Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

NONA PARTE

 

  

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il Mistero dei coniugi Aversa.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

 L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

 

LA GIUSTIZIA

NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Mistero di piazza della Loggia.

Strage Piazza Loggia, processo di revisione per Tramonte: per la sorella e l’ex moglie «quello in foto non è lui». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022.

In corso l’udienza in tribunale. Al centro del dibattito la figura di Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo, che oggi tornerà in aula: le discordanze sulla fotografia d’epoca al centro degli interrogatori

«In questa foto non è lui, anche il naso è diverso». Lo ha detto Manuela Tramonte, sorella di Maurizio Tramonte, nell’udienza davanti alla corte d’appello di Brescia per la revisione del processo per la strage di piazza della Loggia. «In quel periodo era più cicciotto e aveva i capelli molto corti», ha detto la sorella maggiore dell’uomo, condannato all’ergastolo per l’esplosione che il 28 maggio 1974 uccise 8 persone e ne ferì altre 102. La tesi è stata avallata anche da Patrizia Foletto, moglie di Tramonte all’epoca dei fatti, che ha spiegato di non aver mai evidenziato la differenza tra le fotografie perché non aveva capito potesse essere utile alle indagini.

Il 70enne Maurizio Tramonte torna oggi in aula, collegato dal carcere, dopo che la seconda sezione penale della corte d’Appello ha accettato la richiesta di revisione, presentata dagli avvocati Baldassare Lauria e Pardo Cellini. L’uomo è stato condannato in via definitiva all’ergastolo per aver partecipato ad una riunione in cui venne pianificata l’esplosione. I legali dell’ex `Fonte Tritone´ del Sid hanno presentato una nuova perizia antropometrica realizzata con un software americano su una fotografia scattata poco dopo lo scoppio e in cui, tra le persone ritratte, ci sarebbe anche Maurizio Tramonte

Terzo livello. La nuova inchiesta sulla strage neofascista di Brescia porta lì dove nessuno poteva immaginare. Il comando Nato di Verona. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) e Massimo Pisa. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual, su La Repubblica il 27 gennaio 2022.

Quando l'hanno battuta le agenzie, poco prima di Natale, la notizia ha faticato a conquistarsi una breve. Due chiusure indagini per la strage di piazza della Loggia e due nuovi e semisconosciuti estremisti di destra accusati di aver messo la bomba che dilaniò Brescia alla fine del maggio di 48 anni fa, uccise otto persone, ne ferì un centinaio, inaugurò l'ennesima stagione dello stragismo di mano neonazista con la complicità di pezzi dello Stato.

La strage «più politica»: piazza della Loggia a Brescia.  Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.

La bomba del 28 maggio 1974, , chiude la strategia della tensione cinque anni dopo piazza Fontana, uccide otto persone. Tra loro c’è Livia i, insegnante 32enne, moglie dell’impiegato e sindacalista Manlio Milani, che in quella piazza, a differenza di lei, si salverà. E che da quasi 50 anni porta avanti - con molti altri - la memoria di quella strage.

È sua la voce che apre (e guida) la terza puntata di , la serie podcast scritta da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, disponibile per gli abbonati a Corriere.it (oppure su Audible), che ripercorre i grandi eventi criminali – ma non solo criminali – che hanno cambiato il corso della storia repubblicana e che ancora presentano molti lati oscuri.

(Qui sotto il teaser dell'episodio, qui la puntata integrale)

La bomba di piazza della Loggia in qualche modo chiude la strategia della tensione, cinque anni dopo piazza Fontana, seguita due mesi dopo dalla strage dell’Italicus e anticipata, un anno prima, da quella alla Questura di Milano. È la strage più «politica»: non colpisce a caso chi passa in una banca o viaggia su un treno, ma gli aderenti a una manifestazione antifascista convocata dai sindacati. Una strage su cui sono rimasti insoluti diversi misteri laterali: come l’omicidio di Ermanno Buzzi, neonazista condannato in primo grado all’ergastolo per la bomba a Brescia (ma quel processo si rivelò un depistaggio), trasferito nel carcere di Novara e qui ucciso dai neofascisti Concutelli e Tuti nel 1981, alla vigilia del processo di appello, in cui avrebbe forse fatto rivelazioni...

Strage di Piazza Loggia, Toffaloni: «Anche a Brescia gh’ero mi. Son sta mi». Mara Rodella su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

Le ammissioni di Toffaloni ritenuto allievo di Besutti (fu indagato). La pista atlantica della bomba: le riunioni pure alla Nato di Verona. Zorzi e quei «vuoti investigativi».  

Uno aveva 16 anni (ancora per pochi giorni). E la mattina del 28 maggio 1974, stando al «Registro assenze generali» del Liceo Girolamo Fracastoro di Verona, era «presente a scuola». Impossibile documentare quando e per quanto, però. Il secondo, invece, 20enne, «dalle 7.45 alle 10.45», secondo le dichiarazioni rese dalla figlia, nell’agosto di quell’anno, se ne stava «al bar della stazione delle filovie di Porta San Giorgio». Il primo si chiama Marco Toffaloni e vive in Svizzera con una nuova identità: Franco Maria Muller. Per il procuratore aggiunto Silvio Bonfigli e il sostituto Caty Bressanelli, in concorso con Maurizio Tramonte e Carlo Maria Maggi (condannati all’ergastolo in via definitiva), «allo scopo di attentare la sicurezza interna dello Stato, appartenendo all’organizzazione eversiva Ordine Nuovo, che aveva promosso l’attentato nell’ambito della pianificazione di una serie di azioni terroristiche, agendo quale autore materiale», in piazza Loggia, ha «concorso nel collocamento dell’ordigno esplosivo» nel cestino. C’è una foto, a immortalarlo sul posto, e una antropometrica a confermarne la compatibilità. Il secondo è Roberto Zorzi e nello stato di Washington alleva dobermann nel suo allevamento, «Il littorio»: per gli inquirenti avrebbe «partecipato alle riunioni in cui l’attentato veniva ideato, manifestando la sua disponibilità e rafforzando il proposito di Toffaloni in particolare». Agli atti, cinque faldoni, quasi trecento mila pagine, centinaia di verbali, intercettazioni, informative e documentazione d’archivio.

Per incastrare i riscontri a carico dei due presunti esecutori della strage, ma anche (ri)chiamare nomi noti o ricostruire il presunto ruolo di Silvio Ferrari, all’epoca. Toffaloni e Zorzi: legati dall’eversione nera e da un super teste che ne ha confermato le ideologie e i movimenti. E le presunte coperture. Perché le riunioni stragiste sarebbero state organizzate anche nella caserma dei carabinieri di Parona Valpolicella, nell’ex sede del centro di controspionaggio, a Verona, e addirittura a Palazzo Carli, sede del comando Fatse. La Nato. Anche Silvio Ferrari, stando alle rivelazioni del super testimone, vi avrebbe preso parte, «accolto» da alti ufficiali.

Che Toffaloni («cauto e accorto nell’operare nel mondo oscuro dell’eversione») quindi la bassa manovalanza, giovanissima, degli ordinovisti veronesi, abbia avuto un ruolo nella strage bresciana lo avrebbe detto lui stesso al pentito Giampaolo Stimamiglio a inizio anni novanta: «Anche a Brescia gh’ero mi. Son sta mi». L’ordigno glielo avrebbe consegnato il suo «maestro» Roberto Besutti: origini mantovane e militanza veneta, anche lui nell’ottobre 2011 viene indagato dalla procura. Morirà nel maggio 2012.

