché si sia arrivato a tanto ci si trincera dietro il veniale peccato di ansia da risultato. E invece è stata una partita truccata contro la verità. Un “furto di verità”, l’ha definito il presidente della commissione regionale antimafia siciliana, Claudio Fava.

Non la cosca della Guadagna che con il falso di Scarantino si è presa il centro della scena ma i terribili fratelli Giuseppe e Filippo Graviano di Brancaccio hanno gestito la strage Borsellino, occupandosene direttamente. E fino a quel punto solo uno, Giuseppe, è stato coinvolto. Il fratello Filippo, il contabile, l’ha fatta franca. E sarà poi proprio Giuseppe Graviano a raccontare, da mafioso non pentito in vena di contrattare a distanza la scarcerazione, di essere stato in affari con Silvio Berlusconi. Cerchio chiuso? Neanche per sogno. Perché sulla strada di un’indagine che finalmente dopo 14 processi sembra aver imboccato la via maestra si innesta la storia della trattativa. Ci credono i pm di Palermo, scettici quelli di Caltanissetta. Complice un clamore mediatico che si trasforma presto in coro da stadio, si finisce per sovrapporre i piani e confondere tutto. Borsellino morto per rimuovere l’ultimo ostacolo al compimento della trattativa Stato-mafia, questa diventa la tesi. Che però le sentenze rendono monca. La mafia trattò ma lo Stato, che pure arretrò davvero sul 41 bis, non rimane traccia. E le manomissioni? E l’agenda sparita? E la pista degli appalti? E il palazzo dei mafio-costruttori Graziano, di fronte al luogo della strage, con terrazzo attrezzato di paratie antisfondamento, ignorato?

Con i boia condannati, al massimo, si inseguono ora i tre poliziotti che per conto di La Barbera imbeccavano Scarantino. Nessuna colpa e, anzi, orizzonti di gloria per tutti quei pm che presero per oro colato le sue panzane. E che non chiesero mai a Tinebra conto del coinvolgimento di Contrada nelle indagini. Coperti da una coltre omertosa di «non ricordo», diventano ombre quanti nel Palazzo vollero Borsellino morto. Non sentendolo in quei 57 giorni e non convocando, dopo, il procuratore Giammanco per chiedergli perché non lo informò dell’allerta su un attentato e lo tenne lontano dalle indagini su Palermo. E perché quella telefonata, il più lugubre dei presagi, proprio il giorno in cui l’avrebbero ucciso.

"Borsellino indaghi su Capaci". Ecco il documento inedito. Felice Manti e Edoardo Montolli il 7 Giugno 2022 su Il Giornale.

Nell'agenda del giudice morto in via D'Amelio l'incontro con l'emissaria del Guardasigilli. La conferma nel dispaccio Usa.

Ci sono tre episodi piuttosto importanti su Giovanni Falcone che Il Giornale è in grado di ricostruire attraverso tre documenti inediti. Persino l'ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, che per scrivere Vita e persecuzione di Giovanni Falcone si è appoggiato alle sue agende ministeriali dell'epoca, intervistato nei giorni scorsi, non ne parla.

Il primo è l'incontro segreto che il magistrato ebbe con Gaspare Mutolo il 16 dicembre 1991 nel carcere di Spoleto. Martelli esclude che Falcone compisse indagini e che probabilmente, dopo averlo sentito, indirizzò l'aspirante pentito, che voleva parlare solo con Falcone, a Paolo Borsellino. Però l'episodio resta controverso. Mutolo dirà, nelle varie versioni che diede di quell'incontro in aula, nelle interviste e nei libri, di avergli fatto il nome di Domenico Signorino (ovvero il pm che aveva chiesto e ottenuto la sua condanna al maxiprocesso) senza suscitare la sorpresa del magistrato, che si rivolse a quel punto al collega Gian Nicola Sinisi dicendogli: «Hai visto?». Eppure questo contrasta con l'approccio di Falcone con gli aspiranti pentiti, se si pensa che sul solo Tommaso Buscetta aveva chiesto 2.600 riscontri prima di credergli. E ancora contrasta con l'agenda elettronica Sharp del giudice, su cui era stato appuntato il numero di casa di Signorino (e Falcone non segnava il numero di casa di tutti i magistrati con cui aveva lavorato). Indagato, Signorino morirà suicida professandosi innocente: «Qualcuno vuole fregarmi», disse all'Unità.

Infine, Falcone era andato a Spoleto proprio su disposizione diretta del capo di gabinetto al ministero della Giustizia Livia Pomodoro, a cui il giorno dopo però scrisse, come si legge nel documento che pubblichiamo: «Non mi è sembrato che il Mutolo sia disposto a una formale collaborazione con l'autorità giudiziaria e non ritengo, quindi, che debba essere informata la magistratura». Verrà invece fuori, ai processi, che Falcone avrebbe poi informato Gianni De Gennaro dell'intenzione di Mutolo di pentirsi e «per le vie brevi» (dirà De Gennaro), il procuratore di Palermo Pietro Gianmanco. Ma perché scrivere l'opposto nella relazione al ministero?

Il secondo dettaglio su cui mancano ancora risposte è il presunto viaggio a Washington di Falcone a fine aprile del 1992, per interrogare Buscetta sul delitto di Salvo Lima e, verosimilmente, sul presunto piano di destabilizzazione dell'Italia di cui era stato messo al corrente il Parlamento e che profetizzava attentati tra marzo e luglio 1992 (tutti puntualmente avvenuti). Un viaggio confermato inizialmente da autorevoli esponenti istituzionali, anche americani, ma sempre smentito da Via Arenula. Tuttavia, mesi dopo questa smentita, l'allora commissario Gioacchino Genchi, che indagava sulle stragi, recuperò il contenuto della seconda agenda elettronica del giudice, una Casio risultata cancellata «in maniera non accidentale» dopo la morte di Falcone e il relativo sequestro: dentro, erano segnati appuntamenti a Washington di Falcone tra il 28 aprile e il 3 maggio (di cui pubblichiamo la schermata), unica discrasia con l'altra agenda elettronica Sharp. Genchi, che aveva acquisito i tabulati di Falcone, si accorse anche, e lo testimoniò in aula, che in quei giorni i cellulari di Falcone non registravano chiamate: e i telefonini dell'epoca, in effetti, all'estero non prendevano. Chiese di acquisire allora le carte di credito di Falcone, per accertare il viaggio, ma trovò la ferma opposizione di Ilda Boccassini, che riteneva quell'accertamento «invasivo». Di certo, nessuno al ministero della Giustizia ha mai chiarito dove si trovasse il giudice più controllato d'Italia per una settimana. Ai processi Liliana Ferraro, che lavorava a stretto contatto con Falcone, elencò una serie di eventi, verificati ma antecedenti al 28 aprile.

Il terzo episodio che Martelli al Giornale definisce una «colossale bufala» riguarda proprio la Ferraro. Nel libro L'Italia vista dalla Cia del 2005, Paolo Mastrolilli e l'attuale direttore di Repubblica Maurizio Molinari, ricorrendo al Freedom of Information Act, raccolsero alcuni documenti riservati dagli archivi federali del College Park, nel Maryland. Tra questi un dispaccio confidenziale dell'ambasciata di Roma del primo giugno del 1992, in cui si sintetizza un incontro che sarebbe avvenuto il 29 maggio tra l'ambasciatore, il ministro Martelli e alcuni membri del suo staff. Precisava che l'inchiesta su Capaci sarebbe passata a Borsellino: «Il ministro ha annunciato che il 30 maggio avrebbe inviato Liliana Ferraro a Palermo per gestire il passaggio dell'intera indagine nelle mani di Paolo Borsellino, viceprocuratore locale e vecchio collaboratore di Falcone», morto in Via d'Amelio. Una morte su cui ancora oggi c'è un processo per depistaggio ad alcuni poliziotti. Martelli nega di aver mai dato tale incarico alla Ferraro, anche perché il 28 maggio era stato nominato Gianni Tinebra procuratore di Caltanissetta. E di un incontro tra Ferraro e Borsellino il 30 maggio 1992 non si è mai parlato in alcun processo.

Ma, dato che Molinari e Mastrolilli non si sono inventati nulla, resta allora da capire il senso del dispaccio. Anche perché, al 30 maggio, giorno in cui Borsellino era certamente a Palermo, sull'agenda grigia del giudice - altro documento finora inedito - dalle 18.30 alle 19.30 c'è un memo: «Morvillo (L. Ferraro)».

Francesco La Licata per “la Stampa” il 19 maggio 2022.

I familiari delle vittime della violenza mafiosa sembrano destinati a dover sopportare un dolore più acuto di quanti abbiano avuto perdite in altri ambiti. Alla ferita del danno subìto, molto spesso si è aggiunta la frustrazione, il senso di impotenza di fronte alla giustizia negata.

E per questo li abbiamo visti sempre in prima linea nella difesa di una memoria che non può essere cancellata perché senza memoria è impossibile la ricerca della verità.

Maria Falcone, sorella e cognata dei due magistrati uccisi a Capaci insieme con tre dei poliziotti di scorta, è certamente tra quelli che questa «missione» la portano avanti da sempre, certamente sin dal giorno in cui il tritolo sull'autostrada le ha aperto un mondo che mai e poi mai pensava di dover conoscere.

Sono passati trent' anni da quel 23 maggio del 1992, un tempo intimamente lunghissimo, ma mai la «professoressa Maria» ha dato segni di stanchezza o di cedimento, anche di fronte all'altalenarsi dell'impegno antimafia di cittadini e istituzioni, anche di fronte alle inevitabili delusioni che una simile battaglia può offrire. Tutto questo segmento di vissuto adesso, Maria Falcone, lo ha voluto «chiudere» in una sorta di diario che racconta la sua «nuova vita», nata dalle macerie di Capaci. Ne è venuto fuori un libro emozionante scritto per Mondadori, con l'aiuto della giornalista Lara Sirignano: «L'eredità di un giudice», «Trent' anni in nome di mio fratello Giovanni». 

E allora, cominciamo dal titolo. Perché questo racconto a distanza di tre decenni?

«Il tempo trascorso mi sembra quello giusto per una riflessione su ciò che è accaduto, a me, alla mia famiglia, alla mia terra e al Paese intero. La storia di Giovanni Falcone non appartiene più soltanto agli affetti familiari, ciò che lui è stato, la sua eredità in termini di esempio, di etica e correttezza istituzionale, è entrata a far parte di un patrimonio collettivo ormai intoccabile. Gli stessi strumenti giuridici lasciati a chi è venuto dopo rappresentano una ricchezza che ci viene invidiata e copiata da molte legislazioni di Paesi anche più progrediti del nostro. Ecco l'eredità del giudice». 

Un ruolo fondamentale in questa difesa della memoria di Giovanni Falcone è da attribuire alla Fondazione nata subito dopo la strage.

«Era troppo fresco il ricordo di quanto aveva dovuto subire Giovanni in vita, ingiustizie, avversione politica e professionale, calunnie e bugie, per non aver chiaro che bisognava costruire una protezione forte alla memoria di mio fratello. La Fondazione nacque per volere dei familiari più stretti e con l'ausilio di poche persone: il ministro Martelli, Liliana Ferraro, il rettore dell'epoca, Ignazio Melisenda, e Giannicola Sinisi che di Giovanni era stato stretto collaboratore al ministero. Passo dopo passo, è diventata un centro di aggregazione di uomini e donne di buona volontà e cuore pulsante di tante attività rivolte alla creazione e al sostegno di una coscienza antimafia».

Lei stessa è stata, per anni, protagonista di un instancabile giro per le scuole d'Italia.

«Sono stata e rimango convinta che una delle battaglie fondamentali da vincere è riuscire a strappare i giovani al fascino della "via breve", dei soldi facili e delle scelte "furbe". E nessuno sa meglio di me quanto difficile e impari sia la lotta contro il fascino del male, specialmente nelle zone più diseredate del nostro Paese».

Immagino sia andata incontro a più d'una delusione.

«Certo: una volta, in una scuola della Campania, si alzò un ragazzino che parlò in difesa della mafia perché, a suo dire, assicurava lavoro e benessere. Disse che la stessa sopravvivenza era garantita dal boss del suo paese. Rimasi per un attimo paralizzata, poi gli spiegai che la sola cosa che i boss potevano garantirgli era il carcere e la morte. Ma è dura contrastare la suggestione della mafia buona». 

Ci saranno stati, però, momenti più esaltanti, vero?

«Nel carcere di Rossano, in Calabria, dove un gruppo di detenuti aveva dipinto ottanta tele e aveva organizzato una mostra dal titolo emblematico: "La riconciliazione è possibile". Il ricavato delle vendite vollero donarlo alla Fondazione, certamente un bel segnale di speranza».

Nel suo libro ricorda i momenti difficili di Giovanni a Palermo e a Roma. I «processi» al Csm, le «bocciature», l'astio dei colleghi e dei politici, il dolore terribile di quel 23 maggio dopo l'illusione della vittoria in Cassazione che confermava le condanne di primo grado al maxiprocesso. Un racconto davvero faticoso e doloroso.

«Neppure dopo la sua morte, si rassegnarono gli sciacalli. Anche cercando di disperdere quanto di buono il pool antimafia aveva creato in Sicilia e quanto Giovanni aveva reso "sistema" stando agli "affari penali" del ministero. Da vivo aveva subìto attacchi anche da persone insospettabili: Sciascia con la polemica sui professionisti dell'Antimafia (con lo scrittore però si chiarì) e Orlando che lo accusò di tenere le carte nei cassetti, come se mio fratello volesse nascondere la verità per mire politiche. Per non parlare degli attacchi sul Giornale di Sicilia e le critiche di semplici cittadini che lamentavano il continuo via vai di sirene della sua scorta».

Poi fu accusato di essersi venduto alla politica.

«Già. Io poi ho avuto contatti con alcuni politici e non sempre felici. Ricordo una lettera di Cossiga che, senza neppure troppa reticenza, mi consigliava di non andare oltre nella mia richiesta di essere ascoltata dal Csm e una risposta di Andreotti di cui avevo sommessamente sottolineato l'assenza ai funerali di Giovanni in contrapposizione con i funerali di Salvo Lima, dove invece era andato pure per difenderne l'onore macchiato dai sospetti di contiguità con la mafia. Andreotti mi scrisse quasi rimproverandomi di essermi prestata a una strumentalizzazione antidemocristiana. Cose da pazzi».

E la sinistra?

«Ricordo gli attacchi a Giovanni di grandi nomi della sinistra: Augias durante la trasmissione di Babele, la recensione di Sandro Viola su La Repubblica che gli rimproverava di aver scritto Cose di Cosa nostra quasi a voler chiedere: ma chi si crede di essere? E poi l'attacco di Pizzorusso che lo bocciava come candidato alla Procura nazionale perché troppo intimo di Claudio Martelli. Io stessa, in anni più recenti, ero stata convinta da Valter Veltroni a candidarmi nel Partito democratico. Misteriosamente, però, quando fu resa pubblica la lista dei candidati non conteneva il mio nome». 

Per concludere, prof. Maria Falcone, non mi sembra sia molto presente dalle nostre parti una cultura dell'antimafia.

«Mi duole ricordare come, mentre in Italia si cercava di dimenticare il nome di Giovanni Falcone, negli Usa veniva eretto un busto nell'atrio della sede principale dell'Fbi. E quando chiesi al direttore della polizia federale cosa rappresentasse Giovanni per loro, mi rispose: "La personificazione del senso dello Stato". Atteggiamenti distanti dalla nostra politica. Ripenso, e finisco, a una riunione a Palermo nel terzo anniversario della strage per parlare di azioni di contrasto alla mafia. Invitammo, insieme con i leader di tutti i partiti, Silvio Berlusconi che rispose di non poter venire ma avrebbe mandato al suo posto l'avv. Previti. Non accettammo la sostituzione perché c'è un limite a tutto e così Berlusconi si liberò dagli impegni e venne».

“Falcone era un magistrato con la M maiuscola, non cercava popolarità”. Edoardo Sylos Labini su Culturaidentita.it il 19 Giugno 2022

Dalla banda della Magliana a Corleone l’ex colonnello che lavorò fianco a fianco con Falcone si racconta

Una vita spesa per la ricerca della verità e la difesa della giustizia, contro qualsiasi forma di criminalità, in Italia ed all’estero. Angelo Jannone è autore di numerose indagini su Cosa Nostra, ‘ndrangheta, narcotraffico internazionale, riciclaggio e corruzione. Queste vicende sono raccontate senza enfasi, ma con molta umiltà e umanità, nel romanzo autobiografico Un’arma nel cuore, edito da Gambini Editore. A poca distanza dal 208° anniversario della fondazione dell’Arma dei Carabinieri, con le celebrazioni in tutta Italia il 6 giugno, abbiamo posto alcune domande al Colonnello Jannone, molto noto tra i carabinieri e la gente. 

Dottor Jannone, Lei a soli 27 anni ha comandato la compagnia carabinieri a Corleone e ha condotto indagini insieme al simbolo per eccellenza dell’eroismo anti mafioso, Giovanni Falcone. Perché un giovane sceglie di impegnarsi nel contrasto alle mafie?

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, per noi giovani dell’epoca, era un esempio. Gli esempi ed i modelli sono importanti. Prima di Corleone ero a Roma, realtà altrettanto difficile con la banda della Magliana e le rapine, ma scalpitavo per andare in Sicilia. E l’Arma mi accontentò.

Ha condotto indagini anche a fianco di Giovanni Falcone. Cosa le ha dato in termini umani e professionali questo rapporto?

Giovanni Falcone era già per me un mito. Stare al suo fianco mi dato molto. Ma soprattutto mi ha fatto capire cosa significa essere Magistrati, con la M maiuscola. Il suo rispetto per le regole era raro ed esemplare. Lui non cercava popolarità.

Sa meglio di chiunque altro che la verità è spesso scomoda, come si evince dalla sua esperienza nell’Arma e come dirigente Telecom. A causa delle sue attività da dirigente in Sud America per Telecom Italia è stato accusato di controspionaggio e successivamente assolto da ogni accusa. É forse il prezzo che ha pagato per portare avanti la giustizia a ogni costo?

Da decenni nessuna mafia ammazza uomini dello Stato. Hanno compreso, mafie di ogni genere, che qualche schizzo di fango e qualche ferita all’onore possono essere molto più efficaci. Ed una Giustizia che si presta a ciò non rende un buon servizio alla sua stessa credibilità, perché l’opinione pubblica non distingue più chi è buono e chi è cattivo. La vicenda Telecom sarebbe tutta da riscrivere. Io servivo in una veste diversa una struttura strategica del Paese con lo stesso spirito con cui ho fatto il carabiniere e ho semplicemente fatto ciò per cui venivo pagato: difendere l’azienda da banditi, faccendieri e corrotti che la stavano depredando. Gli interessi in gioco erano di miliardi, cifre da far impallidire Cosa Nostra. Le invidie hanno fatto il resto. Ma la Procura di Milano aveva preferito credere a discutibili personaggi, piuttosto che studiare le carte del processo e quelle da me stesso messe a disposizione. E così ho dovuto subire l’onta di un lungo processo, conclusosi per me già nel primo grado: 7 anni. Mi dispiace che vi siano ancora oggi quotidiani, come la Nazione, che cercano di riproporre in maniera capziosa questa storia nel tentativo di infangare la mia immagine (“coinvolto in passato nello scandalo dei dossier Telecom”) e solo per chiari obiettivi politici. Ma tendo loro la mano. E’ il mio stile. 

Un’arma nel cuore è una espressione che racconta il suo amore per la sua professione, ma è anche il titolo del suo recente romanzo autobiografico. Come e perché ha deciso di raccontarsi?

Un’arma nel cuore è un libro di ricordi ed è dedicato ai tanti collaboratori che ho avuto l’onore di avere alle dipendenze durante gli anni trascorsi nell’Arma. E’ il tentativo di descrivere lo spirito che animava i Carabinieri dal profondo sud al profondo nord, in un mondo che è la nostra storia recente ma che pare antico. Ed è una storia di criminali e di sbirri, di uomini veri e uomini falsi.

All’uscita di questo libro non ha temuto qualche ripercussione personale, per aver reso pubbliche vicende e indagini delicate, tra cui l’esperienza da infiltrato?

Ho sempre pensato che, trattandosi di storie pubbliche, nel senso che fanno riferimento a processi passati, non ci fosse alcun rischio. Ma di recente ho avuto qualche motivo per credere che non sia più così. Ma preferisco non parlarne.

In congedo come ufficiale, oggi è presidente di numerosi organismi di vigilanza, manager e consulente presso numerose società per le quali si occupa anche di cyber security. Come si può conciliare l’impulso all’innovazione digitale con valori portanti e anche tradizionali come quelli dell’Arma?

L’Arma è in questo un esempio: capacità di coniugare innovazione tecnologica con tradizione. E’ sempre stata la sua forza.

Claudio Martelli: Falcone ballava da solo. Enrico Del Mercato su La Repubblica il 20 Maggio 2022.

A trent'anni da Capaci l'ex ministro della Giustizia ricorda le "persecuzioni" di cui fu vittima il magistrato palermitano. "La mafia lo uccise, ma altri glielo consegnarono". Intervista

La prima volta che Claudio Martelli incontrò Giovanni Falcone fu in un giorno di aprile del 1987 al palazzo di Giustizia di Palermo. Si sarebbero rivisti, l'allora vice segretario del Psi e il giudice che aveva fatto cadere il velo sui segreti e sui capi di Cosa nostra, nei primi mesi del 1991, quando Martelli - che nel frattempo era diventato ministro della Giustizia - chiamò  Falcone a collaborare con lui.

Quei silenzi sugli errori delle toghe. Claudio Brachino il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.

Falcone fu certamente ucciso dalla mafia, ma non è tutto. È su quel corsivo che in ogni ricorrenza si esercita una sorta di immaginario investigativo, anche di alto livello, che rischia però di confondere l'opinione pubblica.

Falcone fu certamente ucciso dalla mafia, ma non è tutto. È su quel corsivo che in ogni ricorrenza si esercita una sorta di immaginario investigativo, anche di alto livello, che rischia però di confondere l'opinione pubblica. Il tema è sempre lo stesso, la presenza di un livello insieme più alto e più profondo della fenomenologia mafiosa in quanto tale. Come dire, per «decidere» di uccidere un magistrato che era già un mito mondiale, ci voleva qualcosa di più, la complicità politica di pezzi di Potere deviato. Ho messo decidere tra virgolette perché in altri omicidi eccellenti, vedi John Kennedy, la mafia era presente e ne traeva vantaggi vista la battaglia del fratello Bob contro di lei, ma era «manovalanza» rispetto a una sentenza di morte stabilita ad altri livelli.

A Capaci il manovale della morte, Brusca, prende ordini dalla cupola di Riina e Provenzano, ma non ci sono prove che quei boss passarono alla strategia dello sterminio contro lo Stato con la complicità esplicita del cosiddetto «terzo livello». L'analisi storica ci dice invece che le coperture istituzionali malate su cui Cosa nostra aveva contato negli ultimi anni erano saltate, che il maxiprocesso fu un colpo duro, che la strategia dei pentiti, Buscetta in testa, teneva, che le novità investigative di Falcone, centralizzare i dati in strutture coordinate e seguire i movimenti del capitalismo finanziario mafioso, erano capisaldi raffinati di un lotta nuova alla malavita.

E qui spunta l'altra mitologia di ogni ricorrenza, quella di Falcone isolato. Ma da chi? Dai media, dalla politica, dall'antropologia del potere locale, il cosiddetto Partito siciliano come lo chiama Martelli che ho intervistato sul libro che ha dedicato al magistrato dal titolo inequivocabile, Vita e persecuzione? Alla fine si scopre che a isolare Falcone furono soprattutto i suoi colleghi, non tutti certo, soprattutto quelli delle massime istituzioni della magistratura dell'epoca. Come fa il Csm a preferirgli come capo dell'Ufficio istruzione di Palermo un uomo più anziano ma all'oscuro della mafia come Meli? Invidia, conflitto narcisistico, incomprensione storica, va bene tutto, ma sul piano oggettivo un grave errore nella lotta alla mafia. Falcone amareggiato fugge a Roma e proprio sotto la protezione di Martelli fa ancora cose importanti e durature per sconfiggere il Mostro, dalla Dia, alla superprocura, alle leggi sui collaboratori di giustizia. Il paradosso è che il premier di Martelli fu, per un periodo, proprio quell'Andreotti sulla cui ombre sono stati scritti, come si dice, fiumi di parole.

Sugli errori interni della magistratura invece si è scritto poco, troppo poco. E si capisce perché, basta piombare ai giorni nostri per vedere quello che succede con riforma e referendum. Tutto tace, o quasi.

Claudio Martelli: «Quella strategia contro Giovanni Falcone per fermare la sua lotta alla mafia». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022.

A bordo del piccolo aereo che li stava trasportando dall’altra parte del mondo, l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli si era appena appisolato, quando fu svegliato dal respiro affannato e ansimante di Giovanni Falcone. Lo vide paonazzo in volto e temé che si stesse sentendo male. «Tutto bene?», gli chiese preoccupato. «Sì sì, sto solo facendo esercizi», rispose il magistrato. «Contraeva e rilasciava i vari muscoli del corpo, era il suo modo di tenersi in forma nella vita blindata che lo costringeva a muoversi poco e rinunciare allo sport; soprattutto il nuoto e il canottaggio, che amava moltissimo», ricorda Martelli, che a trent’anni dalla strage di Capaci ha scritto un libro, pubblicato da La nave di Teseo, dal titolo più che esplicito: «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone». Al magistrato che l’allora ministro socialista chiamò al suo fianco come direttore degli Affari penali, piaceva pure guidare la macchina. E così il 12 marzo 1992, giunto a Palermo subito dopo l’omicidio di Salvo Lima, si fermò in aeroporto ad aspettare Martelli, in arrivo dal Nord Italia. E salendo in macchina col ministro, si mise al volante: «Gli chiesi “ma perché?”, e lui: “Tranquillo, è più sicuro”. Allora, come per ripicca, mi sedetti dietro, e finì a ridere».

