Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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WEB TV: TELE WEB ITALIA

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 L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

  

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia della mafia.

L'alfabeto delle mafie.

La Gogna.

Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

In cerca di “Iddu”.

 

SECONDA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

E’ Stato la Mafia.

 

TERZA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: la trattativa Stato-mafia.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Carlo Alberto dalla Chiesa.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pio La Torre.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Attilio Manca.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Pippo Fava.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giuseppe Insalaco.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Ilaria Alpi.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giorgio Ambrosoli.

Nulla è come appare. Riscrivere la Storia: Il mistero della morte di Giancarlo Siani.

 

QUARTA PARTE

 

SOLITE MAFIE IN ITALIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Cosa Nostra - Altare Maggiore.

La Stidda.

La ‘Ndrangheta.

La Mafia Lucana.

La Sacra Corona Unita.

La Mafia Foggiana.

Il Polpo: Salvatore Annacondia.

La Mafia Lucana.

La Camorra.

La Mafia Romana.

La Mafia abruzzese.

La Mafia Emiliano-Romagnola.

La Mafia Veneta.

La Mafia Milanese.

La Mafia Albanese.

La Mafia Russa-Ucraina.

La Mafia Nigeriana.

La Mafia Colombiana.

La Mafia Messicana.

La Mafia Cinese.

 

QUINTA PARTE

 

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Antimafiosi.

Non era Mafia.

Il Caso Cavallari.

Il Caso Contrada.

Il Caso Lombardo.

Il Caso Cuffaro.

Il Caso Matacena.

Il Caso Roberto Rosso.

I Collaboratori ed i Testimoni di Giustizia.

Il Business dello scioglimento dei Comuni.

Il Business delle interdittive, delle Misure di Prevenzione e delle confische: Esproprio Proletario.

Il Business del Proibizionismo.

 

SESTA PARTE

 

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Gogna Parentale e Territoriale.

I tifosi.

Femmine ribelli.

Il Tesoro di Riina.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Caporalato.

Il Caporalato Agricolo.

Gli schiavi dei Parlamentari.

Gli schiavi del tessile.

Dagli ai Magistrati Onorari!

Il Caporalato dei giornalisti.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Usuropoli.

Aste Truccate.

SOLITA CASTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Nimby lobbisti.

La Lobby.

La Lobby dei papaveri Parlamentari e Ministeriali.

La Lobby dei Sindacati.

La Lobby dei Giornalisti.

La Lobby dell’Editoria.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

Fuga dall’avvocatura.

La Lobby dei Tassisti.

La Lobby dei Farmacisti.

La lobby dei cacciatori.

La Lobby dei balneari.

Le furbate delle Assicurazioni.

 

SETTIMA PARTE

 

LA SOLITA MASSONERIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Massoneria Occulta.

Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.

CONTRO TUTTE LE MAFIE. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Sanità: pizzo di Stato.

Onoranze funebri: Il "racket delle salme.

Spettacolo mafioso.

La Mafia Green.

Le Curve degli Stadi.

L’Occupazione delle case.

Il Contrabbando.

La Cupola.

 

 

 

 

 

LA MAFIOSITA’

PRIMA PARTE

 

SOLITA MAFIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Storia della mafia.

Tommaso Buscetta: “Cosa Nostra ha costituzione piramidale. La famiglia mafiosa prendeva il nome dal paese di origine. Tre famiglie contigue formavano il mandamento. I mandamenti formavano la Commissione provinciale o Cupola, i cui rappresentanti formavano la Commissione interprovinciale o Cupola. Di fatto i mafiosi non votavano la DC in quanto tale, ma votavano e facevano votare ogni partito che non fosse il Partito Comunista”. Per questo i comunisti, astiosi e vendicativi, ritengono mafiosi tutti coloro che non sono comunisti o che non votano i comunisti. Tenuto conto che al Sud i moderati hanno maggiore presa, in tutte le loro declinazioni, anche sinistri, ecco la gogna territoriale o familiare o come scrive Paolo Guzzanti: Il teorema della mafiosità ambientale.

L’accanimento prende forma in varie forme:

Il caso del delitto fantastico di “concorso esterno”.

Il Business “sinistro” dei beni sequestrati preventivamente e dei beni confiscati dopo la condanna.

La Mafia delle interdittive prefettizie che alterano la concorrenza.

Lo scioglimento dei Consigli Comunali eletti democraticamente.

Storia della mafia: il riassunto, dal brigantaggio alle multinazionali del crimine. Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

Non è solo una questione criminale. La mafia è un sistema da 11 miliardi di euro (l’1% del Pil italiano) che coinvolge imprese, istituzioni e comuni cittadini. 

«Se vogliamo combattere efficacemente la mafia, non dobbiamo trasformarla in un mostro né pensare che sia una piovra o un cancro. Dobbiamo riconoscere che ci rassomiglia». Il 23 maggio 1992 Giovanni Falcone veniva assassinato da una carica di tritolo piazzata da Cosa Nostra nei pressi di Capaci. Erano le ore 17:57 e con il magistrato morivano la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Quella strage alzò definitivamente il velo sul fenomeno mafioso costringendo istituzioni e pubblici cittadini, in Sicilia come in Italia, a fare i conti con quella “Cosa” che ormai era davvero nostra, di tutto il Paese. A trent’anni di distanza da quella strage nasce questo speciale sulle mafie e chi le combatte per i ragazzi e le ragazze, i loro insegnanti, le famiglie. Abbiamo provato a fornirvi notizie, approfondimenti e strumenti da utilizzare per creare una o più lezioni a scuola su un tema che ognuno deve sentire proprio. Perché «gli uomini passano, le idee restano», e servono nuove gambe per farle camminare.

Non è solo un insieme di criminali. La mafia è qualcosa che soffoca, che toglie il respiro. Che controlla le vite, che elimina la libertà. Che decide la morte. La mafia è obbedienza, omertà, fedeltà. È violenza, ma non necessariamente. La mafia è spesso subdola complicità, convenienza, scorciatoia. No, la mafia non è del Sud né del Nord. La mafia, nella sua essenza, è un diritto che diventa un favore. 

Le origini «mitiche» della mafia...

L’hanno chiamata in molti modi: maffia, con due effe, onorata società, picciotteria, camorra, cosa nostra, società dei malfattori, ‘ndrangheta. L’Italia fa i conti con la mafia dal 1860, dai tempi della sua unità. La sua nascita è circondata da miti e leggende. Una, la principale, è quella dei tre cavalieri arrivati dalla Spagna, Osso, Mastrosso e Carcagnosso, che hanno fondato poi le tre organizzazioni in Sicilia, Calabria e Campania. Il mito dei cavalieri s’è trasmesso nel tempo attraverso formule, riti, giuramenti. In altri scritti si parla di Mazzini, Garibaldi e perfino di santi e arcangeli.

... e quelle reali

Ma è probabilmente nelle carceri della bellissima isola di Favignana, al largo di Trapani, che avviene in quegli anni l’incontro tra briganti e membri della massoneria, delle sette segrete, da cui le mafie hanno ricavato i loro codici di affiliazione. Perché tra le caratteristiche fondamentali di Cosa nostra, che si sviluppa in Sicilia, ‘Ndrangheta, che prolifera in Calabria, e Camorra, che conquista invece la Campania, non ci sono solo la segretezza e l’obbligo di non pronunciarne neppure il nome (ve la ricordate la «prima regola del fight club»? «Non si parla del fight club»), ma l’appartenenza: si entra giurando fedeltà, pungendosi il dito con uno spillo o incidendosi la mano con un coltello davanti a un santino che poi viene bruciato. Si accede alla mafia con il «battesimo», come chiamano il rito di affiliazione, e per tutta la vita. Si esce solo con la morte o con il «pentimento», la collaborazione con la giustizia, quindi infrangendo il vincolo della segretezza e dell’omertà. Diventare «infami» come li chiamano i mafiosi. 

I collaboratori di giustizia: da «pazzi» a fondamentali

Se oggi conosciamo come queste organizzazioni sono strutturate, come si dividono il territorio, come si entra a farne parte e quali siano i nomi dei boss, lo dobbiamo soprattutto ai collaboratori di giustizia. C’è stato un tempo in cui i pentiti di mafia venivano definiti pazzi. Non dai mafiosi, ma dalla giustizia. Avremmo potuto scoprire moltissime cose, e molti decenni prima, se avessimo creduto ad esempio ai racconti di Leonardo Vitale, mafioso palermitano che nei primi anni Settanta fece i nomi di Totò Riina e del politico Vito Ciancimino, svelando anche la struttura della Commissione provinciale di Cosa nostra. Avremmo, se solo i giudici gli avessero creduto anziché sbatterlo in manicomio. Ospedale psichiatrico dal quale uscì solo dopo sette anni, prima di essere ammazzato all’uscita da messa. Ci sarebbe voluto poi un «pentito» come Tommaso Buscetta e lo straordinario lavoro del pool antimafia di Palermo, ideato dal magistrato Rocco Chinnici (ucciso nel 1983 facendo esplodere un’autobomba) con i giudici istruttori Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, per recuperare quelle straordinarie conoscenze sul fenomeno mafioso a lungo ignorate. 

Il ruolo delle istituzioni

Nei quasi due secoli di storia le mafie hanno ucciso un’infinità di magistrati, poliziotti, carabinieri, fatto sparire testimoni e oppositori, giornalisti, chiunque si mettesse sulla loro strada. E il loro sacrificio è stato enorme. Ma è solo grazie alle complicità di cui le mafie hanno goduto e godono nelle istituzioni, nello Stato, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche e in tutti i settori produttivi, se oggi si stima che l’1% del prodotto interno lordo nazionale, qualcosa come 11 miliari di euro sia direttamente nelle loro mani (fonte: Università Cattolica di Milano).

Le aziende e le persone «comuni»

Poi c’è l’indotto, quell’insieme di imprese e affari che «godono» della presenza, dell’aiuto e della complicità delle mafie: pensiamo al settore dell’ortofrutta, del facchinaggio, delle pulizie, dell’edilizia. Le mafie, insomma, non sarebbero nulla senza l’aiuto delle persone che, fuori dalle mafie, contribuiscono alla loro crescita. Immaginate un imprenditore che costruisce case grazie a concessioni edilizie ottenute attraverso politici corrotti, comprando cemento dalle aziende mafiose, facendo lavorare i «picciotti», il gradino più basso dell’appartenenza mafiosa (ma anche quello più numeroso). O pensiamo oggi a un commercialista, a un amministratore delegato di un’azienda, a un manager che mettono a disposizione il loro sapere – frutto di anni di studi nelle più importanti università – per riciclare soldi, per aprire società fiduciarie (senza nomi dei soci) nei paradisi fiscali, per gestire locali e ristoranti. 

La ‘ndrangheta, un’impresa multinazionale

La mafia è soprattutto impresa. Al Nord la ‘ndrangheta ha riprodotto alla perfezione la sua struttura in «cellule» chiamate locali, una sorta di franchising criminale la cui testa però rimane sulle pendici d’Aspromonte. Paesi minuscoli come San Luca, Platì, Africo, in provincia di Reggio Calabria, in continuo collegamento con Milano, Torino, Reggio Emilia, Como, Varese. Ma anche con Stati Uniti, Germania, Canada, Australia. Ogni affiliato ha doti specifiche: contrasto onorato, picciotto, trequartino, camorrista, padrino, sgarrista. Un modello che è diventato intercontinentale unendo regole arcaiche e modernità. E che in questi ultimi anni è diventato un brand, un marchio di qualità e affidabilità criminale che consente alle cosche calabresi di acquistare cocaina direttamente in Sudamerica «a credito», pagando la merce solamente dopo la consegna. La ‘ndrangheta negli ultimi trent’anni ha superato, per affari e livello di penetrazione sul territorio, Cosa nostra.

Cosa nostra dopo Falcone

Mafia siciliana che però non è morta, anzi. Dopo gli attentati a Falcone e Borsellino che innescarono una «reazione» non solo da parte dello Stato ma anche dai cittadini che non si era mai vista prima, l’organizzazione siciliana s’è fatta più silente: spara meno e soprattutto non cerca più di «sovvertire» lo Stato. Scende a patti con le istituzioni raggiungendo lo stesso scopo ma attirando molte meno «attenzioni». La stessa strategia adottata dalla ‘ndrangheta che invece mai si mise in contrapposizione allo Stato ma cercò, fin dagli anni Sessanta, di penetrare le istituzioni, di agganciare le pedine chiave della politica e dell’imprenditoria. 

La Sicilia, gli americani e il «sacco di Palermo»

In questi anni sono stati arrestati e condannati poliziotti, carabinieri e finanzieri infedeli, ma anche politici e magistrati. Lo studioso Rocco Sciarrone ha definito queste figure che si mettono a disposizione dei clan come il «capitale sociale» delle mafie. Senza il quale, come abbiamo visto, avremmo a che fare solo con un fenomeno criminale. Era così anche in Sicilia, prima dell’avvento negli anni Settanta e Ottanta dei corleonesi di Totò Riina, Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella, i boss che invece attaccarono frontalmente lo Stato con attentati e bombe.

Negli anni della Seconda guerra mondiale, quando gli angloamericani sbarcarono in Sicilia, i generali alleati presero accordi direttamente con i capi mafia per non avere «ostilità» nella risalita lungo la penisola. In cambio diedero poi il riconoscimento ai boss nominandoli sindaci e amministratori. Negli anni Sessanta la mafia palermitana era già così forte da riuscire in una sola notte a far emettere all’assessore ai lavori pubblici Vito Ciancimino oltre quattromila licenze edilizie, 1.600 intestate a prestanome o nullatenenti, per costruire migliaia di metri cubi di palazzine dove c’erano le ville liberty. Lo hanno chiamato il «sacco di Palermo». Segno che già 80 anni fa la mafia non era solo estorsioni, droga, omicidi ma aveva penetrato il tessuto imprenditoriale puntando al potere e alla ricchezza di pochi tenendo il resto della popolazioni in condizioni di indigenza e povertà. 

Calabria, dai pastori a imprenditori

Lo stesso è successo in Calabria dove inizialmente la ‘ndrangheta, considerata solo una mafia di pastori, ha goduto di una forte sottovalutazione. Ma già nella metà degli anni Settanta, con la «prima guerra di ‘ndrangheta», quando ci fu lo scontro tra i vecchi e i nuovi boss, alla base del contendere c’erano i soldi per la costruzione del porto di Gioia Tauro, del Quinto centro siderurgico, dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. I boss «vincenti» aprirono imprese edili e centri di produzione del calcestruzzo per accaparrarsi poi gli appalti. In quegli anni nasce la «Santa», un livello segreto della ‘ndrangheta a cui avevano accesso anche imprenditori e uomini dello Stato. Con la «Seconda guerra», negli anni Novanta, ci fu poi la scalata delle attuali famiglie ai vertici, costata più di 600 morti. Erano gli anni del grande traffico di cocaina che segnò la fine dei sequestri di persona.

La Camorra e la sua struttura «fluida»

La Camorra ha invece avuto sempre una struttura più fluida, più legata al controllo del territorio, ma attraverso boss come Raffaele Cutolo o la famiglia Nuvoletta e i Casalesi ha ripercorso lo stesso processo da criminale a imprenditoriale. Mentre la sacra corona unita, mafia pugliese, è nata molti anni dopo da una «gemma» di ‘ndrangheta e camorra. 

Nessun codice d’onore

L’immagine stereotipata del cinema e delle serie tv sulla mafia racconta da anni molte bugie sulle organizzazioni. Proprio le menzogne e le sottovalutazioni hanno permesso alle mafie di crescere e proliferare. Non è vero che i mafiosi hanno un «codice etico», che non uccidono donne e bambini. Il caso del piccolo Giuseppe Di Matteo, rapito nel ‘93, ucciso due anni dopo e sciolto nell’acido per punire il padre Santino diventato pentito ne è un esempio. La ‘ndrangheta rapì diversi bambini, alcuni dei quali non tornarono mai a casa, e uccise moltissime vittime «collaterali». È incredibile quante cose in questi anni abbiamo fatto finta di non sapere sulle mafie. Negli anni Settanta, Ottanta e nella prima metà dei Novanta, ad esempio, a Milano ci sono stati più di 100 omicidi all’anno. Molti furono commessi in scontri tra clan mafiosi. Oggi la media non supera i 20-23 e quasi nessuno rientra in dinamiche di crimine organizzato. In quegli anni la città era molto meno sicura di oggi. Eppure è dal 1999 che la politica grida all’allarme sicurezza, ma contro le mafie continuiamo a non impiegare il massimo sforzo dello Stato. 

La gestione del denaro

Oggi i boss hanno ricchezze sconfinate grazie al traffico di droga. Un chilo di cocaina si compra in Colombia a meno di 1.500 euro e si rivende a Milano a 35 mila euro. Poi da ogni chilo se ne possono ricavare altri sei grazie alle sostanze da taglio. Questi soldi però sono «sporchi» devono essere «ripuliti» per giustificare ricchezze, ville e un alto tenore di vita. Così si comprano bar, imprese, ristoranti, discoteche. I boss hanno la necessità di giustificare guadagni che già possiedono, sono ben felici di pagare fatture e battere gli scontrini anche se nei loro locali non entra nessuno. Un giovane boss della potentissima famiglia De Stefano di Reggio Calabria, Giorgetto, 41 anni, è stato arrestato due anni fa a Milano. Aveva interessi in un ristorante molto noto tra subrette e movida. Era anche finito sulle riviste di gossip con il soprannome di «Malefix» per il suo fidanzamento con una influencer. 

Sono come noi

I mafiosi non hanno coppola e lupara, ma sono del tutto identici a noi. Per vivere hanno bisogno di confondersi, di trovare consenso sociale nascondendo (anche se non del tutto) l’anima più violenta. Non è vero che i mafiosi studiano nelle migliori università del mondo o che spostano milioni di euro solo con un click. Per farlo utilizzano professionisti a loro disposizione. Ma è vero che i giovani mafiosi sono sui social, cercano lavori «normali» per celare la loro immagine, frequentano i nostri stessi locali. Lo fanno per confonderci, per ingannarci, riuscendo così ancora una volta a «distrarci», a farci gridare ad altri nemici. Internet, i media, il lavoro dei giornalisti ci consentono di conoscere molto sulle organizzazioni mafiose. Sappiamo i nomi di chi «comanda» e in quale «zona». Molte famiglie hanno addirittura pagine dedicate su Wikipedia. Abbiamo un patrimonio incredibile di informazioni, come mai avvenuto in passato. Sarebbe inaudito oggi disperdere questa enorme possibilità di sconfiggere, finalmente, le mafie attraverso la conoscenza. Mettendo così fine al loro grande inganno.

Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.

Eliot Ness, il vero Eliot Ness, non quello dei telefilm e del cinema e dei romanzi gialli, morì solo, nella cucina di casa, davanti all'acquaio, mentre si versava un bicchiere d'acqua. Lo trovò la moglie - il bicchiere in frantumi, la camicia bianca bagnata - stroncato da un infarto a soli 54 anni. 

Ne erano passati solo venticinque dall'arresto clamoroso di Al Capone a Chicago, dalla gloria degli «intoccabili» che lo rese famoso e lo spinse a Cleveland che allora era la città più corrotta d'America, ancor più di Chicago, e della quale per molti anni fu «direttore della pubblica sicurezza», cacciando i poliziotti che prendevano mazzette o semplicemente fannulloni, riportando in auge quella che era sempre stata la sua ossessione: la legge.

Adesso che siamo alla vigilia del primo festival a lui dedicato (Eliot Ness Fest, 15-17 luglio) dalla cittadina di Coudersport, Pennsylvania, dove morì, tornano inevitabili le precisazioni degli storici, e dei media americani: sì, Ness fu un uomo di straordinaria integrità morale. La sua squadra rimane ancora oggi un modello organizzativo, e dalle ceneri dell'organo preposto a far rispettare il proibizionismo sull'alcol nacque un'importante agenzia federale tuttora attiva, la C, che ha giurisdizione su alcol, tabacco e (almeno sulla carta, i lobbisti l'hanno azzoppata) le armi da fuoco (e l'atrio della sede di Washington è stato a lui intitolato).

Però la statua di Eliot Ness, l'eroe che fa arrestare Capone è l'ultima, in ordine di tempo, abbattuta dall'America che ripensa profondamente la sua storia. Ci ha appena pensato il magazine del Washington Post, che ha interpellato Jonathan Eig, l'autore dell'eccellente saggio Get Capone , «Arrestate Capone», che ridimensionò il suo ruolo nel caso del gangster più temuto d'America.

«Eliot Ness fu coinvolto nel tentativo di interrompere il flusso d'alcol che viaggiava verso Chicago e venne incaricato di cercare prove in materia di contrabbando, ma non trovò mai prove sufficienti per costruire un solido caso contro Capone. Ebbe un piccolo ruolo». Come è noto, Capone finì in carcere per evasione fiscale: e la questione centrale è che, per motivi ovvii, sarebbe stato complicato scrivere libri, creare telefilm e film dedicati a una squadra di contabili che lavorano certosinamente sui libri delle varie attività di Capone.

In Pennsylvania, al festival diretto da Stephen Green, presidente dell'Eliot Ness Museum, ci sarà «un'opportunità per rivivere uno dei periodi più interessanti e violenti della storia americana». Con film, una parata e rievocazioni storiche. Il 2022 è l'anno del 50esimo anniversario della fondazione della Atf: il vicedirettore associato e direttore operativo dell'agenzia, Thomas Chittum, terrà il discorso iniziale dedicato al padre nobile della sua agenzia.

Certo, quando Ness si candidò come sindaco di Cleveland nel 1947 fu sconfitto, finì sul lastrico a causa di investimenti sbagliati e - la Storia ha un crudele senso dello humour - il simbolo del Proibizionismo cominciò a bere troppo, segnando la sua condanna a morte. Quando morì, dimenticato, il New York Times non scrisse neanche una riga, i giornali di Chicago - la sua città - un colonnino.  

Sei mesi dopo però uscì la sua prima biografia, indubbiamente romanzata, che ispirò il telefilm con Robert Stack amatissimo da due generazioni (Stack con l'abito grigio sempre impeccabile e la camicia bianca come il vero Ness, ma il mitra Thompson era un'invenzione degli sceneggiatori) e il film di Brian De Palma con Kevin Costner contro Robert DeNiro e soprattutto la sceneggiatura cult di David Mamet al culmine della bravura («Sei solo chiacchiere e distintivo», «Lei non è di Chicago», e così via una battuta memorabile dopo l'altra). 

E ci sono anche i libri, il serial scritto da Max Allan Collins dedicato a lui, uno dei quali ispirerà il film ora in lavorazione, diretto da Uwe Boll, sulla vera storia del caso del serial killer di Cleveland che sfuggì a Ness. Fu vera gloria? 

Gli «Untouchables» davvero non potevano essere corrotti, una rarità a Chicago, e i biografi di Ness segnalano la modernità del suo approccio al crimine (tecnologia, lavoro capillare sulle strade cittadine con lotta senza quartiere alla brutalità dei poliziotti). Il resto? Una storia che tuttora fa riflettere e ispira - Hollywood ci ha insegnato che a volte i film più belli sono quelli che raccontando bugie ci dicono la verità. 

·        L'alfabeto delle mafie.

L'alfabeto delle mafie. A come Antimafia. Non solo norme, commissioni e magistrati specializzati. In nessun'altra parte del mondo alle prese con gli stessi problemi si combattono le mafie con il sostegno attivo di una parte della popolazione. In particolare quella giovanile. Isaia Sales su La Repubblica il 16 settembre 2021. Con il termine antimafia ci si riferisce a quell'insieme di norme, apparati e istituzioni predisposto in Italia per la lotta alle mafie: una legislazione speciale (416 bis, reato di associazione mafiosa; 41 bis, carcere speciale per i mafiosi; sconti di pena per i collaboratori di giustizia; introduzione del sequestro e della confisca dei beni; possibilità dello scioglimento degli enti locali per infiltrazione mafiosa) e inoltre magistrati specializzati in materia; forze dell'ordine coordinate; uffici investigativi appositamente costituiti (Dna, direzione nazionale antimafia; DDA, direzione distrettuale antimafia; DIA, direzione investigativa antimafia); uffici giudiziari specializzati nel sequestro e nella confisca; un'agenzia nazionale per il riuso (ANBSC); una commissione parlamentare specifica; relazioni semestrali e annuali dedicate, ecc.

 L'alfabeto delle mafie. B come Borghesia mafiosa. La modernità delle mafie consiste nel fatto che esse si svincolano dalle condizioni storiche che le hanno prodotte e diventano un metodo: l'uso della violenza come arricchimento e potere attraverso le relazioni politiche e sociali. Isaia Sales su La Repubblica il 30 settembre 2021. Con l'espressione "borghesia mafiosa" non si intende, certo, che la borghesia italiana sia criminale, ma si fa riferimento a due distinte caratteristiche storiche delle mafie italiane. Innanzitutto ci si riferisce all'origine sociale dei mafiosi, in gran parte provenienti - secondo gli studiosi che fanno ricorso a questa terminologia - dalle file della borghesia siciliana, mentre diversa sarebbe la provenienza di classe dei camorristi e degli 'ndranghetisti.

L'alfabeto delle mafie. C come Chiesa cattolica. Negli ultimi anni la comunità cattolica italiana ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso. Ecco le tappe che hanno portato a questa mutazione.  Isaia Sales su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Per chi si occupa del rapporto storico tra mafie italiane e Chiesa cattolica i cambiamenti degli ultimissimi anni sono davvero impressionanti. La comunità cattolica italiana (nel suo insieme) ha sempre più consapevolmente assunto la gravità del fenomeno mafioso rispetto ad un lungo passato di connivenza, silenzio o indifferenza. E in questa radicale revisione si sono impegnati i vertici delle gerarchie vaticane. Vediamo nell'ordine le principali novità intervenute. Nel 2010 la Conferenza episcopale italiana (CEI) ha scritto parole nette sull'argomento: "Le mafie sono la configurazione più drammatica del male e del peccato. In questa prospettiva non possono essere semplicisticamente interpretate come espressione di una religiosità distorta, ma come una forma brutale e devastante di rifiuto di Dio e di fraintendimento della vera religione: le mafie sono strutture di peccato". È la prima volta che viene argomentata l'avversione alla mafia utilizzando il termine "struttura di peccato" che la "teologia della liberazione" (elaborata da alcuni teologi della chiesa latino-americana) applicava all'analisi del capitalismo in quella parte del mondo esprimendosi a favore di una Chiesa dalla parte dei poveri e delle loro lotte per emanciparsi da inaccettabili condizioni di sfruttamento. La teologia della liberazione aveva contestato il silenzio e, in diversi casi, la complicità delle gerarchie cattoliche sudamericane verso le dittature militari, così come i cattolici più avvertiti in Italia avevano contestato il lungo silenzio storico (e a volte l'aperta connivenza) delle gerarchie verso la "dittatura" mafiosa. A maggio del 2021 è stato beatificato il giudice Rosario Livatino, un magistrato dal profondo sentire cristiano vittima della mafia. Già nel 2013 Padre Giuseppe Puglisi era stato proclamato beato. Un fatto straordinario: era la prima volta in assoluto che un uomo di Chiesa veniva beatificato per aver avversato la mafia e per esserne stato vittima. Per il passato, infatti, i sacerdoti che si erano opposti alle prepotenze mafiose, isolati dai credenti e dalle gerarchie ecclesiastiche, erano stati dimenticati dalla Chiesa. E la richiesta di beatificazione per don Peppe Diana, ammazzato da un clan camorristico a Casal di Principe, si è fatta sempre più pressante. Nel 2014, poi, Papa Francesco in Calabria ha pronunciato la parola "scomunica" nei confronti dei mafiosi ("I mafiosi non sono in comunione con Dio, sono scomunicati") dopo che per decenni e decenni questa parola era stata bandita dal linguaggio dei vertici della Chiesa nei confronti degli appartenenti alle mafie. E proprio sul tema della scomunica è stato promosso in Vaticano un gruppo di lavoro con la presenza di diversi esponenti del mondo cattolico che si sono segnalati per il loro impegno contro le mafie. Prima di Bergoglio anche Giovanni Paolo II nel 1993 aveva preso posizioni pubbliche contro le mafie nel celebre discorso nella Valle dei templi ad Agrigento, ma nessun Papa prima di allora (cioè a più di due secoli dalla nascita delle mafie in Italia) aveva parlato di mafie in un suo discorso, in una sua omelia, in un suo libro. Nel 2015 si è registrata anche la ferma presa di posizione dell'arcivescovo di Monreale, Michele Pennisi, di non ammettere come padrini di battesimo e di cresima coloro che si sono resi colpevoli di reati disonorevoli o coloro che appartengono ad associazioni mafiose. La mamma di don Peppe Diana commossa al passaggio di una manifestazione in ricordo del figlio ucciso dalla camorra  Si può parlare, dunque, a ragione di un cambio epocale dell'atteggiamento delle gerarchie cattoliche verso i fenomeni mafiosi. Una novità di assoluto valore umano, culturale, civile, storico prima che religioso. E proprio per valorizzare al meglio questi radicali cambiamenti degli ultimissimi anni, che vanno ripercorse storicamente tutte le ampie zone d'ombra del rapporto con le mafie del mondo cattolico italiano. Perché la domanda assillante che ci si pone sul piano storico è questa: come mai i fenomeni mafiosi si sono sviluppati in società e ambienti cattolicissimi pur rappresentando una violazione sistematica dei comandamenti e dei precetti dell'etica cristiana? E, in particolare, come spiegarsi il fatto che in quattro cattolicissime regioni italiane si siano prodotte alcune delle organizzazioni criminali più spietate e potenti al mondo, senza che - fino a pochissimi anni fa - ci fosse contrasto tra esse e le gerarchie cattoliche? Queste domande, naturalmente, valgono anche nei confronti della corruzione, tema su cui si registra un altro ritardo storico del Vaticano: solo nel 2017, infatti, si è ventilata la possibilità di una scomunica anche verso i condannati per corruzione. È del tutto evidente che la religione cattolica, così come si è originata e sviluppata nell'Italia meridionale (e negli altri paesi latino-americani alle prese con analoghi problemi) non è stata un ostacolo al dispiegarsi del potere mafioso, anzi. Ancora oggi manca dall'interno della Chiesa una spiegazione storica e dottrinale del proprio comportamento, che purtroppo non è estraneo al duraturo successo delle mafie. Certo l'uso della devozione e della ritualità nei sistemi mafiosi non è una peculiarità solo del cattolicesimo. Anche la Yakuza giapponese e le Triadi cinesi praticano riti di iniziazione vicini alle tradizioni religiose di quei paesi, così come all'interno del cristianesimo vanno considerate le pratiche di bande criminali mafiose russe e di altri paesi slavi che si richiamano a quelle della religione ortodossa. Nella criminalità mafiosa nigeriana cospicui sono i riferimenti a pratiche religiose che hanno a che fare con l'occultismo, con la stregoneria e con i riti "vudu". Così come meritano grande attenzione sia il rapporto tra terrorismo jihadista e religione musulmana sia alcuni comportamenti di stampo mafioso in territori arabi. Se si esclude Matteo Messina Denaro, non si conoscono mafiosi atei o apertamente anticlericali nei paesi cattolici, non ci sono appartenenti alle mafie che non abbiano ostentato o ostentino apertamente la loro fede. Sono cattolici osservanti i peggiori assassini che l'Italia abbia mai avuto nell'ultimo secolo e mezzo. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare loro la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti), fanno da padrini di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l'estrema unzione se muoiono nel loro letto e pretendono il funerale religioso, sono tra i massimi benefattori di molte parrocchie, organizzano le feste dedicate ai santi patroni e li si vede in prima fila nelle processioni. Nel frattempo sciolgono ragazzini nell'acido, scannano "cristiani" come pecore, ordinano omicidi a ripetizione, opprimono con il racket migliaia di persone, avvelenano con le droghe intere generazioni. E mentre scrivono in codice ordini di morte, si servono normalmente di espressioni di pietà cattolica quali "con l'aiuto di Dio", o "ringraziando Gesù Cristo", come faceva nei suoi pizzini Bernardo Provenzano. Alcuni fra loro esprimono una religiosità superstiziosa (il segno della croce prima di ammazzare o la benedizione delle pallottole con l'acqua santa), altri una religiosità tenue (andare a messa, osservare i precetti), altri sono dediti allo studio e alla lettura quotidiana della Bibbia e del Vangelo, altri usano libri di preghiera o si dedicano a letture religiose più sofisticate, altri ancora hanno eretto cappelle per la messa nel loro rifugio di latitanti, i più istruiti si sono cimentati anche con la teologia. Forse questo è uno degli aspetti più contraddittori della storia italiana: nel Paese cattolico per antonomasia, sede del cuore mondiale della cristianità, dove più forte e determinante è stata l'influenza della Chiesa cattolica nel plasmare la storia e il carattere stesso della popolazione, si sono sviluppate le criminalità organizzate di tipo mafioso che più di altre hanno condizionato e influenzato il crimine nel mondo. Nelle regioni italiane considerate più legate alla Chiesa, nel cuore della cristianità sono nati e cresciuti gli assassini più spietati. Questi criminali non hanno abiurato la loro fede religiosa, anzi spesso se ne sono serviti per giustificare le loro azioni criminali. E la cosa non riguarda solo il passato, quando più forte era l'influenza della Chiesa sulla società nel suo complesso, ma anche il periodo in cui l'Italia si è secolarizzata e addirittura gli ultimi decenni, quando è sembrato che la Chiesa avesse meno influenza sulla vita quotidiana della nazione. Altri tipi di delinquenti, altri cattolici di dubbia moralità (politici, imprenditori, capi di Stato, dittatori) hanno posto la religione a guida della loro azione pubblica e privata; e la storia ci ricorda quanti crimini e misfatti sono stati compiuti in nome della fede, quante atrocità al grido "Dio è con noi". Ma qui siamo di fronte a qualcosa di più grave e inedito: una dimestichezza, una familiarità, una quotidianità plurisecolare tra fede e crimine che non si può camuffare neanche dietro una presunta funzione pubblica o imprescindibili esigenze nazionali o statuali. La loro natura di assassini e gli scopi malavitosi della loro organizzazione sono sempre stati chiari e lampanti. Nei loro covi si sono rinvenute numerose bibbie, immagini sacre, statue di santi, e altre forme di acculturazione religiosa e di forte e sentita credenza. In alcuni casi sono stati scoperti dei veri e propri altari su cui preti e frati andavano a dire messa e a porgere la comunione a dei ricercati per efferati delitti. Dunque, non c'è alcun dubbio: i capi e gli aderenti alle quattro criminalità italiane di tipo mafioso sono devoti e ferventi cristiani che non avvertono minimamente alcuna contraddizione tra l'essere degli assassini e credere in Dio e nella sua Chiesa. Essi pensano di avere un rapporto del tutto particolare con la divinità e non li sfiora neanche lontanamente la sensazione di inconciliabilità tra il macchiarsi di efferati delitti ed essere parte della grande famiglia cattolica. I mafiosi non hanno mai avvertito la Chiesa nelle sue varie articolazioni come una nemica o una oppositrice del loro disegni e comportamenti. Un paradosso così eclatante poche volte si è riscontrato nella storia moderna della Chiesa. Questa è una constatazione storica incontestabile. Certo, ci sono preti che in diversi quartieri dominati dalle mafie svolgono una straordinaria opera sociale, culturale e perfino economica per contendere bambini, ragazzi e giovanissimi al reclutamento mafioso. E a volte questa vera e propria azione missionaria si svolge nella totale assenza delle istituzioni statali e comunali e del volontariato non religioso. Ma i preti missionari nei quartieri mafiosi non annullano il danno sociale e civile degli altri preti che nel tempo sono stati proni alle mafie. È del tutto ovvio che le mafie non avrebbero potuto radicarsi così profondamente nella storia meridionale senza un'acquiescenza degli esponenti della Chiesa cattolica, che spesso hanno piegato la dottrina cristiana alle esigenze di dare buona coscienza a degli assassini. La domanda che molti studiosi della criminalità si pongono è questa: le mafie avrebbero potuto ricoprire un ruolo plurisecolare nella storia meridionale e dell'intera nazione se, oltre alla connivenza di settori dello Stato e di parte consistente delle classi dirigenti locali, non avessero beneficiato del silenzio, dell'indifferenza, della sottovalutazione della Chiesa cattolica e della sua dottrina? La risposta è no. Senza di ciò le mafie non sarebbero arrivate a tenere in pugno il futuro di intere popolazioni. Insomma, il successo delle mafie italiane deve essere considerato sul piano storico anche come un insuccesso della Chiesa cattolica. Fino alla seconda metà del Novecento la Chiesa italiana non ha mai prodotto un documento ufficiale, una presa di posizione "contro" le mafie, non le ha mai combattute apertamente, non c'è stato mai un aperto contrasto fino ai tempi recenti. Un lunghissimo silenzio dei cattolici, del clero, delle gerarchie locali e nazionali, ha dominato incontrastato accompagnando l'evolversi di quei fenomeni criminali anche quando avevano assunto fama internazionale e la parola mafia era diventato il termine per antonomasia in tutto il globo per indicare la criminalità organizzata. Un lunghissimo silenzio durato per più di un secolo, un tempo enorme, incredibile, insopportabile. Se degli assassini hanno creduto in Dio, se si sono sentiti dei buoni cristiani pur ammazzando, se non li ha sfiorati minimamente la inconciliabilità tra il macchiarsi le mani di sangue e sentirsi parte della grande famiglia cattolica, ciò di per sé dovrebbe essere motivo di preoccupata riflessione. Nel passato ci si è limitati a bollare la religiosità dei mafiosi come una forma evidente di superstizione, quando non si poteva fare a meno di commentare episodi palesi della loro religiosità. Ma se queste testimonianze di fede dei mafiosi andavano etichettate come superstizione, allora si sarebbe dovuta dichiarare superstiziosa gran parte della popolazione cattolica. I mafiosi, infatti, non fanno altro che manifestare la loro religiosità nelle forme in cui normalmente si è manifestata nei secoli la fede cattolica nel Sud d'Italia. Il messaggio della Chiesa si è dimostrato capace di coesistere senza conflitti con l'appartenenza mafiosa. Se i mafiosi si sono sentiti dei buoni cristiani, è perché hanno respirato e introiettato "una religione che non infonde virtù". Ciò vuol dire che nel Mezzogiorno d'Italia, nelle regioni infestate dal fenomeno mafioso, il cattolicesimo non è stato del tutto "religione della virtù", come voleva Lorenzo Valla. Don Pino Puglisi fu assassinato dalla mafia il 15 settembre 1993 Le cose sono cambiate, appunto, nella seconda metà degli anni settanta del Novecento, ma lentamente e senza coinvolgere pienamente gli esponenti delle chiese locali. Il silenzio fu squarciato dalle omelie del cardinale Pappalardo nel 1982 in occasione di alcuni delitti eccellenti. Prima in Campania lo aveva fatto don Riboldi vescovo di Acerra contro la camorra, poi Papa Giovanni Paolo II ad Agrigento nel 1993. In seguito, gli omicidi di don Pino Puglisi a Palermo e di don Peppe Diana a Casal di Principe, gli attentati alle basiliche di S. Giovanni in Laterano e del Velabro a Roma, hanno spinto la Chiesa a più coraggiose prese di distanza dalle mafie, fino al richiamato documento citato della Conferenza episcopale italiana nel 2010. E questo atteggiamento nuovo (anche se minoritario) si è manifestato solo dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine della Dc, cioè dell'unità politica dei cattolici. Si può dire che è stata la fine della contrapposizione tra comunismo sovietico e mondo occidentale a consentire alla Chiesa di lottare le mafie senza sembrare filocomunista (visto che i comunisti all'epoca erano gli unici a farlo), ed è stata la fine della Dc a consentire alla chiesa di lottare le mafie senza l'imbarazzo di dover ammettere che a coprirle erano gli esponenti di un partito che si professava cristiano. Il nesso tra partito cattolico e mafie è stato fattore di imbarazzo per la Chiesa, e spesso ha stimolato una posizione negazionista del fenomeno mafioso, di giustificazionismo e spesso di aperto sostegno per timore che i comunisti potessero prendere il potere in Italia.  In un suo libro, l'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha ricordato in un suo libro di memorie che fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1945 al 1967, a mettere in guardia la Dc: "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì, disse. E con quelli lì intendeva i mafiosi". Per una gran parte della Chiesa dell'epoca i mafiosi erano considerati un "male minore" rispetto al pericolo comunista. Ci sono sicuramente spiegazioni "funzionali" sulla religiosità dei mafiosi. Per un criminale il problema principale è il controllo dei sensi di colpa. Ammazzare non è una cosa così semplice, non è una "normale" attività umana. Il senso di colpa per le azioni delittuose può mettere in crisi anche il più spietato degli assassini. Se si riesce a dominarlo, si è poi in grado di poter continuare a delinquere e a ottenere consenso, ricchezza e potere. I killer seriali sono tali proprio perché non sentono nessun senso di colpa. Stessa cosa per i mafiosi. Convincersi che Dio è dalla propria parte, che comprende la "ratio" delle azioni mafiose e criminali e che è pronto al perdono per tutto quello che di delittuoso si compie, è una incredibile comodità. Anche chi non crede riconosce alle religioni (a tutte le religioni) un presidio morale contro il male. Tutte le religioni tentano, ciascuna a proprio modo, di contenere il male che si sprigiona dall'uomo. Ancora di più ciò viene riconosciuto alla religione di Cristo. Ma se degli assassini non provano neanche rimorso per quello che commettono, e di norma si fanno il segno della croce prima di ammazzare, vuol dire che la credenza religiosa si è trasformata in un auto-assolvimento di assassini. È chiaro che i mafiosi non vogliono essere avvertiti come delinquenti dalla società che li circonda, dalle comunità in cui operano. Perciò si appoggiano alla Chiesa: come si fa a ritenerli delinquenti se la loro presenza è accettata dalle gerarchie cattoliche, se ad essi sono riservate le cerimonie più fastose, se li si sceglie come organizzatori delle feste religiose, se si consente loro di portare sulle spalle i santi, se sono tra i principali benefattori nelle attività caritative? È dunque sul concetto di pentimento e di perdono che deve soffermarsi l'analisi a proposito del rapporto mafie-Chiesa. Nella dottrina cattolica, la violazione di alcuni comandamenti che hanno a che fare con la violenza sugli uomini e sulle cose (non rubare, non ammazzare) non rende necessario riparare con atti concreti l'ingiustizia commessa e il dolore procurato, così da annullare o attenuare (laddove possibile) gli effetti negativi dei propri misfatti. L'ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l'autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento di questa traslazione di colpa è il sacramento della confessione e il sacerdote ne è il tramite. La colpa, dunque, non è mai verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma è innanzitutto colpa verso Dio, peccato contro il Signore. La confessione serve a ripristinare il rapporto di fiducia con Dio che il peccato aveva compromesso. Deve essere riparato il peccato verso il Signore, non verso le persone in carne e ossa oggetto del male. Colui che ha subìto le conseguenze del peccato resta un estraneo, un non partecipe al rito della confessione e della espiazione. Così concepita la confessione si trasforma in una "deresponsabilizzazione etica" che salta in blocco la dimensione pubblica e sociale del peccatore. Alla Chiesa è sufficiente il pentimento interiore, non quello rivolto all'oggetto del proprio atto peccaminoso o verso la collettività offesa. Insomma tutto si regge sul principio che bisogna riparare nei confronti della Chiesa (rappresentante in terra di Dio) ma non nei confronti della vittima. Questa si chiama "etica dell'intenzione" che si basa su questo assunto: se tu, peccatore, modifichi la tua interiorità che ti ha portato al peccato mediante il pentimento, ciò è sufficiente a farti rientrare tra coloro che possono riavere l'amore di Dio. Il tragitto che si interpone nel mondo cattolico tra pentimento e perdono, tra colpa ed espiazione, è il più breve rispetto a qualsiasi altra religione. Sembra che la dottrina cattolica consideri più appagante il recupero di ogni singolo peccatore piuttosto che mettere in moto la reciprocità tra offeso e offendente. In questa ottica si considera secondario il giudizio terreno sulle colpe commesse e il sottoporsi all'autorità dello Stato. Non si fa nessuna distinzione tra peccati con conseguenze sociali e peccati senza conseguenze per gli altri. La Chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c'è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare per il recupero del danno arrecato socialmente e collettivamente sopportato. Padre Nino Fasullo l'ha definita "privatizzazione della salvezza". È a questa concezione che si rifanno i mafiosi, a questa idea del rapporto con Dio che si rapportano, e hanno trovato nei preti e nella Chiesa un autorevole avallo. E che il problema riguardi anche lo strumento della confessione ne era consapevole il cardinale Carlo Maria Martini. In un confronto con Eugenio Scalfari, il porporato propose un concilio specifico sul tema della confessione, o come lui si esprime "sul percorso penitenziale della propria vita". "Vede", risponde a Scalfari: "la confessione è un sacramento estremamente importante ma ormai esangue. Sono sempre meno le persone che lo praticano ma soprattutto il suo esercizio è diventato quasi meccanico: si confessa qualche peccato, si ottiene il perdono, si recita qualche preghiera e tutto finisce così. Bisogna ridare alla confessione una sostanza che sia veramente sacramentale, un percorso di pentimento e un programma di vita, un confronto costante con il proprio confessore, insomma una direzione spirituale". La teologia morale cattolica, alle prese con l'impatto che le mafie hanno avuto con la società, ha mostrato tutti i suoi ritardi e tutte le sue incongruenze; o meglio, la lotta alle mafie fa venire allo scoperto lo scarto esistente tra teologia morale e spirito civico. La facilità del perdono è un punto irrinunciabile dell'identità della Chiesa cattolica, anche quando tale facilità ha confermato nei propri convincimenti assassini seriali come i mafiosi facendoli sentire non estranei al messaggio cristiano. Se questa analisi ha qualche fondamento, forse il passo successivo, dopo la scomunica, è mettere mano un adeguamento dottrinale. Partendo da questa semplice constatazione: i mafiosi che non si intendono di teologia morale, hanno avvertito i precetti della Chiesa come una forma di involontaria accondiscendenza verso il loro modello valoriale. Manca il peccato civico, inteso come mancanza contro lo Stato, contro la comunità, contro i beni comuni, così come aveva suggerito di introdurre qualche anno fa Alberto Monticone, l'ex presidente dell'Azione cattolica. Insomma, è ancora lunga la strada per la elaborazione e l'attuazione di una vera e propria teologia della liberazione delle mafie da parte del mondo cattolico nel suo insieme, ma la via è intrapresa, anche se a livello locale si continuano a manifestarsi atteggiamenti sconcertanti. Per esempio il funerale religioso del boss Vittorio Casamonica a Roma nel 2015, proprio nella città sede del Vaticano, durante il quale il prete celebrante ha sostenuto di non essersi accorto di nulla; non si era accorto, cioè, che stava celebrando i funerali di un notissimo mafioso. Eppure erano stati affissi enormi manifesti davanti alla Chiesa inneggianti al boss (ritratto con un enorme crocefisso al petto, che sormonta la basilica di S. Pietro e il Colosseo e la scritta: "Hai conquistato Roma ora conquisterai il Paradiso"), un elicottero sorvolava la zona e gettava fiori sui presenti, una banda intonava la musica de Il Padrino, e la bara era stata collocata dentro un enorme cocchio trainato da un numero cospicuo di cavalli. E il parroco di una chiesa intitolata a S. Giovanni Bosco (che ha impegnato tutta la sua esistenza per l'educazione) non solo non ha avuto la forza di dire di no, ma anzi ha affermato che lo avrebbe rifatto. Eppure nella stessa chiesa fu vietata la cerimonia religiosa per Piergiorgio Welby, afflitto da sclerosi multipla e militante del Partito Radicale, deceduto grazie all'assistenza di sanitari che diedero seguito alla sua volontà di porre fine alla lunga agonia. Ad un giornalista che ha chiesto al cardinale Camillo Ruini, all'epoca vicario del pontefice per la diocesi di Roma, se era pentito di aver negato il funerale a Welby, il porporato ha risposto: "Negare a Piergiorgio Welby il funerale religioso è stata una decisione sofferta, che ho preso perché ritenevo contraddittoria una scelta diversa. Su questo non ho cambiato parere. Ho comunque pregato parecchio perché il Signore lo accolga nella pienezza della vita". Ciò vuol dire che il caso era stato affrontato direttamente dalla curia romana e non affidata al prete della chiesa di don Bosco. Perché non si è fatto lo stesso per Vittorio Casamonica? Al boss Casamonica il funerale religioso, al mite Welby no. La Chiesa italiana, in conclusione, non può tirarsi fuori dalle proprie responsabilità storiche per il successo dei fenomeni mafiosi. Padre Bartolomeo Sorge aveva scritto: "Mi sono sempre chiesto perché questo sia potuto accadere: il silenzio della Chiesa sulla mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo delle beatitudini non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni." E mentre questo giudizio va riaffermato senza sconti, è altresì vero che senza un generale impegno della Chiesa cattolica non vedremo mai la fine delle mafie.

L'alfabeto delle mafie. D come Donne di mafie. La detenzione dell'uomo è stato il presupposto affinché la donna esercitasse un ruolo pregnante nella criminalità organizzata. Anche i sequestri dei beni hanno spinto verso l'intestazione di proprietà a membri femminili delle famiglie, e il coinvolgimento delle donne in strumenti finanziari per sfuggire all'individuazione dei beni accumulati con i delitti. Isaia Sales su La Repubblica il 26 Novembre 2021. È ampiamente noto che le donne delinquono molto meno degli uomini, in tutti i tempi, in tutte le circostanze, in tutte le società, all'interno di tutti i contesti criminali. Questa macroscopica differenza la si può notare nelle statistiche dei reati, a partire dall'assoluta predominanza dei maschi tra i condannati e tra i detenuti nelle carceri italiane.

L'alfabeto delle mafie: "E" come Estorsione. Il passaggio dalla rapina e dal furto all'estorsione rappresenta il passaggio dalle criminalità precedenti a quella di tipo mafioso. Depredare è un conto, riscuotere una "tassa" è un altro: è nella riscossione della tassa che le mafie si "statualizzano" e si legittimano come potere territoriale. Isaia Sales su La Repubblica il 15 gennaio 2022.

Nella storia del crimine, i mafiosi sono i primi violenti del popolo che si organizzano per le loro attività illegali all'interno della società di cui fanno parte, non fuori come erano costretti a fare i briganti. Rispetto ai banditi e ai briganti i mafiosi non prendono i soldi altrui con i furti e le rapine, o almeno non lo fanno in prima persona.

L'alfabeto delle mafie: "F" come Famiglia. La violenza non è una attività che si passa di padre in figlio né l'attitudine al comando si eredita. Isaia Sales su La Repubblica il 27 febbraio 2022.

La parola "famiglia" in uso nelle mafie può prestarsi a molteplici equivoci se non attentamente spiegata. La confusione è dovuta al fatto che i mafiosi chiamano così la loro unità di base, cioè il nucleo dei loro aderenti di un territorio ben preciso e sottoposti a una gerarchia, mentre il termine fuori dal linguaggio mafioso fa riferimento a specifici legami di sangue.

L'alfabeto delle mafie. F come Fiction. Da "Il padrino" ai "Cento passi": quando il cinema svela il mondo della criminalità. Pellicole cult e altre meno note. Una guida ai 15 film per capire come sono cambiate nel tempo le modalità con cui l'industria cinematografica ha raccontato la criminalità organizzata. Lucio Luca su La Repubblica il 22 ottobre 2021. Nel 1963, dopo aver visto un film "di mafia", Leonardo Sciascia scrisse un articolo passato alla storia: "Quando capita di assistere a un'opera del genere - fu la riflessione dello scrittore di Racalmuto - lo spettatore è portato a chiedersi non più che cosa è la mafia, ma che cosa la mafia non è. E poiché la Sicilia è terribilmente di moda nel cinema, crediamo che questa domanda dello spettatore sia destinata, nei prossimi mesi, a investire tutta la realtà siciliana: che cosa la Sicilia non è?".

«In nome della legge», Pietro Germi racconta la mafia. Il film che gode della critica positiva del boss scomparso Buscetta: «Mi è piaciuto molto e per questo i mafiosi mi hanno criticato». Redazione spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2022.

Rai Storia propone stasera alle 21.10 un grande classico del cinema italiano: In nome della legge, film del 1949 diretto da Pietro Germi. La pellicola, tratta dal romanzo autobiografico Piccola pretura del magistrato Giuseppe Guido Lo Schiavo, è interpretata da Massimo Girotti, Jone Salinas e Camillo Mastrocinque. Il film è stato girato a Sciacca, in provincia di Agrigento

La trama. Siamo in Sicilia. Il giovane magistrato di Palermo, Guido Schiavi, viene inviato come pretore a Capodarso (che in realtà è Barrafranca, in provincia di Enna). Schiavi, devoto alla giustizia e della legalità, si vede costretto a lottare duramente contro numerose ingiustizie sociali. Ma il suo zelo con condurrà a scontrarsi con un notabile, il barone Lo Vasto e contro la mafia, rappresentata dal massaro Turi Passalacqua e dai suoi uomini.

Nel mezzo, ad aggravare ogni indagine, una realtà omertosa e terribilmente diffidente che ostacola continuamente il suo lavoro. Combatte solo contro tutti, sostenuto unicamente da Grifò, il maresciallo della stazione dei carabinieri, e dal giovane amico Paolino, poi ucciso barbaramente, un delitto che convincerà il magistrato a rinunciare alle dimissioni appena presentate. Schiavi condurrà sino alla fine la sua strenua battaglia che consiste non solo nell’applicare la legge ma anche nell’insegnarne il valore. E, nonostante tutto, la gente locale si schiererà al suo fianco.

L’ex mafioso Tommaso Buscetta disse a proposito del film: «La storia mi era piaciuta molto ed ero stato per questo molto criticato dai miei amici mafiosi, i quali disapprovavano il finale della pellicola. Secondo loro, il comportamento di Passalacqua era indegno di un uomo d’onore» (nel libro Addio Cosa Nostra, di Pino Arlacchi, 1993). L’opera di Germi vinse di tre Nastri d’argento, fra cui uno speciale al regista.

Alfabeto delle mafie: "G" come Giuramenti. I riti di iniziazione e alcune regole di comportamento sono un tratto distintivo delle varie criminalità di tipo mafioso presenti nel mondo. Un modo di pensare che corrisponde a una costruzione ideologica, nel senso di trasformare i propri interessi in valori. Isaia Sales su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

Alla fine del 1930 Joe Valachi, dopo aver compiuto due omicidi su ordine dei suoi capi, viene portato in un luogo a novanta miglia da New York. Entra in una casa di stile coloniale e si ritrova in una grande sala con al centro un tavolo enorme apparecchiato con piatti, posate e bicchieri. Al tavolo è seduta una quarantina di persone che al suo ingresso si alzano in piedi.

Alfabeto delle mafie: "H" come Hotel. Nelle sale liberty dell'Hotel Des Palmes di Palermo si svolse dal 10 al 14 ottobre del 1957 un summit che ha assunto un'importanza storica nell'evoluzione della mafia siciliana. Un evento che ha dispiegato i suoi effetti fino ad oggi. Isaia Sales su La Repubblica il 18 Luglio 2022.

Il Grand Hotel et Des Palmes è l'albergo più noto di Palermo assieme a Villa Igiea. Nelle sue sale liberty si svolse dal 10 al 14 ottobre del 1957 un summit che ha assunto un'importanza storica nell'evoluzione della mafia siciliana. In quell'occasione si gettarono le basi per determinare la forza e l'influenza dei mafiosi siciliani nel traffico internazionale dell'eroina trasformando una criminalità regionale in criminalità internazionale, una criminalità in gran parte rurale nella più importante criminalità mondiale tra gli anni sessanta e novanta del Novecento.

Alfabeto delle mafie: "I" come imprenditori. L’economia reale è molto più aperta della rigida regolazione delle leggi degli Stati e della morale. La violenza e le attività economiche illegali sono sì contro il codice penale ma non sempre contro le leggi del mercato, che sono basate sulla domanda e sull’offerta di un prodotto a prescindere da chi lo produce, da chi lo commercializza e da chi lo consuma. Isaia Sales su La Repubblica il 15 Ottobre 2022.

Tra le vittime dei mafiosi il numero di operatori economici è superiore a quello dei rappresentanti delle forze di sicurezza e della magistratura. Infatti, secondo i calcoli di WikiMafia, tra le categorie più colpite ci sono quelle dei lavoratori (192) e degli imprenditori (ben 88), seguiti dai commercianti (66), sindacalisti (43) e liberi professionisti (26), che insieme formano più del 40% delle 1006 vittime innocenti delle quattro organizzazioni mafiose italiane.

 L'alfabeto delle mafie. R come Ragioniere. James Hansen per italiaoggi.it il 22 marzo 2022.

«Se parla il ragiunàt…». A Milano è una frase che non si completa mai. Se parla il ragioniere… Il resto è, aziendalmente, troppo terribile da contemplare. Come il medico di famiglia in un altro contesto, il contabile incaricato conosce tutti i segreti più intimi e allarmanti. 

Eppure, non se ne può fare a meno. Qualcuno, qualcuno che «capisce», deve pur far funzionare i bilanci perché, come spiega il ragiunàt, «un'azienda può fare qualsiasi cosa, ma non fallire. Perché, se fallisci, ti massacrano anche solo per esserti fatto la riga ai capelli dal lato sbagliato».

Tutto ciò per un'impresa «onesta», figuriamoci per un'azienda controllata dal crimine organizzato. Ma quanto sono bravi i contabili della mala? Uno studio recente - Does the Mafia Hire Good Accountants?, di Pietro A. Bianchi, della Florida International University, Jere Francis, della Maastricht University, Antonio Marra e Nicola Pecchiari, entrambi della Bocconi - prova a rispondere al quesito analizzando gli archivi penali per identificare i contabili che hanno rapporti equivoci con il crimine organizzato.

Viene misurata la qualità del loro lavoro sulla base dei bilanci depositati durante l'esercizio della professione. I «voti» espressi dai revisori sull'esecuzione sono stati poi paragonati a quelli ottenuti da altri professionisti dalla fedina pulita. Oltre all'originalità della ricerca e alla fatica evidente nel compierla, il lavoro è «monumentale» anche per quanto riguarda la stesura della relazione necessaria per descrivere lo studio - ben 54 cartelle.

Non è dunque il caso di riassumerlo tutto qui. La conclusione è comunque nitida e semplice: sì, i malavitosi riescono ad assicurarsi l'assistenza di abilissimi contabili professionisti, e ciò malgrado i rischi associati alle frequentazioni criminali… Ciò è per certi versi una sorpresa. È noto che gli esponenti del crimine organizzato riescano anche a ottenere l'assistenza di ottimi avvocati difensori, ma il caso è diverso.

Nella giurisprudenza esiste il concetto che tutti hanno diritto alla rappresentanza legale - anche i colpevoli. Difendere un criminale, e magari ottenere per lui un verdetto di «non colpevolezza» che forse non merita, non è un illecito, anzi. Il contabile professionista che invece assiste il suo cliente nel commettere un reato diventa pure lui complice del misfatto, con tutto ciò che implica.

Per dire, il «profilo di rischio» del contabile è completamente diverso da quello di un avvocato difensore, che alla peggio può perdere la causa, non la propria libertà. Da dove viene allora la disponibilità di rischiare la galera per un cliente? Dipenderà forse dalla prima regola di ogni professionista, che il cliente buono è quello che paga...

·        La Gogna.

Stragi, sia la Consulta sia la (contro)riforma non sono ostative alla verità. L’ex magistrato Roberto Scarpinato, in due articoli su “Il Fatto”, sostiene che con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e non si potrà mai far luce sui misteri. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 maggio 2022.

Sul Fatto Quotidiano sono stati pubblicati, nel giro di pochi giorni, due articoli a firma dell’ex magistrato Roberto Scarpinato. Uno dal titolo “Dall’ergastolo al libera tutti. Una riforma ostativa”; l’altro “Stragi: le risposte che non avremo”. Solo il primo titolo, ma come si sa sono scelte redazionali e non è opera sicuramente dell’autore, risulta fuorviante. No, non c’è nessuna tana libera tutti. Anzi, il testo approvato alla Camera, è esattamente una controriforma: non solo non recepisce i rilievi della Consulta, ma ha riscritto la legge in termini ancora più restrittivi. Per quanto riguarda il secondo articolo, merita un approfondimento di talune domande che potrebbero generare equivoci.

Il divieto assoluto dei benefici per chi non collabora è incostituzionale

Ricordiamo che la Corte costituzionale aveva rilevato incompatibile con la nostra carta – nata, per dirla come Piero Calamandrei, nelle carceri dove furono imprigionati i nostri partigiani -, quella parte dell’articolo 4 bis che pone un divieto assoluto dei benefici penitenziari a chi non collabora con la giustizia. La riforma che il Parlamento si appresta a varare eleva vertiginosamente gli attuali limiti di pena per accedere alla liberazione condizionale nel caso di condanne per delitti “ostativi”: due terzi della pena temporanea e 30 anni per gli ergastolani. Non solo.

La (contro)riforma, elimina le ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”. Quest’ultimo punto rende di fatto nuovamente incostituzionale la legge. In sostanza, finora c’è la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi, di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo, va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità.

A Filippo Graviano, dopo 27 anni di 41 bis è stato negato il permesso premio

In entrambi gli articoli de Il Fatto, l’ex magistrato Scarpinato mette nuovamente in risalto i boss “irriducibili”, coloro che non collaborano e che – a detta sua – conoscono i misteri sulle stragi di mafia, in particolare quella di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. In sostanza afferma che, con l’eliminazione della preclusione dei benefici per chi non collabora, c’è il rischio di favorire l’omertà e quindi non si potrà mai conoscere i misteri irrisolti sulle stragi. No, non è così. Innanzitutto non si mette sullo stesso piano chi collabora e chi no. Chi sceglie di collaborare con la giustizia, ha chiaramente dei benefici che un non collaborante se li scorderà. Abbiamo l’esempio di Giovanni Brusca che, come è giusto che sia, da quando ha scelto di pentirsi, ha avuto accesso fin da subito a numerosi benefici penitenziari. Uno che sceglie di non collaborare, dovrà attendere decenni e non è detto che avrà risposte positive alle richieste dei benefici.

C’è il recente esempio dello stragista Filippo Graviano. Dopo ben 27 anni di 41 bis, a seguito della sentenza della Corte costituzionale, ha richiesto il permesso premio: rigettato. Quindi non è assolutamente vero che per gli “irriducibili” basti magari una semplice dissociazione per usufruire i benefici. I paletti, tuttora, sono ben rigidi e se passa la riforma, lo saranno ancor di più. Talmente marcati che a rimetterci saranno la stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi che non hanno nulla a che vedere con lo stragismo. Non è propriamente corretto legare la necessità dell’ergastolo ostativo con l’accertamento delle verità sulle stragi.

Ricordiamo che c’è il trentennale del maxiprocesso. Falcone e Borsellino sono riusciti ad imbastirlo con ben altri strumenti, e l’articolo 4 bis ancora era nel mondo dei sogni. Grazie al pentimento di Tommaso Buscetta e la grande intelligenza di Falcone sono riusciti a decapitare la cupola mafiosa.

Sono passati trent’anni e nessun magistrato ha eguagliato quel risultato, nonostante l’ergastolo ostativo che, tra l’altro, fu istituito non rispettando il volere di Falcone stesso. Sì, il giudice trucidato a Capaci non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. Dopo la strage, il Parlamento ha deciso di inasprirlo.

Cosa c’entra il collaboratore Santo Di Matteo con l’ergastolo ostativo?

Per quanto riguarda le domande sulla strage di Via D’Amelio, salta all’occhio questa che pone Scarpinato: «Chi erano gli infiltrati della polizia in via D’Amelio che Francesca Castellese scongiurò il marito Santo Di Matteo di non nominare ai Pm con cui questi aveva iniziato a collaborare, dopo che era stato rapito il figlio undicenne Giuseppe, ricordandogli tra le lacrime che avevano un altro figlio da salvare?».

Punto primo. Non si comprende cosa c’entri l’ergastolo ostativo visto che Santo Di Matteo, l’unica persona deputata a rispondere, è appunto un importante collaboratore della giustizia, tanto che è costata la vita a suo figlio dodicenne, barbaramente sciolto nell’acido.

Punto secondo. Il Dubbio ha potuto rileggere quell’intercettazione – tra l’altro pieno di punti interrogativi, perché alcune parole risultavano incomprensibili – che risale al 14 dicembre del ’93, ed era un colloquio tra Di Matteo e sua moglie presso il locale della Dia. Lei non gli dice di non nominare ai Pm gli infiltrati della polizia. Dalle sue parole si evince che è preoccupata, ha paura visto che in quel momento avevano rapito il figlio e sono recapitate nuove minacce. Dice al marito di evitare di parlare anche di via D’Amelio e si chiede se ci siano poliziotti infiltrati. Prima lei dice: «Oh, senti a mia, qualcuno è infiltrato (?) per conto della mafia». Più avanti dice: «Tu questo stai facendo, pirchi’ tu ha pinsari alla strage di Borsellino, a Borsellino c’è stato qualcuno infiltrato che ha preso (?)». Dopo altri scambi tragici di battute, lei dice «(?) capire se c’è qualcuno della Polizia infiltrato pure nella mafia e ti (?)». Santo Di Matteo risponde: «Cosa?», e lei: «(?)Mi devi aiutare su tutti i punti di vista (?) pirchi’ io mi scantu, mi scantu».

In sostanza appare chiaro che lei pone domande e dimostra preoccupazione. D’altronde è storia nota che Santo Di Matteo ha partecipato alla strage di Capaci e grazie anche a lui si è potuto accertare la verità sull’esecuzione. Così come, su via D’Amelio, ha sempre detto di non aver mai partecipato all’azione, ma che era a conoscenza solo dei telecomandi che Nino Gioè avrebbe consegnato ai fratelli Graviano. Punto. Lo ha ripetuto lo stesso Di Matteo anche durante il Borsellino quater, sentito come testimone il 28 maggio 2014.

Sarebbe utile togliere gli omissis dalle intercettazioni di Riina

Nell’articolo Scarpinato pone anche altre domande. Tutte volte a presunti servizi segreti che sarebbero accorsi, in giacca e cravatta, sul luogo della strage per prelevare l’agenda rossa di Borsellino. Anche se non accertato, poniamo fosse vero: non si capisce perché lo dovrebbero sapere i boss “irriducibili” che sono al 41 bis. Nemmeno Totò Riina sapeva che fine ha fatto l’agenda rossa di Borsellino, e questo lo si evince dalle intercettazioni del 2013. Perché lo dovrebbero sapere i suoi sottoposti che tra l’altro non conoscono nemmeno tutta la preparazione della strage visto che tutto era scientemente compartimentato? Comunque la si pensi, tutto questo non ha nulla a che vedere con l’ergastolo ostativo. Sia la sentenza della Consulta che la (contro) riforma, non è un “tana libera tutti” e non è ostativa alla verità sulle stragi. Se vogliamo conoscere la verità, per cominciare sarebbe utile togliere gli omissis che ci sono nelle intercettazioni di Riina, soprattutto nella parte in cui parla di via D’Amelio.

Alla ricerca delle prove...L’ossessione dei Pm per i mandanti: Berlusconi e Dell’Utri dietro le bombe della mafia…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Giovanni Mucci, giornalista toscano settantenne, è l’ultimo testimone interrogato dai pm fiorentini Luca Tescaroli e Luca Turco, che si affannano a cercare le prove con cui costruire addosso a Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri il vestitino di “mandanti” delle bombe del 1993 e 1994. Ne dà notizia il Tirreno di Firenze, e la giornalista Ilenia Reali intervista il nuovo teste, che nei giorni della nascita di Forza Italia era a stretto contatto con il braccio destro di Berlusconi.

Su quello che i tartufoni di procura vogliono sapere, lui cade dalle nuvole, ricorda irridente che già dai magistrati di mezza Italia è stato inseguito e sentito (“Anche da Ingroia a Palermo, che non mi è proprio piaciuto”), ma lui non sa proprio niente di “trattative Stato-mafia”, né di strani incontri a Roma di Marcello Dell’Utri, “una delle persone più colte che io abbia mai incontrato”. Certo che l’ossessione per i “mandanti”, interrogativo costante ai tempi del terrorismo (chi c’era dietro le Brigate rosse?), si ripete e si moltiplica nella mente di investigatori e di giudici chiamati a far luce sulla stagione delle stragi mafiose. Che sono comunque terminate quasi trent’anni fa, è bene sempre ricordarlo. E di cui ormai si saprebbe tutto, se non ci fosse, appunto l’ossessione dei “mandanti”. Che devono essere per forza esponenti politici, cioè la categoria in cui si annidano i brutti sporchi e cattivi, peggiori degli stessi assassini.

Dovrebbe essere un capitolo chiuso per lo meno in Sicilia, dopo il fallimento del processo dei processi e una sentenza che sancisce l’inesistenza di un accordo degli anni novanta tra uomini dello Stato, politici come Calogero Mannino e investigatori come il generale Mori, e i corleonesi di Totò Riina. Ma si è risvegliata all’improvviso la Calabria, dove si è concluso un anno fa un processo molto particolare, chiamato “’Ndrangheta stragista”, che avrebbe visto complici in un attentato ai carabinieri, un boss mafioso di Brancaccio come Giuseppe Graviano e un referente della cosca Piromalli come Rocco Santo Filippone, entrambi condannati all’ergastolo. In quella sentenza di oltre mille pagine la giudice Ornella Pastore, prima di esser trasferita alla presidenza della prima sezione del tribunale di Messina, aveva lasciato come testamento le sue considerazioni politiche, che puntavano esplicitamente il dito contro Forza Italia, la cui nascita nel 1994 avrebbe coinciso con la scelta di referente delle mafie per porre argine alla sinistra. Con le bombe, dunque? Leggiamo quel che scriveva la presidente della Corte d’assise.