«Sono 14 anni che non ho più contatti con gente vicina a Ordine Nuovo», disse Toffaloni nel 1989 al giudice istruttore di Bologna che lo sentì in relazione alle indagini sulle Ronde Pirogene. Quindici anni prima, invece, aveva negato ogni contatto con il movimento. Sarebbe passato poi nel gruppo «Anno Zero» salvo poi militare nei «Guerriglieri di Cristo Re». Lo chiamavano «Tomaten» perché arrossiva spesso — sembrava tenero ma era un duro, nella credenza di casa la zia, da cui si era trasferito, trovò una rivoltella. Il quadro probatorio, per gli inquirenti, ne restituisce «la personalità fuori dal comune e contestualizza la sua presenza all’interno di una consorteria capace di operare anche a Brescia con violenza e determinazione».

Frequentava il poligono di Verona, lo stesso in cui era iscritto anche Carlo Digilio (armiere degli ordinovisti, avrebbe messo in sicurezza l’esplosivo destinato a Brescia) ed era grande amico di Roberto Zorzi, il «marcantonio» dalla corporatura robusta figlio di un marmista, colui che stando ai camerata dell’epoca, «guidava il gruppo». E che era in città quando, il 21 maggio 1974, furono celebrati i funerali di Silvio Ferrari, saltato in aria con la sua Vespa in piazza del Marcato: fece recapitare una corona di fiori con l’ascia bipenne e il nastro di raso, firmata «I camerati di Anno Zero». Proprio tra il 28 e il 29 maggio 1974 Zorzi — «un tipo particolare, che mescolava la politica alla religione» e «diceva di vedere la Madonna», «viene condotto dai carabinieri in caserma a Verona, perchè sospettato di essere stato tra gli autori della strage di piazza Loggia». Ma mai viene perquisito o le sue presunte menzogne sugli occupanti veronesi della Fiat 600 con cui venne al cordoglio per Ferrari confutate: gli accertamenti troppo «scarni», nei suoi confronti, superficiali. Anche la figlia del bar della stazione delle filovie, risentita dagli inquirenti nel 2015, ha ammesso: «Mai visto una foto, di lui non ricordo assolutamente», quella mattina del 28 maggio.

·        Il Mistero di piazza Fontana.

L’anniversario della strage, Piazza Fontana la strana inchiesta da Mister X a Valpreda. Massimo Pisa La Repubblica il 12 Dicembre 2022.

La tesi del colonnello Giraudo, liquidata a Milano, ha trovato ascolto a Brescia in un fascicolo su piazza della Loggia. Ma senza riscontri

La storia giudiziaria di piazza Fontana si è chiusa nove anni fa. Ma un’inchiesta parallela e ufficiosa è andata avanti almeno fino al 2020 e Repubblica è in grado di documentarla. Ha avuto come motore il colonnello del Ros Massimo Giraudo, e come regia la procura di Brescia. Ha mischiato anarchici e fascisti, Valpreda e “Mister X”, Merlino e un elettrauto, il “Paracadutista” e “l’Antiquario”, fino a un magistrato in pensione. Sta nelle carte dell’ultima indagine sulla bomba di piazza della Loggia del 1974, conclusa con la richiesta di rinvio a giudizio per Marco Toffaloni e Roberto Zorzi.

Il 12 dicembre 1969, alle 16.37, la storia d'Italia precipita nel suo pozzo nero: è l'ora della strage di piazza Fontana, della bomba che uccide 17 persone e apre quella che poi verrà definita la strategia della tensione. Nelle foto d'archivio ripercorriamo a cinquant'anni da quel giorno quanto avvenne in quei giorni: dai primi sopralluoghi dopo la bomba, con l'atrio della Banca nazionale dell'agricoltura trasformata in uno scenario di guerra, ai funerali di Stato in Duomo, con migliaia di milanesi in una piazza fredda e coperta di nebbia, e le istituzioni in chiesa, fino ai funerali dell'anarchico Giuseppe, Pino, Pinelli, considerato la 18esima vittima di piazza Fontana.

Origine e bocciatura

L’antefatto è del 15 luglio 2009: la comunicazione di notizia di reato informativa in 22 pagine che Giraudo, dopo aver letto il controverso libro di Paolo Cucchiarelli (Il segreto di piazza Fontana, quello della tesi della “doppia bomba”) inviò al pm milanese Massimo Meroni. Prospettava l’ipotesi che l’anarchico Pietro Valpreda — il primo “mostro” della vicenda, incastrato dalle questure di Roma e Milano e assolto solo nel 1987 — avesse davvero messo una bomba a basso potenziale nella banca (poi “raddoppiata” dai neonazisti), e che l’esplosivo di piazza Fontana fosse lo stesso utilizzato poi a Brescia, come testimoniato da un anonimo “Mister X” a Cucchiarelli. La risposta del procuratore aggiunto Armando Spataro fu durissima, inibiva il colonnello a proseguire senza deleghe ma il fascicolo, su istanza dei parenti delle vittime, fu comunque aperto. Si riempì di vaghe testimonianze degli ex ordinovisti Giampaolo Stimamiglio e Gianni Casalini, delle allusioni del “barone nero” Tomaso Staiti di Cuddia a un abbaino nei pressi della Scala (presunta base degli artificieri della strage), e dei deliri del mitomane Alfredo Virgillito. Cucchiarelli, convocato dai magistrati, si rifiutò di rivelare “Mister X” e finì indagato. La richiesta di archiviazione, firmata il 24 aprile 2012 da Spataro e dal pm Grazia Pradella, bocciò senza appello i nuovi spunti e l’ufficiale del Ros che li aveva proposti. Giraudo, però, continuò a godere della fiducia dei pm bresciani e proseguì nelle indagini su piazza della Loggia.

Da Verona a Valpreda

Interrogando l’ex ordinovista veronese Claudio Lodi, il 13 dicembre 2012, il colonnello riprese il filo. Lodi avvalorava un presunto (e mai riscontrato dai fatti) passato ordinovista di Pietro Valpreda, un suo ruolo da finto anarchico e da operativo nella trama stragista. Ombre che si riallacciavano a una vecchia traccia: nel 1971 la testimone Adriana Zanardi gettò sospetti sull’ex fidanzato dell’epoca, il parà nero (e figlio di direttore di banca) Claudio Bizzari, privo di alibi il 12 dicembre 1969 e allusivo sulle responsabilità di Valpreda. A Bizzari come esecutore materiale di piazza Fontana aveva pure accennato il pentito Carlo Digilio nel 1994.

La conclusione di Giraudo finì in due informative dell’8 gennaio e 8 aprile 2013: recuperavano alcune teorie formulate dall’ergastolano Vincenzo Vinciguerra e saldavano Valpreda al filo delle trame nere, insieme al paracadutista Bizzari e agli ordinovisti duri e puri veronesi. Il materiale venne trasmesso da Brescia a Milano, stavolta senza risposta. Così come le ricostruzioni che attribuivano un ruolo da tecnico degli ordigni di piazza Fontana a Ugo Cavicchioni, chiacchierato elettrauto di Rovigo in contatto con Franco Freda (il suo nome compariva nelle agende del legale padovano). Fecero il percorso inverso, in direzione di Brescia, i colloqui tra il giudice Guido Salvini e il detenuto Cristiano Rosati Piancastelli, ex sanbabilino, antiquario, nipote di un collaboratore di Tom Ponzi. Spiegò che in piazza Fontana c’erano telecamere nascoste, piazzate dal superdetective privato, a riprendere tutto. Le bobine andavano cercate in chissà quale baule. Il 30 settembre 2013 il decreto di archiviazione firmato dal gip Fabrizio D’Arcangelo, e il suo giudizio sulla “radicale infondatezza della notizia criminis”, mise un freno a spunti e illazioni.