L’omicidio Lima

Il delitto Lima, invece, non faceva ridere Falcone. Per niente. L’assassinio del referente siciliano del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, molto chiacchierato per i presunti rapporti con la mafia, segnò l’inizio della stagione del fuoco mafioso dopo la sentenza della Cassazione che aveva confermato l’impianto del maxi-processo istruito proprio da Falcone e dal pool antimafia. «Dopo l’omicidio — racconta Martelli — mi disse con aria preoccupata: “Adesso può succedere di tutto”. E in precedenza, quando gli avevo chiesto se Lima fosse mafioso come si vociferava, mi rispose: “Questo non posso dirlo. Aveva dei rapporti con la mafia di Bontate, ma non era un affiliato”. Evidentemente era quanto gli aveva riferito Buscetta, e lui è sempre stato molto scrupoloso prima di trasformare le affermazioni in accuse». In effetti, dopo la morte di Lima, trent’anni fa successe davvero di tutto.

La strage di Capaci

Compresa la strage di Capaci che uccise Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo. Ma prima dell’attentato mafioso, Falcone dovette subire attacchi e accuse dall’interno del mondo istituzionale. Cominciando proprio dalla magistratura che all’inizio del 1988, dopo la sentenza di primo grado del «maxi», gli negò la nomina a consigliere istruttore di Palermo. «Fu una decisione gravissima — dice oggi Martelli — perché non si trattò solo di una bocciatura bensì di una retrocessione. Al suo posto fu scelto un magistrato più anziano, Antonino Meli, che non s’era mai occupato di mafia, con l’obiettivo di distruggere l’opera di Falcone, attraverso lo smembramento delle inchieste antimafia e la negazione della struttura unitaria e verticistica di Cosa nostra. Additando lui come un’anomalia da rimuovere. Non a caso, dopo la bocciatura, Falcone disse a chi l’aveva sostenuto inutilmente nel Csm: “Mi avete crocifisso, mi avete consegnato alla mafia”».

L’amarezza

Dietro quell’operazione, secondo l’ex ministro, non c’erano solo invidie e gelosie professionali per un magistrato ingiustamente accusato di arrivismo e protagonismo, ma una raffinata «strategia per distruggere il suo lavoro». Da parte di chi? «Del partito del potere siciliano, di cui la magistratura era una componente. E poi pezzi di politica e dell’imprenditoria. Del resto, tutto comincia con il procuratore generale che nel 1982 va da Rocco Chinnici, allora capo di Falcone, per chiedergli di fermare quel giudice che metteva in pericolo l’economia locale. Bisognava mantenere il quieto vivere con la mafia. Ed è una cosa che io ho rivissuto nel 1992, prima e dopo la strage, quando sentivo dire: ma che pretesa è quella di fare la guerra alla mafia? Perché?». Già.

Al ministero

Perché Martelli chiamò Falcone al ministero e mise al primo posto della sua missione di Guardasigilli la battaglia contro le cosche? «Perché altrimenti non avrebbe avuto senso accettare di fare il ministro della Giustizia, ero già vice-presidente del Consiglio. Falcone l’avevo conosciuto nel 1987 a Palermo, e decisi di averlo al mio fianco per far diventare la lotta alla mafia non un’emergenza bensì una regola. Attraverso leggi che codificassero l’esperienza che lui aveva maturato con le sue indagini. E Giovanni accettò». Il giudice ha pagato anche quella scelta, «nonostante la decisione della mafia di ucciderlo risalisse al periodo precedente. Ma pensavano che con il trasferimento a Roma se ne fossero liberati. Invece, come ha detto Totò Riina nei suoi dialoghi intercettati, li contrastava anche da lì. E più di prima». Ma anche a Roma, dove aveva creato la Procura nazionale antimafia e s’era candidato a guidarla, per tornare a fare indagini sulla mafia, Falcone trovò nuovi ostacoli nella sua stessa categoria. Il Consiglio superiore della magistratura si stava preparando a scegliere un altro nome per quel posto. La bomba di Capaci arrivò alla vigilia del voto, e dopo la strage — ricorda Martelli — ci fu chi immaginò una smobilitazione anche al governo: «La rimozione di Enzo Scotti da ministro dell’Interno da parte della Dc per me resta inspiegabile, e tentarono anche con me. Il neo-presidente del Consiglio Giuliano Amato mi disse che Craxi, segretario del mio partito, non mi voleva più alla Giustizia, offrendomi la Difesa. Risposi che o rimanevo lì o sarei uscito dal governo. Mi lasciarono dov’ero. Lo dovevo a Giovanni Falcone. In quel periodo al ministero l’ho visto felice, perché stava realizzando quello che pensava di dover fare. Per lo Stato».

Loro sanno perché è stato ucciso...Giovanni Falcone e la lettera che lo affossava: qualcuno in Procura non pianse per la sua morte. Leonardo Berneri su Il Riformista il 22 Maggio 2022. 

«Fu un colpo veramente che … Minchia Salvatore te l’ha combinata …. Salvatore …». È Totò Riina che parla, e lo fa riferendosi all’attentato di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone. Poi aggiunge: «Salvatore … il piccolo cosi…si è messo a fare… ride … Minchia si è messo a fare … se sapevo fare il costruttore. Ti chiudo là dentro … anche per questo è successo, è successo … è successo». Sono le intercettazioni del 2013 di quando il “capo dei capi” era al 41 bis. Sono le sue parole dove ammette la responsabilità della strage, ma soprattutto si intravvede il motivo già cristallizzato nelle sentenze di Capaci e Capaci bis: vendetta per l’esito del maxiprocesso (Riina ne parla diffusamente durante l’ora d’aria al 41 bis) e “cautela preventiva” per quanto riguarda l’indagine mafia – appalti.

La strage avvenuta trent’anni fa, -nella quale furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie e collega Francesca Morvillo, la scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo, Vito Schifani – è uno dei più gravi episodi delittuosi della storia italiana. È rimasta scolpita nella memoria collettiva e ha segnato uno dei momenti più drammatici della strategia del terrorismo mafioso, ma anche un punto di svolta nella coscienza civile del Paese e nell’azione dello Stato contro la criminalità organizzata. Questa impresa criminosa, che per “Cosa Nostra” doveva rappresentare l’espressione della massima potenza, costituì, in realtà, l’inizio della fine di un’epoca nella quale la mafia dei “corleonesi” poteva contare su un solido rapporto di alleanza e cointeressenza con numerosi settori del mondo sociale, dell’economia e della politica.

L’attentato si verificò il 23 maggio 1992, alle ore 17.56, per effetto di una potentissima e devastante carica di esplosivo, collocata sotto la carreggiata 87 dell’autostrada A/29, presso il km 4 +773 del tratto Punta Raisi-Palermo, in prossimità di Capaci. A metà strada tra l’aeroporto e la città. Gli effetti dello spostamento d’aria provocato dallo scoppio dell’esplosivo furono registrati dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento) attraverso un aumento di ampiezza del segnale ad alta frequenza avente la forma tipica dell’esplosione. I primi soccorritori ebbero modo di constatare che tutti gli occupanti della Fiat Croma di colore bianco erano in vita: Francesca Morvillo respirava ancora, pur se priva di conoscenza, mentre Giovanni Falcone mostrava di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli venivano dai soccorritori. Tuttavia, malgrado gli sforzi profusi da costoro, e poi dai sanitari, entrambi i magistrati spirarono in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione.

Tutte le sentenze riguardanti la strage di Capaci, hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa Nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti. C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze- in Cosa Nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).

In maniera del tutto pertinente al tema, Siino ha rievocato l ’esternazione pubblica di Falcone, avente ad oggetto il fatto che la mafia era entrata in Borsa; dichiarazione che aveva mandato su tutte le furie Antonino Buscemi, il quale, sentendo quelle parole, gli aveva manifestato la convinzione che il magistrato avesse compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi «c’era effettivamente Cosa Nostra». Senza parlare del pentito Nino Giuffrè che parla esplicitamente del rapporto mafia- appalti e di come mise in allarme tutta Cosa Nostra e il mondo politico – imprenditoriale. Da una parte la “pericolosità” di Falcone per quell’indagine, dall’altra l’isolamento da parte di un gruppo consistente della magistratura stessa. Il giudice Antonio Balsamo, nelle motivazioni del Capaci-Bis, scrive che alla eccezionale statura professionale e intellettuale di Falcone non faceva riscontro, purtroppo, un impegno in suo favore di tutte le forze sociali e di tutte le realtà istituzionali, come sarebbe stato logico attendersi in un momento nel quale la sfida mafiosa era particolarmente elevata.

«Il contesto descritto dalle fonti di prova esaminate – scrive duramente il giudice Balsamo – è, invece, quello di una convergenza, in parte dimostrata e in parte soltanto ipotizzata (sia pure sulla scorta di elementi oggettivi), tra forze mafiose e forze esterne; una sinergia che si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Giovanni Falcone». Ed è proprio alla base di questa campagna di delegittimazione che vi era una precisa consapevolezza del pericolo che l’attività di Giovanni Falcone rappresentava non solo per “Cosa Nostra”, ma – aggiunge sempre Balsamo – «anche per una molteplicità di ambienti economico-politici abituati a stabilire rapporti di reciproco tornaconto con l’organizzazione criminale, a partire dal settore degli appalti e delle forniture pubbliche». Nel corso del processo Borsellino Quater, quello che svelò il depistaggio sulla strage di Via D’Amelio, ritorna come oggetto il dossier mafia appalti redatto dagli allora Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno su impulso di Falcone stesso.

Ebbene, di particolare rilevanza, è stata la testimonianza dell’ex guardasigilli Claudio Martelli. I fatti riguardano quando Falcone cominciò a lavorare con lui al ministero della giustizia. Nell’estate del 1991, nel pieno del segreto istruttorio, l’allora procuratore capo Pietro Giammanco inviò il plico del dossier mafia appalti non solo al ministero della giustizia, ma anche al Presidente della Repubblica e a quello del Consiglio. Falcone si arrabbiò. Martelli, durante l’udienza del Borsellino Quater, riferisce le sue parole: «Ma come è possibile? Quando stavo alla Procura e questo materiale avrebbe richiesto degli approfondimenti pazienti, accurati e questo non mi è stato consentito di farlo dal mio superiore? Dopodiché io non ci sono più e lui lo manda sui tavoli dei politici più importanti del Paese?». Il resto della storia la racconta Liliana Ferraro, recentemente scomparsa. Oltre ad essere legata a Falcone da una sincera amicizia, lavorava con lui nell’ufficio del ministero. Falcone le disse di chiudere il plico del dossier e rispedirlo immediatamente al mittente. Contestualmente le dettò due note, una indirizzata al Csm e l’altra alla Procura di Palermo.

Quest’ultima fu firmata da Martelli e inviata all’attenzione di Giammanco. La lettera è del 23 agosto 1991. Poco tempo prima la procura chiese la custodia cautelare per soli cinque soggetti su una posizione di 44 persone attenzionate. Ci furono polemiche, perfino Falcone – così testimoniò a verbale sia Martelli che la giornalista Milella – si indignò dicendo che «hanno voluto salvare delle persone». Per la prima volta un giornale, Il Riformista, rende pubblica la lettera. «Nel rilevare la singolarità dell’inoltro, con appunto privo di sottoscrizione e di data, di atti coperti da segreto – si legge in un passaggio della nota indirizzata al capo procuratore di Palermo -, per parte mia posso solo esprimere l’avviso che tutte le indagini necessarie ed opportune devono essere prontamente ed efficacemente svolte, con riguardo ad ogni aspetto, incluse le eventuali responsabilità impegnate in attività politiche».

La lettera, ricordiamo, è stata preparata dalla Ferraro sotto dettatura di Falcone. A tal proposito, lei racconta che Borsellino – esattamente il 28 giugno 1992 in aeroporto – le disse di rievocargli in maniera approfondita quell’episodio. Si, perché Falcone stesso ne aveva già parlato con lui. «Loro due – racconta la Ferraro al processo Borsellino Quater – ne avevano parlato, perché un giorno che loro stavano parlando a telefono, Paolo era appena arrivato a Palermo e Giovanni era a Roma, io ero entrata nella stanza… nell’ufficio di Giovanni e Giovanni gli aveva detto: “Ecco, anche Liliana, per quel poco che ha visto, ha capito che era una cosa anomala e che non doveva essere inviata al Ministero di Grazia e Giustizia”». Leonardo Berneri

 

Giovanni Falcone, il giudice Carnevale: "Lotta alla mafia? No, a cosa puntava davvero". Libero Quotidiano il 23 maggio 2022

"Esaltato oltre i suoi meriti". Nel giorno del trentennale della strage di Capace, Giovanni Falcone viene ricordato così da Corrado Carnevale, ex presidente della prima sezione penale della Cassazione. Ed è di nuovo un'onda di veleni a travolgere le Procure anti-mafia italiane. Intervistato dall'agenzia Adnkronos, la toga nota come "giudice ammazza-sentenze", processato per concorso esterno in associazione mafiosa e assolto con formula piena, torna a tuonare contro Falcone, ucciso da un attentato di Cosa Nostra insieme a moglie e agenti della scorta il 23 maggio del 1992.

"Falcone era considerato il magistrato antimafia per eccellenza. Non credo che fosse l'unico. Né l'unico né il più importante". Inizialmente, spiega Carnevale riguardo al magistrato, "è stato amato, poi quando si accorsero che forse il suo entusiasmo, la sua campagna ideologica non erano tutte disinteressate ma ispirate dal desiderio di fare carriera, allora nell'ambiente cominciò a decadere nella considerazione almeno di una parte dell'opinione pubblica. Era inevitabile che questa sua campagna ideologica gli portasse dei nemici, anche se non credo che Falcone avesse tutti questi nemici di cui si parla. Aveva i suoi esaltatori e i suoi critici, come accade per qualunque persona. Ma quello che vorrei dire è che Falcone è stato esaltato al di là dei suoi meriti effettivi". 

Per anni Carnevale è stato dipinto quasi come l''avversario' di Falcone, che in Cassazione assolveva ingiustamente i mafiosi. Fra le molte tesi c'è quella che vede Totò Riina convinto che le condanne emesse nel Maxiprocesso sarebbero state ribaltate proprio dal giudice Carnevale in Cassazione, circostanza che non si verificò, sostengono i detrattori del giudice, solo perché venne decisa una rotazione nell'assegnazione dei processi di mafia facendo in modo che non finissero sempre alla prima sezione presieduta da Carnevale. "Io ho sempre cercato di avere una stella polare - insiste Carnevale - quella di applicare la legge, che non può non essere applicata a tutti i cittadini, quindi anche Falcone aveva gli stessi diritti che avevano gli altri cittadini. Se in un ordinamento democratico non esiste l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, veramente c'è da restare trasecolati. E io ho sempre sostenuto questo, che ogni cittadino, anche il peggiore dei mafiosi, davanti al giudice ha gli stessi diritti e gli stessi doveri di ogni altro". "Rifarei senz'altro tutto quello che ho fatto da presidente di sezione di Cassazione - conclude -, non sono un 'pentito'". 

Di fronte a queste parole, è durissima la reazione di Maria Falcone, sorella di Giovanni: "Carnevale non ha ancora imparato a tacere. Ricordiamo tutti le sue sgradevoli e ingiuriose parole nei confronti di Giovanni intercettate dagli inquirenti. Ricordiamo quando lo definiva 'un cretino'. Ma al di là degli insulti di un uomo che passerà alla storia solo come l'ammazza-sentenze, resta il fatto che grazie al lavoro di mio fratello sono finiti in carcere con condanne definitive centinaia di mafiosi come mai prima. Lui può vantare solo assoluzioni e scarcerazioni. In una giornata in cui da tutto il mondo sono stati tributati a Giovanni riconoscenza e affetto, parole simili pronunciate da una persona del genere per noi equivalgono a una medaglia".

Così Falcone parlava di sé della mafia e del «contesto». In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, ...Panorama il 24 maggio 2022.

Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto» (Di mercoledì 25 maggio 2022) In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, il 23 maggio 1992, il celebre magistrato parla a ruota libera, come mai prima. E quello che emerge, dai contrasti con i colleghi alle critiche da parte dei (tanti) politici di allora, dalla mentalità degli «uomini d’onore» a come si combatte Cosa nostra, se si vuole farlo davvero, non solo è ancora terribilmente valido. Ma rende insopportabile tutta la retorica che, come sempre, ha travolto l’anniversario della sua morte.

Esclusivo. Così Falcone parlava di sé, della mafia e del «contesto» Da Italia Libera Stampa BY AMNON JAKONY il 25 maggio 2022 su thedailyreformer.com. 

In questa confessione-fiume resa trent’anni fa al giornalista di Panorama prima della strage di Capaci, il 23 maggio 1992, il celebre magistrato parla a ruota libera, come mai prima. E quello che emerge, dai contrasti con i colleghi alle critiche da parte dei (tanti) politici di allora, dalla mentalità degli «uomini d’onore» a come si combatte Cosa nostra, se si vuole farlo davvero, non solo è ancora terribilmente valido. Ma rende insopportabile tutta la retorica che, come sempre, ha travolto l’anniversario della sua morte.

Chi erano i suoi veri nemici? E chi ha tentato di cavalcarlo? In questa straordinaria confessione era lui stesso a rivelarlo. Stroncando le polemiche di oggi. Un giorno ho visto Leoluca Orlando, gli ho chiesto: come va? «Se tutto va bene» ha detto «siamo rovinati». È andato tutto bene. Giovanni Falcone era morto da cinque minuti, e si sentivano le prime fesserie. Prima lo accusavano di essere colluso con il potere: per questo, dicevano, non è stato ancora ammazzato. Ora gli stessi dicono: l’hanno ammazzato perché ignorava la pista politica, quella del potere. Stavo scrivendo un libro, anzi: lo sto ancora scrivendo. È un libro sulla storia del pool antimafia e della Squadra mobile di Palermo, Falcone e Ninni Cassarà. Si chiamerà I disarmati (Mondadori). Per un anno ho vissuto con i poliziotti e i giudici siciliani, e sono diventato vagamente sbirro. Ciò che segue è una piccola parte di quanto Falcone aveva da insegnare al tempo della sua battaglia contro il Csm e Antonino Meli, consigliere istruttore di Palermo. Per non ucciderlo due volte, mi piacerebbe che lo ascoltassero oggi. «Formalmente, non esiste più un pool. Ci sono processi assegnati singolarmente, e basta».

«Perché?». Falcone alza le sopracciglia. «Perché c’è lui». Meli. «D’altra parte, il riflusso era ampiamente previsto. Buscetta mi disse: prima cercheranno di distruggere me, poi lei. Ma non credo che ci sia chissà quale disegno: non credo alla dietrologia. Mi sembra più semplice: c’è un’obiettiva difficoltà a comprendere il nuovo. Le mie dimissioni nascevano da questo: se fare questo tipo di attività crea disturbo, tanti saluti. E quando si afferma che Borsellino dice sciocchezze, allora diventa anche un dovere morale. Quello che abbiamo fatto assieme non era niente di nuovo: era esattamente ciò che altri fecero in tema di terrorismo. Solo che qui c’era l’immobile clima siciliano. Non è vero che noi abbiamo fatto la differenza: è che nel Paese dei ciechi, beati i monocoli. E costretto a rientrare nei ranghi perché non ne ero mai uscito: questa è la realtà. Quando tutto viene sbriciolato e Borsellino viene linciato, mi sono limitato a dire: fare il magistrato non è un’investitura divina, né un fatto personale: se si creano le condi­zioni per lavorare, se le istituzioni garantiscono, vado avanti; se no, via.

«Il fatto è che il sedere di Falcone ha fatto comodo a tutti. Anche a quelli che volevano cavalcare la lot­ta antimafia. In questo, condivido una critica dei conservatori: l’anti­mafia è stata più parlata che agìta. Per me, meno si parla, meglio è. Ne ho i coglioni pieni di gente che giostra con il mio culo. La molla che comprime, la differenza: lo dicono loro, non io. Non siamo un’epopea, non siamo superuomini: e altri lo sono molto meno di me. Sciascia aveva perfettamente ragione: non mi riferisco agli esempi che faceva in concreto, ma più in generale. Questi personaggi prima si lamentano perché non ho fatto carriera; poi, se mi presento per il posto di procuratore, cominciano a vedere chissà quali manovre. Gente che occupa i 4/5 del tempo a discutere in corridoio; se lavorassero, sarebbe molto meglio. Nel momento in cui non t’impegni, hai il tempo di criti­care: guarda che cazzate fa quello, guarda quello che è passato al Pei, e via dicendo. Basta, non è serio. Lo so di essere estremamente impopo­lare, ma la verità è questa».

«Sono convinto che ci sia bisogno di una visione più duttile: non è tutto in bianco e nero. Quando si cominciò a lavorare sui Salvo, Rocco Chinnici voleva bruciare le tappe, e alla fine dei conti io risultavo quello che non voleva mai arrestare, che diceva: stiamo attenti, andiamoci adagio, vediamo la rete delle connessioni. Bruciare le tappe a volte ti fa andare indietro, io esorto tutti alla prudenza, non si possono affrontare questi problemi se non vi è una società che lo vuole. Ma tutto ciò non viene compreso, avviene il contrario: si azzerano i tentativi di andare avanti. Del resto, è già un enorme risultato essere ancora qui, anche se nel contingente non lo si nota. Si è gridato allo scandalo per le assoluzioni del Maxi-ter: trascurando i sei ergastoli confermati. Bene. Andate a prendere le sentenze degli anni Settanta, poi mi dite. Questi erano i padroni di Palermo, godevano di una sostanziale impunità; si è creata un’inversione di tendenza. E nessuno ci ha potuto accusare di leggerezza, nessuno ha detto: aria fritta, panna montata. Al massimo, si è invocato un certo garantismo. Questi sono risultati. Non si potrà tornare indietro. L’importante è creare una struttura in cui nessuno potrà accusare altri di essere un centro di potere».

IL POTERE DI CHI NON HA POTERE

«Un altissimo magistrato, parlando di me, disse a Chinnici: riempilo di processetti, così non rompe. Il discorso del centro di potere è sbagliato nell’impostazio­ne: qualsiasi processo mi si dia, anche uno solo, mi consente di arrivare dovunque. E non perché io sia parti­colarmente bravo, ma perché le indagini sono così com­plicate che hai bisogno del quadro generale. Io sono arriva­to al maxiprocesso con l’omicidio di Alfio Ferlito. Faceva parte di un gruppo della mafia catanese in opposizione a Nitto Santapaola, venne ucciso nel giu­gno ‘82 a Palermo: era la prova evidente che c’erano rapporti tra la mafia catanese e quella palermitana. Ma per in­quadrare un omicidio devi inquadrare i collegamenti, e allora diventano impor­tanti le conoscenze».

«Prima cosa, la zona dell’omicidio: Partanna. Mettiamo sotto controllo i telefoni dei personaggi locali, in parti­colare Riccobono. Cominciano a emer­gere i collegamenti: con Gaspare Mutolo, Domenico Condorelli, Domenico Russo. E soprattutto, viene fuori un traffico di stupefacenti di dimensioni straordinarie, che fa capo alla Thailan­dia, a Koh Bah Kin. Cominciano a essere arrestati i corrieri, e uno di loro, Francesco Gasparini, arrestato in Francia, collabora: ci parla dei canali della droga a Palermo. Contemporaneamente, facciamo indagini sul Kalashnikov che ha ucciso Ferlito, e che allora era un’arma nuovissima: lo compariamo con altri episodi, l’omicidio di Inzerillo, di Bontade, la presunta rapina alla gioielleria Contino, il tentato omicidio di Contorno, l’omicidio Dalla Chiesa. Dalle perizie emerge che in tutti questi episodi è stato usato lo stesso Kalash­nikov, e per Ferlito e Dalla Chiesa se n’è aggiunto un secondo. A questo punto è chiaro che tutti i fatti vanno esaminati congiuntamente, sono legati uno all’altro, ed è chiaro anche come si crea il processo monstre: ma è l’unica maniera, altrimenti non cavi un ragno dal buco».

«È il fenomeno che è mostruoso e che comporta questi risultati: non sono io l’accentratore. Non l’ho inventata io, la mafia. Certo, se vogliamo dire che l’informazione è potere, va bene, il risultato è un centro di potere. Ma chiunque abbia un lavoro specializzato e lo sappia fare bene è un centro di potere. Il bravo chirurgo è un centro di potere, chi spegne i pozzi di petrolio è un centro di potere: più è sofisticato il bagaglio culturale, più diventi centro di potere. La garanzia, per me, è sempre stata il rispetto della legge: al maxi, non un’eccezione di nullità processuale è stata accolta in primo grado. Questa è la garanzia. Ma quale potere? Mi hanno offerto su un piatto d’argento un posto al Csm, e l’ho rifiutato. Questo è il centro di potere?».

Perché lo fa? Sorride. «Lasci stare». No, davvero. Perché? Guarda i monitor. C’è l’immagine in bianco e nero del corridoio oltre la porta blindata. Si vede un angolo di un tavolo, un uomo seduto. L’immagine trema leggermente. Dice: «Non mi piace parlarne. Nella migliore delle ipotesi, faccio la figura del retorico coglione. E allora, sono cose mie. Le tengo per me». E lei, cos’è? Luccica. «No» dice. «Niente giustiziere, niente missionario. E neanche mi sono mai posto il problema del potere. Anzi, il potere è una gran rottura di scatole». Lei ha potere? «Sì, come influenza. Il potere di chi è ritenuto esperto in determinati problemi. Il potere di chi non ha potere». Abbassa il tono. «Vede» dice. «Si rischia sempre di essere retorici». Cerchi di non esserlo. «Cosa vuole». Allarga una mano, la piega in bas­so, guarda la scrivania. Dice: «Sono i valori della vita. Si vede che i miei non coincidono con quelli della generalità».

Generalità. Vale a dire? «Chiunque è in grado di esprimere qualcosa, deve esprimerlo al meglio. Questo è tutto quello che si può dire. Non si può chiedere perché. Non si può chiedere a un alpinista perché lo fa. Lo fa, e basta. A scuola avevo un professore di filosofia che voleva sapere se, secondo noi, si era felici quando si è ricchi o quando si soddisfano gli ideali. Allora avrei risposto: quando si è ricchi». Fa una pausa breve. «Invece, aveva ragione lui». «Ayala (altro ex giudice del pool, ndr) non ha torto. Sono stato tutt’altro che contento dell’uscita di Bor­sellino. Mi fanno ridere quando dico­no che era una faccenda orchestrata tra me e lui. Anzi. Fu un problema». «Perché?». Allarga gli occhi, prende un’e­spressione didattica, di ovvietà. «Mi ha aumentato la conflittualità dell’ufficio».