Dopo aver esplicitato che le condanne “costituiscono soltanto un primo approdo”, perché ci sarebbero “ulteriori soggetti coinvolti”, la sentenza precisa che si tratta di “soggetti provenienti da differenti contesti (politici, massonici, servizi segreti), che hanno agito al fine di destabilizzare lo Stato”. Ed ecco il colpo finale. ‘Ndrangheta e Cosa Nostra si sarebbero unite “alla ricerca di nuovi e più affidabili referenti politici, disposti a scendere a patti con la mafia, che furono individuati nel neo partito Forza Italia di Silvio Berlusconi”. Fin qui potrebbero sembrare solo fantasie o speranze di ambienti criminali, anche se quest’unione improvvisa (e isolata nella storia del sud) tra la mafia siciliana e quella calabrese induce più di una perplessità. Ma poi il giudizio politico è tutto nella mente dei giudici. Che scrivono: “Non può affatto escludersi, anzi appare piuttosto assai probabile che dietro a tali avvenimenti vi fossero dei mandanti politici che attraverso la ‘strategia della tensione’ volevano evitare l’avvento al potere delle sinistre, temuto anche dalle organizzazioni criminali”.

Perché è rilevante questa sentenza, oltre che per l’ardita tesi politico-giudiziaria? Perché da lì è partito un fascicolo, che è planato sulla scrivania del procuratore di Reggio Calabria Giovanni Bombardieri e da lì nelle mani dei pm fiorentini cui spetta la competenza su tutte le bombe del 1993 a 1994. In quell’aula calabrese si era affacciato anche il “pentito” doc Gaspare Spatuzza, che aveva ipotizzato un incontro a Roma in via Veneto al bar Doney tra Marcello Dell’Utri e Giuseppe Graviano. Quando? Ma mentre nasceva Forza Italia, naturalmente, cioè il 21 gennaio del 1994. E “guarda caso” proprio nei giorni delle bombe ai carabinieri e all’attentato fallito all’Olimpico. Insomma, l’ex braccio destro di Berlusconi, che all’epoca soggiornava al Majestic, cioè proprio di fronte al bar Doney, dove forse avrà preso qualche caffè, si è incontrato o no quel giorno con il boss del Brancaccio? Graviano, che pure spesso lancia messaggi ambigui, lo ha escluso. E non parliamo di Dell’Utri.

Ma potrebbero sapere qualcosa coloro che all’epoca, mentre si svolgevano le selezioni per le candidature del nuovo partito, erano al fianco del presidente di Publitalia. Ecco che prima viene sentito Ezio Cartotto, che, nonostante avesse il dente avvelenato per la mancata candidatura al Senato, ha sempre negato di aver mai visto Dell’Utri “al bar con due persone”, e in ogni caso non può essere più sentito perché è morto nel marzo 2021 di Covid. E poi Giovanni Mucci, “rincorso da accuse infondate perché Marcello mi stimava”. Ma ha senso tutto ciò? La débacle del “processo trattativa” e di tutte le indagini archiviate su “Berlusconi mafioso” non hanno ancora insegnato niente?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Le verità nascoste su Capaci e l'ultimo oltraggio di Travaglio. Felice Manti il 23 Maggio 2022 su Il Giornale.

Molti i misteri irrisolti sul massacro di 30 anni fa. Così il "Fatto" manipola il giudice in chiave anti Cavaliere.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono morti invano. Sono passati 30 anni dalle stragi e la mafia in Sicilia detta ancora legge, la camorra quasi santificata da Gomorra è ostaggio delle giovani paranze mentre la 'ndrangheta a colpi di clic traffica in cryptovalute e investe sul metaverso i soldi del riciclaggio, che sfuggono velocissimi grazie a rogue trader senza scrupoli. Seguire le cyber mollichine, come Falcone predicava, è difficile. Le indagini antimafia sono più complesse se anziché le prove si inseguono suggestioni, imbeccate dai falsi pentiti che Falcone riconosceva subito, quelli che dicono solo ciò che certi pm vogliono sentirsi dire.

Di inascoltabile e illeggibile ci sono pure gli stanchi epitaffi di chi ne ha annacquato le intuizioni - vedi la Dia, snobbata da molti pm - e le lacrime di coccodrillo di giornali come Repubblica, i cui articoli a Falcone sono costati la carriera. Ieri sul Fatto Marco Travaglio, ossessionato dall'idea che Forza Italia e Silvio Berlusconi fossero manipolati da Cosa nostra, si è esibito in una bizzarra macchinazione cui Falcone non avrebbe dato alcun peso, vagheggiando una bizzarra strategia per la lotta alle cosche: «Occorrerebbero magistrati specializzati e coraggiosi, ma i pochi che abbiamo sono quasi tutti in pensione». Dimenticandosi del pm Giuseppe Lombardo, che a Reggio Calabria da anni ravana silenziosamente nei rapporti tra 'ndrangheta, mafia e servizi segreti.

I suoi dubbi dal sapore antiberlusconiano investono referendum sulla giustizia e riforma Cartabia, considerati un bavaglio dei pm. Ma la giustizia in Italia funziona? No. Secondo la Corte di Strasburgo siamo il Paese più sanzionato per lentezze processuali e intrusione illecita nella proprietà privata e nella vita famigliare. Il numero di persone ingiustamente in carcere è altissimo ma paga Pantalone.

Al quesito referendario sulla separazione delle carriere e delle funzioni, già prevista dalla riforma Castelli e andata in fumo il 31 luglio 2007 (il perché lo sanno bene l'ideologo di Md Nello Rossi e l'ex Guardasigilli Clemente Mastella) Falcone voterebbe sì: «Chi come me richiede che pm e giudici siano due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera - disse a Mario Pirani nel 1991 il giudice, inviso alle correnti che allora come oggi paralizzano il Csm - viene bollato come nemico dell'indipendenza del magistrato e nostalgico della discrezionalità dell'azione penale. Gli esiti dei processi di mafia celebrati col nuovo rito, senza una riforma dell'ordinamento, sono sotto gli occhi di tutti». Pure quelli su Capaci e Via d'Amelio si sono conclusi in modo claudicante, a proposito di pentiti imbeccati. Perché, come scrive Edoardo Montolli nel libro I diari di Falcone, i telefoni di due componenti del commando Nino Gioè e Gioacchino La Barbera erano clonati su numeri «mai assegnati»? Perché un altro 0337 in mano agli stragisti, tecnicamente cessato il mese prima dopo una denuncia per furto, funzionava talmente bene da aver fatto tre chiamate in Minnesota poco prima della strage? Perché le verità scritte nelle agende Casio e Sharp di Falcone, esaminate da Gioacchino Genchi e Luciano Petrini non sono mai state esplorate fino in fondo nei processi? Chissà. Borsellino andò in via D'Amelio il 19 luglio 1992 soltanto perché alla madre era saltata una visita specialistica il giorno prima. Come scrive Montolli i boss avrebbero avuto la possibilità di uccidere insieme i due magistrati. Perché non lo fecero? Come è possibile che la mafia conoscesse il giorno e la data del viaggio di Falcone a Palermo? Tutti i pentiti dicono che scendeva sempre di sabato, Montolli scopre che non era mai successo: «Anche se si ipotizzasse un improbabile abbaglio collettivo di tutti i pentiti (che a processo lo confermarono, ndr) ad aprile il giudice annotò sulla Sharp due soli rientri a Palermo: il 10 e il 24». Due venerdì. Di sabato, mai.

I pm che si sono bevuti le panzane di Vincenzo Scarantino, ben addestrato da poliziotti corrotti e infedeli servitori dello Stato, straparlano del metodo Falcone ma non hanno mai chiarito se è vero che a fine maggio 1992 il ministero inviò da Borsellino Liliana Ferraro, vice di Falcone agli Affari penali, per affidare a lui l'inchiesta su Capaci sulla quale, secondo un documento Usa, Borsellino già indagava. Non sapremo mai la verità sul viaggio a Washington di Falcone a fine aprile '92, non sappiamo se indagò sul piano ordito all'estero di destabilizzazione dell'Italia a suon di attentati, di cui parla anche Travaglio. Ilda Boccassini, da titolare delle indagini su Capaci, vietò che venissero controllate le carte di credito di Falcone per non invadere la sfera privata di un uomo con cui oggi sappiamo aveva una relazione. Falcone è morto, di emuli se ne vedono pochini, come Lombardo. E quando a Genchi, che nella sua quasi quarantennale attività ha conosciuto e ha lavorato con tanti magistrati, chiediamo chi fra questi può ritenersi erede di Falcone lui risponde: «Ne ho conosciuti tanti, molti dei quali anche preparati e intelligenti». E di Falcone? «Di Falcone ho solo conosciuto delle pessime imitazioni».

Il vecchio cronista torna alla carica. A fare le stragi fu la mafia, ma Bolzoni non ci sta e ci riprova con Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Aprile 2022. 

«Nessuno dei grandi delitti di mafia di Palermo è un delitto di mafia». È la frase che tormenta, al culmine di una serata milanese, verso le quattro del mattino, con la complicità di una bottiglia di pregiato rum cubano, Attilio Bolzoni, giornalista “antimafia” militante. Uno di quelli che sono vissuti e hanno costruito la propria carriera al fianco di pubblici ministeri e “pentiti”. Oggi lui e i suoi amici di bevuta sembrano non crederci più. E nel trentennale delle stragi del 1992, mentre sotto i riflettori del circo mediatico-giudiziario c’è solo uno che con quella storia non c’entra niente, anche e non solo per motivi anagrafici, e si chiama Roberto Saviano, l’antico cronista giudiziario, il coraggioso che fu, al fianco dei pm coraggiosi, pare non crederci più, dopo tanta militanza.

Dice di non aver neanche voglia di andare alle tante commemorazioni cui forse sarà invitato (ma forse no, che crudeltà), tranne un paio di appuntamenti nelle scuole con gli studenti. Che tristezza, e non è certo per l’età (che cosa sono oggi sessantasei anni?) o la mancanza di lavoro, visto che Domani come testata non è seconda a Repubblica né al Fatto come distributrice di gogne e manette. Il punto è un altro. È che i magistrati coraggiosi al cui cospetto si inchinavano ogni giorno i cronisti coraggiosi sempre pronti allo scambio di merce –scoop contro notorietà-, dopo la conclusione infausta del processo “Trattativa”, sono usciti dai radar delle vittorie facili e della storia dell’antimafia militante. Dopo aver portato a casa una serie di batoste che non è ancora finita, se pensiamo all’inseguimento affannoso ma dal fiato corto nei confronti di Silvio Berlusconi. Perché la verità è che queste bande di coraggiosi avevano l’ambizione di volare ben più alto di Falcone e Borsellino. I quali, poveri ingenui, si erano accontentati di far processare e poi arrestare gli assassini sanguinari, gli stessi corleonesi che poi avrebbero giustiziato anche loro. I coraggiosi sono un’altra stirpe, sono quelli che “nessuno dei grandi delitti di mafia di Palermo è un delitto di mafia”.

È una piccola incultura, una storia fatta di intercettazioni più o meno legali, di deposizioni di “pentiti” spesso ricavate da colloqui investigativi senza il magistrato né il difensore, e poi il mercimonio di carte coperte dal segreto, violato costantemente da chi avrebbe il dovere istituzionale di proteggerlo e custodirlo. Colpire il nemico, la parola d’ordine. Costi quel che costi. Anche con un uso politico degli uomini d’apparato, in particolare della Dia, la direzione investigativa antimafia voluta da Giovanni Falcone. Sono i primi anni novanta, mentre a Milano si svolge la sarabanda di Tangentopoli, a Palermo arriva il procuratore Giancarlo Caselli, mentre le inchieste dell’”antimafia” militante hanno come obiettivo la Dc di Giulio Andreotti e la sua stessa persona, con un’operazione di politica giudiziaria di nome “Galassia”. Che terminerà con una sconfitta dei magistrati coraggiosi e dei cronisti coraggiosi al loro seguito. Costretti provvisoriamente, nell’attesa del successivo colpo grosso con l’entrata in politica di Berlusconi, a ripiegare su un magistrato.

Corrado Carnevale, presidente della prima sezione penale della corte di Cassazione, è sempre stato un primo della classe, uno di quegli antipatici che ti fanno notare gli errori. E aveva scoperto con trent’anni di anticipo quanta ignoranza, incompetenza e approssimazione si trova spesso negli atti giudiziari. E massacrava ogni deviazione formale dalle procedure. Era sicuramente un “ammazzasentenze”, ma non nel senso che gli veniva attribuito dagli articoli dei cronisti coraggiosi come Bolzoni. Giornalisti che non si sono mai domandati come mai uno come Adriano Sofri, che non era certo un mafioso né un amico di Carnevale, avesse attuato addirittura uno sciopero della fame alla notizia che quel presidente non sarebbe più stato chiamato a giudicare i tanti svarioni formali del processo in cui lui era imputato. Ma il capolavoro di quegli anni, dopo le clamorose assoluzioni di Andreotti e Carnevale, è l’operazione “Oceano”, quella che riguarderà Silvio Berlusconi. E che sarà solo la prima, perché la storia non è ancora finita. Anche se si sa già che sarà accantonata come tutte le altre. I cronisti coraggiosi, quelli che sono già pronti con articoli-lenzuolo e libri e talk a commemorare il trentennale delle stragi di mafia, non parlano mai di “Oceano”. Perché dovrebbero spiegare quando meno qualche coincidenza temporale.

Era il 25 gennaio del 1994. Una data che non dovrebbe dire niente, se non fosse il giorno precedente a quello in cui il presidente di Fininvest e del Milan si affacciò nei nostri televisori e disse “L’Italia è il Paese che amo…”e annunciò la propria candidatura alla Presidenza del Consiglio contro il leader del Pds Achille Occhetto. Nelle stesse ore in cui Berlusconi si preparava a vincere le elezioni politiche del 28 e 29 marzo, la Dda di Caltanissetta, impegnata nelle indagini sull’uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, affidava “ampia delega” agli uomini della Dia per l’ ”eventuale individuazione di mandanti della strage di Capaci legati al mondo politico-imprenditoriale-finanziario”, disponendo anche intercettazioni telefoniche nei confronti dei fratelli Alberto e Marcello Dell’Utri, Vittorio Mangano, Rosario Cattafi e Pietro Rampulla. La rete era stata lanciata, mentre già trapelava il nome del “pentito” Salvatore Cancemi, da subito ben addomesticato.

Il senso politico dell’operazione, che naturalmente finirà in niente come tutte le successive nel corso di trent’anni, è molto chiaro. E molto allarmante, tranne per coloro che continuano a pensare che le stragi di mafia non le abbiano pensate e portate a termine i corleonesi. Perché negli stessi giorni in cui Berlusconi stava annunciando il suo ingresso in politica, la famosa discesa in campo, i magistrati coraggiosi, con l’uso di quella parte della Dia legata al mondo della sinistra (ci furono scontri furibondi tra gli stessi investigatori) e la complicità dei cronisti coraggiosi, stava già indagando su di lui. Come mandante della strage di Capaci. Come assassino di Falcone, di questo stiamo parlando. Ci aiuta nella memoria su quei giorni lo stesso Attilio Bolzoni, che nello stesso lungo articolo su Domani, che pare il testamento di uno sconfitto, racconta un episodio di qualche mese fa. Sono stato improvvisamente chiamato in questura con una convocazione “urgente”, racconta. «Ho trovato tre magistrati che conoscevo (ovvio, ndr), uno della procura nazionale antimafia, uno della Procura della Repubblica di Caltanissetta che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino, il terzo della Procura della Repubblica di Firenze, quella dell’inchiesta sulle bombe ai Georgofili del 1993». I tre volevano chiarimenti su un articolo firmato da Bolzoni e D’Avanzo del 20 marzo 1994 intitolato “Quell’affare di mafia e mattoni”.

Riguardava Berlusconi, ovvio, un tentativo di stroncarlo a una settimana dalle elezioni. La deposizione dura un’oretta. Ma il cronista coraggioso è un ragazzo sveglio e pensa subito: accidenti, ma il presidente di Forza Italia in questo momento si sta candidando alla Presidenza della Repubblica! Previsione che lui del resto ha già festeggiato con lo spargimento del solito fango, con due belle pagine su Domani firmate con il collega Nello Trocchia proprio sui fantasiosi collegamenti con le stragi del 1992. Ma guarda tu le coincidenze! A ogni candidatura di Berlusconi scattano all’unisono magistrati coraggiosi e cronisti ancor più coraggiosi a imputargli le stragi. La notizia che ci dà Bolzoni (spontaneamente? È di particolare gravità: si muove anche la Procura nazionale antimafia? Ma resta il fatto che, dopo il flop del processo “Trattativa” e dopo tutte le assoluzioni e le archiviazioni, da “Oceano” in avanti, sarà meglio che tutti questi capitani coraggiosi comincino a rassegnarsi: le stragi di mafia le ha fatte la mafia, come dicevano Falcone e Borsellino. Questo riconoscimento è la migliore commemorazione per il trentennale.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Contestata la famigerata pesca a strascico. Caso Berlusconi-Graviano, schiaffo della Cassazione a Creazzo: “Non si fanno così le indagini”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

Brutto colpo della quinta sezione della Cassazione nei confronti dei magistrati fiorentini, il procuratore Creazzo e i pm Tescaroli e Turco. E insieme a loro anche ai giudici del riesame, nelle indagini su Berlusconi e Dell’Utri per le stragi del 1993. Nella motivazione che spiega come non sia corretto fare a casaccio perquisizioni e sequestri alla vaga ricerca di un documento inesistente, i giudici fanno una bella lezioncina di procedura penale. Non fate i furbini, dicono. Perché occorre “evitare che il sequestro probatorio assuma una valenza meramente esplorativa di notizie di reato diverse ed ulteriori rispetto a quella per cui si procede”.

Basterebbe questa sonora tirata d’orecchie della cassazione per giustificare l’urgenza del fascicolo del magistrato. Dove registrare i continui abusi di potere fuori dalle regole esercitati da talune toghe nei confronti degli imputati, ma anche, come in questo caso, di persone totalmente estranee a qualunque indagine. Il succo della tirata d’orecchie è questo: non fate la pesca a strascico, sequestrando una serie di apparati elettronici per vedere se ci sono tracce di un documento di cui non si sa neppure se esista, ma in realtà per andare a cercare, indebitamente, reati che riguardano un’altra causa. Quella sulle stragi. Complicato? No, se si segue la storia dal principio. In principio c’è un signore che si chiama Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo come mandante, insieme a Totò Riina e Leoluca Bagarella, cioè il vertice di Cosa Nostra, per tutte le stragi di mafia del 1993. Graviano è anche imputato in Calabria in un processo che si chiama “’ndrangheta stragista” ed è in questa sede che comincia a lanciare messaggi obliqui su Silvio Berlusconi. E’ il 2020 e il boss, dall’aula dove si svolgono le udienze, lancia sospetti sull’origine dei capitali con cui l’imprenditore di Arcore avrebbe iniziato la sua fortuna.

Sarebbero capitali mafiosi, cioè un investimento del nonno di Graviano, Filippo Quartrararo che, con altri suoi compari, avrebbe versato a Berlusconi venti miliardi di lire a titolo di investimento per affari comuni. Di questo contributo esisterebbe un documento, che in realtà non c’è. Il nonno è defunto e così il cugino Salvatore che avrebbe visto il foglio che comprovava il versamento. Graviano addirittura sospetta che Berlusconi sarebbe all’ origine del suo arresto, per non pagargli il debito, per non riconoscergli la comproprietà nei suoi beni. Ora, nessuna persona normale potrebbe credere a tutto ciò, ma la fantasiosa ipotesi di una comproprietà di Giuseppe Graviano con l’impero economico di Berlusconi diventa attraente per certi pubblici ministeri se quell’investimento del nonno viene descritto come la fase preparatoria delle bombe, “l’antefatto rispetto alla strategia che ha condotto alle stragi del biennio 1993-94”. In realtà Graviano di questa vicenda aveva già parlato in carcere e le sue intercettazioni, finite al processo per la trattativa Stato-mafia, avevano già portato a un’archiviazione nei confronti di Berlusconi. Una delle tante, a Palermo come a Caltanissetta. Ma non (ancora) a Firenze, dove il procuratore Giuseppe Creazzo con i due pm Luca Tescaroli e Luca Turco stanno ancora indagando sul leader di Forza Italia e Marcello Dell’Utri come mandanti esterni delle stragi.

Senza timore del ridicolo, gli uomini della Procura hanno girato l’Italia all’inseguimento di Graviano ( che li prende in giro) e inviato gli investigatori della Dia dalle parti del quartiere residenziale di Milano 3 alla ricerca di un appartamento e di un residence in cui il boss di Cosa Nostra dice di aver incontrato Berlusconi. Ricerca vana, come quella del documento del nonno. È a questo punto che l’accanita ricerca dei pm fiorentini (i quali sono ben consci del fatto che la loro inchiesta finirà come le precedenti, con un’archiviazione) si scaglia su due persone totalmente estranee, se non per un vincolo di parentela, il fratello Benedetto e la sorella Nunzia di Giuseppe Graviano. I quali non sono mafiosi e nulla hanno a che fare con le vicende del parente. Che cosa fanno dunque i pubblici ministeri di Firenze? Dispongono perquisizioni nelle loro case e poi il sequestro di quattro cellulari, due computer e una pen drive, alla ricerca di quel fantomatico documento che attesterebbe il finanziamento del nonno a Berlusconi una cinquantina di anni fa.

Ma il problema è che quella scrittura privata ai pubblici ministeri interessa solo per poter dimostrare il coinvolgimento di Berlusconi nelle stragi. Una specie di gioco delle tre carte, insomma. Dispongo un sequestro dicendo che mi serve acquisire notizie in un’inchiesta sul finanziamento, ma in realtà vado cercando notizie sulle stragi. E questo non si fa, dice la Cassazione. Sposando in toto la tesi dell’avvocato Mario Murano, che assiste i due fratelli perquisiti, di “fantasmagorica ipotesi investigativa”. Pericolosa, stabiliscono le motivazioni della sentenza di annullamento con rinvio, perché manca il nesso tra i reati per cui si procede. In termini giornalistici quel che hanno fatto i pm fiorentini, avallati dal tribunale del riesame, si chiama pesca a strascico: getto la rete a casaccio e vedo quel che mi arriva. Bocciati e costretti a rifare il compito. E io pago, direbbe Totò. Ma c’è poco da ridere. Ben venga il fascicolo del magistrato, cari pm fiorentini.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da Ansa il 3 marzo 2022.

Dice il maestro: "Oggi coniughiamo i verbi. Io mangio, tu mangi, egli mangia, noi mangiamo, voi mangiate, essi mangiano. Pierino, ripeti ciò che ho detto". "Mangiano tutti". Un'altra. "Due amici in auto: "Attento, c'è scritto curva pericolosa". "Appunto, per questo sto andando dritto"». Dal carcere, il boss Giuseppe Graviano mandava pagine intere di strane barzellette al cugino Salvo, barzellette piene di numeri. 

Erano messaggi in codice, per fare investimenti o recuperare soldi, svela oggi un libro inchiesta scritto dal giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo, che ha potuto accedere a documenti giudiziari riservati e inediti. Il libro, edito da Laterza, si intitola: "I fratelli Graviano - stragi di mafia, segreti, complicità". La storia di una famiglia che racchiude i misteri più profondi di Cosa nostra: dagli investimenti al Nord nei primi anni Settanta alle bombe del 1992-1993, alle relazioni con esponenti della nascente Forza Italia.

Una storia attualissima, perché di recente Giuseppe Graviano ha iniziato a fare dichiarazioni al processo 'Ndrangheta stragista, citando proprio il cugino a cui inviava le barzellette: Graviano non è un collaboratore di giustizia, resta un irriducibile. Il libro svela tutte le sue bugie: non fu il nonno materno a investire capitali al Nord, ma il padre. Nelle lettere dal carcere dei boss Giuseppe e Filippo Graviano, che risalgono al 1996, c'è anche un altro dei segreti più grandi di famiglia: la nascita dei loro figli, concepiti durante la detenzione.

«Avete regalato a mia moglie il vaso con i bulbi?», scriveva Giuseppe alla madre e alla sorella Nunzia. E loro rispondevano: «Ci stiamo pensando perché i fiorai li sconoscono e ci devono dare una risposta, ma non preoccuparti che al più presto il vaso con i bulbi lo avrà tua moglie». Forse, i boss erano riusciti a fare uscire una provetta dal carcere. Attraverso un insospettabile complice, che potrebbe essere un prete. Sono i misteri dei Graviano, che ricalcano quelli di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano ricercato dal giugno 1993: insieme costituivano la "Super Cosa" voluta da Riina per lanciare la stagione delle stragi.

Salvo Palazzolo per “la Repubblica” il 3 marzo 2022.  

«Avete regalato a mia moglie il vaso con i bulbi?», scrivevano con insistenza alla madre e alla sorella Nunzia. Nelle lettere dal carcere, ci sono molti segreti di Giuseppe e Filippo Graviano, i fratelli condannati per le stragi del '92-'93. Innanzitutto, quelli legati alla nascita dei loro figli. Forse, concepiti grazie ad alcune provette uscite di nascosto dal carcere dell'Ucciardone.

La questione è diventata materia d'indagine, per cercare di aprire una breccia fra i misteri dei padrini. Nei mesi scorsi, gli investigatori della Dia hanno esaminato alcune vecchie lettere del 1996. Madre e sorella dei Graviano rassicuravano sul regalo: «Ci stiamo pensando perché i fiorai li sconoscono e ci devono dare una risposta, ma non preoccuparti che al più presto il vaso con i bulbi lo avrà tua moglie». 

Ma chi era il misterioso complice dentro al carcere? Forse, un prete. Madre e sorella chiedevano infatti con insistenza se il «sacerdote è venuto a celebrare messa». Giuseppe rispondeva: «Domenica scorsa, ho fatto la comunione e ho ascoltato la santa messa». Sono i misteri dei Graviano, che ricalcano quelli di Matteo Messina Denaro, il boss di Castelvetrano ricercato dal giugno 1993: insieme costituivano la "Super Cosa" voluta da Salvatore Riina per lanciare la stagione delle stragi. Giuseppe Graviano scriveva anche pagine intere di strane barzellette al cugino Salvo, barzellette piene di numeri. Hanno tutto il sapore di messaggi in codice. 

«Dice il maestro: "Oggi coniughiamo i verbi. Io mangio, tu mangi, egli mangia, noi mangiamo, voi mangiate, essi mangiano. Pierino, ripeti ciò che ho detto". "Mangiano tutti". Un'altra. "Due amici in auto: "Attento, c'è scritto curva pericolosa". "Appunto, per questo sto andando dritto"». Le strane barzellette erano tutte per il cugino Salvo Graviano. 

È la stessa persona che di recente il boss palermitano ha chiamato in causa al processo drangheta stragista per essere stato il "tramite con Silvio Berlusconi" perché « bisognava recuperare soldi investiti negli anni Settanta». L'ex premier ha sempre respinto con forza le parole di Graviano, ma adesso, sugli ultimi misteri di Palermo stanno indagando i procuratori aggiunti di Firenze Tescaroli e Turco, che proprio dopo alcune intercettazioni in carcere di Giuseppe Graviano sono tornati a indagare Berlusconi e Dell'Utri per concorso nelle stragi di Roma, Milano e Firenze. 

Di sicuro, quelle barzellette sono piene di numeri: erano investimenti da fare o da recuperare? Ecco un altro passaggio scritto da Graviano: «"Mia moglie è andata dal dietologo". "È riuscita a perdere qualcosa?". "Dopo dieci giorni ha già perso 300 mila lire". Te ne racconto un'altra.

Al ristorante un uomo dopo aver visto il conto: "Cameriere, ma si rende conto. Un piatto di spaghetti e un'insalata: 120 mila lire. Mi faccia almeno uno sconto". "No, noi non facciamo sconti". "Ma come a un collega?". "Perché lei fa il ristoratore?". "No, il ladro"». Giuseppe Graviano è il capomafia di Brancaccio che ha procurato parte dell'esplosivo per la stage Falcone e ha azionato il telecomando della bomba per Borsellino, nel 1993 ha poi coordinato gli attentati di Roma, Milano e Firenze.

Il 21 gennaio 1994, diceva al fidato Gaspare Spatuzza, oggi collaboratore di giustizia: «Grazie alla serietà di alcune persone, ci hanno messo il Paese nelle mani». E citava Berlusconi e Dell'Utri. Sei giorni dopo, venne arrestato con Filippo a Milano. Sono ancora tanti i misteri dei fratelli Graviano. L'unica foto che li ritrae insieme riemerge dagli atti del maxiprocesso, risale al 1980: da sinistra, Benedetto, Giuseppe e Filippo. Diceva Riina di loro, intercettato in carcere poco prima di morire: «Il fratello più grande è mezzo scimunito - un complimento detto dal capo dei capi, Benedetto è oggi libero dopo avere scontato una condanna per mafia - invece gli altri due sono importanti, sono belli picciotti ».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 21 aprile 2022.

Dopo venticinque anni di reclusione, il killer pentito che ha riscritto la storia delle stragi di mafia e smascherato i depistaggi sull'omicidio di Paolo Borsellino, chiede di tornare in libertà. Per adesso i giudici gli hanno detto di no, nonostante tutti i suoi «colleghi» - da Giovanni Brusca in giù, responsabili di crimini efferati quanto i suoi - abbiano chiuso da tempo i conti con la giustizia. Gaspare Spatuzza invece resta detenuto. 

Lui che nel 2008 decise di collaborare con i magistrati (a 11 anni dall'arresto avvenuto nel 1997), secondo il Tribunale di sorveglianza di Roma non ha ancora terminato il «percorso di rieducazione», che anzi deve «consolidarsi», nonostante le Procure e le corti che l'hanno ascoltato in decine di indagini e processi abbiano garantito sulla sua attendibilità e sull'importanza del suo contributo.

L'ex mafioso però insiste, e oggi in Corte di cassazione è fissata l'udienza sul ricorso contro l'ultimo diniego. Che potrà essere confermato o annullato. 

Ravvedimento Dal punto di vista giuridico il problema è che Spatuzza, a differenza di Brusca e di molti altri pentiti famosi, ha cominciato a collaborare dopo che le prime condanne all'ergastolo erano già definitive.

Quando ha confessato le stragi di Capaci e di via D'Amelio del 1992, senza che prima ne fosse accusato, era stato dichiarato colpevole per le bombe esplose in continente nel 1993 e per l'omicidio di padre Puglisi. Gli sconti di pena per l'uccisione di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e gli agenti di scorta sono arrivate quando sulla sua testa pendeva il «fine pena mai».

L'unica strada per uscire dalla detenzione domiciliare che sta scontando in una località segreta, è la liberazione condizionale, che gli ergastolani possono avere dopo ventisei anni di reclusione. E Spatuzza, calcolando la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti, è già a trenta. 

La legge richiede «un comportamento tale da far ritenere sicuro il ravvedimento», e i giudici di sorveglianza hanno stabilito che per un assassino macchiatosi di così gravi delitti ci voglia «un esame particolarmente approfondito e attento», che certifichi «un effettivo e irreversibile cambiamento». Da dimostrarsi attraverso la «condanna totale del proprio passato criminoso» e «comportamenti coerenti» per «lenire le conseguenze materiali e morali delle condotte delittuose». Spatuzza è sulla buona strada, ha concluso il Tribunale, ma deve «completare e consolidare il positivo percorso intrapreso».

Solidarietà sociale Un verdetto «contraddittorio» e frutto di «preconcetti», ribatte l'avvocata Valeria Maffei nel suo ricorso: il suo assistito pratica «riparazione e solidarietà sociale da ancor prima di collaborare con la giustizia, chiede scusa alle vittime, svolge attività di volontariato, proclama la necessità di collaborare e invita a farlo tutti i soggetti mafiosi con cui è stato posto a confronto».

Certo, è responsabile di delitti feroci (tra cui il sequestro e l'omicidio del bambino Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino, confessato dopo il pentimento con relativo sconto di pena) ma - sostiene l'avvocata - «è proprio dalla gravità dei reati che deriva la eccezionalità e notorietà (mondiale) della collaborazione, anche perché inizialmente ostacolata da varie fasce politiche; e nonostante le polemiche, la bagarre politica, le minacce velate, Spatuzza non ha mai revocato la decisione di collaborare a tutto campo, rivelando notizie, ribaltando sentenze, inimicandosi buona parte degli esponenti politici di allora».

Indagini riaperte Con le sue dichiarazioni l'ex boss di Brancaccio ha (tra l'altro) scagionato i sette ergastolani innocenti per la strage di via D'Amelio, scarcerati dopo lunghissime detenzioni, e riaperto le indagini sui nuovi accordi tra mafia e politica siglati dai suoi capi, i fratelli Graviano, alla fine del 1993. Ha chiamato in causa il neonato (all'epoca) partito di Berlusconi, con dichiarazioni considerate a volte non sufficientemente riscontrate; tuttavia le indagini sulle stragi del '93 sono ancora in corso anche sulla base della sua collaborazione.

E a Caltanissetta sono sotto processo i poliziotti accusati di aver estorto le bugie ai falsi pentiti sconfessati da Spatuzza. Tutto questo, secondo l'avvocata, non sarebbe stato valutato in maniera adeguata dai giudici di sorveglianza, come il «percorso religioso e di studi intrapreso» in carcere. E anche alla luce della riforma dell'ergastolo ostativo richiesto dalla Corte costituzionale, per Spatuzza «è evidente il raggiungimento della prova del completamento del percorso trattamentale di rieducazione e di recupero».

Proprio per il contributo offerto dal pentito, la Procura di Caltanissetta e la Direzione nazionale antimafia si sono dette favorevoli alla concessione della liberazione condizionale, ed è possibile che in Cassazione la Procura generale faccia altrettanto.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 22 aprile 2022.

Gaspare Spatuzza ha fatto un altro passo verso la libertà. La Corte di cassazione ha annullato l'ordinanza con cui il tribunale di sorveglianza gli aveva negato, nel settembre scorso, la liberazione condizionale, e ora la posizione del pentito che ha riscritto la storia delle stragi di mafia e smascherato i depistaggi sulla morte di Paolo Borsellino dovrà essere nuovamente valutata dai giudici che si occupano dei detenuti. Ma dopo la pronuncia della Cassazione la strada, se non obbligata, appare segnata.

Oltre all'avvocata Valeria Maffei, che assiste l'ex mafioso, è stata la Procura generale della Cassazione a sollecitare l'accoglimento del ricorso, sostenendo che la collaborazione con la giustizia resta lo strumento principale per valutare il percorso di allontanamento degli affiliati dalle organizzazioni criminali, e ottenere i benefici penitenziari.

Nel caso specifico di Spatuzza, quella collaborazione è stata particolarmente rilevante, giudicata più volte attendibile e proficua da Procure e Corti d'assise, fino a determinare la scarcerazione di sette ergastolani innocenti arrivata dopo lunghi anni di detenzione. Inoltre, nel suo caso, il pentimento avvenuto nel 2008, dopo 11 anni di reclusione, s' è aggiunto a una resipiscenza da considerarsi reale e credibile. Due elementi - collaborazione e «esternazioni di pentimento» accompagnate da «avvicinamento ai valori religiosi» - che il tribunale di sorveglianza aveva giudicato insufficienti per la liberazione; sia pure dopo 25 anni di reclusione effettiva (gli ultimi in detenzione domiciliare), che per la contabilità carceraria equivalgono a 30 scontati.

Le motivazioni con cui la Cassazione ha bocciato questo giudizio non sono ancora note, ma evidentemente è stata giudicata inadeguata e troppo generica la richiesta di «consolidamento del percorso attraverso un impegno concreto» attraverso manifestazioni «di riparazione e solidarietà sociale che consentano di valutare il cambiamento irreversibile della personalità, e di verificarne la completa rieducazione».

Tra gli elementi portati dalla difesa a dimostrazione della «condanna totale del proprio passato criminale» c'è pure l'incontro con il fratello di padre Pino Puglisi, il prete (oggi Beato) assassinato nel 1993 da un commando di cui faceva parte anche Spatuzza.

Un fatto ignorato dai giudici di sorveglianza, lamentava l'avvocata nel suo ricorso: «Sembra che il tribunale abbia valutato in maniera preponderante un preconcetto negativo, ossia la storia criminale dello Spatuzza (ormai risalente a poco meno di trent' anni fa), a discapito di tutti gli elementi (attuali) favorevoli». Una sorta di «prova diabolica, laddove tutti gli elementi favorevoli alla concessione del beneficio sarebbero gli stessi anche fra anni e anni». Così non può essere, ha stabilito la Cassazione, e il killer pentito può sperare di tornare libero.

La nuova campagna del Fatto. Travaglio ossessionato dalle bufale dei Graviano, falsi scoop del Fatto contro Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Dicembre 2021. Leggiamo dal Fatto: «La sentenza di cassazione contro Dell’Utri colloca Berlusconi come una vittima e non come un imputato. Ciononostante non è una medaglia per un candidato al Quirinale». Anche se vittima, sei pur sempre colpevole, se sei “lui”. Povero Marcolino! Continua a credersi Davide contro Golia-Berlusconi e non gliene va bene una. Ha tentato con il titolone “No al garante della prostituzione”, ma i vari processi “Ruby”, iniziati con una piena assoluzione nel filone principale, si stanno sbriciolando uno a uno anche nei rivoli secondari. Mostrando una volta di più il leader di Forza Italia, più che come reo, come vittima. Si sta giocando quindi, settimana dopo settimana, la “carta Graviano”. Ma non funziona neppure questa, e lo dimostreranno le archiviazioni. Ma nel frattempo la disperazione sta allagando di lacrime la redazione del Fatto, tanto che sono ridotti a lamentarsi pubblicamente perché sull’argomento «i quotidiani non scrivono una riga». Lo schema è sempre lo stesso. Il venerdì, il piccolo settimanale L’Espresso fa il suo scoop, che in realtà è sempre la stessa notizia ripetuta più volte, sulle dichiarazioni di Graviano e le stragi del 1993 di cui Berlusconi sarebbe il mandante. In realtà non lo dice Graviano, ma Travaglio, ma fa lo stesso. Il sabato esce sul Fatto l’articolo, in genere di Marco Lillo, che più che giornalista è assemblatore di verbali, che riprende il finto scoop e aggiunge altri verbali per far vedere che lui ne ha di più di Marco Damilano. Un piccolo manicomio, insomma, che ormai non solo non guadagna più le prime né le ultime pagine dei quotidiani, ma non riesce neanche a far incazzare i difensori di Berlusconi, che evidentemente si sono stancati di ripetere quel che disse Niccolò Ghedini nel febbraio 2020: «Dichiarazioni totalmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà e palesemente diffamatorie». Che cosa era successo? Semplicemente che nel corso di un processo per ‘ndrangheta Giuseppe Graviano aveva cominciato a farneticare su Berlusconi. Ma nella sentenza le sue dichiarazioni erano state bocciate come inattendibili e prive di alcun riscontro. Come ormai si ripete da tempo. Ma Graviano insiste con le sue allusioni, perché spera di guadagnarci qualcosa, chissà, magari qualche permesso premio.

Stiamo parlando di un mafioso ergastolano ostativo che con le sue dichiarazioni astute e ricche di buchi quanto una rete da pesca, sta da un po’ prendendo in giro i magistrati di Firenze, a partire dal capo della procura Creazzo (quello definito come “Il Porco” da una collega siciliana), fino agli aggiunti Luca Tescaroli (antimafia doc) e Turco (il preferito di Matteo Renzi, viste le attenzioni che gli dedica). I quali cercano disperatamente di credere a questo zuzzurellone che, partendo dalla storia di suo nonno (che è un po’come dire dalle guerre puniche), che sarebbe stato imbrogliato da Berlusconi dopo aver versato, insieme ad altri, qualche milione di lire per imprecisati investimenti mai andati in porto, lascia intendere di aver qualcosa da dire sui “mandanti esterni” degli attentati del 1993 e 1994. Perché lui di quelle bombe a Roma, Milano e Firenze qualcosa deve sapere, visto che per quegli attentati è stato condannato.

La cosa più sorprendente è però non solo il fatto che a Firenze esista un filone di indagine su Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, ma che gli uomini della Dia stiano perdendo tempo a ispezionare la zona di Basiglio-Milano 3, il quartiere residenziale costruito dalla Edilnord di Paolo Berlusconi, alla ricerca di un residence e anche di un appartamento dove Graviano avrebbe incontrato il presidente di Forza Italia, allora semplice imprenditore, insieme al cugino Salvatore, che aveva nelle mani una “carta” in cui Berlusconi ribadiva l’accordo stipulato con il nonno. Chiariamo subito che sia il nonno che Salvatore sono morti. E che la “carta” non c’è. Inoltre, che cosa c’entra tutto ciò con le stragi? Niente di niente.

Pure gli “scoop” continuano. E i viaggi dei pm fiorentini su e giù per l’Italia. E anche il traffico dei verbali. C’è l’interrogatorio di Graviano del 20 novembre 2020. Quello in cui i pm fiorentini gli chiedono: «Riferisca in ordine a eventuali rapporti economici con Berlusconi e Dell’Utri». E lui racconta la storia del nonno, «Quartararo Filippo, che lavorava nel settore ortofrutticolo». Poi fa confusione, perché dice di aver incontrato Berlusconi insieme al nonno, poi dice invece che il nonno non ha mai avuto rapporti diretti con l’imprenditore milanese. Poi lancia la sua bombetta, anche questa non nuova: mi hanno fatto arrestare per non dare corso a quell’accordo economico assunto con il nonno. Quindi sarebbe stato Berlusconi a farlo arrestare? Ma all’unica domanda importante per l’inchiesta: «Ci dica se Berlusconi è stato il mandante delle stragi», Graviano risponde: «Non lo so se è stato lui». E stranamente, nel successivo interrogatorio del primo aprile di quest’anno non si parla più di bombe, ma solo della “carta” dei defunti nonno Filippo e cugino Salvatore. E noi paghiamo, avrebbe detto Totò.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

I MISTERI DELLE STRAGI. Un milione di dollari per insabbiare lo scoop di Borsellino su Berlusconi, Dell’Utri e la mafia. Un emissario Fininvest offrì soldi per censurare l’intervista a Canal Plus del magistrato, che accusava apertamente il boss Vittorio Mangano e confermava i suoi rapporti con il braccio destro del Cavaliere: filmata poco prima della morte del giudice eroe, fu tenuta segreta per due anni, fino a dopo le elezioni del 1994. A riaprire il caso sono le rivelazioni in punto di morte del giornalista francese Fabrizio Calvi: «So chi è stato il traditore». Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 27 dicembre 2021. Un milione di dollari. In cambio dei nastri integrali di un video-documentario su Silvio Berlusconi e Cosa nostra: cinquanta ore di filmati, con un’intervista clamorosa a Paolo Borsellino. Uno dei tanti misteri legati all’assassinio del magistrato simbolo della lotta alla mafia riguarda uno scoop televisivo che fu tenuto segreto per due anni. Nell’intervista concessa a due giornalisti francesi nel 1992, poco prima di esser ucciso, Borsellino accusava apertamente Vittorio Mangano, il boss di Palermo che fu assunto da Berlusconi ad Arcore, e confermava i suoi rapporti con Marcello Dell’Utri, l’ex senatore e top manager del gruppo Fininvest poi condannato per mafia.

Mafia, Giuseppe Graviano: «Io e Silvio Berlusconi legati da un contratto da 20 miliardi». Il boss delle stragi dice ai pm: «Dovevamo siglare un nuovo accordo a garanzia dei soldi che avevamo dato al futuro premier ma alla vigilia della firma mi arrestarono». Lirio Abbate su L'Espresso il 16 Dicembre 2021. Dicembre 1993. La fine dell’anno più drammatico della storia repubblicana, un mese prima del video con cui Silvio Berlusconi annuncia in tv agli italiani la sua discesa nel campo politico, il boss Giuseppe Graviano sostiene di averlo incontrato in un appartamento a Milano 3. Il mafioso palermitano era latitante e solo ora, dopo quasi ventinove anni, ne parla ai pm in un verbale di interrogatorio che risale allo scorso aprile.

Il falso scoop. Espresso e Fatto provano a impallinare Berlusconi: rispunta l’intervista a Borsellino di Canal Plus e il tentativo di estorsione al Cav. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. «Come magistrato ho una certa ritrosia a parlare di cose che non conosco», disse nell’intervista tv Paolo Borsellino, quando gli chiesero di Silvio Berlusconi. Lo si può riascoltare su youtube. Eppure… Eppure, la situazione è questa: Silvio Berlusconi ha organizzato le stragi del 1993 e ha tentato di far uccidere il suo amico Maurizio Costanzo, prima ancora però aveva anche fatto assassinare Paolo Borsellino. Proprio per quell’intervista al giudice palermitano che lo avrebbe spaventato perché sarebbe stata “pericolosa” per il leader di Forza Italia. Cui viene attribuito un bel curriculum criminale, indubbiamente.

Il grottesco è che esiste una partita di giro giornalistica tra il comico e il delinquenziale che non solo è convinta di questa favola, ma perde anche tempo a scriverne, e soprattutto a sollecitare i magistrati ad aprire inchieste. Come se non fossero bastati gli innumerevoli tentativi abortiti in terra di Sicilia. Come se non fosse ancora all’ordine del giorno la follia dell’inchiesta aperta a Firenze da un procuratore definito “Il Porco” da una collega che lo accusa di molestie, insieme a uno già svezzato dall’“antimafia” in Trinacria e un terzo innamorato delle gesta di Matteo Renzi. La partita di giro giornalistico-giudiziaria procede, naturalmente, in simbiosi con quella più politica, il battaglione dei virtuosi che spiegano ogni giorno a Berlusconi di lasciar perdere con la candidatura al Quirinale, chi evocando il conflitto d’interessi, chi qualificandolo come “divisivo”. Come se la gran parte dei predecessori non provenisse da qualche partito e non fosse di conseguenza “divisivo”. Ma c’è divisivo e divisivo, dipende solo dal colore politico.

La storia giudiziaria serve a rafforzare quella politica e a riempire molte pagine. Accantonata la questione della frode fiscale, perché per l’unica condanna Berlusconi è stato riabilitato e qualche sorpresa potrebbe arrivare dalla commissione europea e lasciare i suoi persecutori a bocca asciutta. Fallita l’operazione di Travaglio “No al garante della prostituzione” (forse perché molti uomini italiani vanno a prostitute e non amano che li si faccia sentire in colpa per questo), non restava che la mafia. Dare del mafioso a un politico è sempre un bel colpo. Quindi si spara con queste cartucce. C’è la carta Giuseppe Graviano – parliamo di un mafioso condannato all’ergastolo per le principali stragi di Cosa Nostra -, che almeno una volta la settimana porta a spasso qualche pubblico ministero. Prima parlando del proprio nonno che sarebbe stato truffato dopo un investimento in società con l’imprenditore di Arcore. Poi dilettandosi di toponomastica sul sud milanese, dove si sarebbe recato in anni passati in motel piuttosto che in un appartamentino per appuntamenti di cui non si capisce la finalità.

Fantasie che però hanno tenuti impegnati i magistrati e gli uomini della Dia in diversi viaggetti, e i giornalisti del Fatto con le loro affannose cronache a riempire pagine su pagine. Che Giuseppe Graviano si stia accreditando per avere qualche alleggerimento al proprio 41 bis è lampante. Non può fare il “pentito” perché sulle stragi ormai c’è un affollamento di collaboratori di giustizia da non lasciare spazio a nuove rivelazioni. Così ha cercato la gallina dalle uova d’oro, ormai introvabile a Palermo, ma ancora vivente a Firenze. Ma anche il filone Graviano è ormai asciutto. Un po’ perché lui vuol fare lo scambio con qualche vantaggio personale e la cosa non sta andando in porto, ma soprattutto perché in realtà su Berlusconi non ha proprio niente da dire. Ecco dunque che spunta fuori – ancora e ancora – la storia di un’intervista al giudice Paolo Borsellino, fatta poco prima della sua uccisione, da due giornalisti dell’emittente francese Canal Plus, Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. La chiacchierata aveva come tema generale la mafia e andava inserita in un documentario. I due però, lo si capisce bene riguardando il filmato, insistevano molto con le domande su Vittorio Mangano, lo stalliere che per un periodo fu impiegato ad Arcore, la sicilianità di Marcello Dell’Utri (la sua vera colpa) e i rapporti con Silvio Berlusconi.

Borsellino si difendeva come poteva dall’insidia dell’incalzare delle domande, dicendo che non ne sapeva niente e che se Mangano parlava di cavalli era perché ne era appassionato. Ma anche che, quando parlava con un esponente della famiglia mafiosa degli Inzerillo, forse usava quel termine, così come quello delle “magliette”, per parlare di droga. Lui diceva Inzerillo, e quelli traducevano in Dell’Utri, però. Una vera “incomprensione”. Come quando gli dicono che tutti e due, il dirigente di Publitalia e lo stalliere erano di Palermo e il magistrato sorridendo: ma non vuol dire che si conoscessero, anche se erano della stessa città! I due tendevano continuamente il loro tranello al giudice, con un uso particolare e ingannevole della telecamera. Lo spiega in modo esplicito Michel Thoulouze, ex manager di Canal Plus e di Telepiù, intervistato ieri dal Fatto quotidiano. E dice anche qualcosa di più. Che i due giornalisti avevano in seguito tentato di vendere l’intervista e tutte quante le 50 ore di girato a un collaboratore di Silvio Berlusconi, il quale si era detto non interessato e aveva rifiutato.

Peccato però che il piccolo settimanale L’Espresso, allegato di Repubblica, abbia titolato nel suo ultimo numero “Soldi per insabbiare lo scoop. Un emissario di Berlusconi offrì un milione di dollari per l’intervista di Canal Plus a Borsellino”. Chi lo dice? L’avrebbe detto in confidenza Fabrizio Calvi a uno dei due colleghi dell’Espresso (Paolo Biondani e Leo Sisti) prima di morire. Eh si, perché l’autore della famosa intervista a Borsellino, che era malato di Sla, ha deciso di chiudere con la vita in una clinica svizzera lo scorso ottobre. E lui, scrivono con cinismo i suoi due “amici” del settimanale italiano, «non ha fatto in tempo a spiegarci tutto quello che aveva scoperto». Bel modo di trattare gli amici! Aspetti che uno non ci sia più per accreditargli uno scoop inesistente e poi ti lamenti perché lui non ha fatto in tempo a dirti tutto, come se fosse morto all’improvviso e non, come è stato, in modo programmato. Cinismo ributtante, veramente.

Naturalmente, e “opportunamente”, anche l’altro giornalista del finto scoop non c’è più, morto da dieci anni. Ma spiega bene in che cosa consistesse quell’inchiesta sulla mafia che non andò mai in onda, l’intervista dell’ex manager di Canal Plus, Michel Thoulouze, come riportata dal Fatto: «La verità è che non l’hanno trasmesso perché quel documentario era una m…». E sui due: «Ho detto a Moscardo: non fate il ricatto». Quindi tutta l’insistenza nelle domande a Borsellino su Berlusconi aveva lo scopo di estorcergli denaro? Il che ci riporta a un episodio del 2019 (come riportato da un articolo di quei giorni da Damiano Aliprandi sul Dubbio), quando Paolo Guzzanti aveva messo in discussione la veridicità di una trasmissione della Rai sulla famosa intervista a Borsellino e su una presunta inchiesta su Marcello Dell’Utri della procura di Caltanissetta. Sigfrido Ranucci, autore della trasmissione, l’aveva querelato, ma Guzzanti era stato assolto e i magistrati, confermando che la trasmissione era stata “manipolata”, avevano anche ironizzato sugli imputati fantasma, presenti solo nella fantasia di qualcuno.

Ma un altro episodio va segnalato. Ne parla l’Espresso, per notare che nel 2019 il giornalista francese Fabrizio Calvi era stato sentito dal procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci, vicino a Losanna, e che il verbale di quell’interrogatorio era stato secretato. Il settimanale aggiunge che era presente anche “uno strano” avvocato. Ora, strano o no che fosse, quando a un interrogatorio è presente un legale significa una cosa sola, che la persona ascoltata non è un testimone ma un indagato. E, alla luce di quel che ha detto nell’intervista di ieri sul Fatto l’ex manager di Canal Plus Pierre Thoulouze sull’intenzione dei due giornalisti di estorcere denaro a Berlusconi con la patacca dell’intervista di Borsellino che neanche lo nominava, che cosa pensare dell’inchiesta di Caltanissetta? E se gli indagati non fossero stati Mangano, Dell’Utri e magari lo stesso imprenditore di Arcore ma proprio i due cronisti, sospettati di tentata estorsione?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura. 

Come superare il populismo. Chi è senza reato scagli la prima pietra. Massimo Donini su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Col processo di secolarizzazione del diritto e della morale le etiche di partito, di chiesa e di schieramento, laici e cattolici, liberali e socialisti, credenti e atei, onnivori e vegani, sono tutte quante divenute sempre più, se non categorie storiche, quanto meno visioni private del mondo: visioni che tuttavia è vietato assumere come quelle pubbliche della legge in chiave monopolistica e totalizzante. Sono concezioni del mondo accolte da gruppi che restano stranieri morali tra loro, come emerge a tutto campo nelle questioni paradigmatiche della bioetica.

In un contesto di pluralismo dei valori, infatti, solo il diritto può adottare punti di vista rispettosi delle differenze e non contrassegnati da una specifica identità ideologica che sarebbe ad esso vietata da principi superiori. È vero dunque, oggi, che solo il diritto può rappresentare ormai l’etica pubblica. Ma poiché le leggi non obbligano in coscienza, e dunque formalmente non sono un parametro di moralità, se un’etica pubblica va individuata, dovrà essere ritagliata dal perimetro di ciò che è giuridicamente consentito o regolato, ma possa venire avvertito anche come doveroso moralmente. L’etica pubblica è dunque ciò che, della forma-ius, ci obbliga in coscienza. Più singolare e distorcente è la declinazione penalistica del fenomeno, che muove dalla convinzione che il diritto penale è quel ramo del diritto che ha più capacità censoria, è il più intollerante dei diritti, pur restando (in ipotesi) laico e non confessionale, non di partito o di parte.

In una situazione di assenza di parametri pubblici di valutazione morale, per disapprovare una condotta la via più sicura è di qualificarla come reato, mancando altrimenti un sistema di valori davvero eloquente o condiviso: una censura in termini non penalistici o perfino non giuridici, ha un impatto assai modesto in un sistema privo di un codice di comportamento autonomo. È diffusa la percezione che “se non è penale, si può fare”, se un certo comportamento non configura un reato, la norma-precetto che lo vieta non si avverte come un obbligo veramente vincolante. Quando una condotta integra un illecito civile o amministrativo, la relativa sanzione può essere vista come una sorta di onere: la si può metter in conto, in cassa, quale tributo da pagare se vi vuole commettere il fatto. Se la sanzione è penale, invece, la regola ha un impatto censorio assai più forte, esprimendo un divieto assoluto, il cui castigo non è riducibile a tassa. Questo dato è poi accentuato da una peculiare debolezza della politica, incapace di esprimere una propria scala di valori, un proprio codice etico. Fenomeno che in Italia ha accentuazioni specifiche.

La popolarità della giustizia penale è dovuta molto anche all’illusione forse più grande della coscienza collettiva: l’idea che il reato riguardi gli altri, che si possa normalmente non commettere.

L’esperienza del penalista dimostra invece il contrario: è inevitabile che ognuno di noi commetta (e subisca) qualche reato. Si tratta di una dimensione umana, sociale, politica di carattere universale. Occorre infatti una nuova cultura per rappresentarla e promuoverne una acquisizione pubblica. I reati più comuni, di cui a seconda delle inclinazioni tutti siamo stati autori o vittime, sono gli oltraggi, le percosse, le diffamazioni, le violenze private, le appropriazioni o i piccoli furti, alcune forme di stalking, di disturbo alle persone, di minaccia, di ricatto, di frode e di falso, di comportamento pericoloso alla guida, o di guida in condizioni alcooliche vietate, di porto senza giustificato motivo di cose o strumenti atti ad offendere la persona, di consumo con cessione di droghe, di abuso di ufficio, di reticenza in giudizio, di omissione di soccorso, di abuso edilizio, o di discriminazione per motivi razziali, religiosi, sessuali, di violazione di corrispondenza, di ricevimento di cose provenienti da reati altrui, o di complicità in reati altrui etc. L’ingiuria, gli atti osceni e il danneggiamento doloso semplice sono stati da qualche tempo depenalizzati, altrimenti vi rientrerebbero.

Nella vita privata, dalla scuola materna alla casa di riposo, nella circolazione stradale, nei luoghi di lavoro, in famiglia, nella vita pubblica, nei pubblici uffici, nelle imprese, tutti abbiamo rischiato di fare male ad altre persone violando anche involontariamente regole di prudenza, o di correttezza, e solo perché fortunati non ci è accaduto di commettere lesioni od omicidio colposi, qualche abuso o violazione di obblighi occorsi invece ad altri meno fortunati di noi. L’informazione giuridica dovrebbe dare conto che i reati, nel nostro sistema, non sono inferiori a 6000 fattispecie (una ricerca finanziata dal Ministero della ricerca scientifica di una ventina di anni fa conteggiava 5431 norme-precetto solo fuori dai codici), e dunque nessuno li conosce tutti, mentre tutti possono commetterne qualcuno senza saperlo. È dunque importante che si riconosca che nessuno è immune, nessuno è immacolato, nessuno può pensare che il penale riguardi solo gli «altri». E non sarebbe neppure necessario ricordarlo se non fosse diffusa la dimenticanza che anche i dieci comandamenti riguardano tutti come capaci di colpa, e tra questi il più universale, il “non uccidere”, che anche inteso in senso stretto è toccato alla maggior parte di noi di non violarlo perché non c’è stata l’occasione per farlo, non perché ci manca la fossetta occipitale mediana di Lombroso.

La tendenza del diritto a rappresentare l’etica pubblica ha dunque sviluppato la patologia di identificare il diritto penale con tale etica, ma a sua volta questo eccesso si è accompagnato all’illusione collettiva di riservare l’infamia penalistica agli altri, ora per interesse a usare questo etichettamento contro avversari politici (ciò che esprime l’aspetto più inquietante del giustizialismo), ora invece per una mancata percezione dell’oggettività del dato che il rischio penale è un fenomeno di massa. Questa situazione paradossale rende oggi necessario il passaggio da una democrazia penale populista, come quella che si lascia alle spalle l’anno ora trascorso, a una democrazia penale informata. La democrazia penale qui intesa non è solo quella (in un’accezione un po’ negativa) della maggioranza disinformata e telecomandata a odiare a turno i pedofili, i corrotti, gli immigrati clandestini, i riciclatori di denaro, gli automobilisti ubriachi, gli stupratori soprattutto se stranieri, gli imprenditori che risparmiano sulla sicurezza, i violenti allo stadio, gli evasori dell’Iva europea, i bancarottieri, gli hackers, i negazionisti, i giovani bulli e violenti, e ovviamente tutti gli associati per delinquere (un’imputazione alla portata di tutti, i benpensanti non lo sanno e devono apprenderlo): quella maggioranza occhiuta che ha sostenuto a lungo populisticamente i programmi legislativi e la macchina da guerra giudiziaria contro il crimine e che l’attuale scontro sui “doveri informativi” delle Procure della Repubblica vuole rimettere in gioco.

La democrazia penale informata è quella che garantisce più conoscenze e più controllo critico, che si basa su dati controllabili di altro tipo. Non è il sapere di una parte del processo che informa unilateralmente i cittadini prima delle decisioni di un organo terzo, ma la democrazia dove la scienza condivide le conoscenze che il Parlamento utilizza nel costruire le leggi (non solo l’Air, l’analisi di impatto della regolamentazione, ma controlli di legittimità, predittività degli effetti, impiego di culture ed esperienze non giudiziarie, attenzione al conflitto sociale e alle cause che favoriscono il delitto) e le trasmette anche ai giudici e ai media, dove la divisione dei poteri si attua attraverso una condivisione dei saperi che la limita: affinché non accada come nell’antica Cina quando l’imperatore, dalle segrete stanze della Città Proibita, esercitava almeno simbolicamente un potere assoluto sul tempo e sul peso, di cui poteva stabilire l’unità di misura. La Città Proibita quale monumento dell’inaccessibilità del Potere e del suo Sapere. Questa misura potrebbe oggi riguardare il peso della colpa e la durata della pena, due dati scarsamente accessibili allo stesso sapere scientifico.

Se si conoscesse meglio il male intrinseco della macchina della giustizia, o si conoscessero le sue inevitabili sconfitte, anche se non si manifestano in violazioni terrificanti o disumane dell’integrità dei corpi, o nell’indifferenza alle anime, la popolarità di quella macchina da guerra sarebbe minore, e ciò le farebbe solo bene, rendendola più controllata e attenta, più umana, e anche la retorica della giustizia, e la celebrità di alcuni suoi attori, si dimostrerebbero spesso patetiche e ingannevoli. Un sano ridimensionamento di quelle illusorie aspettative potrebbe solo giovare a ridurre l’uso populistico dell’informazione, che costituisce uno dei mali della società contemporanea. Massimo Donini

·        Art. 416 bis c.p.. 40 anni fa non era mafia.

Non è più quella del 416 bis. Relazione della Dia: la mafia non c’è più e l’antimafia indaga sugli anni ’90. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

La Direzione Investigativa Antimafia (Dia) conduce indagini su Silvio Berlusconi, come mandante di stragi, da oltre trent’anni con grande impiego di forze e di denaro, e nonostante i fallimenti siano già stati tre. Lo si legge a pagina 6 della Relazione del secondo semestre del 2021 depositata due giorni fa al Parlamento. E’ scritto nelle stesse pagine in cui si spiega che la mafia non esiste più, per lo meno quella che l’articolo 416 bis del codice penale descrive come un’associazione di persone che “si avvalgono della forza di intimidazione”, dell’assoggettamento e del controllo del territorio. E che usavano anche la violenza come forma di intimidazione.

Oggi esistono sostanzialmente comitati d’affari che preferiscono fare accordi piuttosto che estorsioni e minacce. E gli uomini della Dia corrono il rischio di restare disoccupati. Ma hanno trovato un nuovo lavoro, che altro non è se non il rafforzamento di quello iniziato da oltre trent’anni, cioè da un periodo di poco successivo ai giorni della nascita, nel 1991, dell’Agenzia investigativa. Non c’è più la mafia. “Tuttavia-si legge nella relazione- malgrado la più attuale linea d’azione di Cosa nostra sia quella di ridimensionare il ricorso alla violenza…la Dia, attraverso le sue articolazioni centrali e territoriali, già da tempo, sta eseguendo mirate attività investigative sulle ‘stragi siciliane’ del 1992 e sulle cd. ‘stragi continentali’ del 1993-1994, su input di specifiche deleghe ricevute dalle competenti Autorità giudiziarie del territorio nazionale”. “Complessivamente –si conclude- da oltre 30 anni, sono impegnate in tali indagini le risorse di ben cinque Centri Operativi e del II Reparto”.

Un intero reparto dunque, quello talmente importante da essere segnalato come fondamentale per “l’evasione delle numerosissime deleghe assegnate dalle Procure distrettuali”. E “ben”, come dicono gli autori della relazione, cinque Centri Operativi. Tutti impegnati con grande dispendio di mezzi, uomini e denaro contro un unico obiettivo. Naturalmente non c’è il nome di Berlusconi, e neppure quello di Dell’Utri, nella relazione ufficiale. Tanto ci pensano i giornalisti amici, ad allungare il brodo, nel corso degli anni. Con decine di articoli, che spaziano dal Fatto a Domani. Ma nel documento della Dia non sono neppure menzionati i fallimenti precedenti. C’è da chiedersi se in Parlamento qualcuno le legge, queste relazioni, e se a qualcuno verrà mai in mente di interrogare il Ministro dell’Interno per visionare quanto meno i bilanci della Dia. Per non parlare del Csm, sempre pronto a “perdonare” i numerosi flop delle fallimentari inchieste di mafia.

Qualcuno ricorda ancora le indagini condotte dalla procura di Palermo su “M” e “MM”? E quelle di Caltanissetta su “Alfa” e “Beta”? E poi a Firenze l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2”? Le sigle coprivano maldestramente sempre i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tutte archiviate, spesso su richiesta dello stesso pm. Carta straccia. E io pago! Dobbiamo ripeterlo più spesso, che questi magistrati e questi investigatori con le loro fantasie fanno pagare ai cittadini, anche in senso materiale, il prezzo dei loro errori, delle loro incapacità, dei loro furori politici.

Giusto per non ripetere la solita tiritera dei fratelli Graviano, sentite che cosa è successo ieri mattina a Reggio Calabria. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha illustrato in un’aula di giustizia un’informativa della Dia (si, la solita Dia) su dichiarazioni di “pentiti” che chiamavano in causa esponenti politici e i loro presunti rapporti con uomini della ‘ndrangheta.

Barzellette, cui un importante uomo dello Stato in toga, pare dare credito: Craxi e Berlusconi a un summit in un agrumeto con la ‘ndrangheta. L’episodio risalirebbe ai giorni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quindi nel 1978. I due sarebbero andati a questo vertice di mafia nella piana di Gioia Tauro, “presso l’agrumeto di tale Peppe Piccolo”. Lo racconta il “pentito” Girolamo Bruzzese, che sostiene di aver riconosciuto il personaggio politico e l’imprenditore brianzolo “per averli già visti in televisione”. Un po’ strano, non risulta che Berlusconi, impegnato solo nelle sue attività imprenditoriali, fosse spesso in televisione in quei giorni. Comunque il ragazzo fu subito, all’arrivo dei due, fatto allontanare dal padre su suggerimento nientemeno che di Peppe Piromalli, il boss dei boss.

Il racconto prosegue nel ricordo che, anni dopo, il padre di Bruzzese gli avrebbe spiegato che “Craxi e Berlusconi si sarebbero recati al summit perché Craxi voleva lanciare politicamente Berlusconi e quindi per concordare un appoggio anche da parte delle cosche interessate alla spartizione dei soldi che lo Stato avrebbe riversato nel mezzogiorno”. I due avrebbero alloggiato nel miglior albergo di Vibo Valentia, “penso in incognito”. Ricapitolando: il segretario di uno dei principali partiti italiani, che durante il rapimento Moro si era posto in particolare evidenza contro il “partito della fermezza” costituito da democristiani e comunisti, avrebbe avuto la bella pensata di andare a raccomandare a Piromalli un imprenditore brianzolo per farlo entrare in politica e garantirgli un po’ di voti mafiosi con l’impegno di investimenti per il sud. E avrebbe alloggiato nel miglior albergo di Vibo in incognito. Ma dottor Lombardo, lei crede davvero a queste scemenze?

Poi lo statista “pentito” Bruzzese spiega al colto e all’inclito che i corleonesi Riina e Provenzano si erano contrapposti alle famiglie mafiose palermitane dei Badalamenti-Inzerillo Bontate, perché “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”. Ecco il cerchio che si chiude, mancavano solo Gelli e la P2. Se non c’è il fantasma di Aldo Moro, in quell’aula di Reggio Calabria però c’è quello di un ulteriore “pentito”, morto nel 2014, ma che aveva reso dichiarazioni spontanee alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria nel 2009.

Ci racconta il procuratore aggiunto, che questo Gerardo D’Urzo aveva parlato di un certo Valensise, che a quanto pare non è stato identificato, che con un altro esponente della ‘ndrangheta della jonica era andato a Roma e aveva avuto “un colloquio a Palazzo Grazioli con l’onorevole Silvio Berlusconi e questi gli disse al Valensise che quello che aveva promesso lo manteneva e dovevano stare tranquilli”. Eccetera. Così sono fatte le inchieste di mafia. Interverrà mai qualcuno in Parlamento o al governo o al Csm per mettere fine a queste vergogne? Intanto gli armamenti pesanti della Dia continuano a indagare con questi metodi, nell’attesa che la procura di Firenze, quella che indaga per strage Berlusconi e Dell’Utri, decida, entro dicembre, se chiedere un processo o procedere all’archiviazione. Sarebbe il quarto flop, dopo trent’anni.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il 6 settembre 1982. Reato di associazione mafiosa, fa 40 anni fa la legge che ha prodotto indagini zoppicanti. Roberta Caiano su Il Riformista il 6 Settembre 2022 

Sono trascorsi 40 anni da quando, il 6 settembre 1982, il reato di associazione mafiosa ha trovato ingresso nel codice penale italiano e, con esso, si è prevista la possibilità della confisca per i patrimoni dei sospettati di far parte delle organizzazioni mafiose. Erano trascorsi solo tre giorni dall’uccisione del prefetto Dalla Chiesa a Palermo e la reazione della pubblica opinione rendeva indifferibile dar corso alla proposta di legge Rognoni – La Torre in gestazione da qualche tempo in Parlamento; il governo adottò un decreto legge in fretta e furia. L’Italia è stata, e resta, l’unico paese al mondo che ha previsto uno specifico reato associativo per una determinata tipologia di realtà criminali (la mafia, la camorra e dal 2010 la ndrangheta).

Nel tempo il 416-bis ha manifestato una eccezionale capacità espansiva nelle maglie dell’ordinamento italiano. Si sono modificate altre norme del codice, si sono inserite specifiche aggravanti, si sono modellate norme processuali ad hoc (il cosiddetto doppio binario), si sono previsti regimi penitenziari speciali, si sono costruite apposite agenzie investigative, si sono modificate le competenze delle procure della Repubblica e finanche dei giudici con l’accentramento in sede distrettuale dell’intera fase delle indagini e la costituzione dell’unica procura nazionale. Protocolli e congegni che hanno mostrato una straordinaria capacità performante e sono stati talmente efficaci da attrarre in questo perimetro d’eccezione altri reati (per tutti il terrorismo). Oggi l’Italia può dirsi, con ogni probabilità, l’unico paese al mondo che dispone di uno statuto speciale per la mafia che spazia in ogni settore dal processo alle pene, dalle intercettazioni al regime carcerario, dalle carriere dei magistrati ai rapporti con la stampa, dalla prescrizione alla carcerazione preventiva, dagli appalti alle candidature ivi incluso lo scioglimento dei consigli elettivi locali.