Ripresa e “Mister X”, finalmente

Alla fine del 2018, il colonnello Giraudo tornò a cercare la gola profonda delle due stragi. Tra colloqui e analisi di tabulati telefonici, la trovò: Giancarlo Cartocci, ex ordinovista romano diventato addetto stampa in Parlamento con Pino Rauti, e già lambito tra il ’69 e il ’72 dai sospetti di aver partecipato gli attentati romani (quelli senza vittime) del 12 dicembre. Cartocci — ormai vecchio e malato — venne intercettato e interrogato otto volte. Qualcosa ammise, molto negò, soprattutto le sue conoscenze sugli esplosivi e gli autori delle stragi, su doppie bombe e partecipazione degli anarchici. Né aggiunse dettagli l’interrogatorio del 6 giugno 2019 a Mario Merlino, amico di Cartocci, l’infiltrato nero nel circolo anarchico di Pietro Valpreda, anch’egli uscito indenne dai processi. Ma l’escursione bresciana sui misteri della Banca dell’Agricoltura non finì lì.

L’ultimo filone seguito dal colonnello Giraudo ha preso spunto da La maledizione di piazza Fontana, il memoir del giudice Guido Salvini. Dopo la morte del “Paracadutista” Bizzari, indicato come il depositore della borsa omicida, l’ufficiale interrogò (era il 19 dicembre 2019) la vedova Manuela Olivieri, che però nulla sapeva. La maratona investigativa è terminata (per il momento) il 27 febbraio 2020 a Vicenza davanti all’ex magistrato Giovanni Biondo. Che negli anni Settanta fuggì in Spagna per evitare di essere processato come complice di Freda e Ventura. Salvini aveva raccontato di un colloquio particolarmente imbarazzante per l’ex collega, sull’orlo della confessione di cose indicibili. A verbale, però Biondo non confermò nulla. Nemmeno un briciolo di mistero.

Depistaggi e complicità: la strage di piazza Fontana. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

La seconda puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta «la madre di tutte le stragi», che diede vita alla strategia della tensione.  

Milano, venerdì 12 dicembre 1969. Sotto il grande tavolo nel salone Banca Nazionale dell’agricoltura, in piazza Fontana, esplode una bomba che uccide 17 persone, seguita da una scia di cadaveri e omicidi lunga molti anni, dalla morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli al delitto del commissario Luigi Calabresi. La madre di tutte le stragi, quella che fa esplodere la strategia della tensione, è il tema della seconda puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica» , la serie podcast scritta da Giovanni Bianconi con Alessandra Coppola, disponibile per gli abbonati a Corriere.it (oppure su Audible), che ripercorre i grandi eventi criminali – ma non solo criminali – che hanno cambiato il corso della storia repubblicana e che ancora presentano molti lati oscuri.

La serie podcast «Nebbia» (qui la presentazione firmata da Roberto Saviano) racconta storie di giustizia negata, soprattutto a causa di depistaggi che hanno deviato le indagini e coperto responsabilità. Dieci episodi per dieci tappe fondamentali che si snodano tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Novanta, narrati attraverso le testimonianze dirette dei protagonisti – a partire dai familiari delle vittime –, dettagli «minori» che svelano trame più grandi, intrecci fra vicende apparentemente slegate che aiutano a ricostruire il contesto in cui tutto è accaduto.

·        Il Mistero della Strage di Ustica.

Ustica non è un film: la verità è nelle carte desecretate da Draghi. Inviati all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica. Carlo Giovanardi su Il Dubbio il 16 ottobre 2022.

Scusandomi del ritardo posso soltanto oggi rispondere all’articolo di Valter Vecellio sul Dubbio del 28 luglio 2016 intitolato “Strage di Ustica, Giovanardi se ha le carte decisive le tiri fuori”.

Vecellio faceva riferimento alle carte depositate presso i Servizi Segreti, su cui il governo Renzi aveva tolto il segreto di Stato ma di nuovo classificate come Segrete e Segretissime , visionabili pertanto soltanto da magistrati o membri di Commissioni parlamentari di inchiesta, come era il sottoscritto allora facente parte della Commissione di inchiesta sulla morte di Aldo Moro.

In tale veste, assieme a colleghi che avevano fatto formale richiesta, ho potuto nel 2016 leggerle e annotarle, con la diffida a renderle pubbliche, reato perseguibile sino a tre anni di carcere in base al combinato disposto della legge 124 del 2007 e dell’ art 326 del Codice penale.

Le carte da me annotate riguardano il carteggio tra il governo italiano ed il nostro capocentro del Sismi a Beirut Col. Stefano Giovannone, dopo il sequestro a Ortona a fine 1979 di missili terra aria per cui erano stati arrestati e condannati gli Autonomi di Daniele Pifano e il referente dell’Olp in Italia Abu Saleh, residente a Bologna.

In tutti questi anni, unitamente alle signore Flavia Bartolucci e Giuliana Cavazza, rispettivamente figlie del generale Lamberto Bartolucci e della signora Anna Paola Pelliccioni, che perse la vita nella esplosione del DC 9 Itavia, presidenti della Associazione per la verità su Ustica, abbiamo ripetutamente chiesto la desecretazione di quegli atti, ricevendo sempre un deciso rifiuto.

Addirittura nel giugno del 2020 sono stato pubblicamente convocato a Palazzo Chigi per sentirmi di nuovo ripetere dal governo Conte che per tutelare l’interesse nazionale quelle carte dovevano rimanere segrete, cosa che venne notificata anche formalmente alla signora Cavazza che aveva chiesto l’ accesso agli atti.

Viceversa finalmente il governo Draghi, anche su nostra sollecitazione, ha desecretato e inviato all’Archivio di Stato centinaia di documenti, trentadue dei quali sono stati significativamente raggruppati sotto la dizione Ustica.

Per comprendere l’importanza di questi documenti riporto quanto da me annotato nel 2016, nella parte coincidente con i documenti desecretati (altri non risultano ancora depositati :

16 novembre 1979: si afferma che Arafat ha compreso che l’episodio di Ortona costituisce la prova, sino ad allora mancante, della collusione tra palestinesi e terrorismo internazionale, che potrebbe coinvolgerli in responsabilità per operazioni più efferate degli anni precedenti, tra cui la stessa vicenda Moro;

12 maggio 1980: si fa presente che il 18 sarebbe scaduto l’ultimatum quale termine ultimo per la risposta da parte delle Autorità italiane alla richiesta del Fronte di scarcerare Saleh, notando che in caso di risposta negativa la maggioranza della dirigenza e la base del Fronte di Liberazione Popolare della Palestina intende riprendere, dopo 7 anni, la propria libertà di azione nei confronti dell’Italia e dei suoi interessi con operazioni che potrebbero anche colpire innocenti. L’interlocutore ha lasciato capire che il ricorso alla azione violenta sarebbe la conseguenza di istigazione della Libia, diventata il principale sponsor dell’Fplp, ha affermato che nessuna azione avrà luogo prima della fine di maggio e probabilmente senza che vadano date specifiche comunicazioni;

27 giugno 1980 : il 27 giugno alle ore 10 (quella sera esplode il DC 9 Itavia sui cieli di Ustica ndr ) Beirut riferisce che “l’Fplp avrebbe deciso di riprendere piena libertà di azione senza dare corso a ulteriori contatti a seguito del mancato accoglimento del sollecito del nuovo spostamento del processo. Se il processo dovesse aver luogo e concludersi in senso sfavorevole mi attendo reazioni particolarmente gravi in quanto l’Fplp ritiene di essere stato ingannato e non garantisco sicurezza Ambasciata Beirut”.

La frase “dopo 7 anni” si riferisce chiaramente all’ accordo stipulato con i palestinesi per una moratoria sugli attentati in Italia dopo quello all’Aeroporto di Fiumicino del 1973 che causò ben 32 morti e 15 feriti.