Conflittualità. Apre la mano. «Nel momento in cui sollevi un grande problema di sostanza e non curi la forma, ti fottono, nella forma e nella sostanza. Borsellino, sotto il profilo umano, fece quanto di più generoso si poteva fare, e per questo ho sentito il dovere di stargli accanto. Ma dal punto di vista politico fu un grande errore. Solo la forza dei fatti ha impedito che lo schiacciassero. Nella grande amicizia, c’è una divergenza tra noi riguardo le tattiche. Il Csm non si è mai chiesto se i problemi sollevati da Borsellino ci sono o non ci sono. No. Hanno detto: non devi rivolgerti ai giornali. Attraverso la delegittimazione di Borsellino, volevano delegittimare anche me, trasformando il caso Borsellino-Meli in Meli-Falcone. Dire: ecco chi sono i paladini dell’antimafia. A quel punto, Borsellino diventa marginale: è importante dire: se Falcone ha sbagliato tutto, se se ne deve andare. Quello che, in teoria, il Csm avrebbe dovuto dire: in Sicilia va tutto bene, e tu Falcone te ne devi andare dalle palle». «Per questo, feci la lettera di dimissioni: solo esaltando ed elevando il livello dello scontro si poteva fare chiarezza, e questo si è rivelato fondamentale per non essere schiacciati. Altrimenti, sa­remmo stati costretti nell’angolo. Sarebbe venuta fuori un’antimafia d’accatto, Borsellino dice le bugie, e allora no: prendetevela con me. Vi dirò di più; mi sono rotto, me ne voglio andare».

«L’unica divergenza con Borsellino era sulla tattica: non mi piace andare allo scontro se non sono preparato. Lo dico sempre: che tu abbia ragione non significa niente. Devi avere alcuni che te lo dicono. Se ci scopriamo troppo spesso, ci bruciamo. È allucinante, ma è così. La mafia dura da decenni: un motivo ci deve essere. Non si può andare contro i missili con arco e frecce: in queste vicende certe intemperanze si pagano duramente. Con il terrorismo, con il consenso sociale totale, potevi permettertele: con la mafia non è così. Nella società c’è un consenso distorto. Altro che bubbone in un tessuto sociale sano. Il tessuto non è affatto sano. Noi estirperemo Michele Greco, poi arriverà il secondo, poi il terzo, poi il quarto».

Il CONIGLIO DAL CAPPELLO

«In un manoscritto sequestrato a Spatola c’è scritto: “La mafia non esiste, si chiama omertà. La vera mafia è quella dei giudici, che usano la parola mafia contro i deboli”. Questi concetti sono radicati nelle popolazioni del Sud. Amicizia, onore: sono valori censurabili? No. È un errore considerare queste organizzazioni prive di ideologia. Se fosse così, basterebbero pochi drappelli di poliziotti. Come quando si parla di collaborazione dei pentiti: ma veramente credete che Buscetta venga fuori come un coniglio dal cappello? Esce perché riconosce lo Stato. Vede che gli può servire. Strumentalizza lo Stato? E allora, una donna violentata che denuncia gli aggressori, cosa fa? Strumentalizza lo Stato? Buscetta ha ottenuto dalle gabbie lo stesso silenzio, lo stesso rispetto di Michele Greco. Gli è stato riconosciuto che era la strada giusta. Quando Contorno dice a Greco “signor Greco”, gli ha fatto un insulto gravissimo. Doveva dire “don, su”, usare un termine di rispetto. Se non si capisce tutto questo, come si può pensare di fare dei passi avanti?».

«La mafia ha un’organizzazione ferrea: si deve basare su dei valori. Non sono i nostri, ma è miopia non vederli. Questo ci si ostina a non capire: sono uomini, non vermi­ciattoli. Li chiamiamo pecorai, ma sono il precipitato della saggezza siciliana: è gente che ti comanda con gli occhi. Una volta, un collega di Milano chiese a Buscetta, durante un interrogatorio: ma mi spiega come fate voi mafiosi a imporvi, a dialogare con tutti. Come con una bella donna, disse Buscetta: ti accorgi subito che ci sta. Prima devi capire questo, poi risolvi i problemi. Io sono tutt’altro che un missionario, ma questa è la realtà. La mafia è il segno di un’identità: per la Sicilia, per la nostra storia. Tutto sommato, il meno peggio che le poteva capitare. Noi abbiamo avuto 500 anni di feudale­simo, poi il totale disinteresse dello Stato; immaginiamoci se non ci fosse stata questa identità. La forte identità di un popolo può produrre questo frutto malato, perché diventa distorsione di valori: in questo senso, non è il tessuto canceroso sul tessuto sano, ma una malattia complessiva».

«L’amicizia e la famiglia, se diventano vincoli di clan, si trasformano radicalmente. Ieri sera, un amico mi diceva: qui non si domanda perché una persona fa una determinata cosa, ma cosa vuole. Il senso della colletti­vità non esiste, c’è solo un sistema complesso e intrecciato di interessi privati. Del resto, che cos’è la mafiosità se non pretendere come privilegio ciò che ti spetta come diritto? L’organizzazione mafiosa in sé è un’altra cosa, e non tollera rapporti di subalternità a niente. Sopra Michele Greco non c’è nessuno. Quando si dice “il terzo livello” si equivoca su una frase detta da me; ma intendevo tutt’altra cosa. Avevo distinto i reati mafiosi in tre categorie: al primo livello, i reati d’ordinaria amministrazione, come estorsioni e contrabbando; al secondo, reati che servono ad assicurare la funzio­nalità interna dell’organizzazione, come l’omicidio di chi sgarra; al terzo, quelli che assicurano la so­pravvivenza dell’organizzazione nel suo complesso, gli omicidi eccellenti. Invece, ci si è riferiti a un fanto­matico terzo livello, intendendo una specie di vertice politico-finanziario della mafia».

GRANELLI DI SABBIA

«Non nego che ci siano rapporti con la politica, e possano esi­stere trame trasversali, ma pretendere che ci sia una sorta di strategia occulta, con un vertice che dirige la mafia dal di fuori, è sbaglia­to. Il mafioso non si sottopone a nessuno. Quando a Calderone offro­no l’iscrizione alla P2, lui si pone il problema: come faccio a giurare fedeltà a due cose diverse? Rifiuta, perché per lui l’unico giuramento che conta è alla mafia. Un uomo politico può essere affiliato a Cosa nostra, ma solo se ha le qualità dell’uomo d’onore: altrimenti, non conta nulla. Quindi, il problema non è: ma come fa una banda di pecorai a dirigere imperi di miliardi, il problema è che la banda usa e strumentalizza tutti. Chiama Tizio, e gli dice: fa’ fruttare i nostri 30 miliardi. È una realtà semplice, e il collegamento che determina tra criminalità organizzata e criminalità dei colletti bianchi è esplosivo: ma è cosa diversa dal terzo livello. Non essere a contatto con la realtà porta a cantonate pazzesche. Quando si parla di mafia, si tende a oscillare tra due poli: o la si sminuisce, negandone l’unitarietà, o la si descrive come un’organizzazione onnipotente, che comanda ogni cosa. In entrambi i casi, si impedisce una strategia seria. La realtà è grigia, non è né bianca né nera». 

«Credo che le cose si facciano con i granelli di sabbia. Mi rifiuto di credere che Cassarà (capo della Mobile di Palermo ucciso dalla mafia, ndr) non sia servito a niente. Se i risultati li vogliamo tutti e subito, forse; ma non è così. Viene sempre il momento in cui devi pagare: più la cosa è importante, più il prezzo è elevato. Io lo sto pagando. Quando si dice che il pool non è mai esistito, si dice una cosa vera e falsa. Supposto che io sia Maradona, senza la squadra non ce l’avrei mai fatta. Se si pensa solo al tempo impiegato, alla fatica. Ma allora, se concorro per uno squallido posto di procuratore, si dice che faccio la primadonna. Se dico che me ne voglio andare, allora non ho il senso delle istituzioni. Se rimango a lavorare con il pool, faccio un centro di potere. Cosa devo fare? Qualsiasi cosa faccio viene immediatamente enfatizzata. Se partecipo a una riunione con Orlando divento collaterale a Orlando, se mi invitano a un convegno del Pci, apriti cielo. Ritengo di fare un lavoro utile e arriva qualcuno e dice che non lo devo fare. Allora, cambio».

«Allora no, ti dicono di rimanere. Dico che voglio fare il calzolaio, e mi dicono di fare cappelli. Va bene, dico, faccio cappelli: allora non ho il senso delle istituzioni. Ricevo i giornalisti in un momento delicato delle indagini, sorrido; bene, Falcone sorride ironicamente, vuol dire che è in contrasto con Di Pisa. Mi stanno bene le critiche se mi inducono a pensare: ma questa è solo volontà di bloccare».

«Tutta la vicenda con Meli è un segno di questo, la dimostrazione più chiara, emblematica, della scollatura tra magistratura e società. Era una vicenda personale, sono intervenuti fattori di opportunità politica, e di utilizzo di ambienti esterni, che hanno trovato utile sfruttare la questione personale. Faccio un esempio. Magistratura democratica, che ha tre consiglieri nel Csm e quindi è in minoranza, ha sempre soste­nuto la necessità di criteri rigidi, privi­legiando l’anzianità, per limitare lo strapotere delle correnti e l’uso spregiudicato delle clientele. Quindi, quando si è posta la questione Meli-Falcone, ha votato Meli. Si è radicalizzato al massi­mo: da un lato la professionalità, dall’altro l’anzianità senza demerito. Si è sfruttata la caratterialità di Meli, ben chiuso nel suo particulare, e il suo sentimento becero dell’amicizia, pensando: Falcone, scornato per lesa maestà, abbandonerà tutto. In commissione Anti­mafia, Meli mi ha rivolto accuse da manicomio a proposito dei Costanzo di Catania, e il Csm ha detto subito: bene, trasferiamoli entrambi, così si scannano tra di loro e tutto si blocca. Il tentativo era ridurre ogni cosa a uno scontro personale, misero».

«Oppure, come per la nomina dell’Alto commissario. Oltre a Sica, i candidati erano Parisi e Falcone. Me lo dissero amici, ministri, le fonti più diverse: ma non quelle ufficiali. Non venni informato di essere candidato. Ma si è mai sentito, un candidato cui nessuno dice nulla? Il giorno dopo la nomina di Sica, Gava dice: eh, non si poteva nominare Falcone, sarebbe stato andare contro il Csm. E poi, guarda un po’, con Sica si sceglie Riggio, e allora scopri che Riggio è il primo dei non eletti nelle liste Psi, stesso sponsor di Sica. È chiaro che, in un’ottica che non mi scandalizza, si è temuto che io fossi espressione del Pci, e che se si fosse proseguito su questa strada ne sarebbero venute grane al governo».

«Tutto questo ha un grado di corporativismo allucinan­te, di ignoranza totale della realtà, che porta a una concezione del magistrato assurda, per il Duemila. C’è il rispetto formale di una legge che andava bene in un sistema pluriclasse, in cui la classe al potere, liberale, poteva applicarla, perché le era funzionale. Subito dopo l’unità d’Italia, la legge era l’espressione di un lucido disegno, e il magistrato era espressione di quegli interessi. Oggi è espressione di tensioni diverse, e deve soggiacere a una serie di compromessi. Ci troviamo con una magistratura che ha abolito il sistema gerarchico piramidale, ed è stata una nobilissima battaglia, ma l’abbiamo sostituito con il nulla. Ora abbiamo una magistratura avvitata su se stessa, un’associazione di mutuo soccorso che è potere, non servizio. E allora, dite quel che volete della Cassazione, di Carnevale, ma non è questo il problema. Dopo Carnevale, ne verrà un altro. Nel momento in cui la legge è mediazione tra gruppi differenti, esplode il problema, e il magistrato è costretto a scegliere: il vecchio è decrepito, ma il nuovo stenta. Allora ecco, basta che crei la situazione, e non ci si muove più. Nel mio caso, basta contrappormi un magistrato più an­ziano; basta che a livello politico venga agitato lo spauracchio comu­nista. Basta affermare che io sono uno sceriffo, che mi metto il codice sotto ai piedi. Non importa che tutto questo non sia affatto vero: il risultato è stato raggiunto ugualmente».

CORPO ESTRANEO

«I giudici hanno più paura di que­sto che della mafia. Per i miei colleghi, il solo pensiero di venir trasferiti, di andare a Milano, è la catastrofe. Quando dico che la nostra è una società immobile, dico anche questo. Hanno più paura del Csm che della mafia. Il Csm può farti un provvedimento disciplinare, può trasferirti; la mafia ammazza solo quelli come me. In questa ottica, si fomentano le risse, ci si impallina. Il metodo non è diverso da quello mafioso: creare separazioni, operare sempre nell’ombra, non uscire mai con posizioni nette. In questo senso, io sono un corpo estraneo, in un ambiente che mi respinge: non me ne fotte niente, né della mafia né del Csm. Tutti devono sapere che non si possono fidare di me: nessuno mi può dare etichette. Ma beati i Paesi che non hanno bisogno di eroi: voglio dire dove le strutture non hanno bisogno di corpi estranei. Se si fa un paragone tra l’Fbi e la nostra polizia, tra una struttura media molto forte e una che esalta solo le grandi individualità, mi dite quale serve di più?».

Chi ha ucciso il pool? La volontà politica o le inerzie della casta? «Tutte e due. Le minori responsabilità le ha il potere politico». «È già un risultato che io abbia potuto resistere. Quante volte mi hanno detto, con la migliore buona fede: adesso puoi fare altre cose, stai diventando ripetitivo. È stata una lotta giorno per giorno. Quando ti ammazzano tutti gli amici più cari, per anni, resistere è un successo. Con Ninni (Cassarà, ndr) siamo andati a vedere il cadavere martoriato di Beppe Montana. Ninni mi disse: ma ci pensi che adesso all’Ucciardone stanno brindando, e noi siamo cadaveri che camminano? Tutte le volte che sono andato a vedere i cadaveri dei miei amici, i familiari mi dicevano: è stato inutile, io lo contesto. Ho sempre detto che queste persone hanno dato moltissimo, e rimarranno. Non è una dichiarazione di comodo. Se non ci si spersonalizza, se non si guardano le cose dall’alto, tutto sembra caduco. La differenza è quello che hanno fatto. Sì, certo, di loro ci si dimenticherà; tra dieci anni non si saprà chi era Ninni Cassarà. Ma il suo metodo resta. Prima, tutto questo succedeva senza che se ne sapesse nulla: oggi, se non altro, devono scusarsi. Se gli studenti di Gela vengono ricevuti al Quirinale, lui ha contribuito non poco. Non è un passo avanti gigantesco, ma prima si diceva: uffa, sempre di mafia si parla».

«Allora dicono: bene, facciamo Falcone paladino dell’antimafia, mettiamoci dietro 50-60 persone, creiamo l’asse Falcone-Orlando. Ma quando mai. A nessuno passa per la testa che io faccio il magistrato, e basta. È facile dire Lima bandito, Falcone galantuomo. Ma quando io dico che non è così, divento ambiguo. In realtà, è tutto più difficile, la realtà è più complessa. Ci sono persone molto peggiori di Lima, o di Gunnella: ma li hanno scelti come parafulmine, li usano per tutto ciò che c’è di negativo. Di fatto, non ci si vuole occupare di questi problemi, per­ché sono faticosi, difficili. Quindi Orlando è tutto il bene, Lima tutto il male, Gunnella assume i mafiosi, il Pei è l’unico buono. Ma perché? Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio. C’è un sostrato comune, tutto il resto viene dopo».

LA CULTURA MAFIOSA

«Che poi, il panorama non è granché mutato, dal Gattopardo a oggi. La supponenza, la spocchia, l’atteggiamento di critica: chiunque fa, in questa infelicissima piaga, è condannato. Bisogna star fermi. Anzi, star fermi dando l’impressione di grandissima attività. Tomasi di Lampedusa diceva: siamo un popolo di dei. Quello di Pavia non può capire, perché non è siciliano. Noi ab­biamo già visto tutto, sappiamo già tutto: ci siamo fermati qui. Tutto quello che c’è di nuovo lo devi incasellare, con un’operazione analoga a quella dei glossatori medioevali, che cercavano di adeguare le norme del codice giustinianeo con l’interpretazione delle norme stesse: una forma farisaica di manipolazione della realtà».

«D’altra parte, in una società in cui lo Stato è assente, l’alto sentire di sé diventa un’identità, così come il rapporto d’amicizia, il rispetto della fratellanza, del clan. Sono distorsioni, il problema è come vengono riempite. Io se devo spiccare un mandato contro un amico, forse proprio per amicizia me lo inculo di più. Ma quando diciamo che la mafia non è esterna alla società, diciamo proprio questo: è estremamente probabile incontrare soggetti coinvolti malgrado le tue intenzioni. Allora, hai due scelte: o ti chiudi in casa, con il rischio di non capire nulla di quello che succede, oppure vivi. Corri il rischio di incontrare persone non limpide. Ma non è questo il problema; il problema è creare un cordone sanitario. Anche perché è praticamente impossibile capire dove finisce la mafia e dove comincia l’appartenenza all’area culturale mafiosa».

«La più enorme cazzata è che per risolvere il problema ci vorrebbe l’esercito. E dov’è il nemico, dico io. Ecco perché è importante cercare almeno di delimitare i confini: tutto il resto viene dopo. Noi abbiamo cominciato dieci anni fa, e siamo appena all’inizio. Dieci anni fa, queste persone erano i padroni di Palermo; oggi sono costrette a giustificarsi, a dire che non avevano capito, che non erano poi così amici di… Dieci anni fa, era impossibile pensarlo. In questo senso, l’atteggiamento di chi dice che lo Stato è sempre assente, che non provvede, è sterile, puerile, non fa progredire di un passo. Fare, non lamentarsi. Quando ci fu l’alluvione a Firenze, tutti presero badili e picconi. Diverso è a Gibellina. Da noi, c’è la professione del terremotato, e in questo c’è tutta l’essenza del sicilianismo: vedere lo Stato estraneo per precostituirsi un alibi, per scusare la propria inerzia, per fare i propri comodi. Un atteg­giamento da Terzo mondo. Dopodiché, anche per me lo Stato può avere tutte le colpe immaginabili: ma il problema non si risolve rimanendo in panciolle. È quello che mi separa da Paolo Borsellino; lui ritiene di poter recuperare valori che per me sono obsoleti. A me non piace stare qui: non amo la Sicilia. Certamente, alla fine vivere a Parigi o in Sicilia è lo stesso: ma se mi consentite, a Parigi è meglio. Con tutto il rispetto per i miei avi sepolti qui».

«Sotto il profilo personale sì, la mia esperienza è stata uno spreco. Totalmente fallimentare. Ma sono ottimista, e il problema è di non mettermi mai al centro dell’unive­so. Ho messo la mia pagliuzza, come tanti altri, vogliamo chiamarlo progresso? Bon, diciamo progresso». Telefono a Falcone per salutarlo. Dico: «Buongiorno sono Luca Rossi». «Io no» dice. L’ultima volta lo vedo all’Addaura, a casa sua. Una casa che ha affittato per l’estate. Ci sono due agenti in macchina al cancello; poi, una scala scende fino a una grande terrazza sul mare. Sediamo a un tavolo bianco, Falcone ha una Lacoste gialla. Beviamo whisky con ghiaccio. C’è caldo, l’aria nera del mare contro la luce bianca della luna, mobile sull’acqua scintillante di riflesso, con l’orizzonte chiaro e rotondo, libero al centro e ai lati fin dove possiamo vedere. La nuova moglie di Falcone siede in soggiorno, illuminata da una luce gialla guarda la televisione.

Seguo Falcone con facilità, ho meno timore. Ci siamo incontrati molte altre volte, sempre nel suo ufficio. Sedevo in corridoio, su una sedia di plastica appoggiata alla parete di fondo, e aspettavo che finisse di lavorare. Poi parlavamo un quarto d’ora, mezz’ora. Non c’erano finestre nel corridoio, e dal mio posto vedevo soltanto la porta blindata e il neon bianco. Una volta è arrivato Ayala, e Falcone ha preso la bottiglia di whisky, nascosta dietro a uno scheda­rio. Ha detto che l’aveva nascosta per difenderla da lui, da Ayala. Abbiamo riso e bevuto nei bicchierini da caffè. Il whisky aveva un sapore caldo e troppo forte, nella plastica, ed era leggero in mano. Avevo una sensazione familiare, di condivisione: avrei voluto rimanere più a lungo, ritornare.

Ho pensato che loro erano una squadra, e ho ripetuto mentalmente la parola «squadra». Per la prima volta, mi sembrava che avesse un bellissimo suono; pensavo che mi sarebbe piaciuto far parte di «una squadra». Adesso abbiamo il ghiaccio nei bicchieri, che sono pesanti e ben bilanciati. Il tono di Falcone è liquido, soffice: arrotonda di più, s’impunta di meno sui silenzi, scivola via senza conseguenze. Anche il mio tono è facile, i gesti mi seguono con naturalezza; ci alziamo, guardiamo il mare, la notte. Dico che è bello, e Falcone dice che è stata una fortuna, trovare quella casa. La terrazza è bassa sugli scogli, a pochi metri dal mare.

Penso subito: la casa non è difendibile. Dico: «Non è pericoloso?». «Perché?». Indico il mare: «Potrebbero venire da qui». «Venga». Ci appoggiamo al parapetto. Falcone dice: «Buonasera». Vedo un carabiniere. Si gira, ripete «buonasera» con un tono leggermente indeciso, sottomesso. Ne vedo un altro, appoggiato agli scogli, con il mitra steso davanti. Hanno le divise nere come la roccia, la bandoliera bianca, guardano il mare. Il metallo delle armi non luccica.

UN ALTRO MARE

Due giorni dopo, è un altro mare. Sono sceso dalla nave a Genova, ho preso l’autostrada, ho lasciato la macchina a Paraggi e ho camminato verso Portofino. Il mare è, visto dal­l’alto, lontano e pulito. Ci sono sentie­ri ripidi che portano a piccole baie, quasi impossibili per dimensioni e chiusura. Non è ancora stagione, ci sono solo due ragazzi abbracciati su un asciugamano, e fa meno caldo che a Palermo.

Ho i calzoni di tela beige che mi sembrano leggerissimi, volano e sono freschi. Non penso a Palermo, penso solo alla leggerezza degli abiti, del tempo, della luce oblunga e blu della sera, della vacanza. C’è un profumo, passano poche macchine. Quando rientro a Paraggi è ora di cena, non c’è quasi nessuno. Mi fermo in un bar sulla spiaggia, respiro: ogni cosa è pulita e nitida, guardo la passerella lunga e verde che si stende sull’acqua, al centro della baia; una notte d’estate, molti anni fa, eravamo venuti da Milano su una Volkswagen gialla e ci eravamo tuffati all’infinito da quella passerella: mi ero svegliato sul muretto di Portofino, con il sole di mezzo­giorno. Il bar è vuoto, c’è un televisore acceso, con le notizie in bianco e nero del telegiornale. C’è l’immagine di una casa bassa, con una terrazza sul mare. La casa è ripresa dagli scogli, frontalmente: la speaker dice che c’è stato un attentato a Falcone, hanno trovato una bomba davanti alla terrazza di casa sua. All’Addaura.

 In questa straordinaria confessione era lui stesso a rivelarlo. Stroncando le polemiche di oggi. Un giorno ho visto Leoluca Orlando, gli ho chiesto: come va? «Se tutto va bene» ha detto «siamo rovinati». È andato tutto bene. Giovanni Falcone era morto da ...

G. Sal. per “la Stampa” il 24 maggio 2022.

«Non mi piacciono le parate istituzionali e come tanti cittadini non sopporto lo sterile esercizio di una stucchevole retorica di Stato». Nino Di Matteo ha disertato le manifestazioni ufficiali «in cui mi pare si sia data una lettura minimalista e rassicurante della strage di Capaci, come se la vendetta dei macellai corleonesi fosse il movente prevalente se non esclusivo, tralasciando due aspetti.

Il primo è il ruolo di leadership in termini di politica giudiziaria che Falcone aveva assunto al ministero: aveva portato in politica la lotta alla mafia - altro che porte girevoli! - e nella sua rozzezza Riina l'aveva capito. Secondo: la contestualizzazione dell'eccidio tra l'assassinio eccellente di Salvo Lima e la stagione delle altre sei stragi successive» anche nel continente.

A due isolati da casa Falcone, Di Matteo confida il suo disagio nel retropalco del teatro Golden, dove la rivista Antimafia Duemila ha radunato anche l'ex procuratore palermitano Roberto Scarpinato, il consigliere del Csm Sebastiano Ardita, il procuratore calabrese Giuseppe Lombardo (autore del processo sulle connessioni stragiste tra cosa nostra e 'ndrangheta) e quello fiorentino Luca Tescaroli (che indaga sulle stragi del '93).

Lo slogan «Fuori la mafia dallo Stato» scandito dalla platea e il titolo Traditi, uccisi, dimenticati configura a tutti gli effetti il convegno come una contromanifestazione che denuncia (Scarpinato dixit, commosso) «una falconeide sedativa da corriere dei piccoli».

Di Matteo legge in parallelo l'Italia di oggi con quella del 1992.

«Falcone è stato tradito e ucciso da quelle istituzioni che in queste ore hanno partecipato al gran gioco delle finte commemorazioni e domani, tornate a Roma, riprenderanno a lavorare per smantellare pezzo dopo pezzo le leggi antimafia da lui ispirate, 41 bis ed ergastolo ostativo; voteranno una riforma che crea un modello di magistrato-burocrate antitetico al suo; introdurranno una legge elettorale del Csm che aumenterà il correntismo, perché la politica non ha alcun interesse a debellare un sistema di cui si nutre e da cui trae vantaggio».

Quando cita tra gli applausi, Andreotti, Berlusconi e Dell'Utri si riferisce anche alle imminenti elezioni palermitane: «Il problema non è che un condannato, espiata la pena, dica la sua. Mi preoccupa che qualcuno chieda la sua intermediazione per ottenere la candidatura o per aumentare i consensi», come accaduto nel centrodestra sia al Comune che alla Regione.