Una gigantesca macchina intorno alla quale si sono agglutinati interessi politici, ambizioni carrieristiche, operazioni mediatiche di successo, esasperate polemiche, processi di grande importanza, ma anche indagini zoppicanti quando non naufragate. Dozzine di libri e migliaia di pubblicazioni hanno scandagliato in tutti i versanti questo composito e variegato mondo. Talvolta esaltandone l’efficacia, talaltra rimproverando errori ed eccessi. Basti pensare che si attende ancora un nuovo assetto che modifichi il cosiddetto ergastolo ostativo e che il governo Draghi ha dovuto rapidamente, a fine del 2021, mitigare le norme sulle interdittive antimafia per non paralizzare i cantieri del Pnrr. In 40 anni il paese è profondamente modificato e sarebbe insensato immaginare che le mafie siano rimaste quelle dei tempi dell’eccidio del generale Dalla Chiesa. Dire cosa siano oggi è, in realtà, un’operazione non agevole. Circolano stereotipi, si propagandano ipotesi fumose e suggestive, si lanciano moniti, si denunciano “cali di tensione”, si giustificano candidature con l’esigenza di dar voce al mondo composito e complesso che si è compattato – non senza un tornaconto personale – intorno alla lotta alle mafie in questi decenni.

Certo sorprende che dopo 40 anni di applicazione della norma nessuno sia disponibile a rendere un bilancio realistico sulla effettiva condizione di quelle realtà criminali; quanto meno per dire al paese se l’enorme sacrificio delle libertà personali che quella legislazione quotidianamente comporta, se gli enormi costi che vi sono associati (si pensi solo alle intercettazioni) e i gravi danni collaterali che ha prodotto abbiano comunque dato un risultato apprezzabile. Alla ricorrenza del 3 settembre solo Nando Dalla Chiesa ha, con grande onestà intellettuale, riconosciuto la distanza abissale che separa il 1982 dal 2022. Eppure è sotto gli occhi di tutti l’incommensurabile deserto che lo Stato e la società italiana nel suo insieme hanno attraversato da quel 1982 e, soprattutto, dopo il 1992 e le stragi di Falcone e Borsellino. E’ vero le organizzazioni mafiose sembrano ancora possenti; difficile dire quanto effettivamente capaci di condizionare la vita pubblica della nazione, ma certo ancora radicate nei territori. Può darsi che siano diventate la Spectre, ma insomma le analisi e le denunce sul punto hanno lo stesso gradiente di conferme che si può trovare in un libro di Ian Fleming. Il nemico appare sconosciuto, se ne sono persi i contorni e l’identità.

Da tempo ormai non sembra più “agganciato” investigativamente; alle prove si sono sostituite le denunce e gli allarmi. Soprattutto chi avrebbe il dovere di individuarne le nuove morfologie e le nuove strutture, si abbandona a cogitazioni probabilistiche e a mere deduzioni sui massimi sistemi senza mai addurre una conferma obiettiva. Borse, industrie, apparati finanziari, mercati, istituzioni vengono additati come infiltrati e condizionati, ma mancano prove certe di tutto ciò. Al massimo si invoca qualche raro e marginale episodio, qualche brandello di intercettazione rimasto privo di conferme nei processi, per giunta. E’ una questione grave. La scelta del 1982 era stata lungimirante, profetica, micidiale per i clan.

Dopo 40 anni ci sono in questo paese più commemorazioni che processi, più libri e convegni che indagini. La nazione dopo tanti morti e tanti sacrifici ha diritto di pretendere report attendibili, stime realistiche, valutazioni ponderate. Anche perché il paese è devastato da reati ben più evidenti e parimenti gravi – corruzione ed evasione fiscale per primi – che rischiano di metterlo in ginocchio in questi tempi oscuri. Leggi speciali e connessi apparati speciali, come quelli italiani, non hanno quartiere in nessuna democrazia. Sono un costo cui ci siamo rassegnati 40 anni or sono per colpa della ferocia mafiosa, ma non sono una cambiale in bianco rilasciata in favore di qualcuno. Roberta Caiano

Così le mafie hanno fatto apprendistato andando a vedere “Il padrino”. L’opera dello storico Nicaso e del suo allievo Scalia propone una chiave di lettura affascinante e scala le classifiche dei libri più venduti. ANTONIO ANASTASI su Il Quotidiano del Sud il 10 Settembre 2022.

Il 14 marzo 1972, a New York, viene proiettata la prima mondiale del film “Il Padrino”, che di lì a poco diverrà un successo planetario contribuendo ad alimentare nell’immaginario collettivo il mito di “Cosa nostra”, condizionando perfino i comportamenti degli uomini delle mafie fino a divenire oggi, tra mescolamenti e ibridazioni, un’icona pop evocata perfino negli spot pubblicitari e nei videogame.

Cinquant’anni dopo, lo storico delle organizzazioni criminali Antonio Nicaso e uno dei suoi più brillanti allievi di dottorato, Rosario Giovanni Scalia, visiting professor alla Rutgers University, ricostruiscono e decostruiscono meravigliosamente quel mito. È già in testa alle classifiche dei libri più venduti “Il mito di Cosa Nostra. La vera storia del padrino e di come ha cambiato noi e la mafia”, edito da Solferino. Ma sono tre libri in uno, tante quante le parti del film – anche se la seconda e soprattutto la terza, ribattezzata il “Fredo” della Trilogia con riferimento a uno dei figli di don Vito Corleone, quello perdente, non replicheranno il successo della prima.

Tre libri in uno che si possono leggere distintamente ma che dialogano intensamente tra loro, offrendo una chiave di interpretazione affascinante e fondamentale per comprendere cosa sono le mafie oggi ma anche l’appeal che il film ha esercitato e continua ad esercitare, anche sulle mafie, a discapito del politicamente corretto.

La prima parte – “The making of” – ricostruisce le peripezie del regista Francis Ford Coppola e dello scrittore Mario Puzo, coinvolto nella sceneggiatura anche se il dominus resterà il filmaker, tra boicottaggi di Cosa Nostra che compie incursioni sul set, campagne negazioniste come quella di Joe Colombo, mafioso e fondatore della Lega per i diritti civili degli italo-americani, e capricci del pluripremiato cast di stelle, a cominciare da quelli di Marlon Brando; ma anche l’ira funesta di Frank Sinatra il quale si riconosceva nel crooner Jonny Fontane il cui successo è legato all’appoggio del boss.

Ma, soprattutto, in questa sezione il libro traccia i profili di due italoamericani profondamente diversi, anche fisicamente, come Puzo e Coppola, strana e asimmetrica coppia voluta da Paramount. Proletaria la famiglia di Puzo, uno che scrive per sbarcare il lunario, di estrazione borghese quella dell’intellettuale Coppola che un film su quel libro, che secondo una certa critica inneggiava alla mafia, inizialmente non voleva manco girarlo ma poi si convince che con una valida riscrittura del copione, ricalibrando la saga della famiglia Corleone, sarebbe venuta fuori un’efficace metafora del potere.

La seconda sezione del libro analizza ogni fotogramma del film e ne esplora segni e simboli, a cominciare dalla prima scena in cui il passaggio dal buio del non essere all’essere viene scandito dal suono di una tromba – un discorso ad hoc meriterebbe la colonna di sonora di Nino Rota, escluso dalle nomination per le musiche della Parte I ma vincitore dell’Oscar per la II – e da quella frase, “I believe in America”, pronunciata dal becchino Amerigo Bonasera che si era rivolto al don, inquadrato di spalle prima e poi con espressione ieratica mentre accarezza un gattino e rifiuta i soldi per la punizione da impartire a coloro che hanno quasi stuprato la figlia di quell’uomo implorante.

Un boss che non va in escandescenze e reclama soltanto rispetto e baciamano per rendere quella giustizia che i giudici non hanno saputo somministrare, e pertanto suscita immedesimazione nel pubblico sovvertendo gli stereotipi violenti con cui la mafia era prima rappresentata al cinema. Una scena che introduce la dicotomia tra mafia buona e mafia cattiva, un tema centrale del libro, che tanto contribuirà ad alimentare un falso mito che nobilita il mondo del crimine perché, per esempio, i boss all’antica non si occupano di narcotraffico e non uccidono donne e bambini. 

Un falso storico, perché non si contano le stragi di innocenti se si compie un excursus approfondito e anche là dove non tratteranno direttamente la droga i capimafia pretenderanno comunque la cresta sulla zona in cui daranno l’ok per i traffici.

La terza sezione ripercorre l’enorme successo del Padrino che alla fine ha inghiottito perfino gli iniziali sospetti della mafia che tentava di condizionare le riprese e temeva il clamore mediatico, perché il quadro che ne viene fuori si rivela addirittura funzionale ai disegni di Cosa Nostra.

Perché – merito anche di formidabili attori, e ci limitiamo a ricordare, dopo il già citato Brando, gli italoamericani Al Pacino e Robert De Niro – oltre all’apparato cerimoniale che attinge al mito dei Vespri siciliani e alla saga secentesca dei cavalieri Osso, Mastrosso e Carcagnosso, il film offre un’ulteriore nobilitazione retrodatata nei millenni. Il riferimento è alla scena in cui Diane Keaton, la Kay moglie di Michael Corleone, parla di quella “cosa siciliana che va avanti da duemila anni”, un concetto valorizzato nella Parte III quando, durante il viaggio in Sicilia del nuovo capo dell’organizzazione, quello che opera la “legalizzazione” della famiglia fortemente voluta da suo padre, viene inquadrato il tempio di Segesta.

Non a caso gli autori parlano di «corto circuito tra realtà e rappresentazione» venutosi a creare sin dagli anni Settanta. «Puzo e Coppola, che hanno studiato la vera mafia per rappresentarla, sono diventati a loro volta oggetto di studio e di rappresentazione per i riti, i comportamenti, gli atti di violenza di quegli stessi mafiosi. Il mito di una mafia buona, che i mafiosi hanno “venduto” agli autori del Padrino, viene restituito loro arricchito di una nobiltà di rappresentazione e di un pathos tragico di cui mai i mafiosi sarebbero stati capaci».

Il Godfather effect travolgerà perfino il pentito Giovanni Brusca quando definirà Totò Riina “padrino d’iniziazione”, un’esigenza che non avrebbe avvertito senza aver visto il film, spiegano Nicaso e Scalia, perché quella formula la usa non in relazione alla fama del capo dei capi se specifica che il termine padrino è riferito al contesto dell’affiliazione. È la mafia, dunque, che va a fare da apprendista al cinema, grazie a quella ritualizzazione della violenza a cui si assiste, in maniera lenta e graduale, scena dopo scena.

·        Mafia: non è altro che una Tangentopoli.

Vito Lipari, il sindaco Dc accerchiato e ucciso nel feudo del super latitante Matteo Messina Denaro. Marco Bova su La Repubblica 26 Agosto 2022.  

Quarantadue anni fa a Castelvetrano l’assassinio dell’amministratore scudocrociato. Il figlio: «Ucciso per il no ai boss nella gestione di appalti e banca locale. Eliminato con il piombo e infangato da morto»

«La morte di mio padre è l'omicidio “eccellente” dei Messina Denaro. Lo hanno massacrato come un vitello, “mascariato” come tutte le vittime della Dc e dimenticato nell'indifferenza. Ma chi ha vissuto quella stagione come il presidente Sergio Mattarella sa bene da che parte stava mio padre». È lo sfogo di Francesco Lipari, figlio di Vito Lipari, sette volte sindaco di Castelvetrano (Trapani) ucciso il 13 agosto 1980, rimasto nel limbo delle vittime di mafia.

Il suo nome con fatica ha trovato spazio nel ricordo della triste scia di sangue, che negli stessi anni a Palermo, portava agli omicidi “eccellenti” dei democristiani Michele Reina e Piersanti Mattarella e del comunista Pio La Torre.

E questo anche a causa dell'indifferenza delle istituzioni. Almeno fino a quando una lettera spedita alla famiglia dal capo dello Stato ha restituito alla memoria di Lipari lo spessore dovuto.

L'assassinio del sindaco fu un agguato in pieno stile mafioso. La vittima era a bordo della sua auto, lungo la strada che collega Castelvetrano a Selinunte, quando i sicari gli spararono con un fucile e due revolver. 

Le indagini sull’omicidio franarono presto insieme all’instabile castello giudiziario, reso fragile anche dalle false dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

In quegli anni, Lipari era uno dei dirigenti rampanti dell'area di riferimento dell’ex ministro degli Affari esteri Attilio Ruffini, primo dei non eletti, con 46 mila voti, alle elezioni parlamentari del 1976 e in ultimo anche direttore del consorzio Asi, l’area di sviluppo industriale, che si occupava dell'assegnazione di alcuni appalti delicati.

«Mio padre – racconta Francesco – non ha mai intascato alcuna tangente, di questo ne sono certo, anche se ricordo il via vai che c'era a casa e la fila davanti al portone di ingresso. Gli venivano rivolte preghiere per assunzioni e favori, perfino da me, per conto dei miei compagni di scuola. Un giorno l'arciprete mi chiese se potevo parlare con mio padre per un suo nipote». Quella di Lipari fu un'ascesa gestita «con decisa spregiudicatezza», scrivono i giudici, anche in relazione ai rapporti con i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori di Salemi arrestati dal giudice Giovanni Falcone nel 1984 per associazione mafiosa. Il primo morì durante il processo, il secondo fu condannato a tre anni in Appello e ucciso nel 1992, poco dopo le Stragi di Capaci e via d'Amelio.

«Ma non si scrive mai che mio padre era amico intimo del maresciallo Giuliano Guazzelli, che frequentava spesso casa nostra», aggiunge Francesco, riferendosi al carabiniere, ucciso, anche lui, nel 1992 siciliano. «Chiaramente con i Salvo c'erano dei collegamenti, degli incontri, ma di certo mio padre non andò mai sulle loro barche a parlare degli affari pubblici», dice ancora Francesco Lipari: «Nel ’79 fecero circolare nel mondo politico l’avvertenza di stare attenti perché i Corleonesi stavano per alzare il tiro». Tuttavia, Francesco Lipari rimane convinto che il padre «non sia stato ucciso dai nemici dei Salvo», ma che la morte del padre «sia maturata nell’ambito degli interessi mafiosi ed economici di Castelvetrano».

È quanto in effetti è emerso, alla fine di un tortuoso percorso giudiziario su un omicidio che sembrava già risolto dopo poche ore. A 30 chilometri di distanza dal luogo del delitto i carabinieri, durante un servizio di controllo straordinario avevano fermato due auto. Una con il boss di Mazara del Vallo, Mariano Agate ed un suo uomo; nell'altra Nitto Santapaola, capomafia di Catania e altri due mafiosi: tutti arrestati e scarcerati pochi giorni dopo, anche con la complicità di un ufficiale dei carabinieri, e infine nuovamente arrestati.

I boss furono collegati al delitto autorizzando una pista suggestiva, sulla rotta Catania-Trapani, smontata nel 1992 dalla corte d’Appello di Palermo, che la definì «assolutamente contro ogni logica». Bocciando anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara, oggi sconfessato dai tribunali, che dopo una prima ritrattazione, continuò a testimoniare, nonostante fosse saltata fuori una lettera, scritta durante una precedente detenzione, in cui preannunciava al suo legale di voler utilizzare il caso Lipari per accreditarsi con la giustizia.

Il ruolo della mafia di Castelvetrano è emerso soltanto dopo l’inizio della collaborazione con i magistrati di Vincenzo Sinacori, reggente di Mazara del Vallo, detto “ancidda” (anguilla), arrestato nel 1996, che si è autoaccusato dell’omicidio Lipari. Sinacori dice di avervi partecipato con i mazaresi Andrea Gancitano e Giovanni Leone e con Antonino Nastasi di Castelvetrano. Il pentito però sarà l'unico condannato, gli altri assolti per insufficienza di prove. «Andando oltre le sentenze, è chiaro il ruolo di Nastasi e della mafia di Castelvetrano, anche alla luce degli sviluppi successivi», dice il figlio del sindaco ucciso. Il riferimento è proprio a Nastasi che, secondo il racconto di alcuni pentiti, è stato il custode dell’esplosivo deflagrato il 27 luglio 1993, davanti al Pac di via Palestro a Milano, quasi in contemporanea con gli attentati alle chiese di Roma.

Quale il movente dell’omicidio? Il figlio di Lipari ne indica uno con determinazione. E argomenta: «Fino alla morte di mio padre, la raccolta dei rifiuti era pubblica, nel 1983 ha inizio invece l’era della Ecolsicula, da cui mio padre era stato avvicinato in precedenza, rifiutando ogni contatto. E dopo l’omicidio ha gestito i rifiuti praticamente fino a dieci anni fa». A porre fine all’appalto un blitz antimafia del 2012. Dalle indagini venne fuori proprio il ruolo di Nastasi nell’azienda dei rifiuti intestata al cugino Gaspare Spallino. «E sempre dopo la morte di mio padre, casualmente la Cassa Rurale e Artigiana di Castelvetrano va in mano ai socialisti e nel consiglio d'amministrazione entra proprio Spallino, dietro al quale c'era sempre Nastasi. Per questo dico che è loro la firma sull’agguato: dei Nastasi, dei Messina Denaro, della mafia di Castelvetrano.

Così come sono sicuro che è loro la volontà di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, perché parlando del processo per l'omicidio di mio padre, rischiava di avvicinarsi alla verità. E anche nel caso Rostagno al delitto è seguito un depistaggio». Un’ipotesi, quest’ultima, rilanciata durante il processo per l’omicidio del giornalista assassinato il 26 settembre 1988. Rostagno era autore di alcuni speciali sull’omicidio Lipari, con tanto di riprese del boss Agate, recluso dietro le sbarre. In un’occasione il boss chiamò un cameraman di Rtc, la televisione in cui lavorava Rostagno: «Dicci a chiddu ca vaivva chi la finisce (Dì a quello con la barba di finirla)», fu l’avvertimento.

Racconta ancora Lipari: «Ad un anno dalla morte di mio padre, dei suoi amici avevano sistemato un busto in bronzo davanti alla lapide e nottetempo, nonostante ci fosse il custode, qualcuno entrò nel cimitero, aprì la porta della cappella e buttò il busto in mezzo al parco. Si disse che era opera di un pazzo, ma alcuni anni fa è successa una cosa analoga, nella tomba di Lorenzo Cimarosa, il metodo è lo stesso». Accadde nel 2017 e la tomba presa di mira allora fu quella del cugino acquisito di Matteo Messina Denaro, Lorenzo Cimarosa. Dopo l’arresto aveva iniziato collaborare alle indagini sul latitante e il suo cerchio magico. Lo sfregio alla memoria fu un’ulteriore ritorsione di Cosa nostra.

Il figlio di Lipari racconta di un percorso, che lo ha portato a «non avercela più con i presunti esecutori del delitto ma piuttosto con «quelli che dopo hanno cercato di “mascariare” mio padre. E molti lo hanno fatto a Castelvetrano, per paura di accreditare la pista mafiosa, anche per questo ho apprezzato tanto il messaggio del Presidente».

Nella lettera, Mattarella, nel quarantesimo anniversario dell’omicidio, esprime «la sua vicinanza nel ricordo di un uomo di grande spessore umano e politico che ha perso la vita per essersi opposto alla violenza mafiosa». Eppure, tutt'oggi, il 13 agosto è una data poco ricordata a Castelvetrano e commemorata soltanto dai familiari. Anche quest'anno. All'interno del parco archeologico di Selinunte c'è stato un importante festival di musica elettronica, dal nome “Musica &Legalità”, con un dj di fama internazionale e la presenza del capitano Ultimo, al secolo Sergio de Caprio, l’ufficiale che rivendica la cattura del superboss Salvatore Riina. Eppure, nessuno si è ricordato di Lipari. «C'è un'indifferenza violenta nei confronti della figura di mio padre, l'antimafia si è limitata a pensare che tutti i morti della Dc, in fondo, erano dei collusi uccisi per regolamento di conti, ignorando l'altra faccia della storia. Mi piacerebbe poter celebrare la sua figura con il Comune di Castelvetrano e confutare con i fatti l'assenza delle Istituzioni».

Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022

Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.

In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.

La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.

La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.

L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.

Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).

LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO

Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze: 

«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.

Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.

Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.

Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.

Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.

Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.

Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.

Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.

Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.

Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.

Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.

Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022

La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.

Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello

facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.

Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.

Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.

Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del

Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.

La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.

Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.

A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.

Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura. 

LA PISTA ELVETICA

Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.

È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.

E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).

Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.

Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.

 È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.

Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022

Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.

Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.

Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros

È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi). 

E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.

Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.

E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).

LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI

Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.

Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».

Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».

In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.

Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».

[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».

In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.

E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.

E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».

E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

La riunione sul dossier “Mafia e Appalti” e i (presunti) contrasti fra i pm. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 27 novembre 2022

A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla Procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo

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In ordine poi ai presunti contrasti che sarebbero insorti sulle risultanze dell’indagine mafia e appalti e sulle determinazioni da adottare, e che avrebbero opposto i magistrati titolari di quell’indagine — orientati ed anzi ormai determinati a chiedere l’archiviazione del proc. nr. 2789/90 N.R., o più esattamente di ciò che ne restava dopo i vari stralci effettuati — a Paolo Borsellino, che invece guardava con interesse e convinzione alla proficuità di ulteriori sviluppi di quell’indagine, va osservato quanto segue.

Agli elementi, in verità piuttosto scarni, desumibili dalle audizioni del dott. Luigi Patronaggio e della dott.ssa Antonella Consiglio dinanzi al Csm, rispettivamente, il 30 luglio (verbale n.° 45) e il 31luglio 1992, si sono aggiunte le ulteriori informazioni e delucidazioni fornite dagli altri magistrati che ne riferirono nel corso delle medesime audizioni (cfr. La Neve e Gozzo, verbale n.° 43, del 29 luglio; Pignatone, verbale n.° 44 del 30 luglio; Lo Forte e Sabbatino, verbale n.° 45 del 30 luglio).

Si è accertato dunque che con lettera datata 11 luglio 1992, il procuratore Giammanco aveva convocato per il 14 luglio una riunione aperta alla partecipazione di tutti i sostituti, e non solo quelli della Dda, con un preciso ordine del giorno che faceva ex se comprendere come non fosse un mero pretesto per scambiarsi i saluti in vista delle ormai prossime ferie estive.

Al contrario, la riunione era stata indetta per fare il punto sullo stato delle indagini e dei processi più delicati, mettendone al corrente anche i magistrati che non se ne erano occupati, ed anzi soprattutto i sostituti che non facevano parte della Dda (cfr. Gozzo). Si rompeva cosi una tradizione e una prassi più che consolidata, qual era quella di tenere sì riunioni periodiche per aggiornarsi reciprocamente sullo stato delle indagini e scambiarsi informazioni o discutere questioni controverse per giungere a soluzioni condivise, ma ristrette ai sostituti che facessero parte della Dda (Cfr. La Neve e Sabbatino). Nelle intenzioni del procuratore quell’inedita riunione plenaria del suo Ufficio doveva servire proprio a far ritrovare un clima di armonia e di fiducia insidiate, a partire dalla pubblicazione dei diari di Falcone (24 giugno ‘92) dall’ennesima campagna di stampa — e relativa scia di velenose polemiche — che rinnovava il sospetto o l’accusa che alla procura di Palermo si manipolassero o si insabbiassero le indagini più delicate, come quelle che potevano coinvolgere esponenti politici e loro presunte collusioni con ambienti della c.o., o non si andasse a fondo in quelle mirate alla cattura dei più pericolosi latitanti mafiosi.

E infatti, sullo stato di tali indagini e le relative risultanze erano stati incaricati di svolgere apposite relazioni “informative” i sostituti che se ne erano occupati e figuravano ancora come assegnatari dei relativi procedimenti:

I) i sostituti Teresi, Morvillo e De Francisci dovevano relazionare sulle indagini scaturite dal rinvenimento del c.d. libro mastro dei Madonia e sul racket delle estorsioni, indagini per le quali era stato avanzato il sospetto, tra l’altro, di una colpevole inerzia che avrebbe propiziato l’omicidio di Libero Grassi;

2) il sostituto Pignatone era chiamato a relazionare sulle indagini per la cattura di grossi latitanti (avuto riguardo alle notizie di stampa che parlavano di occasioni sfumate per la cattura di Riina;

3) i sostituti Lo Forte e Scarpinato avrebbero invece dovuto relazionare sull’indagine mafia e appalti.

Quest’ultima era giunta in effetti ad uno stadio conclusivo, poiché da un lato era alle viste l’inizio del dibattimento, fissato per ottobre, nell’ambito del procedimento stralcio a carico di Siino Angelo e altri; dall’altro era già pronta, ma non ancora depositata, la richiesta di archiviazione per le posizioni residue dell’originario procedimento nr. 2789/90 N.R. (Il dott. Pignatone ricorda che i colleghi Lo Forte e Scarpinato l’avessero già completata e depositata, e in effetti è così, poiché la richiesta è datata 13 luglio; ma prima della trasmissione al GIP doveva essere vistata dal procuratore Capo che appose la sua firma solo in data 22 luglio 1992). Nel corso della riunione effettivamente tenutasi alla data prefissata, sull’indagine mafia e appalti relazionò solo il dott. Lo Forte, essendo il dott. Scarpinato assente per sopravvenuti impedimenti familiari.

I RICORDI DEL PM GOZZO

A memoria del dott. Gozzo, fu subito evidente un certo dissenso da parte del dott. Borsellino (“Ho visto questo contrasto più che latente, visibile”), che formulò dei rilievi specifici e in particolare lamentò che non fossero stati acquisiti alcuni atti che erano stati trasmessi o dovevano essere trasmessi dalla procura di Marsala, e che non si rinvenivano all’interno del fascicolo (“Fece questa affermazione: come mai non fossero contenute questa carte all‘interno del processo si trattava di carte che erano state inviate.. alla procura di Marsala — e nella fattispecie dal collega Ingroia, che adesso è anche lui alla procura di Palermo — che era lo stesso processo però a Marsala. C‘erano degli sviluppi e quindi erano stati mandati a Palermo e lui si chiedeva come mai non fosse stata seguita la stessa linea”).

Sosteneva poi che si profilavano nuovi sviluppi, in relazione alle dichiarazioni di un nuovo pentito, e chiese quindi di rinviare la discussione (in sostanza, per quanto sembra di capire, chiese di differire ogni determinazione finale in ordine a quel procedimento, nelle more di possibili nuove risultanze: e in effetti, la richiesta di archiviazione, già alla firma del procuratore Giammanco, rimase in stand by fino al 22 luglio).

Non è chiaro se il nuovo pentito di cui fece cenno il dott. Borsellino fosse proprio Gaspare Mutolo, oppure Leonardo Messina, al cui primo interrogatorio Borsellino aveva proceduto lo stesso giorno dell’interrogatorio di Mutolo, e cioè l’1 luglio 1992, e che in effetti avrebbe fatto ulteriori rivelazioni sul sistema degli appalti e relative ingerenze mafiose, ma anche sul coinvolgimento di politici e le connivenze che facevano prosperare quel sistema.

Ma anche la dott.ssa Sabbatino ricorda che, durante quella riunione, alla domanda che gli fece se fosse in procinto di andare in ferie, Paolo rispose che doveva prima risolvere il problema di un nuovo pentito. Non sapeva se avrebbe potuto andare a interrogarlo, e se sentirlo da solo o insieme ad altri colleghi: una situazione che richiama le incertezze e le ambasce che affliggevano il dott. Borsellino in relazione al caso Mutolo, posto che non era cambiata la formale assegnazione (ad altri) del relativo fascicolo, e che si manifestarono nel corso dell’interrogatorio di Mutolo effettivamente assunto due giorni dopo quella riunione dal dott. Borsellino, insieme ai colleghi Lo Forte e Natoli, come confermato da entrambi.

Ed entrambi confermano di avere sostenuto un’interpretazione della disposizione impartita da Giammanco di coordinarsi con Borsellino per le attività relative agli interrogatori di Mutolo assolutamente rassicurante quanto alla sua piena legittimazione a coordinare altresì le indagini che ne fossero scaturite.

La dott.ssa Consiglio, presente pure lei alla riunione del 14 luglio, ha dichiarato che a svolgere la relazione sull’indagine mafia e appalti furono i colleghi che se ne erano occupati (e fa i nomi del dott. Lo Forte e del dott. Pignatone), i quali illustrarono le ragioni che li avevano condotti a richiedere i provvedimenti cautelari che erano stati accolti.

Ha confermato altresì che il dott. Borsellino si era lamentato del fatto che non fossero state inserite talune carte nel fascicolo del procedimento a carico di Siino Angelo e altri. Ma non può essere più precisa perché non conosceva i fatti cui Paolo si riferiva; tuttavia, notò che l’unico a prendere parte attiva a quella discussione a cui noi eravamo solo dei meri spettatori era Paolo Borsellino.

Né poteva essere altrimenti perché si parlava di un’informativa di 800 pagine sconosciuta a quasi tutti loro (non a lei, però, avendo studiato quel rapporto per la sua connessione con i fatti oggetto di un grosso procedimento per associazione mafiosa, istruito al Tribunale di Termini Imerese, e avente ad oggetto varie vicende e reati di c.o. tra cui anche illeciti relativi ad appalti nei territori di Termini Imerese e Madonie: territori che rientravano appunto nella zona d’influenza di Angelo Siino e nella sua giurisdizione quale ministro dei LL.PP. di Cosa nostra).

Sulle osservazioni formulate dal dott. Borsellino in relazione alla mancata acquisizione al fascicolo del procedimento a carico di Siino e altri di alcuni atti, una spiegazione dettagliata è stata fornita dal dott. Pignatone nel corso della sua audizione.

Era accaduto che i carabinieri, prima ancora che venissero emessi i provvedimenti restrittivi a carico di Siino e altri, avevano informato i magistrati di Palermo titolari dell’indagine (all’epoca, se ne occupava anche il dott. Pignatone) che il dott. Borsellino, n.q. di procuratore a Marsala, aveva indagini in corso su presunti illeciti commessi nella gare di aggiudicazione di alcuni appalti di opere pubbliche da realizzare in Pantelleria, che rientrava nella giurisdizione del Tribunale e quindi della procura di Marsala.

Borsellino disse loro di rivolgersi al dott. Ingroia, che era stata assegnatario di quel fascicolo, per avere le carte che chiedevano. Ma il dott. Ingroia replicò che in quel momento quelle carte non potevano essere rese pubbliche perché - in quel di Marsala - stavano per emettere ordinanze di custodia cautelare in carcere nei riguardi tra gli altri anche del Sindaco di Pantelleria.

Alla fine, non ravvisando elementi specifici di connessione con l’ipotesi di reato di associazione mafiosa per cui si stava procedendo a carico del Siino, fu la procura di Palermo, ovvero i sostituti Lo Forte e Scarpinato, rimasti titolari del procedimento, a trasmettere gli atti in proprio possesso in ordine a quelle gare d’appalto (che erano costituiti essenzialmente da intercettazioni telefoniche tra soggetti cointeressati all’aggiudicazione di quelle gare) all’omologo Ufficio di Marsala, dove si procede(va) per il reato di associazione a delinquere semplice.

Di tale vicenda v’è traccia anche nell’audizione del dott. Borsellino dinanzi alla Commissione Antimafia (in visita agli uffici giudiziari di Trapani), nella seduta del 24 settembre 1991. È lo stesso Borsellino a richiamare l’inchiesta sfociata nell’arresto del Sindaco di Pantelleria e nello scioglimento del consiglio comunale, annoverandola come una delle indagini di maggiore successo condotte dal suo ufficio — e lo dice senza vanagloria personale, ascrivendone il merito ad un mio giovanissimo sostituto — in materia di reati amministrativi di notevole spessore che riguardano gli appalti o l’attribuzione di incarichi professionali; e sottolinea che al riguardo che «tutte queste non sono attività di mafia a sono attività attraverso le quali la mafia usufruisce di facili veicoli di profitto». Il dott. Pignatone ha precisato invero che Borsellino non formulò rilievi specifici, ma si limitò a chiedere chiarimenti; e poi prese atto della spiegazione fornita da Lo Forte.

UN “DIVERSO” METRO DI VALUTAZIONE

Tuttavia, avuto riguardo a quanto dichiarato dal dott. Gozzo sulla perplessità espressa dal dott. Borsellino per il fatto che non si fosse seguita la stessa linea, è lecito ipotizzare che persistesse il dissenso del procuratore Aggiunto per avere – i colleghi che si erano occupati dell’inchiesta – adottato un diverso metro di valutazione, ovvero una linea interpretativa e di qualificazione dei fatti ascrivibili ai vari soggetti indagati per le medesime vicende che rimandavano al contesto criminoso in cui era emerso il ruolo di Siino quale artefice degli accordi collusivi tra cordate di imprenditori, esponenti politici e cosche mafiose per la spartizione degli appalti.

E da qui la richiesta di aggiornare la discussione, ovvero di differire le determinazioni finali da adottare, prospettandosi la possibilità di ulteriori sviluppi in relazione alle rivelazioni di un nuovo pentito.

In effetti, tale lettura sembra trovare conforto nelle dichiarazioni del dott. Patronaggio.

Questi, infatti, rammenta che il dott. Borsellino, facendosi portavoce di lamentele da parte dei carabinieri che avevano condotto l’indagine mafia e appalti per l’esiguità dei risultati raggiunti sul piano giudiziario rispetto alle loro aspettative (in assemblea lo disse espressamente che i carabinieri si aspettavano da questa informativa dei risultati di maggiore respiro”), chiese spiegazioni in ordine al procedimento a carico di Siino e altri: «perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri: verosimilmente, e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè e era stata fatto o non era stata fatta una cosa, ma più che altro era il contesto generale del procedimento, chi c‘era e chi non c‘era, perché poi in buona sostanza la relazione sul processo Siino fu fatta, sinceramente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all‘interno del processo, o se vi erano nomi di politici di un certo peso, vi entravano solo per mero accidente».

In altri termini, le spiegazioni chieste da Borsellino non riguardavano singoli fatti o singoli atti istruttori ma l’impostazione generale dell’indagine e le sue direttrici. Il dott. Lo Forte, però, sempre a dire del dott. Patronaggio, si sforzò di spiegare che il vero nodo dell’indagine, semmai, concerneva il ruolo specifico degli imprenditori.

E anche le doglianze dei carabinieri traevano origine dall’aspettativa, andata delusa, di esiti più cospicui, non si riferivano tanto alle posizioni di uomini politici che entravano nell’indagine solo incidentalmente, bensì alle posizioni degli imprenditori coinvolti (o di taluno di loro): «In realtà no, non è solo nei confronti dei (politici), anche nei confronti degli imprenditori, perché lì il nodo era, il nodo era valutare a fondo la posizione degli imprenditori, e su questo punto peraltro il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione dell‘imprenditore in questo contesto, queste furono le spiegazioni date, chieste e date ecc.» (cfr. verbale n. 46, pag. 81).

Ciò posto, non v’è chi non veda che il “dissenso” del dott. Borsellino rispecchiava e denotava il convincimento da tempo maturato che l’indagine su mafia e appalti costituisse un filone investigativo “aureo” nel quadro dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata perché puntava - e poteva condurre - ai più inaccessibili santuari del potere mafioso che aveva il suo cuore pulsante nella creazione e nel consolidamento di legami sinergici con pezzi dell’imprenditoria e della politica, oltre a ricavare dalla partecipazione attiva al sistema di spartizione degli appalti un formidabile strumento di controllo dei flussi di ricchezza.

Tale intuizione è il connotato saliente, ed anche il principale merito ascrivibile all’ipotesi investigativa alla base del dossier mafia e appalti, che, come si legge testualmente nella “Relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini mafia e appalti negli anni 1989 e seguenti”, «segnava un salto di qualità nelle conoscenze sino ad allora acquisite sui rapporti tra Cosa nostra e il mondo imprenditoriale. Ed infatti emergeva che l’associazione mafiosa non si limitava più a svolgere un ruolo di sfruttamento meramente parassitario delle attività economico-imprenditoriali, concretantesi nell’imposizione di tangenti, di subappalti, di assunzione di manodopera, ma mirava a realizzare un controllo integrale e un pesante condizionamento interno del modo imprenditoriale e del settore dei lavori pubblici in Sicilia, mediante complesse ed articolate metodologie che nel loro insieme costituivano l’espressione più sofisticata e moderna di una strategia di assoggettamento degli operatori economici al prepotere delle organizzazioni facenti capo a Cosa nostra».

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Le parole profetiche di Falcone sulla spartizione dei grandi lavori. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO Il Domani il 28 novembre 2022

«Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi. Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Questa intuizione era già stata fatta propria da Giovanni Falcone, che, nella relazione (oggetto di infinite citazioni, anche in questo processo e non sempre a proposito) svolta ad un convegno tenutosi al Castello Utvegio a Palermo nel marzo del 1991 — e quindi quando egli si era appena trasferito al ministero — richiamava le risultanze di recenti indagini per trarne la conferma che la portata dell’infiltrazione mafiosa nel tessuto economico ed in particolare nel settore dei pubblici appalti fosse «più grave molto più grave di quelle che appare all‘esterno. Perché siamo di fronte ad un meccanismo di condizionamento generico dei pubblici amministratori e dei pubblici poteri da parte delle imprese che, a ben guardare, appare identico sia nel mezzogiorno sia nel centro e sia nel settentrione d’Italia».

Ma «accanto ad un coinvolgimento generico delle imprese in attività illecite e ad un certo tipo di corruttela generica dei pubblici amministratori, abbiamo un condizionamento mafioso che si innesta e sfrutta questa attività criminale che, in quanto generica, potremmo chiamare ambientale (...) Io credo che, almeno per quanto riguarda l’organizzazione mafiosa, ci sia ormai un condizionamento dei pubblici appalti, che potrei definire a ciclo continuo; esso esiste sia all‘origine, ossia nel momento della scelta delle imprese (e questo a prescindere da qualsiasi sistema più meno sofisticato sul tipo e sui criteri di assegnazione degli appalti), e sia nella fase di esecuzione degli appalti medesimi.

Quindi abbiamo un condizionamento a monte e un condizionamento a valle. Un condizionamento mafioso nella fase dell‘individuazione dei concorrenti che vinceranno le gare, ed un condizionamento in tutta la complessa attività che concreta la realizzazione degli appalti in questione. Ed abbiamo soprattutto, e questo nel futuro verrà fuori chiaramente, una indistinzione fra imprese meridionali e imprese in altre zone d’Italia, per quanto attiene il loro condizionamento e il loro inserimento in certe tematiche di schietta matrice mafiosa»; poiché, aggiungeva «è illusorio pensare che le imprese appartenenti ad altre realtà socio-economiche, nel momento in cui partecipano a gare che dovranno essere realizzate in determinate zone del Mezzogiorno d‘Italia, rimangano immuni da un certo tipo di collegamenti. Sia che lo vogliano, sia che non lo vogliano. Sono state acquisite, tramite intercettazioni telefoniche, chiarissime indicazioni di ben precise scelte operative dell‘organizzazione mafiosa, a cui tutti devono sottostare e non vogliono subire conseguenze gravissime, a meno che non si vogliano autoescludere dal mercato».

L’INTUIZIONE DI FALCONE

Nella relazione si addita ancora la vicenda dell’ex sindaco di Baucina Giaccone — le cui rivelazioni avrebbero impresso un impulso significativo al primo troncone dell’indagine mafia e appalti — come emblematica di un modus operandi incentrato su collusioni politico-mafiose affaristiche, se era vero quanto lo stesso Giaccone affermava, e cioè «che le opere vengono finanziate soltanto dopo che si è trovata l‘impresa che è gradita a questo o quel partito, e soltanto dopo che in sede locale il capo mafia abbia dato l’assenso».

E in alcuni passaggi della relazione, si adombra un aspetto particolarmente inquietante disvelato dalle ultime indagini su episodi di infiltrazione mafiosa che denotavano come le imprese si prestassero anche volontariamente ad un sistema di manipolazione delle gare sotto il controllo dell’organizzazione mafiosa, ricavandone cospicui vantaggi, di tal che «molto spesso non è necessaria un‘azione di rappresaglia, forte e violenta; questo avviene soltanto all’ultimo e nei confronti di coloro che veramente non vogliono capire», ma «Ci sono tali e tanti di quei passaggi intermedi, per cui qualsiasi impresa finisce per comprendere che, volente o nolente, è questo il sistema cui deve sottostare e non ci sono possibilità di uscirne fuori».

Starebbe proprio qui — e il giudice Falcone ne era ben consapevole, come può evincersi dai passaggi richiamati della nota relazione svolta al Castello Utvegio — il carattere addirittura eversivo che l’informativa del R.O.S su mafia e appalti depositata alla procura di Palermo il 20 febbraio 1991 avrebbe rivestito, secondo l’interpretazione autentica che ne ha dato il colonnello De Donno, che ne era stato estensore, deponendo al processo a carico del generale Mori e del colonnello Obinu: «le imprese che partecipavano a questo meccanismo noti erano, e qui era un po' il carattere, tra virgolette, eversivo della nostra indagine, non erano soltanto vittime, erano attori volontari di questo meccanismo, cioè l‘impresa che veniva dal nord non soggiaceva al potere intimidatorio di Cosa nostra o perlomeno, iniziava così, con questo vincolo di soggezione il rapporto con Cosa nostra, ma poi il vincolo si trasformava in una vera e propria collaborazione perché attraverso l‘intermediazione di Cosa nostra, di Siino e di altri personaggi, ne ottenevano poi una serie di vantaggi, in termini di riconoscimento di opere, cioè di aumenti di valore dell'opera stessa, per cui, alla fine, a conti fatti, una parte consistente di questi guadagni andavano all’impresa nazionale».

L’AUDIZIONE IN COMMISSIONE ANTIMAFIA

Del resto, già diversi mesi prima, e precisamente nel giugno 1990 — e la data è significativa perché coincide con quella di alcune delle informative che davano conto delle risultanze dell’attività di intercettazione telefonica in corso nell’ambito dell’indagine mafia e appalti e dei suoi possibili sviluppi – il giudice Falcone, sentito dalla commissione antimafia (XI Legislatura) presieduta dal senatore Chiaromonte, nell’additare il problema degli appalti pubblici come un punto cruciale nella strategia antimafia, sosteneva che le indagini — e le prove — che, una dopo l’altra, stavano venendo a compimento e a maturazione confermavano l’ipotesi di un sistema mafioso che, per quanto concerne i grandi appalti, e, nei piccoli centri, per tutti gli appalti, ne gestisce in pieno l’esecuzione.

E in particolare, proprio sulla base dei risultati cui erano approdate le indagini svolte da almeno un biennio dai carabinieri con encomiabile professionalità, si era consolidata l’ipotesi dell’esistenza di ima centrale unica di natura mafiosa che dirige e l’assegnazione degli appalti e soprattutto l’esecuzione degli appalti medesimi, con inevitabili coinvolgimenti delle amministrazioni locali sia a livello di strutture burocratiche sia a livello di alcuni amministratori.

Ebbene, l’interesse di Paolo Borsellino ad approfondire questo filone d’indagine — individuato, dopo l’indagine su Gladio, come uno di quelli cui in precedenza Giovanni Falcone, nel suo ultimo periodo di servizio alla procura di Palermo aveva prestato maggiore attenzione — è stato pienamente confermato dalle testimonianze di Liliana Ferraro e del senatore Di Pietro, oltre a trovare un inedito riscontro nei verbali delle audizioni dei magistrati della procura della repubblica di Palermo dinanzi al Csm che sono state acquisite nel presente giudizio d’appello (senza dimenticare la conferma che è venuta dalle dichiarazioni del Tenente Canale, con tutte le cautele del caso quanto ad affidabilità della fonte e limiti di utilizzabilità ditali dichiarazioni, giacché nel corso del giudizio di primo grado si è avvalso della facoltà di non rispondere).

La Ferraro, in particolare, fu testimone della raccomandazione rivolta da Falcone a Borsellino di seguire con attenzione gli sviluppi dell’indagine compendiata nel voluminoso dossier mafia e appalti (quasi un passaggio dei testimone tra lo stesso Falcone, che non poteva occuparsene direttamente perché ormai al ministero, e il dott. Borsellino, che invece si era deciso a chiedere il trasferimento alla procura di Palermo) avendo assistito personalmente alla telefonata, databile ad agosto 1991, con la quale Falcone informava l’amico Paolo che aveva già pronta la Nota — che sarebbe stata poi firmata dal ministro Martelli — di restituzione al mittente dell’informativa mafia e appalti, che era stata inopinatamente trasmessa dal procuratore Giammanco al ministro della Giustizia.

E anche in occasione dell’incontro riservato all’aeroporto di Fiumicino del 28 giugno 1992, previamente concordato per telefono avendo necessità di parlarle di una serie di questioni della massima urgenza e delicatezza, il dott. Borsellino le chiese ulteriori notizie e spiegazioni sulle circostanze di quell’insolita trasmissione, e sul percorso seguito prima di giungere al tavolo del ministro (o meglio, alla segreteria della Direzione Generale Affari Penali): segno comunque dell’interesse per quell’indagine e per il primo rapporto giudiziario che ne compendiava le risultanze emerse a carico di numerosi soggetti indiziati di associazione mafiosa finalizzata al controllo degli appalti e connessi reati. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

Gli annunci clamorosi e un dossier di “scarsa consistenza probatoria”. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 29 novembre 2022

il dott. Borsellino non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi. Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, quando era ancora procuratore a Marsala.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Tornando all’interesse di Paolo Borsellino per l’esigenza di riprendere e approfondire l’indagine mafia e appalti, ben si comprendono le sue perplessità a fronte dell’opzione di chiudere con una richiesta di archiviazione, a parte le posizioni degli imputati già rinviati a giudizio, le indagini del più importante procedimento istruito in quel momento storico dalla procura di Palermo nell’ambito di quello specifico filone investigativo.

Ora, non v’è dubbio che la richiesta di opportuni chiarimenti e persino quella di aggiornare la discussione e il confronto sulle determinazioni da adottare per il proc. nr. 2769/90 RN.R. — quando già la richiesta di archiviazione era alla firma del procuratore — risente delle suggestioni derivanti sia dal menzionato passaggio di consegne circa l’attenzione con cui seguire i successivi sviluppi di quell’indagine, giusta raccomandazione di Falcone; sia dalle doglianze che Borsellino aveva personalmente raccolto nei suoi contatti con i carabinieri del Ros E che questi ultimi, per un impegno investigativo che durava da circa tre anni (al biennio ricordato da Falcone dovevano aggiungersi gli ulteriori mesi d’indagine trascorsi fino al deposito dell’informativa del 16 febbraio 1991, nonché le attività pRoseguite su delega della procura ed ancora in corso a luglio ‘92), si aspettassero esiti giudiziari più cospicui di quelli conseguiti (come ribadito da De Donno al processo Mori/Obinu), il dott. Borsellino lo disse espressamente nell’assemblea plenaria tenutasi presso gli Uffici della procura della Repubblica di Palermo il 14 luglio 1992, come ben rammenta il dott. Patronaggio.

Lo ha confermato anche il dott. Lo Forte nel corso della sua audizione al Csm (v. verbale n.°45, pagg. 44-45) quando rammenta che all’atto e all’epoca del deposito dell’informativa dei Carabinieri su mafia e appalti «vi era una certa aspettativa basata su colloqui informali con gli ufficiali dei carabinieri che procedevano nelle indagini che forse era un po' superiore a quello che poi è apparso l'effettivo contenuto probatorio del rapporto».

SCARSA CONSISTENZA PROBATORIA DEL DOSSIER

Ma proprio sulla scarsa consistenza probatoria del dossier mafia e appalti convergono, sia pure con accenti diversi, le valutazioni di tutti i magistrati della procura di Palermo che all’epoca ne ebbero diretta cognizione, almeno per quanto può evincersi dalle testimonianze rese nel corso delle audizioni dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92.

Non mancò chi si lasciò andare ad apprezzamenti fortemente critici e quasi sprezzanti, parlando di minestra risciacquata (De Francisci). Altri, con maggiore garbo e misura hanno dichiarato in sostanza che l’informativa originaria in sé aveva una consistenza modesta sul piano probatorio, ma era certamente fonte di preziosi spunti investigativi, da sviluppare (Consiglio).

Su questa lunghezza d’onda si collocano anche le valutazioni che furono espresse dal dott. Lo Forte e dal dott. Pignatone.

Il primo rammenta che, sebbene il rapporto mafia e appalti avesse rivelato una consistenza probatoria inferiore alle attese (anche perché era costituito per il 90 per cento da intercettazioni telefoniche), tuttavia, «grazie alla combinazione di queste intercettazioni telefoniche con alcuni dati processuali, che noi abbiamo ricavato da altri processi che avevamo in corso, si è potuti arrivare ad una motivata richiesta di ordinanza di custodia cautelare che è stata accolta». Per i successivi sviluppi dell’indagine, e il loro esito giudiziario, la più efficace replica - e comunque l’unica che il dott. Lo Forte riteneva di poter opporre – alle polemiche di quei giorni era contenuta nella ponderosa richiesta di archiviazione datata 13 luglio ‘92, cui lo stesso Lo Forte si riportava.

Il dott. Pignatone (cfr. verbale n.° 44 del 30.07.1992) pone altresì l’accento sulla complessità delle questioni legate all’utilizzabilità processuale del materiale raccolto, in quanto costituito da una mole cospicua di intercettazioni telefoniche — ciò che già rendeva piuttosto complicato ricavarne un’efficace e coerente trama probatoria nell’ambito di un procedimento a carico di più di 50 soggetti e per una congerie di episodi avvenuti in varie zone del territorio siciliano — da cui emergevano sovente profili di rilevanza penale, ma per fatti riconducibili a ipotesi di reato (corruzione/concussione, abuso d’ufficio, turbativa d’asta o associazione a delinquere semplice) diverse da quella di associazione mafiosa per cui si procedeva a carico sia degli originari indagati (Siino Angelo e altri) che degli indagati le cui posizioni dovevano essere ancora vagliate nell’ambito dell’originario procedimento 2769/90 (ora denominato De Eccher+20).

E per quei titoli di reato non sarebbe stato possibile disporre intercettazioni, per cui occorreva verificare l’eventuale connessione di ogni singolo episodio con l’ipotesi di associazione mafiosa (anzi, questo non sarebbe bastato ancora, poiché le intercettazioni potevano essere disposte solo per i reati per cui era previsto l’arresto obbligatorio in fragranza e, per la disciplina allora vigente, non vi rientrava il reato di semplice partecipazione ad associazione mafiosa, ma occorreva individuare un ruolo apicale).

Ma il vero problema che si poneva all’ordine del giorno dell’assemblea plenaria del 14 luglio non era quello di credere o no alle potenzialità strategiche di un filone investigativo come quello inaugurato con l’indagine mafia e appalti che era stata svolta dai carabinieri del Ros, e che prometteva di risalire fino ai santuari del potere mafioso.

Più semplicemente, occorreva stabilire, con riferimento alle posizioni specifiche che residuavano nell’ambito dell’originario procedimento n. 2769/90 R.G.N.R., dopo la serie nutrita di stralci effettuati, se vi fossero elementi sufficienti e idonei a supportare richieste conclusive diverse dall’archiviazione; o, quanto meno, se vi fossero presupposti e materia per ulteriori approfondimenti istruttori.

Fermo restando che era con le posizioni ancora da definire, e con il materiale probatorio raccolto a carico di ciascun indagato che occorreva confrontarsi, e non già con la prospettiva teorica della proficuità di ulteriori indagini sul tema delle connessioni tra mafia e appalti. E senza dimenticare che un filone d’indagine, quella relativo agli appalti Sirap, era ancora in corso di svolgimento, e proprio a cura degli stessi carabinieri del Ros che dovevano ancora evadere la corposa delega d’indagine loro conferita nel luglio del ‘91: ciò che sarebbe poi avvenuto con la nuova informativa depositata il 5 settembre 1992.

BORSELLINO NON INFORMATO DELLE “NOVITÀ”

Ed allora è chiaro che, al netto delle suggestioni e dei convincimenti di cui s’è detto, il dott. Borsellino, nel merito di vicende e fatti di cui poteva avere avuto sommaria cognizione attraverso la lettura dell’informativa originaria quando ancora era procuratore a Marsala, non disponeva di informazioni più aggiornate ed elementi che lo mettessero in condizione di controbattere alle argomentazioni dei colleghi che invece si erano occupati specificamente di quell’indagine e ne avevano seguito gli ulteriori sviluppi.

Mentre le conoscenze del dott. Borsellino erano sostanzialmente datate e limitate alla lettura dell’informativa originaria, di cui aveva avuto cognizioni per ragioni del suo Ufficio poco più di un anno prima, quando era ancora procuratore a Marsala.

Lo si evince, del resto, dal fatto stesso che egli chiese — e ottenne, stando al ricordo del dott. Patronaggio — un rinvio o un aggiornamento della discussione sul tema, ovvero sulla decisione da prendere, per quanto di competenza dell’organo requirente, circa la sorte del procedimento pendente, e con riferimento alle posizione residue, motivato dall’auspicata eventualità che dalle rivelazioni di un nuovo pentito, che doveva ancora essere sentito in quei giorni, emergessero elementi tali da giustificare ulteriori approfondimenti investigativi.

Piuttosto, merita di essere segnalato un dato che deve essere sfuggito al gip di Caltanissetta che nella cit. ordinanza del 15 marzo 2000. Ivi, si ipotizza che ad indurre il dott. Borsellino a chiedere a Mori e De Donno un incontro riservato alla caserma Carini, per sondarne la disponibilità ad approfondire l‘indagine mafia e appalti (proprio nello stesso periodo in cui i titolari del procedimento stavano attendendo alla stesura della richiesta di archiviazione completata il 13 luglio 1992 e depositata il 22 luglio) sia stata una non condivisione delle scelte operate dal sito Ufficio.

Ma se così fu, «perché non rappresentare le sue riserve e perplessità nell’ambito del normale rapporto dialettico tra collegi, e considerata la sua qualità di procuratore Aggiunto, nel corso di quella discussione svoltasi all‘interno del suo ufficio tra l‘8 e il 10 luglio (...)? Perché non rappresentare in quella sede l’opportunità di un approfondimento delle indagini e preferire invece una personale iniziativa nei termini sopra riferiti che lasciavano trasparire una sorta di diffidenza nei confronti dell’operato dei suoi colleghi, proprio quando, successivamente alla strage di Capaci, erano insorti, all’interno di quella procura, contrasti e frizioni particolarmente gravi in ordine alla gestione dell’ufficio, e dei procedimenti più delicati da rendere necessaria quella riunione, alla quale si è fatto prima cenno, dagli intenti chiarificatori? » (cfr. pag. 200-201).

Ebbene, le audizioni dei magistrati della procura di Palermo dinanzi al Csm alla fine di luglio ‘92, hanno consentito di chiarire quale fosse il clima di quei giorni e le vere ragioni degli assenti contrasti e frizioni interne alla procura di Palermo.

La riunione convocata con intenti chiarificatori, in particolare, era stata indetta dal capo dell’ufficio per fugare i dubbi il disorientamento e il disagio che potevano avere colto la gran parte dei sostituti, del tutto ignari di contrasti e frizioni, a seguito delle polemiche di stampa seguite alla pubblicazione dei c.d. “diari di Falcone”, e dei sospetti rilanciati (sulla stampa) circa presunte colpevoli inerzie o peggio intenti di insabbiamento delle inchieste più delicate.

LA CONTROVERSA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE

Ma soprattutto, la posizione critica di Borsellino in ordine all’impostazione oltre che agli esiti dell’indagine mafia e appalti emerse con chiarezza nel corso di quell’assemblea (peraltro tenutasi il 14 luglio, e non il 10: ossia dopo che era stata completata e posta all’attenzione del procuratore Giammanco la controversa richiesta di archiviazione).

Egli non fece mistero di avere raccolto e fatto proprie le doglianze dei carabinieri sulla modestia dei risultati conseguiti, che invece, all’inizio dell’indagine, e per il materiale raccolto e allegato o trasfuso nella coi-posa informativa depositata il 20 febbraio 1991 promettevano di essere assai più cospicui.

Ed ancora, il dott. Borsellino non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla procura di Palermo (cfr. Patronaggio e Gozzo), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora Gozzo e Sabbatino).

Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede.

SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022

Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.

Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.

Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).

Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato. 

Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».

IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA

In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.

Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.

In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).

Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.

E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,

Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO

LE OMBRE INTORNO ALLA MORTE DI BORSELLINO. Quel dossier su mafia e appalti che torna sempre ma non dà nessuna risposta. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 agosto 2022

Quell’indagine, dopo le assoluzioni per la trattativa stato-mafia, è ridiventata “popolare”. Da più parti ritenuta fondamentale per decifrare i massacri dell'estate del 1992.

Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi ha voluto i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros dei carabinieri. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia, quanto all'infiltrazione dei capitali di Cosa Nostra nell'economia italiana.

La procura di Caltanissetta ha riesumato il dossier dopo tre decenni. Aperta ufficialmente un'inchiesta e interrogati i primi testimoni. 

Si fa un gran parlare del dossier “Mafia e appalti”, un’inchiesta che per qualcuno sarebbe la vera causa dell’uccisione di Paolo Borsellino. Ipotesi molto azzardata e, negli ultimi tempi, anche molto di moda. Ma ormai sulle stragi si può dire tutto e il contrario di tutto, tanto oltre la mafia non si scopre mai niente. Ci si muove al buio, a volte si abbocca al primo amo che viene calato. O, come nel caso del dossier “Mafia e appalti“, ricalato nel grande magma investigativo intorno alle bombe del 1992. È vecchio di trenta e passa anni, quasi mille pagine dove gli interessi dei boss si confondevano con quelli dei colossi italiani dell’edilizia, nomi sapientemente divulgati e nomi accuratamente occultati. «Un rapporto indiziario intorno al quale si può cominciare a lavorare», confidò a noi giornalisti il giudice Giovanni Falcone che lo considerava «un buon punto di partenza». Di partenza, non di arrivo.

UN DOCUMENTO CONTROVERSO

Documento controverso, al centro di polemiche, di scontri feroci fra magistrati palermitani e apparati sfociati in indagini finite nel nulla. Tutti senza un torto e senza una ragione, vicenda sopita in una camera di decompressione giudiziaria di altro distretto.

Per i pubblici ministeri della procura di Palermo non c’erano elementi sufficienti per procedere penalmente contro alcuni personaggi dell’imprenditoria nazionale, per i carabinieri dei reparti speciali, il Ros – che quell’inchiesta l’avevano condotta – il rapporto è stato scientificamente insabbiato per salvare un sistema di corruzione che altrimenti avrebbe anticipato la stagione giudiziaria milanese di Tangentopoli.

Di sicuro il dossier “Mafia e appalti” non è mai morto. Torna, torna sempre. È come un fantasma che riappare, quando sfumano o si aggrovigliano altre piste alla ricerca di un movente sulla strage di via D’Amelio. È un feticcio agitato permanentemente dal Ros dell’allora colonnello Mario Mori, poi diventato direttore dei servizi segreti interni nel secondo governo Berlusconi, lo stesso ufficiale assolto nel processo sulla trattativa stato-mafia e regista della mancata perquisizione della villa di Totò Riina dopo la sua misteriosa cattura. Ora, questo dossier, è ridiventato “popolare”, da più parti ritenuto fondamentale per decifrare i massacri dell'estate del 1992.

Come lo era stata la famigerata trattativa fino al verdetto della corte di appello di Palermo che ha restituito l'innocenza a Mori & compagni, che pur avevano barattato qualcosa con la controparte per evitare altri spargimenti di sangue. Il dossier “Mafia e appalti” rilanciato come fattore che ha “accelerato” la decisione di far saltare in aria il procuratore, appena cinquantasei giorni dal cratere di Capaci.

MOVENTE DELLA STRAGE

Ne è convinta Fiammetta Borsellino, una delle figlie del magistrato, insieme a Fabio Trizzino, il legale che ha rappresentato la famiglia nei processi sul grande depistaggio. Ne sono rimasti in qualche modo condizionati i giudici di Palermo che hanno assolto Mori, quando nelle loro motivazioni si spingono un po’ avventurosamente – perché la genesi di quel dossier non è mai stato oggetto del processo – a scrivere che «si ritiene che quell’input dato da Riina al suo interlocutore affinché si uccidesse il dottor Borsellino con urgenza nel giro di pochi giorni, mettendo da parte altri progetti omicidiari già in più avanzata fase di esecuzione, possa avere trovato origine nell’interessamento del medesimo dottore Borsellino al rapporto mafia e appalti».

Alla fine sono stati costretti a rioccuparsene anche i procuratori di Caltanissetta, quelli che indagano sulle stragi, che un paio di settimane fa hanno deciso di riesumarlo dopo tre decenni. Hanno ufficialmente aperto un’inchiesta e interrogato i primi testimoni. Tutto top secret o quasi.

Trattativa e mafia e appalti, sono stati a lungo i totem delle fazioni avverse dell’antimafia per “spiegare” le stragi. Schiere di fan di qua e di là, la maggior parte dei quali che non ha mai letto una sola pagina di una o dell'altra inchiesta, solo raffiche di like sui profili Facebook e qualche sproloquio.

Ridimensionata (o, se vogliamo, anche definitivamente cancellata) la vicenda della trattativa il campo investigativo adesso è occupato da “mafia e appalti”. E proprio come possibile movente dell'autobomba del 19 luglio. Movente – almeno questa è la mia opinione – riduttivo e anche fuorviante.

LA PISTA DEI SOLDI

Se la pista dei soldi, più di altre, è quella da seguire per capire chi voleva i massacri del 1992 non ci si può certo fermare al dossier del Ros. Innanzitutto perché Falcone e Borsellino non erano tanto concentrati sulla spartizione dei lavori pubblici in Sicilia (con il patto fra le cosche e le grandi aziende del Nord, comprese le coop rosse emiliano romagnole), quanto all'infiltrazione dei capitali di Cosa nostra nell’economia italiana.

Il dossier “Mafia e appalti” era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d'industria italiani.

Ci sono sentenze passate in giudicato che, al di là delle confessioni di pentiti come Angelo Siino, Leonardo Messina e Giovanni Brusca, certificano l'accordo fra i Corleonesi e il gruppo Ferruzzi rappresentato dal “Contadino”. Quel Raul Gardini che, la mattina del 23 luglio 1993, si sparò un colpo di Walther Ppk alla testa nella sua casa milanese di piazza Belgioioso alla vigilia di un suo possibile arresto per la maxi tangente Enimont. Dopo quasi trent'anni resta sempre il dubbio: un suicidio per l'inchiesta di Milano o per le spericolate relazioni di Palermo?

IL SUICIDIO DI RAUL GARDINI

È questo il quadro che avevano presente Falcone e Borsellino nei mesi a cavallo fra il 1991 e il 1992, quando uno era stato appena nominato direttore degli Affari Penali al ministero della Giustizia e l'altro procuratore aggiunto a Palermo. E non gli appalti e i sub appalti delle dighe e delle strade, dei viadotti e delle opere “chiavi in mano” che mafiosi e ditte del nord si dividevano in Sicilia.

Quel rapporto si fermava lì. Nessuno è mai andato avanti alla ricerca di un possibile legame fra le intuizioni di Falcone e Borsellino e il suicidio di Gardini, nessuno ha mai più approfondito dove portavano – e proprio su quel fronte – gli investimenti di Cosa nostra.

Il rapporto “Mafia e appalti” bisognerebbe valutarlo per quello che realmente è e non per come è stato propagandato, in qualche modo spacciato all'opinione pubblica.

Per di più, assai contorta è la sua storia fin dalla nascita. Consegnato “a puntate“ in procura a Palermo, prima nomi fatti circolare sulla stampa, prove presentate solo per imprenditori locali di modesto spessore, poi ancora il rapporto trasmesso ad altra procura (Catania) per trovare migliore accoglienza.

Un gioco degli specchi che ha acceso un corto circuito istituzionale, scatenato una faida fra i magistrati palermitani e i carabinieri di Mario Mori. Due le “versioni” del dossier: una mediatica e l'altra ufficiale, la prima con la presenza di tanti uomini politici e la seconda priva di quell'elenco.

Un’intercettazione che riguardava Salvo Lima, il potente console siciliano di Giulio Andreotti, è stata nascosta ai magistrati e ricomparsa miracolosamente solo molti mesi dopo l'omicidio dello stesso Lima avvenuta nel marzo del 1992. Non è tutto oro quello che luccica fra le pieghe del dossier.

I RICORDI DEI MAGISTRATI DI PALERMO

Negli anni a seguire il Consiglio Superiore della Magistratura ha raccolto testimonianze di una mezza dozzina di procuratori palermitani, ricordi a volte vaghi, discordanti anche su una riunione tenuta in procura – il 14 luglio del 1992, cinque giorni prima della strage di via D’Amelio – dove Paolo Borsellino non fu informato dai suoi colleghi della richiesta di archiviazione per alcuni indiziati di quel rapporto.

In sostanza qualcuno gli aveva nascosto “sviluppi” sull'inchiesta, Borsellino (che giustamente non si fidava del suo procuratore capo Pietro Giammanco) se ne lamentò. Ma tutto questo è davvero sufficiente per legarlo all'attentato del 19 luglio o è, piuttosto, una diversione che è anche servita – legittimamente – agli imputati della trattativa stato-mafia per difendersi in aula?

A Caltanissetta hanno ripescato tutto. I carabinieri del Ros, ormai non più “traditori“ in quanto assolti nel processo d’appello, andranno a riproporre le loro argomentazioni. Sempre le stesse dal 1991. Vedremo cosa faranno i magistrati delle stragi. Quelli che hanno già avuto fra i piedi il falso pentito Vincenzo Scarantino, quelli che sono stati costretti a indagare per mesi e mesi su quel pagliaccio di testimone che era Massimo Ciancimino. Dopo trent’anni, speriamo che non si perda altro tempo. ATTILIO BOLZONI

Il dossier mafia-appalti va di moda? Magari fosse così…La replica | Il quotidiano Il Domani minimizza “Mafia e appalti”, che rivelò persino il “link” Riina-Gardini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 18 agosto 2022.

Su Il Domani, Attilio Bolzoni, firma tra le più autorevoli nel campo della giustizia, spiega ai propri lettori che ora va di moda collegare la questione del dossier “Mafia appalti” alle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Sfugge, a dire il vero, che sia diventato davvero di moda, visto che la maggior parte dei grandi giornali, e le inchieste tv in prima serata, non hanno mai neppure citato il dossier, e continuano a sposare le tesi più disparate, tanto da rispolverare improbabili pentiti.

Di fatto, Bolzoni minimizza il dossier “Mafia appalti” e sposa la solita teoria della doppia informativa. Ed è quest’ultima, in realtà, che va di moda, ogni volta ad esempio che l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, – in completa solitudine – indica di guardare al dossier. Si cita questa teoria (ovvero che i Ros avrebbero nascosto i nomi dei politici) totalmente sfatata dall’ordinanza del Tribunale di Caltanissetta a firma della compianta Gilda Loforti.

Da un passaggio dell’articolo si ha però l’impressione che Bolzoni potrebbe non conoscere a fondo il contenuto esplosivo del dossier dei Ros redatto sotto la supervisione di Giovanni Falcone. Ecco cosa scrive: «Il dossier Mafia e appalti era solo uno dei passaggi, i due giudici guardavano oltre: avevano capito che Totò Riina – attraverso i fratelli Buscemi della famiglia mafiosa palermitana di Boccadifalco – era socio nella Calcestruzzi spa con Raul Gardini, uno dei più famosi capitani d’industria italiani».

Ma Falcone e Borsellino indubbiamente guardavano in quella direzione, perché questo connubio tra Riina e il grande colosso guidato da Gardini è stato citato per la prima volta proprio dal dossier stesso. Altro che informativa inutile e poco incisiva. Ma è solo una delle tante, consuete sottovalutazioni di quel dossier.

La procura di Palermo. Il giudice chiude un occhio sul suo avvocato? Roberto Greco su Il Riformista il 14 Agosto 2022 

“La fiducia è una cosa seria e si dà alle cose serie”. Queste parole arrivano dalla pubblicità, per la precisione da un Carosello del lontano 1973, di un’azienda produttrice di latte e suoi derivati. Questa frase, non la fiducia, andrebbe prescritta come sistema di prevenzione o vaccino e distribuita generosamente a tutti, con una posologia particolare: da leggere, memorizzare e applicare ogniqualvolta la si dimentica. La fiducia, invece, non c’è dubbio che sia una cosa seria e che non tutti la meritino.

Ovviamente in qualsiasi ambiente di lavoro i rapporti tra colleghi sono soggetti a dinamiche, a volte, molto esasperate o, per contro, si basano su consolidati rapporti di stima e fiducia. Il primo che non divide i suoi colleghi di lavoro nel terrificante elenco “buoni-cattivi” alzi la mano. È quindi normale che anche all’interno di una Procura, ma anche di un’azienda commerciale o manifatturiera, si instaurino rapporti di fiducia, competizioni, invidie, passioni, atteggiamenti camerateschi e, forse, sudditanze. Tutto ciò, però, non deve e non può influire sul lavoro dei singoli e, soprattutto, condizionarlo.

Mi è capitato di leggere, nei giorni scorsi, alcuni commenti relativi alla sentenza del processo “Bagarella e altri”, il c.d. “processo trattativa”. Diverse persone lamentano che una sorta di guanto di velluto abbia vestito le mani del dottor Angelo Pellino (il magistrato che ha presieduto la Corte nel processo), tutte le volte che, in sentenza, tratta dell’operato dei magistrati. Qualcun altro, invece, sostiene che abbia sposato le tesi dei suoi colleghi, titolari dell’indagine “mafia-appalti” cui fu assegnata, che la definirono in diverse occasioni “robetta”, “cosa da quattro colletti bianchi siciliani” o ancora una “minestra risciacquata”.

Altri ancora, invece, sostengono che non abbia ben sviscerato le problematiche relative al “nido di vipere”. Durante il procedimento di primo grado del processo “Bagarella e altri”, Massimo Russo, che negli anni novanta era un giovane magistrato, dichiarò che, un mese prima di morire, Paolo Borsellino «appariva come trasfigurato, senza più sorrisi. Era provato, appesantito, piegato». Da poche settimane la mafia aveva ucciso il suo amico Giovanni Falcone e lui continuava a lavorare nel suo ufficio di procuratore aggiunto a Palermo, che però considerava – riporta sempre Russo – «un nido di vipere».