L’esistenza del quale accordo  il cosiddetto lodo Moro) è stato ribadito nel giugno 2017 nella commissione d’indagine parlamentare su Moro da Bassam Abu Sharif, ex braccio destro di George Habash, a quei tempi segretario generale dell’Fplp, che ha riferito di aver personalmente assistito alla sua definizione tra Habash e il governo italiano.

Ricordo inoltre a Vecellio che i generali dell’ Aeronautica accusati di tradimento per Ustica sono stati assolti tutti con formula piena, dopo aver rinunciato alla prescrizione, e che la sentenza definitiva bolla come ipotesi da fantascienza o film giallo quella dei fantomatici missili e battaglia aerea.

Di più: la perizia depositata nel processo penale, firmata da 11 dei più famosi periti aeronautici ( due inglesi, due svedesi, due tedeschi e cinque italiani ) indica senza alcun dubbio nell’esplosione di una bomba nella toilette di bordo la causa dell’abbattimento del DC9 Itavia.

Nel mese di agosto 2022 l’Associazione sulla verità su Ustica ha comunque presentato una istanza alla magistratura chiedendo il sequestro probatorio del DC 9, nel 2006 consegnato in custodia giudiziaria al comune di Bologna che l’ha rimontato per una esposizione museale, per consentire una nuova superperizia.

L’istanza è stata rigettata dal Gip di Roma con la motivazione che le perizie e le consulenze esperite al massimo livello nel processo penale da specialisti italiani e stranieri sono state ritenute esaustive, confermando così implicitamente le conclusioni della sopracitata Commissione Misiti sulla esplosione di una bomba a bordo.

In questo quadro ancora più sconcertanti sono le motivazioni con le quali il Gip di Bologna dottor Bruno Giangiacomo il 9 febbraio 2015 ha archiviato il procedimento penale a carico di Thomas Kram, il terrorista tedesco collegato a Carlos di cui è stata accertata giudizialmente la presenza a Bologna l’ 1 e 2 agosto 1980.

Scrive Giangiacomo: “Sul lodo Moro si rinvia alla richiesta di archiviazione che correttamente pone in evidenza che la sua stipulazione non è stata accertata né sono state accertate precise occasione di concreta tolleranza, da parte dello Stato italiano, del porto illegale di armi ed esplosivi da parte di agenti delle organizzazioni palestinesi.

Non è tuttavia, neppure possibile escludere che funzionari dei servizi di sicurezza o esponenti di fazioni politiche dello Stato italiano possano aver operato, riservatamente e volta per volta, per assicurare la impunità agli agenti palestinesi e per il trasporto di armi ed esplosivi sul territorio italiano, qualora destinati contro obiettivi esteri, in cambio della neutralizzazione del territorio e degli interessi italiani dalle operazioni terroristiche; ma anche se queste attività fossero state consentite ed effettuate, esse non sarebbero state comunque eseguite in attuazione di un previgente accordo e sarebbero state comunque illegali, per quanto rivolte alla sicurezza del territorio e dei cittadini italiani”.

Per inciso ricordo che il giudice istruttore Aldo Gentile, che indagava sulla strage del 2 agosto, incontrò ripetutamente Abu Saleh, dopo che nell’agosto del 1981 era stato scarcerato per decorrenza dei termini della custodia cautelare, e addirittura lo autorizzò a recarsi in settembre per una settimana a Roma.

Siamo poi a pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell’assalto terroristico alla Sinagoga di Roma e la Comunità Ebraica ha giustamente chiesto la verità sul perché ai quattro terroristi palestinesi venne lasciata libertà d’azione (e di fuga) malgrado i servizi avessero segnalato il pericolo di attentati, e di nuovo si è parlato apertamente di applicazione del Lodo Moro.

Il vero problema allora, caro Vecellio, è capire perché davanti a questa lunga scia di sangue la Ragion di Stato, in nome dell’ “interesse nazionale”, abbia coperto con il Segreto di Stato prima e con la classifica Segreto e Segretissimo poi documenti fondamentali per scoprire gli autori di questi efferati crimini.

Sarebbe ora che magistrati, storici e giornalisti di fronte a tale sterminata documentazione e non negando più l’evidenza, smettessero, in particolare su Ustica, di dar credito a film, sceneggiati, documentari, canzoni, ballate e baracconate varie sulle 32 versioni della fantomatica e inesistente battaglia aerea e si applicassero nella ricerca della verità e dei responsabili di quella strage.

Sono passati 42 anni ma forse siamo ancora in tempo.

Cade il Dc-9 Itavia il dramma di Ustica. In prima pagina quel 28 giugno del 1980. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il il 28 Giugno 2022.

La notizia è arrivata in redazione molto tardi, ma in tempo per essere pubblicata in prima pagina su La Gazzetta del Mezzogiorno del 28 giugno 1980.

«Caduto in mare un aereo per Palermo con 81 persone a bordo»: è l’annuncio dell’ennesima strage che avviene in un Paese già martoriato dalla bomba di Piazza Fontana a Milano, dall’eccidio di piazza della Loggia a Brescia e da una lunga serie di fatti di sangue che purtroppo non si interromperà in quel 1980.

Un Dc-9 della Compagnia aerea Itavia non dà più notizie dalle 20.45: è praticamente certo che sia caduto in mare. «Il Dc-9 IH 870 serie 10, partito da Bologna alle 20.02, doveva arrivare a Palermo alle 21.45. L’ultimo contatto radio si è avuto sulla verticale dell’isola di Ponza alle 20.55; il radar l’ha seguito per altre 30 miglia poi l’immagine è scomparsa», si scrive sulla Gazzetta.

Il volo Bologna-Palermo era programmato alcune ore prima ma a causa di ritardi accumulati dall’aereo prima di arrivare all’aeroporto «Guglielmo Marconi» di Bologna, il decollo è avvenuto solo alle 20.02. «Le operazioni di imbarco sono state regolari e il velivolo, proprio a causa del ritardo, ha potuto evitare i temporali che sul Bolognese si sono abbattuti nel tardo pomeriggio».

Le ricerche del DC-9 sono coordinate dal centro di soccorso aereo di Martina Franca dell’Aeronautica Militare: «Sono impegnati elicotteri abilitati al volo notturno e battelli della Marina militare, la nave “Carducci”, i traghetti “Clodia” e “Nomentana”, un rimorchiatore e una motovedetta. In tutta la zona in cui si svolgono le ricerche dell’aereo disperso le condizioni del mare sono cattive (forza 5) e c’è un forte vento da nord-ovest che ostacola in particolare il compito degli elicotteri. Le ricerche si sono concentrate in un’area a 10 miglia a nord di Ustica», conclude il cronista. In piena notte appare l’ultimo aggiornamento: «Secondo notizie apprese all’ 1,40… la nave “Clodia” avrebbe avvistato due razzi di segnalazione e si starebbe dirigendo verso l’indicazione ricevuta, nel tratto di mare tre le isole di Ustica e Ponza».

Quello stesso 28 giugno 1980 ci sarà il drammatico ritrovamento dei resti dell’aereo. La notizia sarà ufficiale: nessun superstite. Su 81 morti solo 38 salme saranno recuperate: 77 passeggeri, tra cui 14 bambini, e 4 membri dell’equipaggio. All’indomani della strage, sorgono i primi sospetti. Ecco le prime ipotesi: «un sabotaggio, un missile, uno scontro con un aereo Nato». Dopo 42 anni, i parenti delle vittime e il Paese intero aspettano ancora la completa verità su quella notte.

Il "Funerale dopo Ustica" non è ancora terminato. Luca Crovi l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un'edizione accresciuta del libro del 1989 dedicato a uno dei tanti misteri italiani.