Ma anche nella magistratura «vedo troppi segnali negativi. I magistrati che continuano coraggiosamente a occuparsi delle stragi sono sempre meno e sempre più ostracizzati. Trattati come i giapponesi che combattono una battaglia finita. Anche gli investigatori sono sempre meno, al punto che mi domando se non ci siano direttive gerarchiche che spingono a fare indagini più semplici e con risultati spendibili nelle statistiche». L'esatto contrario di quelle sulle stragi, dove non ci sono droga o villette da sequestrare. No, al teatro Golden non si celebra un trentennale a lieto fine.

30 anni dalla morte del magistrato. Perché Giovanni Falcone fu ostacolato e messo alla gogna dai suoi colleghi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

Quale Falcone volete ricordare? Quello del maxiprocesso, nel corso del quale inflisse a Cosa Nostra la sconfitta più devastante in due secoli di storia? O preferite ricordare il Falcone che escludeva l’esistenza del terzo livello, cioè di una cupola della mafia guidata dai politici, e che incriminò per calunnia il pentito Pellegriti, e si prese le contumelie di tutti gli antimafiosi doc dell’epoca? Ditemi quale preferite: il Falcone che interrogava Buscetta, e soppesava ogni sua dichiarazione, e cercava i riscontri, oppure il Falcone che quando la mafia gli mise una bomba sotto casa, all’Addaura, si beccò gli attacchi, le ingiurie e i sorrisi sfottenti di tutti, e dei giornali che fecero capire che quell’attentato era una messa in scena per dare un po’ di slancio alla sua credibilità?

Preferite che vi parli del Falcone circondato dai nemici in magistratura, dai suoi colleghi, che gli diedero assedio, del Falcone che non si fidava di Giammanco, il Procuratore, e del giovane Pignatone, che considerava un uomo di Giammanco, oppure del Falcone che andò a Roma, da Martelli, cioè dal ministro, e fu accusato di tradimento perché era passato coi socialisti, cioè con i craxiani, con gli andreottiani, quindi, più o meno con la mafia? O ancora volete parlare del Falcone al quale un Csm molto impegnato nella lotta alla mafia impedì di diventare capo dell’ufficio istruzione di Palermo, preferendogli Antonino Meli, perché anche se di mafia ne sapeva poco poco però era più anziano? O magari preferite che vi parli del Falcone messo sotto accusa dal Csm per i suoi atteggiamenti spavaldi, e che fu costretto a difendersi coi fucili puntati contro, compresi i fucili dei più brillanti magistrati e politici antimafia, escluso – onore a lui – Caselli? Sapete come finì quel procedimento disciplinare? Fu dichiarato estinto per morte del reo. Sapete a che serviva? A troncare sul nascere la sua candidatura alla procura nazionale antimafia. Si faceva così allora. Si fa così anche oggi. Son le correnti, bellezza.

No, no, non è come potete pensare: che ci siano due Giovanni Falcone. Uno passionario e l’altro prudente. Uno gradasso e l’altro pauroso. Uno contro la mafia e l’altro con il potere. È quello che la rispettabile associazione “l’antimafia siamo noi…” ha sempre voluto farci credere. Fino a che Falcone non è stato ucciso da Cosa Nostra, tra qualche riga cercheremo di capire perché. Poi la rispettabile associazione ha cambiato linea (dopo averlo processato e messo alla gogna anche in Tv…) e ha deciso di sequestrarne la memoria. Falcone e Borsellino – ha stabilito – sono una cosa nostra e nessuno ha il diritto di toccarli. Santi che stanno lì a dimostrare che noi abbiamo ragione, che le persone che indichiamo al sospetto sono colpevoli e vanno maciullate. Che i magistrati sono eroi in trincea e rischiano tutti i giorni la vita.

Non è così. Falcone era uno solo. Era un gigante. Di Falcone si possono dire tante cose, ma due sono evidenti e incontestabili. La prima è che era un magistrato con doti professionali clamorose, che forse nessun altro magistrato ha mai avuto; la seconda è che aveva una idea alta del diritto, e aveva questa idea alta non perché fosse un garantista dalla parte degli imputati, ma perché era convinto che quello che contava, nella giurisdizione, fosse la sentenza di terzo grado, e che il magistrato doveva calibrare le accuse e i processi a seconda delle prove che aveva o che poteva avere in mano, e doveva rispettare tutte le regole, altrimenti rischiava il fallimento del suo lavoro. Oggi sono pochi i magistrati di prima fila che ragionano così. Oggi quel che conta è l’effetto che fa. Cioè il rumore che si può realizzare con un arresto, una conferenza stampa, un giro in Tv. Che poi un procedimento giudiziario si concluda con la condanna e l’assoluzione conta poco, conta sbattere un po’ di gente in carcere e tenercela per più tempo possibile.

La campagna contro Giovanni Falcone condotta con incredibile disponibilità di mezzi all’inizio degli anni 90 è un fatto quasi unico nella storia della magistratura. Falcone fu delegittimato prima dai suoi colleghi (destra e sinistra insieme) in modo sistematico, e poi dai politici e poi dai giornali. Ho dei ricordi di quell’epoca. Ero caporedattore all’Unità e mi occupavo anche di Sicilia e di mafia. Noi avevamo sostenuto Falcone convinti, all’epoca del maxiprocesso, poi avevamo iniziato a sospettare di lui. Ci aspettavamo che azzannasse al collo il pentapartito, Andreotti, i socialisti, perché anche allora, un po’ come oggi, la sinistra era così. Residui di stalinismo. Cioè speranza che qualche Potenza superiore riuscisse a ottenere i risultati che non arrivavano sul campo. Il Pci e poi il Pds stavano perdendo voti e l’illusione era che il colpo di magia ai propri avversari arrivasse da fuori.

Ma Falcone dopo aver abbattuto il vertice di Cosa Nostra si rifiutava di servire su un piatto d’argento la tesi che il vertice dei vertici fosse la politica. E in particolare la Dc. E in particolare Andreotti. E questo apparve come un tradimento. Era solo la dichiarazione onesta di un magistrato onesto che aveva capito davvero la mafia e la sua struttura. A noi non piaceva. E nel 1991 ci fece indignare una sua intervista nella quale esplicitamente diceva che non era la politica a guidare la mafia, casomai il contrario. Il terzo livello era fantascienza. Pubblicammo su l’Unità un articolo di un intellettuale prestigiosissimo come il giurista Alessandro Pizzorusso, che stroncava Falcone. Seppellendo la sua candidatura alla Superprocura. Vi dico la verità: anch’io ero abbastanza convinto. Sebbene stimassi Falcone. Lo avevo seguito per molti anni, lo avevo conosciuto anche personalmente, non lo consideravo certo un farabutto. Però…

Quel pomeriggio del 23 maggio, quando arrivò la notizia dell’attentato, restai senza parole. Dovevo fare il giornale, l’Unità, perché il direttore che era Walter Veltroni (ma era arrivato appena da due giorni e non aveva ancora gran dimestichezza) non era in redazione per non so quale impegno politico. Facevo il giornale e mi sentivo morire. Capii all’improvviso di non avere capito niente. Capii anche che l’abbandono da parte della sinistra poteva aver favorito i mafiosi nel loro disegno. Stavo malissimo. Il giorno dopo chiesi a Veltroni di poter scrivere un articolo di scuse a Falcone. Mi disse di sì, e lo pubblicò come editoriale di pagina 2. Non lo trovo più quell’articolo perché l’archivio dell’Unità è bloccato. Ho trovato queste poche righe in rete, e le trascrivo: «Questo giornale, negli ultimi mesi, e più di una volta, ha criticato Falcone per la sua nuova amicizia con i socialisti e per la sua scelta di lasciare Palermo. E ha osteggiato la sua candidatura alla direzione della superprocura. In queste ore terribili una cosa l’abbiamo capita tutti, credo: Giovanni Falcone era un uomo libero. Abbiamo invece fatto prevalere il dubbio politico: forse non è uno dei nostri. Forse è politicamente ambiguo…. Siamo stati faziosi».

Perché hanno ucciso Falcone? Credo per due ragioni. La prima è la vendetta, per avere decapitato Cosa Nostra e per averne svelato, per la prima volta, lo scheletro interno, il funzionamento e il Dna. La seconda è che Falcone aveva avviato un dossier su mafia e appalti che considerava importantissimo e che aveva affidato al colonnello Mori. Quel dossier fu archiviato due mesi dopo la sua morte, sebbene Borsellino avesse chiesto di lavorarci. Non avvertirono Borsellino di aver chiesto l’archiviazione. La mafia considerava quel dossier molto pericoloso. Coinvolgeva moltissime aziende del nord.

Andò a finire che invece di produrre un processo agli autori dei rapporti tra mafia e appalti quel dossier produsse un processo al colonnello Mori, cioè all’autore del dossier, l’uomo forte di Falcone. È così: era il suo destino. Essere perseguitato perché troppo Grande. Anche dopo la morte è stato perseguitato. In cambio, per ricompensarlo, ne hanno fatto un’icona che viene portata a spalla dai suoi nemici. Fatemi usare le parole del Vangelo: “Sepolcri imbiancati”.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Mattarella a Palermo: «Le visioni “profetiche” di Falcone furono osteggiate anche dai magistrati». Sara Gentile lunedì 23 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Un lungo applauso ha accolto il capo dello Stato, Sergio Mattarella, al Foro italico, a Palermo, dove è stato allestito un grande palco in occasione delle cerimonie per il trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio, in cui persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti della scorta. «Stiamo affrontando una stagione difficile, dolorosa, segnata prima dalla pandemia e poi dalla guerra nel cuore dell’Europa», ha detto Mattarella. «Raccogliere il testimone della “visione” di Falcone significa affrontare con la stessa lucidità le prove dell’oggi, perché a prevalere sia –ovunque, in ogni dimensione – la causa della giustizia; al servizio della libertà e della democrazia».

Mattarella: «Alla ferocia della mafia si opposero Stato diritto e società civile»

«Sono trascorsi trent’anni – ha detto Mattarella – da quel terribile 23 maggio allorché la vita della nostra Repubblica sembrò fermarsi come annientata dal dolore e dalla paura. Del tutto al contrario di quanto avevano immaginato gli autori del vile attentato, allo smarrimento iniziale seguì l’immediata reazione delle Istituzioni democratiche. Il dolore e lo sgomento di quei giorni divennero la drammatica occasione per reagire al violento attacco sferrato dalla mafia; a quella ferocia la nostra democrazia si oppose con la forza degli strumenti dello Stato di diritto. Altrettanto significativa fu la risposta della società civile, che non accettò di subire in silenzio quella umiliazione e incoraggiò il lavoro degli investigatori contribuendo alla stagione di rinnovamento. Neanche questo la mafia aveva previsto».

Mattarella: «L’impegno contro la mafia non consente pause o distrazioni»

Nel 1992 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino «furono colpiti perché, con la loro professionalità e determinazione, avevano inferto colpi durissimi alla mafia, con prospettive di ulteriori seguiti di grande efficacia, attraverso una rigorosa strategia investigativa capace di portarne allo scoperto l’organizzazione. La mafia li temeva per questo: perché avevano dimostrato che essa non era imbattibile e che lo Stato era in grado di sconfiggerla attraverso la forza del diritto». E poi ancora: «Onorare oggi la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – ha aggiunto il Capo dello Stato – vuol dire rinnovare quell’impegno, riproponendone il coraggio e la determinazione. L’impegno contro la criminalità non consente pause né distrazioni».

«Falcone agiva nel perseguimento della legalità»

Giovanni Falcone «agiva non in spregio del pericolo o alla ricerca di forme ostentate di eroismo bensì nella consapevolezza che l’unico percorso possibile fosse quello che offre il tenace perseguimento della legalità, attraverso cui si realizza il riscatto morale della società civile. La fermezza del suo operato nasceva dalla radicata convinzione che non vi fossero alternative al rispetto della legge, a qualunque costo, anche a quello della vita. Con la consapevolezza che in gioco fosse la dignità delle funzioni rivestite e la propria dignità. Coltivava il coraggio contro la viltà, frutto della paura e della fragilità di fronte all’arroganza della mafia».

«Falcone – ha sottolineato Mattarella – non si abbandonò mai alla rassegnazione o all’indifferenza ma si fece guidare senza timore dalla “visione” che la sua Sicilia e l’intero nostro Paese si sarebbero liberati dalla proterva presenza della criminalità mafiosa. Questa “visione” gli conferiva la determinazione per perseguire con decisione le forme subdole e spietate attraverso le quali si manifesta l’illegalità mafiosa».

«È compito delle istituzioni prevedere e agire per tempo»

«Da queste drammatiche esperienze si dovrebbe trarre un importante insegnamento per il futuro: evitare di adottare le misure necessarie solo quando si presentano condizioni di emergenza. È compito delle istituzioni -di tutte le istituzioni- prevedere e agire per tempo, senza dover attendere il verificarsi di eventi drammatici per essere costretti a intervenire. È questa consapevolezza che dovrebbe guidare costantemente l’azione delle Istituzioni per rendere onore alla memoria dei servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la tutela dei valori su cui si fonda la nostra Repubblica».

«Le sue visioni d’avanguardia non furono sempre comprese»

«Le visioni d’avanguardia, lucidamente “profetiche”, di Falcone non furono sempre comprese; anzi in taluni casi vennero osteggiate anche da atteggiamenti diffusi nella stessa magistratura, che col tempo, superando errori, ha saputo farne patrimonio comune e valorizzarle».

«Anche l’ordinamento giudiziario – ha proseguito il Capo dello Stato – è stato modificato per attribuire un maggior rilievo alle obiettive qualità professionali del magistrato rispetto al criterio della mera anzianità, non idoneo a rispondere alle esigenze dell’Ordine giudiziario. Le esperienze innovative di quegli anni si sono tradotte, all’indomani dei drammatici attentati, in leggi che hanno fatto assumere alla lotta alla mafia un livello di incisività ed efficacia mai raggiunto fino ad allora. Con la determinazione di fare giustizia, facendo prevalere il diritto, ripristinandolo. Per consentire alle persone pienezza di libertà e maggiori opportunità di futuro contro la presenza delle mafie che ne ostacola e talvolta ne impedisce l’effettiva libertà».

Così la retorica antimafia ha insabbiato il vero pensiero di Falcone. Trent'anni dalla strage di Capaci. Con gesto di rara brutalità, ancora una volta oggi viene rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Davide Varì Il Dubbio il 24 maggio 2022.

Sono passati trent’anni esatti dalla strage che uccise Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e la scorta. E nel mare di retorica che in questa giornata inonda giornali, radio e tv – e che di certo la disincantata ironia di Falcone avrebbe accolto con un ghigno sardonico e col sopracciglio alzato – quello che proprio non riusciamo a digerire è il viziaccio tutto italiano di piegare il pensiero del “caro estinto” ai propri miseri interessi, alle battaglie di basso cabotaggio.

E così, ancora una volta, assistiamo allo scempio e alla rimozione di una parte centrale del suo pensiero; si tratta della parte più scomoda e meno spendibile sul mercato delle polemiche manichee e difficilmente riducibile a slogan da intonare nelle inutili parate autocelebrative. Distraendo ogni forma di complessità dal suo pensiero articolato e addirittura sofferto, Falcone è divenuto “uomo a una dimensione”. Ma celebrarlo e nello stesso tempo deturpare le sue idee, è frutto di una violenza sottile e intollerabile.

Con gesto di rara brutalità, è stata dunque rimossa la “poetica” del “metodico dubbio” con la quale Falcone ha affrontato le sfide del Diritto. Un dubbio coltivato con cura che lo ha convinto, per esempio, della inesistenza del famigerato terzo livello, ovvero quel luogo leggendario in cui mafia e politica si fonderebbero per dar vita, nelle fantasie di molti, troppi inquirenti, al leviatano che in questi decenni avrebbe governato il paese in modo occulto. Ecco, per Falcone quel “terzo livello”, quella ossessione giudiziaria che ha portato fuori strada le indagini antimafia degli ultimi 20 anni (dal fallimentare processo ad Andreotti al teorema sulla trattativa Stato-mafia), non esisteva. «Ho detto spesso che non esiste il terzo livello – spiegò infatti Falcone -. E Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla e non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale».

Ma non è tutto. Nessuno sospetterà che Falcone era favorevole alla separazione delle carriere. Proprio così: il magistrato simbolo dell’antimafia era convinto che l’autonomia della magistratura si sarebbe salvata separando i giudici dalle procure. “Su questa direttrice bisogna muoversi, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, che viene puntualmente sbandierato tutte le volte in cui si parla di differenziazione delle carriere. Disconoscere la specificità delle funzioni requirenti rispetto a quelle giudicanti, nell’antistorico tentativo di continuare a considerare la magistratura unitariamente, equivale paradossalmente a garantire meno la stessa indipendenza e autonomia della magistratura, costituzionalmente garantita sia per gli organi requirenti che per gli organi giudicanti».

Ma a quanto pare la lezione non è servita: dopo averlo isolato fisicamente, il grumo mediatico-giudiziario che ha generato e nutrito il pensiero unico del Paese, sta cannibalizzando il suo pensiero. Noi non ci stiamo: non è così che si celebra Falcone.

Falcone voleva carriere separate per pm e giudici. "Lo chiede il nuovo codice, hanno funzioni diverse". Felice Manti il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il coraggio della toga ostracizzata da Anm e Csm perché avrebbe indebolito le correnti definite "macchine elettorali". Berlusconi: la mafia deturpa l'Italia.

«Il referendum ha consentito di accertare che la stragrande maggioranza dell'elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità, e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati». Era il 5 novembre 1988, a Milano Giovanni Falcone leggeva la sua relazione davanti ai suoi colleghi. Il referendum del 1987 che avrebbe dovuto introdurre la responsabilità civile dei magistrati ottenne l'83% dei sì venne annacquato dalla «legge Vassalli» numero 117, che prevede che sia lo Stato a pagare se un magistrato è colpevole di dolo o di colpa grave.

A distanza di 35 anni gli italiani sono nuovamente chiamati a riformare la giustizia per via referendaria. Il nodo è la separazione delle funzioni - e quindi delle carriere - di toghe inquirenti e giudicanti, come avrebbe voluto Falcone. Che già prima che il nuovo Codice di procedura consegnasse al pm il ruolo di dominus dell'azione giudiziaria avvertiva i rischi di mancata terzietà del giudice: «Le attitudini e i compiti specifici del pm richiesti dal nuovo modello di processo penale comportano una sua specifica formazione professionale, che solo in parte coincide con quella del giudice e in punti qualificanti ne diverge nettamente. Diverse funzioni e attitudini, habitus mentale, capacità professionali richieste: investigatore il pm, arbitro il giudice».

Bestemmie per le correnti dell'Anm «che si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm», scriveva Falcone nel 1990. La sua visione lungimirante - come dimostra drammaticamente la ricostruzione di Luca Palamara - era malvista da chi temeva di perdere potere e prestigio, assieme all'automatismo delle carriere e alla pretesa di considerare il magistrato una sorta di superuomo infallibile e incensurabile solo perché ha vinto un concorso. L'alibi per impedirlo? Il solito mantra: «Così si mette a rischio l'autonomia e l'indipendenza della magistratura». Un'obiezione alla quale Falcone rispose così: «I valori di autonomia e indipendenza non equivalgono a sostanziale irresponsabilità di un pm, reso così da una visione feticistica dell'obbligatorietà dell'azione penale e dalla mancanza di efficaci controlli sulla sua attività», altra misura in discussione alle Camere.

Di più: «Piero Calamandrei si era dichiarato favorevole a un Pg di Cassazione in Consiglio dei ministri a titolo consultivo sulla giustizia». Idee, contributi al dibattito che la magistratura non volle raccogliere. E sì che Falcone aveva anche capito che la riforma del codice avrebbe potuto creare protagonismi eccessivi, alla Tonino Di Pietro. Per questo predicava «non un pm sotto il controllo dell'esecutivo» ma procure «autonome, indipendenti, efficiente e responsabili della loro attività» limitando i rischi di sovraesposizione, iperattivismo e iperpersonalizzazione oggi molto diffusi tra funzionari di polizia e magistrati». Una follia, per l'Anm, che gliel'avrebbe fatta pagare. Ad esempio demonizzando il suo disegno di Superprocura e organizzando uno sciopero (benedetto anche da Oscar Luigi Scalfaro, che mandò un messaggio di solidarietà). Alla manifestazione partecipò Elena Paciotti, che poi ne sarebbe divenuta presidente. La stessa Paciotti il 19 gennaio 1988 al Csm sostenne la candidatura di Meli contro quella di Falcone per la nomina a procuratore capo di Palermo. E il cerchio si chiuse.

Oggi gli smemorati e i cronisti in malafede puntano il dito contro Silvio Berlusconi e le infamanti accuse di essere il mandante delle stragi del 1992, già ampiamente smontate. «I nostri governi hanno fatto della lotta alla criminalità organizzata una priorità», dice l'ex premier, ricordando il sacrificio del giudice per mano della mafia, una sciagura che secondo Berlusconi «deturpa l'Italia, allontana gli investimenti e scoraggia chi fa impresa». La riforma della giustizia che aveva in mente il centrodestra, messa a punto dall'ex Guardasigilli Angelino Alfano, fallita dopo la rovinosa caduta dell'esecutivo nel 2011. Quella Castelli, molto simile, saltò la notte tra il 27 e il 28 luglio 2007, tre giorni prima che entrasse in vigore, grazie a un accordo in extremis tra il ministro della Giustizia Clemente Mastella e l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi, ideologo di Md - come si legge nel libro Il caso Genchi di Edoardo Montolli - nel bel mezzo del caso Why Not. Qualche mese dopo un'inchiesta sfiorerà lo stesso Mastella e contribuirà a far cadere il secondo governo Prodi. Segno che le toghe non fanno prigionieri. Neanche con gli alleati.

Mezz'ora in Più, l'ex giudice Giancarlo Caselli accusa la politica: “Non si occupa mai di mafia”. Il Tempo il 22 maggio 2022.

A 30 anni dalla morte di Giovanni Falcone, ucciso dalla mafia nella strage di Capaci, Giancarlo Caselli, ex procuratore di Palermo e di Torino, ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in Più su Rai3, ricorda il magistrato che per combattere Cosa Nostra ha perso la vita. “I mafiosi sopravvivono nel tempo perché la spina dorsale del loro potere sono le relazioni esterne. Oggi - ha spiegato Caselli - il pentimento è depotenziato ed in realtà è un caposaldo della lotta alla mafia. La mafia nell’agenda politica è sempre all’ultimo posto, o non c'è, invece dovrebbe essere oggetto di specifica attenzione, la mafia è un camaleonte e si adatta sempre al periodo. Bisogna occuparsene con continuità. Avvelena parti legali dello Stato consistenti, quando non sono alleati per fare affari insieme. Falcone e Paolo Borsellino sono morti perché noi non siamo stati abbastanza vivi, perché non ci siamo abbastanza indignati di quello che Falcone e Borsellino vedevano e combattevano anche a sacrificio della loro vita. La società civile non è stata abbastanza viva, chi combatteva contro la mafia è stato sovraesposto e in questo modo è rimasto solo. I mafiosi sono dei gangster senza dubbio, fanno traffico di armi, di droga, di rifiuti, ma se fosse soltanto gangster non saremmo qui a parlarne. Sarebbero scomparsi da chissà quanto. Persistono nel tempo grazie a legami, collegamenti, coperture e collusione con pezzi della politica e dell’imprenditoria”.

“Tutte le vittime di mafia - dice ancora l’ex magistrato - sono morte anche perché la mafia le ha uccise ma anche perché non siamo stati abbastanza vivi. Falcone e Borsellino e gli altri hanno visto una serie di nefandezze, omicidi, stragi, lo scempio della democrazia, il voto di scambio ma non si sono girati dall’altra parte hanno continuato a darci dentro sacrificando la vita. Noi cittadini, noi Stato, noi Chiesa, per chi è credente, davanti a quelle stesse nefandezze ci siamo accontentati del compromesso, del quieto vivere. Non - ammonisce e conclude Caselli siamo stati abbastanza vivi nel senso che non ci siamo abbastanza indignati di quello che Falcone e Borsellino vedevano e combattevano fino al sacrificio della vita. Il Csm aveva negato a Falcone il ruolo di capo del pool antimafia”.

Quella notte Santino Di Matteo mi raccontò la strage di Capaci. Gian Carlo Caselli su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.

La prima rivelazione sulla morte di Giovanni Falcone nelle parole di uno degli autori materiali. La mafia gli ucciderà il figlio di 13 anni, sciogliendolo nell’acido. 

Trent’anni fa, il 23 maggio 1992, la mafia più feroce e organizzata di allora, Cosa nostra, realizzava a Capaci l’ attentatuni (così nel gergo dei criminali), massacrando Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, insieme ai poliziotti di scorta Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro.

All’attentatuni si ricollega l’esperienza forse più forte e intensa dei quasi sette anni che ho trascorso a Palermo come procuratore capo, nominato dal CSM su domanda che avevo presentato subito dopo le stragi del ‘92 . Mi riferisco all’interrogatorio di Santino Di Matteo, un mafioso arrestato per gravi delitti (anche omicidi) commessi nel territorio di competenza delle Procura di Palermo. Un paio di volte Di Matteo mi fa sapere che vorrebbe essere sentito (mia la firma, come procuratore capo, in calce al suo ordine di cattura). Ci vado tutte e due le volte, ma in pratica non succede nulla. Anzi, dentro di me penso: se questo mi richiama una terza volta non ci vado proprio. Addirittura c’è chi mi raccomanda prudenza, ipotizzando che tutte quelle chiamate «a vuoto» siano solo espedienti per vedere se davvero mi muovevo e magari preparare qualcosa.

Ma poi, un giorno che sono a Venezia, gli uomini della Dia mi fanno di nuovo sapere che Di Matteo mi vuole vedere. Viene organizzato un rocambolesco e precipitoso viaggio e nel cuore della notte mi trovo di fronte a lui per interrogarlo. Credevo che mi avrebbe parlato degli omicidi commessi con la sua cosca. In effetti comincia confessando di essere stato «combinato» in Cosa nostra circa quindici anni prima, assumendo in seguito ruoli di rilievo nell’organizzazione e commettendo i delitti contestatigli nell’ordine di cattura che teneva in mano. Ma subito aggiunge che di questi fatti parlerà poi, perché, dice, «Voglio parlare fin da subito di un fatto più grave... Capaci».