Questa dichiarazione si lega a quella di Alessandra Camassa alla quale Borsellino confidò di essere stato “tradito” da un amico: «Paolo si distese sul divano che c’era nella stanza e cominciò a lacrimare in modo evidente dicendo “Non posso credere che un amico mi abbia potuto tradire”». Chi fosse quell’amico i due giovani magistrati non lo chiesero. Peraltro non è possibile dimenticare i sospetti che lo stesso Paolo Borsellino il giorno prima dell’attentato aveva confidato alla moglie Agnese, quando le disse «che non sarebbe stata la mafia ad ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi ed altri a permettere che ciò accadesse».

E di tutto ciò, in realtà, non si legge nella sentenza ma si legge invece: «il dott. BORSELLINO non mancò di esprimere perplessità sull’impostazione generale e sull’indirizzo impresso dalla Procura di Palermo (cfr. PATRONAGGIO e GOZZO), e platealmente formulò l’auspicio che dalle rivelazioni di un nuovo pentito potessero venire elementi utili per ulteriori e più fecondi sviluppi (cfr. ancora GOZZO e SABBATINO). Insomma, tenne un atteggiamento che non tradiva affatto sfiducia e diffidenza nei confronti dell’operato dei colleghi titolari del procedimento, ma, al contrario denotava la volontà di aprire un confronto sincero sul tema in discussione, come aperte e trasparenti furono le critiche e le perplessità e le richieste di chiarimenti esternate in quella sede».

Inoltre, per tornare alla fiducia, dalla lettura delle audizioni effettuate dal Csm nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992 ai magistrati allora applicati alla procura di Palermo che in parte la stessa sentenza cita, appare in effetti un non edificante panorama della Procura palermitana sia in termini di rapporti interpersonali sia di secreti. Ma, come dicevamo poc’anzi, all’interno di qualsiasi ambiente di lavoro queste cose succedono e, proprio per questo, le persone su cui si ripone fiducia ci accompagnano nel nostro lungo cammino e, alla fine, si consolidano rapporti di amicizia. C’è da dire che, al di là delle critiche che gli vengono rivolte, il dottor Angelo Pellino è un magistrato di grande esperienza. Non possiamo dimenticare la sua sentenza di primo grado relativa al processo per l’omicidio di Mauro Rostagno, le cui motivazioni contavano oltre 3000 pagine, e a ciò si aggiunge la profonda conoscenza della Procura di Palermo e dei magistrati che ci hanno lavorato.

E qui torna in ballo la fiducia che si accompagna alla stima. Che sia chiaro: chi siamo noi per capire realmente il rapporto che c’era all’interno di quella Procura, i rapporti di fiducia, l’affiatamento e l’intesa che, negli anni, si sono creati tra colleghi in un ambiente di lavoro che non è il nostro? A dimostrazione che la fiducia è una cosa seria e che la si da alle persone serie, quando, il 22 settembre 2000, il dottor Angelo Pellino fu oggetto del procedi-mento disciplinare N. 44/2000 del Consiglio Superiore della Magistratura – che riguardava oltre a lui anche i dottori Ajello, Cavarretta, Provenzano, Scaduto, Serio e Tardìo – non ebbe dubbio alcuno nel nominare come difensore un suo pari del quale si fidava, tant’è che la scelta si indirizzò nei confronti del dottor Guido Lo Forte.

Si trattò di una banalità, di un fascicolo che non era al suo posto, banalità che però creò alcuni problemi nella decorrenza dei termini cautelari mettendo un Gip in difficoltà. Nulla di grave, ripetiamo, perché durante il dibattimento emerse che il dottor Pellino non aveva un assistente fisso e che, spesso, era costretto a chiederlo in prestito a qualche collega sia per gli interrogatori sia per le udienze, vista l’eccessiva mole del carico di lavoro che gli era affidato: quindi, un fascicolo fuori posto, rappresentava un’inezia che non lede minimamente né la sua persona tantomeno le sue qualità professionali.

Ma, al netto di quanto scritto fino a questo punto, una domanda sorge spontanea. Ma il giudizio sull’operato dei magistrati, ancorché positivo, può essere competenza del giudice naturale di un procedimento anche quando, per competenza, questo deve essere demandato a altra Procura? Nel caso specifico, si sarebbe dovuto trattare della Procura di Caltanissetta che, a trent’anni anni esatti all’archiviazione del dossier “Mafia-appalti” a Palermo, su cui aveva indagato il giudice Giovanni Falcone e su cui stava indagando il giudice Paolo Borsellino subito prima della sua morte, ha riaperto, per competenza, l’inchiesta. Si tratta di quel dossier che il dottor Giovanni Falcone chiese al Ros per concretizzare la sua linea investigativa denominata “follow the money” e determinare gli scellerati, questi sì, intrecci che sin dalla fine degli anni ’60 erano in essere tra mafie e imprenditoria, quindi capitale.

Il dossier fu presentato il 20 febbraio 1991 quando i Carabinieri del ROS depositarono presso la Procura della Repubblica di Palermo l’informativa denominata “mafia-appalti” e il 13 luglio 1992, sei giorni prima della strage di via d’Amelio, fu presentata, nonostante il forte e acclarato interesse di Paolo Borsellino per lo sviluppo delle indagini, dai sostituti procuratori della Repubblica Guido Lo Forte (che è quello che difese Pellino davanti al Csm ) e Roberto Scarpinato, titolari del fascicolo, con il visto dell’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco, un’argomentata richiesta di archiviazione, richiesta di archiviazione che verrà depositata il 22 luglio 1992 e accolta dal Gip il 14 agosto, ( poi si parla di lentezza della giustizia…!).

L’importanza del dossier “mafia-appalti” è tale che ben due sentenze di appello lo indicano come una delle cause della morte di Paolo Borsellino, quella del “Borsellino quater” e quella emessa dal giudice Pellino “Bagarella e altri” di cui abbiamo parlato in precedenza. È evidente che, come dicevamo in premessa, «la fiducia è una cosa seria e si da alle cose serie». Roberto Greco

Le assoluzioni di Mafiopoli (più di quelle di Tangentopoli) hanno fatto giustizia dei teoremi delle procure. In questi anni le indagini giudiziarie hanno condizionato la vita politica e ispirato alcuni movimenti. I programmi elettorali per le prossime elezioni potrebbero essere l’occasione per cambiare registro. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 04 agosto 2022.

Giovanni Brusca, noto al grande pubblico per i tanti processi di mafia è stato sottoposto a misure di prevenzione dal tribunale di Palermo, e la notizia è apparsa su pochi organi di stampa perché probabilmente ritenuta di nessun rilievo. Invece il fatto è assolutamente rilevante e indicativo perché Brusca, che come “pentito“ ha recitato tutte le parti a beneficio di diversi magistrati, e quindi ha ottenuto benefici premiali è stato considerato “pericoloso“ e sarà sorvegliato speciale con obbligo di firma e con le relative misure. Brusca aveva “meritato“ la scarcerazione nel maggio 2021 per i tanti “punti” messi insieme nella lunga carcerazione, ma evidentemente a una successiva e tardiva valutazione è stato considerato appunto “pericoloso”. Il magistrato Grasso anche se ex presidente del Senato dovrebbe essere contento e d’accordo con i suoi colleghi?!

A nostro giudizio la notizia è importante perché ci riporta alle tante vicende contrastate e contraddittorie che hanno caratterizzato le indicazioni giudiziarie palermitane che sono state utilizzate e strumentalizzate per individuare presunti responsabili politici o per scagionare altri magari effettivamente responsabili. Insomma il “pentito Brusca” è servito per scrivere una storia di questi anni che non corrisponde alla verità.

Mi sono proposto di far luce sui tanti episodi giudiziari che riguardano Tangentopoli e Mafiopoli che hanno appunto disegnato una storia non vera di questi anni. È per questo che svolgo alcune considerazioni.

Abbiamo ripetuto varie volte che i magistrati con le loro “indagini” più ancora che con le sentenze, come vedremo, hanno preteso di scrivere la storia dell’Italia attribuendo alla politica e ai partiti la responsabilità della dilagante corruzione e agli stessi e alle istituzioni una collusione con la mafia e la camorra.

Tante sentenze di giudici coraggiosi e indipendenti hanno contraddetto questo risultato delle indagini a volte con un giudizio severo e negativo che ha provocato querele da parte del pubblico ministero interessato sempre soccombente. Il procuratore della Repubblica di Milano dell’epoca Saverio Borrelli, il “capo” di Tangentopoli, riteneva che «era farisaico fingere che per prendere atto della realtà emersa bisognava attendere le sentenze». «Bastavano le indagini», egli aggiungeva «che erano rivolte più che ai singoli indagati al sistema per cui si chiedeva la dissociazione del sistema corruttivo che costituiva la regola generale».

I processi e le sentenze hanno fatto giustizia di questo teorema e hanno distinto l’illecito finanziamento dalla corruzione, confusione che ha consentito di ritenere la classe politica corrotta. Questo per quanto riguarda i processi di Tangentopoli; le indagini di Mafiopoli, che hanno ipotizzato gravi responsabilità di politici di primo livello, sono state sonoramente sconfessate dalle sentenze, da Giulio Andreotti a Calogero Mannino e a tanti altri, e più recentemente la sentenza della Corte D’Appello di Palermo ha stabilito che i rappresentanti dello Stato e i politici non hanno fatto la “trattativa” con i mafiosi, non hanno attentato ai poteri dello Stato e non sono venuti a patti con la mafia.

Queste decisioni, dunque lo ripeto, cancellano la pretesa dei magistrati inquirenti di voler accreditare una storia non vera dell’Italia finalizzata a screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato. L’equivoco di questa ultimi anni è stato il magistrato come protagonista assoluto della verità e garante della questione morale che ha fatto prevalere una giustizia etica, quella che pretende di far vincere il bene sul male?!.

Natalino Irti, con la sua sapienza storica e giuridica, ha detto che al magistrato e al giudice “non si chiede di ricostruire un tratto di storia generale politica ma di accreditare i fatti e quei fatti che esigono l’applicazione della legge”. Tanti si interrogano sul significato di Tangentopoli nella ricorrenza dei trent’anni sulle connivenze della politica e degli apparati dello Stato con la mafia che le indagini giudiziarie sulla trattativa ha alimentato per oltre venti anni, ma tanti notisti e alcuni organi di informazione in particolare continuano a distorcere la verità con faziosità inaccettabile.

Le sentenze di assoluzione di Mafiopoli ancora più di quelle di Tangentopoli hanno fatto giustizia dei teoremi distorti che hanno alimentato negli anni, tutti sconfessati sia pure con una giustizia tardiva. In particolare quelli per Calogero Mannino sono stati più volte e duramente sconfessati, Mannino che era il vero nemico della mafia e che con la sua azione legislativa nel Parlamento ha contribuito a proporre leggi che, quando applicate bene, hanno colpito seriamente la mafia. Questo è un esempio lampante della grave falsificazione della storia: la tragica vicenda del ministro Mannino.

Ecco perché la vicenda di Brusca insieme ai tanti pentiti che come diceva Falcone, con le loro dichiarazioni erano a beneficio di questo o di quel magistrato, debbono essere chiarite per far luce vera su quegli anni e per restituire alla storia non a quella delle indagini giudiziarie ma a quella vera, il compito della verità.

Ricostruire le vicende vere per raccontare la storia così come descrivere i costumi i costumi di una società, in particolare di quella italiana, è un’opera difficile e ambiziosa in questo periodo perché il populismo che le indagini giudiziarie hanno alimentato ispirando addirittura alcuni movimenti politici, è fortemente radicato nella società e negli individui.

Soltanto una presa di posizione generale e corale di tutta la classe dirigente per servire la causa, può essere valida; e quindi la campagna elettorale ormai in corso per le elezioni politiche deve essere l’occasione per qualificare i programmi delle liste che si presenteranno al corpo elettorale e le coalizione che si determineranno per ricostruire la storia della nostra Repubblica fuori da rancori da pregiudizi falsamente ideologici.

Il problema della giustizia, del ruolo che il giudiziario deve avere per l’assetto democratico in una Repubblica parlamentare è il problema fondamentale dell’Italia insieme alla sua collocazione europea e internazionale dell’Italia in presenza della spietata guerra in Ucraina e con una economia italiana ed europea che in questo contesto deve segnare la nostra qualità della vita e il nostro futuro.

Insomma i gruppi parlamentari che hanno votato il governo Draghi garante della stabilità e della sicurezza del paese e dell’equilibrio europeo debbono impegnarsi su questi problemi per far emergere la verità su tutte le questioni che abbiamo indicato se vogliono essere davvero alternativi.

Qualche settimana fa Walter Verini, dirigente importante del Pd, su questo giornale ha dichiarato che «il movimento CinqueStelle è il partito che ha riformato con il Pd la giustizia“, dimenticando che quel movimento e quei parlamentari hanno distrutto l’ordinamento giudiziario e il codice penale all’insegna di una pretesa onestà sollecitando una riscossa rancorosa della società per una moralità che ora abbiamo ben conosciuto.

La riforma penale proposta dal ministro Bonafede è una pagina oscura del Parlamento italiano che il Pd non ha ostacolato. Ricordo a Verini che è stato necessario il nuovo intervento del governo Draghi e l’ostinazione illuminata del ministro Cartabia per modificare un po’ le cose e creare i presupposti per una riforma radicale della giustizia.

Gli elettori del referendum con il loro voto, ancorché non valido per il risultato, hanno dato una indicazione di marcia per una reale inversione di tendenza riconoscendo il problema giustizia come fondamentale per la democrazia. Il movimento 5Stelle sembra abbandonato ai suoi equivoci e la coalizione repubblicana alternativa deve prospettare agli elettori le riforme appena indicate che servono a qualificare “i movimenti” e liste che vogliono privilegiare una loro identità culturale.

La procura di Caltanissetta e il depistaggio. Inchiesta mafia-appalti riaperta, ora si indaga davvero sul perché fu ucciso Borsellino. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Agosto 2022. 

La procura di Caltanissetta ha aperto una inchiesta sul famoso dossier Mafia-Appalti, e cioè su un voluminoso e vecchio documento preparato dai Ros dei carabinieri che descriveva i rapporti tra la mafia corleonese e gli imprenditori del Nord. Lo ha deciso il procuratore De Luca, con un atto coraggioso che rompe una lunghissima assenza della magistratura siciliana. Perché? Perché questo dossier non è vecchio: è vecchissimo. Risale al 1992 e se nel ‘92 fosse stato messo a frutto, e se all’epoca la magistratura di Palermo che lo aveva in mano avesse aperto delle indagini, probabilmente la mafia, e soprattutto quel pezzo di economia nera del Nord che alla mafia era collegata, avrebbero subito un colpo devastante.

Non a caso era stato Falcone a dare l’incarico ai Ros di indagare. E aveva seguito il loro lavoro, che aveva portato a scoperte clamorose. E non a caso, dopo la morte di Falcone era stato Paolo Borsellino a chiedere ripetutamente che quel dossier gli fosse assegnato. In realtà gli fu assegnato, dal procuratore di Palermo Giammanco, con una telefonata che Borsellino ricevette alle sette di mattina del 19 luglio 1992 al telefono di casa. Probabilmente era contento. Però non ebbe il tempo di commentare la notizia perché nel primo pomeriggio fu ucciso assieme alla sua scorta. I sostituti procuratori che avevano il dossier in mano, in realtà, ne avevano chiesto l’archiviazione prima ancora di quel giorno. E la ottennero – l’archiviazione – pochi giorni dopo la strage di via D’Amelio. Da quel momento il dossier scomparve e scomparve tutto il lavoro dei Ros guidati dal colonnello Mori e dal capitano Di Donno.

Le indagini sull’uccisione di Borsellino non seguirono mai la pista del dossier. Ci fu molto folclore, in quelle indagini, ma poca sostanza. Anzi, furono davvero dilettantesche e sciagurate. Finirono su una falsa pista, aperta da un falso pentito, un certo Vincenzo Scarantino, probabilmente guidato da uomini dello Stato. Il depistaggio servì a tenere per anni la magistratura lontana dalla traccia giusta. E poi, con grande sostegno mediatico – Santoro, La 7, Il Fatto Quotidiano e molti altri – arrivò la grande indagine sulle trattative Stato Mafia che – seppure in modo oggettivo ed evidentemente non volontario- furono un nuovo depistaggio. Si disse e si gridò ai quattro venti che Borsellino era stato ucciso perché aveva avuto sentore della trattativa. E ci vollero più di dieci anni per capire, con una sentenza devastante della Corte d’Appello di Palermo, che era una bufala, e che si era perso altro tempo. E per di più erano stati imputati proprio i Ros di Mori, cioè gli unici che la mafia l’avevano combattuto davvero.

Perché tanto interesse per l’ipotesi della trattativa? Perché tra gli imputati c’era Marcello dell’Utri, e quindi la possibilità di coinvolgere Berlusconi, il quale ha tanti difetti e tante colpe ma, ad occhio e croce, tra tutti i leader della prima e della seconda Repubblica è l’unico che la mafia non l’ha mai conosciuta.

Ora sarà difficile, ripartendo da quel dossier, ricostruire i rapporti tra corleonesi e Nord Italia. Quasi tutti i protagonisti di quegli affari non ci sono più, o sono molto vecchi, o sono all’ergastolo. L’ex Pm Di Pietro sostiene che le sue inchieste del ‘92 puntavano proprio alla Sicilia e a mafia-appalti e che l’archiviazione del dossier fu un colpo mortale.

Naturalmente c’è da chiedersi: perché fu archiviato quel dossier, su richiesta dei Pm Scarpinato e Lo Forte? Io questa domanda l’ho sollevata diverse volte, insieme a pochi altri giornalisti. Ma mi è costato caro farlo. Ogni volta mi sono beccato una querela, e ora sono sotto processo – insieme al mio collega e amico Damiano Aliprandi – e tutti sanno che vincere un processo con un magistrato è cosa difficilissima. Adesso a fare la domanda è il procuratore di Caltanissetta. Finirà sotto processo anche lui per “lesa maestà della procura di Palermo”? Beh, se Scarpinato è un ex magistrato coerente dovrebbe effettivamente querelarlo… 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Dietro via D’Amelio il dossier mafia-appalti», riaperta l’inchiesta. La procura di Caltanissetta indaga sull’interessamento di Borsellino al dossier mafia-appalti come causa della sua eliminazione. Sentiti già dei testi, tra cui l’ex Ros De Donno Dal 2018 “ Il Dubbio” ha condotto una inchiesta giornalistica sulla vicenda. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 29 luglio 2022.

Da qualche settimana la procura di Caltanissetta guidata dal Procuratore capo Salvatore De Luca ha riaperto l’inchiesta sul filone “mafia appalti” come causa scatenante che portò all’accelerazione della strage di Via D’Amelio dove perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta. A rivelarlo è l’agenzia Adnkronos a firma di Elvira Terranova. Le bocche in procura sono cucite, l’indagine è top secret, ma come apprende l’Adnkronos, il pool stragi da qualche settimana sta scandagliando le vicende legate al procedimento del dossier mafia-appalti redatti dai Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno sotto il coordinamento di Giovanni Falcone.

Tutte le sentenze hanno accertato l’interessamento di Falcone e Borsellino a mafia-appalti

I magistrati che coordinano l’inchiesta, tra cui la pm Claudia Pasciuti, guidati dal Procuratore capo Salvatore De Luca, di recente – come rivela l’Adnkronos – hanno anche fatto i primi interrogatori. Compresi quelli top secret. Tra le persone sentite, spicca in particolare il nome del colonnello Giuseppe De Donno. Cioè, colui che allora giovane capitano, condusse l’inchiesta su mafia-appalti con il suo diretto superiore al Ros, l’allora colonnello Mario Mori. Che l’interessamento dei giudici Falcone e Borsellino riguardante il dossier mafia-appalti sia stata una concausa delle stragi, questo è accertato da tutte le sentenze. Quest’ultime hanno individuato un movente ben preciso. Sono diversi i passaggi cristallizzati nelle motivazioni. C’è quello di Giovanni Brusca che, nelle udienze degli anni passati, disse che, in seno a Cosa nostra, sussisteva la preoccupazione che Falcone, divenendo Procuratore Nazionale Antimafia, potesse imprimere un impulso alle investigazioni nel settore inerente la gestione illecita degli appalti.

Falcone aveva compreso la rilevanza strategica del settore appalti

C’è quello del pentito Angelo Siino, che sosteneva che le cause della sua eliminazione andavano cercate nelle indagini promosse dal magistrato nel settore della gestione illecita degli appalti, verso cui aveva mostrato un “crescendo di interessi”. Difatti – si legge nelle sentenze – in Cosa nostra, e, in particolare, da parte di Pino Lipari e Antonino Buscemi, era cresciuta la consapevolezza che Falcone avesse compreso la rilevanza strategica del settore appalti e che intendesse approfondirne gli aspetti: «questo sa tutte cose, questo ci vuole consumare» (pag. 74, ud. del 17 novembre 1999).Ed è proprio quell’Antonino Buscemi, il colletto bianco mafioso, che era entrato in società con la calcestruzzi della Ferruzzi Gardini a lanciare l’allarme anche per quanto riguarda le esternazioni di Falcone durante un convegno pubblico proprio su criminalità e appalti. Un convegno, marzo 1991, dove evocò chiaramente l’inchiesta mafia-appalti che era ancora in corso. Il dossier fu depositato in procura su volere di Falcone stesso il 20 febbraio 1991. Peraltro, anche Giuseppe Madonia aveva manifestato il convincimento che Falcone aveva compreso i legami tra mafia, politica e settori imprenditoriali. Siino, con riferimento all’eliminazione di Borsellino, ha inoltre aggiunto che Salvatore Montalto, durante la comune detenzione nel carcere di Termini Imerese, facendo riferimento agli appalti, gli aveva detto: «ma a chistu cu cìu purtava a parlare di determinate cose».

Borsellino aveva detto a varie persone che quella degli appalti era una pista da seguire

Borsellino, infatti, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci, aveva esternato a diverse persone, oltre all’intervista del giornalista Luca Rossi, che una pista da seguire era quella degli appalti. A distanza di 30 anni, però non si è mai fatto chiarezza su un punto. Diversi pentiti hanno affermato che sia Pino Lipari che Antonino Buscemi avevano un canale aperto con un magistrato della procura di Palermo. Alla sentenza d’appello del 2000 sulla strage di Capaci, tra gli altri, vengono riportate le testimonianze di due pentiti. Una è quella di Siino: «Sul punto, Angelo Siino, il quale, pur non rivestendo il ruolo di uomo d’onore, ha impostato la propria esistenza criminale, all’interno dell’ambiente imprenditoriale-politico-mafioso, ha evidenziato di avere appreso che Pino Lipari aveva contattato l’onorevole Mario D’Acquisto affinché intervenisse nei confronti dell’allora Procuratore della Repubblica di Palermo, al fine di neutralizzare le indagini trasfuse nel rapporto c.d. “mafia-appalti” e in quelle che si potevano stimolare in esito a tali risultanze».

I Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese al gruppo Ferruzzi

Le motivazioni riportano anche la versione di Brusca: «Quanto ai rapporti tra i fratelli Buscemi, il gruppo Ferruzzi-Gardini e l’ing. Bini, Brusca ha evidenziato di avere appreso da Salvatore Riina che, a seguito della legge Rognoni-La Torre, i Buscemi avevano ceduto fittiziamente le imprese (la cava Bigliemi e una Soc. Calcestruzzi) al gruppo Ferruzzi; che Antonino Buscemi era rimasto all’interno della struttura societaria come impiegato; che l’ing. Bini rappresentava il gruppo in Sicilia e la Calcestruzzi S.p.A.; che i fratelli Buscemi si “tenevano in mano…… questo gruppo imprenditoriale in maniera molto forte” e potevano contare sulla disponibilità di un magistrato appartenente alla Procura di Palermo, di cui non ha voluto rivelare il nome; che Salvatore Riina, in epoca precedente all’interesse per l’impresa Reale, si era lamentato del fatto che i Buscemi non mettevano a disposizione dell’intera organizzazione i loro referenti».

Dal 2018 Il Dubbio si interessa alla vicenda del dossier mafia-appalti

Il Dubbio, fin dal 2018, ha condotto una inchiesta giornalistica sulla questione del dossier mafia-appalti. “Mandanti occulti bis” dei primi anni 2000 a parte, in questi lunghissimi anni non sono mai state riaperte le indagini nonostante siano venuti fuori nuovi elementi come le audizioni al Csm di fine luglio 1992 dove emerge con chiarezza che cinque giorni prima della strage, il giudice Borsellino partecipò a una assemblea straordinaria indetta dall’allora capo procuratore capo Pietro Giammanco. Una assemblea, come dirà il magistrato Vincenza Sabatino, inusuale e mai accaduta prima. Dalle audizioni di alcuni magistrati emerge che Borsellino avrebbe fatto dei rilievi su come i suoi colleghi, titolari dell’indagine, avrebbero condotto il procedimento. Addirittura, come dirà il magistrato Nico Gozzo, si sarebbe respirata aria di tensione.

Gli omicidi di Salvo Lima e del maresciallo Guazzelli per Borsellino sono legati a mafia-appalti

Ed è lo stesso Borsellino, come si evince dalle parole dell’allora pm Vittorio Teresi nel verbale di sommarie informazioni del 7 dicembre 1992, a dire che a suo parere sia l’omicidio su ordine di Totò Riina dell’europarlamentare Salvo Lima che quello del maresciallo Guazzelli sono legati alla questione del dossier mafia-appalti perché si sarebbero rifiutati di intervenire per cauterizzare il procedimento mafia appalti. Da tempo sia Fiammetta Borsellino che il legale della famiglia Fabio Trizzino, chiedono di sviscerare cosa sia accaduto nel biennio del 91-92 all’interno del “nido di vipere”(definizione di Borsellino riferendosi alla procura di Palermo) e soprattutto quando fu depositata la richiesta di archiviazione del dossier mafia-appalti mentre – come ha detto l’avvocato Trizzino al processo depistaggi – «stavano ancora chiudendo la bara di Paolo Borsellino e dei suoi angeli custodi».

Stragi Capaci e via d’Amelio, desecretazione di nuovi atti: via libera dal Csm. Il Comitato di Presidenza aveva proposto la delibera, votata all'unanimità dal Plenum. Gli audio saranno disponibili sul sito internet di Palazzo dei Marescialli. Il Dubbio il 20 luglio 2022.

Desecretazione dei verbali delle audizioni condotte il 31 luglio 1992, e pubblicazione sul portale web di Palazzo dei Marescialli – in occasione del trentesimo anniversario delle stragi di Capaci e di via d’Amelio – di quelli delle audizioni dei magistrati della procura di Palermo, del procuratore generale e dell’avvocato generale disposte tra il 28 e il 31 luglio del ’92 dal gruppo di lavoro per gli interventi del Csm «relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata». È quanto disposto oggi dal plenum del Csm, che ha approvato all’unanimità una delibera presentata dal Comitato di presidenza.

«Il Comitato ritiene opportuno disporsi la desecretazione anche delle audizioni svolte nel giorno 31 luglio 1992, e la pubblicazione di tutti i verbali – ha detto, presentando la delibera al plenum il vicepresidente del Csm David Ermini – considerando che la pubblicazione di tali atti sia utile ed opportuna per completare il quadro dell’informazione di tutti i cittadini in ordine a vicende che hanno segnato in maniera significativa la storia del Paese culminando con l’estremo sacrificio di magistrati che hanno strenuamente perseguito la difesa della legalità democratica».

I verbali post Via D’Amelio al Csm ora sono pubblici, ma erano disponibili da anni. Fin dagli anni 90 i verbali non erano secretati, ma disponibili nel faldone della procura nissena. Lo stesso Palamara testimonia che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi. L’avvocato Trizzino denuncia: “Sarebbero dovuti entrare nei primi processi Borsellino!”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 luglio 2022.

Si parla di desecretazione dei verbali del Consiglio superiore della magistratura contenenti le audizioni dei magistrati della Procura di Palermo disposte all’indomani della strage di via D’Amelio e tenute nei giorni 28, 29, 30 e 31 luglio 1992. Ma non è corretto. Infatti sul sito istituzionale, il Csm parla di pubblicazione che è ben diverso. Non a caso, i verbali si trovano anche nella Procura di Caltanissetta fin dalla fine degli anni 90 nel faldone dell’allora Gip Gilda Loforti per quanto riguarda l’indagine, in seguito archiviata dalla Gip stessa, nei confronti di alcuni magistrati della procura di Palermo, tra i quali l’allora procuratore capo Pietro Giammanco, in merito alla fuga di notizie (accertata, ma senza colpevoli) del dossier mafia-appalti e corruzione annessa: posizione archiviata perché non sono stati acquisiti elementi certi e univoci sulla presunta indebita percezione di denaro. Nello stesso procedimento è stata archiviata anche la posizione dell’allora Ros Giuseppe De Donno e dell’ex pentito Angelo Siino accusati di calunnia.

Si tratta di atti già conosciuti dalla procura di Caltanissetta

D’altronde, lo stesso avvocato Fabio Trizzino, legale dei figli di Borsellino, precisa che «in realtà si tratta di atti forse inizialmente secretati, ma successivamente resi ostensibili, tanto ciò è vero che sono stati rinvenuti nei fascicoli del procedimento della dottoressa Gilda Loforti degli anni 90. Procedimento a carico di Pietro Giammanco e altri magistrati in relazione alla ipotesi di corruzione per la rivelazione all’esterno del dossier mafia-appalti, che ovviamente avrebbe dovuto rimanere segretissimo. Atti dunque già conosciuti dalla procura di Caltanissetta competente ex ar.11 c.p.p. per reati eventualmente commessi da magistrati del distretto di Palermo». E amaramente aggiunge: «A mio giudizio dovevano entrare nei fascicoli del pubblico ministero dei primi processi su Borsellino, per consentire a tutte le parti di prenderne conoscenza. E in particolare alla famiglia Borsellino costituita parte civile in quei processi. Questo non è avvenuto. Ed è quello che conta!».

Luca Palamara in Antimafia rivelò che il Csm non li ha mai resi pubblici per evitare problemi

Ma a chiarire meglio la questione della mancata pubblicazione dei verbali è stesso Luca Palamara quando è stato audito lo scorso anno alla commissione Antimafia presieduta da Nicola Morra. La pubblicazione dei verbali, ha ricordato Palamara, si era fermata fino a una certa data, evitando di pubblicare quelli tenutasi dopo l’eccidio di Via D’Amelio, «per evitare che potessero in qualche modo essere messi in discussione gli equilibri politico istituzionali che in quel momento governavano il mondo interno della magistratura». Questi sono i fatti.

Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992 in procura a Palermo

Così come è un fatto che dalle testimonianze dei magistrati di Palermo al Csm, emerge che Borsellino partecipò alla riunione del 14 luglio 1992, quindi a cinque giorni dell’attentato, e fece importanti rilievi sull’indagine relativa al dossier mafia-appalti. Non solo. Come si evince dai verbali, in particolar modo dall’audizione del magistrato Nico Gozzo, il giudice Borsellino chiese di rinviare la riunione per poter affrontare meglio la questione del procedimento. Ma non fece in tempo. La riunione del 14 luglio – tranne l’agenzia stampa Adnkronos – non viene riportata da nessun’altra agenzia giornalistica. Di conseguenza anche i maggiori giornali così come alcuni magistrati, perennemente presente in tv o sulla stampa, non hanno fatto riferimento all’unica cosa che conta: ovvero su cosa stava puntando Borsellino e che problematiche lui stesso ha riscontrato a cinque giorni del suo omicidio. Ma non importa, il discorso è stato dirottato sulla presunta mancata carriera di chi – dopo la morte di Borsellino e quindi dopo le forti proteste pubbliche da parte dei cittadini palermitani – ha votato una risoluzione per chiedere la sostituzione dell’allora capo Pietro Giammanco. Ma forse bisogna concentrarsi su quello che accadde quando Borsellino era ancora in vita.

Nella riunione del 14 luglio Borsellino chiese delucidazioni del dossier “mafia-appalti”

Ritorniamo alla riunione del 14 luglio 1992. Non fu una riunione ordinaria. A dirlo innanzi al Csm è stata il magistrato Vincenza Sabatino. «Mai era stata convocata un’assemblea di questo genere per i saluti in occasione delle ferie estive», ha sottolineato. Spiega che Giammanco scrisse «vi prego di intervenire all’assemblea d’ufficio che avrà luogo martedì 14 alle ore 17 nel corso del quale verranno altresì trattate problematiche di interesse generale attinenti alle seguenti rilevanti indagini che hanno avuto anche larga eco nell’opinione pubblica». E infatti, come si apprende leggendo il comunicato, tra i primi posti dell’ordine del giorno compare proprio “mafia-appalti”. Prosegue la dottoressa Sabatino: «È il procuratore che scrive, e lui già si rende conto alla data dell’11 luglio, quando la convoca, che c’è da tempo una situazione di questo tipo, non è soltanto il lancio delle monetine e sputi che avverrà il 19 sera, ma è una situazione che esiste da tempo».

Quindi cosa significa? Che la tensione nel palazzo giustizia di Palermo era palpabile già da tempo, tanto da convocare un’assemblea straordinaria. Borsellino vi partecipò ed è anche il magistrato Luigi Patronaggio a raccontare che il giudice chiese delucidazioni sul dossier mafia-appalti, sottolineando il presunto mancato respiro dell’indagine. Patronaggio, innanzi al Csm, ha precisato che Borsellino «disse espressamente che i carabinieri (i Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, ndr.) si aspettavano da questa informativa (il dossier mafia-appalti, ndr.) dei risultati giudiziari di maggiore respiro». Alla domanda se si riferisse alla posizione dei politici, Patronaggio ha precisato: «In realtà no, non è solo nei confronti dei politici, ma anche nei confronti degli imprenditori, perché il nodo era valutare a fondo la loro posizione e su questo punto il collega Lo Forte si dilungò spiegando il delicato meccanismo e la delicata posizione degli imprenditori».

A cinque giorni dalla sua morte Borsellino si fidava dei Ros

Bisogna fare attenzione a tre elementi che emergono durante quella riunione ancora oggi poco considerata nonostante la pubblicazione dei verbali: l’argomento è il dossier mafia-appalti, Borsellino si fa portavoce delle lamentele dei Ros, il giorno prima i pm titolari di quell’indagine avanzarono già richiesta di archiviazione proprio sulle posizioni degli imprenditori. Quindi si evince che, a cinque giorni dalla sua morte, Borsellino si fidava dei Ros e dalle domande che pone si capisce che – almeno fino a quel giorno – i suoi colleghi non avrebbero condiviso con lui l’andamento dell’indagine. Però, i titolari di quell’indagine, sentiti come testimoni al recente processo Borsellino tenutosi presso il tribunale di Caltanissetta, hanno affermato che mai Borsellino fece quei rilievi durante la riunione e che hanno, fin da subito, condiviso con lui l’indagine mafia-appalti. Anche il magistrato Nico Gozzo, sentito dal Csm, parlò dei rilievi che Borsellino fece su mafia-appalti, aggiungendo altri elementi importanti.

La sorella di Falcone: «Borsellino mi disse che era molto vicino a scoprire delle cose tremende»

Interessante anche l’audizione della sorella di Giovanni Falcone. Racconta che lei avrebbe voluto andare dalle autorità competenti per parlare delle difficoltà che il fratello aveva avuto nella procura di Palermo guidata da Pietro Giammanco. Ma Borsellino le disse di avere pazienza e di aspettare: ci avrebbe pensato lui, perché stava acquisendo delle prove, dei documenti. E ha aggiunto: «Borsellino sapeva che doveva competere come un leone, e quindi doveva portare delle prove, delle cose inconfutabili. Verso la fine mi ha anche detto, nel trigesimo della morte di Giovanni, durante la messa, che era molto vicino a scoprire delle cose tremende». Interessa a qualcuno? Tranne ai figli di Borsellino e all’avvocato Trizzino, sembra che sia più importante sottolineare la presunta mancata carriera di chi, dopo l’eccidio, firmò il documento contro Giammanco. Meglio dirottare il discorso verso il complotto internazionale, le entità, i servizi e la strategia della tensione (tra l’altro anacronistico visto che parliamo degli anni 90). Ma quello che ha fatto e detto Borsellino fino agli ultimi suoi giorni di vita, passa in sordina per l’ennesima volta.

Mafia e appalti, 5 giorni prima di essere ucciso Borsellino chiese chiarimenti sull’inchiesta e sui nomi dei politici. Paolo Lami mercoledì 20 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Cinque giorni prima di essere ucciso nella strage di via D’Amelio, nel corso di una infuocata riunione della Procura diretta da Pietro Giammanco, il 14 luglio del 1992, prima delle vacanze estive, il giudice Paolo Borsellino “chiese spiegazioni” sul dossier mafia e appalti, una inchiesta coordinata dai pm Roberto Scarpinato e Guido Lo Forte.

“Borsellino chiese spiegazioni su un procedimento riguardante Angelo Siino e altri” e “capisco che qualcosa non va evidentemente perché mi sembra insolito che si discuta così coralmente con dei colleghi assegnatari dei processi”, racconta il 31 luglio di 30 anni, il giudice Luigi Patronaggio, nel corso di una audizione del Csm, i cui verbali sono stati resi pubblici solo oggi.

Patronaggio era presente in quella riunione. Ma perché Borsellino era così arrabbiato?

Patronaggio prova a spiegarlo così, trent’anni fa, ai colleghi del Csm: “Paolo Borsellino chiese spiegazioni su questo processo contro Siino”, l’ex-“assessore dei Lavori pubblici” di Cosa nostra, “perché lui aveva percepito che vi erano delle lamentele da parte dei carabinieri verosimilmente e chiese delle spiegazioni che non erano tanto di carattere tecnico, cioè se era stata fatta o meno una cosa, ma più che altro era il contorno generale del procedimento. Chi c’era o chi non c’era, perché poi, in buona sostanza, la relazione sul processo Siino fu fatta unicamente, esclusivamente per dire che non vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo o che se vi erano nomi di politici rilevanti all’interno del processo di un certo peso entravano soltanto per un mero accidente che comunque, insomma, ecco, allora la spiegazione di Borsellino fu che chiese spiegazione, fu di carattere estremamente generale, chi erano i politici, ma perché. Insomma, cose di questo genere, non erano singoli fatti, atti istruttori”.

Ma cosa è il dossier mafia e appalti? Tutto nasce da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo ai Ros che aveva, quale principale obiettivo, quello di accertare “la sussistenza, l’entità e le modalità di condizionamenti mafiosi nel settore degli appalti pubblici nel territorio della provincia di Palermo”. Il risultato di questa attività è il rapporto dei Ros del febbraio ’91.

Giovanni Falcone è ormai in procinto di trasferirsi a Roma, al Ministero della Giustizia.

Il fascicolo finisce così sulla scrivania del procuratore Pietro Giammanco. Che, a maggio, ne affida l’esame ai sostituti Sciacchitano, Morvillo, Carrara, De Francisci e Natoli.

Il 25 giugno 1991 viene presentata una richiesta di custodia cautelare nei confronti di Angelo Siino, Giuseppe Li Pera, Cataldo Farinella, Alfredo Falletta e Serafino Morici, accolta dal gip il 9 luglio.

Più o meno nello stesso periodo, il 26 luglio 1991, viene contestualmente delegata ai Ros un’ulteriore attività investigativa riguardante la società regionale Sirap Spa.

Un rapporto che creerà una frattura tra la Procura e i Carabinieri del Ros, sul mercato degli appalti in Sicilia.

Subito dopo la morte di Borsellino, la Procura chiese l’archiviazione dell’inchiesta su mafia e appalti. Che fu accolta poco dopo.

Ma in quell’incontro del 14 luglio 1992 il pm Guido Lo Forte nascose al giudice di avere firmato, appena il giorno prima, l’archiviazione dell’inchiesta”, ha detto, di recente, nel corso dell’arringa del processo depistaggio Borsellino, l‘avvocato Fabio Trizzino. 

Le minacce di morte a Lo Voi nel ’92, il Csm desecreta gli atti: arrivò una telefonata…Paolo Lami mercoledì 20 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.

In occasione del trentennale delle stragi mafiose, il Csm desecreta gli atti da cui emerge che, nel ‘92, pochi giorni dopo la strage di Capaci, arrivò una telefonata in Questura in cui si diceva che sarebbe accaduto qualcosa a un giudice che abita in una determinata via di Palermo e quel giudice era Francesco Lo Voi, l’attuale Procuratore capo di Roma.

Il Csm ha autorizzato la pubblicazione dei verbali secretati delle audizioni dei magistrati della Procura di Palermo condotte tra il 28 e il 31 luglio 1992 dal Gruppo di Lavoro per gli interventi del Csm relativi alle zone più colpite dalla criminalità organizzata.

La decisione di rendere note le minacce subite da Lo Voi è stata deliberata dal Plenum all’unanimità, su proposta del comitato di presidenza il quale, ha detto il vicepresidente David Ermini, ritiene che “la pubblicazione di tali atti sia utile ed opportuna per completare il quadro dell’informazione di tutti i cittadini in ordine a vicende che hanno segnato in maniera significativa la storia del Paese culminando con l’estremo sacrificio di magistrati che hanno strenuamente perseguito la difesa della legalità democratica”.

A raccontare delle minacce ricevute era stato lo stesso Lo Voi nell’audizione del 29 luglio 1992 davanti al Csm.

“Verso i primi di giugno – racconta Lo Voi – non ricordo se il 6, il 7 o l’8 giugno, alle nove meno cinque del mattino, io stavo per scendere da casa quando arriva una telefonata dalla Questura. Mia moglie prende la telefonata e quel funzionario le dice: ‘Dica a suo marito di non muoversi da casa perché abbiamo appena ricevuto una telefonata dicendo che dovrebbero fare qualcosa a un giudice che abita in via …, che è la strada dove sto io. Non si allarmi, non si preoccupi”.

“Allora io telefono al Procuratore per avvertirlo che intanto ritardavo – dice – e lui si è interessato dicendomi ‘Non ti preoccupare, telefono subito al Questore e mi faccio dire cosa stanno facendo e ti richiamo”.

Poi racconta che nella telefonata successiva il Procuratore capo gli confermò della minaccia. E gli dice di “stare tranquillo”. Ma pochi giorni prima c’era stata la strage di Capaci. In quei giorni, come ha raccontato Lo Voi al Csm, era preoccupato per le figlie che gli chiedevano di Falcone e Borsellino.

30 anni dalla strage. Dossier mafia appalti, l’inchiesta di Falcone e Borsellino affossata dopo la strage di via D’Amelio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Luglio 2022. 

Come viene ricordato Paolo Borsellino, a trent’anni dal suo sacrificio? Con il depistaggio continuo. Il 19 luglio del 1992 la mafia l’ha assassinato e da quello stesso giorno sono iniziati i complotti e le trame, in modo che non si sapesse perché il magistrato è stato ucciso, perché con tanta fretta subito dopo la strage di Capaci e la morte di Giovanni Falcone, né chi esattamente e in che modo gli ha tolto la vita. Il depistaggio è stato immediato, ha avuto percorsi che hanno attraversato caserme e procure e poi aule di ingiustizia. Con tante complicità, volute e non, di uomini in divisa e in toga, e persino di incolpevoli giudici popolari. Finché si è arrivati alla farsa del processo sugli anelli ultimi della catena, finito con le prescrizioni.

Ma intanto erano stati opportunamente tenuti fuori da ogni responsabilità, tutti i pubblici ministeri che parteciparono alle giornate in cui fu costruito il pentito fantoccio. Ma anche tutti i gip. E poi tutti i giudici dei processi Borsellino uno-due e tre. Finché non è arrivato quel bel personaggio di nome Gaspare Spatuzza, l’assassino del magistrato che, in cambio di notevoli vantaggi, ha detto “sono stato io”. Ma il depistaggio continua. Si parte da Scarantino e si arriva a Berlusconi. Il depistaggio perpetuo. Possiamo metterle in fila, tutte le trame di questi trent’anni, non sono poche. Si parte dall’inchiesta su “Mafia e appalti”, su cui Borsellino stava lavorando e che fu frettolosamente archiviata mentre lui stava chiudendo gli occhi. Chi è abituato a chiedersi i perché di quel che accade, potrebbe ragionare su quell’accelerazione improvvisa che fece esplodere la bomba di via D’Amelio a soli due mesi da quella di Capaci. Una tempistica fuori dall’ordinario e apparentemente senza senso, su cui è calato un “opportuno” silenzio.

Perché alcune toghe e divise erano troppo impegnate a costruire il burattino del falso pentito da una parre, e a inventare un’inesistente “trattativa” tra la mafia a una parte dello Stato dall’altra. Negli intervalli c’era sempre di che trastullarsi con il nome di Silvio Berlusconi. Qualche pentito da strapazzo, pronto a fare il ventriloquo del pm in cambio di qualche favore, lo si trova sempre. Né Falcone né Borsellino avrebbero mai costruito il burattino Scarantino, né, qualora lo avesse loro proposto su un piatto d’argento qualcun altro, lo avrebbero accettato. Forse si sarebbero messi a ridere, davanti a tanta incompetenza, quasi si fossero trovati di fronte a una burla. E possiamo immaginare per esempio la faccia di Falcone se gli si fosse presentato davanti un Ingroia, o un Di Matteo o uno Scarpinato a raccontargli la favola della “trattativa”? Vogliamo provare a fare il conto di quanti decenni, quanti processi-farsa, quanto denaro pubblico sprecato, quanti inquirenti fallimentari vanno messi insieme per proclamare il Grande Fallimento giudiziario del più grande depistaggio della Storia, quello che non è ancora finito e di cui non si sa se e quanto finirà?

Il depistaggio “trattativa” è partito da subito, negli stessi anni in cui iniziava quello sull’uccisione di Borsellino. Tutti e due sono durati trent’anni e nessuno dei due si è ancora concluso. Se pure il 23 settembre del 2021 la corte d’assise d’ appello di Palermo ha mandato assolti Marcello Dell’Utri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni (ma precedentemente anche Calogero Mannino e Nicola Mancino) dal sospetto infame di essere collusi con la mafia, il depistaggio non è ancora finito. E ha le sembianze di Silvio Berlusconi. Perché la rilettura della storia d’Italia come storia criminale e mafiosa della politica ha radici lontane. Ed echeggia ogni giorno negli scritti di pubblici ministeri del presente e del passato che ci ricordano che non è finita lì. Che i giudici non contano niente, soprattutto quando assolvono. Che cosa ha scritto uno che la sa lunga per esperienza personale come Luca Palamara? Se sei un pm sveglio e hai dalla tua un bravo poliziotto e uno o due cronisti di riferimento, puoi distruggere chiunque.

Ma distruggere Silvio Berlusconi non è facile. Ci provano dal 1994, da quando è entrato in politica. Prima non contava niente, agli occhi dei pubblici ministeri dell’antimafia militante. Ma in quell’anno partì l’operazione Oceano e immediatamente un’indagine sull’origine dei finanziamenti alla Fininvest. Un buco nell’acqua che costringerà i pm di allora a chiedere l’archiviazione. Sono gli anni in cui l’antimafia militante sbriglierà la fantasia a tutto campo. Possiamo ricordare “Sistemi criminali”, un polpettone del 1998 che metteva insieme tutte le stragi, da Bologna a via D’Amelio, ipotizzando l’esistenza di una sorta di spectre composta di imprenditori, massoni, piduisti, politici e terroristi. Un flop che sarà secondo solo a quello clamoroso iniziato con il famoso papello di Totò Riina, che sfocerà nel grande depistaggio del processo “trattativa”. Il fantasma di Berlusconi abita quotidianamente nella mente di due pm di Firenze e due cronisti del Fatto. Non si lamenti troppo Matteo Renzi, per l’attenzione del procuratore aggiunto Luca Turco, perché almeno non gli dà del mafioso. Perché lo stesso magistrato, insieme al collega Luca Tescaroli, indaga Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri come mandanti di stragi mafiose. Il che è un po’ più grave dell’inchiesta su Open.

Soprattutto se si fa attenzione alla provenienza geografica del dottor Tescaroli: Palermo, procura della repubblica. Evidentemente non gli bastano i numerosi fallimenti di quegli uffici nelle inchieste su Berlusconi. Ora succede che periodicamente dal palazzo di giustizia di Firenze escano fogli e foglietti, con la veste di atti giudiziari, che planano sulle scrivanie di due cronisti del Fatto, Marco Lillo e Valeria Pacelli, che disciplinatamente pubblicano. Domenica scorsa siamo stati allietati dalla lettura integrale di una memoria depositata dai due pm al tribunale del riesame che deve decidere se, nonostante il “no” sonoro della cassazione, siano valide perquisizioni e sequestri a persone non indagate che hanno il solo torto di essere parenti del boss mafioso e assassino Giuseppe Graviano. Uno che sta facendo i conti con la propria vita di ergastolano e ogni tanto ripete che suo nonno aveva raccolto negli anni settanta un bel gruzzoletto e l’aveva dato a Berlusconi per finanziare la Fininvest. La prova sarebbe in una scrittura privata affidata ai parenti. Che naturalmente non è stata trovata nelle perquisizioni.

L’ipotesi dei due pm è che, se il nonno di Graviano ha dato cinquant’anni fa soldi alla Fininvest, per forza di cose e di rapporti consolidati nel tempo, Berlusconi vent’anni dopo ha organizzato le stragi del 1993 e del 1994. Perché non anche quelle del 1992, allora? Ma qualcuno ci crede. Così i giornalisti Lillo e Pacelli, pubblicano sul Fatto in due intere pagine la memoria dei pm. Poi scrivono, usando la vecchia astuzia di Lillo, che queste accuse sono state “già più volte archiviate in passato e tutte da dimostrare” . Ma intanto pubblicano. Aggiungono che sono “accuse che vanno però raccontate all’opinione pubblica, perché riguardano personaggi di primo piano e un momento di svolta della storia recente del Paese”. La svolta, cioè la vittoria elettorale di Berlusconi nel 1994, si chiama democrazia, caro Lillo. Chiaro? Che ne diresti, se domani una ragazza ti accusasse di averla stuprata e un magistrato le desse retta, e qualcuno decidesse di pubblicare tutto? Ma per fortuna noi, e forse la maggior parte dei giornalisti italiani, siamo diversi e non lo faremmo mai. Infatti non facciamo parte dello squadrone di divise toghe e penne per i quali il depistaggio non finisce mai.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

FILIPPO FACCI per Libero Quotidiano il 19 luglio 2022.  

Paolo Borsellino fu ucciso perché sapeva: sapeva dell'accordo siglato presso la sede della Calcestruzzi di via Mariano Stabile (Palermo) tra lo stesso Siino, per conto di Cosa Nostra, e gli industriali del Nord accorsi in Sicilia, tra questi l'ingegner Giovanni Bini della Calcestruzzi-Ferruzzi di Ravenna, l'ingegner Lorenzo Panzavolta, il presidente di Confindustria Sicilia Filippo Salamone (fratello del magistrato) il quale rappresentava anche il gruppo Salamone-Micciché-Vita di Agrigento, poi Sergio Di Paolo e Giuseppe Crini della Impregilo, Romano Tronci della De Bartolomeis che rappresentava gli interessi delle cooperative del Pci, Giuseppe Li Pera per la Rizzani-De Eccher di Udine, e ancora la Cogefar Impresit del gruppo Fiat. 

Borsellino sapeva di quella spartizione da 25mila miliardi di lire che prevedeva un 2,5 per cento a Cosa Nostra, un altro 2,5 per cento per «proteggere» le imprese (con annessa fornitura di subappalti a impresine legate alla mafia) e infine uno 0,90 per cento addizionale per Totò Riina e Bernardo Provenzano, che avrebbero garantito la pace sociale.

Paolo Borsellino fu ucciso perché questo accordo fu messo nero su bianco in un dossier circolato come un fantasma, curato dal Ros dei carabinieri (Raggruppamento operativo speciale, capitanato dal Generale Mario Mori e fondato il 3 dicembre 1990 su sollecitazione dello stesso Falcone) e che impressionò i due magistrati; 

Falcone dovette per forza condividerne la scoperta col suo procuratore capo Pietro Giammanco, il quale lo imboscò per mesi (in termini istruttori) e non delegò neppure Falcone a occuparsene. Sinché, un bel giorno del 1992, il dossier venne illecitamente divulgato, cioè uscì dalla Procura, tanto che ne vennero al corrente il senatore andreottiano mafioso Salvo Lima, il citato Angelo Siino e quindi Cosa Nostra. 

E quando Angelo Siino e un suo compare chiesero all'amico Salvo Lima e un maresciallo dei Ros di aggiustare le cose, questi si rifiutarono, sicché, tra marzo e aprile, Cosa Nostra li ammazzò entrambi. 

E GIULIO TREMAVA Intanto l'inchiesta Mani pulite non era praticamente ancora nata. Il padre di Lima - si scoprirà - era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera. Claudio Martelli, ai tempi ministro della giustizia, dirà che «dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima».

Il dossier parlava in particolare del ruolo di Siino come ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra. Scriverà in un memoriale il generale Mori: «Cosa Nostra temeva gli attacchi alle sue attività economiche... la gestione degli appalti pubblici che erano il canale di finanziamento più importante dell'organizzazione».  

Il Ros dei carabinieri e Giovanni Falcone indagarono su questo, sulle turbative mafiose realizzate nelle gare d'appalto: ed emerse che dei tre protagonisti cointeressati, ossia mafia, imprenditoria e politica, le ultime due non erano vittime, ma partecipi dell'attività criminosa: questo, ripetiamo, prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali.  

«Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991», ha scritto ancora Mori, «chiese il dossier «Mafia-appalti» e lo portò al procuratore capo Pietro Giammanco... Da allora, malgrado le insistenze del capitano De Donno e le mie, non se ne seppe più nulla». 

Il procuratore Guido Lo Forte, braccio destro di Giammanco, ha confermato che il dossier venne consegnato il 20 febbraio 1991 da Falcone al Procuratore Capo Giammanco, «il quale la ripose in cassaforte». Meno di un mese dopo, come detto, Falcone ne parlò al convegno al castello Utveggio di Palermo e disse quella frase sulla mafia che era entrata in Borsa.  

Dirà il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare... la strategia stragista iniziò con l'omicidio Lima. E fu lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà. 

Anche la sentenza di Cassazione del processo cosiddetto «Borsellino quater» confermerà che Borsellino, dopo Falcone, fu ucciso «per vendetta e cautela preventiva»: vendetta per il maxiprocesso alla Mafia che era andato in giudicato proprio all'inizio del 1992, cautela per le indagini sul dossier «mafia-appalti» che ancora Borsellino conduceva. 

SOLO UNO CAPIVA Quando a Falcone rimaneva un minuto di vita, all'ospedale di Palermo, a Borsellino rimanevano 57 giorni. Nessuno capiva: tranne lui. La sera del 23 maggio, dopo la strage di Capaci, lo show televisivo del sabato andò in onda puntualmente. Non accadde nulla.  

Neppure il cosiddetto «decreto Falcone» n. 396 (che comprendeva il carcere duro) era ancora stato convertito in legge. Sarà approvato solo il 20 luglio, il giorno dopo la morte di Borsellino.

Il quale, da vivo, in quei 57 giorni residui, si mise a indagare freneticamente: sveglia alle cinque del mattino, spostamenti furtivi e tre pacchetti di Dunhill Special Light al giorno, lasciò Marsala e torno a Palermo per riprendere il posto che era stato di Falcone, mandò a quel Paese il ministro dell'Interno che gli propose la stessa procura antimafia che tutti avevano rifiutato a Falcone, intervenne a incontri, fece interventi, rilasciò più interviste di quante ne avesse rilasciate in vita sua.

I PENTITI Raccolse le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo sulla gestione mafiosa degli appalti, cercò le «ragioni che avevano indotto Cosa Nostra all'eliminazione di Giovanni Falcone» (sentenza Borsellino Quater) e sarà ammazzato, Borsellino, proprio per «la pericolosità delle indagini in materia di mafia e appalti.  

L'ha confermato in aula il pentito Antonino Giuffrè: «C'era quel rapporto dei Ros che mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse pubbliche. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame che, di fatto, diede un'accelerazione nell'ideazione delle stragi...». 

I primi di luglio Borsellino interrogò il pentito Leonardo Messina che spiegò tutto il funzionamento del sistema e diede conferma: «Riina i soldi li tiene nella Calcestruzzi». Ese davvero nulla è più inedito dell'edito, andrebbe riletto un articolo che il giornalista Luca Rossi pubblicò sul Corriere della Sera due giorni dopo la morte di Borsellino, ma basato su quanto il magistrato gli aveva detto quindici giorni prima: «Borsellino pensava che potesse esistere una connessione tra l'omicidio di Salvo Lima e quello di Falcone, e che il trait d'union fosse una questione di appalti... e comunque non poteva darmi dettagli». 

C'era un solo luogo al mondo in cui il dossier «Mafia -appalti» non sembrava interessare granché: la Procura di Palermo. Il 16 luglio Borsellino andò a cena col senatore socialdemocratico Carlo Vizzini, che racconterà: «La sua attenzione fu tutta sul rapporto mafia e appalti, in altre parole mafia, politica ed economia... le industrie, soprattutto quelle grandi, si erano sedute al tavolo della spartizione insieme alla mafia».  

Il 18 luglio, il giorno prima di morire, Borsellino rivelò alla moglie «che non sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma sarebbero stati i suoi colleghi a permettere che potesse accadere». Il 19 luglio saltò in aria. E, anche qui, dopo 30 anni, serve il coraggio di non omettere nessun dettaglio. Ma ce ne occuperemo domani.

Mafia, lo studio della Bocconi: dalle stragi ai mercati, così è cambiata la strategia dei padrini. Gianmarco Daniele, Paolo Pinotti su La Repubblica il 9 luglio 2022.

Le organizzazioni criminali hanno in parte cambiato pelle negli ultimi trenta anni. Riducendo drasticamente il numero di omicidi e usando la violenza in maniera più strategica e meno visibile, hanno potuto infiltrare nuove aree del Paese e nuovi settori economici, senza abbandonare i traffici illegali che rimangono parte del loro “core business”.

La stagione delle stragi

Il periodo delle stragi di mafia come quella di Via D’Amelio in cui persero la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta (di cui il 19 luglio ricorre il trentesimo anniversario) rappresentò il culmine dello scontro tra la mafia siciliana e lo Stato italiano. Solo nel 1991, si contarono 1.916 omicidi, di cui 718 di stampo mafioso. In quel periodo, furono emanate nuove leggi, tra cui il carcere duro (41-bis), lo scioglimento dei Comuni per mafia e fu creata la Direzione nazionale antimafia. In Sicilia, si diffusero i primi movimenti anti-mafia legati alla società civile. Negli anni successivi si osservò un ridimensionamento della mafia siciliana, sebbene non si trattò di una sconfitta definitiva tant’è che oggi i principali gruppi criminali italiani, legati a Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta, sono tutt’altro che sconfitti.

Il calo degli omicidi

Eppure, i dati rilevano la radicale diminuzione nel numero di omicidi. Dai 718 omicidi mafiosi del '91siamo passati a 28 nel 2019. Nel 2020, ci sono stati 271 omicidi in Italia, rispetto ai quasi 2.000 del '91. Un crollo impressionante in soli trent'anni. Con 0,5 omicidi per 100mila abitanti, l’Italia è il Paese con meno omicidi in Europa dopo Islanda e Slovenia. In Italia, oggi, ci sono meno omicidi per capita che in Norvegia, Svizzera o Lussemburgo.

... e la riduzione dei servizi televisivi

Gli alti livelli di violenza degli anni Ottanta e Novanta hanno portato a una forte repressione da parte delle forze dell’ordine e una grande attenzione mediatica e politica. Analizzando l’archivio della Rai degli ultimi quarant’anni,  e studiando il contenuto dei telegiornali nazionali e regionali, si osserva un trend interessante. Negli anni con più omicidi mafiosi, aumenta la copertura mediatica legata alla mafia, misurata dalla percentuale di news sul tema mafia. Al contrario, quando calano gli omicidi mafiosi, si parla meno del tema. Non si tratta di un risultato che riguarda solo il giornalismo. Lo stesso trend crescente si registra anche negli interventi in Parlamento legati alla criminalità organizzata. Per esempio, nel biennio 1992-1994 si cita la criminalità organizzata nel 15% dei discorsi dei parlamentari, vent’anni dopo solo nel 4,3%.

Le minacce agli amministratori pubblici

Tutto ciò suggerisce che la diminuzione nel numero di omicidi è, almeno in parte, una scelta strategica. Questo non implica che non si usi più la violenza. Come riportato ogni anno dai report di "Avviso Pubblico" gli amministratori locali sono i target privilegiati delle mafie: minacce, lettere minatorie, incendi, aggressioni. Con una media di circa un attacco al giorno, questo fenomeno passa quasi inosservato sui media, raggiungendo l’obiettivo prefissato: influenzare la politica locale senza attirare troppa attenzione mediatica e politica. Il periodo elettorale è particolarmente delicato: a ricevere più attacchi sono soprattutto i nuovi sindaci, subito dopo l’elezione, nelle aree con maggiore presenza di organizzazioni criminali.

La crescita esponenziale dei sequestri

Questa nuova strategia di fatto ha facilitato l’espansione nel tessuto economico del Paese. A partire dagli anni '90 si è assistito a una grande crescita nel numero di imprese e immobili sequestrati ai mafiosi. Nel 1991, lo Stato sequestrò alle mafie due imprese e quattro immobili. Nel 2019, i sequestri ammontano a 351 imprese e 651 immobili. Ogni operazione di polizia legata alla criminalità organizzata oggi porta a sequestri di circa 1 milione di euro. Alla fine degli anni '90 il valore medio era di circa 50mila euro.

La conquista del Nord Italia

Da un lato, questi numeri testimoniano in maniera indiretta la crescita del potere economico dei gruppi mafiosi, e in particolare della 'ndrangheta. Dall’altro, questi trend riflettono anche una maggiore capacità delle forze dell’ordine di combattere i gruppi mafiosi dove fa più male, nelle risorse economiche. Tuttavia, la lettura pessimistica è incoraggiata da altri dati: solo nel 2019, è stata sequestrata per la prima volta un’impresa legata alla mafia in 11 nuove province italiane (quasi tutte nelle regioni settentrionali): un altro segnale dell’espansione di questi gruppi in nuove aree del Paese.  

Dopo il sangue e le stragi, la mafia che è tornata invisibile. GIUSEPPE GOVERNALE su Il Domani il 14 giugno 2022.

Le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.

Ho deciso di scrivere questo libro su input del professor Nando dalla Chiesa. Da una parte, mi disse, era rimasto colpito dalle mie lezioni agli studenti del suo corso di sociologia criminale, i cui commenti secondo lui erano ogni volta vivaci, effervescenti; dall’altra per gli approfondimenti che da direttore della Dia avevo svolto su due antichi rapporti giudiziari, uno di fine ‘800 del questore di Palermo Sangiorgi e l’altro del 1971 di un pool di ufficiali dell’Arma e funzionari della Polizia coordinati dal colonnello dalla Chiesa all’epoca comandante dei Carabinieri della Sicilia occidentale.

Due rapporti, ovviamente diversi ma anche simili. Entrambi delineavano una mafia intesa non tanto come “sentimento di bellezza” (slogan che ha come postulato “la mafia non esiste”) ma come organizzazione il cui scopo principale era già da allora gestire potere e fare affari. Ma non solo. Finivano quasi per smentire la narrazione più accreditata secondo cui dobbiamo tutto a Tommaso Buscetta, che nel 1984, rivelò per primo la struttura organizzativa di Cosa nostra. Senza affatto sminuire le rivelazioni di Don Masino fu semmai Giovanni Falcone ad avere il grande merito di mettersi in frequenza, di essere affidabile e credibile per il pentito, inducendolo così a rivelare, dal di dentro la struttura della mafia siciliana.

Quindi, in verità, “sapevamo già tutto” (il titolo del libro) o quasi.  

Sangiorgi, infatti, parlava di 8 gruppi (a Palermo ci sono oggi 8 mandamenti) divisi in sezioni (le attuali famiglie), di un tribunale della mafia (la commissione), di un capo supremo (il capo di cosa nostra).  Il colonnello dalla Chiesa evidenziava come le organizzazioni mafiose palermitane avessero in quegli anni orientato le loro scelte operative sull’edilizia e sul traffico degli stupefacenti e come fosse assai pericolosa la loro presenza al nord per via di tanti, troppi, soggiorni obbligati. Scorrendo la rubrica dei 114 denunciati, emerge che già allora, più di cinquanta anni fa, ben 28 erano residenti in Lombardia; inoltre spiegava come fosse irrinunciabile l’attacco ai loro patrimoni: che modernità!

Anche il sottotitolo del libro penso sia eloquente: “perché la mafia resiste”. A questa domanda ho cercato di rispondere illustrando taluni aspetti fondamentali che non possiamo continuare a sottovalutare. A cominciare dall’attuale convinzione tra la popolazione meridionale che la minaccia della mafia sia quasi immanente.

In secondo luogo, il tentativo di spiegare come le organizzazioni criminali non siano solo un fenomeno di povertà: esse, infatti, vanno ovunque, soprattutto dove il Pil cresce e dove c’è minore sensibilità. Non certo per caso oggi si contano 26 strutture di ndrangheta in Lombardia, 16 in Piemonte, 4 in Liguria senza contare l’Emilia Romagna e il nord est.

In terzo luogo cercando di mettere in luce come le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività. Non ultimo, certamente, l’aspetto culturale e sociale. A partire dal ruolo delle carceri non poche volte rivelatesi “vere e proprie accademie di mafia” mentre sulla strada possibili futuri boss frequentano le scuole primarie! Una questione della massima importanza tenuto conto che proprio i giovani finiscono per divenire un inesauribile “vivaio”, una cantera che si rivela una vera e propria “linfa vitale”, l’insieme magmatico di coloro e sono tanti purtroppo che si pongono come traguardo nella vita i soldi e il potere. C’è poi, per un’efficace azione di contrasto, la necessità di formare una classe dirigente che, oltre alle conoscenze tecnico professionali venga orientata all’etica della responsabilità, alla capacità di decidere, alla volontà di abbandonare la “mentalità dello zero a zero”, quella asettica e perciò comoda convinzione per cui si possa vincere anche non segnando.

Nella lotta alle mafie per la prima volta siamo passati in vantaggio, ma lo scontro è tutt’altro che vinto definitivamente. Manca l’ultima fase che è propria di ogni conflitto: lo sfruttamento del successo. Occorre l’impegno di tutti, anche di altre “legioni” come il terzo settore, la Chiesa con preti sempre più impegnati nel sociale (il patto educativo firmato il mese scorso a Napoli tra il ministro dell’interno, quello dell’istruzione e l’arcidiocesi per far scendere gli indici di dispersione scolastica va in quel senso) e poi i media e la Scuola, il vero centro di gravitazione di ogni sforzo da realizzare a partire dalle scuole “basse”, così care a Sciascia. Uno step fondamentale.

«Apri il cervello e fai entrare il sole che ti asciuga l’umidità dell’ignoranza» come diceva Ignazio Buttitta, non è solo un detto destinato a rimanere tale, ma deve divenire una sorta di mantra da porre al centro di ogni efficace strategia antimafia. Mai, infatti, una frase è stata più vera: «La mafia teme di più la cultura che la giustizia» (A. Caponnetto). GIUSEPPE GOVERNALE.

Dagotraduzione da Le Monde il 23 maggio 2022.

Dall'Italia al Giappone, dal Brasile alla Nigeria, la criminalità organizzata si sta affermando nei cinque continenti e tende a riprodurre il funzionamento giuridico di una multinazionale: modello economico, management, marketing, gerarchia. Pur mantenendo la sua impronta di manifattura: violenza e regolamento dei conti. 

«La nostra caratteristica, sono i soldi». L'uomo che pronuncia queste parole non è il presidente di un hedge fund, ma un funzionario del Primeiro Comando da Capital (PCC), la più grande mafia del Brasile. Organizzazione, finanza, gestione delle risorse umane, pubbliche relazioni, logistica, marketing: seduto in fondo a un bar nel centro di San Paolo, questo boss fa bene a descrivere una multinazionale. Il parallelismo tra il funzionamento della sua organizzazione e quello di una grande azienda si rivela chiaramente man mano che la discussione avanza, finché non mostra sul suo iPhone le immagini degli orrori commessi dai suoi dipendenti contro un concorrente del PCC: amputazioni, teste mozzate e cuori strappati con il machete.

Violenza selvaggia e organizzazione sofisticata, codici di condotta medievali e costante adattamento alle ultime tecnologie: decifrare la realtà di una mafia può sembrare complesso. Se non per osservarne la natura profonda, per capire che una mafia è, prima di tutto, un'impresa criminale che importa negli affari illeciti le pratiche messe in atto dalle società legali per creare ricchezza.

Il dittico traffico-predazione

«Si tratta di domanda e offerta: se qualcuno sulla luna mi chiede della cocaina, compro un razzo per arrivarci!» ride l'uomo che si occupa delle vendite in Europa per il cartello di Sinaloa [uno stato messicano], nel soggiorno di una casa a Culiacan, la capitale di una delle mafie più potenti del mondo.

Come ogni impresa, una mafia ha un modello economico: una strategia e risorse volte a farli guadagnare più soldi possibile. Come molti conglomerati legali, ad esempio Bouygues, che guadagna attraverso varie attività di costruzione, telefonia e televisione, una mafia è un'azienda diversificata. Il suo modello di business è semplice: monetizzare il crimine attraverso un dittico traffico-predazione. 

La prima attività che sviluppa una mafia è vendere il proibito a quanti più clienti possibile, attraverso più traffici. Quando Amazon o Carrefour vendono l'accesso immediato a milioni di prodotti alimentari o tecnologici ai consumatori di tutto il mondo, la camorra, gli yakuza o i cartelli messicani vendono loro la soddisfazione di vari vizi: consumo di droga, sesso con prostitute di ogni genere ed età, giochi clandestini, detenzione di prodotti contraffatti...