Funerale dopo Ustica è una spy-story singolare che Loriano Macchiavelli pubblicò per la prima volta nel maggio del 1989 da Rizzoli, firmandola con lo pseudonimo di Jules Quicher. Lo scrittore emiliano all'epoca aveva già scritto molti romanzi, ottenendo il meritato successo grazie all'originale serie noir di Sarti Antonio con cui aveva raccontato luci e ombre di Bologna, e decise di progettare una trilogia più complessa che sarebbe stata dedicata ai segreti italiani.

Una sequenza di romanzi che sarebbe poi stata completata dai successivi Strage e Noi che gridammo al vento (dedicati rispettivamente alla strage di Bologna e a quella di Portella della Ginestra). Funerale dopo Ustica fu il primo progetto di quel genere a essere proposto al pubblico ed ebbe un buon successo, anche perché funzionò l'idea di aver ideato uno pseudonimo particolare per lanciarlo. Macchiavelli si celò infatti dietro il misterioso Jules Quicher che appariva in copertina e per il quale inventò una singolare biografia: «esperto di problemi della sicurezza al servizio di una famosa multinazionale svizzera. Ha lavorato per circa vent'anni in tutto il mondo (anche in Italia per circa quattro anni, in periodi diversi). Questo è il suo primo romanzo; lo firma con pseudonimo perché desidera vivere in pace, non per maniacale culto della riservatezza. Cinquantenne, sposato con tre figli (due femmine e un maschio che frequenta i corsi di una celebre accademia militare europea), vive in una villa su un lago della Svizzera. Di madre italiana e di padre svizzero-francese, Jules Quicher parla e scrive alla perfezione in italiano e francese (sue lingue madri), e in inglese, tedesco e spagnolo». Oggi nel ridare alle stampe Funerale dopo Ustica (Sem Edizioni, pagg. 528, euro 20) l'autore non solo si riappropria del suo vero nome, ma propone una versione aggiornata e ampliata del libro che lo rende attualissimo, anche per i lettori contemporanei abituati al ritmo serrato dei thriller e alle atmosfere cupe di certi noir storici. Come racconta lo stesso Macchiavelli, «ho aggiunto capitoli e brani che tengono conto di alcuni dei troppi segreti relativi al DC 9 abbattuto sul mare di Ustica. Sono i pochi segreti emersi nelle successive indagini su quella drammatica strage, che purtroppo non hanno ancora portato alla completa verità. Com'è ormai consuetudine nel nostro paese. Ho aggiornato il testo per farlo aderire a una realtà più vera, se pure sempre fantastica, come deve essere per un romanzo. Sono convinto che questa versione abbia oggi una suggestione evocativa molto più forte che nel 1989. Oggi che possiamo vedere gli avvenimenti, distanti da noi nel tempo, con uno sguardo più pacato e con un dolore sempre acuto ma meno condizionato dalla tragedia che avvenne sul mare di Ustica in quel fatale 27 giugno del 1980, e proprio per questo più profondo e più critico».

Il lavoro di editing di questa versione del libro fu fatto per un po' di tempo con la collaborazione di Severino Cesari, all'epoca direttore editoriale di Einaudi, che voleva fortemente ristampare Funerale dopo Ustica (un desiderio che purtroppo con la sua scomparsa non si è concretizzato). Leggere oggi quel romanzo di Macchiavelli significa sentire «il racconto di una verità che fa paura» attraverso le pagine di una spy story scritta in maniera impeccabile che fa riflettere sul passato, ma anche sul presente della nostra Italia. Un'opera di fantasia che tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito la tragedia accaduta a Ustica. E dietro ai nomi di personaggi che sembrano immaginari, come l'ammiraglio Dikte dei servizi segreti della difesa, la doppia moglie dell'Onorevole Bellamia, l'onorevole Furoni o il pilota libico Adin Al Fadal o il meccanico aereo Ferdinando o l'agente dei servizi segreti spagnoli Hilario, i lettori possono immaginare quali fossero gli eventuali personaggi reali. Possono anche ipotizzare chi facesse parte del fantomatico Nucleo Sette e quali fossero i suoi scopi, possono entrare nei laboratori segreti gestiti dal Dottor Miland e possono indagare anche sul misterioso Victorhugo e sulle sue motivazioni. Realtà e fantasia si compenetrano in una storia che pone più di una questione e che Macchiavelli firma con serietà e divertimento.

Un'inchiesta in cui nessuna pedina è messa a caso sullo scacchiere e dove ognuno dei personaggi potrebbe cambiare il suo ruolo da un momento all'altro, per necessità o per opportunità. Esemplare per esempio la costruzione della biografia dell'onorevole Furoni che così ci viene presentato: «ex comandante partigiano, ex aderente al Partito d'azione, ex attivista del Partito comunista italiano, ex terrorista altoatesino e infine deputato al Parlamento italiano per conto di un partito dell'arco costituzionale e difensore delle riforme sociali e politiche». Nessuno degli eventi che ci viene raccontato da Macchiavelli è casuale. Non si può parlare di destino crudele davanti a certe tragedie per le quali ci sono precise responsabilità. E la fantasia, ha ragione lui, può essere davvero testimone della realtà solo «se tiene d'occhio la Storia che ha preceduto e seguito le tragedie, numerose, che ci hanno accompagnato negli ultimi settant'anni».

Il mistero dell'aereo abbattuto: la strage di Ustica. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 28 Febbraio 2022.  

Il settimo episodio della serie audio sulle verità nascoste della Repubblica racconta, con le voci dei protagonisti, un disastro aereo che dopo oltre 40 anni non ha ancora una spiegazione ufficiale, tra depistaggi e strane morti di possibili testimoni. 

La sera di venerdì 27 giugno 1980 un aereo di linea Dc9 della compagnia Itavia decolla da Bologna diretto a Palermo. Non arriverà mai a destinazione: si inabisserà nei pressi dell’isola di Ustica, per motivi che in tanti hanno provato a nascondere. Di sicuro, quella notte il bireattore non viaggiava da solo. Una strage da 81 morti che a oltre quarant’anni non ha ancora una spiegazione, con processi celebrati e conclusi senza colpevoli e un’inchiesta giudiziaria ancora aperta. Con molti misteri intorno: le strane morti dei testimoni che avrebbero potuto incrinare il «muro di gomma», tra i quali Mario Dettori, maresciallo dell’aeronautica militare che quel giorno era in servizio alla base radar di Poggio Ballone. Oppure Franco Parisi, radarista alla base di Otranto: entrambi impiccati nel 1987. Che cosa ha fatto precipitare il DC9, in quella notte di «guerra di fatto e non dichiarata»?

Ustica, il fascino delle fake news è ancora un ostacolo per la giustizia. 30/07/2020 Bologna. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella accompagnato Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione Parenti delle Vittime della Strage di Ustica, visita il Museo per la Memoria. ALFREDO ROMA su Il Domani l'11 gennaio 2022.

Sulla tragedia di Ustica, in cui morirono 81 persone per l’abbattimento del DC9 Itavia in volo da Bologna a Palermo, sono usciti recentemente due libri controcorrente: «Ustica, un’ingiustizia civile» e «Ustica, i fatti e le fake news».

Per i media la tesi del missile era molto più affascinante perché coinvolgeva aerei della portaerei USA Saratoga in rada a Napoli, aerei francesi, libici e italiani, il possibile passaggio nei cieli di Ustica di Gheddafi.

Questa ricostruzione, su cui si basano anche i risarcimenti alle famiglie delle vittime, è completamente smentita dalla sentenza penale. Ma ha impedito di indagare meglio la pista di una bomba e di avere una idea più obiettiva di quella strage.

ALFREDO ROMA. Alfredo Roma, economista, già presidente dell'Ente Nazionale Aviazione Civile (Enac) e dell'European Civil Aviation Conference (Ecac), ex coordinatore nazionale del Programma Galileo presso la presidenza del Consiglio dei ministri.