È in assoluto la prima volta che qualcuno lo fa. Fino alle ore 04,10 del giorno 24 Ottobre 1993 mi racconta per filo e per segno la strage di Capaci. Può farlo perché, confessa, lui era presente ed è stato uno degli esecutori materiali... Provo un insieme di sensazioni che non avevo mai avvertito: da un lato l’orrore e l’ emozione incontenibile per la rievocazione di un fatto tanto tragico e coinvolgente; dall’ altro la soddisfazione professionale per essere il primo a raccogliere la confessione di un episodio così influente sulla storia del nostro Paese. Avverto in sostanza che il sacrificio di Falcone (che era ed è presente nel cuore di tutti) cominciava a trovare risposte anche in atti concreti di giustizia. Assieme, lo ammetto, a qualche dubbio. C’è un particolare che quella notte non mi convince troppo. Di Matteo ha verbalizzato che, per far passare l’esplosivo sotto l’autostrada dove sarebbe transitato Falcone, i mafiosi avevano utilizzato, attraverso una canalina sotterranea, una specie di skateboard. Più per suggestione che per logica, la storia di un semplice strumento di gioco, destinato a portare divertimento, non morte, mi sembrava incompatibile con la feroce spietatezza di Cosa nostra. Anche questo particolare, invece, risulterà esatto e riscontrato dai colleghi di Caltanissetta (competenti per la strage) cui avevo subito trasmesso il verbale.

Purtroppo questo momento così determinante sarebbe stato terribilmente avvelenato dall’assassinio del figlio di Santino Di Matteo, il piccolo Giuseppe, tredici anni: sequestrato da Cosa nostra, tenuto prigioniero per 779 giorni, picchiato, torturato e alla fine strangolato e sciolto nell’acido, di modo che la madre non potesse neanche portare un fiore o dire una preghiera sulla sua tomba. E tutto questo sol perché Giuseppe era figlio di suo padre, il pentito, il collaboratore di giustizia, che per primo aveva reso dichiarazioni spontanee, decisive per ricostruire il segreto dei segreti di Cosa nostra, la strage di Capaci. Una rappresaglia di stampo nazista, altro che «uomini d’onore». Una tragedia che ancora oggi ricordo con grande tormento.

Gian Carlo Caselli per “il Fatto quotidiano” il 23 maggio 2022.

La mia strada si è intrecciata con quella di Falcone e Borsellino quando - dopo la strage di Capaci e via D'Amelio - decisi di fare domanda al Csm per essere trasferito da Torino a Palermo come capo della Procura. 

Ma le nostre strade si erano intrecciate già prima, durante gli anni (1986-90) in cui ho fatto parte del Csm. Quattro anni caratterizzati dal susseguirsi di casi con forti ripercussioni sull'antimafia siciliana. 

Il primo caso riguarda Paolo Borsellino. La maggioranza del Csm lo nomina capo della procura della Repubblica di Marsala, preferendolo a un magistrato molto più anziano ma pressoché ignaro di mafia. Anche in forza di una direttiva specifica del Csm (varata da poco) che per gli incarichi in zona di mafia disponeva di privilegiare il criterio della professionalità.

Nella vicenda irrompe Leonardo Sciascia, con un editoriale intitolato "I professionisti dell'Antimafia", che accusa Borsellino, se pure in maniera indiretta, di essere un carrierista, uno che in nome dell'antimafia sgomita per scavalcare colleghi più anziani e meritevoli. 

Un'accusa assurda. Lo stesso Sciascia, qualche anno dopo, ammetterà di essere stato male informato. Il danno provocato è comunque enorme. Quella definizione di "professionisti dell'antimafia" affonderà un bersaglio che non era nel mirino di Sciascia. Un bersaglio grosso, Giovanni Falcone. Nel 1987, Nino Caponnetto, conseguito con il pool dei giudici istruttori di Palermo (da lui diretti) lo straordinario risultato del "maxiprocesso", lascia Palermo convinto - come tutti - che il suo testimone passerà a Falcone.

Ma non va così, e l'articolo di Sciascia - strumentalizzato in modo spregevole - ha un peso decisivo. La maggioranza che aveva votato Borsellino perde pezzi e il risultato è a dir poco sconcertante: il più bravo nell'antimafia, il grande protagonista del maxiprocesso, viene scavalcato da un magistrato che di processi di mafia non ha esperienza, ma può vantare un titolo che fa tremare i mafiosi di paura: quello di essere un signore molto avanti negli anni. Che oltretutto, nell'audizione avanti al Csm, aveva sostenuto senza perifrasi che non avrebbe seguito i metodi del pool di Falcone. Nel suo ufficio non dovevano più esserci specialisti che si occupassero solo di mafia, ma magistrati destinati a fare di tutto un po'. 

Commentando poi la funesta vicenda, Borsellino parlerà di "giuda". E dirà che Falcone aveva cominciato a morire in quel momento. Per quanto mi riguarda rivendico con orgoglio di aver votato a favore di Borsellino prima e di Falcone poi. Attenzione, la scelta fra Meli e Falcone fu una vera bagarre.

Eppure riguardava un ufficio ormai in via di estinzione con l'entrata in vigore - di lì a poco, nel 1989 - del nuovo codice di Procedura penale, che difatti ha cancellato i giudici istruttori. Il che rende evidente come il punto del contendere non fosse tanto il nome del successore di Caponnetto quanto il metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso. 

Al di là della persona, la scelta di Meli ha quindi un chiaro significato politico: lo Stato anziché proseguire sulla strada del pool di Falcone che stava portando alla sconfitta della mafia, rinuncia a combattere. 

Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo si addensano veleni, corvi e lettere anonime, soprattutto contro Falcone. Accusato delle più svariate nefandezze, inventate per fargli pagare la sua vera "colpa": aver osato inquisire (oltre ai mafiosi di strada) "colletti bianchi" potentissimi, collusi con la mafia, del calibro di Ciancimino padre, i cugini Salvo, i Cavalieri del lavoro di Catania. 

Intanto Borsellino, con due interviste del 20 luglio 1988, lancia un j'accuse molto pesante: "C'è stato un taglio netto con il passato... Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent'anni fa... le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima... Ho la spiacevole sensazione che qualcuno voglia tornare indietro". 

Reazioni? Sì, ma contro...Borsellino. Il Csm apre un procedimento para-disciplinare, perché le sue denunzie non hanno seguito le vie istituzionali (la prova che se c'è un servizio da rendere anche i burocrati più ottusi sanno lavorare di fantasia). Ma i giochi ormai sono fatti: il pool è morto. Abbasso Falcone e viva la mafia. 

In conclusione, a quelli della mia generazione che l'hanno dimenticato e ai giovani che non lo sanno, diciamo che Falcone e Borsellino, se oggi - da morti - sono giustamente osannati, furono invece umiliati e discriminati quando erano vivi. Vivi e scomodi. Perciò maltrattati.

Gian Carlo Caselli per “La Stampa” il 23 maggio 2022. 

L'anniversario della morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e di Paolo Borsellino (19 luglio) ci interpella sull'eredità delle vittime di mafia. Lo storico Salvatore Lupo sostiene che dal loro martirio nasce la sorpresa che in un'Italia senza senso della patria e dello stato, ci siano soggetti disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo stato.

Prende così forma l'idea (di per sé paradossale) delle vittime di mafia come rivoluzionari, in quanto operatori di legalità. Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo stato si manifesta anche con i volti impresentabili di personaggi che con il malaffare hanno scelto di convivere. La vittime di violenza mafiosa, a fronte di ciò, sono state soprattutto straordinari costruttori di credibilità e rispettabilità. 

Vale a dire che operando come hanno operato in vita, e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo stato alla gente, che così riesce a dare un senso alle parole, altrimenti vuote, «lo stato siamo noi». Alla riflessione di Lupo faccio seguire una domanda: perché sono morti Falcone, Borsellino e tanti altri, vittime innocenti della criminalità mafiosa?

Prima di tutto, va da sé, perché la mafia li ha uccisi. Ma anche perché noi non siamo stati abbastanza "vivi". Loro hanno visto la violenza, l'illegalità, l'ingiustizia, lo scempio della democrazia, la compravendita di voti... E non si sono tirati indietro. Hanno continuato a fare il loro dovere ben conoscendone i rischi. E noi? Noi stato, noi chiesa, noi cittadini troppe volte non siamo stati abbastanza "vivi".

Nel senso che non ci siamo indignati abbastanza pur vedendo le stesse lordure contro cui Falcone, Borsellino e gli altri si battevano. Abbiamo preferito subire il giogo del facile compromesso, ci siamo accontentati del quieto vivere. E non essendo abbastanza "vivi", Falcone, Borsellino e gli altri li abbiamo sovraesposti. Lasciati soli. I «professionisti dell'antimafia» La storia di Falcone e Borsellino, per altro, è anche storia di aggressioni e calunnie. Come parte del pool antimafia creato da Rocco Chinnici, e perfezionato da Nino Caponnetto, essi furono decisivi nell'organizzare e condurre in porto il capolavoro investigativo-giudiziario chiamato "maxiprocesso". 

Nel rispetto delle regole, vengono condannati a pene pesanti mafiosi di ogni ordine e grado, dai capi ai soldati. Mai successo, in pratica, prima di allora. La fine del mito dell'invulnerabilità di Cosa nostra, della sua eterna sostanziale impunità.

A questo punto però succede una cosa scandalosa. La mafia è una minaccia per la liberà e la democrazia. Falcone e Borsellino riescono a sconfiggerla rendendo un servizio all'intero Paese (era già chiaro che il problema si estendesse oltre la Sicilia). Ma invece di aiutarli ad andare avanti, professionalmente parlando li hanno spazzati via con una tempesta di polemiche diffamatorie ma efficacissime, che purtroppo vanno a bersaglio. 

Si comincia con «professionisti dell'antimafia», sinonimo di carrieristi a spese di coloro che non avevano avuto la "fortuna" di fare processi di mafia. Si prosegue con «uso spregiudicato dei pentiti» ( Falcone che portava i cannoli a Buscetta, per creare un rapporto intimo e fargli dire quel che voleva). E poi «uso distorto della giustizia per fini politici di parte» (un refrain sempre verde). 

Alla fine il pool viene cancellato e con lui il suo metodo di lavoro vincente. Il contrasto alla mafia - commenta Borsellino - arretra di una ventina d'anni.

In questa storia non si può non ricordare il ruolo avuto anche dal Consiglio superiore della magistratura. Dovendo nominare il successore di Caponnetto, la maggioranza del Csm non sceglie il campione dell'antimafia, cioè Falcone. Nomina un magistrato, Antonino Meli, poco esperto di mafia, che rispetto a Falcone aveva il vantaggio di essere molto più anziano di carriera. 

Dirà Borsellino, dopo la strage di Capaci, che Falcone comincia a morire proprio in questo momento, quando viene umiliato preferendogli un magistrato senza titoli antimafia in una situazione che invece ne esigeva al massimo livello (io ho fatto parte di quel Csm e rivendico con orgoglio di aver sempre votato per Falcone).

La Procura nazionale Ma la storia non finisce qui. Di mortificazioni ne arrivano altre. Corvi e veleni con accuse inaudite si moltiplicano, e alla fine tutte le porte, anche quelle degli uffici giudiziari, vengono chiuse in faccia a Falcone. Che deve cercare una sorta di asilo politico-giudiziario a Roma, presso il ministero. Dove (coraggioso e tenace) continua nel suo impegno antimafia e crea l'antimafia moderna, quella che funziona bene ancora oggi, con la Procura nazionale e le Procure distrettuali antimafia e con la Dia (una specie di Fbi italiana). 

Intanto la Cassazione conferma in via definitiva (gennaio 1992) le condanne del maxiprocesso, avallando tutta la ricostruzione fatta dal pool in ordine alla struttura di Cosa nostra e alle responsabilità sia associative sia individuali.

Facciamo il punto. Da un lato c'è Falcone che sta creando l'antimafia moderna; dall'altro c'è la Cassazione che frustra le aspettative di Cosa nostra, che pure aveva cercato in tutti i modi di «appattare» (aggiustare) il processo: un uno-due micidiale che per Cosa nostra è assolutamente intollerabile. 

Un uno-due che nella logica criminale di Cosa nostra significa strage. Ecco allora le stragi di Capaci e via d'Amelio, che sono una vendetta postuma di Cosa nostra nei confronti dei suoi peggiori nemici, Falcone e Borsellino; e nel tempo stesso un tentativo di seppellire definitivamente nel sangue il loro metodo di lavoro. Dopo le stragi Falcone e Borsellino diventano eroi, giustamente celebrati come tali. Da tutti. Pure da chi in vita li aveva ostacolati e denigrati. Anche dai "giuda" che in vita avevano tradito Falcone.

Francesco La Licata per “la Stampa” il 23 maggio 2022. 

Qualcuno dice che Giovanni Falcone cominciò a morire il giorno stesso in cui la Corte di Cassazione confermava la pesantissima sentenza contro i vertici di Cosa nostra. E fu lui stesso, il giudice, ad accreditare questa deduzione quando, insieme con la gioia per il successo del suo lavoro (e di tutto il pool antimafia), esternò anche il timore per le conseguenze di quel successo. Liliana Ferraro, sua fedele amica e collaboratrice, aveva organizzato un brindisi al ministero della Giustizia e Falcone brindò, ma, lasciandosi andare a un sorriso amaro, aggiunse: «Adesso viene il bello», anticipando - con questo - la certezza che c'era da aspettarsi da Cosa nostra una reazione violenta.

Era il 30 gennaio del 1992 e l'intera direzione strategica della mafia veniva annullata dai 19 ergastoli inflitti dalla Suprema Corte. Ciò potrebbe esser considerato un ottimo movente per una strage come quella di Capaci, ma solo se si pensa che quel tritolo sia stato fatto esplodere per esigenze di vendetta. Noi, però, sappiamo che non è così e lo sanno anche gli investigatori che in questi ultimi anni hanno scandagliato la storia di Giovanni Falcone, fino alla sua clamorosa eliminazione.

La vendetta, nelle grandi storie di mafia, è solo una parte del movente. Una parte minoritaria: il grosso delle motivazioni vanno sempre cercate nella necessità di Cosa nostra di prevenire il peggio, di proteggere interessi innominabili, alleanze insane e tutelare le identità di grossi nomi del potere coinvolti nelle trame oscure.

La strage di Capaci non fa eccezione e non può essere analizzata fuori contesto rispetto a quanto era avvenuto prima di quel 23 maggio 1992 e quanto avverrà dopo con il replay di via D'Amelio e successivamente ancora con gli attentati di Roma, Firenze e Milano.

Già, perché dopo trent' anni si può pacificamente affermare che lo stragismo mafioso è un unicum, un pozzo nero che decine di processi hanno appena sfiorato consegnando alla giustizia la manodopera, ma non le menti pensanti, i burattinai che dirigevano la compagnia al completo. Le «menti raffinatissime» evocate dallo stesso Falcone all'indomani dell'attentato (fallito) organizzato, il 21 giugno 1989, per uccidere lui e i colleghi svizzeri (Carla del Ponte e Claudio Lehmann) ospiti nella sua villa all'Addaura.

L'attentato fallito Ecco, quell'attentato - fallito per una serie di imprevisti e forse per l'intervento di "spie buone" che neutralizzarono "spie cattive" - può esser considerato una tappa di avvicinamento all'annientamento di un giudice sempre mal sopportato dai padroni del vapore che lo sentivano come una minaccia alla strategia del quieto vivere che governava la brutta politica, la cattiva economia e i soldi facili del narcotraffico di Cosa nostra.

I 58 candelotti di dinamite collocati sulla scogliera davanti al patio della villa avrebbero dovuto funzionare come una conferma al fango e ai veleni anticipati in alcune lettere anonime (le lettere del Corvo). L'amanuense (o gli amanuensi) accusava Falcone e il poliziotto Gianni De Gennaro di aver utilizzato il collaboratore Totuccio Contorno come killer di Stato, nel tentativo di far uscire allo scoperto l'allora superlatitante Totò Riina. La bomba, dunque, altro non sarebbe stata che la chiusura del cerchio: Falcone scorretto assassinato a causa delle proprie scelte illegittime. 

Il risultato sarebbe stato, dunque, di offrire all'opinione pubblica un giudice morto ma non da eroe. Un doppio omicidio: annientamento fisico e delegittimazione morale.

Ovviamente non si poteva avallare la tesi di un errore di Cosa nostra e allora la disinformazione delle «menti raffinatissime» mise in rete la falsa notizia che l'attentato non era fallito, ma era stato pensato (dallo stesso Falcone) per non fare vittime. Insomma l'attentato se l'era fatto Falcone per fare carriera.

Le indagini dicono altro: per esempio che Alberto Di Pisa, il collega di Falcone individuato come autore dell'anonimo, non aveva scritto quelle lettere, anche se sulla busta era stata trovata una porzione di impronta sua recuperata, però, dal bicchiere dell'aperitivo offertogli "amichevolmente" dall'Alto commissario per la lotta alla mafia.

Le indagini dicono ancora che sulla scena dell'attentato all'Addaura potrebbe essere stato presente l'agente Nino Agostino (successivamente ucciso insieme con la moglie incinta), agente a mezzo servizio con il Sisde, che potrebbe essere il poliziotto buono che Falcone indicherà come «quello che mi ha salvato la vita». E a mare, vicino agli scogli, c'era anche un mafioso che pare non sia riuscito ad azionare il telecomando perché sbalzato goffamente fuori dal canotto nel momento culminante. Di lui si sono trovate tracce del Dna recuperato su un asciugamano abbandonato. E tanti approfondimenti andrebbero fatti ancora per meglio chiarire il ruolo svolto in quel periodo dal commissariato di San Lorenzo dove prestava servizio l'agente Agostino e un altro giovane collaboratore del Sisde, Emanuele Piazza, impiegato nella caccia ai latitanti. Anche lui sarà ucciso.

Un bell'intreccio dentro quel commissariato, frequentato pure da simpatizzanti del terrorismo neofascista del calibro di Alberto Volo, il preside che racconterà a Falcone l'esistenza di una Universal Legion, un'organizzazione paramilitare vicina alla Nato, molto simile a quella Gladio, rivelata da Giulio Andreotti, che molto aveva incuriosito il giudice istruttore palermitano mentre indagava sull'assassinio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Falcone aveva dato molto credito alla pista nera per l'omicidio Mattarella. Fino a convincerlo, come ha recentemente rivelato Pino Arlacchi nel suo libro dedicato a Falcone, Giovanni e io (Chiarelettere), che la morte del «democristiano perbene» fosse addirittura «un caso Moro bis». 

Il filo nero La convinzione che guidava le ricerche del giudice era che ci fosse sempre stato un filo che legava Cosa nostra, i servizi segreti e le organizzazioni terroristiche di estrema destra. Con una mente politica in grado di indirizzare l'attività dei servizi in chiave ovviamente filoatlantica e di argine al pericolo comunista. Il ruolo che in Europa aveva ricoperto Gladio. Mafia e neri, dunque, avrebbero avuto negli anni il ruolo di "service" a disposizione degli agenti segreti per le operazioni non propriamente legali.

In qualche occasione Falcone aveva ricordato come esistessero precedenti in quel senso: gli attentati della notte di Capodanno 1971 (cinque bombe al comune e in alcuni assessorati) con esplosivo compatibile con quello a disposizione della famiglia Madonia di san Lorenzo; il coinvolgimento della mafia nel tentativo del golpe Borghese (1980), gli attentati ai tralicci dell'Enel compiuti dai neofascisti in modo che fossero attribuiti alla sinistra. Per non parlare del coinvolgimento della mafia (la condanna a Pippo Calò, il cassiere di Cosa nostra) negli attentati ai treni e persino nella strage di Bologna.

Non è esagerato dire che questo filone, insieme con l'attività storica di Giovanni Falcone sul terreno della lotta al narcotraffico, al riciclaggio e agli scandali degli appalti che coinvolgevano anche grandi imprese del Nord (il giudice disse durante un convegno: la mafia è entrata in Borsa, alludendo alla Calcestruzzi di Gardini che aveva nel proprio gruppo dirigente siciliano un emissario di Totò Riina), rappresenti il cuore dei tanti motivi che il potere aveva di liberarsi di Giovanni Falcone.

I soldi del narcotraffico Per anni politica e grande finanza hanno monitorato l'attività del giudice, sin da quando aveva rotto la consuetudine di star lontano dalle banche ed aveva preso a cercare lì i soldi che provenivano dal narcotraffico. Era l'inizio degli anni Ottanta e Falcone dava molto fastidio. Diede fastidio a Vito Ciancimino (Arlacchi ci conferma che il giudice sapesse dell'appartenenza a Gladio dell'ex sindaco democristiano), fece irritare parecchio i potenti esattori Nino e Ignazio Salvo che si adoperarono, senza riuscirci, per farlo trasferire. Le lettere del Corvo certamente furono parte di questo progetto abortito. E quando Falcone vince e si appresta a prendere il posto di capo della Procura nazionale antimafia non esitano ad eliminarlo fisicamente: la soluzione finale.

Ecco il movente preventivo, sempre presente nelle grandi storie di mafia. E poi bisognava interrompere il filo che aveva portato il giudice a incuriosirsi per la Gladio. Aveva provato ad entrare negli archivi ma glielo impedì il suo capo di allora, il procuratore Pietro Giammanco. La curiosità tuttavia era rimasta, come dimostra una sua audizione in Commissione antimafia di recente desecretata. Era il 22 giugno 1990 e Falcone dice in Parlamento che per l'omicidio di Piersanti Mattarella è accertata la presenza di mandanti esterni alla mafia. Tutto quello che accadrà dopo in Italia, dalle stragi alla trattativa, non può trovare spiegazione senza il presente prologo.

Dagospia il 23 maggio 2022. Da "Un giorno da pecora"

“Io da sempre continuo a cercare la verità, è un impegno che presi davanti alle loro bare, avvolte dal tricolore e dalle loro toghe. Io ho dato il mio contributo all'accertamento della verità quando ero magistrato, convincendo molti mafiosi a pentirsi a passare dalla parte dello Stato. Sono arrivato via via a mettere insieme brandelli di verità ma sono ancora convinto che quella convergenza di interessi, quella mano esterna..." 

Così a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, il senatore ed ex magistrato Pietro Grasso, intervistato da Giorgio Lauro e Francesca Fagnani in occasione del trentennale delle stragi palermitane. Da dove arrivava quella 'mano esterna? “Falcone li definiva 'poteri occulti', con queste parole comprendeva politica, imprenditoria, affaristi e anche la massoneria”. 

La verità non è ancora stata trovata quindi? “Avremmo bisogno di un pentito di questa parte esterna. Tutti i mafiosi che hanno collaborato – ha detto Grasso a Rai Radio1 - ci hanno detto ad esempio che prima delle stragi sia Riina che Provenzano avevano consultato 'persone importanti', ma non ci hanno saputo dire quali fossero”.

Report, perquisizioni in redazione e a casa del giornalista Mondani: "Si indaga sui legami tra mafia ed estrema destra nell'attentato a Falcone". La Repubblica il 24 maggio 2022.  

Nella trasmissione andata in onda ieri sera su Rai Tre veniva evidenziata la presenza del leader di Avanguardia nazionale, Stefano delle Chiaie, sul luogo dell'attentato di Capaci. Morra, commissione Antimafia: "Non va bene".

Perquisizioni nella redazione del programma Rai Report e nell'abitazione dell'inviato della trasmissione Paolo Mondani. Questa mattina la Direzione investigativa antimafia, su mandato della procura di Caltanissetta, ha bussato alle porte della trasmissione d'inchiesta andata in onda ieri sera su Rai Tre e dell'inviato autore del servizio "La bestia nera", durante il quale Report ha provato a ricostruire, a 30 anni di distanza, i legami tra estremisti di destra e uomini di mafia nell'omicidio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, e degli uomini della scorta.

A dare notizia delle perquisizioni è stato Sigfrido Ranucci, conduttore e autore di Report, vicedirettore di Rai Tre. Il motivo delle perquisizioni, scrive Ranucci su Twitter, "sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l'inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell'attentato di Capaci. Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc.

"Questo non va bene", è stato il commento a caldo di Nicola Morra, presidente della commissione parlamentare Antimafia.

Strage di Capaci, blitz della Dia nella redazione di Report. E Morra si “oppone”: «Non va bene…». Gli investigatori sono entrati anche a casa del giornalista Paolo Mondani che ha realizzato il servizio sul presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nell'evento mortale che portò all'uccisione di Giovanni Falcone. Il Dubbio il 24 maggio 2022.

È in corso una perquisizione della Dia «su mandato della Procura di Caltanissetta, presso l’abitazione dell’inviato di Report Paolo Mondani» e la redazione dei Report di Sigfrido Ranucci. A darne notizia è lo stesso giornalista Ranucci che ieri ha condotto la trasmissione. «Il motivo – dice Ranucci – sarebbe quello di sequestrare atti riguardanti l’inchiesta di ieri sera sulla strage di Capaci nella quale si evidenziava la presenza di Stefano Delle Chiaie, leader di Avanguardia nazionale, sul luogo dell’attentato di Capaci». «Gli investigatori cercano atti e testimonianze su telefonini e Pc», dice.

Perquisizioni della Dia nella redazione di Report, parla Morra

«Questo è….e non va bene». Così, il Presidente della Commissione nazionale antimafia Nicola Morra commenta la perquisizione, ancora in atto, della Dia nella redazione di Report e presso l’abitazione dell’inviato Paolo Mondani, dopo la puntata di ieri sera sulla strage di Capaci e il presunto coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie.

L’ANTEPRIMA DI REPORT. A preparare l’attentato a Falcone c’era anche il terrorista nero Delle Chiaie. GIULIA MERLO su Il Domani il 23 maggio 2022

Nella puntata di Report in onda stasera, lunedì 23 maggio, alle ore 21.20, si mostra come, a trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre

A trent’anni di distanza dalla strage di Capaci, la pista mafiosa e quella nera si potrebbero sovrapporre.