Ma, oltre a vendere, una mafia ruba. Su scala industriale. L'altra grande attività mafiosa è la predazione dell'economia legale, attuata attraverso una moltitudine di tecniche di caccia. Le organizzazioni italiane o la yakuza estorcono qualsiasi società legale operante sul loro territorio, imponendo loro fornitori, o estraendo il loro fatturato da appalti pubblici aggiudicati da leader politici acquistati. Dallo shampoo alla medicina, le triadi cinesi sono esperte nella contraffazione di miliardi di prodotti di società legali. In Nigeria, la criminalità organizzata locale rende tutto più semplice: ruba a Shell, Chevron e Agip il 20% della produzione di petrolio del sesto esportatore dell'OPEC, raffinato e rivenduto in Africa, Asia ed Europa... 

Una gamma di strutture

il commercio illecito genera profitti inimmaginabili nell'economia legale: quasi il 4.000% dalla cocaina venduta in Europa dai cartelli messicani, più del 100.000% dai riscatti pagati dai loro bersagli a gruppi di hacker specializzati in cyberextortion di multinazionali… 

«Qui tutto è strutturato tra clan specifici, con due persone al vertice di tutti», spiega il capostipite di una potente famiglia della Sacra Corona Unita, sulla terrazza di un ristorante di Brindisi, epicentro della quarta mafia italiana (Puglia). L'applicazione di un modello economico così redditizio si basa sempre su una struttura precisa. Come nell'economia legale, nell'organizzazione economica delle mafie convivono due modelli principali.

Molte organizzazioni criminali sono strutturate in modo piramidale, come L'Oréal o Microsoft, con un consiglio di amministrazione alla testa, come la kupola delle mafie albanesi o il "comitato degli ufficiali" delle triadi cinesi. Poi vengono le unità di business e i mercati: le 'carriere' del PCC con a capo un 'finale', un vero e proprio direttore delle operazioni, o i locali (piazze) della 'Ndrangheta, con a capo un capo locale. Diverse direzioni funzionali completano questa organizzazione a matrice, come i consiglieri, braccio destro dei capi delle famiglie americane di Cosa-Nostra, il Libro negro (libro nero) dei clan PCC, responsabili dell'arbitrato dei mercati e dei conflitti finanziari, o il "fan del white paper", il vero direttore amministrativo e finanziario di una triade cinese. 

Buona gestione delle risorse umane

Alcune organizzazioni criminali hanno una struttura ancora più flessibile, come i gruppi di criminali informatici, ma anche alcune mafie più antiche, come la camorra. Una federazione di più famiglie mafiose operanti su tutto il territorio napoletano, ma anche in Bulgaria, Romania, Germania, Polonia, Albania, Spagna, Brasile e Colombia, questa mafia non ha un'unica direzione centrale. Tutti i suoi clan, tuttavia, sono uniti dal loro territorio e dagli accordi commerciali che fanno tra loro per importare e distribuire le tonnellate di cocaina, eroina, metanfetamine e marijuana che vendono nei rispettivi mercati.

«L'anno scorso ho perso cinque uomini. Ma ci sono sempre nuovi arrivati che vogliono far parte del cartello». Kalashnikov alla mano, circondato da una dozzina dei suoi uomini armati, questo leader di settore del cartello di Sinaloa sa che per portare avanti un'impresa, servono prima di tutto gli uomini. Attratti da redditi spesso fuori portata per loro nell'economia legale, i candidati mafiosi non mancano. 

Resta da selezionarli: «Passiamo i giovani al “pettine dei pidocchi”, una selezione serrata, effettuata dagli anziani negli anni, nelle carceri e per strada. E manteniamo quelli buoni. Quelli che sono violenti, ma anche calmi e intelligenti. Altrimenti, il PCC sarebbe pieno di milioni di idioti», spiega il quadro di questa organizzazione a San Paolo. Una volta reclutato, il membro di una mafia obbedisce a una gerarchia più o meno elaborata, ma sempre rigida, e i suoi progressi possono essere lunghi.

Occorrono quindi diversi anni prima che uno yakuza si sottragga allo status di jun-kosei-in (apprendista) e salga i sei strati gerarchici di un clan, con una minima possibilità di diventare kumicho (capofamiglia). Ma un'azienda mafiosa sa premiare e trattenere la propria forza lavoro: in una piazza di Napoli (luogo dove si vende la droga) gli stipendi di un camorrista variano da 2.000 euro al mese per un giovane spacciatore di cannabis a 5.000 euro per un spacciatore di cocaina, e fino a 200.000 euro per chi riesce a diventare market manager: una scala salariale paragonabile a quella dei trader che operano nelle trading room delle grandi banche di investimento a Londra, Singapore o New York…

Il marketing è un'abilità chiave per chiunque voglia entrare in un'organizzazione criminale. Aprendo WhatsApp, il venditore del cartello di Sinaloa riproduce un messaggio inviato da uno dei suoi grandi acquirenti di cocaina europei sui suoi distributori locali: «Sai il cristallo (una metanfetamina molto forte), conosco molte persone che vorrebbero testarlo. Hanno un punto vendita. Sono anche pronti a offrirlo ai tossicodipendenti per due, tre giorni o una settimana in modo che diventino dipendenti». 

Se può vendere prodotti pericolosi nei propri territori, una mafia si preoccupa soprattutto di essere accettata il più possibile dalla popolazione ivi presente, dispiegandovi quanto prima una forma di responsabilità sociale e ambientale, alla maniera delle mafie Brasiliane che distribuirono mascherine e cestini alimentari alle popolazioni delle favelas durante la prima ondata di Covid-19.

Qualsiasi mafia padroneggia un altro tipo di gestione essenziale per il successo di un'azienda: la gestione della filiera (supply chain). «Bisogna acquistare direttamente dai produttori colombiani, e vendere in Europa con il minor numero di intermediari possibile, altrimenti si perdono soldi», spiega il "narco" del cartello. 

Produzione – trasformazione – esportazione – vendita: per spostarsi dal sud della Colombia ai porti di Rotterdam o Genova, le centinaia di tonnellate di cocaina vendute nel mondo dai cartelli messicani seguono lo stesso tipo di catena economica e logistica di una cassa di banane o di un contenitore di componenti elettronici.

Infine, una mafia non può sopravvivere senza implementare costantemente tecniche finanziarie e legali avanzate. E questo perché ha la necessità essenziale di trasformare le tonnellate di denaro da criminalità che il suo traffico genera in denaro pronto per essere investito nell'economia legale: nelle aziende o sui mercati finanziari. 

Il riciclaggio di denaro consente a una mafia di trarre profitto dal denaro dei suoi crimini. Iniettato nelle casse delle imprese legali, depositato in migliaia di conti correnti bancari, trasferito da centinaia di agenzie di trasferimento di denaro o convertito in criptovalute, il contante di una rete criminale si trasforma progressivamente in file di scritture sui conti bancari di società iscritte in territori mafiosi, ma anche in galassie di trust e dozzine di paradisi bancari. Una volta fuori dalla portata del radar giudiziario, il denaro della criminalità colonizza massicciamente l'economia legale dei territori mafiosi.

Società di costruzione o trattamento rifiuti, catene alberghiere, terreni agricoli, società di trasporto, parchi eolici, società di calcio, società di investimento finanziario, pesca, società immobiliari: una mafia possiede una moltitudine di società legali, che può utilizzare per i suoi rapporti, ma che gestisce soprattutto da buon padre. Ogni anno la giustizia italiana sequestra diversi miliardi di euro di beni legali detenuti dalle quattro mafie del Paese...

Corruzione e violenza

In questa fase finale, la mafia non copia il business legale: è un business legale. È quindi fondamentale non dimenticare l'origine criminale del suo capitale, che due strumenti essenziali gli hanno inizialmente consentito di accumulare.

Prima la corruzione sistematica. «È fondamentale pagare i militari dell'intera regione in cui lavoriamo, altrimenti non saremmo in grado di estrarre un litro di greggio e non ci sarebbero affari possibili!», spiega questo boss del traffico petrolifero nel Golfo di Guinea. Dalla Nigeria alla Cina, dalla Francia al Messico, una mafia deve sempre cercare di anestetizzare le autorità pubbliche che la combattono. 

Violenza, spesso estrema: questa è l'altra leva che una mafia attiva sempre per guadagnare i soldi che poi investe nelle sue imprese. Alla domanda sul numero di persone da lui stesso giustiziate, il Capo Settore del Cartello di Sinaloa risponde con voce pacata: «Non ho mai contato, ma più di cento». È qui che finisce il parallelo tra mafia e affari legali.

Ventinove anni fa la strage di via dei Georgofili a Firenze. Cosa c’è oltre Cosa nostra. La strategia delle bombe al Nord, le connessioni con il quadro politico in evoluzione, l’ondata di attentati, le trattative sotterranee tra boss e istituzioni, nel racconto del pm che da Caltanissetta alla Toscana ha scandagliato i misteri di quella stagione. Luca Tescaroli, procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze, su L'Espresso il 26 Maggio 2022.

L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva degli attentati del biennio 93-94 è stato fornito dall’analisi dei tabulati delle utenze telefoniche. La verifica dei contatti intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato di via dei Georgofili faceva emergere, infatti, che un cellulare - dopo un lungo periodo di inattività dello stesso (dal 30 marzo 1993 al 25 maggio 1993) - si era acceso ventiquattro ore prima dell’esplosione, alle ore 1,04 del 26 maggio 1993, effettuando una chiamata in uscita. Era quello in uso a Gaspare Spatuzza. Il suo cellulare risultava costantemente presente sotto determinati ponti radio in coincidenza del periodo interessato dalle stragi di Firenze, di Roma e di Milano. Il monitoraggio del traffico telefonico consentiva, altresì, di individuare la persona che aveva trasportato l’esplosivo servito per le stragi nelle tre città: Pietro Carra, nonché di ipotizzare il coinvolgimento nell’esecuzione delle stesse di Luigi Giacalone e di Cosimo Lo Nigro.

Le indagini condotte dalla Procura di Roma consentivano di identificare Antonio Scarano quale custode dell’esplosivo utilizzato per gli attentati nella capitale.

Fin dall’inizio emergeva un collegamento fra gli attentati di Roma, Firenze e Milano, successivamente ricondotti a una matrice unitaria e, nell’autunno del 1994, le indagini venivano riunite presso la Procura Distrettuale di Firenze, essendo la strage di via dei Georgofili il reato più grave, commesso per primo in ordine di tempo.

La svolta nelle investigazioni arrivava, nell’agosto 1995, con la decisione di collaborare con la giustizia dell’autotrasportatore Pietro Carra e, nel gennaio 1996, del basista romano Antonio Scarano, il quale forniva indicazioni utili sulla scelta degli obiettivi da colpire nelle tre città, riferendo di aver effettuato vari sopralluoghi insieme a Spatuzza e di essersi recato con lui nei luoghi delle città di Firenze e Roma dove le stragi si sono verificate.

Nei confronti dei responsabili condannati in via definitiva per gli episodi stragisti del biennio 1993-1994 sono state acquisite prove pesanti come macigni - in parte significativa costituite dalle confessioni e dalle accuse severamente verificate di undici esecutori dei delitti e, comunque, di partecipi agli stessi: Pietro Carra, Antonio Scarano, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Emanuele Di Natale, Umberto Maniscalco, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Brusca e, da ultimo, Gaspare Spatuzza. Quando, nel 2008, quest’ultimo iniziava a collaborare, il primo processo nei confronti di Leoluca Bagarella e di altri 22 imputati era già stato definito e il suo contributo consentiva di riaprire le indagini su Francesco Tagliavia, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, e nei confronti dei fratelli Formoso.

Inoltre, va annoverato l'apporto di Vincenzo Sinacori, che fu coinvolto nella prima fase della strategia stragista, agli inizi del 1992, allorché, unitamente a un commando operativo, si era trasferito a Roma con l'obiettivo di individuare e colpire Giovanni Falcone e Maurizio Costanzo.

Le loro dichiarazioni, unitamente all’apporto di altri collaboratori di giustizia, e i significativi riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire, sia pur con un grado diverso di completezza, la fase preparatoria ed esecutiva, nonché di individuare alcuni mandanti intranei a cosa nostra e di giungere alla condanna con sentenza definitiva - a seguito di un triplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2002, del 18 gennaio 2016 e del 20 febbraio 2017) - di trentaquattro imputati, fra i quali, mafiosi di rango, per aver ideato, deliberato e partecipato alle stragi - e di due imputati per favoreggiamento , una verità che ha resistito ai tentativi di depistaggio.

La fase esecutiva dei sette episodi stragisti ha visto il ruolo centrale dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e, in particolare, di Giuseppe Graviano. Questi, infatti, oltre ad aver contribuito a ideare e a deliberare la strategia stragista è stato il più determinato, dopo l'arresto di Salvatore Riina del 15 gennaio 1993, nel voler proseguire la campagna stragista, insieme a Matteo Messina Denaro, con il quale ha vissuto in clandestinità durante il 1993, e a Leoluca Bagarella. Da latitante, ha diretto e organizzato le fasi preparatorie ed esecutive degli episodi stragisti, con l'impiego di numerosi uomini d'onore del proprio mandamento (e, segnatamente, delle famiglie di Brancaccio, di Corso dei Mille e di Roccella, che ne fanno parte, dunque legati da obblighi di fedeltà e di subordinazione) e, comunque, di soggetti allo stesso strettamente legati. Si tratta dei seguenti diciotto imputati condannati in via definitiva (vale a dire oltre la metà dei responsabili individuati), per tutti gli episodi stragisti, con le limitazioni e precisazioni specificate con riferimento a ciascuno:

1. Francesco Tagliavia, capo famiglia di Corso dei Mille (riconosciuto mandante della strage di Firenze), Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, inseriti nella medesima famiglia;

2. Antonino Mangano (capo della famiglia di Roccella), Salvatore Grigoli (uomo d'onore della famiglia di Roccella);

3. Cristofaro Cannella (riconosciuto esecutore delle stragi di via Fauro e di Firenze), Luigi Giacalone (esecutore di tutte le stragi, esclusa quella di Firenze), Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo (riconosciuto esecutore delle sole stragi di Firenze e Formello) e Vittorio Tutino (riconosciuto esecutore della strage di Formello), tutti uomini d'onore della famiglia di Brancaccio);

4. Cosimo D'Amato (cugino di Lo Nigro), Pietro Carra (autotrasportatore che curava il trasporto degli esplosivi a Prato, a Roma e ad Arluno - paese poco a Nord di Milano - gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), Pietro Romeo (riconosciuto responsabile della strage di Formello), Gaspare Spatuzza (non uomo d'onore al momento dell'esecuzione delle stragi, che in seguito all'arresto dei Graviano, avvenuto il 27 gennaio 1994, ha ricoperto anche un ruolo di comando in seno al mandamento di Brancaccio);

5. Giovanni e Tommaso Formoso “uomini d’onore” di Misilmeri, rientrante nel mandamento di Belmonte Mezzagno, riconosciuti esecutori della strage di Milano;

6. Antonio Scarano , il quale, dopo aver lavorato in Germania per circa 12 anni ed essere tornato in Italia nel 1973, stabilendosi a Roma, prima a Centocelle, poi a Torremaura, tra l'altro, accompagnava Gaspare Spatuzza in via Veneto a Roma, al bar Doney, il 18 gennaio 1994, ove quest'ultimo incontrava Giuseppe Graviano, che gli dava l'input per eseguire l'attentato allo stadio Olimpico in via dei Gladiatori e, nella circostanza, gli riferiva: grazie a soggetti detentori di potere si erano presi il paese nelle mani.

Giuseppe Graviano, nell'interesse di Cosa nostra, ha rappresentato il cuore pulsante dello stragismo, contribuendo a elaborare le finalità e dosandone correlativamente le tempistiche di esecuzione (in particolare, quella dell'attentato allo stadio Olimpico eseguito il 23 gennaio 1994), e lo stesso ha trascorso parte della sua latitanza al Nord e, segnatamente, a Milano, ove veniva arrestato il 27 gennaio 1994.

Con riguardo alla strage di via dei Georgofili, che commemoriamo, sono state ricostruite le attività pianificate e attuate afferenti: alle modalità di acquisizione dell’esplosivo (in larga misura tritolo proveniente da ordigni bellici); al confezionamento della carica e alle modalità di collocazione della stessa nel Fiorino e a come è stato armato l’ordigno (si è praticato un foro nei fianchi dove veniva inserito il detonatore); al collocamento del furgone sull’obiettivo prescelto da parte di Francesco Giuliano e di Cosimo Lo Nigro; il peso (250 Kg con un margine di oscillazione del 15-20%) e l’innescamento della carica e la composizione della stessa.

La strage di via dei Georgofili si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, ideato nell’autunno del 1991, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: “bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace”, riportate da Filippo Malvagna, che rappresentano un ragionamento politico. A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 e del conseguente insuccesso dei tentativi di condizionarne l’esito, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) e plurimi omicidi , i vertici del sodalizio hanno voluto fare una guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare, in un periodo di sfaldamento dei partiti di governo, falcidiati dalle indagini su Tangentopoli. E ciò al fine di creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento (ottenere vantaggi sul terreno carcerario - l’abolizione del carcere duro di cui all’art. 41 bis O. P. e dell’ergastolo - su quello del pentitismo e del sequestro dei beni) e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti nel quadro di più trattative avviate da esponenti delle istituzioni o da loro emissari con appartenenti a cosa nostra.

L’ondata stragista tesa a colpire il patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione prese le mosse da un’azione minatoria: la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli, annessi a palazzo Pitti, a Firenze, in epoca prossima al 5 ottobre 1992.

Il via libera alla nuova stagione delle stragi veniva deciso in una calda giornata di aprile del 1993, il 1 aprile, nel villino di Giuseppe Vasile a Santa Flavia, ove si teneva una riunione operativa, nel corso della quale tre boss di vertice di cosa nostra (Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano) ragionavano di bombe. Obiettivi insoliti venivano colpiti rispetto al tradizionale modo di operare di cosa nostra.

Sette stragi, che indussero il premier Carlo Azeglio Ciampi a dire di “aver temuto un colpo di Stato”, eseguite nel territorio italiano nell’arco di quattordici mesi, dal 23 maggio 1992 al 28 luglio ’93 (il riferimento è alle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio; all’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; alla strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; alle stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro. Una strage ulteriore allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 94, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non verificatasi per un malfunzionamento del telecomando.

Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Vanno ricordati i seguenti a titolo esemplificativo.

Come mai Paolo Bellini s’incontrò con Antonino Gioè, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci (alla quale contribuì attivamente) e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa?

Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite.

Cosa è accaduto in via Palestro dopo il 23 luglio 1993, allorché Spatuzza lasciava Milano e si recava a Roma? Da chi e come è stata trasportata la Fiat Uno in via Palestro?

Perché tutti gli episodi stragisti menzionati (tranne quello di via Palestro) sono stati rivendicati con la sigla Falange Armata?

E, più in generale, non sono state individuate compiutamente le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, nella quale fu eseguita quella di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani) e non si conosce il perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico. Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali . Il che induce a chiedersi come sia possibile che lo stragista Matteo Messina Denaro continui a essere latitante dopo un trentennio, nonostante le investigazioni volte a catturarlo? Una permanenza in libertà che non consente di ritenere finita l’era dei corleonesi, tanto più che sono stati pianificati attentati nei confronti di rappresentanti delle istituzioni in anni recenti.

Se il nostro sistema normativo si è rivelato estremamente efficace e sofisticato, come riconosciuto in ogni sede internazionale, consentendo un’azione di contrasto funzionale a raffreddare l’agire d’impronta stragista e a contrastare l’evoluzione dell’agire delle varie strutture mafiose radicate nel nostro Paese, è un dato di fatto che, dal 2008, le collaborazioni qualitativamente significative in seno a cosa nostra si sono inaridite e nessuno dei condannati per le stragi del triennio 92-94 ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell'ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale, lavoro esterno al carcere, semilibertà), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale, tant’è che alcuni di loro hanno concretamente ottenuto permessi da fruire fuori dal carcere. Ciò che oggi è importante è evitare che gli uomini d'onore percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione con la giustizia, che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni pervase da retorica celebrativa. In questa prospettiva diventa importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza degli uomini di vertice dell’organizzazione e di chi è a conoscenza di quanto è accaduto in quegli anni, potenziando l'efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto o di percepire gli assegni pensionistici come per tutti gli altri cittadini senza ingiustificati ritardi, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato, colmando il vuoto normativo che deriverà dall’ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo se il Parlamento non interverrà nel termine stabilito, tenendo presente che vi mafiosi stragisti, anche detenuti, che continuano a coltivare propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni.

A distanza di 29 anni dalla strage di via dei Georgofili se possiamo ritenere di avere accertato, con il pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte davvero significativa della verità attorno a quel delitto, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca della stessa, nel rigido rispetto del segreto investigativo, evitando cedimenti e cercando di impedire l’erosione degli strumenti di contrasto che i vertici di cosa nostra volevano far eliminare ricattando lo Stato con il tritolo. Un tributo che si deve al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti. È importante non dimenticare mai ciò che è accaduto e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere cosa nostra e le altre strutture mafiose, per non essere costretti a rivivere quel tragico passato. L’autore è procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Roberto Saviano: il sacrificio di Falcone e la sua lezione, la mafia è finanziaria più che sanguinaria. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 23 Maggio 2022. 

Fu lui a mostrare una criminalità finanziaria prima che sanguinaria. Perché gran parte della politica europea ignora il problema? 

Nelle comunicazioni via radio lo chiamano «il magistrato con la foxtrot iniziale», dando soltanto la prima lettera del cognome per non rivelare a eventuali orecchie indiscrete che è lui, Giovanni Falcone, l’uomo che giace in fin di vita all’interno della Croma bianca sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci. Di fianco, sul sedile del passeggero, c’è Francesca Morvillo. Anche lei è in fin di vita. E anche lei, per prudenza, viene descritta alla radio come «la moglie della nota personalità». Il suo orologio è fermo alle 17 e 58 minuti, il momento esatto in cui il tritolo nascosto sotto l’autostrada è esploso e tutto si è trasformato in un inferno di lamiera, terra e corpi martoriati. I tre agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonio Montinaro sono morti sul colpo. Gli altri sono malconci, ma vivi e in piedi. Oggi, 23 maggio 1992, tutti le edizioni speciali dei tg parlano dell’assassinio di Falcone e della sua lotta contro la mafia. Anche oggi, 23 maggio 2022, trent’anni dopo, parliamo di questo. Parliamo di Falcone, di Francesca Morvillo, degli agenti Dicillo, Schifani e Montinaro. E parliamo di mafia. È questa la drammatica sponda che ci viene offerta: questo sciagurato ricordo di sangue. Lo facciamo noi e lo fanno molti altri. Ed è un bene, perché altrimenti, se non si trattasse di commemorare una fra le più alte personalità che questo Paese abbia mai espresso in fatto d’impegno contro la criminalità organizzata — se non si trattasse di affogare ancora una volta il nostro ricordo nel sangue, di rievocare la sciagura perché serva da monito e da sprone — allora non lo farebbe nessuno. Certamente non lo farebbe la politica.

Il tema scomparso

Il tema della mafia sembra scomparso dall’agenda di governo, dai dibattiti dell’opposizione. Sembra che la mafia, le mafie, siano scomparse. Ma è esattamente il contrario. E tristemente ironico che il primo a mostrarci una mafia finanziaria, prima ancora che sanguinaria, fu proprio Falcone. Fu lui il primo a parlare di una mafia che ancora più delle pistole fa parlare i consulenti finanziari. In larga parte dematerializzata, ma non per questo meno forte. Tutt’altro. Oggi mafia non vuol dire soltanto estorsioni, minacce, omicidi, droga. Oggi mafia vuol dire aziende svuotate e ripopolate per riciclare denaro, imprenditori sconfitti da una concorrenza invincibile perché basata sui profitti illeciti, grandi opere realizzate al risparmio sulla pelle dei cittadini. Se ieri, parlando di mafia, potevamo pensare a un coltello affondato dentro la carne della società, oggi dobbiamo pensare a un virus, a una pestilenza silenziosa che sfugge all’occhio ma ammorba la società, abbassando drasticamente la qualità della vita di ognuno. Questo mi ha insegnato Falcone, questo ha insegnato a tutti noi. Anche ai nostri politici. E allora perché gran parte della politica europea — non tutta, per fortuna — ignora il problema? Forse l’ha dimenticato? Forse crede davvero, ingenuamente, che la mafia sia stata debellata o che sia stata messa all’angolo? Ho il timore che l’intervista rilasciata nel luglio dell’88 da Paolo Borsellino ad Attilio Bolzoni e Saverio Lodato in cui parlava di smobilitazione dell’antimafia sia ancora attualissima.

La delegittimazione

Altro argomento ancora oggi attualissimo è quello della delegittimazione. E anche questo, per sua disgrazia, ce lo mostrò Falcone. Se i mafiosi affrontano i giudici con le pistole, i politici, i giornalisti a loro vicini, talvolta perfino i colleghi magistrati, li affrontano con lo strumento della delegittimazione creando le condizioni di cui parlava il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, da neo-prefetto di Palermo, poco prima di essere ammazzato: il personaggio pubblico viene eliminato «quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma lo si può uccidere perché è isolato». Si attacca un magistrato nel personale, si scava nella sua vita familiare, gli si nega un incarico che potrebbe ufficializzarne il prestigio, lo si rende un emarginato. Tutto questo spalanca cancelli alle mafie, disegna un bersaglio sulla schiena di un uomo. Che poi a sparare siano altri, è quasi superfluo. Quando il 21 giugno del 1989, sulla scogliera dell’Addaura davanti alla casa di villeggiatura di Falcone, venne ritrovato un borsone pieno di esplosivo, alcuni insinuarono che ce l’avesse messo lui. Che fosse un tentativo per attirare l’attenzione su di sé con l’obiettivo di essere nominato procuratore aggiunto. Falcone si era già candidato, dopo la partenza di Antonino Caponnetto, come capo dell’ufficio istruzione di Palermo, cioè come guida del pool antimafia costruito da Rocco Chinnici e istituzionalizzato da Caponnetto di cui era stato indiscusso protagonista fino a quel momento e di cui, secondo lo stesso Caponnetto, avrebbe dovuto custodire l’eredità. Ma fu bocciato. Il Csm gli preferì il collega Antonino Meli, più anziano di lui ma con un’esperienza nei processi alla mafia imparagonabile a quella di Falcone. Quando la Cassazione ha emesso la propria sentenza sul fallito attentato dell’Addaura, ha detto che «Giovanni Falcone fu sottoposto a un infame linciaggio (…) diretto a stroncare per sempre, con vili e spregevoli accuse, la reputazione e il decoro personale del valoroso magistrato». Scrivono i giudici: «Non vi è, invero, alcun dubbio che Giovanni Falcone — certamente il più capace magistrato italiano — fu oggetto di torbidi giochi di potere, di strumentalizzazione ad opera della partitocrazia, di meschini sentimenti di invidia e di gelosia (anche all’interno delle stesse istituzioni), tendenti ad impedirgli che egli assumesse quei prestigiosi incarichi i quali dovevano, invece, a lui essere conferiti sia per essere egli il più meritevole sia perché il superiore interesse generale imponeva che il crimine organizzato fosse contrastato da chi si era indiscutibilmente dimostrato il più bravo e il più preparato e che offriva le maggiori garanzie — anche di assoluta indipendenza e di coraggio — nel contrastare, con efficienza e in profondità, l’associazione criminale». Anche la sentenza di primo grado diceva chiaramente: «Sono emersi con drammatica evidenza i perversi giochi di potere realizzati contro le legittime aspettative di Giovanni Falcone». Infame linciaggio, spregevoli accuse, torbidi giochi di potere. Potevano, coloro che firmavano articoli contro Falcone, non sapere che lo stavano esponendo?

Il «Corvo»

Le drammaticamente celebri lettere firmate «il Corvo», che provenivano dall’interno del tribunale e che, fingendo di svelare da dietro le quinte i piani di Falcone lo infangavano, avevano la volontà di agevolare l’attentato di Cosa Nostra? Probabilmente no, volevano solo annullarne la reputazione per sabotarne la carriera, assassinarlo civilmente — quello che spesso fa il giornalismo-fango — ma lasciarlo in vita fisicamente. Però, proprio come rileva la Cassazione, è indubbio che le «vili e spregevoli accuse» o l’«infame linciaggio» — o, semplicemente, la negazione di un riconoscimento ufficiale — abbiano mandato alla cosca un messaggio molto chiaro: «Quest’uomo per noi è poco importante». È possibile che all’epoca i responsabili di questi attacchi non ne fossero consapevoli? Be’… Teoricamente è possibile anche se difficile da credere. È possibile che ancora oggi, chi veste quegli stessi panni — fra politici, giornalisti, colleghi di opposte correnti — ignori le conseguenze delle proprie azioni? No. Oggi non è più possibile. Come non è scusabile che le mafie sembrino una questione ormai risolta. Che sembrino svanite. A svanire invece è stato solo l’argomento mafie dal dibattito politico, dal dibattito pubblico.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 22 maggio 2022.

Giovanni Falcone spiegò per la prima volta che cos' era la Mafia - anzi: Cosa Nostra - e ne portò i vertici a un "Maxiprocesso" che le assestò un primo colpo durissimo, dopodiché il magistrato, pur ostracizzato, creò tutti gli strumenti per sconfiggerla, come accadde entro la fine degli Anni Novanta: una dissoluzione con terribili colpi di coda a cui Falcone non potè assistere, perché fu ammazzato il 23 maggio 1993, che fan trent' anni domani. 

Era arrivato a Palermo nel 1978 e Cosa Nostra ai tempi era chiamata genericamente «mafia», concetto inafferrabile anche se intanto giudici, segretari politici, generali e poliziotti cadevano assassinati.

Falcone divenne quel che era: aveva individuato i filoni economici e di riciclaggio come strumento per risalire ai vertici di Cosa Nostra, e la sua testarda convinzione (che oggi pare ovvia) era che il denaro finisce sempre per lasciare qualche segno del suo passaggio.

Aveva focalizzato una nuova mafia imprenditrice capace di inserirsi in ogni anfratto offerto dallo sviluppo economico e aveva insegnato a fare le indagini secondo il motto «follow the money». Aveva capito che la vecchia mafia aveva archiviato la lupara e si era confusa con la società civile. I figli dei capi-cosca non ereditavano il prestigio mafioso, ma soldi da continuare a investire. Alla fine degli anni Ottanta oltre il 10 per cento del prodotto interno lordo era frutto di attività criminose, e la mafia, i suoi nemici, li uccideva.

Ma c'era chi sosteneva ancora che la mafia non esistesse: che poi era la verità, visto che il nome dell'organizzazione - lo spiegò Tommaso Buscetta- era solo «Cosa Nostra», mentre «mafia» era un'invenzione giornalistica.

Non si conosceva neppure l'esistenza dei Corleonesi (o Greco-Corleonesi) che ormai rappresentavano il cuore dell'organizzazione; gli apparati dello Stato erano fermi all'esistenza delle cinque grandi famiglie occidentali (Gambino-Bontade-Spatola-Inzerillo-Badalamenti) che dominavano i mercati illeciti e i rapporti col mondo politico: si riteneva pure che queste famiglie fossero le sole responsabili degli omicidi di autorità pubbliche e che il loro declino fosse legato a un semplice cambio generazionale. Ma era tutto sbagliato.

La battaglia di Falcone era cominciata nel 1983 con l'arresto in Brasile del mafioso Tommaso Buscetta. Il giudice volò oltreoceano e mise le basi per farlo collaborare: cominciò a farlo il 15 luglio 1984, nello scetticismo generale, quando Buscetta fu estradato in Italia e iniziò a raccontare al giudice quello che sapeva- moltissimo- sulle regole di Cosa nostra e sui mandanti ed esecutori di vari omicidi. Buscetta non era un boss: era un «soldato» carismatico e rispettato che aveva in rigetto i metodi crudeli dei corleonesi.

Da quasi dieci anni - spiegò Buscetta- i Corleonesi deviavano le indagini sulle altre famiglie e sovvertivano ogni vecchia regola senza rispettare le sovranità territoriali: i loro contatti altolocati intanto permettevano loro di vivere da cittadini rispettabili mentre le forze di polizia davano la caccia ai loro avversari perdenti. Falcone fece oltre 2600 riscontri delle dichiarazioni di Buscetta e fece luce su 120 omicidi: fu allora che gli balenò la folle idea di processare l'intero gotha di Cosa Nostra, come neppure i suoi amici e collaboratori ritenevano possibile.

Cominciò a raccogliere anche le dichiarazioni del mafioso Salvatore Contorno che si incrociarono perfettamente con quelle di Buscetta. 

Nacque un pool antimafia composto da Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta a Giuseppe Di Lello, coadiuvati da Giuseppe Ayala, intenti a incanalare tutte le indagini nel rapporto «Michele Greco + 161» e poi nel gigantesco Maxiprocesso.

I corleonesi non restarono a guardare: ammazzarono il commissario Giuseppe Montana e il vicequestore Ninnì Cassarà. Poi, con preavviso di due giorni, Falcone e Borsellino furono trasferiti con le famiglie nella foresteria del carcere dell'Asinara in compagnia delle 499mila pagine di atti che dovevano trasformare nel rinvio a giudizio contro i 476 indagati del Maxiprocesso; un periodo, quello all'Asinara, che passerà alla cronaca anche perché si ebbe il fegato di chiedere ai due magistrati un rimborso per il soggiorno blindato nell'isola: diecimila lire al giorno più i pasti, conto finale 415mila lire.

Il Maxiprocesso era pronto. Giudice a latere: Pietro Grasso, futuro presidente del Senato. In pochi mesi era stata costruita la gigantesca aula bunker che a tutt' oggi affianca il carcere dell'Ucciardone. I reati ipotizzati contemplavano omicidi, stragi, traffici di droga, estorsioni e associazioni mafiose. 

Giudici e funzionari tra i più coraggiosi e capaci condussero quel Maxiprocesso lungo binari formalmente più che accettabili proprio perché un precario rispetto delle garanzie poteva rappresentare un tallone d'Achille: ma a fare la differenza sarà proprio l'accuratezza dei magistrati nel dribblare le trappole dilatorie disseminate nel dibattimento, questo, peraltro, adottando un Codice di procedura assai più farraginoso e garantista rispetto a quello che la giurisprudenza «rivoluzionaria» (da Mani pulite in poi) avrebbe progressivamente stravolto. Si era distanti da quella disinvoltura legislativa che le corti europee ci contesteranno regolarmente: non esisteva ancora l'articolo 41bis (il detto carcere duro) e il «concorso esterno in associazione mafiosa». 

Il processo fu vinto grazie a migliaia di testimonianze e di riscontri concessi dal vecchio Codice Rocco: senza leggi speciali e solo grazie al coraggio e all'intelligenza e all'olio di gomito di magistrati eccezionali. Non c'erano neanche computer: altro che droni e software trojan. 

Un processo così incredibile non si sarebbe visto mai più: 349 udienze, 1314 interrogatori, 4 giudici togati, 16 giudici popolari, 2 pubblici ministeri, 500 giornalisti da tutto il mondo, 475 imputati di cui 208 detenuti in trenta gabbie, 44 agli arresti domiciliari, 102 a piede libero, 121 latitanti, circa 200 avvocati che pronunceranno 635 arringhe difensive, centinaia agenti di polizia e carabinieri, le tribune stipate di pubblico. A ciò si aggiunse l'inaspettato ingresso, il 20 febbraio, del capo della Cupola Michele Greco, appena catturato.

Cosa Nostra - fu l'assioma -era una società segreta costituita da una «Commissione» di vertice che decideva secondo regole non scritte ma note a tutti. La Commissione decideva gli omicidi: farne parte comportava una responsabilità penale. La sentenza di primo grado del 16 dicembre 1987 comminò 19 ergastoli, 2665 anni di carcere, 346 condannati, 114 assolti e 11 miliardi di lire di pene pecuniarie. Una mazzata. 

Sembrò impossibile. Il giudice Grasso, da solo, in nove mesi scrisse le 7000 pagine delle motivazioni della sentenza. 

La mafia non la prese bene. Il giudice designato per il processo d'Appello fu crivellato da 47 colpi di pistola assieme al figlio disabile, e a sostituirlo fu Alfonso Palmegiano. Le accuse furono rafforzate dalle testimonianze di due nuovi pentiti e c'era da ben sperare, ma nella sentenza d'Appello del 10 dicembre 1990 gli ergastoli passarono da 19 a 12 e le pene detentive furono ridotte di più di un terzo. Fu anche indebolita la funzione verticistica e unitaria della Cupola. Ora restava la Cassazione.

Il primo presidente della Corte, Antonio Brancaccio, era stato sollecitato dal pidiessino Luciano Violante e da guardasigilli Claudio Martelli affinché introducesse un criterio di rotazione tra le sezioni che giudicavano i processi di mafia: era l'unico modo per evitare che anche il Maxiprocesso finisse nelle mani del giudice Corrado Carnevale, andreottiano e dominus assoluto della prima sezione, un primo della classe, il presidente più giovane nella storia della Suprema corte, primo a ogni concorso, instancabile cultore di codici e codicilli, un siciliano che non aveva fatto mistero di non credere alla «Cupola» come centro unificato criminale e di non credere a Buscetta e ai maxiprocessi.

Con gran fatica si riuscì a designare il giudice Antonio Scopelliti, sostituto procuratore generale della Cassazione. In attesa della prima udienza, il magistrato trascorse le vacanze nella natìa Campo Calabro, in provincia di Reggio Calabria: ma mentre tornava dal mare la sua Bmw sbandò e finì in un terrapieno: morto sul colpo. Più tardi si accorsero che gli avevano sparato con dei fucili a pallettoni. Alla fine il prescelto fu Arnaldo Valente detto «Papillon», 64 anni, avellinese con fama di magistrato autonomo ma imprevedibile, ritenuto pure lui rispettoso delle procedure fino al cavillo.

Lui non lo ammazzarono, e non solo: il 30 gennaio 1992 confermò le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla Cupola: ergastoli come se piovesse. Nessun adepto o capo di Cosa Nostra era mai stato condannato con «fine pena mai». 

Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. Falcone aveva le ore contate, e non era il solo.

Ilda Boccassini, gaffe agghiacciante: "Non ha mai ammazzato giudici". Libero Quotidiano il 05 luglio 2022

Uno scivolone difficilmente perdonabile quello commesso da Ilda Boccassini. Ospite del festival antimafia in Calabria, l'ex magistrato oggi in pensione si è lasciata andare a un'ammissione a dir poco spiazzante: "La ndrangheta una cosa buona l'ha fatta (sic!) non ha mai ammazzato un magistrato". Una frase seguita da un lungo silenzio, visto che nessuno ha osato contraddirla. Peccato però che l'affermazione sia completamente falsa. Basta ricordare Francesco Ferlaino, zio dell'ex presidente del Napoli. Sicari mai identificati - come ricorda Il Giornale - gli spararono con la lupara nel 1975 quando da Presidente della Corte d'assise d'appello di Catanzaro presiedeva un processo alla mafia siciliana.

Poi ci fu Bruno Caccia, anche lui ucciso dai boss calabresi nel 1983. Caccia scoprì le trame delle Brigate rosse in Piemonte e i narcotrafficanti Rocco Schirripa e Domenico Belfiore, che lo crivellarono con 17 colpi. E ancora, si ricorda la morte del giudice di Cassazione, tra i protagonisti del maxiprocesso, Antonino Scopelliti.

"Sono stanca della storia riscritta da professionisti del ricordo pro domo propria, stanca di essere trattata come figlia di una vittima di serie B - ha tuonato la figlia di Scopelliti, Rosanna, su Facebook -. Mi sono chiesta se Boccassini pensa mai a chi resta. Temo di no: d'altra parte non si è fatta scrupoli afferma a sbattere in faccia ai sopravvissuti a Giovanni Falcone e Francesca Morvillo una presunta relazione extraconiugale che nessuno oggi può più confermare o smentire. Nessuno pensa mai al dolore di chi resta". Da qui la stoccata finale: "Quanta ignoranza verrà coltivata grazie alle sue parole? Anche per questo ho deciso di risponderle. Questo è solo un post su Facebook conclude ma se anche solo un ragazzino scoprirà leggendolo che quanto lei ha detto è falso, sarà servito a qualcosa". 

Giovanni Falcone, Ilda Boccassini, Totò Riina: come andò veramente la strage di Capaci. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 24 maggio 2022

Ha scritto Ilda Boccassini, collega molto legata a Giovanni Falcone: «Quel 23 maggio mi trovavo in una stanza del San Raffaele al capezzale di mio padre... Terminato l'orario di visita, mi ero diretta verso le auto di servizio che mi aspettavano. L'espressione cupa, immobile, sui volti degli uomini scorta, non lasciava dubbi: era successo qualcosa di grave... Nessuno di loro proferì parola e dentro di me cominciò a salire un'ansia difficile da descrivere... riuscii a pronunciare solo una frase che non avrei mai voluto sentirmi pronunciare: «È successo qualcosa a Falcone?». Dallo sguardo che si scambiarono i due poliziotti capii di non essermi sbagliata».

Ha scritto Pietro Grasso, amico di Falcone e giudice del Maxiprocesso in primo grado: «Il suono dei passi degli agenti della scorta mi rimbomba ancora nelle tempie... Dalla radio della polizia arrivavano notizie confuse... Ma era evidente chi fosse stato colpito. Mi precipitai all'ospedale... Fu l'espressione del volto di Paolo Borsellino a dirmi che non c'era più niente da fare».

La morte del magistrato non era ancora stata ufficializzata quando squillò il cellulare di Claudio Petruccioli, pidiessino, braccio destro di Achille Occhetto: a chiamarlo era il sottosegretario Dc Nino Cristofori che voleva parlargli con urgenza. Ha raccontato Petruccioli: «Trovai Cristofori pallidissimo, prostrato. Quel che mi disse non lo dimenticherò mai. Lui - e il suo capo, Andreotti - interpretavano la strage di Capaci come un attacco per sbarrargli la strada del Quirinale. Mi impressionò che la terribile analisi fosse svolta a caldo, con certezza assoluta e una sorta di rassegnazione».

Per uccidere Falcone usarono qualcosa come 500 chili di tritolo. Il giudice aveva voluto guidare l'auto di persona e l'autista perciò era sul sedile posteriore. Giunti vicini allo svincolo per Capaci, a 600 metri da Palermo, l'autista ricordò a Falcone che poi avrebbe dovuto ridargli le chiavi, e il giudice, sovrappensiero, le estrasse dal cruscotto e fece rallentare l'auto, traendo in inganno gli attentatori che azionarono il telecomando in anticipo. La Fiat Croma bianca perciò si schiantò a circa 90 all'ora contro il muro d'asfalto che si era alzato davanti per l'esplosione. Si era creata una voragine di quindici metri per quattro coi guardail piegati che sembravano artigli. L'auto della scorta che si trovava sotto la carica esplosiva fu scaraventata a 62 metri dal cratere, e a bordo c'erano Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani, tutti morti. Accanto a Falcone c'era la moglie Francesca Morvillo.

L'autista, unico incredibilmente sopravvissuto, si chiama Giuseppe Costanza. A bordo doveva esserci anche l'amico giudice Pietro Grasso, che spesso approfittava del volo di sicurezza di Falcone per tornare a Palermo: ma la sera prima aveva trovato un ultimo posto sul volo Alitalia, e aveva preso quello».

I SEGNALI IGNORATI - Secondo un collaboratore di Giustizia, la decisione di uccidere Falcone fu presa nel corso di un summit mafioso tenutosi nel novembre 1991 a Castelvetrano (Trapani) dove si programmò anche la morte di Claudio Martelli, Maurizio Costanzo e altri giornalisti. Presenti all'incontro sarebbero stati Totò Riina, Matteo Messina Denaro e i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.

Un primo programma prevedeva di ammazzare Falcone già alla fine di febbraio, a Roma, ma il piano andò a monte per ragioni quasi risibili: l'esecuzione era prevista in un ristorante che il giudice frequentava spesso, ma i killer sbagliarono piatto: confusero il locale «il Matriciano» nel quartiere Prati con «la Carbonara» a Campo de' Fiori, dove Falcone pure andava. L'agguato sfumò.

Dirà il pentito Giovanni Brusca, l'uomo che azionò il telecomando che fece saltare lo svincolo di Capaci: «Riina disse che dovevano morire tutti, che i politicanti lo stavano tradendo. Fece i nomi di Falcone, di Borsellino, di Lima, di Mannino, di Martelli... Disse «gli dobbiamo rompere le corna». Tutti ascoltavano in silenzio...

Siamo a ottobre-novembre 1991» Dirà ancora Brusca: «Andreotti per ripulire la sua immagine ci provocò danni immensi... si doveva fare il nuovo presidente della Repubblica e si parlava di lui come uno dei candidati più forti. Noi volevamo che l'attentato avvenisse prima della nomina... Riina disse: «Glielo faccio fare io il presidente della Repubblica...».

Nel pomeriggio di quel giorno, il Guardasigilli Claudio Martelli stava parlando delle candidature per il Quirinale proprio con Andreotti. Martelli lo definirà «il giorno più brutto della mia vita». Cosa Nostra, invece, avrebbe dovuto definirlo il suo peggior affare: perché Falcone, col Maxiprocesso ai boss condotto miracolosamente sino in fondo da magistratura e istituzioni, aveva anche disvelato l'identità unitaria e criminale di Cosa Nostra, l'aveva umiliata, rinchiusa in gabbie inquadrate dalle tv, fatta impazzire di rabbia e infine condannata al suicidio: perché le violentissime reazioni che ne erano seguite e che ancora ne seguiranno - la morte di Falcone tra queste terrorizzeranno dapprima un Paese smarrito, certo, ma nel tempo si riveleranno gli spasmi nervosi seguiti alla decapitazione della testa mafiosa, sradicheranno Cosa Nostra dalla mentalità fatalistica di chi per decenni ci aveva convissuto, e di chi ora, finalmente, assieme alle nuove generazioni, giungerà a odiarla per quel suo volto rivelato e repellente, inguardabile, crudele e spaventato nella sua agonia.

Tutto ormai appariva chiaro nelle sue corrette proporzioni, deprivato delle urla indignate e spagnolesche di certa cialtroneria antimafia: c'era stato un collegamento tra cosa Nostra e un potere politico soprattutto andreottiano, c'era stata una conclamata mafiosità dell'ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, nessuno metteva più in dubbio che l'omicidio del democristiano Salvo Lima fosse stato un messaggio preciso, benché dapprima rimosso o non ben decifrato. Giovanni Falcone, banalmente, aveva sempre avuto ragione e questo in Italia non è ritenuto perdonabile: «Per essere credibili», si chiese durante una trasmissione televisiva, «bisogna essere ammazzati in questo Paese?». 

QUELLE MALDICENZE Era ormai isolato, snobbato dalla sinistra togata e da una parte dei moderati, da una sfilza di giornalisti infami, da una società civile immatura o indifferente e purtroppo anche da qualche amico vero. C'era stato il sottovalutato attentato dell'Addaura del 21 giugno 1989, con l'esplosivo ritrovato sotto la sua casa al mare mentre il magistrato stava aspettando due colleghi svizzeri impegnati in un'inchiesta sul narcotraffico. La vicenda, snobbata per decenni, sarà oggetto un regolare processo giunto in Cassazione il 19 ottobre 2004: ottantanove pagine che confermeranno pesanti condanne per Totò Riina, Salvatore Biondino e Antonino Madonia, e che pure sanciranno che i servizi segreti di Stato - sempre tirati in ballo, in Italia - non c'entravano un accidente, perché la responsabilità fu di Cosa nostra e basta. Altre pagine della sentenza metteranno nero su bianco «l'infame linciaggio» subito da Falcone, che in buona sostanza in quel 1989 fu accusato di essersi piazzato la bomba da solo. Si citano con nomi e cognomi esponenti della Rete di Orlando oltre a magistrati e alti esponenti dei carabinieri. Fu il Gerardo Chiaromonte, apprezzato parlamentare comunista e defunto presidente dell'Antimafia, a scrivere che «i seguaci di Leoluca Orlando sostennero che era stato lo stesso Falcone a organizzare il tutto per farsi pubblicità».

Era veramente difficile essere Giovanni Falcone prima che lo trasformassero in un santino da parabrezza. La sua presenza non piaceva neppure ai vicini di casa: alcuni condòmini avevano scritto al Giornale di Sicilia nel timore che un attentato potesse tirarli in mezzo. Magistratura democratica decise che il nuovo consigliere istruttore di Palermo doveva essere Antonino Meli anziché lui, e le indagini di mafia presero ad addormentarsi. Falcone scrisse al Csm: «Quello che paventavo è purtroppo avvenuto... il gruppo antimafia è ormai in stato di stallo. Paolo Borsellino ha dimostrato il suo senso dello Stato e il suo coraggio denunciando pubblicamente omissioni e inerzie nella repressione del fenomeno mafioso... L'unica via praticabile è quella di cambiare immediatamente ufficio». Al giudice più competente in tema di mafia non passavano più inchieste in tema di mafia. Ecco perché il 13 marzo 1991 accettò di trasferirsi a Roma per dirigere l'ufficio degli Affari penali del ministero della Giustizia, portandosi dietro Pietro Grasso come vicecapo di gabinetto, uomo che il guardasigilli Claudio Martelli avrebbe anche voluto per comandare quella procura palermitana che invece fu occupata da Gian Carlo Caselli. Fu in quell'ufficio che Falcone concepì una struttura investigativa sovraordinata alle singole Procure, così da assicurare, attraverso un Procuratore Nazionale, un coordinamento delle indagini. La Superprocura antimafia nascerà grazie ad un decreto del 20 novembre 1991 che tuttavia non consentirà a lui, Falcone, di raccogliere il frutto delle sue intuizioni: il fuoco di sbarramento che gli organizzarono contro fu inspiegabile e al limite del demenziale. Tutti contro, a partire dall'Associazione nazionale magistrati. La colpa di Falcone era di flirtare con la politica. Il gruppo del Pds votò un emendamento ad hoc per escludere Falcone dalla carica di superprocuratore. Magistratura democratica definì la nuova Direzione nazionale antimafia «una grave lesione alle prerogative del Parlamento e all'indipendenza della Magistratura. Il bollettino della corrente, a pagina 155, parlava di «ristrutturazione neoautoritaria». I mesi che precedettero la strage di Capaci, per Falcone, furono orribili per lui quanto vergognosi per altri. 

Giovanni Falcone, ecco da chi fu tradito: Filippo Facci e la più scomoda delle verità (30 anni dopo). Filippo Facci Libero Quotidiano il 24 maggio 2022

Il perché uccisero Giovanni Falcone è scritto nero su bianco, ma tutti guardano altrove. Il 2 dicembre 1991 l’intero corpo dei magistrati scioperò «contro Cossiga, Falcone e la sua superprocura». Giacomo Conte, ex del pool antimafia di Palermo, il 6 giugno aveva definito il progetto della superprocura «quanto di più deleterio sia stato pensato in tempi recenti». La vera coltellata però era stata la pubblica lettera che annoverava, tra i primi firmatari, colleghi e amici come Antonino Caponnetto e Giancarlo Caselli e persino Paolo Borsellino: «Ci accomuna la convinzione che lo strumento proposto sia inadeguato, pericoloso e controproducente... fonte di inevitabili conflitti e incertezze». Seguivano 60 firme, data 23 ottobre 1991.

Falcone fu accusato di essersi venduto a Martelli, al potere politico. Per il resto, tutte le accuse di Leoluca Orlando risulteranno lanciate a casaccio. Il il 26 settembre 1991, al Maurizio Costanzo Show, ad attaccare Falcone toccò il sodale di Orlando, Alfredo Galasso: «L'aria di Roma ti fa male», gli disse. Si scagliò contro Falcone anche il direttore de il Giornale di Napoli, Lino Jannuzzi: «Falcone e Gianni De Gennaro... dovremo guardarci da due Cosa Nostra, quella che ha la Cupola a Palermo e quella che sta per insediarsi a Roma».

De Gennaro, ex capo della Polizia, collaborò con Falcone e nel 1984 si era occupato dell'estradizione dal Brasile di Tommaso Buscetta. Tra gli articoli più vergognosi ce ne fu uno di Sandro Viola su Repubblica: «Falcone è stato preso da una febbre di presenzialismo... fumose, insopportabili logorree... Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà serial televisivo, "Cose di Cosa Nostra"... non si capisce come mai il dr. Falcone... non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando la magistratura. Scorrendo il libro s' avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste dei guitti televisivi». Nota: il libro Cose di Cosa Nostra (Rizzoli 1991) è il longseller sulla mafia più venduto della storia, eternamente ristampato; «l'intervistatrice adorante» è invece la francese Marcelle Padovani, già corrispondente del Nouvel Observateur e al tempo moglie del segretario nazionale della Cgil, Bruno Trentin. Il volume scritto con Falcone spiegava per la prima volta la vera struttura di Cosa Nostra. Nell'ultimo capitolo, il sesto, Falcone dice: «In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere».

IL RUOLO DI ORLANDO

Due mesi prima che Falcone saltasse in aria, il 12 marzo 1992, L'Unità fece scrivere da un membro del Csm un intervento così titolato: «Falcone superprocuratore? Non può farlo, vi dico perché». Lucio Tamburini sul Resto del Carlino: «Inaffidabile e Martelli-dipendente». Contro di lui non mancava proprio nessuno. Il 3 febbraio 1992, persino i componenti della sezione Lombarda del Movimento «Proposta '88» scrissero a Falcone (loro collega di corrente) per dirgli che «non apprezziamo la politica del ministro Martelli ma tu gli sei pubblicamente a fianco e ne rendi credibili parole e prese di posizione, e anche perché alla gran parte di noi non piace la superprocura nazionale». Quella che, in pochi anni, permetterà di sconfiggere la mafia stragista per sempre. Oggi riesce difficile immaginare quanto la figura di Falcone distasse da quella a cui oggi si intitolano scuole, vie e monumenti. Chi lo avversava, nel 1992, sembrava che letteralmente non sapesse chi era. Chi oggi l'ha trasformato in un'icona, probabilmente, ne sa ancor meno. 

Gli aveva voltato le spalle, come detto, anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, questo dopo che un pentito, Giuseppe Pellegriti, aveva accusato l'andreottiano Salvo Lima di essere il mandante di una serie di delitti; però Falcone aveva fiutato la calunnia e non abboccò. Tanto bastò a Orlando per decidere che il giudice volesse proteggere Andreotti e Lima. «Orlando era un amico», racconterà Maria Falcone, sorella di Giovanni. «Erano stati amici, avevano pure fatto un viaggio insieme in Russia». «Orlando ce l'aveva con Falcone», ha ricordato l'ex ministro Claudio Martelli ad Annozero di Michele Santoro, nel 2009, «perché aveva riarrestato l'ex sindaco Vito Ciancimino con l'accusa di essere tornato a fare affari a Palermo con sindaco Orlando: questo l'ha raccontato Falcone al Csm per filo e per segno». Il fatto è vero: fu lo stesso Falcone, in conferenza stampa, a spiegare che Ciancimino era accusato di essere il manovratore di alcuni appalti col Comune sino al 1988. 

Durante una puntata di Samarcanda condotta da Michele Santoro, il 24 maggio 1990, Orlando scagliò l'accusa: Falcone- disse- ha dei documenti sui delitti eccellenti ma li tiene chiusi nei cassetti. Una menzogna che verrà ripetuta a ritornello. Falcone dovrà difendersi al Csm dopo un esposto presentato da Orlando. Intanto Saverio Lodato, corrispondente dell'Unità e classico «mafiologo» di alterne militanze, intervistava ripetutamente Orlando. Poi, Falcone dovette pure difendersi al Csm anche dalle accuse della Dc andreottiana che lo volevano complice dei fratelli Costanzo: il 15 ottobre 1991 raccontò che i due fratelli - primo gruppo di costruttori in Sicilia - non erano organici alla mafia: ne conoscevano i meccanismi, ma il loro contributo era molto più importante sul fronte delle tangenti. Uno dei due fratelli gli stava raccontando tutto il sistema dell'isola, ma poi il procuratore capo Antonino Meli l'aveva fatto arrestare per mafia. E si fermò tutto. 

SALDARE IL CONTO

Forse la storia di Tangentopoli poteva essere scritta molto tempo prima delle confessioni di Mario Chiesa: «All'imprenditore più forte della Sicilia è stato impedito di poter denunciare che in Sicilia tutti gli altri pagano tangenti... eravamo appena agli inizi... È tutto documentato». «Quel giorno», racconterà Francesco Cossiga al Corsera, «uscì dal Csm e venne da me piangendo». Cosa nostra in ogni caso aveva già deciso di saldare il conto. Mentre a Roma si discuteva su come impedire a Falcone qualsiasi nomina, Giovanni Brusca stava già facendo dei sopralluoghi sull'autostrada Palermo-Trapani. Risulta anche un'interrogazione presentata al Senato dal radicale Piero Milio che chiedeva lumi su quale «somma urgenza» aveva spinto l'impresa «Di Matteo Andrea» a eseguire dei lavori proprio nel tratto autostradale di Capaci dal 27 settembre 1991 al 31 marzo 1992, dove il mafioso Antonino Gioè (poi suicidatosi in carcere) risultava nel ruolo di magazziniere. Non ebbe risposta. 

Poi, il 23 maggio 1992, sappiamo com' è andata. Eppure anche i quotidiani di questi giorni, nelle loro commemorazioni vecchie di vent' anni, ignorano la ragione principale ormai assodata (anche da successive sentenze) per cui fu ucciso urgentemente Falcone e per cui lo era stato Salvo Lima e per cui lo sarà Paolo Borsellino: l'informativa «mafia appalti» che sarà concausa anche di tutta la successiva stagione stragista. Il responsabile dell'informativa, il generale Mario Mori, già fondatore dei Ros dei Carabinieri (Raggruppamento operativo speciale) e protagonista della cattura di Totò Riina, l'aveva consegnata aun Falcone «entusiasta» anche perché si parlava nel dettaglio di Angelo Siino, definito «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra», la quale, scrisse Mori, «temeva gli attacchi alle sue attività economiche che gli consentivano di sostenersi e di ampliare il proprio potere. Individuai nella gestione e nel condizionamento degli appalti pubblici il canale di finanziamento più importante dell'organizzazione. Angelo Siino era l'uomo di Cosa Nostra incaricato di gestire i rapporti con gli altri protagonisti dell'affare appalti». Insieme a Falcone, Mori aveva sviluppato un'indagine sulle gare degli appalti pubblici e venne fuori che tra mafia e imprenditoria e politica le ultime due non erano vittime, ma partecipi. Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani Pulite prendesse corpo, come confermato dallo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. 

GLI APPALTI

Falcone portò l'informativa al procuratore capo Pietro Giammanco il 20 febbraio 1991, ma non se ne seppe più nulla. Si sa che l'informativa lasciò misteriosamente l'ufficio di Giammanco. Falcone ne riparlò il 15 marzo durante un convegno pubblico al castello Utveggio di Palermo: «La materia dei pubblici appalti è la più importante... consente di far emergere l'intreccio tra mafia e imprenditoria e politica... La mafia è entrata in Borsa». Fu questo, come affermerà il citato «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». Sta di fatto che il dossier nell'agosto «Mafia -appalti» 1991 passò nelle mani del democristiano andreottiano Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino: accadde nella sede della Dc di via Emerico Amari. Il successivo omicidio di Lima partì da lì. Lo pensavano Falcone e anche Paolo Borsellino. Lo ha confermato la recente sentenza del processo «Borsellino Quater» a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici. Lo ha fatto, circa l'inizio della strategia stragista, anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012. È ciò che fece disperare Paolo Borsellino, che dopo la strage di Capaci sapeva di avere le ore contate. Eppure, anche in questi giorni, i quotidiani commemorano la strage di Capaci incaricando imbucati come Saviano o intervistando parenti rinco***iti, o azzardando complicatissimi depistaggi e piste nere che portino a «mascariare» i nemici del presente. Peggio di non conoscere il passato c'è il non volerlo conoscere. 

Una scia di morti che passa per l'Addaura. Gianluca Zanella il 24 Maggio 2022 su Il Giornale.

Mentre a Livorno si preme per l'archiviazione sul caso della morte di Marco Mandolini, documenti riservatissimi del centro Skorpione di Trapani tracciano una nuova pista che passa anche attraverso il fallito attentato a Falcone e la missione "Ibis".

Il 13 giugno 1995 Marco Mandolini - sottufficiale della Folgore in forza al Sismi, il servizio segreto militare - veniva brutalmente ucciso a Livorno, non molto distante dalla caserma Vannucci dove si trovava in temporaneo appoggio. Un delitto efferato, conclusosi con un gesto (l’apposizione di una pietra sopra la testa) la cui brutalità lascia pensare a un conto in sospeso tra la vittima e il suo (o i suoi) carnefice. Un omicidio ancora oggi senza responsabili e senza un movente chiaro, anche se le tracce ci sono e hanno permesso – nel settembre 2021 – la riapertura del caso da parte del Gip di Livorno che, a meno di un anno di distanza, preme per una nuova archiviazione, cui la famiglia, attraverso i suoi rappresentati – l’avvocato Dino Latini e il criminologo Federico Carbone – ha recentemente presentato opposizione.

E in effetti archiviare adesso avrebbe il sapore non solo della sconfitta, ma di un lavoro lasciato a metà. Il 2022 ha portato alla ribalta storie di un’Italia in balìa di forze grigie, fantasmi provenienti da quella prima metà degli anni ’90 che – a distanza di tanto tempo – non hanno nulla da invidiare ai più tristemente blasonati Anni di piombo. A marzo è stata indagata per le stragi di Firenze e Milano un’imprenditrice bergamasca, accusata di aver piazzato le autobombe in prossimità degli obiettivi; sul fronte Falange armata sono usciti diversi libri, come quello di Giovanni Spinosa e Michele Mengoli; e poi il 2022 è l’anno del trentennale delle stragi che hanno insanguinato la Sicilia, proiettando nell’olimpo degli eroi (loro malgrado) i giudici Falcone e Borsellino con le relative scorte di fedeli servitori dello Stato spazzati via dal tritolo. Ecco, la vicenda di Marco Mandolini s’inserisce in questo contesto.

Tra febbraio e marzo, tanto per aggiungere carne al fuoco, a Livorno è stato sentito il milanese Paolo Belligi, ex carabiniere, che tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994 ha preso parte all’Operazione “Ibis” in Somalia, inquadrato nel regimento carabinieri paracadutisti “Tuscania”. Un’operazione controversa sotto molteplici punti di vista, dove il 12 novembre 1993 trovò la morte in circostanze mai veramente chiare il militare e agente segreto Vincenzo Li Causi. Belligi, che oggi non è più in servizio, arrivò in Somalia poco dopo e il 26 agosto del 1997, e presso la Procura di Roma - nell'ambito del processo per l'uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin - rilasciò queste dichiarazioni: "Per quanto attiene la morte dell'ex agente Sismi Li Causi Vincenzo ricordo che, secondo voci circolanti nel nostro Reggimento in Italia, si diceva che la versione ufficiale dei fatti, secondo la quale il Li Causi sarebbe stato ucciso accidentalmente nel corso di una sparatoria tra fazioni somale, era poco verosimile in quanto più attendibile quella, di corridoio, secondo la quale il "Maresciallo Li Causi" sarebbe stato ucciso dagli altri due "militari" che quel giorno erano usciti a caccia servizio con lui. Si vociferava, infatti, che, in passato, il Li Causi avesse effettuato delle indagini delicate".

Su sollecitazione del dott. Carbone, la procura di Livorno ha nuovamente convocato il teste che ha confermato pienamente quanto affermato 25 anni fa. Cosa c’entrano il maresciallo Li Causi e la sua morte con la vicenda di Marco Mandolini? Presto detto: Mandolini e Li Causi erano amici ancor prima che colleghi e, stando a diverse testimonianze, sembra che Mandolini si fosse messo in testa di indagare riservatamente sulle reali circostanze della morte di Li Causi. È qui, secondo Federico Carbone, che va ricercato il movente della sua uccisione.

Li Causi e Mandolini avevano lavorato insieme anche all’ombra delle alture che si affacciano su San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, in quell’ormai noto (e famigerato) centro Skorpione, base “segreta” di Gladio che, sulla carta, doveva servire da avamposto in caso di un’invasione sovietica dell’Italia. Non serve un esperto per notare la stranezza del posizionare un avamposto contro un’eventuale attacco russo in Sicilia, ma tant’è. Lì in quella base Li Causi era stato capo-centro e, come testimoniano diversi documenti (sui quali, dobbiamo specificarlo, una patente di completa attendibilità non c’è mai stata, ma che se fossero stati creati ad arte sarebbero davvero fatti bene), Marco Mandolini aveva trasportato in diverse occasioni – e nell’ambito di missioni particolarmente riservate – dell’arsenale non meglio specificato.

Se dunque gli argomenti richiamati fino ad ora non fossero sufficienti per continuare a cercare la verità sul brutale assassinio di Mandolini, c’è una circostanza tanto curiosa quanto inquietante che emerge da due documenti prodotti dal centro Skorpione e classificati “riservatissimo”. Già prodotti nel corso del processo per la morte del giornalista Mauro Rostagno, non hanno mai avuto un’eco mediatica proporzionale alla loro importanza, ma soprattutto non sono mai stati inseriti in un contesto più ampio come quello delineato dal criminologo Carbone e condiviso in esclusiva con Ilgiornale.it.

Il primo documento è datato 18 giugno 1989. Il secondo, 24 giugno 1989. Nel primo (a distruzione immediata) si autorizza l’inizio di un’esercitazione denominata “Domus Aurea”. Tra i vari luoghi in cui si sarebbe dovuta tenere questa esercitazione spicca la località Torre del Rotolo, un luogo vicino all’Addaura e vicino alla villa di Giovanni Falcone dove appena tre giorni dopo, il 21 giugno, ci sarà il fallito attentato con una carica esplosiva nascosta tra gli scogli dove il giudice soleva scendere per arrivare al mare. Il secondo documento, che si colloca tre giorni dopo il fallito attentato, indica nella stessa area il recupero del materiale utilizzato nell’esercitazione (che stavolta cambia il suo nome in “Demage Prince”), nello specifico si parla di tute da sub e “relativo materiale esplodente eventualmente in avanzo da esercitazione”.

Considerando le tempistiche (tre giorni prima e tre giorni dopo il fallito attentato a Giovanni Falcone, il quale subito dopo parlerà delle famose “menti raffinatissime”) e considerando che a quel tempo Vincenzo Li Causi era operativo proprio nel centro Skorpione, lo scenario si fa immediatamente più vasto. La scia di sangue che lega Li Causi a Mandolini potrebbe affondare le proprie radici non solo in quanto avvenuto in Somalia, nel corso dell’operazione “Ibis”. È probabile che i due militari condividessero un background comune di informazioni sensibili apprese negli anni precedenti. Informazioni che, forse, ne potrebbero aver determinato la fine.

La panoramica potrebbe continuare e altri personaggi entrerebbero nella vicenda (pensiamo ad esempio al poliziotto e agente segreto Emanuele Piazza, ma sul punto torneremo in altra sede), ma a questo punto abbiamo fatto alcune domande al criminologo Federico Carbone. Nello specifico, gli abbiamo chiesto chi gli abbia sottoposto questi documenti suggerendo una chiave di lettura tale da intersecarsi con le sue indagini sulla morte di Marco Mandolini. "Una fonte confidenziale", ha risposto Carbone, "Quello che posso dire è che si tratta di un ex appartenente al Comsubin [il reparto d’elite della Marina Militare, ndr] residente nei dintorni de La Spezia, già appartenente alla struttura riservata Gladio".

Naturale, a questo punto, cercare di fare ordine nella matassa di informazioni, personaggi e circostanze. Per questo abbiamo chiesto al criminologo se, dal suo punto di vista, ci sia un collegamento tra il fallito attentato a Giovanni Falcone e le tragiche vicende di Li Causi e Mandolini. "Quello che posso dire", ha risposto Federico Carbone, "è che questa produzione documentale sta assumendo un’importanza che forse nel passato non ha avuto. Se andiamo poi a contestualizzarla rispetto al fallito attentato all’Addaura, diventa particolarmente importante perché ci ritroviamo a collocare all’interno del centro Skorpione Mandolini e Li Causi. E questo è innegabile. Sappiamo grazie ai documenti che Mandolini operava in qualche modo presso il centro Skorpione e che lo stesso Li Causi era subentrato come direttore dopo il colonnello Paolo Fornaro. Ora, la domanda che si pone è: quali operazioni svolgeva, supervisionava, coordinava il centro Skorpione? Di quale natura? Al di là della consegna di casse che leggiamo dai documenti [documenti in cui si richiede espressamente la presenza di Marco Mandolini, ndr], sappiamo che nell’area di competenza del centro Skorpione si sono svolte delle esercitazioni nei giorni immediatamente precedenti e immediatamente successivi al fallito attentato a Giovanni Falcone".

Una fonte coperta di altissimo livello, che a suo tempo fornì interessanti materiali al giornalista Luciano Scalettari e che adesso ha fornito altrettanti spunti interessanti al criminologo Carbone. Elementi al vaglio di diverse Procure e oggetto d’interesse anche nel processo d’appello ‘ndrangheta stragista. E quelle tute da sub che fanno tornare alla mente il misterioso sub di cui ha parlato il pentito di mafia Franco Di Carlo relativamente al recupero di ordigni bellici della seconda guerra mondiale per fabbricare la bomba che avrebbe disintegrato il giudice Paolo Borsellino. Sembrano gli ingredienti di un romanzo noir. Ma è la nostra storia recente.

Sempre riguardo ai documenti una curiosità. Tra il primo e il secondo, cambia il nome dell'esercitazione: prima è "Domus Aurea", poi "Demage [sic] Prince". Anche in questo caso, viene in nostro soccorso il dott. Carbone con una spiegazione che appare verosimile: "È una cosa piuttosto comune nelle comunicazioni militari riservate o – come in questo caso – riservatissime. Era un modo per evitare che, a posteriori, si potessero fare collegamenti certi".