Cosa è successo nel 1980. Strage di Ustica, la verità negata della bomba a bordo del Dc9 Itavia. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. Quella di Ustica è una storia scritta su pagine bruciate della storia italiana. E non è bene parlarne come di una questione aperta, perché esiste una sorta di comitato di vigilantes della menzogna che campano di rendita sulla menzogna, e ne hanno fatto per così dire un logos, un marchio di fabbrica. Mettiamoci nelle braghe dei tempi, o come si dovrebbe dire, contestualizziamo perché quella di Ustica è una faccenda, estremamente divisiva, perché divide chi ha mentito da chi ha detto il vero. E perché malgrado le sentenze – che rispettiamo e troviamo tuttavia molto obiettabili, per così dire, si tratta ancora di una strage senza autore, o con molti autori in circostanze in parte vere, in parte dubbie e per una gran parte figlie di ipotesi che poggiano su altre ipotesi.

Ciò che viene taciuto è che in quella strage così come nella successiva della Stazione di Bologna un mese più tardi, è in perfetta funzione il “Lodo Moro” anche se Moro non c’entra, ovviamente, visto che il Presidente della Dc era già stato eliminato con una delle più sfacciate, mostruose e ben protette operazioni criminali e politiche della nostra triste Storia. Se fu un attentato con bomba a bordo, allora gli autori dell’attentato vanno certamente cercati nell’area islamica allora attivissima in Italia ed era l’area dell’Olp di Yasser Arafat, ma più che altro di un altro leader dell’organizzazione per la liberazione della Palestina, il dottor George Abbash, cristiano peraltro, e altri membri militari attivi per esempio nell’Fplp.

Noi non sappiamo chi mise la bomba ma tutte le informazioni e le prove portano solo nella direzione della bomba e anche i pubblici ministeri dovettero ammettere che solo l’ipotesi della bomba soddisfaceva tutti gli indizi e le prove, ma è avvenuto che per un patto tacito e terribilmente operativo, non si dovesse in alcun modo ammettere che l’aereo fosse stato turato già con i suoi passeggeri da una bomba come probabile rappresaglia, già annunciata dai gruppi terroristici di allora. La tesi della bomba è stata derisa e criminalizzata anche perché l’aereo partì in ritardo e dunque “come potevano i terroristi sapere del ritardo?”. Potevano e come: in mille modi. Per esempio, azionando un timer che si sarebbe avviato solo al decollo, oppure con un timer a pressione e altri tipi di innesco perfettamente aggiornati. Secondo l’onorevole Zamberletti che era allora capo della Protezione civile, Ustica fu l’avvertimento e Bologna fu la punizione. Molti sono gli indizi, ma nessuno ha voluto indagare in quella direzione, dunque, se non sono state cercate le prove allora reperibili, è ovvio che oggi sia impossibile trovarne.

Ma tutta la vicenda di Ustica avvenne all’insegna del linciaggio del dissidente, della diffamazione del diverso parere, una compattezza sfacciata del pensiero unico e unificato. Colgo quindi l’occasione di questi ricordi cronologici per tentare di spiegare meglio il disastro materiale e morale che passa sotto il nome convenzionale di Ustica.  La strage di Ustica del giugno 1980, avvenne quando il DC-9 della Compagnia Itavia, decollato con grande ritardo da Bologna e diretto a Palermo si inabissò per un evento improvviso (una bomba? Un missile? Un aereo che volava parallelamente a distanza cortissima?) nelle acque che circondano l’isola di Ustica. Morirono tutti, ma si disse subito che c’era qualcosa di unico, eccezionale e anzi inaudito in questo disastro e io allora ero un semplice cronista, anche piuttosto meticoloso. I lettori mi perdoneranno se cerco di ricordare a chi non ha vissuto quell’epoca, l’importanza sia emotiva che reale della guerra fredda. La guerra fredda interveniva anche in casi clamorosi di qualsiasi genere e in quegli anni si dava regolarmente la colpa agli americani. In subordine ai francesi.

La domanda che quasi tutti si posero fu: come e perché gli americani hanno abbattuto l’aereo di Ustica? O in seconda battuta i francesi che erano molto presenti sullo scenario europeo di quegli anni con molte azioni segrete dei loro corpi speciali. Poi, più tardi, riesaminai la questione sotto ogni aspetto anche come membro del Parlamento. E infine scrissi un libro che per metà è composto da documenti intitolato Ustica verità svelata per l’editore Bietti, libro ormai fuori commercio. Mi rendo conto che quanto sto per dire non è condiviso dalla maggior parte dei miei concittadini, i quali sono stati a mio parere intossicati con una azione crescente. E tenuti all’oscuro dei fatti reali. Non mi aspetto quindi di farmi molti nuovi amici raccontando dei fatti che considero molto importanti e totalmente trascurati.

Primo fatto: la strage di Ustica avviene un mese prima (33 giorni) di quella di Bologna. Che sia ipotizzabile una relazione? Risposta: mah.

Secondo elemento: che cosa fece di colpo cadere l’aereo che stava placidamente avvicinandosi all’aeroporto di Palermo Punta Raisi? Due le ipotesi più gettonate: missile, o bomba a bordo. Il DC9 della compagnia Itavia caduto a Ustica aveva una toilette nel centro della fila di sinistra (guardando verso la cabina di pilotaggio) e questo elemento avrà la sua importanza.

Quanto all’ipotesi del missile, appresi che i missili aria-aria di quei tempi non colpivano il loro bersaglio come un ago può colpire un palloncino, ma quando i sensori rilevavano una determinata distanza col bersaglio, gli “esplodevano in faccia” con milioni di frammenti che polverizzavano il bersaglio. L’aereo di Ustica, che fu ritrovato sui fondali da una compagnia di recuperi sottomarini, era smembrato in cinque o sei grandi pezzi, ma non era stato mai investito da una miriade di schegge, né presentava un foro d’entrata. Telefonai a un uomo chiave di quella tragedia: il colonnello dell’aeronautica Guglielmo Lippolis che era in forze presso la Protezione Civile. Bisogna ricordare che i corpi e i sedili restarono a galleggiare per molte ore e che l’Espresso pubblicò in copertina una raccapricciante foto in cui si vedevano tutti questi cadaveri galleggianti legati alla loro poltrona prima di inabissarsi. Telefonai al colonnello, con cui in seguito parlai altre due volte e aveva la voce rotta dall’emozione: «Vede – mi disse – io vengo da un’altra tragedia: quella di un barcone carico di fuochi artificiali, esploso in acqua uccidendo tutti gli uomini dell’equipaggio. E siamo riusciti a ricostruire secondo le bruciature riportate dalle vittime le loro posizioni rispetto al punto dell’esplosione.

Qui è la stessa cosa: con l’elenco dei passeggeri e i loro sedili abbiamo subito trovato quelli che erano più vicini al fornello dell’esplosione e poi le bruciature sono sempre meno intense. È un lavoro terribilmente triste – concluse Lippolis – ma il risultato è inequivocabile: questo aereo è stato danneggiato e fatto inabissare da una bomba situata esattamente dietro il pannello della toilette». Gli chiesi se avrebbe testimoniato portando in tribunale questa sua verifica diretta sui cadaveri del DC9 di Ustica e lui mi assicurò che l’avrebbe fatto immediatamente. Quando ci riparlammo il processo volgeva al termine con i protagonisti divisi in molti partiti: quello del missile, della bomba del quasi-contatto, dello scontro frontale in aria. Erano stati creati due scenari del tutto immaginari ma molto utili per il wargame processuale: fu inventata di sana pianta la storia secondo cui Muammar Gheddafi, il dittatore libico, viaggiasse su un mig di ritorno da un Paese dell’Est e che dei caccia americani, o forse francesi, tentarono di abbatterlo, e che il pilota libico trovandosi a portata del DC9 Itavia ebbe la bella idea di mettersi sotto la pancia dell’aereo il quale si sarebbe preso un missile destinato a Gheddafi, nell’omertà generale.