A farlo emergere - in una inchiesta di Report a firma di Paolo Mondani in onda questa sera (lunedì 23 maggio alle ore 21.20) e che Domani è in grado di anticipare - sono i contenuti di informative di polizia, dichiarazioni di pentiti ascoltate in altri processi e parole inedite di testimoni.

Uno dei profili fondamentali è quello di Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue simpatie politiche, uno dei boss mafiosi di Palermo.

Il suo autista e guardaspalle si chiama Alberto lo Cicero, informatore della polizia e poi pentito. Secondo quanto racconta a Report l’ex brigadiere Walter Giustini, che di Lo Cicero era il contatto, l’informatore mette le forze dell’ordine sulla strada giusta per catturare Totò Riina già nel 1991, pochi mesi prima della strage di Capaci e due anni prima del suo arresto.

Giustini, infatti, racconta che Lo Cicero lo avvisò di aver notato, durante le riunioni dei vertici di Cosa Nostra nella proprietà di Troia, «Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore». Biondino, di cui i carabinieri avevano tutti gli indirizzi e avrebbero potuto pedinare. Ma nulla sarebbe accaduto dopo questa informativa.

Non solo: Lo Cicero abita a Capaci e avverte anche di aver notato «la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante», riferisce il brigadiere Giustini. Anche questo, però, secondo Report sarebbe caduto nel nulla.

IL RUOLO DI DELLE CHIAIE

Dalle parole di Lo Cicero emerge anche altro. Nel servizio di Report lo racconta Maria Romeo, compagna di Lo Cicero, che parla della presenza a Capaci di Stefano Delle Chiaie.

Il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, nei processi per le stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna, è stato collocato dal pentito sul luogo della strage che uccide il giudice Falcone.

Delle Chiaie, infatti, incontra il boss Troia e, secondo quanto Lo Cicero dice alla compagna, sarebbe stato «l’aggancio fra mafia e lo Stato», spedito in Sicilia «con il mandato di “quelli di Roma”». Maria Romeo dice che Lo Cicero ha fatto un sopralluogo con Delle Chiaie «dove c’era un tunnel a Capaci», ovvero dove poi sarebbe stato messo il tritolo per colpire la macchina di Falcone.

Dalla ricostruzione di Report, però, i colloqui investigativi di Giustini non vengono tenuti in considerazione. L’unico a farlo, dopo la morte dell’amico, è Paolo Borsellino che sta indagando in via riservata. Maria Romeo, infatti, racconta di aver accompagnato Lo Cicero (nel frattempo entrato nel progrmma di protezione testimoni) nell’ufficio del giudice, dove i due si sono trattenuti per quattro ore e il pentito gli ha confidato anche della presenza di Delle Chiaie a Capaci.

Borsellino non fa in tempo a fare nulla: il 19 luglio, viene eliminato nella strage di via D’Amelio. Solo un anno dopo la morte di Falcone, invece, Antonino Troia è tra i mafiosi a finire in carcere per la strage.

Nel maggio 1999, il rapporto di Delle Chiaie con la mafia spunta anche nelle parole di un altro collaboratore, il messinese Luigi Sparacio, ascoltato dal magistrato Gabriele Chelazzi che stava indagando sulle bombe di Roma del 1933 e sulle stragi di Firenze e Millano. Sparacio rivela al magistrato di aver incontrato a Roma il capo di Avanguardia nazionale, il quale «Dava delle strategie politiche da seguire a “cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x» che rappresentavano «degli attentati da fare».

Se le testimonianze raccolte da Report fossero confermate, il quadro sarebbe quindi inedito: Delle Chiaie si sarebbe comportato in Sicilia negli anni Novanta nello stesso modo con cui si era relazionato con la ‘ndrangheta nell’ottobre del 1969, quando si era recato in Aspromonte insieme al leader di Ordine Nuovo Pierluigi Concutelli e l’ex gerarca fascista Junio Valerio Borghese, per partecipare a un summit dei boss calabresi. Il suo ruolo, infatti, sarebbe stato quello di supervisore della strage di Capaci e di suggeritore delle bombe del 1993.

LA STRATEGIA STRAGISTA

Agli inizi degli anni Novanta, inoltre, Delle Chiaie si butta in politica con il progetto delle Lege meridionali e questo gli dà modo di muoversi sull’isola. Non solo per la politica, però. Secondo le testimonianze di Report anche per svolgere riunioni segrete per organizzare le stragi: insieme a lui, che rappresentava la destra eversiva, ci sarebbero stati con la cupola di Cosa Nostra e uomini della P2 di Licio Gelli.

Nella strategia di destabilizzazione degli anni Novanta, infatti, Report ricostruisce anche la possibile presenza dei servizi segreti. A partire dalla strage di Capaci: l‘ex agente di polizia penitenziaria ed ex membro della famiglia Madonia, Pietro Riggio, rivela infatti il coinvolgimento di uomini dei servizi segreti nella strage. In particolare, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso, indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage.

La compagna Marianna Castro racconta a Report che il militare sarebbe sparito per tre giorni a cavallo della strage e che poi le avrebbe confessato che a uccidere Falcone erano stati i servizi segreti. Del dipartimento dove lavorava il compagno, dice: «La politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie».

Coincidenze, informative non utilizzate e verbali mai incrociati: in queste pieghe, secondo Report, potrebbero nascondersi i segreti del livello superiore rispetto agli esecutori materiali della strage di Capaci. Del resto, dopo il fallito attentato dell’Addaura era stato lo stesso Falcone a voler guardare oltre, dicendo che, per capire le ragioni di chi aveva provato ad ucciderlo, bisognava pensare all’esistenza di «centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia». GIULIA MERLO

La bestia nera. Report Rai PUNTATA DEL 23/05/2022 di Paolo Mondani

Collaborazione di Marco Bova, Roberto Persia

Consulenza di Andrea Palladino

A 30 anni dalla morte di Giovanni Falcone, emergono documenti e protagonisti dimenticati in grado di gettare una nuova luce su quei fatti.

A Capaci, Cosa Nostra non ha agito da sola: estremisti di destra e uomini di mafia, secondo testimoni e documenti ritrovati, sarebbero stati di nuovo insieme, dopo gli anni della strategia della tensione, in un abbraccio mortale costato la vita ai giudici Falcone e Borsellino. I due magistrati avevano il quadro completo, e oggi, tornando ad ascoltare collaboratori ed ex carabinieri, Report prova a ricostruirlo.

LA BESTIA NERA di Paolo Mondani Collaborazione Marco Bova, Roberto Persia Consulenza Andrea Palladino Videomaker Dario D'India, Davide Fonda, Alessandro Spinnato e Andrea Lilli

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.

PAOLO MONDANI Falcone dopo l’Addaura parla di menti raffinatissime, che avevano organizzato quell’attentato. In realtà, noi conosciamo e rappresentiamo solo quella frase, ma la frase è più lunga.

ROBERTO TARTAGLIA VICE CAPO DAP - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATOMAFIA È esattamente così perché dice "ho la sensazione – vado quasi a memoria – che per comprendere le ragioni che hanno portato qualcuno a decidere e a pensare di eliminarmi bisognerà pensare all’esistenza di – e questo è testuale – centri occulti di potere in grado di orientare certe azioni della mafia”.

GIUSEPPE LOMBARDO - PROCURATORE AGGIUNTO DI REGGIO CALABRIA Le dico sinceramente che bisogna anche abbandonare una ipocrisia di fondo che spesso e volentieri ruota attorno al concetto di zona grigia che è un concetto che non mi convince. Io sono assolutamente convinto che quello che è il grigio in questo caso è una sfumatura del nero è il nero è mafia.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Emergono sempre di più momenti di connessione tra delitti eccellenti e stragi imputate alla mafia nel 1992-93 e stragi che sono imputate all’estremismo di destra, in collaborazione con esponenti della P2 e dei servizi segreti al nord ed è per questo che la Corte d’assise di Bologna cita Falcone, il quale Falcone in una audizione del 1988 alla Commissione parlamentare Antimafia dice, forse dovremmo rileggere tutta la storia italiana.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dopo la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana. La storia delle stragi. Giovanni Falcone aveva rilasciato in alcune audizioni della Commissione Antimafia dell’88 e del ‘90 alcune dichiarazioni a lungo segretate in base alle quali proponeva appunto di rileggere la storia degli omicidi eccellenti e delle stragi in Sicilia. Lui era rimasto folgorato dalla morte, dall’uccisione, di Piersanti Mattarella, fratello del presidente, un politico che aveva cercato di rivoluzionare la politica regionale siciliana. Aveva abbracciato la linea di Aldo Moro, quella del compromesso storico, in contrapposizione con le correnti della Dc di Salvo Lima, Andreotti e Forlani. Mattarella sarebbe diventato dà la a poco probabilmente vicesegretario nazionale, perché c’era il congresso e forse per questo andava eliminato immediatamente. Falcone non credeva che fosse opera esclusivamente della mafia. Aveva raccolto testimonianze in base alle quali Licio Gelli sarebbe stato il mandante, gli esecutori invece membri dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Giusva Fioravanti e Cavallini cioè gli stessi che poi verranno coinvolti nella strage di Bologna. Una pista quella investigativa di Falcone, che è rimasta però in sospeso ma dai verbali dimenticati emerge che Falcone e Borsellino stavano realmente indagando e credevano a un ruolo della massoneria deviata, della P2, di gladio, della destra eversiva un ruolo nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti per opera della mafia in Sicilia. È una realtà che sta emergendo con prepotenza dalle carte del processo di primo grado sui mandanti della strage di Bologna dove si ipotizza anche che alcuni membri dei movimenti disciolti di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo si fossero poi uniti a quelli dei Nar per realizzare attentati e omicidi con il fine di destabilizzare il Paese. Il nostro Paolo Mondani ha raccolto delle testimonianze che vi proponiamo in esclusiva che confermerebbero che la pista della destra eversiva è perfettamente sovrapponibile a quella della mafia, per quello che riguarda se non altro gli attentati, l’attentato a Capaci. Ha raccolto la testimonianza dell’ex brigadiere Giustini che aveva a sua volta raccolto la confidenza di Alberto Lo Cicero, che era l’autista di un boss molto rispettato dell’organizzazione mafiosa, e Lo Cicero dice che Riina si sarebbe potuto catturare prima delle stragi. Lo Cicero racconta anche di un sopralluogo prima della strage di Capaci del leader di Avanguardia Nazionale, Stefano Delle Chiaie.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Dopo la morte di Giovanni Falcone ci si è guardati bene dal rileggere la storia italiana, eppure sotto montagne di carte sta riemergendo una vicenda straordinaria. Da vecchi archivi stanno emergendo verbali colpevolmente scomparsi per decenni, come quelli riguardanti un pentito pressoché sconosciuto: Alberto Lo Cicero. Autista e guardaspalle del boss Mariano Tullio Troia, Lo Cicero nel 1991, a pochi mesi dalla strage di Capaci, mette sulla strada giusta un brigadiere dei carabinieri, raccontandogli come catturare nientemeno che Totò Riina.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ci disse che lui partecipava a degli incontri perché lui faceva l’autista all’altro boss Troia Mariano Tullio e notava che quando c ’erano queste riunioni nella proprietà del Troia, Totò Riina veniva accompagnato da Biondino Salvatore.

PAOLO MONDANI Quando fa l’informativa nella quale fa sapere ai suoi superiori che Biondino era l’autista di Totò Riina?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima delle stragi.

PAOLO MONDANI Se avessero dato ascolto a questo Lo Cicero...

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Certo.

PAOLO MONDANI Si sarebbe potuto arrestare Riina prima della strage di Capaci.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Riina, non solo. Pochi giorni prima della strage di Capaci mi disse che aveva notato a Capaci, perché Lo Cicero abitava a Capaci, la presenza di personaggi di spicco di Cosa Nostra che secondo lui non avrebbero avuto motivo di essere lì se non perché doveva succedere un qualcosa di eclatante.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO I magistrati di Palermo non credono subito a Lo Cicero e Riina verrà catturato solo il 15 gennaio del 1993. Lo Cicero parla ai carabinieri da fine '91 e continua per qualche mese, da infiltrato, a fare l'autista di Mariano Tullio Troia, boss di San Lorenzo e componente della cupola di Cosa nostra che verrà catturato nel 1998. Lo Cicero racconta che Riina lo rispettava al punto da abbassare gli occhi quando lo incontrava. Ma chi era Mariano Tullio Troia?

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Il collaboratore Onorato ha riferito che nel villino di Mariano Tullio Troia ci furono delle riunioni in cui si discusse l’attentato all’Addaura a Giovanni Falcone. E da altre risultanze risulta che Mariano Tullio Troia era uno dei personaggi più vicini alla destra eversiva tanto che veniva soprannominato U ’Mussolini, il Mussolini.

PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.

PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto” e mi fornì delle foto in bianco e nero, che raffiguravano Stefano Delle Chiaie insieme al fratello della Romeo, Domenico Romeo, seduti a un tavolo come se parlassero a un pubblico, come se fosse un convegno, un incontro.

PAOLO MONDANI E Lo Cicero le parla di Delle Chiaie?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO So che è amico del fratello di Maria, ogni tanto l’ho visto qui a Capaci però….

PAOLO MONDANI Delle Chiaie veniva a Capaci?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lui lo aveva visto un paio di volte pure a Capaci. PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.

PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE A me è rimasto sempre un dubbio. Quando nell’estate, nel luglio del '79 eravamo in difficoltà io e Stefano, era difficile anche trovare un posto dove fare la latitanza, dove stare. A un certo punto lui mi dice “al limite andiamo a Caltanissetta a trovare una persona”, in tutti questi anni io ho cercato a Caltanissetta se c’era un camerata, non ho trovato un solo nome. Comunque, è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.

PAOLO MONDANI Lei ha scritto che Stefano delle Chiaie aveva una massa di informazioni impressionante, ma chi gliele dava queste informazioni? Per farne che cosa?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Avanguardia Nazionale era un’organizzazione come Ordine Nuovo preposta alla raccolta di informazioni, per questo infiltrava anche i propri uomini in altri partiti e in altre organizzazioni. È chiaro che queste informazioni affluivano all’apparato di riferimento.

PAOLO MONDANI Le passava ai servizi, insomma, per intenderci.

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE Ovvio.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.

PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.

PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.

PAOLO MONDANI Cioè Alberto le disse che Stefano delle Chiaie aveva il ruolo di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di portavoce di quelli di Roma.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.

PAOLO MONDANI Dove avviene quell’incontro?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO A Palazzo di Giustizia.

PAOLO MONDANI Verso che ora?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Verso le 19:00.

PAOLO MONDANI Per quanto tempo sta con Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Me lo ricordo perfettamente, verso mezzanotte è uscito.

PAOLO MONDANI E lei l’aspettava in macchina…

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO No, no io aspettavo fuori la stanza seduta in una poltrona.

PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.

PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie.

PAOLO MONDANI Ma questo a lei lo disse Alberto Lo Cicero?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Certo che me l’ha detto.

PAOLO MONDANI Guarda che io a Borsellino gli ho detto di Stefano delle Chiaie.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …a me mi ha detto Alberto uscendo di là, strada facendo in macchina, per arrivare che io abitavo a Isola, mi ha detto che gli ha parlato della nuova organizzazione mafiosa che i contatti Roma – Palermo li teneva Stefano delle Chiaie. Diciamo che Borsellino non era nuovo di queste cose. Già forse qualcun altro gli aveva parlato. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Borsellino aveva il quadro e convocò il brigadiere dei carabinieri Walter Giustini dopo aver letto tutte le sue informative.

PAOLO MONDANI La cosa importante è che Borsellino quando parlate di Lo Cicero, lei Giustini con Borsellino, Borsellino le dice qualcosa….

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Mi ricordo era verso l’ora di pranzo, era verso mezzogiorno e mi disse: "senti tu stai attento, guardati le spalle perché hai messo le mani su dei personaggi particolari, quindi di solito Cosa Nostra quando tu gli tiri fuori dei personaggi che loro tengono celati reagiscono” e mi disse ”tu sei giovane e ti devi guardare le spalle. Io devo morire, ma tu no perché tu sei giovane e guardati le spalle”. E io gli feci la battuta e dissi: “Dottò, e basta co sto devo morì”, mi disse “dai casomai ci vediamo lunedì, se mi serve qualcosa ti chiamo” e invece purtroppo non ha fatto più in tempo perché la domenica è saltato in aria.

PAOLO MONDANI A un certo punto viene a sapere, lei Giustini, che contro di lei si era messo addirittura Bruno Contrada.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Ho saputo che era andato dal mio comandante provinciale, comandante di gruppo all’epoca, a chiedere il mio allontanamento da Palermo perché secondo lui io stavo intralciando delle indagini dei servizi.

PAOLO MONDANI Lei il 23 maggio '92, proprio il giorno della strage, infatti, stava facendo un servizio di osservazione...

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Lì a Capaci. A Troia Antonino, Sensale, facevamo dei servizi di osservazione dentro Capaci perché non sapendo ancora che sarebbe successa la strage...

PAOLO MONDANI Ma sempre sulla base delle cose dette da Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Da Lo Cicero, da quell’indagine poi dalle intercettazioni telefoniche...

PAOLO MONDANI Si rende conto che stavate sulla pista giusta?

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Io lo so, che stavamo sulla pista giusta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma non hanno fatto in tempo. L’ex brigadiere Giustini che ha raccolto la testimonianza del suo confidente Lo Cicero, autista di un boss, Mariano Tullio Troia, tenuto molto in considerazione anche da Riina, chiamato U’Mussolini per le sue simpatie fasciste. Lo Cicero dice, dà delle indicazioni, dice l’autista di Totò Riina è Salvatore Biondino, un’informazione che sarebbe stata fondamentale per poter arrestare Riina prima delle stragi di Capaci e via d’Amelio perché i carabinieri sapevano tutto di Salvatore Biondino e infatti è proprio Biondino che viene arrestato con il capo dei capi nel gennaio del ’93 alla guida della sua auto. Tuttavia, le informazioni di Lo Cicero rimasero lettera morta. Oggi le conferma la sua compagna Maria Romeo, la quale conferma che delle Chiaie è sceso giù in Sicilia, ha incontrato Troia nella sua abitazione, quella dove si sarebbero anche svolte alcune riunioni propedeutiche alle stragi, anche a quell’attentato poi mai realizzato, ma era un’intimidazione dell’Addaura. Poi ha anche confermato che Delle Chiaie ha fatto un sopralluogo a Capaci prima della strage e ha confermato anche che Lo Cicero, il suo compagno avrebbe parlato di tutto questo a lungo con Borsellino. Se queste testimonianze venissero confermate, Delle Chiaie si sarebbe comportato come già si era comportato nell’ottobre del ’69 quando insieme a Concutelli e Junio Valerio Borghese, Concutelli il leader di Ordine Nuovo, si erano recati sull’Aspromonte e hanno partecipato a un summit della ’ndrangheta. I tre avrebbero dovuto portare secondo le testimonianze soldi, armi e competenze per azioni eversive e infatti da lì a poco si sarebbero consumati i moti di Reggio e anche organizzato il fallito golpe borghese. Oggi Delle Chiaie lo ritroviamo invece in Sicilia, secondo la testimonianza di Lo Cicero. Lo Cicero era considerato un collaboratore scomodo anche dall’organizzazione mafiosa. Cosa Nostra voleva ucciderlo e avrebbe anche impiegato un killer d’eccezione, Spatuzza, il killer dei fratelli Graviano. Ma non c’è solo la testimonianza di Lo Cicero, altri parlano dell’attivismo di Delle Chiaie in Sicilia soprattutto negli anni ’90 quando perseguiva un progetto, quello delle leghe teso a balcanizzare il nostro paese e stabilizzarlo. Lungo questo cammino ha trovato anche dei compagni di viaggio pidduisti, commercialisti di stragisti e avvocati legati ai servizi segreti.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Solo un anno dopo la morte di Falcone, Giuseppe Sensale e Antonino Troia, finiranno in carcere per la strage. Perché le informative del brigadiere Giustini non furono tenute nel giusto conto? Ma c'è di più: il 19 maggio 1999, il magistrato Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi di Firenze e Milano e sulle bombe di Roma del 1993 interrogò il pentito messinese Luigi Sparacio, un collaboratore assai controverso, che rivelò che prima di questi attentati si era incontrato a Roma con Stefano Delle Chiaie che: "dava delle strategie politiche da seguire a Cosa nostra” e che consegnò una mappa dell'Italia con dei "segni fatti con la x" che rappresentavano "degli attentati da fare". Delle Chiaie avrebbe quindi fatto da supervisore della strage di Capaci e suggeritore delle bombe del 1993. Chelazzi si fermò ma non conosceva le rivelazioni di Alberto Lo Cicero. Ora facciamo un passo indietro. Siamo nel 1990 e Delle Chiaie si butta in politica ...

PAOLO MONDANI 90-91-92-93… c'è questo fenomeno del leghismo meridionale.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 C'era una connessione molto stretta tra un progetto politico iniziale, che era quello di creare un nuovo soggetto politico, la Lega Meridionale, che doveva agire di concerto con la Lega Nord per creare un’ Italia federale nell’ambito della quale il sud deve essere lasciato alle mafie e la strategia stragista di destabilizzazione. Ce lo dicono vari collaboratori di giustizia che ci riferiscono appunto, che questo progetto fu discusso segretamente nel 1991, in tutti i suoi dettagli, che appunto dietro questo progetto c’erano Gelli, la massoneria deviata, esponenti della destra eversiava.

PAOLO MONDANI Anche Stefano Menicacci e Stefano Delle Chiaie entrano in queste formazioni politiche, in questa ondata di leghismo meridionale. Lei ha mai discusso con Delle Chiaie di questa iniziativa? È entrato anche lei in queste iniziative?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Io sono entrato nella Lega Nazional popolare, che è la prima lega in Italia.

PAOLO MONDANI E Stefano delle Chiaie addirittura si candidò?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Sì.

PAOLO MONDANI E come andarono le lezioni?

ADRIANO TILGHER - EX PRESIDENTE AVANGUARDIA NAZIONALE Male.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La storia di quegli anni la ricorda bene Antonio D'Andrea, vice segretario nazionale della Lega Meridionale Centro Sud e Isole: la più importante di quelle Leghe dove si iscrissero Vito Ciancimino, Licio Gelli, il figlio del "Papa" di Cosa Nostra, Michele Greco, e Pino Mandalari, il commercialista di Totò Riina. Obiettivo: dividere e destabilizzare l'Italia.

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Questo progetto di divisione dell’Italia non era un progetto massonico, non era un progetto estraneo allo Stato, assolutamente no. Era un progetto nato e partorito all’interno della vita politica italiana istituzionale, quindi di vertice.

PAOLO MONDANI Questo progetto di divisione dell’Italia inizialmente è appoggiato anche da Giulio Andreotti e Francesco Cossiga, vero?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Appunto, e quindi parliamo del Presidente della Repubblica e capo dello Stato e del Presidente del Consiglio.

PAOLO MONDANI Ad un certo punto alla Lega Meridionale centro sud e isole si dice interessato Stefano Delle Chiaie. Perché secondo lei Delle Chiaie era interessato a …..

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché avrà avuto anche lui delle disposizioni.

PAOLO MONDANI Lei immagina da chi?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Immagino dai vertici politici dello Stato.

PAOLO MONDANI E a cosa doveva servire Stefano Delle Chiaie in quel movimento? Cioè era uno che era in grado di fare, di mettere a punto una piccola o grande guerra civile nel paese.

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Perché una nazione si può unificare con la forza, con la violenza. E alla stessa maniera si può dividere con la forza e con la violenza, soltanto così si può arrivare a una divisione

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Tra il '90 e il '91 la Lega Meridionale Centro Sud e Isole cambia nome in Lega Meridionale per l'Unità Nazionale. Da secessionisti diventarono nazionalisti e tutti coloro che volevano dividere l'Italia se ne andarono fondando leghe in tutto il Sud. Stefano Menicacci, parlamentare del Msi e legale di Stefano delle Chiaie, ne fondò dieci dal suo studio di Roma.

PAOLO MONDANI Lei insieme a Stefano delle Chiaie dà vita a una serie di Leghe.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Falso, decisamente falso.

PAOLO MONDANI Ma scusi è.. sono tutte, la sede...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Glieli racconto io i particolari

PAOLO MONDANI ...la sede sociale di queste leghe è presso il suo studio.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Feci una cosa stupida, veramente stupida e cioè feci una lettera "noi sottoscritti dichiariamo di aver creato, di aver costituito la Lega Umbria il giorno tot." Fu tutto al maggio del '90.

PAOLO MONDANI Glielo dico io guardi, a maggio lei fa, 8 maggio fa…

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ma sì...

PAOLO MONDANI …la Lega Pugliese, l’11 maggio la Lega Marchigiana,

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Esatto.

PAOLO MONDANI Il 13 maggio la Lega Molisana.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE In una settimana...

PAOLO MONDANI La Lega Meridionale del Sud, la Lega Siciliana.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Ero ufficio unico, nel mio studio.

PAOLO MONDANI Fa la Lega del Lazio, la Lega Calabrese, la Lega Siciliana, la Lega della Sicilia e la Lega dell’Umbria. Tutti quanti in dieci giorni.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì…

PAOLO MONDANI A maggio del 1990.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE …perdoni senza un iscritto.

PAOLO MONDANI Nel '90-'91 tutti facevano queste leghe lei compreso.

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE No, io ce stavo nel '90 con la lettera e basta...

PAOLO MONDANI Ma sembravano tutti impazziti per fare leghe, c'è la mafia che lo fa, Ciancimino...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Sì, sì, sì fanno le leghe...

PAOLO MONDANI Licio Gelli...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Si erano innamorati delle Leghe...

PAOLO MONDANI E Delle Chiaie, anche Delle Chiaie...

STEFANO MENICACCI - EX DEPUTATO MSI-DN - LEGALE STEFANO DELLE CHIAIE Delle Chiaie fa la Lega delle Leghe per suo conto, io non ho mai partecipato a una sua riunione, non ho mai avuto a che fare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Domenico Romeo, da decenni collaboratore di Stefano Menicacci, afferma però il contrario, e alla fine del 1991 affronta un viaggio pericoloso...

PAOLO MONDANI Accompagnava Stefano delle Chiaie in Sicilia...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, per la campagna elettorale.

PAOLO MONDANI Volevo sapere che cosa si ricorda e in che periodo c'era stato?