In conclusione, quello che emerge da questi documenti (dando per buona la loro autenticità, perché se così non fosse sarebbe ancora più interessante sapere chi li abbia prodotti e con quale fine) è il coinvolgimento – non sappiamo quanto diretto o quanto marginale – del centro Skorpione nella vicenda del fallito attentato all’Addaura. Se il centro abbia operato in veste criminale o se, al contrario, abbia svolto una funzione d’intelligence scongiurando il peggio, non lo sappiamo. Certo è difficile credere in una coincidenza, così come è difficile immaginare che Marco Mandolini e Vincenzo Li Causi non condividessero qualche segreto. Purtroppo, sarà difficile scoprirlo, ma la nebbia che avvolge le loro morti si sta lentamente diradando. E il profilo che si sta delineando fa ancora oggi paura.

'Ndrangheta stragista, tre nuovi verbali sugli attentati degli anni Novanta. Il Quotidiano del Sud il 12 Settembre 2022

I verbali di tre collaboratori di giustizia che hanno riferito delle riunioni avvenute tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta prima delle stragi continentali che hanno insanguinato il Paese all’inizio degli anni novanta andranno agli atti del processo «’Ndrangheta stragista» che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli, condannati in primo grado all’ergastolo per l’agguato in cui morirono, il 18 gennaio 1994, i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.

Dopo che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha ammesso nel fascicolo del processo il verbale riassuntivo dell’interrogatorio reso dal pentito Annunziato Romeo nel 1996, la notizia dei verbali degli altri tre collaboratori è stata annunciata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. In particolare si tratterebbe di tre verbali trasmessi dalla Dda di Catanzaro su richiesta della Dda di Reggio e relativi alle dichiarazioni dei pentiti Gerardo D’Urzo, deceduto nel 2014, Marcello Fondacaro e Girolamo Bruzzese.

I tre – ha spiegato Lombardo in aula – «hanno riferito circostanze direttamente attinenti ai temi di questo processo spiegando nel dettaglio di avere appreso da appartenenti alla cosca Mancuso e di altre famiglie una serie di circostanze riferibili agli incontri effettuati tra Cosa nostra e ‘ndrangheta nel periodo immediatamente antecedente alle stragi continentali».

Nei verbali, che ancora non sono stati depositati, vengono anche citati «i protagonisti politici di quella stagione indicando nomi e circostanze che – ha concluso il procuratore aggiunto Lombardo – a mio modo di vedere meritano la massima attenzione».

Nella prossima udienza, fissata per il 3 ottobre, il magistrato illustrerà il contenuto dei verbali e di un’informativa della Dia di Reggio Calabria. Non lo ha fatto oggi perché proprio sulle dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia la Direzione nazionale antimafia ha convocato una riunione a Roma per il prossimo 15 settembre quando il gruppo “stragi”, composto dai pm di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo, deciderà cosa potrà essere depositato nel fascicolo del processo a Graviano e Filippone.

La donna delle stragi del 1993, la commissione antimafia ritrova due identikit dopo 29 anni. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 14 Settembre 2022.

Approvata la relazione finale del gruppo di lavoro che si è occupato dei misteri delle bombe e della trattativa. Il senatore Giarrusso: "Abbiamo elementi di prova per dire che quella sera, in via dei Georgofili, c’erano soggetti esterni a Cosa nostra"

Ventinove anni dopo, sono riemersi un testimone mai ascoltato e l'identikit di una misteriosa donna. Sono riemersi soprattutto tanti misteri attorno alla strage che la notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 devastò un'ala degli Uffizi, a Firenze, e uccise cinque persone. "Adesso, abbiamo elementi di prova per dire che quella sera c'erano soggetti esterni a Cosa nostra", dice il senatore Mario Giarrusso, che presiede il comitato sulle stragi mafiose e la trattativa della commissione parlamentare antimafia. 

Stragisti, quando Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato. Dai Graviano a Messina Denaro. Dagli eccidi del 1992 e del 1993 al ricatto che i protagonisti sopravvissuti esercitano sulle istituzioni. Il nuovo libro di Lirio Abbate sulla stagione al tritolo decretata dai boss corleonesi. Francesco La Licata su La Repubblica il 26 Aprile 2022.  

La storia che racconta Lirio Abbate parte da lontano, da una piccola, insignificante strada di un’ex borgata palermitana devastata dal cemento. Ma non si ferma lì, lascia lo spazio angusto di ciò che rimane della Conca d’Oro svenduta ai palazzinari per risalire piano piano al centro di Palermo e all’Isola tutta e, infine, al cuore del potere politico-finanziario del Paese.

Si comincia dall’anonima via Giuseppe Tranchina per raccontare la più brutale aggressione che uno Stato moderno abbia mai subito da un’organizzazione criminale in uno spazio di tempo relativamente (dal punto di vista storico) lungo ma breve per ciò che ha lasciato nella memoria e nella coscienza collettiva degli italiani.

Sono passati trent’anni da quando la mafia stragista ha tentato di colpire il cuore dello Stato, prima con la violenza delle bombe, poi tentando di corrompere la tenuta democratica delle istituzioni preposte all’azione di contrasto al crimine mafioso. Trent’anni di alti e bassi in questa battaglia dei buoni contro i cattivi, una guerra che sembra tutt’altro che conclusa ed ha visto protagoniste assolute alcune menti criminali in parte vinte dal peso della storia, in parte ancora in grado di nuocere. 

Totò Riina, il padrino di Corleone, non c’è più. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai aperto bocca, se non per spargere gli ultimi veleni attraverso le «rivelazioni», la maggior parte false e manipolatrici, affidate al suo «compagno di socialità» durante lunghe passeggiate nel cortile del penitenziario. Resta in piedi il cognato, Leoluca Bagarella, che non ha mai rinnegato il giuramento fatto quando la mafia scoprì il «tradimento» delle forze politiche, secondo lui inadempienti per non essere riuscite a salvare Cosa Nostra dal colpo mortale inferto da Giovanni Falcone col suo maxiprocesso. «Non ci fermeremo - giurò - fino a quando ci sarà un solo corleonese vivo», e in effetti di danno sono riusciti a farne parecchio.

Ma ci sono altri coprotagonisti di questa storia nera, personaggi che del basso profilo mediatico hanno fatto una religione, riuscendo ad esercitare un ruolo primario nella strategia politico-criminale di Cosa Nostra, rimanendo spesso nell’ombra ed emergendo appena solo quando le contingenze lo hanno richiesto e specialmente dopo la cattura di Totò Riina, quando il capo cadde nella trappola dei carabinieri e gioco forza dovettero «assumersi le proprie responsabilità» i giovani leoni: Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, due menti diaboliche che non si sono arrese alla sconfitta e continuano a tramare, il primo dal carcere che non gli impedisce di dispiegare forza e intelligenza «politica», l’altro dalla sua non irresistibile latitanza forse frutto di compiacenti amicizie, che, ad una cattura che provocherebbe un pericoloso vuoto di potere mafioso sul territorio, preferiscono un quieto vivere controllato, secondo le vecchie e mai sopite regole della convivenza tra guardie e ladri.

Tutto questo, partendo da via Tranchina, racconta come in un thriller, Lirio Abbate nel suo “romanzo nero”: Stragisti. Da Giuseppe Graviano a Matteo Messina Denaro: uomini e donne delle bombe di mafia (300 pagine, Rizzoli), in uscita il 26 aprile.

Ma perché via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo? Quella era l’abitazione di un semisconosciuto mafioso, Salvatore Biondino, che guidava l’auto sulla quale viaggiava Totò Riina quando venne arrestato, il 15 gennaio 1993. I carabinieri del Ros, forse storditi dall’eccesso di adrenalina per avere messo le mani sul padrino, non diedero grande importanza all’anonimo autista del capo e non eseguirono neppure un’immediata perquisizione della sua abitazione. Errore grave, perché Biondino non era un signor nessuno, era il capo di uno dei mandamenti più «titolati» di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo, appunto. E in casa, quella mattina, aveva riunito il gotha dei padrini di Cosa nostra, appunto gli Stragisti. E non solo, teneva soldi a palate e documenti che avrebbero potuto raccontare molto della Cosa Nostra dell’epoca. 

Ma così non andò e non andò bene neppure col covo-villa di Riina che non fu perquisito per tempo, tanto da concedere ad alcuni «pulitori» il tempo di svuotare persino una cassaforte e affidare una corposa documentazione a Matteo Messina Denaro che, dunque, oggi deterrebbe la chiave dei segreti dello zio Totò e dei suoi soldi. Ecco, Abbate si chiede se di inadempienza colposa si trattò oppure di omissione colpevole. Fatto sta che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ben più favorevole allo Stato, se la via Tranchina avesse acceso un faro nelle indagini e soprattutto se gli investigatori avessero seguito Totò Riina diretto proprio a casa Bondino per una riunione della cupola convocata per pianificare omicidi e stragi. Pensate che colpo, catturare la cupola al completo, con Bagarella, Messina Denaro, i Graviano e tutto l’altare maggiore. Ma oltre ai boss, cosa c’era nell’abitazione di Biondino? Abbate lo fa dire ad un testimone oculare, oggi pentito importante che, ironia della sorte, si chiama come la stradina di San Lorenzo: Fabio Tranchina, un giovane cresciuto in un ambiente a rischio e ingoiato nel gorgo mafioso anche a causa di un matrimonio sbagliato ma mai sconfessato.

Fabio Tranchina ha fornito alla magistratura un ritratto completo degli stragisti, in particolare della famiglia mafiosa di Palermo che ha raccolto l’eredità lasciata da don Totò: i Graviano di Brancaccio, che rappresentano la mafia col pedigree. Mafia antica, mafia dei giardini e poi mafia moderna che però non dimentica le proprie origini, le regole, il senso dell’onore, la mai sazia sete di vendetta. Capostipite fu Michele, sposato con una donna appartenente ad una famiglia che Cosa nostra la esportò a Milano. Poi i tre figli maschi: Benedetto, Filippo e Giuseppe e la piccola, «a picciridda» Nunzia che comunque la pagnotta se l’è guadagnata pure lei imparando a gestire una montagna di soldi dopo la cattura dei fratelli maschi.

Il ruolo di erede di don Michele, ucciso all’insorgere della seconda guerra di mafia sarebbe dovuto andare a Benedetto, ma, dice Riina in carcere parlando con il «compagno di socialità», era considerato «scimunito». E tra Filippo e Giuseppe, quello più sveglio per Totò era proprio il secondo, capace di conquistarsi il rispetto della truppa con metodi «cristiani», capace di «farsi ubbidire» dando l’impressione di lasciare libertà di scelta. Una mente lucida e sempre in movimento, come si evince dal racconto di come sia riuscito a organizzare la strage di via D’Amelio (il giudice Borsellino e 5 agenti della scorta) e come Cosa Nostra abbia potuto ribattere colpo su colpo all’azione di contrasto dello Stato sempre in ossequio alla linea dura di Riina, idolatrato come un padre («semu tutti figghi di stu cristianu»), che «appariva con le spalle coperte», specialmente dopo l’assassinio dell’ex sindaco Dc di Palermo, Salvo Lima, ritenuto un traditore per non essere riuscito a «sabotare politicamente» il maxiprocesso di Falcone. Ecco, la vendetta: il motore che fa decollare la svolta stragista della mafia ma che, nel privato, muove anche le paranoie personali, come l’ossessione per la mancata punizione di Totuccio Contorno, ritenuto l’assassino di Graviano padre ma sfuggito ad un agguato e poi artefice (in società con Buscetta) della disfatta giudiziaria di Cosa nostra. 

Il romanzo fila veloce, anche perché non cerca conferme giudiziarie. Abbate fa un racconto, sostenuto da episodi inediti e documenti nuovi, che non è destinato alle aule di giustizia, scrive una cronaca mettendo insieme spezzoni di verità disseminate tra migliaia di carte e verbali poco conosciuti al pubblico. Il risultato è impressionante perché spesso sono gli stessi protagonisti a rivelare brandelli di storia, uomini votati all’omertà che invece offrono chiavi di lettura. Il contributo di Tranchina è notevole, ma è lo stesso Graviano che, vinto dal suo delirio manipolatorio, racconta in presa diretta anche quando nega per confermare, come nella migliore tradizione dei mafiosi che inquinano i pozzi. Graviano lancia il sospetto che la cattura (furono presi lui, Filippo, e le rispettive compagne) al ristorante di Milano “Gigi il cacciatore” non fu casuale, insinua che l’episodio possa essere inserito nella ingarbugliatissima storia delle frequentazioni berlusconiane dei Graviano.

E come insinua? Semplicemente definendo la cattura un «arresto singolare e inaspettato», lasciando intendere, così, di aver avuto in passato coperture poi revocate. E Abbate qui svela come e da chi i Graviano sono stati traditi e venduti ai carabinieri nel gennaio 1994. Parla liberamente, Giuseppe. Ma con qualche piccola censura. Per esempio, non parla mai di Marcello Dell’Utri, il suo «paesano», il politico che Gaspare Spatuzza dice di aver avuto citato da Graviano quando lo ha incontrato alcune settimane prima dell’arresto al bar Doney di via Veneto a Roma e che avrebbe consentito al boss di poter dire, dopo quell’incontro, «ci siamo messi il Paese nelle mani». E accredita una verità di comodo, più consona all’etica mafiosa, quando parla della gravidanza della moglie avvenuta mentre era detenuto.

Molti pensavano all’inseminazione artificiale, ma lui dice di avere avuto un contatto fisico con la moglie, fatta entrare clandestinamente in carcere. Stessa operazione sarebbe stata fatta da Filippo, anch’egli divenuto padre da detenuto. I documenti citati nel libro e le fonti raccolte raccontano invece un’altra storia che ha alla base accordi mafiosi. La censura si fa totale quando l’argomento è l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito ucciso per fare ritrattare il padre. L’immaginario ha già attribuito ogni colpa ai Brusca e quindi Graviano cerca di tenersene alla larga. Una lettura istruttiva, il libro di Lirio Abbate, che mette a nudo uomini, meccanismi e regole di una comunità (Cosa Nostra) che non pare arrendersi alla sconfitta. Trent’anni di ricatti mafiosi e strategie criminali, sotto la guida di Graviano e Messina Denaro. L’ultima spiaggia dei Graviano sembra essere quella del tentativo di poter uscire dal carcere a dispetto delle condanne all’ergastolo. Per questo risulta molto seguita, in carcere, la vicenda politica legata alla riforma dell’ergastolo ostativo. E della dissociazione. E per questo Graviano ha già fatto conoscere il proprio pensiero scrivendo al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la cui lettera è stata acquisita dai magistrati. Il manipolatore non demorde e ciò che racconta questo libro non è una fiction.

Montagna Longa: il contabile di Cosa nostra che si salvò dalla strage del Dc8. Il boss Vito Roberto Palazzolo doveva essere sul volo schiantatosi nel ’72 forse per un attentato. All’improvviso cambiò idea e chiese a un dipendente di prendere il suo posto. È l’ennesima ombra sulla tragedia irrisolta di cui si occupa la commissione antimafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 12 settembre 2022

La telefonata arrivò il venerdì mattina molto presto. Era il 5 maggio del 1972, il giorno della strage di Montagna Longa, la strage dimenticata.

Armando era a letto nella sua casa di Terrasini. Aveva tirato tardi la sera prima. Erano giornate convulse di campagna elettorale per le Politiche della domenica e lui, come da tradizione familiare, si dava da fare per sostenere quella galassia che fuori dal Pci ingaggiava battaglie a sinistra e provava a erodere il granitico consenso dei democristiani, gonfi dei voti portati in dote dai mammasantissima.

Ofelia, non aveva cuore di svegliare il figlio. E l’uomo al telefono dovette insistere, era urgente, c’era da pianificare un viaggio imprevisto e Armando avrebbe dovuto darsi una mossa per riuscire a partire in tempo. Di malavoglia, la donna andò in camera del figlio che, frastornato, trascinò i piedi in corridoio e prese la cornetta. La madre lo sentì solo annuire. Quando mise giù, annunciò che doveva andare a Roma con il primo volo utile, consegnare dei documenti importanti e riprendere un aereo per tornare la sera stessa: «Lui non se la sente, ha paura dell’aereo, devo andare io». Ofelia avrebbe ripassato per il resto dei suoi giorni la sequenza di quella mattina. Nessun dubbio, nessun sospetto, allora. Mai e poi mai, lei che era nipote del giornalista e scrittore Girolamo Ragusa Moleti, «ribelle dei ribelli», secondo la definizione di Benedetto Croce, vissuta in una famiglia nutrita a intransigenza e rigore, se ne starebbe stata in silenzio a subire. Per questo il suo cruccio era semmai quello di non aver capito. E il rovello acuiva il dolore della perdita.  

L’uomo al telefono era Vito Roberto Palazzolo, da Terrasini, allora venticinquenne imprenditore e datore di lavoro di Armando. Nello spazio di due lustri si sarebbe guadagnato la fama mondiale di broker del riciclaggio del cartello siciliano della mafia. La vera mente finanziaria della scalata corleonese al vertice dell’organizzazione, il custode dei segreti di un’ascesa che i killer pianificavano versando fiumi di sangue sulle strade e lui plasmava con la forza dei numeri: miliardi e conti cifrati, tutto passava dalle sue mani di contabile tanto scrupoloso quanto interessato a ritagliarsi una fetta cospicua di quelle fortune.

In un mondo di pastori e contadini arricchiti, il cui orizzonte estero coincideva con le rotte d’approdo degli emigranti, Vito Roberto Palazzolo giocava con la geografia del denaro. Pronto a spostarsi lì dove era possibile appostarlo senza troppe complicazioni. Dall’Europa all’Africa all’Estremo Oriente, proprio come un vero uomo d’affari. Brillante spigliato e ricchissimo. Inseguito dalla nomea di imprendibile, abile a giocare a scacchi con i giudici a qualsiasi latitudine, prontissimo alla fuga e disinvolto nell’aprirsi vie d’uscita dove altri avrebbero visto solo strade sbarrate. 

Poco dopo l’alba del 5 maggio 1972, quella sua telefonata spalancò una di quelle porte girevoli che per qualcuno sono la salvezza e per altri la condanna. E Armando che prese il posto di Vito Roberto Palazzolo in quel viaggio da Roma fu consegnato nel suo ultimo giorno a un destino forse non proprio casuale. Quella stessa sera a pochi minuti dall’atterraggio, l’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a casa tagliò in fiamme l’abitato di fronte al golfo e finì su Montagna Longa, depositando su quel crinale, tra Carini e Cinisi, il suo carico di morte: 115 vittime, il primo e più grave disastro dell’aviazione civile italiana, superato in numero di morti solo dalla sciagura di Linate. Il più rimosso tra i capitoli oscuri della nostra storia recente. Concentrato di interrogativi che si inseguono da allora in una danza macabra contro la verità. 

Incidente, secondo la sbrigativa versione ufficiale consacrata in una sentenza da liberi tutti nel 1984. Casualità: forse guasto, forse errore umano, soluzione pilatesca e indimostrata, comunque funzionale a smontare gli argomenti dei detrattori di uno scalo fortemente voluto in un sito inadeguato e a fugare altre ombre sinistre in un Paese che preferisce spedire i fatti nel confino delle supposizioni.

Strage deliberata nel quadro della strategia della tensione, sostengono in molti, di fronte a una magistratura riottosa a fare piena luce e a una mole di elementi che concludono verso la tesi dell’attentato. Ci riprova la commissione antimafia sul finire di questa legislatura, come raccontato da L’Espresso (numero 33 del 21 agosto).  E lo fa riprendendo in mano la ricostruzione del vicequestore Giuseppe Peri che già cinque anni dopo, nel 1977, accreditò la pista dell’attentato dimostrativo di matrice mafiosa e neofascista: una bomba a bordo che doveva scoppiare ad aereo già atterrato e vuoto e che un ritardo trasformò in una carneficina, a quel punto impopolare da rivendicare. 

Un rapporto insabbiato all’epoca e l’autore emarginato fino alla pensione. 

Eppure alla tesi dell’attentato è giunta anche una perizia commissionata dai familiari delle vittime di Montagna Longa. L’ingegnere Rosario Ardito Marretta, a distanza di anni, nel 2017, ha confermato l’intuizione di Peri e collocato in una bocchetta dell’ala destra l’ordigno, concludendo per la bomba a bordo forse attivata da un radiocomando. La relazione di Marretta, snobbata dalla magistratura catanese che ha «cestinato» l’ennesima richiesta di riapertura delle indagini e ora pubblicata in lingua inglese, è già stata acquisita dalla commissione che si avvale della consulenza del magistrato di Milano Guido Salvini, tra i massimi esperti di terrorismo nero. L’audizione di Marretta dovrebbe essere il passo successivo.

Anche secondo Alberto Stefano Volo, neofascista e controverso testimone della stagione in cui esponenti di primo piano dell’eversione nera, a partire da Pierluigi Concutelli fecero base in Sicilia a ridosso dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), Montagna Longa fu una strage. Raccontò di averne avuto un vago sentore quando era in preparazione e di aver consigliato a una sua amica hostess destinata a quel volo di cambiare turno. Non fu prodigo di elementi ma quelli che offriva ascrivevano la strage agli stessi ambienti indicati da Peri. 

Probabile che la voce dell’attentato in preparazione fosse arrivata anche ad altre orecchie, in quell’area di interessi convergenti frequentata da neofascisti e mafiosi, lì dove bombe e delitti erano strumenti per far politica, mezzi per dosare attraverso l’arma della paura, una certa idea di Paese funzionale agli affari in corso.  

Armando Pappalardo aveva 26 anni. Anche lui era cresciuto a Terrasini, a due passi dall’aeroporto, ed era il secondo di quattro fratelli. Il padre lo aveva perso 12 anni prima, morto in un incidente stradale. Aveva continuato gli studi di geometra, poi si era iscritto a Matematica. La laurea era ormai alle porte ma intanto gli era toccato pure togliersi dai piedi l’impiccio della naia, nonostante commi e leggine gli riservassero una parziale esenzione. Aveva una fidanzatina con la quale flirtava da qualche mese. E un impiego, ottenuto mettendo a frutto il diploma.

Kartibubbo, a Campobello di Mazara, era a quel tempo poco più di un progetto avanzato, un cantiere per la costruzione di uno di quei cubi scagliati a sfregiare la costa in nome della pretesa vocazione turistica della Sicilia e per placare le smanie imprenditrici di una mafia gonfia di soldi che aveva fame di cemento e brama di aree edificabili.

Armando lavorava per la società costruttrice, una nebulosa di sigle, anche straniere, dietro le quali, ma sarebbe stato scoperto parecchio tempo dopo, c’era Cosa nostra.

E proprio con uno dei suoi pezzi più pregiati: Vito Roberto Palazzolo, basi in mezzo mondo e collegamenti al massimo livello, uomo di fiducia per gli investimenti personali di boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Custode della cassaforte quando Mafia spa aveva il monopolio della droga sulla rotta Europa-America.

Quarant’anni e una montagna di fascicoli processuali dopo, Vito Roberto Palazzolo, scarcerato nel 2019, ha praticamente finito di scontare una condanna a 9 anni per mafia. In primo grado a infliggergliela era stato il tribunale di cui faceva parte Vittorio Alcamo, figlio di Ignazio, il magistrato che aveva spedito al soggiorno obbligato la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, morto su quello stesso volo di Montagna Longa.

La sentenza per mafia è la ragione che ha riportato in Italia Palazzolo dalla Thailandia dopo una precipitosa fuga da Città del Capo in direzione Hong Kong. Il Sudafrica lo ha protetto e coccolato garantendogli libertà e opportunità ma su tutte una sfacciata impunità, costruita mettendo a libro paga anche i più blasonati investigatori che dovevano perseguirlo, ma poi anche lì la rete di protezione si è sfaldata e il mafiomanager aveva preferito eclissarsi.

In passato ha schivato un’accusa di droga e il coinvolgimento in due omicidi di mafia. Ha dosato mezze ammissioni inevitabili, provando sempre a scrollarsi di dosso l’accusa di essere la longa manus economica della mafia, l’ha buttata in politica, provando ad allontanare i sospetti dall’imprenditore che gli avrebbe fatto da prestanome per Kartibubbo, tirando in ballo semmai amministratori corrotti per le autorizzazioni. Il villaggio, acquisito definitivamente dallo Stato, è oggi un esempio di gestione fruttuosa dei beni confiscati, soprattutto di fronte allo scandalo della lobby delle amministrazioni giudiziarie che hanno mandato in rovina aziende sventolando la bandiera di una legalità posticcia.

La storia di Vito Roberto Palazzolo che in Sudafrica ha costruito un impero, in gran parte ora in mano ai figli, ha molte zone d’ombra che ne hanno accresciuto la fama e la reputazione di potente. La paura di volare che il 5 maggio del 1972 lo spinse a chiedere ad Armando Pappalardo di sostituirlo deve averla superata. E di quel miracoloso scambio che gli ha risparmiato la vita non ha mai parlato. Chissà se tra le molte informazioni che costituiscono il suo capitale c’è qualcosa su quella telefonata. La commissione antimafia, se davvero ha intenzione di andare a fondo su quella strage dimenticata, potrebbe intanto chiedergli di rinfrescarsi la memoria.  

MISTERI ITALIANI. Montagna Longa: l’Antimafia apre il dossier sulla strage aerea di 50 anni fa. Acquisita la relazione dell’esperto che per Montagna Longa accredita la tesi dell’attentato. Il sospetto di una bomba neofascista alla vigilia delle politiche del maggio 1972. Al caso lavora anche il giudice Guido Salvini. Le connessioni tra i “neri” e Cosa nostra ignorate dai magistrati. Enrico Bellavia su L'Espresso il 22 agosto 2022

Cinquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato.

Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022

Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.

Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.

Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24,  il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.

Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse. 

Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.

Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.

Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.

E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.

La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).

Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.

Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.

Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.

L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.

L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.

«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.

La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.

La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».

E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo. 

La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.

Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).

Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.

C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.

Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.

L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.

Delitto Mattarella, il giallo del killer. Si riapre la pista mafiosa, sospetti sul boss Nino Madonia. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 23 Luglio 2022. 

Era il sicario utilizzato da Totò Riina per i delitti eccellenti. Già i giudici della corte d'assise d'appello avevano rilevato la sua somiglianza con Giusva Fioravanti. La pista nera sembra ormai tramontata

La pista del killer nero è ormai caduta, impossibile dopo tanti anni trovare analogie fra le armi dei Nar e i proiettili sparati quel 6 gennaio 1980. Il delitto del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella, il fratello dell’attuale capo dello Stato, resta un mistero. Ma i magistrati della procura di Palermo non rinunciano a cercare la verità.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 14 marzo 2022.

Trent' anni fa, il 12 marzo 1992, Cosa Nostra ammazzò l'europarlamentare andreottiano Salvo Lima. La ricorrenza è importante perché fu il primo conto presentato dalla mafia dopo il maxiprocesso di Palermo che aveva decapitato Cosa Nostra, ma anche perché fu il primo indizio che la cosiddetta Mani pulite o Tangentopoli avrebbe potuto scoppiare al Sud ma fu fermata con proiettili e bombe. 

Oppure, più ingenerale, fu un primo segno che i piccoli o grandi collanti che avevano tenuto insieme il Paese stavano cedendo: quello tra il popolo e i propri rappresentanti, tra le politica e l'imprenditoria, e, più in piccolo, tra partiti e Cosa Nostra. 15 marzo 1991. Un già isolato Giovanni Falcone pronunciò una frase emblematica durante un convegno al castello Utveggio di Palermo: parlò di «connubio, ibrido intreccio tra mafia e imprenditoria e politica» e disse che «la mafia è entrata in borsa».

Fu questo, come affermerà il «ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» Angelo Siino, a mandare in bestia vari imprenditori legati alla mafia: «Falcone aveva compreso che dietro la quotazione in Borsa del gruppo Ferruzzi c'era effettivamente Cosa Nostra». 1° luglio 1991. Fu il punto più alto prima della caduta più rovinosa: la nomina di Giulio Andreotti a senatore a vita in due festeggiamenti organizzati nella stupenda Villa Attolico di Porta Latina e poi a Palazzo Farnese. Bisogna immaginare una sfilata di banchieri come Cesare Geronzi e Giampiero Cantoni, boiardi di Stato come Biagio Agnes e Franco Nobili, direttori e giornalisti come Bruno Vespa e Sandro Curzi ed Enzo Biagi e naturalmente l'onnipresente Gianni Letta, più molte centinaia di personalità e mogli ingioiellate: su tutti, un Andreotti 73enne attavolato affianco a Rita Levi Montalcini.

C'era anche il giudice Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, già nota, come scriverà la procura di Palermo due anni dopo, per il «susseguirsi di una straordinaria messe di annullamenti di condanne di esponenti mafiosi». Andreotti, in quel periodo, poteva vantare anche il merito di aver legiferato contro la mafia come nessun altro: era stato ufficialmente lui, capo del governo, ad affrettare ogni procedura affinché fosse varato per tempo il famigerato decreto n.317 che dalla sera alla mattina raddoppiava i tempi della carcerazione preventiva per i boss. I governi di Andreotti, dal settembre 1989, avevano convertito in legge la bellezza di quindici decreti contro la criminalità organizzata, e a questo si affiancava al miracoloso Maxiprocesso che aveva già stangato Cosa Nostra anche in Appello: 1576 anni di galera per decine di boss e centinaia di affiliati. Questo un po' lo preoccupava. Al giudizio definitivo mancava solo la Cassazione.

Andreotti da un lato poteva continuare a ergersi come severo legislatore antimafioso, dall'altra c'era il problema che a credere al neo Andreotti nemico della mafia potesse essere anche la mafia. Vari collaboratori di giustizia diranno che i boss facevano affidamento sull'onorevole Lima e proprio sull'onorevole Andreotti affinchè mettessero ogni cosa a posto, anche grazie al dottor Carnevale. Tutte cose, pure queste, che Andreotti non poteva sapere, ma solo temere. Una sola cosa forse non poteva neppure immaginare: che Giovanni Falcone potesse d'un tratto trasferirsi a Roma, a lavorare per il ministero della giustizia come capo degli Affari penali, proprio nello stesso governo presieduto da lui, Andreotti. 

Troppi pensieri per un uomo solennizzato sulla terrazza di Villa Attolico o tra i fregi di Villa Borghese. 30 gennaio 1992. La Cassazione confermò tutte le condanne di primo grado e rivalutò appieno il «teorema Buscetta» sulla cupola: ergastoli come se piovesse. Per dirla semplice, Cosa Nostra non aveva mai visto nessuno dei suoi adepti e dei suoi vertici condannati con «fine pena mai». Anni dopo, diversi pentiti diranno che Totò Riina alla notizia della sentenza praticamente impazzì. Il passaggio alla strategia dello sterminio stava per cominciare. 12 marzo 1992. L'europarlamentare siciliano Salvo Lima lasciò la sua villa di Mondello verso le 9.20.

A guidare l'Opel Vectra era il docente universitario Alfredo Li Vecchi, che affianco aveva l'assessore provinciale Nando Liggio. Furono avvicinati da un'Honda rossa con a bordo due uomini che spararono qualche colpo e colpirono il parabrezza e il finestrino laterale e una ruota. La vettura si bloccò. L'obiettivo era Salvo Lima, solo lui: «Tornano, Madonna santa, tornano» furono le ultime parole di Lima prima che la moto facesse inversione di marcia e puntasse ancora sull'auto. Scapparono fuori tutti, anche se il loden che Lima aveva appoggiato sulle spalle s' impigliò nella portiera. Corse via per una ventina di metri, verso il mare, si appoggiò a un albero, riprese a correre per un'altra decina di metri, poi si ritrovò bloccato davanti a una cancellata. Si girò: la moto l'aveva seguito. Fu freddato malamente con tre colpi, di cui l'ultimo alla testa. Gli altri due testimoni rimasero nascosti dietro dei cassonetti dell'immondizia. Furono risparmiati.

La moto verrà ritrovata a tre chilometri da lì. Testimoni, parenti e figli erano rimasti illesi anche negli attentati mortali contro il segretario democristiano Michele Reina e contro il presidente regionale Piersanti Mattarella, fratello di Sergio, futuro Capo dello Stato. Uno stile, una firma: quella di Totò Riina e dei corleonesi. I due killer - si appurerà - si chiamavano Giovanbattista Ferrante e Francesco Onorato. 15 luglio 1998. La sentenza del processo per l'omicidio di Salvo Lima, nel 1998, stabilirà che quest' ultimo si era attivato per cambiare la sentenza del maxiprocesso in Cassazione ma senza ottenere risultati. Lima sarebbe stato ucciso anche per questo. Tommaso Buscetta dichiarerà che il padre di Lima era un affiliato della Famiglia di Palermo Centro, guidata dal boss Angelo La Barbera e impegnata a sostenere elettoralmente Salvo Lima.

Dirà Claudio Martelli, ai tempi ministro della Giustizia: «Dopo l'uccisione di Lima Andreotti era spaventato, o perché non capiva, o forse perché aveva capito... Falcone disse a me e ad altri che il prossimo ucciso sarebbe stato lui: "Lo capite o no che sono un morto che cammina?" sbottò una sera, alla fine di una cena tristissima». Gli esiti processuali, come detto, stabiliranno che Lima fu ucciso perché non era riuscito a fermare il Maxiprocesso alla mafia. Ma esiste un'altra versione che prende sempre più corpo col passare degli anni, e, se non sostituisce la precedente, quantomeno visi sovrappone: è la pista del celebre dossier «mafia-appalti» come causa di tutta la successiva stagione stragista.

Una delle testimonianze più autorevoli è del sostanziale responsabile del dossier, il generale Mario Mori, ex comandante e fondatore dei Ros dei Carabinieri: nel dossier si parlava in particolare di Angelo Siino, «il ministro del lavori pubblici di Cosa Nostra» che in passato era stato assessore a San Giuseppe Jato nella corrente di Salvo Lima. Ha scritto Mori: «Per la prima volta, con il sostegno di Falcone... Emerse il fatto che dei tre protagonisti cointeressati (mafia, imprenditoria e politica) le ultime due, imprenditoria e politica, non erano vittime, ma partecipi... Si arrivò a risultati concreti addirittura prima che l'inchiesta Mani pulite prendesse corpo, come ha sostenuto lo stesso Antonio di Pietro in dichiarazioni processuali. Il dottor Falcone, all'inizio del febbraio 1991, chiese l'informativa riassuntiva sull'indagine «Mafia-appalti»...

Appena ricevuta l'informativa, il dottor Falcone la portò al procuratore capo Pietro Giammanco... non se ne seppe più nulla». Il dossier «Mafia-appalti» lasciò la cassaforte del procuratore Giammanco e fu «illecitamente divulgato», passando nelle mani di Salvo Lima che lo mostrò subito al mafioso Angelo Siino nella sede della Dc palermitana di via Emerico Amari. L'omicidio di Lima - e non solo il suo - partì da lì. Questo pensavano Falcone e Borsellino. 5 ottobre 2021. La sentenza del processo cosiddetto «Borsellino quater» scrive che Paolo Borsellino sarebbe stato ucciso «per vendetta e cautela preventiva» (vendetta per il maxiprocesso, cautela per le indagini su «mafia-appalti») come riferito anche dal collaboratore Antonino Giuffrè a proposito della decisione di Cosa Nostra di eliminare i due giudici.

Del resto un'altra autorevole conferma l'aveva data anche il procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso nel 2012: «Falcone e Borsellino erano dei nemici da bloccare per quello che potevano continuare a fare. Ma l'attentato di Capaci, per le modalità non usuali per Cosa Nostra, fu anche un messaggio di tipo terroristico non tanto eversivo, quanto conservativo per frenare le spinte che venivano da Tangentopoli contro una politica che era in crisi... Per noi è lacerante intuire ma non poter ancora dimostrare che la strategia stragista sia iniziata prima di Capaci, e cioè con l'omicidio Lima. È lì che scattò un segnale per cui lo stesso Falcone mi disse "Adesso può succedere di tutto"». Infatti succederà. Infatti è successo. 

L'inquisizione antimafia. Mafia, la contraddizione di un’emergenza lunga trent’anni. Alessandro Morelli su Il Riformista il 4 Marzo 2022.  

Lo “stato di emergenza” iniziato con la “dichiarazione di guerra” dell’Italia alla Mafia, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, quest’anno compie trent’anni, ricorda Sergio D’Elia nella sua intensa prefazione al volume curato da Pietro Cavallotti, Lorenzo Ceva Valla e Miriam Romeo, dal titolo Quando prevenire è peggio che punire. Torti e tormenti dell’inquisizione antimafia, edito da Reality Book e il Riformista (2022). Un’emergenza che dura da trent’anni è una contraddizione in termini. In una sentenza del 1982, riguardante la carcerazione preventiva, i cui tempi erano stati dilatati in ragione di un’altra situazione straordinaria (quella determinata dal brigatismo), la Corte costituzionale dichiarò che “l’emergenza, nella sua accezione più propria, è una condizione certamente anomala e grave, ma anche essenzialmente temporanea.

Ne consegue che essa legittima, sì, misure insolite, ma che queste perdono legittimità, se ingiustificatamente protratte nel tempo”. Il giudizio a conclusione del quale fu emessa tale pronuncia (che fece salva la disciplina allora vigente) era stato originato, tra gli altri, dal caso di Giuliano Naria, sottoposto a carcerazione preventiva per più di nove anni e poi assolto con formula piena. La temporaneità è, peraltro, una condizione necessaria ma non sufficiente a rendere compatibile uno stato di emergenza con i principi della nostra Costituzione e del diritto internazionale. L’emergenza, infatti, non è la dimensione dell’irrazionalità e dell’arbitrio: essa altera il contesto entro il quale sono condotti i bilanciamenti tra i valori in campo ma non legittima l’adozione di misure palesemente sproporzionate e irragionevoli. Che sia così lo si evince, per esempio, dalla disposizione riguardante la più drammatica condizione di emergenza espressamente prevista dai Costituenti: la guerra. L’articolo 78 della Costituzione stabilisce che quando le Camere deliberano lo stato di guerra, esse conferiscono al Governo i “poteri necessari”, non i “pieni poteri”. E la necessarietà esprime un criterio di proporzionalità che deve essere tenuto presente anche quando è in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato.

Il diritto emergenziale antimafia, che trova alcune delle sue articolazioni più importanti nelle norme sulle misure di prevenzione, sulle informazioni interdittive e sullo scioglimento dei comuni per infiltrazioni, finisce con l’identificare nella prevenzione l’azione più efficace (e, quindi, sufficiente) della lotta alla criminalità organizzata. La prevenzione, tuttavia, non consente un accertamento adeguato dei fatti, si accontenta di un’osservazione sommaria, alimentando così una sempre più diffusa cultura del sospetto, espressione di un dilagante populismo penale e giudiziario. Si tratta di un diritto emergenziale che, come si evince dalle riflessioni sviluppate e dalle tante storie di tragici errori raccontate nel libro, appare ispirato da un principio di presunzione di colpevolezza che non si pone soltanto in contrasto con l’opposta indicazione contenuta nell’articolo 27 della Carta costituzionale e con i dettami del “giusto processo”.

In discussione è innanzitutto il principio di solidarietà, che nel disegno dei Costituenti funzionalizza l’adempimento dei doveri inderogabili di cui parla l’articolo 2 e pone le basi etiche e giuridiche della coesione sociale e politica: quale spazio residua a tale istanza in una società dominata dalla cultura del sospetto? E in crisi sono anche il principio democratico e gli altri che con esso fanno sistema (come quelli di autonomia e di sussidiarietà): “dove la mafia notoriamente esiste – scrive D’Elia – e, perciò, per una sorta di incompatibilità ambientale, vengono annullati per decreto il confronto politico, le procedure democratiche, la partecipazione popolare, le elezioni. […] Il messaggio è devastante: le istituzioni più vicine ai cittadini – consigli comunali, giunte e Sindaci – sono forme anacronistiche della vita politica. La democrazia stessa è considerata un sistema superato”.

Non si discute la necessità di una legislazione e di azioni repressive adeguate a fronteggiare efficacemente il fenomeno mafioso. Si ritiene però che la lotta alla Mafia possa e debba svolgersi entro il perimetro della legalità costituzionale e nel rispetto dei diritti fondamentali. Che sono innanzitutto quelli dei più deboli. Se la guerra contro la Mafia è innanzitutto difesa dei deboli contro poteri criminali forti, sua premessa indefettibile è il riconoscimento dei soggetti deboli. Come ha scritto Luigi Ferrajoli, nella dimensione del diritto penale il debole, nel momento del reato, è la vittima; nel processo è l’imputato; nella fase dell’esecuzione penale è il condannato. Marcare con decisione la differenza tra i fini perseguiti e i mezzi impiegati dallo Stato e quelli della Mafia è il primo passo per vincere la guerra. Alessandro Morelli

Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.

«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.

Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».

Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».

Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».

A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».

Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.

Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.

L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio

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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.

Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.

Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.

Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici. 

Mafia e corruzione, la lezione dimenticata a 30 anni da Mani Pulite. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 12 febbraio 2022.

Sondaggio Demos-Libera: gli italiani considerano l’illegalità diffusa una patologia inevitabile. La corruzione e l’infiltrazione mafiosa, tra le pieghe dell’economia e della finanza, continuano ad allargarsi. In particolare, attraverso il mondo dei professionisti e dei colletti bianchi. “So-spinte” dalle risorse “generate” dal Pnrr. Più in generale, dagli interventi e dei fondi trasferiti dall’Unione Europea. Tuttavia, questi problemi preoccupano di meno, rispetto al passato. Lontano e recente. Si tratta di tendenze rilevate da un recente sondaggio curato da Demos-Libera, che, domani verrà presentato sull’Espresso.

Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022. 

Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.

Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.

La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.

Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».

Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.

Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.

Green e Pnrr, per gli italiani è scontata l’infiltrazione mafiosa e la corruzione in questi settori. Dalla ricerca Demos-Libera che pubblichiamo in anteprima emerge che per sei italiani su dieci la criminalità organizzata trova dei vantaggi negli aiuti economici del governo destinati alle imprese e all’economia in crisi a causa del Covid-19. Luigi Ceccarini su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

L’indagine Demos-Libera sulla legalità offre un quadro aggiornato sulle opinioni degli italiani in relazione a mafia, corruzione al tempo del Covid-19 e alle ricadute del malaffare sul flusso delle risorse finanziarie previste dal Pnrr.

La violenza mafiosa, secondo una considerevole parte di cittadini, appare oggi limitata rispetto al passato (42%). L’adozione di una strategia meno sanguinaria rende la mafia meno notiziabile, quindi mimetizzata agli occhi del pubblico.

La relazione Antimafia firmata da Pio La Torre e Cesare Terranova. ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA su Il Domani il 07 febbraio 2022.

Tutti la citano ma pochi l’hanno letta. È il primo documento completo sulla mafia siciliana, una bussola per capire cosa è stata e cosa ancora è Cosa Nostra. È anche il primo rapporto che svela le trame fra mafia e politica, ha quasi cinquant'anni e ha comunque sempre una sua attualità

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale. 

Tutti la citano ma pochi l’hanno letta. È il primo documento completo sulla mafia siciliana, una bussola per capire cosa è stata e cosa ancora è Cosa Nostra.

È anche il primo rapporto che svela le trame fra mafia e politica, ha quasi cinquant'anni e ha comunque sempre una sua attualità. Certi nomi tornano, generazione criminale dopo generazione criminale. È la relazione di minoranza del 1976 della Commissione parlamentare Antimafia, quella di Pio La Torre e del giudice Cesare Terranova, firmatari oltre a loro i deputati Gianfilippo Benedetti e Alberto Malagugini e i senatori Giulio Adamoli, Gerardo Chiaromonte, Francesco Lugnano e Roberto Maffioletti.

Si apre con una valutazione critica della relazione di maggioranza della Commissione, molto superficiale e attenta a non disturbare i padroni della Sicilia del tempo che poi erano anche gli amici più cari dei mafiosi. Si parte dalla mafia agraria e dal quel pupo nelle mani dei boss che era il bandito Salvatore Giuliano per raccontare il "sacco edilizio” di Palermo, le bombe che di notte facevano saltare in aria le ville liberty di via Libertà o le dimore settecentesche della Piana dei Colli per poi costruire palazzi, palazzi e ancora palazzi.

Il sindaco Salvo Lima e l’assessore ai Lavori Pubblici Vito Ciancimino, i pensionati nullatenenti e prestanome dei costruttori mafiosi, la razzia del territorio, i grandi appalti, la prima guerra del 1963 fra i Greco dei Ciaculli e i La Barbera.

I primi omicidi politici alla periferia dell'impero mafioso, il potere del ministro Giovanni Gioia, i grandi giochi alla Regione Sicilia con i ricchissimi enti controllati dai califfi ammanigliati con la crema di Cosa Nostra. Un documento di straordinario sapere e profondità che è alla radice, elaborazione di Pio La Torre e di Cesare Terranova, del reato di associazione mafiosa e della legge sul sequestro dei beni approvata nel settembre del 1982.

Tre anni dopo l’uccisione del giudice Terranova e centoventi giorni dopo l’uccisione di Pio La Torre. Per una trentina di giorni pubblicheremo ampi stralci di questa relazione sul nostro Blog, atti che nel 2016 la presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi ha voluto pubblicare in un volume per rendere omaggio alla memoria e al coraggio di chi, in solitudine, mezzo secolo prima, aveva già capito tutto.

ATTILIO BOLZONI E FRANCESCO TROTTA

LA RELAZIONE DI PIO LA TORRE E CESARE TERRANOVA.

La mafia non è solo crimine, ma è “un fenomeno di classi dirigenti”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 07 febbraio 2022.

La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da «soprastanti», «campieri» e «gabellotti», ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell'Isola, la grande proprietà terriera e la vecchia nobiltà

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale. 

La relazione di maggioranza (o del Presidente) della Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno dalla mafia in Sicilia — che chiude più di undici anni di attività — non può ritenersi in alcun modo soddisfacente, delude le attese dell'opinione pubblica, non rafforza il prestigio delle istituzioni democratiche. Ciò accade perché, sin dall'inizio, non si è voluta fare una scelta politica netta a proposito della genesi e delle caratteristiche del fenomeno mafioso.

Pur affermando che «la Commissione si è proposta di ripensare in una prospettiva politica le conclusioni a cui è pervenuta la storiografia sulla mafia» e che il dato caratteristico peculiare che distingue la mafia dalle altre forme di delinquenza organizzata è «la ricerca del collegamento con il potere politico», si oscilla, nel seguito, fra la tesi sociologica della mafia come «potere informale» che occupa il «vuoto di potere» lasciato dallo Stato, e la realtà storica della compenetrazione fra il sistema di potere mafioso e l’apparato dello Stato.

Si sfugge cioè al nodo centrale della questione: che tale compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico).

È d’altronde un giudizio storicamente acquisito che la formazione dello Stato unitario nazionale ha significato l'avvio della trasformazione della economia e della società italiana in senso capitalistico, sotto la guida della borghesia. Per assolvere questo suo ruolo dirigente, la borghesia italiana ha dovuto scegliere, di volta in volta, quelle intese e quei compromessi con le vecchie classi dirigenti dell'Italia preunitaria, pervenendo alla formazione di un blocco fra gli industriali del Nord e gli agrari del Sud.

Cioè la borghesia non ha governato, come tuttora del resto non governa, da sola, ma ha dovuto dividere il potere con le altre classi e, per un lungo periodo, soprattutto con i grandi proprietari terrieri, specie con quelli meridionali e siciliani. Il fenomeno mafioso, come è storicamente accertato, si colloca all'origine di questo processo di trasformazione della società italiana e, con riferimento ad una regione come la Sicilia, ne diviene un elemento costitutivo.

La mafia sorge e ricerca subito i suoi collegamenti con i pubblici poteri della nuova società nazionale, e a pubblici poteri accettano, a loro volta, di avere collegamenti con la mafia, per scambiarsi reciproci servizi. Un accordo di potere in Sicilia non può prescindere dalla classe dominante locale costituita dal grande baronaggio. È ragionevole, quindi, supporre che il collegamento fra mafia e pubblici poteri non avvenga senza la partecipazione diretta del baronaggio. Questa circostanza sembra comprovata dalla geografia del fenomeno mafioso, e non in termini sociologici, ma politici.

La Sicilia occidentale, con la capitale Palermo, è stata la base materiale della potenza economica, sociale e politica del baronaggio prima della Unità. Ed è qui, e non nell'altra parte dall'Isola, che si avviano le nuove forme di collegamento mafioso con i pubblici poteri.

I MAFIOSI? NON SOLO GABELLOTTI E CAMPIERI

La mafia è quindi un fenomeno di classi dirigenti. Come tale, pertanto, la mafia non è costituita solo da «soprastanti», «campieri» e «gabellotti», ma anche da altri componenti delle classi che esercitano il dominio economico e politico nell'Isola, cioè da appartenenti alla grande proprietà terriera e alla vecchia nobiltà. Finora si è cercato di presentare il proprietario terriero più come vittima che come beneficiario della mafia; tutt'al più si è riconosciuto che il vantaggio da lui ricevuto sia stato quello di avere nella mafia una guardia armata del feudo.

Il prefetto Mori è arrivato perfino ad affermare che il proprietario terriero, in quanto fornito di beni (patrimoniali estesissimi, non può essere considerato mafioso anche se, per ipotesi, ha colluso con la mafia. Ma se questo fosse vero, bisognerebbe dimostrare che i gruppi sociali più forti in Sicilia in questi cento anni di unità nazionale sono stati i «campieri», i «soprastanti» e i «gabellotti», e non i baroni e i grandi proprietari terrieri, ciò che urta perfino contro il senso comune.

Se una circostanza è lecito riproporre in sede di giudizio storico sullo sviluppo della società siciliana e meridionale, questa è che l'affittuario o «gabellotto», che dir si vaglia, non ha avuto possibilità di «viluppo autonomo, cioè come borghesia nascente, come nella valle padana, ma è stato costretto ad accontentarsi di un semplice ruolo subalterno nell'ambito del modo di produzione latifondistico.

Protagonista e beneficiario di questo modo di produzione è stato fondamentalmente il grande proprietario terriero, e non il «gabellotto» tant'è che il «gabellotto» quando la fortuna e la capacità gli hanno arriso, si è trasformato anche lui in proprietario (terriero, avendo al suo servizio nuovi «gabellotti» (e così gli è stata offerta, attraverso anche il fenomeno della mafia, la possibilità di essere cooptato o assimilato nella vecchia classe dominante).

Interpretare la mafia come fenomeno della classe dirigente isolana, con la partecipazione decisiva del grande baronaggio della Sicilia occidentale, non significa che tutti i membri delle classi dirigenti siano stati o siano, come tali, membri attivi della mafia, ma solo che i membri della mafia rappresentano una sezione nient'affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi, appunto, possono anche entrare, poi, in contraddizione, nello svolgimento dei fatti, con aspetti dell'attività della mafia stessa.

Il popolo siciliano nel 1860 non si riconosce nel nuovo stato perché dopo le promesse garibaldine: 1) viene soffocata nel sangue la sete di terra dei contadini siciliani: Bixio a Bronte e tutte le repressioni successive, sino a quella dei fasci del 1893-94; 2) viene immediatamente tradita l'aspirazione all'autogoverno del popolo siciliano. A tutto ciò si aggiunga il servizio militare obbligatorio, le tasse ingiuste, la corruzione e le angherie delle classi dominanti. Ma il punto centrale è l'ostacolo allo sviluppo di una borghesia moderna e il rifiuto dell'autogoverno.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

Il patto tra politica, nobiltà feudale e mafiosi quando si fa l’Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'8 Febbraio 2022.

Dopo aver riconfermato il suo dominio, l'aristocrazia terriera ha bisogno di un forte potere repressivo per tenere a bada i contadini. Il potere legale che è in grado di esercitare lo Stato sabaudo è insufficiente, nonostante il ricorso ripetuto allo stato d'assedio. La classe dominante siciliana sente, allora, il bisogno di integrarlo con quello extra-legale della mafia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Il patto scellerato fra il partito moderato di Cavour e la nobiltà feudale siciliana è all'origine di quel mancato sviluppo dell'autogoverno e di una borghesia moderna in Sicilia. Ma, dopo aver riconfermato il suo dominio, l'aristocrazia (terriera ha bisogno di un forte potere repressivo per tenere a bada i contadini. Il potere legale che è in grado di esercitare lo Stato sabaudo è insufficiente, nonostante il ricorso ripetuto allo stato d'assedio.

La classe dominante siciliana sente, allora, il bisogno di integrarlo con quello extra-legale della mafia, che si realizza sul feudo con i «gabellotti», i «soprastanti» e i «campieri». Si gettano così le basi del sistema di potere mafioso che si intreccia, come potere informale, con gli organi del potere statale; si realizza una vera e propria compenetrazione fra mafia e potere politico, con l'obiettivo di tenere a bada le classi sociali subalterne.

Ad una parte dei ceti medi, a cui si impedisce di diventare borghesia moderna, si apre la prospettiva della cooptazione nella classe dominante con l'accesso alla proprietà terriera, passando attraverso la trafila della «gabella» che consente di sfruttare e taglieggiare i contadini. Via via, d’altra parte, che l'aristocratico si allontana sempre più dalla terra, si apre la via al ricatto contro di esso e si offre spazio al «gabellotto» di essere lui l'erede del feudo, e cioè di essere affiliato alla classe dominante, e magari, poi, di conquistarsi il titolo di barone.

LA RICERCA DEL CONSENSO POPOLARE

La mafia, d’altro canto, ricerca un consenso di massa per meglio raggiungere i suoi obiettivi. La mafia fa leva sull'odio popolare contro lo «stato carabiniere», contro un potere statale estraneo, antidemocratico ed ingiusto, che nulla offre al popolo e sa solo opprimerlo.

La mafia compie così una grande mistificazione, utilizzando il malcontento popolare, per fini contrari agli interessi reali del popolo siciliano: essa ha bisogno dell’omertà, per assicurarsi l'impunità nei suoi delitti, e cerca, anzi, ila solidarietà dei siciliani.

Viene così qualificato «sbirro» chi riconosce l'autorità dello Stato, che è per sua natura nemico della Sicilia: il siciliano non deve riconoscere lo stato di polizia, anzi si sostiene che da questo Stato, che l’opprime, si deve difendere. In tal modo la mafia riesce a dominare il popolo siciliano ed a giustificare il suo potere extralegale.

Ecco la radice dell’omertà, a cui certo si aggiunge, poi, la paura, il terrore della rappresaglia, che la mafia organizza contro chi si ribella alla legge della omertà.

Ma questo gioco della mafia ha successo perché lo Stato non sa offrire al popolo siciliano null'altro che la repressione e egli stati d’assedio: nel 1860 con Bixio, nel 1863 col generale Covone, nel 1871 col prefetto Malusardi, che menò vanto di aver debellato la mafia, ricevendone onori e precedendo in ciò il prefetto Mori; e, infine, con la repressione del movimento dei fasci, nel 1893-94, sino al fascismo.

Ecco la ragione del fallimento storico della lotta alla mafia. Un particolare interesse ha l'analisi del fenomeno mafioso, di fronte al fascismo. Con l’avvento del fascismo gli agrari si sentono più tranquilli. Il potere fascista garantisce, in prima persona, la repressione del movimento contadino.

Ecco perché si affievolisce il bisogno di far ricorso al potere extra-legale della mafia: la pace sociale è garantita dallo Stato legale, che offre agli agrari grossi vantaggi nella immediata modifica dei patti agrari a danno dei mezzadri e dei coloni siciliani e nel prolungamento della giornata lavorativa del bracciante.

LA “LEGGENDA” DEL PREFETTO MORI

La miseria nelle campagne siciliane, nel periodo fascista, è spaventosa: vi è una disoccupazione di massa. Si conoscono, poi, le conseguenze nefaste della battaglia del grano, di quella politica economica che portò alla riduzione delle aree trasformate a vigneto, ad agrumeto, ad ortofrutticoli.

Ai braccianti venne offerto il miraggio delle terre di Abissinia. Aumentò la superficie delle terre incolte e mal coltivate. C'è poi una leggenda da smentire: che nel periodo fascista esistesse l'ordine assoluto. La verità è che la stampa non libera non raccontava tutto e quindi non si sapeva quante rapine, quante estorsioni, quanti sequestri di persona in quel periodo avvenissero.

Lo stesso prefetto Mori, nella sua autobiografia, mentre afferma di aver dato un colpo alle bande organizzate nelle Madonie, e quindi al banditismo vero e proprio, sulla questione della mafia non riesce a dire niente di serio: anzi, a un certo punto, mena vanto di avere integrato nel sistema fascista i «campieri» dei feudi.

Ecco perché la mafia non è scomparsa, perché nel periodo fascista ha potuto vegetare all'ombra del potere senza bisogno di compiere gesti particolarmente clamorosi. L’alta mafia uscì indenne dalla repressione fascista.

La repressione indiscriminata, con le retate di massa, le perquisizioni su larga scala nelle case della povera gente all'epoca di Mori, ed in quelle successive, i metodi vergognosi della polizia fascista, il sistema delle torture per far confessare imputati spesso innocenti, sottoposti a sevizie ine[1]narrabili, ebbero il triste risultato di alimentare l'odio di massa contro lo Stato.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il crollo del Fascismo e le manovre oscure per il potere in Sicilia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 09 febbraio 2022.

Giungiamo così al nodo del 1943. Un rinnovato alimento la mafia lo ricevette dal modo in cui avvenne la liberazione della Sicilia nell'estate del 1943. C’è ad esempio l’utilizzo da parte dei servizi segreti americani, del gangsterismo siculo-americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia e l'insediamento di sindaci mafiosi in numerosi centri dell'Isola.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Bisogna avere presente che sempre, nei momenti di crisi, il popolo siciliano ha riproposto la sua aspirazione all'autogoverno; nel 1860 come nel 1893 ed ora, nel 1943, al crollo del fascismo.

In realtà, il popolo siciliano vide nella caduta del fascismo il crollo dello Stato accentratore, poliziesco, protettore delle ingiustizie sociali; lo Stato che aveva detto sempre «no» alle sue aspirazioni all'autogoverno ed alla giustizia sociale. Ed è questa la componente sana, più genuina, dell'indipendentismo siciliano.

Certo, gli agrari, ancora una volta, fanno leva su questo sentimento per distorcerlo ai loro fini: essi temono, infatti, che dal crollo del fascismo sorga uno Stato nazionale diverso, in cui la classe operaia e le masse contadine (possano avere — come poi, in effetti, hanno avuto — un ruolo diverso; temono «il vento del Nord».

Giungiamo così al nodo del 1943: al punto fondamentale, cioè, della nostra inchiesta. Un rinnovato alimento la mafia lo ricevette dal modo in cui avvenne la liberazione della Sicilia nell'estate del 1943.

Nella loro manovra, gli agrari, all'inizio, si incontrano con le forze di occupazione angloamericane che, anche in Sicilia, si appoggiavano a gruppi sociali conservatori. C'è infine l'utilizzazione, da parte dei servizi segreti americani, del gangsterismo siculo-americano nella preparazione dello sbarco in Sicilia e l'insediamento di sindaci mafiosi in numerosi centri dell'Isola.

Tutto ciò venne favorito dalla debolezza dei partiti antifascisti in Sicilia e dalla mancanza di una lotta di massa per la liberazione. Ma la convergenza della mafia sulle posizioni separatiste durò poco: proprio perché la mafia deve appoggiarsi al potere politico, appena si rese conto che il Movimento per la indipendenza della Sicilia non aveva alcuna prospettiva di conquistare il potere, cambiò bandiera.

Una parte della mafia e del mondo agrario, quando si accorsero che il Movimento per l'indipendenza della Sicilia non aveva alcuna prospettiva di conquistare il potere nell'Isola, tornò ai vecchi amori col vecchio personale politico dello Stato pre-fascista, con i vecchi notabili che si erano schierati sulle posizioni del partito liberale e dei gruppi monarchici e qualunquisti che pullulavano in quel periodo.

L’ESEMPIO DEL BOSS NAVARRA

Di particolare interesse, a questo proposito, appare quanto si legge a pagina 74 della «Relazione sull’indagine riguardante casi di singoli mafiosi» pubblicata nella scorsa Legislatura (Documento XXIII, n. 2-quater, Camera dei deputati,V Legislatura): «II dottor Navarra, che era rimasto estraneo al fascismo, si schiera, secondo l'orientamento comune dei maggiorenti mafiosi dell'epoca, con il Movimento di indipendenza siciliana sin dal suo nascere».

Il movimento era, come è noto, appoggiato da tutta la mafia isolana e così il Navarra ne approfittò per consolidare i vincoli di amicizia e “rispetto” con gli altri capimafia dell'entroterra (Calogero Vizzini, Genco Russo, Vanni Sacco ed altri), incrementando, conseguentemente, il suo già alto potenziale mafioso e venendo tacitamente riconosciuto, per “intelligenza” e per essere uno dei più vicini alla capitale dell'Isola, quale influente esponente di tutta la mafia siciliana, ottenendo così non solo la stima ma anche la “deferenza” degli altri mafiosi di grosso calibro.

«Venuto meno il Movimento, il Navarra ed altri si orienteranno poi verso il Pli, partito al quale avevano dato le loro preferenze anche taluni grossi proprietari terrieri della zona. «Solo allorquando, dopo il 1948, la Dc apparve come di partito più forte, si assistette — sempre a titolo speculativo ed opportunistico — al passaggio in massa nelle file della Dc di grandi mafiosi, con tutto il loro imponente apparato di forza elettorale».

«Anche il Navarra non fu da meno degli altri capimafia e in Corleone e comuni viciniori (Marineo, Godrano, Bisacquino, Villafrati e Frizzi) attivò campagne elettorali e sensibilizzò le amicizie mafiose, onde dirigere ed orientare votazioni su personaggi ai quali, in seguito, si riprometteva di chiedere favori, così come ormai era nel suo costume mentale».

In questo quadro, non bisogna trascurare le grandi manovre che l'aristocrazia terriera siciliana compì alla vigilia del referendum del 2 giugno 1946: l’accordo sull’ipotesi di staccare la Sicilia dall'Italia, nel caso di vittoria della Repubblica, e di insediare in Sicilia la monarchia sabauda, come punto di riferimento per un ritorno vandeano verso il Continente. Da qui i collegamenti realizzati dai monarchici con il bandito Giuliano, fino alla strage di Portella della Ginestra.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La strage di Portella, il bandito Giuliano e le colpe dello stato. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 10 febbraio 2022

Si verificò, in questa circostanza, un fatto enorme. Il Governo si servì della mafia per eliminare il bandito. Giuliano doveva essere preso morto perché non potesse parlare. Si creò, così, la messinscena della sparatoria a Castelvetrano

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

La Commissione parlamentare antimafia non può rifiutarsi — come fa la relazione di maggioranza — di trarre conclusioni politiche dalla drammatica vicenda della strage di Portella della Ginestra e dalla morte di Giuliano. È fuori dubbio che Giuliano, sparando a Portella della Ginestra il 1° maggio 1947 intendeva compiere una strage in occasione della Festa del Lavoro in una zona nevralgica della provincia di Palermo dove la Cgil e i partiti di sinistra si erano notevolmente sviluppati.

Tale strage si colloca in un momento decisivo della vita politica siciliana: all'indomani delle elezioni della la Assemblea regionale siciliana che aveva visto i partiti di sinistra, uniti nel Blocco del popolo, conquistare la maggioranza relativa dei voti e quindi il diritto ad assolvere ad un ruolo decisivo nel governo regionale, e mentre c'è la crisi dello schieramento antifascista sul piano nazionale e internazionale, e a Roma si apre la crisi di governo con l'obiettivo di escludere il Pci e il Psi dal governo per bloccare le riforme delle strutture economiche e sociali del Paese.

Risulta evidente che ad armare la mano di Giuliano furono forze collegate al blocco agrario siciliano (e anche a centrali straniere) che intendevano sviluppare un aperto ricatto verso la Dc per indurla a rompere con i partiti di sinistra in Sicilia contribuendo così ad accelerare anche la rottura sul piano nazionale. D'altro canto, la banda Giuliano diede un seguito alla sua azione terroristica, e dopo la strage di Portella, nelle settimane successive, si ebbero attacchi alle sedi del Pci e del Psi e delle Camere del lavoro in numerosi comuni del palermitano (S. Giuseppe Iato, Partinico, Monreale, S. Cipirello, eccetera) nel corso dei quali furono assassinati e feriti numerosi lavoratori. Più in generale, nella gran parte della provincia di Palermo si creò un clima di terrore che rendeva impossibile l'esercizio delle libertà democratiche da parte dei partiti di sinistra e della Cgil.

UNA STRAGE EVERSIVA

Tale clima di terrore venne alimentato sino alle elezioni politiche del 18 aprile 1948 che segnarono una profonda modifica dei rapporti di forza fra i partiti in tutti i comuni di influenza della banda Giuliano.

Prendiamo ad esempio i dati elettorali di Montelepre. Il 20 aprile 1947 (elezioni regionali), il Msi democratico repubblicano, la lista di Varvaro, prese 1.951 voti, la DC 719 voti, il Partito monarchico 114, il Blocco del popolo 70. Nel 1948 la DC passa da 719 a 1.593, i monarchici da 114 a 1.034, il Fronte democratico popolare, in cui è candidato Varvaro, prende soltanto 27 voti.

Occorre vedere, poi, le preferenze personali di Mattarella e degli altri che non erano della zona di Partinico ed esaminare come si impedì (ci sono i documenti in possesso dell'Antimafia) al Fronte democratico popolare di tenere una qualunque forma di propaganda elettorale in tutta la zona.

A trarre benefici dall'«intervento» elettorale della banda Giuliano, furono il Pnm da un lato e la DC dall'altro. Ciò spiega la difficoltà in cui poi si trovò il Governo nel dare conto al Parlamento e al Paese della morte di Giuliano.

Si verificò, in questa circostanza, un fatto enorme. Il Governo si servì della mafia per eliminare il bandito. Giuliano doveva essere preso morto perché non potesse parlare. Si creò, così, la messinscena della sparatoria nel cortile De Maria a Castelvetrano. Il Ministro dell'interno dell'epoca emanò un bollettino con cui si accreditava la falsa versione della morte di Giuliano e si promuovevano sul campo tutti i protagonisti dell'impresa. Il colonnello dei Carabinieri Ugo Luca venne promosso generale. Il prefetto Vicari fu promosso prefetto di prima classe e da li spiccò il volo sino a diventare Capo della polizia.

Ma bisognava anche impedire che la Magistratura aprisse una qualche inchiesta sui fatti e allora si pensò di « tacitare » il Procuratore generale di Palermo, Pili, che era alla vigilia di andare in pensione. Il presidente della Regione (che era allora l'onorevole Franco Restavo) si incaricò di offrire a Pili un importante incarico: al momento di entrare in quiescenza lo nominò consulente giuridico della Regione siciliana. E così il cerchio si chiuse.

Tutti gli organi dello Stato furono in verità coinvolti in una operazione che doveva servire ad impedire che si accertasse la verità sulle collusioni fra alcuni uomini politici e la banda Giuliano. Ma per raggiungere questo risultato si fece ricorso alle cosche mafiose che ne uscirono rafforzate e accresciute nel loro peso politico. Tale peso politico la mafia lo utilizza nel contrastare le lotte contadine per ila riforma agraria e il rinnovamento sociale della Sicilia.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il movimento contadino siciliano, la prima antimafia organizzata. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'11 febbraio 2022

Si sviluppò dal 1944 in poi il più vasto e organizzato movimento contadino della storia della Sicilia. Non vi è dubbio che questo movimento con la sua parola d'ordine «fuori il gabellotto dai feudi» abbia dato il via ad uno scontro frontale con la mafia. Da qui la lunga catena degli eccidi di dirigenti contadini commessi in quegli anni. Il fatto grave è che l'apparato dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l'impunità degli assassini e dei mandanti.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Al momento dal crollo dal fascismo, il latifondo siciliano si presentava intatto nelle sue caratteristiche fondamentali. Gran parte delle terre erano incolte o mal coltivate. La maggior parte delle grosse aziende (gli ex feudi) erano in mano ai «gabellotti».

Il movimento contadino siciliano si andava organizzando sotto le bandiere della Cgil. Gli agrari si rifiutavano di riconoscere le leggi agrarie dei governi antifascisti dei Cln, boicottavano i decreti Gullo e Segni che modificavano i riparti dei prodotti agricoli a favore dei mezzadri e quelli per l'assegnazione delle terre incolte.

Ma il primo scontro avvenne attorno ai «granai del popolo». Quando il Governo, per rifornire le città affamate, organizzò l'ammasso, gli agrari mobilitarono la mafia. E furono uccisi Andrea Raia, segretario della sezione comunista di Casteldaccia; D'Alessandro a Ficarazzi; Maniaci a Cinisi.

I decreti Gullo traevano origine dalla necessità di aumentare la produttività agricola. Si spingevano i contadini a seminare le terre incolte offrendo anche l'incentivo di una ripartizione più favorevole del prodotto. Si sviluppò così, dal 1944 in poi, e con un ritmo crescente, il più vasto e organizzato movimento contadino della storia della Sicilia. Sorsero centinaia di cooperative che chiesero in affitto le terre incolte o mal coltivate e avviarono un rilevante processo di trasformazione di vaste aree. Le lotte per l'assegnazione delle terre incolte e mal coltivate e quelle per un più equo riparto dei prodotti agricoli assunsero aspetti davvero drammatici.

Non vi è dubbio che il movimento contadino siciliano con la sua parola d'ordine «fuori il gabellotto dai feudi» abbia dato il via ad uno scontro frontale con la mafia.

Potrebbe, infatti, sorgere l'interrogativo se il gabellotto, come espressione di una borghesia «impedita nel suo sviluppo», non avesse diritto, anch'egli, ad uno spazio nel “processo di trasformazione del latifondo siciliano”. Era, infatti, inevitabile che il gabellotto, messo con le spalle al muro dai contadini, reagisse con tutta la violenza di cui erano capaci le cosche mafiose delle quali egli era espressione. Da qui la lunga catena degli eccidi di dirigenti contadini commessi in quegli anni.