Il secondo scenario è quello del wargame: nel corso di una esercitazione elettronica, in parte simulata e in parte vera, operata dalla nostra aeronautica militare, ops, parte un missile vero che abbatte il DC9. Richiamai dunque Lippolis e gli chiesi se avesse testimoniato: «Sì, mi hanno chiamato a testimoniare ma mi hanno impedito di raccontare ciò che avevo visto e controllato di persona e mi fu ingiunto di rispondere esattamente alle domande che mi venivano fatte. ed erano domande di dettaglio che non avevano nulla a che vedere con la mia posizione di testimone». La testimonianza di Lippolis dimostrava senza dubbio che il DC9 fosse esploso per una bomba a bordo e che i pubblici ministeri pian piano se ne convinsero, ma c’era un problema. Il problema era il necessario risarcimento alle famiglie delle vittime che non fossero quei quattro soldi dell’assicurazione. Ci voleva un colpevole, un escape goat, un capro espiatorio che ponesse sul banco dei condannati uomini dello Stato affinché lo Stato potesse risarcire in modo adeguato le vittime e le loro famiglie.

L’aereo fu tirato su a pezzi dal fondo del mare dove un sottomarino francese addetto a questo genere di ricerche ritrovò quasi tutti i pezzi, salvo l’estremità della coda. Come li trovò? Attraverso la facile soluzione di un problema fisico: se prendete un aereo che vola a quella velocità secondo quella traiettoria e un oggetto esplosivo lo disarticola nelle sue giunture, considerata velocità, massa e forma, dove finiranno i pezzi? Qui, là, e laggiù. E il sottomarino trovò tutto e il caso fu risolto: il disgraziato aereo è tornato in un hangar a grandi pezzi separati, ma non c’è alcuna traccia di missile. Il pannello che fu colpito dall’esplosione manca, probabilmente disintegrato. Il segreto di Stato copre la tremenda bugia e quando fu chiesto al governo Conte di dar prova di amore per la verità, il segreto fu confermato.

E poi c’è la vicenda del fisico inglese Mark Taylor che è uno dei massimi esperti di attentati aerei celebre anche per aver risolto il caso dell’aereo caduto nei cieli di Lockerbie dopo l’esplosione di una bomba a bordo messa da agenti libici, cosa che costrinse Gheddafi a risarcire le famiglie delle vittime.

A Taylor che spiegava per filo e per segno, dopo aver analizzato tutti i materiali, in che modo una bomba esplosa nella toilette avesse fatto collassare la struttura dell’aereo, fu opposta una obiezione stupidamente diabolica, che sentiamo puntualmente recitata con fiero cipiglio in televisione, e cioè che il sedile del gabinetto era intatto. Come può restare intatta una tavoletta del gabinetto se a pochi metri scoppia una bomba? Taylor rispose che è possibilissimo perché l’energia esplosiva non investiva la tavoletta nella sua traiettoria energetica e persino nei più feroci bombardamenti ci sono oggetti che si trovano in una posizione immune dalle contorsioni.

Taylor fu letteralmente cacciato dal tribunale. con ignominia. Lo ritrovai nell’aula magna del Cnr davanti a una enorme lavagna a spiegare la strage di Ustica causata da una bomba con tutte le coordinate e anche il materiale chimico trovato nella toilette dell’aereo. fibra per fibra, grado per grado, secondo per secondo, equazioni e un tormentato borbottare in inglese alla sola presenza di alcuni giornalisti specialisti di aeronautica e io soltanto che avevo seguito la sua triste vicenda e quella del nostro ingannato Paese, a proposito di patriottismo.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

·        Il mistero della Moby Prince.

«Il mistero Moby Prince», il docu-film che cerca fare chiarezza. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

Il film documentario di Salvatore Gulisano prodotto da Simona Ercolani cerca di far luce su uno dei troppi misteri del nostro Paese, sull’ennesima strage impunita 

La sera del 10 aprile 1991, il traghetto Moby Prince salpa da Livorno diretto a Olbia. Al comando della nave c’è Ugo Chessa, un ufficiale di provata esperienza che ha percorso parecchie volte quella tratta. Dopo pochi minuti di navigazione, la Moby entra in collisione con una petroliera ancorata in rada, l’Agip Abruzzo, infilando la prua dentro una tanica della nave cisterna contenente greggio altamente infiammabile. È una strage: centoquaranta persone muoiono tra le fiamme a bordo della nave passeggeri, la più grande tragedia della marineria civile italiana. Un solo sopravvissuto. Ma è stato davvero un incidente? Nel corso degli anni sono emersi molti dettagli inquietanti che finiscono per proiettare sui fatti una luce sinistra, alimentando il sospetto che le cose non siano andate come riferito dalle ricostruzioni ufficiali.

«Il mistero Moby Prince», il film documentario di Salvatore Gulisano, prodotto da Simona Ercolani e Stand by me per Rai Documentari (Rai2), cerca di far luce su uno dei troppi misteri del nostro Paese, sull’ennesima strage impunita. Secondo la ricostruzione ufficiale, stabilita da due sentenze assolutorie e altrettante richieste di archiviazione, la causa dello scontro sarebbe stata «una nebbia fittissima». E non ci fu soccorso perché le vittime morirono pochi minuti dopo la collisione. Caso chiuso. Una verità, quella ufficiale, a cui i parenti delle vittime, in primis i figli del comandante, Angelo e Luchino, non hanno mai creduto, e che li ha portati a lottare in tutti questi anni per fare chiarezza sull’ennesimo «mistero d’Italia» (hanno impegnato tutto quello che avevano, hanno speso più di mezzo miliardo di vecchie lire per rendere giustizia alle vittime). «Il mistero Moby Prince» è uno di quei documentari che non riesci a smettere di guardare anche se ti gettano nello sconforto. Cosa c’è dietro la «nebbia fittissima», inadeguatezza o malafede?

Disastro Moby Prince: dopo 31 anni si scopre che la nave fantasma c’era davvero. Salvatore Righi su L'Indipendente il 17 settembre 2022.

La nave fantasma c’era davvero, allora. Ci sono voluti 31 anni e forse l’unica Commissione d’inchiesta che ha cavato il ragno dal buco, certamente l’unica che ha finito i propri lavori in anticipo, ma c’è una svolta sulla strage del Moby Prince. Un colpo di scena ben più grande e importante della virata che ha dovuto – inutilmente – compiere il traghetto della Navarma per evitare appunto l’imbarcazione senza nome né bandiera, sbucata dal nulla quella notte del 10 aprile 1991 nella rada del Porto di Livorno. A Palazzo San Macuto, all’esito dei lavori della commissione in chiusura per fine legislatura, la conclusione delle indagini ha illuminato alcune zone d’ombra sul più grave disastro marittimo italiano dell’epoca moderna. Una strage, appunto, senza colpevoli ma con 140 vittime, oltre ad una cicatrice ancora molto profonda sulla coscienza di questo Paese.

Per cominciare, la Commissione ha spazzato via una volta per tutte i depistaggi e le fumose ipotesi che hanno contribuito a tenere sommersa la verità del rogo del traghetto: nella rada labronica, quella notte di primavera, il mare era calmo e il tempo sereno. Non c’era nebbia, non c’era agenti atmosferici a complicare l’uscita dal porto della Moby Prince, o a ridurre la visibilità durante le sue manovre terminate poi col fragoroso e terribile impatto con la petroliera Agip Abruzzo, che si trovava in una posizione dove non avrebbe dovuto trovarsi e che era avvolta da vapori, lei sì, dovuti ad un’avaria. Che invece non ha avuto la Moby Prince, perfettamente efficiente sia nel motore che nelle eliche: i lavori della Commissione hanno tolto anche questa ipotesi dal tavolo, secondo la quale appunto la sala comando del traghetto non sarebbe riuscita a impedire l’impatto con la petroliera a causa di guasti tecnici.