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Quando c'è stato il fatto della politica, perché con Menicacci lui era andato sia a Roma alla televisione...

PAOLO MONDANI E dove lo accompagna in Sicilia se lo ricorda?

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Allora in Sicilia c'era Delle Chiaie in macchina, che io poi me l'ha presentato Menicacci quel giorno e dice accompagnalo, Menicacci mi aveva ordinato di passare lo Stretto di Messina e andare a trovare un, il politico...

PAOLO MONDANI Vi hanno fermato i carabinieri? No...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Sì, non una pattuglia, tante pattuglie. Qui io mi ero proprio...

PAOLO MONDANI Spaventato...

DOMENICO ROMEO - COLLABORATORE DI STEFANO MENICACCI Spaventato poi ho telefonato a Menicacci e Menicacci poi ad un certo punto i carabinieri hanno scritto, eccetera, eccetera, quindi poi siamo traghettati per andare a Ragusa.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Chi andava a incontrare Delle Chiaie in Sicilia? E per quale motivo forma una sua Lega?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Il loro fine è di coinvolgere i meridionali, che i meridionali in quel momento servivano come fanteria diciamo, da mandare al macello.

PAOLO MONDANI Qual è il contesto che porta alla uccisione di Giovanni Falcone e poi di Paolo Borsellino?

ANTONIO D'ANDREA - VICE SEGRETARIO NAZIONALE LEGA MERIDIONALE Lo Stato quando non sa cosa dire, escono fuori sempre i servizi segreti deviati. I servizi segreti deviati per definizione non esistono e non possono esistere i servizi segreti agiscono nell'esecuzione di ordini che ricevono dai ministri di riferimento, dalla Presidenza del Consiglio. Per cui l’omicidio di Falcone non può che essere stato concepito all’interno del governo, delle più alte sfere istituzionali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Antonio D'Andrea, vicesegretario della Lega Meridionale, è uno dei testimoni dell’attivismo di Delle Chiaie nei primi anni Novanta, in coincidenza con la nuova strategia della tensione. Con la forza e con la violenza si può unire, ma con la forza e con la violenza si può anche dividere. Per capire il contesto bisogna ricostruire che cosa è accaduto in quegli anni. È caduto il muro di Berlino, poi c’è Mani Pulite che ha sgretolato il sistema dei partiti della prima repubblica e c’era il rischio che la sinistra poi finisse al governo. Insomma, c’erano tanti orfani in giro. Cosa Nostra aveva bisogno di aggrapparsi a nuovi referenti politici perché era in corso il maxi-processo che avrebbe decapitato la cupola, poi c’era una emorragia da fermare, quella che aveva aperto all’interno dell’organizzazione una crepa quella cioè dei collaboratori di giustizia. Bisognava poi modificare la legge sulla confisca dei beni, modificare la legge sul carcere duro. Insomma, Cosa Nostra decise a un certo punto di diventare Stato, perché aveva necessità per garantire la propria sopravvivenza di fare approvare delle leggi dallo Stato. E per farlo si mette in viaggio con dei compagni consolidati nel tempo. Cioè compagni dell’eversione di destra, alla massoneria deviata e alla P2. Insieme costituiscono un nuovo sistema di potere. Cercano di costruire un nuovo sistema di potere, sullo sfondo ci sono Miglio, l’ideologo della Lega, Andreotti e il solito Licio Gelli. In che cosa consisterebbe questo tentativo? Quello di creare tanti movimenti indipendenti, di lasciare il sud alla gestione della criminalità organizzata. In questo Delle Chiaie ha un ruolo: bazzica la Lega Meridionale, fonda una lega sua, la Lega Nazionalpopolare. Il suo avvocato Menicacci nel suo studio ne fonda addirittura dieci e Delle Chiaie fa dei viaggi in Sicilia con un collaboratore del suo avvocato Domenico Romeo. Di questo viaggio c’è testimonianza. Incontra degli uomini di Cosa Nostra, ne parla il collaboratore Lo Cicero, ne parla soprattutto la compagna di Lo Cicero, Maria Romeo e la sua testimonianza vale perché è la sorella di quel Domenico Romeo che ha accompagnato Delle Chiaie in Sicilia, ma la loro non è l’unica testimonianza lo vedremo dopo la pubblicità tra 30 secondi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Stavamo parlando del ruolo fino a oggi inedito dell’estremista di destra Stefano Delle Chiaie nell’attentato di Capaci. Il PM Gabriele Chelazzi che indagava sugli attentati a Roma, a Milano e Firenze aveva ascoltato un collaboratore di giustizia, Luigi Sparacio che aveva raccontato di aver incontrato Stefano Delle Chiaie prima degli attentati. Che Delle Chiaie aveva consegnato una mappa con i luoghi da colpire contrassegnati con delle x. Nel 1999 Gabriele Chelazzi non continua le sue indagini perché Sparacio è considerato un testimone controverso e in più soprattutto non aveva Chelazzi le dichiarazioni fatte da Lo Cicero a Borsellino sul ruolo e la presenza di Delle Chiaie sul luogo della strage di Capaci prima che venisse ucciso Falcone e la sua scorta. Se queste testimonianze venissero confermate emergerebbe un ruolo di Delle Chiaie come supervisore di fatti destabilizzanti il Paese come del resto aveva già fatto come in occasione della riunione, del summit sull’Aspromonte con gli ‘ndranghetisti quando erano stati pianificati i moti di Reggio e il fallito golpe borghese. Ora Delle Chiaie avrebbe partecipato così a quella strategia stragista che si era delineata e chi si era concepita in numerosi incontri nel 1991 nel quale avevano partecipato membri dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, piduisti, uomini dei servizi segreti. Una strategia tesa a destabilizzare l’Italia attraverso le stragi che dovevano essere attribuite almeno qualcuno aveva suggerito così a Riina alla sigla “falange armata”. Una sigla che evoca gladio il cui ruolo non è stato mai chiarito fino in fondo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio, membro della famiglia mafiosa di Caltanissetta, e da alcuni anni collaboratore di giustizia racconta di uomini dello Stato coinvolti a suo dire nelle stragi. Per esempio, parla di un agente dei servizi segreti, Giovanni Peluso.

SERGIO BARBIERA - SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020  PROCESSO D’APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Lei ricorda se in quella occasione, di quest’ultimo incontro con Peluso, il Peluso fece cenni o gli parlò anche della strage Falcone?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020

PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Sì, fu in questa occasione che lui per accreditare questi discorsi che mi stava facendo parlò tutto di una serie di situazioni che riguardavano la strage di Falcone. Ha fatto riferimenti di come fu riempito il canale di scolo, con gli skateboard, ha fatto riferimento che c ’erano persone esterne a Cosa Nostra e soprattutto ha fatto riferimento alla frase famosa che io mi è rimasta impressa: “ancora Brusca è convinto che il telecomando lo ha schiacciato lui”.

GIOVANNI PELUSO – EX POLIZIOTTO Posso semplicemente dire e affermare con certezza che in merito alla dichiarazione di Riggio di essere l’esecutore materiale della strage non è possibile.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Peluso smentisce anche la sua ex compagna che nel 2019 conferma ai magistrati di Caltanissetta le parole di Pietro Riggio.

PAOLO MONDANI Peluso, le aveva già detto che lui faceva lavori strani per lo Stato...

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì, che la politica li chiamava quando c’era qualcuno che dava fastidio e loro intervenivano facendo pulizie.

PAOLO MONDANI Pulizie che significa?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Pulizie nel senso che dovevano mettere a tacere la gente che dava fastidio alla politica...

PAOLO MONDANI E lei le ha mai detto: tu hai mai ucciso qualcuno?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Io l’ho chiesto, ho detto “vabbè ma dimmi che cosa hai fatto”, gli ho detto “hai ammazzato la gente?” e stava zitto, poi ha annuito, ha fatto così.

PAOLO MONDANI Cioè ha fatto, lei le ha….

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Il cenno come per dire sì.

PAOLO MONDANI Suo marito sparisce qualche giorno durante l’attentato a Falcone, no?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, venerdì mattina.

PAOLO MONDANI Tre giorni. Successivamente le dice che secondo lui Falcone era stato ucciso….

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Si, aveva detto che Falcone non era stata la mafia ma erano stati i servizi segreti.

PAOLO MONDANI E lei non ha chiesto spiegazioni? A chi dava fastidio Falcone? Perché i servizi hanno fatto saltare Falcone?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Dice che dava fastidio alla politica italiana e poi dice pure che era dei favori fatti a degli amici americani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio dice che Peluso gli racconta come venne materialmente piazzato l’esplosivo di Capaci.

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Tutti sappiamo che sotto l’autostrada in un cunicolo dell’autostrada a Capaci viene collocata una grande quantità di materiale esplodente e prevalentemente nitrato d’ammonio, che in realtà è un concime e tritolo. Ma, c’è un ma, nel senso che è noto dall’esame degli atti che esistono tracce di pentrite.

PAOLO MONDANI La pentrite che cos’è?

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA La pentrite è una sostanza che si ritrova largamente in esplosivi di tipo militare.

PAOLO MONDANI Secondo lei il rafforzamento non è effettuato solo dalla mafia?

GIANFRANCO DONADIO - PROCURATORE DELLA REPUBBLICA DI LAGONEGRO – EX MAGISTRATO DNA Quel rafforzamento all’ultimo minuto potrebbe essere stato effettuato da altri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pietro Riggio aggiunge che Peluso stava organizzando un attentato al giudice Leonardo Guarnotta, già componente del pool antimafia con Falcone e Borsellino.

SERGIO BARBIERA -SOSTITUO PROCURATORE GENERALE DI PALERMO 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Le fu detto il motivo per il quale doveva essere organizzato un attentato ai danni del dottore Guarnotta?

PIETRO RIGGIO - COLLABORATORE DI GIUSTIZIA 19/10/2020 PROCESSO D'APPELLO TRATTATIVA STATO-MAFIA Il motivo fu quello che mi fu detto che dovevamo fare un favore politico. E quindi noi ci saremmo sistemati con una mansione all’interno dei servizi. Poi informandomi ho visto che il dottore Guarnotta stava istruendo, stava seguendo il processo nei confronti di Dell 'Utri a Palermo. E quindi io ho collegato la cosa, ecco: prima Falcone, poi Borsellino, adesso il dottore Guarnotta.

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Ha detto bisogna fare un attentato a Palermo.

PAOLO MONDANI Il nome del magistrato che le fece chi era?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Guarnotta.

PAOLO MONDANI E questo glielo dice nel febbraio...

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Del 2001.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Giovanni Peluso fa conoscere alla compagna Giovanni Aiello, alias Faccia di Mostro. Agente di Polizia che molti pentiti ritengono coinvolto nell'attentato all'Addaura a Giovanni Falcone, nelle stragi di Capaci e via D'Amelio, nel delitto del commissario Ninni Cassarà e dell'agente Nino Agostino. Legato ai servizi, alla 'ndrangheta, a Cosa Nostra e alla destra eversiva. Aiello non ha mai subito una condanna.

PAOLO MONDANI Faccia di Mostro per suo marito era il…..

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Sì lavoravano insieme però era il suo superiore.

PAOLO MONDANI Contrada?

MARIANNA CASTRO - EX COMPAGNA DI GIOVANNI PELUSO Era il superiore di loro.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO La catena di Comando di questo gruppetto di agenti speciali, secondo la signora Castro, era formata da Giovanni Aiello, soprannominato Faccia da Mostro, e da Bruno Contrada ex numero tre del Sisde.

PAOLO MONDANI Questo Giovanni Aiello era un uomo dei servizi?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no!

PAOLO MONDANI Aveva fatto parte…

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Assolutamente no. Io sono stato 10 anni nei servizi avrei saputo che questo soggetto che aveva fatto servizio, ho un vago, avevo un vago vaghissimo ricordo di questo individuo per il suo modo di essere per il suo modo di essere trasandato.

PAOLO MONDANI Lei ritiene che qualcuno nei servizi potrebbe aver avuto a che fare con la vicenda delle stragi del 92-93?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Ma quando mai. Ma quando mai.

PAOLO MONDANI Secondo lei chi era la Falange Armata che ha rivendicato le stragi di mafia del ‘92-93?

BRUNO CONTRADA - EX UFFICIALE POLIZIA DI STATO - EX DIRIGENTE SISDE Non era compito mio e non ero manco preso dalla curiosità di sapere che cos' era.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Ascoltando Bruno Contrada, prima condannato per concorso esterno in associazione mafiosa e poi salvato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, viene il dubbio che abbiamo sempre avuto davanti agli occhi la verità sulle stragi. E trent'anni dopo scopriamo anche un'altra pista che porta ad Alcamo, paesino del trapanese famoso per il vino. Oggi più noto anche per un poliziotto, un "bandito poliziotto" come si definisce lui stesso, perché restio a seguire le regole. Questo poliziotto sulla base delle indicazioni di un confidente il 29 settembre del 1993 trova un "tesoro".

PAOLO MONDANI Lei tramite una fonte molto importante arriva in una casa di Alcamo dove trova una gigantesca Santa Barbara, detenuta da due carabinieri. Cosa vede quando entra? Cosa trova?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Casse di armi, casse di munizioni, polvere...

PAOLO MONDANI Pistole con la matricola abrasa.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Pistole, sì. C’era di tutto, coltelli, ma in particolare quello che mi ha colpito di più sono i fucili.

PAOLO MONDANI E lei però trova anche una cosa particolare...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Era una cassetta di metallo con sopra un adesivo che indicava radiazioni.

PAOLO MONDANI La cassa segnalava che c’era materiale ...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Materiale radioattivo. Nel primo sopralluogo l’ho trovata, nel secondo no. Quando abbiamo rifatto la perquisizione, la sera successiva, delle armi c’erano tutte, ma non c’era la cassetta.

PAOLO MONDANI Senta i due carabinieri si chiamano Bertotto e La Colla, vengono processati e alla fine di tutta questa storia processuale prendono come dire una condanna sostanzialmente minima. Vengono trattati come dei collezionisti di armi.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO È strano, molto strano.

PAOLO MONDANI Senta per parlare chiaro lei ebbe la sensazione che questi due carabinieri o uno di loro due avesse a che fare con i nostri servizi?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, tutti e due.

PAOLO MONDANI Tutti e due.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non ho dubbi.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Ricordiamo che nella provincia di Trapani c’era un’articolazione di Gladio, che in quella provincia nel 1993 fu scoperto nella villa di un carabiniere un deposito enorme di armi da guerra di esplosivo di cui non si è mai capito l’origine e che molti ritengo essere uno degli arsenali utilizzati dalla struttura Gladio o da una struttura similare.

PAOLO MONDANI Carabiniere Carmelo La Colla...

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto, La Colla Bertotto, si...

PAOLO MONDANI Che era il caposcorta della ministra Vincenza Bono Parrino.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Esatto.

PAOLO MONDANI Poi trova in questa casa anche una...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Una foto, e il confidente mi dice di fare vedere la fotografia nell’immediatezza, ecco è qua che c’è qualcosa che… nell’immediatezza della perquisizione ai presenti. Dobbiamo capire che i presenti erano circa 200, 200, tra uomini della polizia e carabinieri. Addirittura, c’era il generale Cancelleri. Il significato di fare vedere la foto non l’ho mai capito, m’ha detto semplicemente: chi deve capire capirà della foto.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la foto trovata da Federico. Che sparisce, riappare e viene ignorata per 29 anni. Ritrae una giovane donna che solo oggi è diventata elemento di prova per la procura di Firenze. Nella foto viene infatti riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice con qualche precedente penale, ora accusata di essere coinvolta nell'esecuzione dell'attentato di via Palestro a Milano del 27 luglio 1993 e forse anche quello di Firenze del 27 maggio. La Belotti si è riconosciuta nella foto ma dichiara di non aver nulla a che fare con le stragi. E torniamo a Federico e al suo confidente di Stato.

PAOLO MONDANI La fonte, ad un certo punto, le segnala anche l’esistenza di una villa bunker in contrada Calatubo, che è qua vicino, sempre vicino Alcamo. Lei va a fare un sopralluogo notturno e dentro questa villa cosa trova?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Come quando una persona entra in un aereo e vede la strumentazione dell’aereo, no. Io l’ho vista questa strumentazione diciamo, moltiplicandola per circa 100 metri quadrati.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Questa è la villa bunker in mezzo alla campagna di Alcamo. Siamo sempre nel 1993, poco dopo il sopralluogo di Federico la polizia fa una perquisizione ma la villa risulta svuotata di tutto. La fonte a questo punto raccomanda a Federico di appostarsi di notte sotto il ponte dell'autostrada.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Verso le tre e un quarto, tre e mezza, comincio a sentire rumore dall'alto però. E dall'alto dove passa l’autostrada e dà la ho visto scendere delle persone erano 10 -15, tutte armate. Me ne sono accorto che erano armate quando...

PAOLO MONDANI Cioè persone che si calavano dal ponte dell’autostrada?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si, si.

PAOLO MONDANI Con le corde diciamo...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si con le corde. In questo posto dove loro sono scesi c’è una Madonnina dove c’è una lampadina sempre accesa.

PAOLO MONDANI Queste persone le si avvicinano in qualche modo, lei ne riconosce una...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Uno aveva una cicatrice enorme sulla faccia e a me sembrava veramente un mostro.

PAOLO MONDANI Anni dopo lei per via della storia che riguarda Giovani Aiello.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Giovanni Aiello.

PAOLO MONDANI Faccia di Mostro.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Faccia di Mostro.

PAOLO MONDANI Lei lo riconosce?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Certo.

PAOLO MONDANI Era lui?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Si. Era l’unico più basso rispetto agli altri.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Federico accerta che a poche centinaia di metri dalla villa bunker e dal ponte sull'autostrada c'è una misteriosa pista di atterraggio, con altri poliziotti identifica i piloti di un velivolo leggero ma nulla si muove. Nel frattempo, raccoglie indizi su un traffico di materiale nucleare e su una cava vicino Alcamo che fungerebbe da deposito. E la solita fonte gli fa trovare, in un casolare, alcuni fucili ad alto potenziale destinati all'omicidio di Luca Pistorelli, il magistrato che in quel periodo svolgeva indagini sul centro Scorpione della Gladio trapanese. E non è finita qui.

PAOLO MONDANI Questa fonte importantissima tra le due stragi del 1992 le dice che si svolgerà a Balestrate, che è un paesino vicino Alcamo....

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Vicina, a venti chilometri da Alcamo.

PAOLO MONDANI Un summit di mafia...

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Non solo di mafia è un summit di mafia e politica.

PAOLO MONDANI Mafiosi presenti?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era Provenzano, c ’era Messina Denaro, Bagarella, c’erano tutti. C’era il gotha mafioso di quell’epoca.

PAOLO MONDANI Brusca?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO C’era sì, c’era sì Brusca. I superlatitanti erano tutti là.

PAOLO MONDANI Politici?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Politici i nomi non me li ha fatti, mi ha detto li vedrai durante la perquisizione chi sono.

PAOLO MONDANI Cosa accade?

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO La perquisizione doveva essere fatta la sera e non è stata fatta. E’ stata fatta mi pare dopo quattro giorni.

PAOLO MONDANI Lei nel 2013 poi scrive questo libro.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Scusa se ti interrompo questo non è un libro, questo è uno sfogo.

PAOLO MONDANI Il libro si intitola la struttura segreta di Gladio sul territorio di Alcamo.

ANTONIO FEDERICO - EX SOVRINTENDENTE POLIZIA DI STATO Io penso che ci sia un secondo stato parallelo. La criminalità organizzata è dal mio punto di vista è pilotata, comandata, gestita da queste persone.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nella sentenza di condanna per i boss che nel 1988 uccisero il giornalista Mauro Rostagno emerge un rapporto riservatissimo del Sisde del 1991 nel quale si dice che i dirigenti del centro Scorpione di Trapani, la Gladio siciliana, incontravano elementi di spicco di alcune famiglie mafiose. A luglio del 1993 il governo Ciampi aveva sciolto la Settima divisione del Sismi, quella di Gladio. E poco dopo annunciava un repulisti al Sismi e al Sisde. Il governo si era convinto che nei servizi c’erano uomini collegati alle stragi che agivano come orfani della guerra fredda. Ciampi se ne accorgerà.

PAOLO MONDANI Siamo a Palazzo Chigi, la presidenza del Consiglio. La notte del 27/28 luglio del 1993. Sono appena esplose le bombe a Milano, a San Giorgio al Velabro e San Giovanni Laterano a Roma. Alla presidenza del Consiglio si staccano i telefoni.

ANTONINO DI MATTEO - MEMBRO CSM - EX PM PROCESSO TRATTATIVA STATO MAFIA Rimasi colpito dalla forza con la quale il Presidente Ciampi volle ribadirci il suo convincimento di quella notte tra il 27/28 luglio ‘93 circa la possibilità che in quel momento fosse in corso un golpe. Il presidente era rientrato precipitosamente da una località di villeggiatura nella quale si trovava, le normali comunicazioni con Palazzo Chigi si erano interrotte, arrivavano le notizie di questi attentati a Roma, a Milano e a Roma in più siti. Il presidente nel 2010 volle proprio indicarci con forza che in quel momento avevano chiarissima la forza dirompente del ricatto che era in atto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo il magistrato Di Matteo di ricatto ce ne sarebbe in piedi un altro. Matteo Messina Denaro è a conoscenza dei rapporti intercorsi tra Cosa Nostra e soggetti esterni nel periodo delle stragi. Quelle informazioni valgono più di quintali di tritolo, sono un’arma formidabile di ricatto. Chi tra le istituzioni e anche tra i giornali celebra la vittoria sulla mafia dovrebbe anche avere il pudore di ricordare ogni giorno che c’è un esponente importantissimo di primo piano di Cosa Nostra che ha avuto un ruolo nelle stragi che è libero da trent’anni ed è libero di ricattare. È emerso processualmente che nelle stragi sono intervenute delle mani esterne. Uno dei collaboratori che sa di più di queste vicende, Pietro Riggio, ha parlato dei servizi segreti quali autori della strage di capaci e ha identificato anche in un ex poliziotto Peluso uno di questi componenti. Oggi Peluso è indagato come "compartecipe ed esecutore materiale" della strage di Capaci però lui nega. Ma il nostro Paolo Mondani ha raccolto le confidenze della compagna Marianna Castro che ha detto che Peluso gli avrebbe confidato che Peluso avrebbe fatto il lavoro sporco per liberare dai nemici i politici anche uccidendo qualche volta. Glielo ha chiesto espressamente, lui ha annuito. Ha detto, ha confidato che stava preparando un attentato ai danni del magistrato Guarnotta, ha detto anche che a uccidere Falcone sono stati i servizi segreti. La Castro ha anche detto che il superiore di Peluso era “faccia da mostro” e sopra di lui c’era Contrada, che però con noi nega. Perché sono importanti queste testimonianze perché intanto coincidono con quanto ha raccontato Riggio. Riggio è un esponente importantissimo, di un’importantissima famiglia, quella dei Madonia, nel nisseno. La stessa famiglia a cui apparteneva Luigi Ilardo, boss, cugino di Piddu Madonia, membro della commissione regionale di Cosa Nostra, quella che decideva la linea stragista. Luigi Ilardo è stato il primo nel ’93 a denunciare che dietro gli omicidi eccellenti e dietro le stragi non c’era solo la mano della mafia ma anche quella destra eversiva, della massoneria deviata, dei servizi segreti. E ha citato l’omicidio dell’ex sindaco Insalaco, quello di Piersanti Mattarella, quello del poliziotto Agostino esperto in caccia di latitanti. Sui luoghi delle stragi di questi omicidi era sempre presente l’ex poliziotto Aiello “faccia da mostro” uomo legato anche alla CIA. E facci da mostro rientra anche nelle testimonianze di un altro poliziotto, Federico. Che grazie alle confidenze di una sua fonte riesce a scoprire ad Alcamo un aeroporto privato e una villa bunker dove dentro c’è un enorme sala controllo voli, che però sparirà quando ci sarà un’ispezione successiva. Scoprirà anche una villa che era in uso di due carabinieri dove dentro c’è una santa barbara: armi da sparo, polvero da sparo e una cassetta che indicava la presenza di materiale radioattivo. Sparirà anche questa cassetta, in questa villa Federico troverà anche una foto che coincide con l’identikit di una donna che si sospetta essere l’autista del commando che ha realizzato le stragi a Milano e forse anche in via dei Georgofili. Questa donna riconosce se stessa in questa foto ma dice di non entrarci nulla con gli attentati, ma la domanda è: tutto questo materiale a che cosa serviva? Era nella disponibilità di chi? Federico ricorda a un certo punto, una notte 15 uomini armati che si calano con una corda dal viadotto, tra questi c’era ancora una volta faccia da mostro. Una struttura che riguarda gladio e sappiamo perfettamente che Falcone e Borsellino stavano indagando su gladio, sul ruolo di gladio e della P2 nelle stragi e negli omicidi eccellenti avvenuti in Sicilia e le prove arrivano ancora una volta dalle carte della strage di Bologna.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questa rara foto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono in Brasile. Siamo nel 1984 e Tommaso Buscetta ha da poco iniziato la sua collaborazione. Un giorno d'autunno a San Paolo i due giudici convocano un famoso giornalista.

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Il console italiano mi chiamò al telefono e mi disse che Falcone e Borsellino volevano parlare con me. Ero stupito ma mi misi ovviamente a disposizione e andammo a cena al ristorante dell’Hotel Ca ’d 'oro, qui in Rua Augusta a San Paolo. Parlammo per circa tre ore. All'inizio immaginai che volessero informazioni su Tommaso Buscetta, ma in realtà no, volevano conoscere più dettagli sulla P2.

PAOLO MONDANI Ti ha detto che Buscetta sapeva qualcosa della P2?

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA No. Ma io avevo fatto un'intervista a Buscetta nella prigione di San Paolo i primi giorni del suo arresto e gli avevo chiesto della P2. Lui mi rispose come di sfuggita, rientrando in cella. Si girò verso di me e disse: «Nunzio, la P2 è una cosa molto seria, la mafia al confronto è una banda di cattivi ragazzi».