LO STATO COPRE ASSASSINI E MANDANTI

Il fatto grave è che l'apparato dello Stato si comportò sempre in modo da garantire l'impunità degli assassini e dei mandanti. La questione è decisiva e merita una spiegazione politica. Occorre, a questo fine, rispondere all'interrogativo: verso quali forze politiche si orientarono le cosche mafiose dopo il tramonto del Movimento separatista? Una parte si orientò verso i vecchi esponenti del trasformismo politico siciliano (liberali, monarchici, e qualunquisti). Una parte, invece, si orientò verso la Democrazia cristiana.

L'operazione venne iniziata già nel periodo in cui l'onorevole Salvatore Aldisio era Alto commissario per la Sicilia. Uomini come Aldisio, Milazzo, Alessi, Scelba e Mattarella, all'inizio, furono protagonisti di una battaglia di recupero su posizioni autonomistiche degli strati di piccola e media borghesia siciliana che avevano fatto la scelta separatista.

Aldisio diventò Alto commissario della Sicilia per conto del Governo nazionale dei Comitati di liberazione e impostò una spregiudicata azione per dare una base di massa al suo partito. Si manifestò subito, nell'azione dall'Alto commissario Aldisio, la doppia anima della politica che poi la Democrazia cristiana seguirà negli anni successivi: da un lato, un programma di riforme e di sviluppo democratico e dall'altro la ricerca di un compromesso con i ceti parassitari isolani.

Questa contraddizione trovò un nodo risolutore nella rottura dell'unità antifascista nella primavera del 1947. Quando mettiamo in evidenza questo aspetto nel rapporto fra Dc e cosche mafiose sappiamo che si è trattato di un rapporto che sii è modificato nel corso degli anni, avendo ampiezza e influenza variabili.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Sindacalisti assassinati, mafiosi impuniti, mandanti occulti. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA u Il Domani il 12 febbraio 2022

Sicilia, elezioni del 18 aprile 1948. Nel corso di quella campagna elettorale furono compiuti alcuni dei più efferati delitti di mafia contro-esponenti del movimento contadino siciliano. Vogliamo ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Cangelosi a Camporeale. L'assassinio dei tre fu un fatto simbolico

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Abbiamo accennato già, a proposito della strage di Portella della Ginestra, al ricatto e alla pressione che le forze del blocco agrario siciliano intesero esercitare, in quell'occasione, nei confronti della Democrazia cristiana perché all'indomani delle elezioni siciliane del 20 aprile 1947 andasse ad una rottura aperta con i partiti della sinistra.

Mentre lo Statuto preparato dalla Consulta regionale era stato il frutto di una intesa fra i grandi partiti antifascisti che erano allora nel Governo nazionale, dopo la Strage di Portella si formò un governo regionale minoritario democristiano con l'appoggio delle forze della destra monarchico-liberal-qualunquista.

La Democrazia cristiana, dopo Portella, cedette al ricatto del blocco agrario e anticipò in Sicilia la rottura dell'alleanza fra i grandi partiti di massa, che qualche settimana dopo si ripeté anche al livello nazionale. L'impianto della Regione siciliana venne attuato in quel clima e con quello schieramento che preparò in Sicilia le elezioni del 18 aprile 1948.

Nel corso di quella campagna elettorale furono compiuti alcuni dei più efferati delitti di mafia contro-esponenti del movimento contadino siciliano. Vogliamo ricordare in modo particolare tre episodi: Placido Rizzotto a Corleone, Epifanio Li Puma a Petralia, Cangelosi a Camporeale, dirigenti contadini di queste tre zone fondamentali nella provincia di Palermo e Socialisti.

Perché tre socialisti? Gli assassinai si susseguirono a distanza di pochi giorni. Vi era stata la scissione Socialdemocratica e il movimento contadino in Sicilia restava, invece, unito; occorreva, dunque, dare un colpo al movimento e da parte della mafia si sviluppò una campagna di intimidazioni verso i dirigenti socialisti. L'assassinio dei tre fu un fatto simbolico; non a caso a difendere Leggio nel processo per l'assassinio di Rizzotto fu l'avvocato Rocco Gullo, allora massimo esponente della socialdemocrazia palermitana. Ecco perché il voto del 18 aprile, in Sicilia, vide tutte le forze conservatrici e parassitarne fare quadrato intorno alla Democrazia cristiana.

LA REPRESSIONE CONTRO SINDACALISTI E CONTADINI

Si creò un clima di terrore per ricacciare indietro il movimento contadino che aveva osato mettere in discussione il dominio del blocco agrario.

Il voto per la DC da parte di queste forze fu una ipoteca consapevole che si volle mettere sulla politica di quel partito (e quelle stesse forze erano pronte a ritirare la fiducia data, come faranno nelle elezioni successive, perché, se andiamo a vedere le oscillazioni dei voti per la Democrazia cristiana in certe zone della Sicilia, vediamo che il rapporto fiduciario fra queste forze e la DC non è un rapporto organico e le cosche decidono a seconda delle circostanze).

La situazione, però, in quel momento politico ha preso una china ineluttabile; dopo le elezioni del 18 aprile, infatti, si procedette in Sicilia al consolidamento dello schieramento di centro-destra al governo della Regione. Cadde il governo monocolore di Alessi, che era stato una sorta di governo di transizione (monocolore DC con appoggio liberal-qualunquista di destra) e si costituì il governo organico di centro-destra presieduto dall'onorevole Restivo, del quale entrarono a far parte come assessori gli esponenti più qualificati del blocco agrario e del sistema di potere mafioso.

Tale schieramento governò la Regione ininterrottamente per sette anni: dal 1948 al 1955; fu il famoso settennio « restiviano » dei governi del blocco agrario. Ecco, allora, la risposta all'interrogativo angoscioso del perché dell'inquinamento mafioso della Regione.

La Regione siciliana fu impiantata da uno schieramento politico che era l'espressione organica del blocco agrario e del sistema di potere mafioso.

Il decollo della Regione, la fondazione dell'autonomia richiedeva il contributo di tutte le componenti popolari che l'avevano voluta e che avevano preparato lo Statuto. La discriminazione che si aprì nel maggio 1947 verso la parte più avanzata e combattiva del popolo siciliano, che aveva dato un terzo dei voti (maggioranza relativa) al Blocco dei popolo, offriva lo spazio ad un sistema di potere fondato sul clientelismo, sulla corruzione e sulla mafia.

L'autunno del 1949 e la primavera del 1950 furono caratterizzati in Sicilia da una ondata di lotta per la terra di eccezionale portata. Decine di migliaia di ettari di terra vennero occupati dai contadini che in molti casi procedettero anche alla quotizzazione e alla semina dei fondi occupati.

GLI AGRARI CONTRO LA RIFORMA 

È nota la violenza della repressione organizzata in quel periodo dal ministro dell'interno Scelba. In Sicilia centinaia di dirigenti e migliaia di contadini furono arrestati e condannati, in molti casi, a numerosi anni di carcere. Ma nonostante la repressione il movimento continuò a dilagare per molti mesi provocando, anche in Sicilia, all'interno della Democrazia cristiana il prevalere delle tendenze favorevoli all'attuazione di una riforma agraria.

Dopo un ampio dibattito, l'Assemblea regionale siciliana, il 27 dicembre 1950, approvò un'importante legge di riforma agraria che oltre a fissare il limite delle proprietà terriere a 200 Ha, imponeva agli agrari alcuni vincoli per la trasformazione delle terre che restavano di loro proprietà. Ma quella legge, varata in un clima drammatico, doveva essere apertamente sabotata e restare per cinque anni senza attuazione.

Fu scatenata dagli agrari siciliani un'«offensiva della carta bollata» per bloccare l'attuazione della legge. Ma quell'offensiva poté avere successo perché il governo regionale, presieduto dall'onorevole Restivo, fu ben lieto di assecondare la manovra degli agrari e dei loro avvocati. Intanto gli avvocati degli agrari erano noti esponenti della Democrazia cristiana siciliana come il professor Gioacchino Scaduto (allora sindaco di Palermo); il professor Pietro Virga (allora assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo); il professor Lauro Chiazzese, Rettore dell'Università, presidente della Cassa di Risparmio V.E. per le province siciliane, e segretario regionale amministrativo della DC; il professor Orlando Cascio, uomo di fiducia del ministro Mattarella.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Così la Democrazia Cristiana e vecchi padrini si dividevano il potere. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 13 febbraio 2022

Risulta evidente che i casi di Genco Russo a Mussomeli, di Navarra a Corleone e di Di Carlo a Raffadali sono emblematici di una situazione molto diffusa in decine di comuni della Sicilia occidentale. Nel periodo della «mafia agricola» le più importanti cosche mafiose della Sicilia occidentale confluirono nel sistema di potere della DC.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Queste personalità, presentando i ricorsi degli agrari, erano in grado di influenzare fortemente l'attività dell'Assessorato regionale all'agricoltura e dell'Ente di riforma agraria. Il personale dell'Assessorato della agricoltura e quello dell'Ente di riforma agraria, d'altro canto, era stato assunto con i peggiori metodi del clientelismo privilegiando alcuni rampolli delle più note famiglie mafiose. Le connivenze, pertanto, diventarono un fatto normale. Solo così si spiega il fatto che per ben 5 anni gli agrari riuscirono a bloccare l'attuazione della riforma.

Nello stesso tempo venne attuata una colossale truffa nei confronti dei contadini siciliani con l'operazione vendita delle terre in violazione della legge di riforma agraria. Protagonista di questa operazione doveva essere la mafia. Le relaziona presentate dalle Federazioni comuniste di Caltanissetta, Agrigento e Trapani nel 1963 alla nostra Commissione documentano gli episodi più significativi di questa grande truffa. La relazione della Federazione comunista di Caltanissetta documenta come in quella provincia, negli anni successivi all'approvazione, della legge, siano stati venduti circa 20.000 Ha di terra.

A pag. 22 della relazione si legge infatti: «Per avere una esatta dimensione dell'enorme truffa consumata ai danni dei contadini e della economia di interi paesi basta citare i seguenti dati: le terre vendute ammontano complessivamente a circa 20.000 ettari; esse sono state pagate a lire 300.000 – 400.000 per ettaro cioè sono costate ai contadini 6-8 miliardi più gli interessi, le taglie (vedi vendite Riggiulfo-Cotugno) e le enormi spese che sui contadini sono gravate (nei feudi Deri, Montecamino, Mostunuxaro, Mustogiunto, acquistate dai contadini di Santa Caterina, tramite una cosiddetta cooperativa di combattenti, dopo aver regolarmente pagato cambiali per ben dieci anni, i contadini hanno constatato che ancora non avevano decurtato di una sola lira il debito derivante dall'acquisto delle terre!).

«Per le stesse terre che hanno formato oggetto di queste vendite in tutta la provincia (ripetiamo circa 20.000 ettari) se espropriate dall’Eras in attuazione della legge di riforma agraria sarebbero state pagate ai pròprietari 80-100 mila lire per ettaro, cioè complessivamente da lire 1 miliardo e 600 milioni a lire 2 miliardi. È chiaro che le enormi taglie imposte dagli agrari, dai mafiosi e da determinate forze politiche ai contadini non hanno avuto la loro tragica incidenza sulla situazione ormai rovinosa esistente nelle campagne. Quei contadini che, a suo tempo, comprarono le terre sono stati i primi a fuggire dalle campagne oppressi dalle cambiali e impossibilitati, dato il grave indebitamento, a realizzare una qualsiasi opera di trasformazione nelle campagne».

GENCO RUSSO, NAVARRA E DI CARLO

Analogamente accadde ad Agrigento a Trapani e a Palermo, come documenta la Commissione di inchiesta nominata nel 1959 dal governo Milazzo e presieduta dal dottor Merra (la cui relazione è agli atti della nostra Commissione).

Ecco allora che il caso del fondo Polizzello di Mussomeli, su cui giustamente si sofferma la relazione in esame, non è un episodio isolato e nemmeno eccezionale. Episodi analoghi si verificarono in decine di comuni della Sicilia occidentale. Essi furono possibili perché le cosche mafiose di quei paesi erano ormai entrate nel sistema di potere della Democrazia cristiana di quei comuni.

Nel caso di Polizzello, infatti, Genco Russo era ormai dirigente della Democrazia cristiana di Mussomeli dove arrivò ad essere consigliere comunale oltreché vice presidente del Consiglio di amministrazione del Consorzio di bonifica dal Platani e Tumarrano.

Ma Genco Russo e i suoi complici, quando andarono a Roma per trattare con l'Opera nazionale combattenti, erano accompagnati dai parlamentari democristiani con alla testa l'onorevole Calogero Volpe che può essere definito il cervello politico del sistema di potere mafioso in provincia di Caltanissetta. Lo stesso si può dire per la vicenda del dottor Michele Navarra, il capomafia della zona di Corleone. II dottor Navarra fu anche lui il capo elettore dell'onorevole Calogero Volpe o di altri parlamentari regionali e dirigenti della Dc.

Analogamente si può dire del capomafia di Raffadali professor Di Carlo che fu capo elettore dell'onorevole Di Leo. Risulta evidente che i casi di Genco Russo a Mussomeli, di Navarra a Corleone e di Di Carlo a Raffadali sono emblematici di una situazione molto diffusa in decine di comuni della Sicilia occidentale. Risulta evidente come nel periodo della «mafia agricola» le più importanti cosche mafiose della Sicilia occidentale confluirono nel sistema di potere della Dc.

Ciò spiega la loro potenza e come riusciranno prima a bloccare la riforma agraria e poi a svuotarla largamente con l'operazione vendita delle terre. Ciò spiega anche l'inquinamento dalla Pubblica amministrazione.

L’Ente di riforma agraria, i consorzi di bonifica, i consorzi di irrigazione eccetera erano in mano alla mafia. La rottura del latifondo in Sicilia avvenne attraverso un processo contraddittorio. Da un lato venne ritardata e distorta l'attuazione della legge di riforma agraria, dall'altro lato si realizzò l'operazione vendita delle terre che offrì un nuovo campo di attività alla mafia.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. L’omicidio del sindaco Almerico e i silenzi del ministro Giovanni Gioia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 14 febbraio 2022

In numerosi comuni l'immissione delle cosche mafiose nelle sezioni della DC avvenne pacificamente pur tra resistenze, contraddizioni, espulsioni e ritiri di chi non accettava questo. A Camporeale la resistenza ferma e tenace del professor Almerico provocò la reazione violenta del boss Vanni Sacco. E l'onorevole Gioia non batté ciglio, proseguendo l'opera di assorbimento delle cosche mafiose nella Dc

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

È necessario rispondere agli interrogativi relativi al perché e al come avviene l'incontro fra la nuova leva mafiosa e di tipo urbano e la nuova leva di uomini politici dei partiti governativi che avanza sulla scena pubblica dopo la crisi del blocco agrario e che provoca la cadute del governo Restivo nel 1956.

Quando, ad esempio, sa fa la biografia di Ciancimino come caso emblematico, bisogna rispondere a questo interrogativo: da dove è venuto e come è potuto accadere? Bisogna qui fare l'analisi del processo di sviluppo economico, e, parallelamente, di quello politico.

Per quanto riguarda la Democrazia cristiana, dopo il congresso di Napoli del 1954, che vede la vittoria della linea Fanfani, prevale la concezione integralistica, per cui in provincia di Palermo l'onorevole Gioia passa dalla linea restiviana di alleanza soltanto elettorale e governativa con forze di destra che erano espressione organica di cosche mafiose, ma che restavano distinte e separate dal partito democristiano, ad una concezione che mirava ad assorbire all'interno della DC quelle stesse forze.

Non che Restivo disdegnasse il passaggio nelle file della DC di noti esponenti del blocco conservatore: vogliamo ricordare il caso del professor Lauro Chiazzese (ex dirigente del Pli, diventato segretario regionale amministrativo della DC).

Ma Restivo come suo metodo fondamentale tendeva a mantenere una distinzione del blocco di forze più parassitario (la Cespa, il gruppo parlamentare degli ex fascisti e qualunquisti, è uno dei capolavori dell'onorevole Restivo, quando era Presidente della Regione: 7 deputati regionali che costituivano un gruppo parlamentare al servizio del Presidente della Regione).

Con l'avvento di Gioia prevale invece l'orientamento di costringere le forze ex liberali e monarchico-qualunquiste ad entrare nella DC. La relazione che la Federazione comunista di Palermo ha mandato alla Commissione antimafia elenca le persone che fino al 1956 erano state esponenti, consiglieri comunali, deputati regionali e parlamentari nazionali del Partito monarchico e del Partito liberale e che, via via, passano con tutto il loro codazzo alla DC: da Di Fresco, attuale presidente della Provincia di Palermo, ad Arcudi e Cerami, che sono tuttora senatori della Repubblica, ai fratelli Giganti, uno assessore al Comune e l'altro alla Provincia, ai Guttadauro padre e figlio, uno assessore al Comune e l'altro alla Provincia, a Pergolizzi, e così via.

Le cosche mafiose, che erano portatrici della forza elettorale di questi personaggi erano confluite nella Dc con alla testa i boss mafiosi delle varie zone di Palermo: Paolino Bontà, Vincenzo Nicoletti, Pietro Torretta, La Barbera, Greco, Gambino, Vitale eccetera. Lo stesso accadde in decine di comuni della provincia: cosche mafiose ex-liberali, ex-separatiste (le cosche, in provincia, erano ex-liberali ed ex-separatiste) confluirono nella Dc. 

L’OMICIDIO DI ALMERICO

L'episodio di Camporeale possiamo definirlo un infortunio sul lavoro, nel senso che a Camporeale la morte di Almerico è un incidente. In numerosi altri comuni l'immissione delle cosche mafiose nelle sezioni della DC avvenne pacificamente pur tra resistenze, contraddizioni, espulsioni, ritiri sotto la tenda di esponenti democristiani, cattolici e democratici, che non accettavano questa immissione nel loro partito delle forze legate alla mafia.

A Camporeale la resistenza ferma e tenace del professor Almerico provocò la reazione violenta del boss Vanni Sacco nei termini che sappiamo.

E l'onorevole Giovanni Gioia, segretario della DC a Palermo, non batté ciglio e proseguì imperterrito nell'opera di assorbimento delle cosche mafiose nella DC.

C'è da rilevare che dopo il primo dibattito svoltosi nella Commissione veniva presentato dal Presidente un nuovo testo della relazione. Constatammo, con sorpresa, che erano state aggiunte delle pagine biografiche riguardanti alcune persone del mondo politico ed economico siciliano che non figuravano nella prima stesura e che non avevano nessun rapporto col fenomeno mafioso.

Si tratta dal deputato socialista Salvatore Fagone, dell'avvocato Vito Guarrasi e dell'ingegnere Domenico La Cavera. Tali nomi erano stati indicati a fini diversivi dai commissari della destra fascista.

Si trattava quindi e si tratta di un evidente cedimento a forze di destra e a gruppi interessati a intorbidire le acque. Successivamente il Presidente accettava di depennare dalla rosa dei nuovi nomi quello del deputato socialista Fagone mentre, pur negando che avessero alcun legame con la mafia e pur ridimensionando i rilievi precedentemente fatti, ha voluto lasciare nella sua relazione gli altri due nomi. 

Intanto, come dimostreremo più avanti, La Cavera rappresenta la borghesia imprenditoriale siciliana che tenta di opporsi alla politica dei grandi gruppi monopolistici e rimane schiacciata. Diverso il caso Guarrasi che è il tipico professionista abituato a rendere i suoi servizi ad alto livello tecnico e professionale. Ma come lui ci sono decine di uomini in Sicilia.

La differenza fra Guarrasi e gli altri consiste nel fatto che Guarrasi ha reso servizi anche alle sinistre. Ecco perché si infierisce contro di lui e non contro gli altri che più organicamente e stabilmente hanno espresso il sistema di potere mafioso: il notaio Angilella, il notaio Margiotta, l'avvocato Orlando Cascio, il professor Chiazzese, il professor Scaduto, l’avvocato Noto Sardegna, l'avvocato Cacopardo, eccetera. Ma qui l'obiettivo è più ambizioso. 

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. “Operazione Milazzo”, la rivolta contro la classe dirigente democristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 15 febbraio 2022

Dalla relazione della maggioranza risulterebbe che il punto di massima espansione della potenza della mafia in Sicilia sarebbe quello del governo regionale presieduto dall'onorevole Silvio Milazzo. Si tratta di un falso storico. La rivolta siciliana del 1958 è contro il sistema di potere del gruppo dirigente fanfaniano in Sicilia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Dalla relazione della maggioranza risulterebbe che il punto di massima espansione della potenza della mafia in Sicilia sarebbe quello del governo regionale presieduto dall'onorevole Silvio Milazzo (14 mesi che vanno dall'ottobre 1958 al dicembre 1959). Si tratta di un falso storico.

La rivolta siciliana del 1958 è contro il sistema di potere arrogante, integralista, antidemocratico, clientelare e mafioso del gruppo dirigente fanfaniano in Sicilia.

In conseguenza della rottura del blocco agrario in Sicilia, a metà degli anni ‘50, si crearono nuove possibilità di inserire le forze della piccola e media borghesia siciliana in un rinnovato processo di sviluppo economico dell'Isola.

In quel clima si costituì in Sicilia il governo dell'onorevole Alessi (allora vicino a Gronchi), che ripropose, anche se con timidezza e contraddizioni, i temi dello sviluppo dell'autonomia, e per la prima volta, quelli di un piano di sviluppo economico regionale. Ma un tale disegno entrava in contraddizione con la strategia di espansione monopolistica nelle regioni meridionali.

Lo scontro si fece aspro e ravvicinato. Sulla base di tale scontro si determinò una profonda crisi e una differenziazione nelle forze sociali e negli schieramenti politici. Una crisi si aprì tra la Confindusttria e la direzione della Sicilindustria, quale organizzazione delle forze della borghesia imprenditoriale isolana che pretendevano di avere un ruolo determinante nel processo di industrializzazione della Sicilia.

Anche nelle forze del capitalismo agrario si manifestarono analoghi segni di crisi a causa delle scelte politiche del Mercato Comune Europeo e della fine del protezionismo granario (prezzo politico del grano duro, eccetera).

Più in generale, la strategia di espansione monopolistica riproponeva in quel periodo il problema della omogeneizzazione dell'apparato amministrativo e statale. Si imponeva anche un ricambio di tutto il personale politico incapace di adeguarsi ai «nuovi tempi».

L'ideologia per tale ricambio, dal 1955 al 1958, la fornì, anche in Sicilia, l'integralismo fanfaniano, che conquistò le leve di comando all'interno della Democrazia cristiana, con la velleità dì essere portatore di una politica di sviluppo e di rinnovamento.

IN SICILIA, UN MANCATO SVILUPPO DEMOCRATICO

Ma la contraddizione fondamentale era rappresentata dall'accettazione di un disegno esterno che si scontrava con l'esigenza di un reale sviluppo democratico. In particolare in Sicilia questi gruppi si mostrarono subito incapaci di intendere il valore dell'autonomia. Donde un più rapido loro scadimento a gruppi di potere, col risultato che, sull'onda del «fanfanismo», si fece avanti un nuovo personale politico specialista nell'arte del sottogoverno, spregiudicato e senza scrupoli, assetato di comando e ricchezza.

Tale personale si mostrò disponibile per un rinnovato tentativo di colonizzazione per una vera e propria subordinazione della Regione alla politica di rapina dei monopoli, secondo un disegno che era stato apertamente prospettato sin dalla fine del 1955 al convegno del Cepes di Palermo. (In quell'occasione si riunirono a Villa Igea, sotto la presidenza del professor Valletta, i più bei nomi della finanza italiana per dire no ad ogni ipotesi di programmazione economica regionale in Sicilia).

Venne rapidamente liquidato, pertanto, il governo Alessi. Al suo posto si insediò, nel 1956, il governo La Loggia, che si presentò immediatamente come il coerente interprete della strategia monopolistica e dell'integralismo fanfanismo.

Risulta evidente che in una realtà come quella siciliana, e in presenza del regime di autonomia, il disegno monopolistico doveva non solo scontrarsi con le forze avanzate della classe operaia e del movimento democratico ed autonomista isolano, ma scatenare una rivolta in settori importanti della borghesia isolana e nelle stesse file della DC. L’occasione venne dal tentativo di colpo di mano di La Loggia che nell'estate del 1958, battuto nel voto sul bilancio, rifiutava di dimettersi.

Nella lunga battaglia parlamentare caratterizzata dall'ostruzionismo delle sinistre, si aprì una profonda differenziazione nel gruppo parlamentare DC sino alla spaccatura aperta. Si arrivò, dopo una lunga crisi, alla elezione dell'onorevole Silvio Milazzo alla Presidenza della Regione e alla rivolta autonomistica del 1958-59.

La formazione dei governi Milazzo era sin dall'inizio limitata da condizioni negative (quali la convergenza sul piano parlamentare della destra missina, quasi subito peraltro riassorbita all'alleanza con la DC, e il carattere contraddittorio della linea politica e della formazione milazziana). Errori successivi — e deplorevoli elementi trasformistici e di provocazione — contribuirono ad offuscare il reale valore democratico e autonomistico di quella battaglia, favorendone sia incomprensioni, sia interessate falsificazioni.

Fu merito dell'onorevole Milazzo respingere il ricatto anticomunista in nome della causa autonomistica; fu suo limite ed errore il restare in parte impigliato nell'anticomunismo e nell'illusione che il collegamento con forze di destra potesse servire alla Sicilia. È naturale che in quel clima di profondo sommovimento della vita sociale e politica dell'Isola alcune frange mafiose abbiano cercato di trovare addentellati con esponenti del nuovo governo. Ma è un diversivo l'affermazione della relazione che quello fu il periodo di massima espansione del potere mafioso.

Lo schieramento di forze che si costituì attorno a Milazzo si dimostrò incapace per la sua insufficienza parlamentare e per la sua eterogeneità di governare la Sicilia. Si manifestarono ritardi nel capire i limiti di quello schieramento e si alimentarono illusioni su quello che era possibile fare in quelle condizioni.

Ma in quel breve periodo, sotto la spinta dei partiti di sinistra, furono attuate alcune esemplari iniziative antimafia: 1) la cacciata di Genco Russo e Vanni Sacco dai consorzi di bonifica; 2) l'inchiesta sull'Eras della Commissione presieduta dal giudice Merra (agli atti della Commissione).

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE DEL 1976. Così il governo di centro-sinistra salvò l’onorevole Lima e soci. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 16 febbraio 2022

I limiti e le contraddizioni del governo regionale guidato da Giuseppe D’Angelo. Quando il prefetto Bevivino depositò la sua clamorosa relazione sul Comune di Palermo e il gruppo parlamentare comunista all'Ars presentò la mozione per lo scioglimento del Consiglio comunale, la mozione comunista venne respinta

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Il sistema di potere mafioso ricevette, invece, nuovo alimento dal modo in cui, da parte di alcuni settori della grande industria, dell'agraria siciliana e della DC, si operò per rovesciare il governo Milazzo. Si sviluppò una campagna allarmistica, affermando che tutti i mezzi erano buoni per raggiungere lo scopo di far cadere quel governo.

E i mezzi usati furono quelli del ricatto e della corruzione verso alcuni esponenti di quel governo utilizzando, ancora una volta, la mafia. Contemporaneamente, per riconquistare la direzione della Regione la DC non esitò a dar vita allo «schieramento anti-marxista» a consegnare la Presidenza della Regione al monarchico Majorana (oggi senatore del MSI) e a imbarcare nel governo esponenti del MSI. Si faceva compiere alla Sicilia un passo indietro di almeno dieci anni, dando nuovo spazio alle forze peggiori del clientelismo e dell'ascarismo mafioso.

La sconfitta della «rivolta milazziana», costituì un'altra delusione del popolo siciliano e aprì un periodo di difficoltà nelle lotte per l'autonomia e il rinnovamento democratico della Sicilia. A tanti anni di distanza, quella breve, contraddittoria e complessa esperienza va ricondotta al suo vero significato legato ai termini dello scontro politico, aspro e violento, che in quel periodo vi fu fra Dc e partiti di sinistra.

Emersero da quell'esperienza i guasti profondi che la rottura e la prolungata contrapposizione frontale fra la Dc e i partiti di sinistra avevano prodotto nella vita e nel funzionamento delle istituzioni autonomistiche in Sicilia.

IL MANCATO SCIOGLIMENTO DEL COMUNE DI PALERMO

L'apertura di una nuova fase nella vita politica italiana con la formazione dei governi di centro-sinistra offrì alcune possibilità nuove di iniziativa per lo sviluppo della democrazia anche in Sicilia.

Non è casuale che la costituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla mafia avvenne proprio nel 1962, all'inizio della esperienza dei governi di centro-sinistra. E al tempo stesso si manifestarono i limiti e le contraddizioni del nuovo schieramento di governo anche per quanto riguarda la lotta contro il sistema di potere mafioso.

L'esempio più significativo di queste contraddizioni è costituito dal comportamento del governo regionale verso il Comune di Palermo. Fu il Presidente della Regione del primo governo di centro-sinistra in Sicilia, l'onorevole Giuseppe D'Angelo, ad accogliere la proposta comunista di un'inchiesta sul rapporto mafia-Enti locali nella Sicilia occidentale e, in primo luogo, a Palermo.

Ma quando il prefetto Bevivino depositò la sua clamorosa relazione sul Comune di Palermo e il gruppo parlamentare comunista all'Ars presentò la mozione per lo scioglimento del Consiglio comunale, il presidente D'Angelo e la maggioranza di centro-sinistra non furono capaci di compiere, sino in fondo, il proprio dovere e la mozione comunista venne respinta con 43 voti contro 43.

In conseguenza di quel voto, Lima e soci rimasero in sella e, utilizzando l'incoerenza di D'Angelo, poterono organizzare la loro vendetta sino a estrometterlo, con l'aiuto dei gestori delle esattorie, dalla scena politica siciliana

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La cattura di Luciano Leggio e l’esplosione della mafia nel Nord Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 17 febbraio 2022

Il modo assurdo con cui si sono scelte le località di soggiorno obbligato per i mafiosi ha favorito il loro inserimento al Nord ed una certa facilità di reclutamento di nuove leve fra gli strati più emarginati e disperati di emigrati siciliani, una facilità di presa su attività quali il racket della manodopera, la speculazione edilizia, certe attività commerciali, oltre al contrabbando di droga e i sequestri di persona. 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

La gravità della compenetrazione della mafia col sistema di potere democratico in Sicilia agli inizi degli anni '60 è efficacemente documentata nelle relazioni che le Federazioni comuniste della Sicilia occidentale consegnarono alla Commissione parlamentare alla fine del 1963.

Il Pci è stato l'unico partito che ha offerto alla Commissione antimafia simile collaborazione. Vogliamo sottolinearlo a testimonianza della coerenza e della continuità dell'impegno del nostro partito su questo fronte di lotta per il progresso democratico della Sicilia.

Pubblicheremo, pertanto, quelle relazioni in allegato. Nessuno, oggi, a distanza di 12 anni mette in discussione le cose che allora noi scrivevamo. Si sostiene, invece, che la situazione sarebbe profondamente cambiata e che uno dei risultati più rilevanti sarebbe costituito dall'affievolirsi del rapporto tra mafia e potere politico fino quasi ad annullarsi. Non vi è dubbio che molti cambiamenti sono avvenuti e noi comunisti siamo i primi a sottolinearlo.

Nel documento che il Comitato regionale siciliano del Pci ebbe a consegnare alla nostra Commissione in occasione dell'ultimo sopralluogo a Palermo si da un quadro chiaro e sintetico di tali cambiamenti: « Non vi è dubbio che la costituzione dell'Antimafia, la sua semplice presenza nella vita politica, la stessa azione repressiva — che tanto spesso però è stata usata in direzione sbagliata — iniziata dopo la strage di Ciaculli, hanno indebolito il prestigio della mafia.

LEGGIO? UN PERSEGUITATO!

Le inchieste condotte dalla Commissione nei più diversi campi di attività hanno intimorito molti uomini politici, amministratori e pubblici funzionari e li hanno resi più cauti nei loro rapporti con la mafia.

Prima del 1963 molti mafiosi ostentavano i loro rapporti con gli uomini politici e gli amministratori locali e viceversa. La presenza dei mafiosi nei seggi elettorali era sfacciata e aggressiva. Oggi questi fatti vistosi di rapporti tra mafiosi e uomini politici si sono rarefatti».

L’ultimo episodio clamoroso di ostentazione di rapporti ebbe a fornirlo il deputato regionale democristiano Dino Canzoneri proprio pochi giorni dopo la strage di Ciaculli.

Nella seduta del 23 agosto 1963 dell'Assemblea regionale siciliana il deputato comunista Rossitto denunziò l'appoggio che le cosche mafiose avevano dato ad alcuni candidati democristiani e in particolare fece riferimento ai legami fra Luciano Leggio e l’onorevole Canzoneri.

Il Canzoneri in quell'occasione ebbe l'impudenza di disegnare la figura di Leggio come quella di un perseguitato giudiziario a causa delle calunniose accuse ... dei comunisti!

In realtà il Leggio era latitante da anni e grazie alle complicità politiche poteva circolare impunemente. e organizzare la sua rete delinquenziale. Dopo la strage di Ciaculli e l’arresto di Leggio e di altri noti boss mafiosi, l’onorevole Canzoneri si ritirava definitivamente dalla scena politica regionale.

Questo indebolimento del prestigio della mafia è dovuto pure ad un processo di maturazione sociale, civile e culturale del popolo siciliano, alla scolarizzazione di massa e allo sviluppo dell'informazione.

Ma tutto ciò non può far dire che la mafia non esiste più, che i suoi rapporti con il potere politico e pubblico sono stati definitivamente tagliati, né che la mafia si è trasformata in puro e semplice gangsterismo.

ESPORTARE LA MAFIA

In realtà sono avvenuti mutamenti nella dimensione territoriale del fenomeno mafioso — la sua esportazione al Nord — nell'allargamento dei settori e dei campi di azione della mafia, nel suo modo d'essere e nel suo comportamento. La via della semplice repressione — che colpisce la escrescenza, ma che non modifica l'humus economico, sociale e politico nel quale la mafia affonda le sue radici — non ha portato e non poteva portare a risultati definitivi.

Seguendo la via della pura repressione non ci si è spiegati o si è spiegato male il significato della rinnovata virulenza della mafia dalla strage di via Lazio fino ai più recenti fatti della zona Partanna-Pallavicino-San Lorenzo a Palermo. Si è così caduti nella confusione da parte delle forze dell'ordine; si sono fatte delle teorizzazioni su seconde, terze e perfino quarte mafie e si è arrivati alla equazione mafia-delinquenza urbana.

L’esplodere della mafia a Milano e in altri centri del Nord, il moltiplicarsi dei sequestri di persona a scopo di riscatto (nuovo terreno di attività della mafia ma non solo di essa) hanno portato argomenti a queste tesi. Ora è indubbio che nell'esplodere della criminalità al Nord vi è un elemento tipico di tutte le realtà urbane, delle grandi metropoli capitalistiche; ma non v'è dubbio che in questo quadro un posto specifico ed autonomo appartiene alla mafia, il che non esclude che possano aversi intrecci dei fenomeni mafiosi con fenomeni puramente delinquenziali, particolarmente sul terreno del reclutamento della «manovalanza».

Il modo assurdo con cui si sono scelte le località di soggiorno obbligato per i mafiosi ha favorito il loro inserimento al Nord ed una certa facilità di reclutamento di nuove leve fra gli strati più emarginati e disperati di emigrati siciliani, una facilità di presa su attività quali il racket della manodopera, la speculazione edilizia, certe attività commerciali, oltre al contrabbando di droga e i sequestri di persona. In questo quadro che ha elementi di intreccio complesso la specificità mafiosa specie dei «gruppi dirigenti» rimane intatta.

La mafia si presenta oggi come una grande trama che dalla Sicilia si estende al Continente; le sue radici, il suo humus, il suo terreno di accumulazione finanziaria, di reclutamento e di selezione dei migliori quadri ed infine il rapporto con certo mondo politico continuano però a rimanere la Sicilia. Come la mafia si trasferì negli Stati Uniti con l'ondata emigratoria, così è avvenuto con il suo trasferimento al Nord, favorito anche dai soggiorni obbligati.

Ma la «centrale», non solo in termini «ideali» o di tradizioni, ma di terreno di continua riproduzione, rimane la Sicilia. Ciò non esclude che lo strato superiore, lo «stato maggiore» si distribuisca fra la Sicilia, il Nord e perfino Paesi stranieri, e sia ricco di enormi mezzi finanziari, incrementato, particolarmente negli ultimi anni, col traffico di droga e con i sequestri, e quindi di grandi possibilità di spostamenti e di collegamenti. L'arresto di Leggio e la scoperta delle connessioni tra i sequestri in Sicilia e alcuni grossi sequestri al Nord, la personalità e l'attività di alcuni dei mafiosi arrestati, confermano questa valutazione.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Le confessioni di Leonardo Vitale, dichiarato “pazzo” dalla giustizia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 18 Febbraio 2022.

Lo sviluppo di una rete mafiosa a carattere nazionale non significa che ci troviamo di fronte a un pugno di gangsters sradicati dalla realtà locale che li ha espressi. La denunzia-confessione del giovane Leonardo Vitale ha offerto un vero e proprio spaccato di che cosa è, ancora oggi, una cosca mafiosa in un rione o in una borgata di Palermo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

A fianco della mafia siciliana un peso crescente assume oggi la mafia calabrese come dimostrano i recenti arresti collegati ai sequestri di persona a Roma e al Nord. Lo sviluppo impetuoso della mafia calabrese (pur nella diversità dei connotati storici rispetto a quella siciliana), mentre testimonia un preoccupante processo di disgregazione economica e sociale della Calabria, dimostra, in pari tempo, una insufficiente vigilanza e mobilitazione della opinione pubblica e di tutti gli organi dello Stato. La presenza della Commissione parlamentare d'inchiesta ha, invece, stimolato tale mobilitazione in Sicilia.

I mafiosi costituiscono oggi una grande potenza finanziaria. L'enoteca Borroni, scoperta a Milano, aveva un deposito di vini pregiati per un valore di oltre un miliardo di lire. Il Guzzardi, implicato nei sequesti, è anche un grosso appaltatore edile (ha avuto anche un appalto nella costruzione della metropolitana di Milano).

Il commercialista palermitano Pino Mandalari (candidato del MSI alle elezioni politiche del 1972) ospita nel suo studio le società finanziarie di alcuni fra i più noti gangsters tra cui Salvatore Riìna, braccio destro di Leggio, e il Badalamenti di Cinisi, nonché quelle di padre Coppola.

Tali società intestate a dei prestanome si occupano delle attività più varie (dall'acquisto dei terreni ed immobili come beni di rifugio alla speculazione edilizia, alla sofisticazione dei vini).

Ma lo sviluppo di una rete mafiosa a carattere nazionale per controllare alcuni traffici e per organizzare i sequestri non significa che ci troviamo di fronte a un pugno di gangsters sradicati dalla realtà locale che li ha espressi.

IL “PENTITO” LEONARDO VITALE

La denunzia-confessione del giovane Leonardo Vitale (il cosiddetto Valachi siciliano) ha offerto un vero e proprio spaccato di che cosa è, ancora oggi, una cosca mafiosa in un rione o in una borgata di Palermo. La cosca mafiosa di Altarello di Baida-Boccadifalco, a cui era affiliato il Vitale, era dedita ad attività tradizionali come quella dell'estorsione (il Vitale ha comunicato alla Polizia un elenco di estorsioni sino ad allora del tutto ignorate e successivamente confermate dai costruttori edili che le avevano subite) e di tipo nuovo come la speculazione sulle aree.

Non solo, ma permane la divisione delle zone di influenza tra le varie cosche. (Il Badalamenti è intervenuto recentemente da arbitro tra la mafia di Altarello e quella della Noce per una questione di competenza territoriale).

Il recente attentato al vecchio boss Vincenzo Nicoletti, subito dopo il suo rientro dal soggiorno obbligato, e la sequenza di delitti che ne è susseguita nella zona (il quadrilatero Pallavicino-Partanna-Mondello-Tommaso Natale) mette in evidenza l'esistenza di una realtà analoga in quel gruppo di borgate rispetto a quanto denunziato per la zona di Altarello-Boccadifalco.

La recrudescenza di attività criminali nella zona Cinisi-Carini-Partinico-Roccamena in relazione all'attività del gruppo mafioso legato alla famiglia di padre Coppola indica che anche in zona della provincia permane e si sviluppa l'attività delle cosche mafiose locali.

Tutto ciò indica la ricostituzione (nonostante la repressione degli ultimi anni) di un potere mafioso su base territoriale con l'aggiornamento delle strutture tradizionali nonché dei campi di attività. Uno dei campi nuovi di attività è costituito, nella zona del vigneto, dalla sofisticazione su larga scala. Ma continua l'attività tradizionale tipo abigeato, controllo della guardiania, dell'acqua di irrigazione, dei consorzi di bonifica e degli appalti.

Questi fatti dimostrano il permanere di connivenze fra potere mafioso, amministrazioni locali, funzionari pubblici, uomini politici. La denunzia del Vitale lumeggiava anche questi aspetti, confermando come il potere Dc nelle borgate di Palermo sia, ancora oggi, fondato largamente sulla compenetrazione con la mafia.

Lo «stato maggiore nazionale» della mafia stabilisce un suo rapporto di influenza e di intervento diretto, di volta in volta, sulle singole cosche locali che, pur conservando (come è nella tradizione della mafia) una loro autonomia, si comportano ancora come cellule di una organizzazione articolata pronte a rendere servizi allo «stato maggiore nazionale», nella attuazione delle varie imprese. Un esempio di questo rapporto è fornito dal sequestro Cassina.

È ormai dimostrato che il sequestro dell'ingegner Luciano Cassina fu organizzato dallo «stato maggiore nazionale» con un ruolo importante assegnato a padre Coppola. I killers per l'attuazione del rapimento furono, poi, forniti dalla cosca mafiosa di Altarello di Baida (zona in cui le abitudini del Cassina erano particolarmente conosciute).

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Mafia, eversione nera e la “strategia della tensione” in Italia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 19 febbraio 2022

Uno spostamento delle simpatie politiche della mafia e di una sua utilizzazione nella «strategia della tensione» e in collegamento con le trame nere. I giudici Turone, Caizzi ed Arcai considerano il rapporto tra mafia e trame nere «qualcosa di più di una semplice ipotesi di lavoro».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

In questo quadro un elemento nuovo si viene a delineare: quello di un certo spostamento delle simpatie politiche della mafia e di una sua utilizzazione nella «strategia della tensione» e in collegamento con le trame nere. I giudici Turone, Caizzi ed Arcai considerano il rapporto tra mafia e trame nere «qualcosa di più di una semplice ipotesi di lavoro».

È noto che durante le elezioni regionali del 1971, che videro una forte avanzata del Msi, gruppi notevoli di mafiosi di borgate palermitane e di certi quartieri popolari spostarono la loro attività elettorale dalla Dc al Msi.

I corrieri del tritolo scoperti a La Spezia confermano gli interrogativi sui collegamenti tra contrabbando e traffico di armi e di esplosivi e attuazione di alcuni sequestri di persona. È casuale la fuga di Leggio nel novembre del 1969 — alla vigilia della strage di Piazza Fontana — e il suo scegliere Milano come base operativa?

E la scelta, da parte di grossi mafiosi, di Pino Mandatari, già candidato del Msi, come consulente finanziario è pure casuale?

E le voci su una utilizzazione di killers mafiosi per l'assassinio di dirigenti politici nazionali in caso di golpe da parte del gruppo Pomar-Micalizio, non sono forse indicative?

Questi elementi e gli interrogativi ancora aperti assumono rilievo e diventano oltremodo preoccupanti se si tiene presente che la mafia, in passato, ha sempre avuto un ruolo di punta nella battaglia delle forze reazionarie contro il movimento popolare.

LA MAFIA COME “STRUMENTO” ANTIDEMOCRATICO

Le cosche mafiose sono state utilizzate in maniera spregiudicata contro il movimento operaio e contadino siciliano dalle forze del blocco agrario per impedire la riforma agraria; la lotta del popolo siciliano per la sua emancipazione è punteggiata da decine di martiri trucidati dalla mafia al servizio della conservazione.

Questa rapida messa a punto sull'evoluzione del fenomeno mafioso e sulle caratteristiche che è venuto assumendo negli anni più recenti ci conduce ad alcune conclusioni.

I cambiamenti anche profondi che sono intervenuti nel modo di essere della mafia non consentono, comunque, di affermare che essa abbia perduto la sua caratteristica originaria della incessante ricerca del collegamento con il potere politico. Tale collegamento continua ad esistere e trova alimento in un potere oligarchico e clientelare che rifiuta sistematicamente una vera dialettica democratica, mortifica le istituzioni rappresentative, impedisce lo sviluppo di forme nuove di partecipazione e controllo democratico dei cittadini.

L'inchiesta condotta sulla vicenda Mangano-Coppola-Spagnuolo, sul caso Rimi alla Regione Lazio, sulla fuga di Luciano Leggio dalla clinica romana, eccetera ha consentito alla Commissione di raccogliere una documentazione imponente sul come, anche fuori dalla Sicilia, la mafia possa utilizzare il sistema di potere clientelare per svolgere la sua attività. La requisitoria del Pubblico ministero dottor Caizzi nel processo contro Leggio e le cosche mafiose operanti in Lombardia, che la Commissione ha acquisito ai suoi atti, sottolinea ancora il collegamento dei mafiosi con alcuni uomini politici.

Ecco perché sarebbe un grave errore l'accoglimento da parte della Commissione della tesi secondo la quale si sarebbe esaurito il rapporto mafia-potere politico. Nella città di Palermo, per esempio, tutta la documentazione raccolta nel corso dell'inchiesta negli anni '60 conserva la sua validità. Il comportamento, ancora oggi, del gruppo dirigente della DC nella gestione del Comune e della Provincia di Palermo offre il terreno più favorevole al perpetuarsi del sistema di potere mafioso. Ciò non significa che non vi siano dei cambiamenti.

Si cerca di dare veste di apparente modernità alla gestione dei vari enti. Ma, nella sostanza, il sistema di potere resta clientelare e mafioso. Di questa triste realtà hanno preso coscienza in vari momenti esponenti qualificati della DC. Ma tutte le iniziative adottate, sino ad oggi, non hanno avuto successo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. In Sicilia comanda Giovanni Gioia, l’atto di accusa di Dalla Chiesa. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 20 febbraio 2022

Prendiamo il caso Vassallo. Il documento della Legione dei Carabinieri a firma del generale Dalla Chiesa offre uno spaccato di come si è potuto edificare un impero economico che è diventato un pilastro decisivo del sistema di potere mafioso a Palermo. Ma da quella relazione emerge la funzione decisiva dell'onorevole Gioia con i suoi uomini di fiducia dislocati in posti chiave

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Attualmente la parte più moderna e avveduta del gruppo dirigente regionale della Dc sta tentando di avviare un processo di risanamento della vita politica siciliana.

Ma tale tentativo rischia di arenarsi, ancora una volta, se non si colpisce alla radice il sistema di potere che nelle città e nelle province della Sicilia occidentale da alimento alle cosche mafiose.

Al vertice di questo sistema di potere a Palermo, da venti anni, si è insediato l'attuale ministro della marina mercantile onorevole Giovanni Gioia. Abbiamo già descritto il modo in cui nella seconda metà degli anni '50 l'onorevole Gioia, diventato segretario provinciale della Dc, organizzò la confluenza nel suo partito delle cosche mafiose ex monarchiche, liberali e qualunquiste. Quell'impianto non è stato ancora debellato.

Che il sistema di potere mafioso a Palermo conduca all'onorevole Gioia è dimostrato da tutta la documentazione in possesso della Commissione. I sistemi attraverso i quali si impedisce ogni dialettica e controllo democratico nella vita della Dc palermitana sono documentati nel famoso «Libro Bianco» delle minoranze Dc inviato in data 17 novembre 1970 alla direzione di quel partito e reso noto sul giornale L'Ora, nel testo che qui di seguito pubblichiamo […]. È nell'ambito di quel sistema di potere che si sviluppa la compenetrazione con la mafia.

IL CASO DEL COSTRUTTORE VASSALLO

Prendiamo il caso Vassallo. Il documento n. 737 della Legione dei Carabinieri a firma del generale dalla Chiesa offre uno spaccato di come si è potuto edificare un impero economico che è diventato un pilastro decisivo del sistema di potere mafioso a Palermo. Ma da quella relazione emerge la funzione decisiva dell'onorevole Gioia con i suoi uomini di fiducia dislocati in posti chiave (assessorati, uffici, banche, enti economici, aziende municipali, ospedali, eccetera). La fantasia dei giornalisti è stata attratta dall'interrogativo se esistesse o meno una società (la VA-LI-GIO) formata da Vassallo Lima-Gioia. Ma il problema non è di provare l'esistenza del contratto giuridico fra i tre. Il rapporto del prefetto Bevivino e la relazione dell'onorevole Vestri hanno documentato a sufficienza la compenetrazione tra le cosche mafiose e il gruppo di potere dominante a Palermo e, in questo ambito, il ruolo del costruttore Vassallo.

I rapporti circostanziati della Polizia e dei Carabinieri dimostrano che Vassallo: 1) ha avuto la licenza di appaltatore edile grazie ad una dichiarazione molto discutibile dell'ingegner Enrico Ferruzza (la S.A.I.A. « Società per azioni industria autobus » di proprietà dei Ferruzza è stato uno dei pilastri del sistema del potere mafioso a Palermo. Il dottor Giuseppe Ferruzza, figlio di Enrico, poi diventerà socio di Vassallo nella vergognosa speculazione edilizia della « S. Francesco Piraineto» ai margini dell'autostrada Palermo-Punta Raisi); 2) ha conquistato il primo appalto (quello della fognatura di Tommaso Natale-Sferracavallo) costringendo, con un tipico atto di mafia, i concorrenti ad abbandonare il campo e con il favore della Giunta comunale capeggiata ora dal professor Cusenza; 3) ha potuto « decollare » come grande costruttore edile grazie alla benevolenza del senatore Cusenza diventato intanto presidente della Cassa di Risparmio per le province siciliane, che gli aprì credili non garantiti sino a 700.000.000 di lire; 4) ha potuto violare impunemente il piano regolatore e il regolamento edilizio in numerose costruzioni; 5) in alcuni casi i progetti Vassallo venivano approvati dalla Commissione e dal Consiglio comunale prima di essere protocollati; 6) gran parte degli edifici che il Vassallo ha costruito erano in anticipo acquistati o presi in affitto dagli enti pubblici e prenotati dal Comune e della Provincia per essere adibiti ad edifici scolastici mentre non si utilizzavano le somme messe a disposizione dalle leggi sull'edilizia scolastica.

LE INCRIMINAZIONI A CARICO DI LIMA

L'onorevole Salvo Lima è stato incriminato dalla Magistratura per avere ripetutamente violato la legge per favorire il costruttore Francesco Vassallo (come risulta dal doc. 1119 agli atti della Commissione).

Nel procedimento penale n. 10047/68 P.M l’onorevole Lima è imputato di interesse privato in atti di ufficio per avere consentito a Vassallo di costruire un edificio fra via Sardegna e via E. Restivo in violazione al piano regolatore che prevedeva in quell'area un pubblico mercato, e, inoltre, per avere approvato un altro progetto Vassallo per costruire un edificio fra via Notarbartolo e via Libertà in violazione al piano regolatore.

Nel procedimento n. 13772/68 P.M. l’onorevole Lima è imputato di avere determinalo i funzionari dell'Ufficio tecnico dei lavori pubblici di Palermo ad attestare, contrariamente al vero, nel rapporto di abitabilità e nel certificato di fine lavori relativi al fabbricato di via Quarto dei Mille costruito da Francesco Vassallo, la conformità alle norme del piano regolatore, e successivamente a concedere il certificato di abitabilità con la sola eccezione della parte dell'edificio cadente fuori del piano regolatore.

Evidentemente i funzionari venivano determinati a compiere atti illegali perché il sindaco Lima li ricompensava. Infatti, nel procedimento penale n. 965/71 P.M. e 966/71 P.M. l'onorevole Lima è imputato di avere erogato la somma di 6 milioni all'ingegner Drago dell'Ufficio tecnico dei lavori pubblici per lavori che invece erano di competenza dell'ufficio. Analogamente si procedeva nei confronti dei funzionari della Commissione provinciale di controllo (l'organo di tutela verso le delibere del comune!).

Nel procedimento penale 7578 P.M. l'onorevole Lima è imputato per avere assunto in servizio al Comune di Palermo Frisina Gaetano figlio di Frisina Giacomo funzionario della Commissione di controllo; Bisagna Salvatore figlio di Bisagna Giorgio funzionario della Commissione di controllo; Bevilacqua Maria figlia di Bevilacqua Giovanni funzionario della Commissione di controllo.

Tutto ciò dimostra un legame organico fra il Vassallo e il gruppo di potere dominante a Palermo che fa capo a Gioia. D'altro canto le famiglie Cusenza e Gioia hanno realizzato diverse operazioni di acquisto o vendita col Vassallo. Sono note le vicende del rapporto del colonnello Lapis della Guardia di finanza che documenta tali operazioni e accusa il professor Cusenza di legami con la mafia.

È noto come alcuni anni dopo, allorquando l'onorevole Gioia divenne Sottosegretario alle finanze, il colonnello Lapis ebbe a ritrattare in parte quelle accuse. Quella triste vicenda è stata oggetto di severe censure in drammatiche sedute della Commissione.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

Arturo Cassina, Francesco Vassallo e gli altri impresari padroni di Palermo. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 21 febbraio 2022

Un altro pilastro del sistema di potere mafioso a Palermo è rappresentato dall'impresario Arturo Cassina che ha gestito, ininterrottamente, per ben 36 anni, il servizio di manutenzione delle strade e delle fogne del comune di Palermo. Si è verificato, alla scadenza del contratto, che il Consiglio comunale sia stato messo di fronte al fatto compiuto del rinnovo automatico dell'appalto alla ditta Cassina.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

L’onorevole Gioia ha ritenuto di potersi difendere con l'argomento che gli affari tra Vassallo e Cusenza per l'edificio in via Duca della Verdura sono precedenti alla nomina del Cusenza a presidente della Cassa di Risparmio (ma i due si erano già conosciuti bene per la fognatura di Tommaso Natale... quando Cusenza era sindaco di Palermo).

Sempre secondo Gioia le vendite di appartamenti Vassallo alla famiglia di Cusenza (compresa la moglie dell'onorevole Gioia) per un prezzo di quasi 200.000.000 (in lire 1963!), sarebbe avvenuto dopo la morte del Cusenza e quindi ad iniziativa autonoma delle figlie.

Resta il fatto che, negli stessi giorni, quattro giovani signore, sposate e residenti in zone diverse della città, ebbero la felice idea di investire cospicue somme nell'acquisto di appartamenti del costruttore Vassallo. Non è lecito il sospetto che il Vassallo avesse concordato, mentre il Cusenza era in vita, di cedergli degli appartamenti e, essendo sopravvenuta la morte di costui, si siano stipulati gli atti con gli eredi?

D'altro canto tutti gli uomini di Gioia si trovano ad acquistare appartamenti di Vassallo. Il che lascia intravvedere che si è trattato di vendite di favore. Va sottolineato, infine, come la personalità di Vassallo è di chiara estrazione mafiosa come si può ricavare dagli elementi a suo carico forniti dalla Polizia e dai Carabinieri. D’altra parte la vicenda del sequestro del figlio di Vassallo ha messo in evidenza, ancora una volta, il comportamento di tipo mafioso del Francesco Vassallo.

IL CONTE CASSINA

Un altro pilastro del sistema di potere mafioso a Palermo è rappresentato dall'impresario Arturo Cassina che ha gestito, ininterrottamente, per ben 36 anni, il servizio di manutenzione delle strade e delle fogne del comune di Palermo.

Si è verificato, ininterrottamente, alla scadenza del contratto, che il Consiglio comunale sia stato messo di fronte al fatto compiuto del rinnovo automatico dell'appalto alla ditta Cassina. E ciò nonostante le vivaci proteste dell'opposizione di sinistra. Il Cassina, infatti, ha legami ben saldi a destra (basti ricordare la vicenda del giornale filofascista Telestar di cui il Cassina era l'editore...). Il servizio di manutenzione delle strade a Palermo è stato gestito dall'impresa Cassina in maniera indecente.

Il Cassina ha sempre dato in subappalto, a piccoli mafiosi dei vari rioni, i lavori da eseguire. Lo stesso metodo egli ha seguito per la gestione della cava di pietre in località Boccadifalco. Il Cassina si è accaparrato, avvalendosi di metodi mafiosi, vaste aree attorno alla città e particolarmente nella zona di monte Caputo dove i piccoli proprietari sono stati minacciati dai mafiosi per cedere il terreno a Cassina.

Il sequestro del figlio di Cassina, ingegner Luciano, come quello del figlio di Vassallo, si spiega proprio nell'ambito dello scontro fra cosche mafiose. Sistemi analoghi vengono adottati per la gestione della manutenzione stradale alla provincia. (Basti ricordare la denunzia documentata fatta all'Assemblea Regionale siciliana a proposito degli appalti alla ditta Patti della manutenzione delle strade provinciali che ha visto implicati alcuni degli uomini di fiducia di Gioia, quali l'ex presidente dalla Provincia Antonino Raggio). Tutti i servizi del Comune e della Provincia vengono appaltati con criteri mafiosi e con risultati rovinosi per l'interesse pubblico.

In questo ambito si collocano l'appalto dell'illuminazione pubblica (di cui ci occuperemo più avanti quando parleremo dell'onorevole Giovanni Matta) e l'appalto della numerazione civica e toponomastica cittadina, con la truffa operata con l'appalto alla società Contacta.

Abbiamo già sottolineato come il caso Ciancimino non possa essere isolato dal contesto del sistema di potere mafioso a Palermo. Occorre pertanto soffermarsi su altre figure di protagonisti. Vogliamo trascurare i personaggi che sono scomparsi dalla scena politica e amministrativa e soffermarci invece su quelli che mantengono posizioni di spicco per suffragare così la nostra tesi del permanere, ancora oggi, di un rapporto fra mafia e potere a Palermo.

IL CASO DI FRESCO

Dopo le elezioni del 15 giugno scorso è stato eletto Presidente dell'Amministrazione provinciale di Palermo il dottor Ernesto Di Fresco del gruppo Gioia. Il Di Fresco è un personaggio emblematico di tutto il sistema di potere mafioso a Palermo, così come è stato edificato sotto la guida dell'onorevole Giovanni Gioia.

Egli è uno degli ex monarchici che confluì nella Democrazia cristiana sulla base dell'operazione politica pilotata da Gioia nella seconda metà degli anni cinquanta. Il Di Fresco era molto legato al noto don Paolino Bontà, capo della mafia di Palermo est. Quando il Di Fresco fu eletto consigliere comunale alle amministrative del maggio 1956 nella lista del Partito nazionale monarchico, il capomafia don Paolino Bontà lo accompagnava alle sedute del Consiglio comunale e gli dava precise indicazioni (fra cui quella di passare alla Democrazia cristiana.)

Per la verità il Di Fresco non era un'eccezione in quanto don Paolino Bontà a quell'epoca dava direttive anche a parlamentari nazionali democristiani, come l'onorevole Francesco Barbaccia. Don Paolino Bontà ostentava questi suoi rapporti passeggiando ogni mattina davanti all'albergo Centrale in corso Vittorio Emanuele a Palermo tenendo a braccetto l'onorevole Barbaccia. Anche il Di Fresco e la sua consorte Maidani Peppina hanno acquistato appartamenti dal costruttore Vassallo.

Allorché il Di Fresco era assessore al patrimonio stipulò gran parte dei contratti di affitto degli appartamenti Vassallo per adibirli a scuole o altri servizi comunali. La grande stampa, d'altro canto, ha scritto che quando il Vassallo venne giudicato davanti alla Sezione misure e prevenzione, perché proposto per il soggiorno obbligato, nella piccola folla che lo accompagnava c’era l’assessore comunale Ernesto Di Fresco. Ma l'episodio più clamoroso è quello dell'affitto dell'edificio per la caserma dei Vigili urbani.

Venne affittato un intero palazzo di otto piani e di 114 vani (in via Dogali nella borgata Passo di Rigamo) per adibirlo a caserma dei Vigili urbani con la spesa di oltre 50 milioni all'anno (vedere allegati 6 e 7). Il costruttore dell'edificio preso in affitto è tale Piazza Giacomo legato alla cosca mafiosa di Uditore-Passo di Rigano come risulta dalla documentazione in possesso della Commissione. Ebbene l'appartamento in cui abita la famiglia del Di Fresco in via del Quarnaro, composto di 7 stanze, 2 stanzette e accessori è stato venduto alla moglie del Di Fresco proprio dal costruttore Piazza.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Giovanni Matta, da “gregario” di Lima a onorevole in Commissione Antimafia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 22 febbraio 2022.

L'onorevole Matta ha iniziato la sua attività come segretario dell'onorevole Salvo Lima. Nel momento in cui Lima diventava assessore ai lavori pubblici del Comune di Palermo nel 1956, Matta veniva assunto come impiegato straordinario. Nel 1960 Matta si dimette, viene eletto e diviene assessore, prima al patrimonio e poi ai lavori pubblici. Infine parlamentare, viene eletto anche in Commissione antimafia

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Come è noto, all'inizio di questa Legislatura l'onorevole Giovanni Matta era stato nominato membro della nostra Commissione. Fu necessario ricorrere alle dimissioni della maggioranza della Commissione per arrivare alla sostituzione del Matta.

Ma perché il gruppo di potere dell'onorevole Gioia, di cui il Matta è un esponente, arrivò a simile sfida? Forse perché si pensava di arrivare al discredito definitivo della Commissione. In una drammatica seduta della Commissione, che precedette le dimissioni di protesta dei Commissari comunisti, l'onorevole La Torre documentò le ragioni della incompatibilità nei confronti dell'onorevole Matta.

Giovanni Matta è un prodotto tipico del sistema di potere mafioso al comune di Palermo. Egli ha fatto carriera da gregario del gruppo di potere che fa capo all'onorevole Gioia. Egli è stato per qualche tempo sindaco della società Boa che certamente è stata una fonte di finanziamento del gruppo. Infatti oltre a Matta figuravano come amministratori della Boa altri «giovani» di fiducia del Gioia.

La Boa gestisce numerosi rifornimenti di benzina ed ha un deposito a Trapani. L'onorevole Matta ha iniziato la sua attività pubblica come segretario dell'onorevole Salvo Lima. Nel momento in cui Lima diventava assessore ai lavori pubblici del comune di Palermo nel 1956, Matta veniva assunto come impiegato straordinario assolvendo alla funzione di tecnico legale dell'assessore Lima. Nel 1960 Matta si dimette da impiegato comunale per potersi presentare candidato alle elezioni amministrative.

TESTIMONIANZA RETICENTE

Viene eletto e diviene assessore, prima al patrimonio e poi ai lavori pubblici. Vi sono numerosi documenti su tutto questo periodo che vanno dal rapporto Bevivino a quelli dei Carabinieri, Edilizia e Finanza. Dopo questo quindicennio di partecipazione, in vario modo, alla gestione del settore dei lavori pubblici di Palermo, l'onorevole Matta, interrogato dalla Commissione nel 1970, ha fatto le seguenti affermazioni (pagina 62 della deposizione ohe verrà successivamente pubblicata, alla Stregua dei criteri stabiliti dalla Commissione): «Ritengo si debba parlare non specificamente di mafia, ma di delinquenza organizzata in genere. Una volta eliminate dalla circolazione determinate persone, abbiamo vissuto in tranquillità».

Asseriva quindi: «II caos urbanistico non esiste». E poi ancora, a pagina 74: «Non esistono legami tra delinquenza organizzata e amministrazione».

Questo è il succo dell'interrogatorio, del tutto reticente, anche se durato ore, dello onorevole Matta. Questo interrogatorio veniva immediatamente preceduto da quello del dottor Guarraci, che era stato, per breve periodo, assessore di parte socialista. Il Guarraci assumeva un atteggiamento del tutto diverso, aperto alle risposte a tutti i quesiti posti e dava elementi che avrebbero dovuto essere approfonditi.

Perché, invece, l'onorevole Matta tacque? Perché questo atteggiamento omertoso in sede di Commissione? La cosa si capisce dalla lettura dei dossier in possesso della Commissione, perché da essi si ricavano una serie di elementi che riguardano aspetti vari dell'attività dell'onorevole Matta come assessore e dei funzionari dell'assessorato che da lui dipendevano.

Egli non ha detto niente di questo apparato corrotto, mentre si tratta di gente che nei documenti della polizia e dei carabinieri viene descritta in maniera molto efficace. Ci limitiamo ad alcune cose essenziali.

UN ASSESSORATO PER ARRICCHIRSI

La prima riguarda il modo in cui Matta utilizzava l'attività di assessore anche ai fini di arricchimento personale. C'è un rapporto del colonnello dalla Chiesa in data 27 aprile 1972, nel quale si legge: « Nel corso di recenti accertamenti svolti dai dipendenti del Nucleo di polizia giudiziaria di Palermo circa il rilascio della licenza edilizia a favore di Mercurio Giovanna, moglie dell’avvocato Matta, assessore all'urbanistica del Comune di Palermo, per la costruzione già avvenuta del villino sito in fondo Catalano nella contrada... di Palermo, sono emerse inosservanze all'articolo 50 delle norme di attuazione del piano regolatore, approvato dal Presidente della Regione siciliana il 28 giugno 1962, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 27 febbraio 1963...».

E conclude: «I fatti, con rapporto giudiziario n. 158 del 20 marzo 1972, del predetto Nucleo di polizia giudiziaria, sono stati deferiti alla Procura della Repubblica di Palermo, che vi ha ravvisato gli estremi del reato di interesse privato in atti d'ufficio a carico del Matta».

Questo è agli atti della Commissione! C’è poi tutta la vicenda che riguarda l'appalto della manutenzione della illuminazione a Palermo. Erano corse voci che l’onorevole Matta sarebbe stato socio della società Icem, nel momento in cui si decideva di indire la gara di appalto per questo servizio, che coinvolge una spesa di qualche miliardo all’anno.

Ebbene, dalla relazione conclusiva di coloro che hanno fatto l'inchiesta (funzionari dalla Questura, Carabinieri, Guardia di finanza), Si ricavano le seguenti conclusioni: «che l'onorevole Matta, pur essendo assessore all'urbanistica, voleva fare di presidente della Commissione, che spettava invece all'assessore ai lavori pubblici.

Non risulta sia socio dell’Icem, ma il titolare ufficiale della suddetta società è stato magna pars del comitato elettorale dell'onorevole Giovanni Matta, in occasione delle elezioni, immediatamente successive al conferimento del suddetto appalto». ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Il Comune di Palermo, le imprese edilizie e gli “amici degli amici”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 23 febbraio 2022

I documenti dei Carabinieri offrono un quadro impressionante del rapporto fra alcune imprese (Vassallo, Piazza, Moncada, ecc.) e alcuni capimafia (Torretta, Nicola Di Trapani, Buscemi) e amministratori comunali di Palermo, come Ciancimino, Di Fresco, Pergolizzi e Matta.

Esiste un'ampia documentazione sull'Assessorato ai lavori pubblici durante la gestione Matta. Purtroppo certe indagini non sono state mai completate per le note difficoltà in cui si è trovata l Commissione. Risultano, però, provate le responsabilità anche penali di numerosi funzionari dell'Assessorato:

1 Ingegner Biondo Salvatore direttore presso la ripartizione urbanistica dal Comune di Palermo. Assunto nel 1959 al Comune senza concorso dall'assessore Lima e favorito successivamente dagli assessori Ciancimino e Matta fino a diventare direttore della ripartizione urbanistica. (Biondo è coimputato con Ciancimino nel procedimento penale n. 2109/69 P.M. e n. 623/69 G.I.);

2 Ingegner Salvatore Corvo — vice direttore della ripartizione urbanistica;

3 Avvocato Filippo Vicari — direttore del servizio amministrativo della ripartizione urbanistica;

4 Ingegner Melchiorre Agnello — direttore dalla sezione edile della ripartizione urbanistica. (Imputato di interesse privato in atti di ufficio « per avere abusato della sua qualità di ingegnere presso l'Ufficio tecnico e di componente della Commissione edilizia approvando progetti a sua firma o alla realizzazione dei quali aveva collaborato »).

5 avvocato Niccolo Maggio — capo ufficio affari legali del comune di Palermo. (È imputato di truffa aggravata nel procedimento penale n. 5209/P.M.).

I suddetti funzionari hanno compiuto tutta la loro carriera nel periodo in cui assessori ai lavori pubblici sono stati rispettivamente Lima (diventato sindaco), Ciancimino (poi diventato sindaco) e Matta. Ad essi è stato consentito di trafficare nelle forme più ignobili e di arricchirsi.

Nei rapporti citati si mette in evidenza anche la losca attività svolta dall'architetto Barraco Antonio — membro della Commissione edilizia comunale dal 1956 al 1964 e della Commissione urbanistica comunale dal 1965. Dalle indagini della Questura a seguito di una denuncia pervenuta alla Commissione è emerso che il Barraco è sindaco supplente della s.p.a. «S. Francesco Residenziale Piraineto» di proprietà di Vassallo e Ferruzza. Egli è imputato insieme a Ciancimino, Pergolizzi e Nicoletti nei procedimenti penali n. 10047/68 P.M. e n. 2083/68 G.I. per interesse privato in atti di ufficio per l'approvazione di tre progetti del costruttore Vassallo.

I DOCUMENTI DEI CARABINIERI

I documenti dei Carabinieri offrono un quadro impressionante del rapporto fra alcune imprese (Vassallo, Piazza, Moncada, eccetera) e alcuni capimafia (Torretta, Nicola Di Trapani, Buscemi) e amministratori comunali di Palermo, come Ciancimino, Di Fresco, Pergolizzi e Matta.