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In questo articolo del 30 ottobre 1985, Nunzio Briguglio parlò del ruolo di Bafisud, il Banco Financiero Sudamericano di proprietà di Umberto Ortolani, l'eminenza finanziaria della P2, già condannato per il crack della Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e indicato dalla procura Generale di Bologna come uno dei mandanti della strage del 2 agosto 1980. La Bafisud era sospettata di realizzare una vasta attività di riciclaggio.

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Cercando notizie sulla P2, parlai con il presidente della Banca Centrale brasiliana, il dottor Alfonso Celso Pastore, e gli chiesi se potevo avere accesso alle informazioni sulla Bafisud. Era un venerdì, e lui mi disse cercami lunedì, ti farò accedere ai documenti sulla Bafisud. In quel fine settimana, un incendio nella Banca Centrale a San Paolo, distrusse proprio la parte di archivio dove stavano i documenti che mi interessavano.

PAOLO MONDANI Il 30 ottobre e il primo novembre 1985 tu scrivi due articoli per il Correio Braziliense, nei quali parli del contenuto di una informativa dei servizi segreti brasiliani del 1983. Scrivi che «l’ondata di attentati e le manovre di destabilizzazione contro il governo argentino di Alfonsin secondo i servizi segreti argentini erano opera della Loggia P2».

NUNZIO BRIGUGLIO - GIORNALISTA Sì, avevo una fonte molto in alto nel governo argentino che mi aveva dato questa informazione. Il governo Alfonsin nel 1983 iniziò il lavoro di ricostruzione democratica e i processi contro i torturatori della precedente dittatura militare e la P2 con alcuni vecchi generali provò persino a organizzare un golpe.

FRANCESCO MARIA CARUSO - PRESIDENTE TRIBUNALE BOLOGNA CORTE DI ASSISE DI BOLOGNA 6/04/ 2022 La Corte d’Assise di Bologna nel procedimento penale nei confronti di Paolo Bellini, Piegiorgio Segatel, Domenico Catracchia ha pronunciato la seguente sentenza: visti gli articoli 533, 535 dichiara Paolo Bellini responsabile dei delitti a lui ascritti uniti dal vincolo della continuazione e lo condanna alla pena dell’ergastolo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Il 6 aprile scorso la sentenza di primo grado della Corte di Assise di Bologna condanna Paolo Bellini all'ergastolo.

PAOLO BELLINI È quarant'anni che mi massacrate anche voi giornalisti, non voi, in senso generale. Quarant’anni di attacchi viscerali contro la mia persona. Mi dovete dire: capo dei servizi segreti de che? De chi?

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Secondo i giudici è il quinto uomo della strage del 2 agosto 1980. Bellini, militante di Avanguardia Nazionale, è stato un killer per una cosca della ‘ndrangheta. Ha alle spalle altri dieci omicidi. E un antico rapporto con Cosa Nostra. La moglie di Bellini, Maurizia Bonini, dopo aver garantito per decenni un falso alibi al marito, lo ha riconosciuto in un filmato realizzato alla stazione di Bologna nei minuti a cavallo dell’esplosione.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 La cosa straordinaria è che questo Paolo Bellini implicato nella strage di Bologna, esponente a sua volta della destra eversiva, collegato con i servizi deviati ce lo ritroviamo poi nel 1991, nel 1992, a Palermo nelle stragi di quel periodo. Nel 1991 Paolo Bellini è presente a Enna nello stesso periodo in cui a Enna sono riuniti i massimi vertici della mafia regionale per discutere il progetto politico che è stato concepito dalla massoneria deviata, dalla destra eversiva, di destabilizzazione dell’Italia con la campagna stragista che sarà iniziata di lì a poco e con la creazione di un nuovo soggetto politico. E poi troviamo Paolo Bellini che ha continui rapporti con Antonino Gioè anche lui militante della destra, esecutore della strage di Capaci...

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Paolo Bellini, nel 1992, conduce con i carabinieri del Ros una singolare trattativa con Cosa Nostra tramite il vecchio amico Gioè che una volta arrestato, a luglio del 1993, dopo aver comunicato di voler collaborare con la giustizia viene trovato impiccato con modalità assolutamente inspiegabili. Antonino Gioè era un anello di collegamento tra Cosa Nostra e i servizi, come ci ha detto suo cugino, il boss pentito Francesco Di Carlo: una specie di agente doppio tra la criminalità e lo Stato deviato. Identikit simile a quello dell'amico Bellini.

ROBERTO SCARPINATO - PROCURATORE GENERALE DI PALERMO FINO AL 14 GENNAIO 2022 Un Paolo Bellini, che ci dice Giovanni Brusca, è quello che propone di fare attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati contro i monumenti perché questo tipo di attentati avrebbe potuto mettere in ginocchio lo Stato. Ed è estremamente interessante che da altre indagini svolte in altre Procure della Repubblica sulle stragi del nord emerge che già negli anni ’70 esponenti della destra eversiva riunitisi avevano messo in cantiere la possibilità di fare attentati contro i beni artistici nazionali proprio per attaccare lo Stato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Nel 2015, infatti, il neofascista Umberto Zamboni rivelò ai carabinieri che negli anni '70, durante una riunione di Ordine Nuovo, Massimiliano Fachini che ne era dirigente, propose "una campagna di attentati contro opere d’arte ed infrastrutture pubbliche". Ma torniamo al processo e ai mandanti della strage di Bologna. Licio Gelli, già condannato per aver depistato le indagini viene indicato come il finanziatore dei terroristi neri che piazzarono la bomba. Nelle sue tasche, arrestato in Svizzera, venne trovato un appunto di movimenti bancari. Quella intestazione con la scritta Bologna e il numero del conto svizzero di Gelli è sparita per 40 anni.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Ecco, questo è il documento Bologna. Lei come vedrà è un documento che è piegato in maniera tale da essere costudito nel portafoglio, tant’è che è stato...

PAOLO MONDANI Stava nel portafoglio di Licio Gelli ed è stato sequestrato in Svizzera il 13 settembre...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA 1982.

PAOLO MONDANI I soldi che vanno ai presunti mandanti della strage, Mario Tedeschi e Federico Umberto d’Amato. Me li fa vedere?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Allora, quelli di Federico Umberto d ’Amato e Tedeschi sono 850 mila dollari che vanno a Federico Umberto d’Amato e 20mila dollari che vanno a Tedeschi. Sul documento Federico Umberto d ’Amato non è indicato come Federico Umberto d’Amato...

PAOLO MONDANI Ma come…

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Viene indicato ”Relaz. Zaff”.

PAOLO MONDANI Il motivo per cui viene chiamato zafferano...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era un amante del pesce con lo zafferano. In realtà non ha, Gelli, finanziato soltanto Federico Umberto d ’Amato, Zaff, e Tedeschi, perché in ballo almeno in questo movimento c’è un milione di dollari pagato in contanti tra il 20 luglio e il 30 luglio dell’80...

PAOLO MONDANI A chi è andato questo milione e cinquanta mila dollari?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Secondo La ricostruzione operata dalla Procura Generale di Bologna sarebbero andati agli esecutori materiali della strage.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Pochi anni fa la procura generale di Bologna scoprì il cosiddetto documento Artigli, trovato nell'archivio dell'Ufficio Affari Riservati diretto da Federico Umberto D'Amato. Leggendolo capiamo perché per 40 anni è sparito l'appunto Bologna di Licio Gelli. Artigli è un documento del 15 ottobre 1987 a firma del capo della Polizia Parisi e indirizzato al Ministro degli Interni.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Documenta sostanzialmente un incontro che ci è stato il giorno prima presso la Polizia di prevenzione, che era la nuova denominazione che aveva assunto l’Ufficio Affari Riservati del ministero degli Interni presso il quale si era recato l’avvocato Dean, l’avvocato di Gelli, dove dopo alcuni convenevoli alla fine è andato al succo del discorso, sostanzialmente si lamentava di come Gelli veniva trattato al processo bolognese sulla strage di Bologna...

PAOLO MONDANI Dove era imputato.

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Era imputato.

PAOLO MONDANI Gelli aveva paura che si andasse al nodo e quindi manda il suo avvocato Dean a incontrare, diciamo l ’uomo di Parisi e cosa gli dice?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Gli dice che se “la vicenda viene esasperata e lo costringono necessariamente a tirare fuori gli artigli allora quei pochi che ha li tirerà fuori tutti”, ecco perché documento Artigli.

PAOLO MONDANI Ricatta lo Stato Gelli, insomma, in qualche modo...

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA In un certo senso sì.

PAOLO MONDANI E non gli verrà mai fatta una domanda sull’intestazione?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Nessuna domanda su Bologna.

PAOLO MONDANI Possiamo dire che il ricatto di Gelli a Parisi ha funzionato?

CATALDO SGARANGELLA - CAPITANO GDF BOLOGNA Sono i fatti a dirlo.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Licio Gelli aveva coperture internazionali. Lo testimonia il generale Pasquale Notarnicola che fu al Sismi, tra il '78 e l'83, comandante della prima divisione, quella che si occupava di controspionaggio e antiterrorismo e accusò il vertice del servizio di aver costruito i depistaggi della strage. Il generale, morto poco dopo la nostra intervista, descrive il contesto della bomba di Bologna.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Se lei ricorda subito dopo la guerra mondiale, la seconda guerra mondiale, emersero due potenze egemoni che erano l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. La prima strategia a cui hanno pensato gli Stati Uniti visto l’imperialismo dominante dell’Unione Sovietica fu quello di fare i colpi di Stato. Fu così che i servizi statunitensi organizzarono nel mondo, soprattutto nel Sud America, ma anche in Europa i colpi di Stato. Però questi colpi di stato non furono producenti come loro speravano, anzi spesso furono controproducenti, come in Grecia. Invece di compattare e di far diminuire l’influenza della grande presenza comunista che c’era nell’Europa...

PAOLO MONDANI L’aumentavano.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 L’aumentavano. E allora qualcuno ha pensato a una strategia nuova, ma questa strategia nuova alla quale accennerò è una strategia criminale. Questa strategia fu teorizzata dal generale americano...

PAOLO MONDANI Westmoreland.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland, capo delle forze armate americane. Una copia di questa direttiva che il generale aveva pensato fu trovata...

PAOLO MONDANI Il Field Manual, famoso...

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 ...alla figlia di Gelli.

PAOLO MONDANI Fu trovata nella borsa della figlia di Licio Gelli, Maria Grazia Gelli.

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 Westmoreland aveva pensato, non è producente il colpo di stato, ma bisogna cambiare i governi non affidabili o meno affidabili dall’interno con una sostituzione, per modo di dire dolce, perché questa sostituzione all’interno prevedeva appunto atti clamorosi come le stragi. Ecco perché i servizi proteggevano non solo i NAR, in particolare i NAR.

PAOLO MONDANI Lei pensa che il tramite tra questa strategia statunitense, diciamo così, che era contenuta nel documento Westmoreland e coloro che hanno eseguito materialmente la strage, il tramite di tutto questo fosse...

PASQUALE NOTARNICOLA – CAPO ANTITERRORISMO – CONTROSPIONAGGIO SISMI 1978 - 1983 La P2, fosse Gelli, la P2.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO In Sicilia a Bagheria c'è un posto leggendario. Villa Palagonia più nota come la villa dei mostri. Lungo il perimetro musicisti caprini, corpi deformi, mori, turchi, gobbi, storpi, chimere e nani barbuti, pulcinelli, dei e dee, un cavallo con mani umane e un uomo con testa equina, draghi e serpenti, cori di scimmie musicanti, un atlante che regge un otre anziché la sfera celeste. Fu il principe di Palagonia a volerla così e Goethe che la visitò nel 1787 raccontò di sedie con i piedi segati a diverse altezze in modo che nessuno potesse sedersi e di spine nascoste sotto i cuscini di velluto. A Bagheria si credeva che le statue avessero un potere malefico e che il principe fosse pazzo, frenetico, delirante e persino un po' deforme. O forse un emerito burlone, uno a cui piaceva beffarsi del prossimo e della casta a cui apparteneva. Trent'anni dopo le stragi di mafia la retorica delle commemorazioni ha deformato la storia. Ci ha resi incapaci di ricordare. Siamo circondati dai mostri che vollero quelle stragi e conviviamo con una possente manipolazione della realtà. Forse per questo villa Palagonia è così moderna, perché nel secolo delle guerre combattute da famiglie regnanti tutte imparentate tra loro questo luogo rappresentò una clamorosa critica dei potenti. Eccoli là i mostri.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Verità deformate. Dalle ceneri della strage di Bologna, è emerso dopo 40 anni quel filo che lega la P2, i servizi segreti alla destra eversiva, a Cosa Nostra e anche alla ‘ndrangheta. Entità che quando vedono a rischio lo status quo che gli ha garantito il potere, gli affari e anche l’impunità reagiscono come se fossero un corpo unico. Dalle carte di Bologna hanno rivitalizzato anche quei personaggi su cui indagavano Falcone e Borsellino sul ruolo di cioè di quell’estrema destra che secondo i magistrati avrebbe avuto parte attiva negli omicidi eccellenti in Sicilia. Perché la figura, dopo tutto quello che abbiamo ascoltato oggi, di Delle Chiaie è rimasta nell’ombra? Forse la verità va cercata nelle carte che sono state sequestrate in Venezuela nel 1987 nel luogo dove Delle Chiaie si è rifugiato ed è stato a lungo latitante. Sono stati ritrovati dei documenti che farebbero pensare ad un vero è proprio piano di disinformazione un piano che aveva la finalità di scagionare l’estrema destra dalla paternità delle stragi. Consisteva sostanzialmente in due strategie: portare in Parlamento la tesi che a realizzare le stragi non era stata l’estrema destra bensì gli apparati e i responsabili dei governi degli anni ’60 e ’70. Poi l’altro piano era anche quello di intossicare la politica e l’informazione attraverso un “centro neutro” che era formato da tre avvocati: un socialista, un missino e un cattolico. Insomma, un filtro che serviva per dialogare, anche infiltrare se volete magistrati, politici e giornalisti. Nel piano che è stato depositato al processo “Italicus” si legge, c’è un elenco impressionante di contatti: oltre all’asse con l’MSI ci sono socialisti, il partito radicale, alcuni gruppi della sinistra, i cattolici conservatori. Una parte importante del paese, scrive Delle Chiaie, Comunione e liberazione, si è spostata notevolmente verso le nostre tesi. Inoltre, scrive il leader di avanguardia nazionale: “Molti giornalisti sono nostri amici, sappiamo dove bussare per far passare i nostri comunicati; esiste un’area politica del paese che esclude la nostra responsabilità nelle stragi”. Invece le sentenze in questi anni, quella della strage di Piazza Fontana, Brescia e anche quella della stazione di Bologna confermano esattamente il contrario. Un patto che è nato negli anni ’60 tra la destra eversiva e i servizi di sicurezza, un piano per destabilizzare il paese. Anche il funzionario Guglielmo Carlucci, funzionario dell’Ufficio Affari Riservati del Viminale parla di un Delle Chiaie che è un vero e proprio dipendente nei fatti del capo dei servizi segreti di allora Umberto d’Amato, che secondo i magistrati e i giudici di Bologna sarebbe il mandante delle stragi della stazione di Bologna insieme a Licio Gelli. Quello che c’è da chiedersi, ma questo piano di disinformazione è mai stato attuato? Questo non lo sappiamo, sappiamo che però tutti i processi e le indagini sulle stragi hanno subito dei depistaggi. Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato. George Orwell 1984.

La pista nera. PUNTATA DEL 30/05/2022 Report Rai di Paolo Mondani. Collaborazione di Roberto Persia  

La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi.

La presenza di Stefano Delle Chiaie, il fondatore di Avanguardia Nazionale, a Capaci e i suoi contatti con esponenti mafiosi continuano a emergere dalle parole dell'ex brigadiere dei carabinieri Walter Giustini e da quelle di Maria Romeo, ex compagna del pentito Alberto Lo Cicero. Nel racconto della Romeo a Report emerge la testimonianza da lei fornita all’allora ufficiale dei carabinieri Gianfranco Cavallo. Nella informativa scaturita da quell’incontro si attesta il coinvolgimento di Stefano Delle Chiaie nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. 

LA PISTA NERA di Paolo Mondani collaborazione Roberto Persia immagini Fabio Martinelli montaggio Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A proposito di come funziona la democrazia, torniamo sui nostril passi. Lunedì scorso, 23 maggio, abbiamo mandato in onda un’inchiesta che evocava la strage di Capaci. Il nostro inviato Paolo Mondani ha raccolto le testimonianze di Walter Giustini, un ex brigadiere, che aveva messo nero su bianco sulle informative le confidenze di Alberto Lo Cicero, autista di un boss, Troia, importante, temuto, e aveva anche raccontato che ’autista di Totò Riina, il capo di Cosa nostra, all’epoca era Salvatore Biondino. Questa informazione avrebbe potuto portare all’arresto di Riina prima delle stragi. Lo Cicero aveva anche confidato a Giustini del leader di Avanguardia Nazionale, movimento dell’estrema destra, Stefano Delle Chiaie, a Capaci e anche che aveva fatto dei sopralluoghi con i boss proprio nel luogo dell’attentato. Versione confermata anche dalla compagna di Lo Cicero, Maria Romeo. Il giorno dopo la messa in onda è scoppiato un putiferio, sono scattate le perquisizioni, poi revocate, c’è chi ha invocato il depistaggio, la fuga di notizie, chi invece ha semplicemente detto: “No, è vero, Delle Chiaie c’era”. Ma c’era o non c’era? Oggi cercheremo di aggiungere nuovi tasselli e anche, forse qualche mistero.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Capaci 23 maggio come via D'Amelio 19 luglio. Sono passati trent'anni. Storici e magistrati hanno letto i fatti della strategia della tensione degli anni '70 e '80 distinguendoli dalle stragi di mafia dei primi anni '90. Oggi scopriamo invece che gli uomini dell'eversione di destra, dei depistaggi degli apparati deviati dello Stato, della massoneria piduista potrebbero non essere estranei ai morti di trenta anni fa. E dei mandanti cominciamo a scorgere l'identikit. Ben oltre Totò Riina.

PAOLO MONDANI Poi lo Cicero le parla di un personaggio che incontra in quei mesi, che conosce forse in quel periodo, che è Stefano delle Chiaie.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE DEI CARABINIERI PALERMO A noi di Stefano delle Chiaie ce ne ha parlato prima la Romeo.

PAOLO MONDANI Si, che era la fidanzata di Lo Cicero.

WALTER GIUSTINI - EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Esatto. Mi ha detto: “è ma è molto amico di mio fratello”, si vabbè dai, mo conosci Stefano Delle Chiaie te? E lei mi ha detto. “guarda io c’ho anche delle foto

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Stefano delle Chiaie è stato il capo di Avanguardia Nazionale, coinvolto nel tentato golpe Borghese, indagato e prosciolto nei processi sulle stragi di Piazza Fontana e della stazione di Bologna. Esperto di guerra non ortodossa e guerriglia urbana. Vincenzo Vinciguerra, all'ergastolo per strage, è stato un fedelissimo amico di delle Chiaie e ha parlato dei suoi rapporti con la P2 di Licio Gelli e con i servizi segreti.

PAOLO MONDANI Stefano delle Chiaie ha mai avuto relazioni con Cosa Nostra? Con uomini di Cosa Nostra?

VINCENZO VINCIGUERRA - EX ORDINE NUOVO E AVANGUARDIA NAZIONALE è chiaro che Stefano, come tutti quelli dell’estrema destra, perché non dobbiamo personalizzare, il rapporto con la criminalità organizzata è stato sempre costante. È stato costante con la mafia, io ho parlato dei rapporti con Frank Coppola, quelli li avevano chiaramente i rapporti con Frank Coppola. Io dico che l’estrema destra non è stata mai una forza di opposizione allo Stato, l’estrema destra è stata una forza di appoggio allo Stato. Ha fatto ciò che gli apparati ufficiali dello Stato non potevano fare.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Molti collaboratori hanno riferito di stretti legami di Delle Chiaie con la ‘ndrangheta. Anche l’ex compagna di lo Cicero ci conferma i contatti con la mafia e parla di uno Stefano Delle Chiaie a Capaci prima della strage del 23 maggio.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero racconta che Stefano Delle Chiaie lo accompagna da Mariano Tullio Troia che era il boss di …

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO …di Palermo, sì. Sì, ma da Alberto l’ho saputo perché Alberto mi raccontava tutto.

PAOLO MONDANI Alberto Lo Cicero accompagna Stefano delle Chiaie a Capaci nell’area che poi sarà di interesse per la strage.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Glielo ho detto prima se non mi sbaglio che Alberto ha fatto un sopralluogo con queste persone dove c’era un tunnel a Capaci.

PAOLO MONDANI Il tunnel dove hanno messo la bomba?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si perché poi io ne ho parlato con i carabinieri, ho menzionato tutte queste persone.

PAOLO MONDANI Mi spieghi cosa le ha detto Alberto rispetto al ruolo di Stefano delle Chiaie nella preparazione di quell’attentato.

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Alberto pensava che Stefano delle Chiaie era l’aggancio fra mafia e lo Stato.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Siamo a fine maggio del 1992, tra la strage di Capaci e quella di Via D'Amelio. Lo Cicero sta entrando nel programma di protezione e viene convocato da Paolo Borsellino che riservatamente indaga sulla morte dell'amico Giovanni.

PAOLO MONDANI Cosa aveva voluto sapere Borsellino?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Chi erano le persone che lui aveva visto a Capaci, con chi aveva parlato.

PAOLO MONDANI Quindi Alberto Lo Cicero, mi conferma gli parlò di Stefano delle Chiaie?

MARIA ROMEO – EX COMPAGNA ALBERTO LO CICERO Si parlò di Stefano delle Chiaie. Alberto ha avuto l’impressione che Borsellino avesse tutto il quadro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dunque secondo la testimonianza della compagna di Lo Cicero, Maria Romeo, Lo Cicero avrebbe informato Borsellino della presenza di Delle Chiaie in un lungo interrogatorio, proprio quando Borsellino stave indagando sulla morte dell’amico Giovanni. Non sappiamo se ha verbalizzato o se abbia appuntato nell’agenda rossa quei colloqui. Fatto sta che Borsellino parla anche con Walter Giustini, l’ex brigadiere, il quale gli racconta tutti i contenuti di quelle informative che contenevano le informazioni di Lo Cicero. Gli racconta anche del tentative da parte di Contrada, all’epoca, di spostarlo dale indagini. Noi andiamo in onda, il giorno dopo cosa accade? Che il 24 maggio, martedì, alle 7 a casa del nostro inviato Paolo Mondani e poi dopo anche presso la redazione di Report si affaccia la Dia. Ha un mandato di perquisizione firmato dalla Dda di Caltanissetta. Vuole acquisire tutto il materiale cartaceo o che è presente sui telefonini e sui pc riguardante i contenuti dell’inchiesta andata in onda. Poi la perquisizione viene sospesa, il decreto viene revocato. Anche perché poi si scopre che erano documenti vecchi di 30 anni e riguardano sostanzialmente le parole di Walter Giustini, di Maria Romeo, di Alberto Lo Cicero. Nulla di segreto, nulla di riservato, semmai di dimenticato. Ecco perché poi il decreto di perquisizione viene revocato. Tuttavia il nostro Paolo Mondani scopre proprio da questo decreto di essere stato seguito, pedinato, intercettato e anche filmato nel corso della sua inchiesta sulle stragi di mafia. Viene anche convocato dalla procura un mese prima della messa in onda del servizio e oppone poi il segreto per quello che riguarda le fonti, segreto professionale. Ma i magistrati dicono: “Se manderete in onda quelle interviste noi saremo costretti, forse, a smentirne i contenuti”. Cosa che si è effettivamente poi realizzata con un comunicato proprio mentre stavano svolgendo le perquisizioni. La procura sottolinea che Mondani non è indagato e però si sta realizzando una fuga di notizie e che la presenza di Delle Chiaie a Capaci è destituita di ogni fondamento. Ma è veramente così? L’ex procuratore generale della procura di Palermo in un’intervista rilasciata ai colleghi di RaiNews24 parla di un documento fino a poco tempo fa rimasto occuto. L’hanno scoperto da poco, e parla proprio della presenza di Delle Chiaie a Capaci e dei suoi contatti con i boss. Noi oggi cercheremo di aggiungere qualche tassello a questa vicenda e anche qualche mistero. Il nostro Paolo Mondani.

PAOLO MONDANI FUORI CAMPO Walter Giustini è il brigadiere dei carabinieri che alla fine del 1991 riceve le confidenze di Alberto Lo Cicero, guardaspalle e autista del boss di Cosa Nostra Mariano Tullio Troia, soprannominato U'Mussolini per le sue dichiarate idee politiche. Quelle confidenze di un uomo che ha deciso di tradire Cosa Nostra nascondono un tesoro ma la procura della repubblica di Palermo e alcuni ufficiali dei carabinieri sembrano non capire la forza dirompente di Lo Cicero.

PAOLO MONDANI Siamo all'8 gennaio del 1993 Balduccio Di Maggio viene catturato dai carabinieri dal colonnello Delfino vicino a Novara e Di Maggio racconta come arrestare Totò Riina a partire dal suo autista. A questo punto entra in gioco lei

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Arrivai che era quasi notte, verso mezzanotte, l’una. E li negli uffici incontrai il mio comandante di reparto, mi informò che era stato arrestato Balduccio Di Maggio. E che aveva indicato il nome dell’autista di Totò Riina e che in quel momento personale del Ros era negli uffici dell’anagrafe a cercare di identificare questo personaggio indicato da Balduccio Di Maggio

PAOLO MONDANI L’autista di Riina

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO L’autista di Riina. Quando io chiesi al mio capitano: “ma chi sarebbe questo autista?”, mi disse Salvatore Biondolillo. Io li dissi, “no, è Salvatore Biondino, come io affermo da 8/9 mesi, anche un anno. A me ne aveva parlato un collaboratore di giustizia Alberto Lo Cicero

PAOLO MONDANI Che era confidente

WALTER GIUSTINI-EX BRIGADIERE CARABINIERI PALERMO Prima all’inizio era confidente, parlava con me in via confidenziale, poi, per qualche mese insomma. Poi ci fu la strage di Capaci, e la strage di Borsellino e lui decise proprio di collaborare con la giustizia perché non condivideva più

PAOLO MONDANI Lei mi conferma che la notizia di Biondino, Salvatore Biondino che fac