Sull'argomento, esiste agli atti della Commissione, una vasta documentazione che verrà successivamente pubblicata, alla stregua dei criteri che la Commissione ha fissato all'atto della conclusione dei suoi lavori. Per quanto riguarda specificamente il Piazza, agli atti della Commissione, si legge che egli: «...da avvio all'attività edile che lo pone in contatto diretto con il noto capomafia Torretta Pietro e con Bonura Salvatore, che in primis approntano i loro capitali.

Nacque così, come è notorio nella borgata Uditore, il connubio Piazza-Torretta-Bonura, che diede l'avvio alla realizzazione di svariati edifica, anche se sotto le mentite spoglie di ditta individuale intestata al solo Piazza Vincenzo. Infatti l'impresa Piazza Vincenzo risulta iscritta alla locale Camera del commercio in data 6 novembre 1961, al n. 40335 n/ 35394 n., con attività dichiarata: «Costruzioni edili e stradali», con sede in Via Lo Monaco Giaccio, n. 6, Uditore, attuale domicilio di Pietro Torretta». ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

I legami della crema di Cosa Nostra con i capi della Democrazia Cristiana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 24 febbraio 2022

L’onorevole Gioia è chiamato in causa in numerosi documenti ufficiali agli atti della Commissione a proposito dei legami personali e diretti con singoli boss mafiosi. E’ certo anche che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l'ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

D'altro canto l'onorevole Gioia è chiamato in causa in numerosi documenti ufficiali agli atti della Commissione a proposito dei legami personali e diretti con singoli boss mafiosi. Vogliamo richiamare alcuni di questi rapporti con mafiosi intrattenuti da Gioia e suoi collaboratori come risultano dai documenti ufficiali.

Nella sentenza del G.I. Tribunale di Palermo del 23 giugno 1964 contro La Barbera + 42 (Doc. 236) si legge: «Restando nell'argomento delle relazioni è certo che Angelo e Salvatore La Barbera, nonostante il primo lo abbia negato, conoscevano l'ex sindaco Salvatore Lima ed erano con lui in rapporti tali da chiedergli favori.

«Basti considerare che Vincenzo D'Accardi, il mafioso del capo ucciso nell'aprile 1963, non si sarebbe certo rivolto ad Angelo La Barbera per una raccomandazione al sindaco Lima, se non fosse stato sicuro che Angelo e Salvatore La Barbera potevano in qualche modo influire su Salvatore Lima. «Del resto quest'ultimo ha ammesso di avere conosciuto Salvatore La Barbera, pur attribuendo a tale conoscenza carattere puramente superficiale e casuale.

«Gli innegabili contatti dei mafiosi La Barbera con colui che era il primo cittadino da Palermo, come pure con persone socialmente qualificate, o che almeno pretendono di esserlo, costituiscono una conferma di quanto si è già brevemente detto sulle infiltrazioni della mafia nei vari settori della vita pubblica ».

E ancora: «...Data la sua latitanza, non è stato possibile chiarire la reale natura dei suoi rapporti con l'ex sindaco Lima e con gli onorevoli Gioia e Barbacela, a cui ha fatto allusione Giuseppe Annaloro. Certo è che con l'asserito "autorevole" intervento di Tommaso Buscetta, Giuseppe Annaloro ottenne la integrale approvazione di un progetto di costruzione e compensò il Buscetta per il suo interessamento, con la somma di lire 5.000.000 destinata, a dire sempre del Buscetta, agli "amici" del Comune di Palermo».

LE AMICIZIE CON I BOSS DELLA PRIMA GUERRA DI MAFIA

Nel processo contro Pietro Torretta + 120 (Doc. 509) sono documentate le irregolari assegnazioni di case popolari fatte a mafiosi come Nicola Gentile, Gaetano Filippone e Marsala Giuseppe (capomafia di Vicari) e congiunti, da Salvatore Lima ed Ernesto Di Fresco, con l'interessamento di Vito Ciancimino, Giuseppe Brandaleone ed Ernesto Pivetti. Il figlio di Marsala era autista di Ciancimino e di Di Fresco.

Imperiale Cioè Filippo (ucciso recentemente) interrogato nel processo penale contro Caratalo + 20 (Doc. 400) dichiara che Salvatore La Barbera si interessò per fargli ottenere la licenza di una pompa di benzina, dicendogli: « il sindaco (Lima) è una cosa mia, lei avrà quello che desidera e poi avrà a vedere con me ». Dopo un giorno Salvatore La Barbera ottenne la licenza per Imperiale e gli dice: «Lei sa tutte queste cose come sono! Mangia e fai mangiare! » Poi pretese di entrare in società nella gestione della pompa. La pompa fu gestita in piazza Giacchery (benzina API) per sei mesi, perché la società API, allorché si diffuse la notizia che Salvatore La Barbera era ricercato, disdisse il contratto ed affidò ad altri la gestione.

I fratelli Taormina, implicati nel sequestro di persona dell'industriale Rossi di Montelera, esponenti del gruppo di mafia dominante un tempo (e oggi?) a Cardillo, risultarono, all'epoca delle indagini per rapine ed estorsioni svolte verso il 1966 (processo contro Grado + 32), legati o molto vicini al consigliere comunale locolano, in particolare Taormina Giacomo.

Una relazione della Legione dei Carabinieri di Palermo (a firma del generale Dalla Chiesa del 30 luglio 1971) nel descrivere la personalità del dottor Giuseppe Lisotta, cugino di Vito Ciancimino, mette in evidenza come questo personaggio, esponente delle cosche mafiose di Corleone, abbia avuto incarichi in numerosi enti: 1) Istituto provinciale antirabbico; 2) Cassa soccorso dipendenti AMAT; 3) Inadel. Se ne può dedurre che le assunzioni del dottor Lisotta presso i suddetti enti siano state caldeggiate da Ciancimino quanto da Gioia. Quest'ultimo, in particolare, attraverso il cognato dottor Sturzo, all'epoca Presidente della Provincia di Palermo.

Nella « Scheda informativa sul conto di Nicoletti Vincenzo fu Vincenzo» capomafia riconosciuto dalla zona di Pallavicino, redatta il 30 settembre 1963 dal locale Comandante della Stazione dei Carabinieri, Cesare Franchina, si legge:

Al punto 10: «nel passato ha svolto attività politica in favore della Democrazia cristiana».

Al punto 11: «nel passato mantenne relazioni con l'ex sindaco di Palermo, dottor Lima, e con l'onorevole Gioia».

Al punto 16: «per il suo ascendente talvolta ha provveduto a collocare giovani in impieghi aiutando anche economicamente i bisognosi» ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA 1976. Grandi Appalti, fogne e strade di Palermo erano “cosa loro”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 25 febbraio 2022

L’impresa dei Cassina ha gestito ininterrottamente, per decenni, il servizio di manutenzione stradale del comune di Palermo. Ogni volta alla scadenza novennale, la Giurata comunale era riuscita ad imporre il rinnovo del contratto alla ditta Cassina senza regolare gara di appalto.

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I fatti più recenti mettono in evidenza un processo di «razionalizzazione» del sistema di potere mafioso nella città e nella provincia di Palermo che certamente richiede la guida di personalità politiche in grado di controllare gli atti e le decisioni di enti pubblici diversi.

Vogliamo riferirci, in particolare, alla conquista dell'appalto della manutenzione stradale da parte dell'impresa Lesca e alla entrata in scena della Consedil.

Abbiamo già illustrato la funzione assolta dall'impresa Arturo Cassina che ha gestito ininterrottamente, per oltre 36 anni, il servizio di manutenzione stradale del comune di Palermo. Ogni volta alla scadenza novennale, la Giurata comunale era riuscita ad imporre al Consiglio il rinnovo del contratto alla ditta Cassina senza regolare gara di appalto.

L’ultima volta in cui si adottò quella scandalosa procedura fu nel 1962, quando il contratto alla Cassina venne rinnovato ancora per 9 anni. L'approvazione di tale irregolare deliberazione provocò il ricorso del gruppo consiliare comunista di fronte alla Commissione provinciale di controllo. Anche in quella sede si verificò un colpo di mano per ratificare la delibera.

Su quella vicenda esiste un'ampia documentazione presso la nostra Commissione. (In particolare la deposizione resa allora dal Presidente della Commissione provinciale di controllo di Palermo, il magistrato Di Blasi, che sa dimise per protesta dall'incarico definendo quanto era accaduto «un atto di mafia»).

L’ESCAMOTAGE PER FAVORIRE I CASSINA

Il clamore suscitato da quell'episodio convinse il gruppo di potere che domina la città di Palermo che nel 1971 (alla scadenza dell'appalto!) non sarebbe stato possibile ripresentare l'operazione di rinnovo puro e semplice alla ditta Cassina e che occorresse escogitare qualcosa di nuovo. È stata così inventata la Lesca che si è aggiudicata l'appalto concorso della manutenzione stradale a Palermo, subentrando all'impresa Cassina.

Ma la cittadinanza palermitana ha potuto constatare: 1) che la Lescaconservava tutte le strutture e le attrezzature e gli uomini dell'impresa Cassina; 2) che a dirigere l'attività della nuova impresa era l'ingegner Pasquale Mistico, genero di Arturo Cassina, assistito dall'ingegner Luciano Cassina, figlio del titolare della vecchia ditta; 3) che nelle quattro zone in cui è divisa la città operano ancora i vecchi subappaltatori mafiosi con funzione ufficiale di capi zona. Ci si è domandato, allora, quale era il rapporto fra la Lesca e Cassina. Si è scoperto così che la famiglia Cassina ha in realtà il controllo della società Arborea che possiede il 95 per cento delle azioni della Lesca.

Ebbene il gruppo di potere che domina Palermo ha compiuto la beffa di indire un appalto-concorso dove alla fine sono rimaste in gara solo 3 ditte: la Cassina, la Lesca e la Ices di Roma. Quest'ultima non viene ammessa perché la Commissione aggiudicatrice (nominata dalla Giunta comunale!) non giudica sufficiente la fideiussione bancaria. Restano in lizza Cassina e Lesca: Cassina contro Cassina.

Su questa grottesca vicenda il gruppo comunista ha presentato un ampio e documentato ricorso alla Regione, chiedendo un'in[1]chiesta parlamentare dopo che l'assessore regionale agli Enti locali Giacomo Muratore (uomo di fiducia dell'onorevole Gioia!) aveva approvato l'operato della Giunta comunale di Palermo. Copia dì tale ricorso viene pubblicala tra gli allegati.

Per capire la «posta in gioco» occorre tenere presente che l'appalto della manutenzione stradale e delle fognature costa al Comune di Palermo oltre 100 miliardi per i 9 anni di durata del contratto. (150 se si tiene conto della inevitabile revisione dei prezzi in aumento!).

Esiste un divario scandaloso tra i costi previsti dall'appalto e quelli accertati in altre città. (Per la manutenzione di strade e piazze è prevista a Palermo una spesa annua di 4 miliardi e 400 milioni, mentre a Bologna il costo complessivo è di 498 milioni. Per la manutenzione delle fogne a Palermo è prevista una spesa annua di 5 miliardi e 900 milioni, mentre a Bologna il costo complessivo è di 200 milioni circa).

LA “STRATEGIA” DELL’ONOREVOLE GIOIA

Altro grande settore di dominio incontrastato del gruppo di potere diretto dall'onorevole Gioia è l'Ente porto di Palermo. L’impresa che opera in esclusiva nel porto di Palermo è la Sailem di cui è titolare l'ingegner D'Agostino che, grazie alla protezione del ministro Gioia, è diventata una delle più grandi imprese portuali del Mediterraneo.

Presidente dell'Ente porto è l'avvocato Santi Cacopardo che fu protagonista di primo piano dello scempio di Palermo negli «anni ruggenti» della speculazione edilizia in qualità, allora, di Presidente dell'Istituto autonomo case popolari di Palermo.

La Commissione possiede una documentazione enorme sulle gesta di tale personaggio che ha fatto assolvere all’Iacp la funzione di battistrada della speculazione edilizia, particolarmente attraverso la costruzione dei cosiddetti villaggi satelliti dove il Comune era costretto a fare le opere di urbanizzazione, valorizzando le aree limitrofe che venivano occupate dai mafiosi in combutta con gli uomini politici del gruppo di potere dominante.

Invece di provvedere al risanamento dei vecchi quartieri fatiscenti si è favorito per venti anni l'espansione della città in una direttrice preordinata (l'asse via Libertà, viale Lazio, circonvallazione verso Tommaso Natale e l'aeroporto di Punta Raisi su cui si è concentrato lo scontro sanguinoso fra le cosche mafiose!).

Negli ultimi anni, incalzato dall'opinione pubblica e dall'opposizione di sinistra, il ministro Gioia ha assunto in prima persona l'iniziativa del «risanamento» dei quartieri popolari promuovendo la stipula di una convenzione tra Comune di Palermo, Cassa per il Mezzogiorno e Italstat.

Tale convenzione era chiaramente finalizzata a scopi speculativi verso il versante di Palermo Est (oltre Greto) dove, fra l'altro, esistono cospicui interessi immobiliari delle famiglie Gioia e Cusenza. Sta di fatto che, avendo l'opposizione di sinistra in Consiglio comunale imposto profonde modifiche alla convenzione, che limitano fortemente i margini di manovre della speculazione, il «risanamento» di Palermo non si realizza. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Così la mafia decideva a Palermo dove costruire palazzi e aprire cantieri. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 26 febbraio 2022

Negli anni Settanta si sta manovrando per realizzare i progetti di speculazione fuori dalle aree da risanare. Le opere di contenimento del fiume Oreto e il risanamento idrico-fognante lungo il fiume; alcuni tronchi della circonvallazione. Ecco la storia del consorizio Consedil

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Si sta, invece, manovrando per realizzare i progetti della speculazione fuori dalle aree da risanare. Le opere di contenimento del fiume Oreto sono già in convenzione alla Italstat con uno stanziamento di 5 miliardi circa (progetto avviato già da 4-5 anni). Inoltre, sono già stati stanziati 10 miliardi circa per un tronco della circonvallazione di Palermo che si riferisce a questa zona.

Sono previste ulteriori opere per quello che dovrebbe diventare il «Progetto speciale Palermo» che attualmente è fermo al Cipe:

un asse di aggancio «Circonvallazione-Porto» che dovrebbe correre lungo il fiume Oreto (previsti 12 miliardi circa);

risanamento idrico-fognante lungo il fiume Oreto (20 miliardi circa);

altro tronco circonvallazione (10 miliardi circa).

COME AVVIENE LA SPECULAZIONE?

Attraverso la scelta delle priorità delle opere da eseguire. Il risanamento idrico-fognante verrà fatto fra le ultime cose. Risulta che inquilini del quartiere interessato vengono già mandati via. Il giorno che verrà fatto il risanamento il quartiere sarà già pronto per essere trasformato da popolare in quartiere «bene».

L'ultimo capolavoro del gruppo di potere dominante di Palermo è la costituzione del consorzio di imprese Consedil. La legge n. 166 consente alle imprese o loro consorzi di realizzane interventi edilizi a tasso agevolato (5 per cento) con la concessione di contributi sugli interessi per mutui fino al 75 per cento della spesa ai sensi dell'articolo 72 della legge m. 865 e della legge n. 1179, prevedendo ad hoc stanziamenti per gli anni 1975-1976.

Il 7 giugno 1975 (giorno della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale odia legge n. 166), si costituisce in Palermo un consorzio di imprese Consedil con la sola ed esclusiva finalità di operare interventi ai sensi dell'articolo 72 della legge n. 865.

Le imprese sono le seguenti: Sailem (D'Agostino), Gaissima, Tosi, ABC (Pisa), Reale, Ranieri. Direttore tecnico del cansorzio è l'ingegner Giuseppe Mannino che, vedi caso, è anche direttone tecnico della Lesca, la ditta che si è aggiudicata il servizio di manutenzione stradale a Palermo. Sino ad oggi la maggior parte di queste imprese hanno operato in settori diversi dall'edilizia quali opere marittime (Sailbm), strade (Cassina, Reale, Abc); solo Tosi e Ranieri vi hanno operato e quest'ultima in misura molto ridotta.

Il Consedil è l'unico ad avanzare richiesta alla Regione per l'ottenimento dei contribuiti ad sensi dell'articolo 72 della legge n. 865 per un intervento di grosse dimensioni nel Comune di Palermo. Contemporaneamente, come prescritto dalla legge, chiede rassegnazione di aree ali Comune e indica quale istituto finanziatore la sezione di credito fondiario del Banco di Sicilia.

L'assessore regionale ai lavora pubblici concede ali Consedil l'intera franche di contributi agli interessi destinata ai privati; il che consente un intervento di circa 25 miliardi, per la cui realizzazione non resta che l'assegnazione dell'area da parte del Comune. Il disegno di legge n. 376 del 13 agosto 1975 con l'articolo 6 stanzia altri fondi per gli anni 1975-1976, raddoppiando il finanziamento.

Da quanto sopra emergono le seguenti considerazioni: 1) i nominativi dei componenti il Consedil non lasciano dubbi che esiste un'ampia copertura politica che potrà permettere la massima agevolazione a tutti i livelli, ma soprattutto a quello comunale (approvazione progetti, convenzioni, eccetera); 2) la maggior parte delle imprese del Consedil e soprattutto le più consistenti (Sailem e Cassina) non si sarebbero mai sognate di entrare nell'attività edilizia, in quanto i "settori in cui esse agiscono, opere marittime e strade, consentono ad esse consistenti profitti.

Pertanto la loro presenza denota che sono sicuri di condurre un vero e proprio «affare»; 3) il Consedil, per le precedenti considerazioni, non sarà in grado di affrontare con le proprie strutture tecniche ed industriali l'intero intervento e quindi si porterà al di sopra della piccola e media imprenditoria in posizione di pura e semplice finanziaria, spostando così il rischio di impresa dal momento manageriale industriale al momento politico e finanziario.

Tale monopolio assumerà una pesantezza insopportabile per la media e piccola imprenditoria, in quanto si instaurerà inevitabilmente una intermediazione oltre che politica e clientelare, anche mafiosa. Alla mafia delle aree si aggiunge così la mafia dei subappalti. Si fa notare che per il Consedil non esistono problemi finanziari, non esistono esitazioni nella fase decisionale, esiste un rapporto politico per cui gli uffici comunali e delle banche saranno a completa disposizione per rendere agevole la strada alla realizzazione, mentre potranno renderla piena di ostacoli alle altre componenti in gioco. Si ricordi in proposito in quali enormi difficoltà si è sempre dibattuto l'iacp di Palermo, che dopo anni non riesce ad ottenere dal Comune le opere di urbanizzazione.

TUTTE LE STRADE PORTANO... AI CASSINA

Vedremo, invece, con quale celerità verranno fatte per il Consedil dove Cassina è un membro dei più importanti. Conseguentemente si verificherà che le prime case ad essere pronte saranno proprio quelle del Consedil. Da qualche parte si è avanzata l'ipotesi che in seguito, di fronte a pressioni popolari per l'ottenimento della casa o per la oggettiva situazione di carenza di alloggi in Palermo, si potrebbe arrivare alla vendita diretta all'iacp o alle cooperative svuotandone così le funzioni istitutive. Si ripeterebbe così l'esperienza degli edifici costruiti dalla famosa impresa Vassallo o affittati al Comune e alla Provincia per scuole e agli altri enti pubblici per uffici.

Abbiamo voluto soffermarci su alcuni fatti più recenti per mettere in evidenza come si evolve il sistema di potere mafioso a Palermo. Vogliamo ricordare ancora la grande influenza che il gruppo di potere palermitano ha sul sistema bancario grazie al controllo del Banco di Sicilia. L'attuale presidente del Banco, Ciro Di Martino, fu sostenuto da Gioia che, inoltre, ha imposto come vice presidente il suo uomo di fiducia Ferdinando Alicò.

Nella «lottizzazione» del potere fra le varie correnti della Democrazia cristiana l'onorevole Gioia ha preteso ancora il Banco di Sicilia. Ma, avendo sino ad oggi il Ministero del tesoro e la Banca d'Italia respinto tutti i suoi candidati, il Banco di Sicilia è da molti anni con il consiglio di amministrazione non rinnovato, con conseguenze catastrofiche per la vita di questo importante istituto e per l'intera economia siciliana. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Gli intoccabili Nino e Ignazio Salvo, amici della Dc e di Cosa Nostra. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 27 febbraio 2022

La legislazione tributaria regionale e lo strapotere dell'apparato esattoriale siciliano, condizionato e praticamente nelle mani di poche famiglie, come i Salvo, appunto, i Cambria, i Corleo, che ne detengono il monopolio.

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Il sistema di potere mafioso continua a dominare la vita di altre zone della Sicilia occidentale. Dopo Palermo possiamo dire che la situazione più preoccupante esiste in provincia di Trapani.

La Democrazia cristiana trapanese, infatti, è oggi in mano ad un gruppo di potere che è dominato dalla famiglia dei Salvo di Salemi, che, come è noto, controlla le famose esattorie comunali di cui si è tanto occupata la nostra Commissione.

La materia delle esattorie ha formato oggetto nella V legislatura di un'ampia indagine da parte di un Sottocomitato del Comitato per l'indagine sugli Enti locali, la cui relazione di massima non è stata, peraltro, mai sottoposta alla discussione ed all'approvazione formale della Commissione.

I dati emersi da quell'indagine consentono, però, di delineare un impressionante quadro di carenze, di anomalie e di irregolarità nel servizio esattoriale. L'aggio concesso a favore degli esattori per le somme riscosse in Sicilia, notevolmente e ingiustificatamente superiore a quello vigente nel restante territorio nazionale (a fronte di un aggio aggirantesi, sul territorio nazionale, intorno ad una aliquota media del 3,30 per cento, l'aggio siciliano giunge a toccare sino al 10 per cento circa); le ulteriori cospicue agevolazioni quali le cosiddette «tolleranze» sui tempi di versamento dei capitali riscossi, che vengono concesse fino alla misura del 20 per cento ed oltre del carico dei ruoli (e che si traducono sostanzialmente nella messa a disposizione degli esattori di ingenti somme di denaro senza interesse, che possono essere reinvestite in altre più lucrose attività); i non trascurabili profitti assicurati agli esattori attraverso i particolari istituti dei diritti di mora e delle partite inesigibili; i rimborsi spese eccedenti l'aggio che sono in taluni casi previsti a favore degli esattori, inducono al legittimo convincimento che l'apparato esattoriale possa configurarsi come una colossale organizzazione di intermediazione parassitarla che danneggia gravemente i contribuenti siciliani, l'economia siciliana e lo stesso sviluppo economico-sociale dell'Isola.

L’APPARATO ESATTORIALE SICILIANO

Causa fondamentale dello strapotere dell'apparato esattoriale siciliano è stato l'esercizio distorto della legislazione tributaria da parte della Regione, a sua volta indubbiamente condizionata dalla spinta potente del formidabile gruppo di pressione di quell'apparato, praticamente nelle mani di poche famiglie (i Salvo, appunto, di cui si parla nel testo, i Cambria, i Corleo) che ne detengono il monopolio.

Il concreto esercizio da parte della Regione della potestà tributaria, che l'articolo 37 dello Statuto attribuisce alla sua autonoma competenza come fondamentale strumento per la realizzazione di un programma regionale di sviluppo democratico, anziché realizzare semplici ed economici meccanismi impositivi tali da tradursi in congrui strumenti di perequazione fiscale, ha modificato in peggio il macchinoso sistema di riscossione già vigente nel resto del Paese ed ha reso obiettivamente più facile nell'Isola l'incrostarsi nelle maglie di esso di privilegi, favoritismi ed abusi.

Non appare difficile qualificare tali incrostazioni come un classico terreno di coltura di degenerazione del fenomeno mafioso inteso come smodato ed ostentato abuso di potere. Ciò spiega il rilevante contributo che il gruppo comunista ha dato all'elaborazione delle proposte per il riordinamento del settore, impegnandosi vigorosamente perché alla recente legge 2 dicembre 1975, n. 576, contenente disposizioni in materia di imposte sui redditi e sulle successioni, che riduce notevolmente l'area di intervento delle esattorie permettendo al contribuente, con un sistema di autotassazione, di versare direttamente i tributi, senza il tramite degli esattori, sia affiancata, per la Sicilia, una misura che affidi le funzioni esattoriali solo alle banche pubbliche o a consorzi di banche, in cui quelle pubbliche abbiano la maggioranza del capitale sociale.

II congresso provinciale della Democrazia cristiana trapanese, tenutosi nel 1972, è consideralo il punto di arrivo della scalata data dal gruppo Salvo alla direzione della Democrazia cristiana di quella provincia. In quel congresso avvenne la saldatura, attorno al gruppo doroteo dell'onorevole Grillo, di una vasta maggioranza alla cui formazione concorrevano non solo i tradizionali gruppi salernitani e marsalesi, ma anche forze di Trapani e di Alcamo.

In quell’occasione il moroteo Culicchia, segretario provinciale uscente e sindaco di Partanna, accusò pubblicamente i Salvo di aver «acquistato» i voti dei delegati ininterrottamente per tutta la durata del congresso e fino al seggio elettorale dove si votava per il rinnovo delle cariche. La chiave interpretativa fondamentale del rapporto tra gruppi mafiosi e potere politico negli ultimi dieci anni in provincia di Trapani va ricercata, infatti, nella scalata del gruppo Salvo e nella crisi conseguente a questo processo che pare averli colpiti negli ultimi mesi (si veda il sequestro Corleo).

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Trapani, gli esattori diventano la grande forza mafiosa della Sicilia. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 28 febbraio 2022

Con i Salvo debuttava un nuovo impegno imprenditoriale in prima persona, dinamico, dei gruppi mafiosi. In parte è un processo analogo a quello legato all'emergere, in quegli anni, di nuovi gruppi dirigenti mafiosi legati alla speculazione edilizia nei grandi centri urbani dell'Isola

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Con i Salvo debuttava un nuovo impegno imprenditoriale in prima persona, dinamico, dei gruppi mafiosi. In parte è un processo analogo a quello legato all'emergere, in quegli anni, di nuovi gruppi dirigenti mafiosi legati alla speculazione edilizia nei grandi centri urbani dell'Isola.

Le scelte prioritarie del gruppo trapanese si rivolgono, però, non solo all'edilizia ma anche all'agricoltura e alla speculazione finanziaria.

L'accordo raggiunto per alcuni anni dai Buccellato e dai Navarra di Castellammare, dai Rimi nell'alcamese, dai Minore a Trapani, dai Salvo e Zizzo a Salemi, dai Taormina a Castelvetrano, eccetera si consolida di fronte alle nuove possibilità finanziarie che l'espansione nel campo delle esattorie di Salvo e Corleo ha messo a disposizione di questi gruppi.

Si creano nuove condizioni e si costruisce un nuovo gruppo dirigente che, chiusa la parentesi cristiano-sociale, rientra pienamente nella Democrazia cristiana e ne assume il controllo senza, tuttavia, alcuna guerra a fondo contro il tradizionale gruppo moroteo di Mattarella (l'unico trauma è forse il sequestro Caruso cui da più parti si attribuisce un emblematico valore politico).

In quegli anni si espande la presenza in provincia di Trapani di Lima e di Gioia e Attilio Ruffini diviene il punto di riferimento di vasti gruppi non solo dorotei, ma anche della corrente fanfaniana di Trapani. In sostanza il rapporto privilegiato delle nuove forze dirigenti della Democrazia cristiana trapanese è verso Gioia-Lima-Ruffini.

ACCORDI E SCONTRI ATTORNO ALLA DC

Il gruppo Salvo, contemporaneamente, tende ad assicurarsi una serie di contatti e di rapporti con altri partiti individuando uomini da appoggiare al momento elettorale o da usare come tramiti per costruire accordi politici su determinate operazioni economiche.

Alla fine degli anni '60 si aprono una serie di scontri tra i Salvo ed altri gruppi che pure avevano avuto un ruolo importante nella costruzione del gruppo dirigente postmattarelliano.

Questi scontri attorno al controllo dei consorzi agrari e delle zone di sviluppo turistico sono accompagnati da una vera e propria «presa di potere» all'interno delta Democrazia cristiana del nuovo gruppo di maggioranza, la cui ottica diviene sempre più esclusiva fino al tentativo di un anno fa di modificare in proprio favore il rapporto territoriale tra le sezioni di partito della Democrazia cristiana e le sezioni elettorali al fine di tagliare fuori nelle elezioni amministrative del giugno scorso l'intera componente morotea.

Il tentativo fallì per l'intervento diretto della Direzione democristiana e con la sospensione del già convocato congresso provinciale. Gli altri partiti di centro-sinistra erano oggetto di una penetrazione di questi gruppi impegnati nel quadro politico provinciale anche per la rilevanza economica della ricostruzione del Belice, e della costruzione dell'autostrada.

Negli ultimi anni, si è avuta una prevalenza netta del gruppo Salvo sugli altri e il delinearsi di una loro volontà di controllo della provincia. Questo, indipendentemente dia tutte 'le analisi, evidentemente non comprovate, sul traffico della droga che li avrebbe visti finanziatori di una rete distributiva nella quale sarebbe stato rilevantissimo il ruolo di Zizzo e di gruppi alcamesi (oltre ai Rimi anche Guarrasi e Melodia).

A questo proposito pare rilevante la supposizione che fa la Polizia, dopo l'accertamento patrimoniale su Guarrasi (l'assessore ali Comune di Alcamo, assassinato alla vigilia delle elezioni del 15 giugno il cui patrimonio si è rivelato insospettatamente cospicuo e sicuramente superiore al miliardo), che egli sia stato ucciso in un tentativo di sequestro che rimanda logicamente al caso Corleo.

Il Guarrasi, ex sindaco di Alcamo ed esponente di rilievo provinciale della corrente dorotea, non poteva certamente aver costruito una fortuna di queste proporzioni solo attraverso la speculazione edilizia ad Alcamo.

Alla morte del vecchio Rimi fu reso più evidente l'indebolimento del vecchio gruppo dirigente mafioso; con ciò si spiega il fiorire di una serie incontrollata di attentati ai cantieri edili promossi da una mafia alcamese di secondo grado, come i fratelli Minore, che oggi rivendica spazi propri. Questi fatti hanno preoccupato forze e gruppi mafiosi.

Si è determinata così una situazione di tensione nella provincia che sta, probabilmente, alla base dei numerosi assassini degli ultimi mesi tra i quali alcuni rilevanti (Russo a Castelvetrano, Guarrasi e Piscitelli ad Alcamo, i due scomparsi di Paceco e Trapani legati ai rami minori del gruppo mafioso di Paceco) e del clamoroso sequestro di Corleo.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. La mafia a Caltanissetta garantisce silenzio e “ordine pubblico”. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani l'01 marzo 2022

La mafia in provincia di Caltanissetta ha avuto sempre «un ruolo politico di primo piano. Basti ricordare i nomi di don Calogero Vizzini e di Giuseppe Genco Russo. La mafia nissena si è sempre caratterizzata per la sua capacità di garantire «l'ordine» in quella provincia, come dimostra l’assenza di gravi fatti di sangue e di altri clamorosi reati.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Le cosche mafiose della provincia di Caltanissetta hanno avuto sempre «un ruolo politico di primo piano. Basti ricordare i nomi di don Calogero Vizzini e di Giuseppe Genco Russo.

La mafia nissena si è sempre caratterizzata per la sua capacità di garantire « l'ordine » in quella provincia. L'assenza di gravi fatti di sangue e di altri clamorosi reati ha consentito a determinati uomini politici e funzionaci «responsabili» di affermare che la mafia a Caltanissetta sarebbe ormai scomparsa. Improvvisamente, invece, nella seduta del 12 settembre 1972 del Consiglio comunale di Caltanissetta il sindaco, professar Raimondo Collodoro, denuncia di aver subito intimidazioni mafiose. Quell'episodio ripropone il problema dello scontro fra diversi gruppi di potere nei Settori dell'urbanistica, dell'attività edilizia e del mercato ortofrutticolo.

Il Comune di Caltanissetta in qual momento doveva predisporre i programmi per l'approvazione della legge per la casa con la cessione delle aree dei piani zonali alle cooperative già finanziate. L'intimidazione mafiosa nasceva dalla volontà di gruppi di speculatori privati di impedire la creazione di un mercato competitivo di aree.

Contemporaneamente, manovrando gli organi di controllo, si cercava di vanificare una delibera del Consiglio comunale che poneva un vincolo a vende nel Parco Testasecca che un gruppo di speculatori mafiosi intendeva, invece, accaparrarsi.

Si sono poi avute le conferme clamorose della presenza maliosa in provincia di Caltanissetta con il caso Di Cristina, i suoi rapporti con l'Ente minerario e i suoi legami elettorali con l'onorevole Gunnella.

GLI INTERESSI VERSO IL POLO INDUSTRIALE

Ma le cosche mafiose hanno manifestato la loro presenza anche nel polo di sviluppo industriale di Gela. Ecco, a questo proposito, quanto è stato denunciato nell'interrogazione che gli onorevoli La Marca, Mancuso e Vitali hanno rivolto in data 26 marzo 1975 ai Ministri delle partecipazioni statali, interno e lavoro: « I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri delle partecipazioni statali, dell'interno e del lavoro e della previdenza sociale per sapere:

se sono a conoscenza del pesante clima di tensione esistente attornio al complesso petrolchimico di Gela e, più specificatamente, nell'ambito delle imprese appaltatrici di lavori e servizi dell'Anic, dove episodi di brutale sfruttamento di lavoratori (spesso culminati in infortuni anche mortali), di corruzione, di connivenza tra imprese appaltatrici ed alcuni tecnici dell'azienda di Stato, nonché di intimidazioni maliose contro le organizzazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil si vanno verificando con un crescendo impressionante, fimo al punto, non soltanto di turbare la tranquillità necessaria all'ambiente di lavoro, ma amene di mettere in serio pericolo la stessa incolumità dei lavoratori e dei dirigenti sindacali.

Significativi di tale grave situazione sono gli episodi verificatisi negli ultimi mesi e precisamente: a) la costruzione di due villini in contrada Desusino, di proprietà di due tecnici dell'Anic addetti all'ufficio manutenzione edile dello stabilimento, eseguita dall'impresa Mecos, appaltatrice di lavori dell'Anic, a mezzo di operai dipendenti da detta impresa, costruzione denunziata dalla Camera del lavoro di Gela l'8 febbraio 1975 e confermata dalla ispezione effettuata dall'Ispettorato provinciale del lavoro il 12 febbraio 1975; b) l'intimidazione di pretta marca mafiosa contro il segretario della Camera del lavoro di Gela al quale, la sera dell'11 febbraio 1975, veniva incendiata l'auto; c) la sparatoria (8 colpi di pistola) ad opera di un pregiudicato non nuovo ad aggressioni del genere contro il direttore dell'impresa Smim (anche questa appaltatrice di lavori dell'Anic), per fortuna rimasto illeso insieme con altri operai che si trovavano dietro la macchina del citato direttore, presa di mira dallo sparatore all'interno del petrolchimico il 7 marzo 1975;

se risulta a verità che noti delinquenti comuni, assunti come operai dalle imprese Mecos e Smim e da queste regolarmente retribuiti, svolgono la duplice mansione di prese e di informatori del locale Commissariato di Pubblica sicurezza;

se, dopo la scoperta della costruzione di due villini da parte dell'impresa Mecos per conto di due tecnici dall'Anic, abbia trovato conferma la voce, secondo la quale la stessa impresa sta costruendo a Caltanissetta un villino per conto di un funzionario di quell'Ispettorato provinciale del lavoro;

se, alla luce dei fatti sopra riportati, i Ministri non ritengono di dover intervenire, con un'azione concertata, per rompere l'intreccio sviluppatosi, all'ombra del rigoglioso bosco degli appalti-Anic, tra alcuni tecnici dello stabilimento petrolchimico, le imprese appaltatrici, il Commissariato di Pubblica sicurezza e lo stesso Ispettorato provinciale del lavoro.

In particolare si chiede al Ministro delle partecipazioni statali se non sia giunto armai il momento di affrontare il grave problema della pratica degli appalti ancora recentemente, e non soltanto a seguito dei gravi fatti sopra denunziati, sollevato dalle organizzazioni sindacali Cgil-Cisl-Uil, con la precisa richiesta di abolire la concessione in appalto di servizi e lavori all'interno dello stabilimento che potrebbero essere condotti direttamente dall'azienda di Stato».

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Lo strapotere di Giuseppe Genco Russo, padrone di banche e di preture. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 02 marzo 2022

A completare il quadro ecco scoppiare lo scandalo della Cassa rurale «S. Giuseppe» di Mussameli. Trattasi della Cassa rurale che ha favorito le operazioni bancarie intese a sostenere l'attività del gruppo di mafiosi guidato da Genco Russo per impadronirsi del feudo Polizzello

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

E a completare il quadro ecco scoppiare lo scandalo della Cassa rurale «S. Giuseppe » di Mussameli. Trattasi della Cassa rurale che ha favorito le operazioni bancarie intese a sostenere l'attività del gruppo di mafiosi guidato da Genco Russo per impadronirsi del feudo Polizzello.

A Genco Russo la Commissione ha dedicato un ampio profilo, nella « Relazione sull'indagine riguardante casi di singoli mafiosi ». Presidente di tale Banca è l'avvocato Vincenzo Noto, ex sindaco di Mussameli, noto capo elettore di Calogero Volpe. Il suo nome ricorre negli atti relativi al profilo di Genco Russo. In atto i soci della Cassa sono 237. Nel 1940 erano 1.500, nel 1945 erano 1.050, nel 1954 erano scesi a 500 per raggiungere il numero attuale di 237.

La raccolta di fondi è valutata a circa sei miliardi di lire e riguarda piccoli depositi di circa un migliaio di piccoli risparmiatori.

Il presidente avvocato Noto ha utilizzato la Cassa ad esclusivo vantaggio di un ristretto gruppo familiare comprendente: 1) Noto Angelo, nipote di Vincenzo; 2) dottoressa Scozzari, moglie dell'avvocato Vincenzo Noto.

Le operazioni di investimento (almeno quelle che si conoscono) portate a termine da tale clan familiare riguardano le seguenti iniziative:

«Pastifici riuniti Valle dei Platani», di cui l'avvocato Vincenzo Noto è stato amministratore delegato;

«Laterplatani», industria di manufatti per l'edilizia, di proprietà di Angelo Noto, nipote dell'avvocato Vincenzo;

acquisto di abitazioni in Mussomeli, Palermo, Enna, Cinisello Balsamo;

acquisto di aree fabbricabili nel territorio urbano di Mussomeli. Tali aree costituiscono una notevole percentuale delle aree disponibili nel piano regolatore di Mussomeli.

La elencazione di tali beni è ricavata da un atto in notaio Ielo di Caltanissetta in data 25 maggio 1975, con il quale i proprietari di tali beni chiedono ed ottengono l'accensione di ipoteca su di essi a garanzia di un debito con il Banco di Sicilia per circa un miliardo e settecento milioni. Non si conosce se, oltre a quelli elencati in tali atti, siano presenti altri beni intestati al suddetto clan familiare capeggiato dal Noto.

La sofferenza dell'Istituto pare che ascenda a ed rea sei miliardi, di cui è documentabile in beni solo la suddetta quota di 1.700 milioni circa, peraltro coperta da ipoteca del Banco di Sicilia. Non si conosce la destinazione degli altri quattro miliardi.

Qualche settimana prima dello scoppio dello scandalo il reverendo Giuseppe Mule, vice presidente della Cassa, ha ritirato un suo deposito personale di 1 milione e 700 mila lire per depositarlo in altro Istituto. Analoga operazione è stata condotta dall'arciprete di Mussomeli per circa 37 milioni.

Hanno intrapreso azione legale dinanzi al Tribunale di Calttarassetta soltanto sei dei piccoli risparmiatoti depositanti, che hanno avanzato istanza di liquidazione giudiziaria.

Il Tribunale di Calitanissetta ha già richiesto la informativa alla Banca d'Italia, che non l'ha ancora inviata. Nelle settimane antecedenti al crac pare che sia stata tentata una operazione di camuffamento della situazione economica, costruendo crediti vantati dalla Banca e nient'affatto esistenti. Infatti qualche ex cliente della Banca che aveva estinto da diverso tempo ogni pendenza debitoria e chiuso ogni conto si è visto arrivare una lettera raccomandata con la quale la Banca lo invita a sanare un debito finanziario effettivamente non esistente.

LO SCANDALO DELLE PRETURE

Da diversi anni risulta non coperto il posto di Pretore. Le funzioni della Pretura sono affidate ad un vice pretore onorario: l'avvocato Giuseppe Sorce. il quale è contemporaneamente vice presidente della Banca popolare di Mussomeli.

L'avvocato Giuseppe Sorce è suocero di un figliuolo dell'avvocato Vincenzo Noto, presidente della « S. Giuseppe » di Mussomeli. L'avvocato Sorce è lo stesso che coprì la carica di sindaco di Mussomeli dal 1946 al 1956. Esiste una dichiarazione apologetica in favore di Giuseppe Genco Russo, sottoscritta dal Sorce nella sua qualità di sindaco.

Oltre a quella di Mussomeli le Preture dalla provincia di Caltanissetta che da anni sono rette da vice pretori reggenti sono: 1) Villalba: da tempo immemorabile non c'è un Pretore (titolare. Il mandamento della Pretura di Villalba comprende anche il comune di Vallelunga, anche quest'ultimo centro di mafia (i Madonia, i Sinatra sono di Vallelunga).

Detta Pretura è sempre retta da un avvocato del luogo il quale, come reggente, è regolarmente stipendiato, e naturalmente si mette al servizio di chi lo fa nominare (chi si muove per le nomine è l'onorevole Volpe!) ; 2) Butera: anche qui il titolare della Pretura manca da tempo immemorabile. Il vice pretore reggente è sempre stato un avvocato del gruppo di potere che fa capo al commendatore Guido Scichilone, capo della Dc più volte sindaco del Comune, e consigliere della Cassa di Risparmio, impresario di trasporti extraurbani; 3) Riesi: attualmente è senza titolare e il reggente è un avvocato del luogo, nonostante sia centro di mafia (patria dei Di Cristina); 4) Sommatino: da circa 10 anni è retta da un avvocato del luogo, Giuseppe Pappalardo (uomo di Volpe), benché ci sia un titolare che, però, non appena nominato nel 1973, è stato applicato alla Pretura di Caltanissetta per sette giorni la settimana! Si dice che l'operazione sia stata fatta per favorire il Pappalardo « ben protetto ».

Tutte queste Preture sono in generate anche senza cancelliere titolare e si rimedia con qualche cancelliere a scavalco o col segretario comunale che per legge deve fare il cancelliere in assenza di questi. 

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Agrigento, una mafia silenziosa e interessata ai palazzi. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 3 marzo 2022

L'organizzazione mafiosa è particolarmente presente, inoltre, nel settore delle costruzioni edilizie e opere di interesse pubblico e stradali. A Canicattì, Licata, Sciacca, Palma, Ribera, buona parte della speculazione edilizia porta il marchio di gruppi mafiosi che hanno operato in stretta collaborazione con le amministrazioni comunali dirette dalla DC e dal centrosinistra

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

In provincia di Agrigento gli atti e le manifestazioni tipiche del fenomeno mafioso hanno subito una graduale, ma costante attenuazione, rispetto al periodo (1943 – inizio aveva visto le cosche mafiose protagoniste di una lunga catena di delitti culminati nell'assassinio del commissario di Pubblica sicurezza Cataldo Tandoj.

La Federazione agrigentina del Pci ha già espresso il proprio giudizio sul fenomeno mafioso, con una puntuale e documentata analisi contenuta nel «memoriale» consegnato alla Commissione antimafia, che ancora oggi conserva la sua validità e attualità, confermata da episodi e rivelazioni successivamente verificatisi.

Pertanto ci limitiamo ad alcune sintetiche considerazioni aggiornate delle caratteristiche e delle dimensioni che allo stato attuale assume il fenomeno mafioso. Le cause della sua attenuazione scino dovute alla crisi delle tradizionali attività produttive: miniere di zolfo oggi in fase di completa smobilitazione, la crisi grave che investe la pesca e, per altri versi, il settore delle costruzioni edilizie.

Nella città di Agrigento, dopo la frana del luglio 1966 a causa del caos urbanistico, si è determinata la paralisi quasi completa delle attività di costruzione. Nel rimboschimento le lotte bracciantili hanno costretto l'azienda forestale a gestire direttamente i lavori di forestazione, lasciando uno spazio marginale agli appalti di cui solitamente sono stati e sono titolari elementi notoriamente legati alla organizzazione mafiosa.

Nel settore del vigneto la costituzione di un forte movimento cooperativo di cantine sociali (di orientamento cattolico, socialiste e comunista) ha sottratto molto terreno all'opera mafiosa di intimidazione e di ricatto a scopo di lucro, specie nella fase di commercializzazione dell'uva e poi del mosto, ed ha impedito il diffondersi su vasta scala della sofisticazione (che invece dilaga nel trapanese e nel palermitano).

Si è avuta contemporaneamente la crescita del livello di istruzione e della coscienza civile e democratica delle popolazioni. I grandi movimenti di lotta, guidati dai partiti di sinistra, dai sindacati e da alcuni settori importanti del mondo cattolico e della stessa Democrazia cristiana, in tutti questi anni hanno contribuito notevolmente a fare maturare una nuova coscienza nelle nuove generazioni, riducendo l'area di omertà e di paura che, laddove ancora esiste, rappresenta uno degli elementi su cui poggia e si sviluppa l'organizzazione mafiosa.

UNA MAFIA “RIDIMENSIONATA”?

Anche se il fenomeno mafioso ha subito in provincia tale ridimensionamento, si esclude che debba essere considerato estinto o comunque non in grado, a seconda della contingenza politica ed economica, di riprendersi ed estendersi.

Sono, infatti, presenti i presupposti economici e sociali determinati storicamente dallo sviluppo del capitalismo in Sicilia e regolati dal sistema di potere di stampo burocratico-clientelare che spengono tanti giovani, anche a causa della disoccupazione dilagante, a porsi fuori dalla legge, ricercando il legame con ile organizzazioni mafiose.

Esistono, infatti, in tutti i comuni dell'agrigentino nuclei mafiosi di tipo classico che agiscono ed operano con metodi che vanno dalla intimidazione al ricatto, dal paternalismo alla solidarietà di clan.

Alcuni di essi sono riusciti a collegarsi organicamente con i centri fondamentali della mafia siciliana che risiedono a Palermo da dove si dipartono le fila delle organizzazioni che regolano il contrabbando di tabacco, di droghe e di altri generi, il mercato della prostituzione e delle produzioni ortofrutticole, i campi cioè dove gli interessi economici e le possibilità di lucro sono consistenti per cui è possibile che avvengano delitti grava e spietati fatti di sangue. Sono esemplari, a questo proposito, le vicende della mafia operante nel triangolo Riesi-Ravanusa-Campobello di Licata.

L’esecuzione in una stanza dell'Ospedale civico di Palermo di Candido Ciuni è il momento più clamoroso di una lunga catena di omicidi perpetrati in quella zona, che ha visto implicati personaggi come il Di Cristina di Riesi, funzionario della Sochimisi e capo elettore del Pri.

Un altro settore in cui è presente largamente la mafia è costituito dall'allevamento e dal commercio di bestiame: zona di Canicattì tradizionalmente rinomata per il commercio e l'importazione dall'estero dii capi bovini e di carne macellata; zona montana (Alessandria della Rocca, Burgio, Lucca Sicula, Bivona, Santo Stefano, Cammarata, ecc.). Qui si passa dai frequenti reati di abigeato ad azioni di intimidazione (sgozzamento del bestiame, incendio di ovili), dalla macellazione clandestina di carni all'assassinio di pastoni e mercanti.

Le cosche più influenti di questa attività risiedono nei comuni di Alessandria e Burgio che oltre ad esercitare un peso notevole nella zona sopra citata riescano a collegarsi con la mafia dei vicini centri del palermitano (Prizzi-Corleone).

L’organizzazione mafiosa è particolarmente presente, inoltre, nel settore delle costruzioni edilizie e opere di interesse pubblico e stradali.

In centri come Canicattì, Licata, Sciacca, Palma, Ribera, buona parte della speculazione edilizia porta il marchio della iniziativa di gruppi mafiosi i quali hanno operato, come nel caso di Licata, Canicattì, Palma, in stretta collaborazione con le amministrazioni comunali dirette dalla Dc e dal centrosinistra ritardando ed in alcuni casi impedendo l'elaborazione e l’approvazione da parte dei Consigli comunali degli strumenti urbanistici, accaparrandosi le aree a basso costo o addirittura le aree di proprietà comunale (come nel caso del costruttore Pace di Palma Montechiaro, eletto consigliere comunale nella lista della DC nelle ultime elezioni amministrative, più volte denunciato dalla nostra sezione alla Magistratura con esiti purtroppo sempre negativi). ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Dalla Valle dei Templi a Milano, i ricchi affari con gli amici di Sindona.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 04 marzo 2022

La mafia agrigentina ha tentato recentemente un rilancio di tipo moderno con una operazione speculativa di carattere finanziario collegata con il sottobosco della finanza milanese del clan di Sindona e realizzata quasi interamente in provincia di Agrigento.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Lo sviluppo della costruzione di opere pubbliche ha consentito a certi gruppi mafiosi di mettere le mani sugli appalti ed i subappalti, mediante legami precisi con il potere politico dominante, più specificamente con i partiti al governo.

Qui si va dalle guardianie dei cantieri (comprese le industrie Italcementi) alle assunzioni di mano d'opera che vengono operate, specie per ciò che riguarda la mano d'opera cosiddetta «specializzata», tramite il solito sistema delle raccomandazioni e dalle protezioni di stampo mafioso.

Permane il sistema delle tangenti ricattatorie, il cosiddetto «pizzo» ancora largamente praticato oltre che in questo settore anche nelle attività commerciarli e la partecipazione diretta di elementi notoriamente legati alla mafia alla gestione e conduzione dei lavori.

Al tradizionale e compatto gruppo dei costruttori di Favara, si va gradualmente sostituendo in questo settore la schiera degli speculatori di Agrigento che, bloccati nella città capoluogo a causa della vicenda della frana, hanno trovato sbocco in provincia.

La mafia agrigentina ha tentato recentemente un rilancio di tipo moderno con una operazione speculativa di carattere finanziario collegata con il sottobosco della finanza milanese del clan di Sindona e realizzata quasi interamente in provincia di Agrigento.

GLI INTERESSI FINANZIARI A MILANO

Si tratta dell'«Interfinanziaria S.p.A.» con sede centrale a Milano, che riusciva ad aprire oltre 20 sportelli in provincia di Agrigento in piccoli comuni spoliati dall'emigrazione ed economicamente molto depressi.

All'improvviso la vecchia e nuova mafia si attivizzò e cominciò il reclutamento dei depositi: una vera e propria caccia ai risparmi di emigrati, ex possidenti, piccoli e medi proprietari di terre che, spinti dall'elevato tasso di interesse concesso (più del doppio del tasso praticato dalle altre banche!) e a volte da promesse di impiego nelle agenzie dell'Istituto, riversarono nelle sue casse più di 4 miliardi e mezzo di depositi nel volgere di poco tempo.

Un primo dato per dimostrare il collegamento diretto tra mafia e l'«Interfinanziaria»: gli impiegarti assunti, spesso senza i necessari titoli ed un adeguato grado di istruzione, erano quasi tutti figli o parenti stretti di esponenti mafiosi locali, i quali non avendo mansioni burocratiche da svolgere venivano utilizzati come ricercatori di clienti, data, appunto, la loro «influenza».

Per oltre un anno l'«Interfinanziaria» agì indisturbata allargando la propria attività nel campo turistico-alberghiero, dando inizio alla costruzione di un grande complesso nell'isola di Lampedusa, superando apertamente i limiti dell'autorizzazione concessale dal Ministero del tesoro e praticando operazioni bancarie non autorizzate.

Questi fatti hanno interessato il meccanismo di controllo della Banca d'Italia determinando la procedura di fallimento e di liquidazione della società e la incriminazione dal Consiglio di amministrazione per bancarotta fraudolenta. È da notare che quasi tutti i componenti del Consiglio di amministrazione erano siciliani e la maggior parte originari o residenti in provincia di Agrigento.

Discreti agganci mantengono tuttora alcuni personaggi legati alla cosca mafiosa dell'agrigentino con tutto il complesso sistema di potere burocratico-clientelare costituito dalla Dc ed estesosi con il centro-sinistra.

Sono frequenti i casi di immissione nei ruoli dei comuni e degli enti regionali, parastatali, eccetera, di personale raccomandato o protetto dalla mafia che sfrutta molto bene i legami che essa ancora mantiene con alcuni notabili Dc a livello provinciale e locale.

Particolari collegamenti con questi ambienti realizza, travalicando «talvolta i confini della provincia, l'onorevole Gaetano Di Leo di Ribera che, assieme all'onorevole Calogero Volpe di Caltanissetta, «amministra» i rapporti che il partito di maggioranza intrattiene con le cosche mafiose.

Sono frequenti, infatti, i loro interventi in situazioni locali allorquando si tratta di appianare contrasti o sistemare qualche affare interno all'organizzazione mafiosa relativi a controversie elettorali o a vicende amministrative di spartizione del potere e del sottogoverno.

Esistono situazioni dove il sistema di potere Dc fa tutt’uno con il sistema ed il metodo mafioso. E il caso di Cattolica Eraclea, medio centro dell'agrigentino, dissanguato dalla crisi, dalla disoccupazione e dall'emigrazione, dove tuttora opera una consistente organizzazione di mafiosi, collegata con Ribera, Montallegro, Siculiana. Qui il connubio tra sistema di potere Dc e mafia, seppure in una dimensione molto circoscritta, assume le caratteristiche di vera e propria simbiosi.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA 1976. La denuncia di Pio La Torre e Cesare Terranova sul legame mafia-politica. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 05 marzo 2022.

Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana e la ricerca travagliata di un confronto democratico e costruttivo per dare una nuova direzione alle amministrazioni della città e della provincia di Palermo.

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

Abbiamo voluto mettere in evidenza i limiti, le contraddizioni e talune reticenze della relazione generale presentata dal Presidente della nostra Commissione. Ci siamo assunti, contemporaneamente, le responsabilità di denunziare la realtà del sistema di potere mafioso nelle sue manifestazioni attuali, a Palermo e nelle altre province della Sicilia occidentale.

In questa denunzia non c'è alcuna intenzione scandalistica. Non siamo stati noi a promettere all'opinione pubblica l'esplosione della «Santa Barbara» e ad alimentare false prospettive sugli scopi della nastra Commissione parlamentare. La nostra denuncia tende a mettere in evidenza il permanere di rapporti fra cosche mafiose e pubblici poteri. Tale documentazione è importante ai fini degli indirizzi da dare alla lotta per debellare il dominio della mafia. Ecco perché noi mettiamo al primo posto il problema di una profonda trasformazione dei rapporti fra lo Stato e i cittadini.

Se si vuole assestare un colpo decisivo alla potenza della mafia occorre debellare il sistema di potere clientelare attraverso lo sviluppo della democrazia, promuovendo la smobilitazione unitaria dei lavoratori, l'autogoverno popolare e la partecipazione dei cittadini al funzionamento delle istituzioni democratiche.

Il triste spettacolo che, dopo le elezioni amministrative del 15 giugno, sta offrendo il gruppo di podere che domina Palermo, impedendo il funzionamento del Consiglio comunale e di quello provinciale, dimostra tutto il valore della nostra tesi.

La paralisi delle assemblee elettive ha permesso tradizionalmente al gruppo di potere palermitano di ottenere centinaia di delibere con i poteri del Consiglio da fare ratificare, poi, in pochi minuti, con un colpo di mano, al Consiglio comunale o provinciale convocato soltanto un paio di volte all'anno, fatti che furono duramente censurati in una mozione comunista discussa il 23 marzo 1973 dall'Assemblea regionale siciliana. Ecco perché occorre promuovere tutte le forme di controllo democratico, garantendo il pieno funzionamento delle assemblee elettive.

LA SIMBIOSI TRA MAFIA E CERTA POLITICA

Il sistema di potere mafioso è entrato ormai irrimediabilmente in crisi anche a Palermo. Ne sono una testimonianza gli ultimi sviluppi della lotta politica all'interno della DC palermitana e la ricerca travagliata di un confronto democratico e costruttivo per dare una nuova direzione alle amministrazioni della città e della provincia di Palermo.

A questi sviluppi positivi un contributo non secondario è venuto dall'attività della nostra Commissione, particolarmente dal momento in cui si ottenne il successo delle dimissioni di Vito Ciancimino da sindaco di Palermo. Tali processi positivi vanno assecondati con l'impegno costruttivo di tutte le forze democratiche. Più in generale occorre impastare su nuove basi il rapporto Stato-Regione facendo dispiegare tutto il potenziale democratico e rinnovatore dell'autonomia siciliana, per affrontare i problemi dello sviluppo economico e sociale dell'Isola.

Operando per questi obiettivi di sviluppo economico e di rinnovamento democratico sarà possibile portare avanti un'azione di profondo risanamento della vita pubblica dando prestigio ed efficienza a tutti gli origami dello Stato e, in primo luogo, a quelli chiamati a svolgere l'attività di prevenzione e repressione della criminalità organizzata. Con questa ispirazione ideale e politica noi abbiamo contribuito alla elaborazione ed approvazione delle proposte conclusive per combattere il fenomeno della mafia che la nostra Commissione si appresta a presentare in parlamento.

Vogliamo sottolineare che questo contributo positivo corrisponde all'impostazione costruttiva che noi imprimiamo alla nostra azione politica come principale partito di opposizione. Ci siamo preoccupati, in questo caso, di contribuire a dare una conclusione positiva ai lavori della nostra Commissione animati dal proposito di salvaguardare il valore e la funzione del nostro parlamento.

Siamo rammaricati, invece, di non essere riusciti a trovare un'intesa sulla relazione generale perché ci divide dal partito della Democrazia cristiana il giudizio sulle responsabilità politiche nel sistema di potere mafioso in Sicilia. Abbiamo così voluto sottolineare la necessità urgente di voltare pagina nel modo di governare la Sicilia.

Sappiamo che tale esigenza è ormai avvertita da un vasto schieramento di forze ed essa si fa strada anche all'interno del partito della Democrazia cristiana. Le ultime vicende politiche siciliane sono una conferma dell'affermarsi di questa volontà di cambiamento. Il nostro proposito è di accelerare questi processi positivi, di fare in modo che essi agiscano in profondità per liberare la Sicilia dal cancro del sistema di potere mafioso.

ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Villalba, il regno di don Calò, mafioso e sindaco per volere degli Alleati. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 06 marzo 2022

Calogero Vizzini, detto Don Calò, primo sindaco di Villalba per decisione degli americani, fu anche nel contempo il capo riconosciuto della mafia di Sicilia. A lui ed ai suoi accoliti di Villalba si deve il primo clamoroso episodio di violenza mafiosa nel dopoguerra: l'attentato commesso durante un comizio dell'On. Li Causi

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

II presente memoriale è stato redatto col proposito di apportare un contributo di ricerca e di documentazione ai lavori della Commissione Parlamentare di inchiesta sulla mafia. La provincia di Caltanissetta è particolarmente interessata a tale inchiesta in quanto - come la pubblicisti[1]ca più recente (Pantaleone, Navacco, Gajo, Romano) ha rilevato — la mafia operante in questa provincia ha assunto un ruolo di direzione a livello regionale, non senza collegamenti con la mafia americana.

Anche il dottore Umberto Guido, procuratore generale della Repubblica, nel discorso per l'inaugurazione dello anno giudiziario 1963 ha denunciato la gravita del fenomeno mafioso nella provincia di Caltanissetta. Ciò nonostante l'azione della polizia e dei pubblici poteri è stata sinora assai tiepida se non, addirittura, tale da incoraggiare le forze della mafia.

La funzione direzionale assunta dall'organizzazione mafiosa della provincia di Caltanissetta si è espressa in modo evidente in occasione dell'aggressione contro l'On. Girolamo Li Causi, compiuta a Villalba nell'ormai lontano 1944 dallo stesso capo mafia della Sicilia, Calogero Vizzini, che con quel gesto intese ribadire il compito principale costantemente svolto dalla mafia di difesa del latifondo e della gabella parassitarla e, più in generale, di Conservazione delle vecchie strutture economico-sociali.

D’altra parte l'azione violenta della mafia ha trovato una vivace opposizione nella lotta organizzata dei contadini, dei braccianti, dei minatori e di tutta la classe lavoratrice con la guida dei sindacati e dei partiti di sinistra per la conquista della terra, per le riforme di strutture e per il conseguimento di migliori condizioni di vita nelle libertà democratiche.

Gli episodi di violenza e di sopraffazione mafiosa riferita nel presente memoriale offrono l'immagine di una mafia che, in talune zone ad economia prevalentemente agricola della nostra provincia ha conservato, in parte, i suoi caratteri tradizionali mentre in altre si è venuta adeguando ai pur modesti mutamenti determinatesi nelle strutture economiche e sociali ed ha esteso la sua attività e la sua influenza nel campo imprenditoriale, nel settore dell'industria e del commercio all'ingrosso.

Ne risulta una configurazione abbastanza complessa e variamente articolata. Si può tuttavia affermare ohe gli attuali esponenti più auto[1]revoli dell'organizzazione mafiosa appartengono alla borghesia agraria, al ceto imprenditoriale, alla categoria dei grossisti del commercio del bestiame e dei prodotti agricoli. Tutti comunque sono possessori di beni rilevanti per la conquista o l'incremento dei quali non hanno mai esitato a sovrapporre la loro legge a quella dello Stato, pur riuscendo spesso a celare le loro delittuose attività sotto una ingannevole apparenza di civile decoro.

In collegamento con costoro - talvolta in stretta dipendenza - opera una serie di personaggi minori molti dei quali sono riusciti in breve tempo ad accumulare cospicui patrimoni.

Lo scopo preminente dell'attività mafiosa è dunque quello dell'illecito arricchimento. A tal fine la mafia ha sempre adoperato come fondamentale strumento l'efficienza della propria organizzazione fondata sulla paura o l'ignoranza delle vittime, sulla debolezza e, talora sulla complicità dell'autorità pubblica e l'alleanza, o più direttamente, l'esercizio del potere politico usato ai fini di conservazione e reazione.

Ciò spiega perché la mafia ha sempre considerato come suoi irriducibili nemici i partiti e le organizzazioni sindacali che si sono battuti e continuano a lottare per la emancipazione dei lavoratori e per l'ammodernamento delle strutture economiche e sociali dell'Isola.

L’AGGUATO A LI CAUSI

La figura nella quale convergono e si fondono tutte le caratteristiche tipiche del mafioso e che si è posta in Sicilia al vertice dell'organizzazione in questo dopoguerra è quella del fittavolo e proprietario terriero Calogero Vizzini, detto Don Calò, deceduto nel 1954. E' noto che il suddetto personaggio fu il primo sindaco di Villalba per decisione degli americani e fu anche nel contempo il capo riconosciuto della mafia di Sicilia.

A lui ed ai suoi accoliti di Villalba si deve, come abbiamo riferito nella premessa, il primo clamoroso episodio di violenza mafiosa nel dopoguerra: l'attentato cruento commesso durante un comizio dell'On. Li Causi allora segretario regionale del P.C.I. in Sicilia. L'avvenimento è ormai troppo noto perché ci si debba indugiare, in questa sede, a narrarne i particolari» A noi preme qui tuttavia, rilevare alcuni elementi di questa vicenda delittuosa per ricavarne le caratteristiche essenziali che ritroveremo pressoché costanti in tutto lo svolgimento successivo dell'azione mafiosa nel centro della Sicilia.

Esse possono identificarsi come segue:

1°) azione violenta della mafia in difesa delle strutture agrarie esistenti, e aperta intimidazione rivolta ai partiti politici, alle organizzazioni sindacali ed ai lavoratori della terra che ponevano l'esigenza della concessione della terra ai contadini;

2°) debolezza - in qualche caso connivenza - dei pubblici poteri di fronte alla mafia (si consideri che la polizia non procedette ad alcun arresto degli autori dell'attentato che pure erano chiaramente individuati e che il processo, finalmente istruito, si è trascinato per ben quattordici anni di Corte in Corte tra remore ed ostacoli di ogni genere, compreso lo smarrimento degli atti processuali;

3°) notevole capacità di intrigo e forza di pressione della mafia al punto di consentire ai responsabili della strage di non scontare nemmeno un solo anno di carcere e di riuscire ad ottenere persino la grazia del Presidente della Repubblica, per intercessione di forze politiche democristiane.

Questa vittoria della mafia sulla giustizia incoraggiò, ovviamente, tutta l'organizzazione a proseguire nella sua opera delittuosa con la certezza dell'impunità favorì il proselitismo delle nuove leve e intimorì tutti coloro che confidavano ancora nella forza del diritto e dei poteri dello Stato. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA

LA RELAZIONE ANTIMAFIA DEL 1976. Miniere, gli affari degli Arnone di Serradifalco e dei Di Cristina di Riesi. ASSOCIAZIONE COSA VOSTRA su Il Domani il 07 marzo 2022

L'attività della mafia nella provincia di Caltanissetta non si è limitata al settore agricolo ma ha investito praticamente tutti i settori dell'economia della provincia. A Serradifalco, ad esempio la società Montecatini per i trasporti del minerale ha dato l’appalto dei trasporti stessi all'ex manovale muratore Vincenzo Arnone, mafioso, compare di Giuseppe Genco Russo 

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.

L'attività della mafia nella provincia di Caltanissetta non si è limitata al settore agricolo ma ha investito praticamente tutti i settori dell'economia della provincia. Vediamo alcuni aspetti indicativi.

Nel settore minerario giusta è risultata la lotta dei lavoratori che per lunghi anni si erano battuti per l'istituzione dell'azienda zolfi, per le nuove ricerche minerarie, che poi dovevano portare alla scoperta dei sali potassici, del petrolio e del metano, come grave è risultata la responsabilità di quei governi regionali, i quali, sistematicamente si opposero, spalleggiati dai monopoli privati, a tutte le iniziative prese dalle forze democratiche.

Scartata la via precedentemente prescelta per risolvere il problema minerario siciliano, la classe dirigente ripiegò, sotto la spinta del movimento popolare, su una politica di sostegno del settore zolfifero.

Tuttavia, la sua azione fu tale da lasciare intatta la posizione degli industriali parassitari, favorendo al tempo stesso le mire della Montecatini e di altri gruppi italiani e stranieri che già si apprestano alla realizzazione dei loro programmi di sfruttamento delle risorse minerarie siciliane e che erano stati nemici dichiarati delle stesse misure di sostegno.

Con la legge di riordinamento del 1959 si ha il primo serio tentativo di risanamento dell'industria zolfifera. Tale legge affidava agli industriali compiti importanti, decisivi per la salvezza e la prospettiva stessa dell'industria.

Ma gli industriali zolfiferi dimostrarono ancora una volta la loro vera vocazione ed invece di utilizzare quella legge per portare avanti le opere di ammodernamento delle miniere, si diedero alla ricerca di tutti i mezzi leciti e illeciti per prelevare fondi dalla Regione pur continuando la politica parassitarla di sempre.

[…] Le denunce presentate dai lavoratori contro le inadempienze ai piani di riorganizzazione, la lotta operaia nelle miniere e la presentazione del disegno di legge del gruppo comunista all'Assemblea regionale per la nomina dei commissari, hanno sottolineato la presa di posizione del movimento dei lavoratori contro gli industriali e contro il governo.

[…] La vivace e forte azione dei sindacati operai, la presenza di notevoli nuclei di lavoratori politicamente avanzati hanno attenuato di molto il fenomeno mafioso (prima massiccio) nelle miniere. Ciò non vuoi dire che esso sia scomparso del tutto.

A SERRADIFALCO GLI ARNONE

Miniera Bosco-Stincone – Serradifalco S. Cataldo. È gestita dalla società Montecatini anche uno dei più gran di complessi monopolistici italiani è stato costretto a soggiacere alle imposizioni della mafia. La società Montecatini per i trasporti del minerale (sali potassici) dalla miniera allo stabilimento chimico di Campofranco, di proprietà della stessa Montecatini, ha effettuato una gara di appalto dei trasporti stessi.

Concorrenti allo appalto sono stati: l'ex manovale muratore Arnone Vincenzo, mafioso, compare di Giuseppe Genco Russo e il sig. Poidomani Vincenzo di Mazzarino, II mafioso Arnone ha chiesto come compenso per il trasporto lire una e venti al chilogrammo, il sig. Poidomani chiedeva lire zero e ottanta. Ebbene, la Montecatini, contrariamente ai suoi interessi, ha concesso l'appalto del servizio all'Arnone.

Nel periodo in cui tale appalto è stato concesso, impiegato responsabile di questo settore nella miniera era Angelo Vinciguerra (fratello di Pietro) ora presidente della Associazioni Industriali di Caitanissetta. L'Arnone tuttora gestisce i trasporti per conto del la Montecatini anche se tale attività si è ridotta in seguito all'impianto di una teleferica che dalla miniera porta il minerale direttamente agli stabilimenti di Campofranco. Nella stessa miniera operano, sempre nel campo dei trasporti, altri mafiosi quali Corbino Salvatore e i fratelli Anzalone di S. Cataldo.

Miniera Trabonella (Caltanissetta). I trasporti dello zolfo sono gestiti dai noti mafiosi Racalmuto Francesco di Bolognetta che opera insieme a Pietro Anzalone e a Felice Angilello di Caltanissetta, e Mazzarisi Salvatore di Villalba che, a suo tempo, era al servizio di Calogero Vizzini.

II Mazzarisi si era trasferito a Caltanissetta per assumere l'affitto del feudo Trabonella (oggi gestito da Felice Angilello) ma ha spostato poi la sua attività dalla campagna al trasporto merci associandosi a certo Ardoselli Domenico di Misilmeri il quale funge da prestanome a tale Di Peri, nipote del noto capo mafia di Misilmeri Bolognetta. È da precisare che la maggior parte dei trasporti è effettuata per conto dell’E.Z.I. in quanto detto ente compra i concentrati di zolfo posto miniera.

A RIESI I DI CRISTINA