Con la collaborazione di Cetena, società di ingegneria navale del gruppo Fincantieri che dal 1962 si occupa di consulenze e ricerca in campo nautico (tra le sue skills, simulazioni, fluidodinamica, prototipazione virtuale, analisi di ormeggio e ship survivability), la Commissione d’inchiesta ha però aggiunto un elemento fondamentale nella ricostruzione della tragedia. La causa dell’impatto tra la Moby e la petroliera è stata la presenza e le manovre fin troppo disinvolte di una nave, un terzo scafo, della cui presenza quella notte si è fin qui molto parlato, ma di cui appunto non c’era certezza. Una nave che si è trovata improvvisamente sulla rotta della Moby Prince in manovra per uscire dal porto, diretta in Sardegna, e che il traghetto ha cercato di evitare compiendo una virata di 15 gradi a sinistra nello spazio ristrettissimo di trenta o quaranta secondi. Una disperata sterzata del timone a bordo della nave del comandante Chessa e un brusco cambio di rotta che hanno provocato poi la tragica collisione con la petroliera: per evitare un ostacolo, secondo le indagini della Commissione, la Moby Prince è andata semplicemente a sbattere contro un altro.

Il problema è che il sipario calato sui lavori della Commissione, senza dimenticare i due processi celebrati nel frattempo e conclusi con un pugno di mosche, non ha permesso di dare un nome e una targa alla nave fantasma che ha provocato il disastro di 31 anni fa. La rosa dei sospetti, però, non è infinita. La sagoma che la Moby si è trovata improvvisamente davanti quella notte potrebbe essere quella di qualche bettolina impegnata nel contrabbando di petrolio (bunkeraggio) dalla Agip Abruzzo, e questo spiegherebbe forse anche il fatto che la petroliera fosse ormeggiata fuori posto nella rada. Oppure, e questo forse è il sospetto più concreto che ci lascia l’inchiesta della Commissione, l’ombra più grande, potrebbe trattarsi della “21 Oktober II“, una nave al centro di parecchie torbide trame riconducibili al traffico di armi e di rifiuti tossici. Si trattava di un peschereccio battente bandiera somala, ma in realtà nella sua stiva pare ci fosse tutt’altro che gamberetti e tonni, e che si trovava ufficialmente nel porto di Livorno per riparazioni, dimezzata nell’equipaggio (in parte aveva chiesto asilo politico in Italia). Fu anche vista da un testimone mentre quella sera lasciava l’ormeggio, pur essendo impossibilitata a farlo dai guasti per cui si trovava all’ancora in quel porto: come poteva navigare lo stesso? Non è l’unico punto interrogativo su quella nave che faceva parte della Shifco, una società di diritto somalo titolare di sei imbarcazioni, tra pescherecci e navi frigo, donate al governo africano da quello italiano. Ufficialmente, quelle navi dovevano servire per il trasporto e il commercio di pesce dall’Oceano Indiano a Gaeta, nel Lazio, ma ricostruendo le rotte della “21 Oktober II”, si è scoperto poi che toccava Beirut, il Golfo Persico e perfino le coste irlandesi.

Su quella nave, soprattutto, e sulle triangolazioni pericolose tra Somalia, Italia e Medio Oriente, si era concentrata l’attenzione di Ilaria Alpi e Miriam Hrovatin, prima di essere uccisi in un’imboscata a Mogadiscio nel 1994, tre anni dopo il disastro della Moby Prince. Il nome “21 Oktober II”, unito a Shifco, era finito del resto anche sotto la lente del Sismi che ha monitorato un summit dei vertici della compagnia tenutosi proprio nei giorni della strage di Livorno, a bordo del peschereccio e poi proseguito in un hotel alle porte di Reggio Emilia. Di certo, fino adesso nessuno ha realmente approfondito e indagato i movimenti di quella nave somala quella notte di aprile, in una rada che pullulava peraltro di  altre imbarcazioni, a cominciare dalle sette navi militari americane (in principio erano ufficialmente tre, poi Washington ha dovuto ammettere la verità) che hanno scaricato proprio la notte del 10 aprile 1991 migliaia di tonnellate e munizioni: per la base di Camp Darby, dissero gli americani, anche se in realtà in quella base non sarebbe arrivata nemmeno una pallottola. C’era molto movimento di cui sappiamo ancora troppo poco, insomma, nella rada del porto di Livorno la notte in cui la Moby col suo carico di 140 persone è andata a fuoco, e i familiari delle vittime anche davanti alla Commissione, a Palazzo San Macuto, hanno usato a chiare lettere le parole che vergano ormai da anni: “depistaggio da parte di pezzi dello Stato”. [di Salvatore Maria Righi]

Francesco Grignetti per La Stampa il 16 settembre 2022.

È stato il disastro più raccapricciante della marineria italiana, la collisione tra il traghetto «Moby Prince» e la petroliera «Agip Abruzzo», nel porto di Livorno. Accadeva la sera del 10 aprile 1991. E dunque: un normale traghetto di linea misteriosamente urtò una petroliera che si trovava dove non avrebbe dovuto e prese fuoco. Quella sera si piansero 140 morti. Da trentuno anni ci si interroga su come sia stato possibile. E ora, in chiusura di legislatura, arrivano le clamorose conclusioni di una commissione d'inchiesta: c'era una terza nave misteriosa in rada, e fu proprio per evitarla che il comandante del traghetto virò precipitosamente. 

Non fu un errore, bensì una manovra d'emergenza.

Solo che in questo modo la «Moby Prince» andò a sbattere contro la petroliera, che incredibilmente si era resa invisibile. «Per evitare la collisione certa con questa terza nave - ha spiegato il presidente della commissione, Andrea Romano, Pd - la "Moby Prince" effettuò una manovra di emergenza che la portò a collidere con la petroliera "Agip Abruzzo", che si trovava in una zona dove non doveva trovarsi e che in base alle nostre indagini e valutazioni era invasa da una nube di vapore acqueo, provocata da una possibile avaria dei sistemi che producevano vapore. Insieme a questo era stata colpita da un black-out tale da renderla di fatto invisibile agli occhi della Moby Prince». 

Sono conclusioni assolutamente nuove e che contraddicono le verità giudiziarie, che finora avevano dato la colpa dell'incidente a una misteriosa nebbia e un inspiegabile errore del comandante.

Invece no. Ci si basa ora su una perizia effettuata da un brillante studio di ingegneria navale che apre nuovi scenari. «Purtroppo - dice ancora Romano - non siamo in grado di identificare la terza nave, ma diamo due piste su cui eventualmente lavorerà chi vorrà farlo». 

Una pista porta alla nave "21 October II", un ex peschereccio battente bandiera somala, che sembra essere stato a Livorno per riparazioni dopo un incidente a Zanzibar. L'altra a una o più bettoline (imbarcazioni di piccole dimensioni che effettuano servizio di trasporto di merci o di liquidi verso navi più grandi in ambito portuale) a cui si fa riferimento nelle comunicazioni radio. Ma la fantomatica bettolina potrebbe essere stata la stessa nave somala, chissà. 

Ricostruisce Romano: «Il comandante della petroliera nei primi momenti dice: "Ci è venuta addosso una bettolina"». Poi però ci sono anche altri aspetti inquietanti, «come quello di un tubo che fuoriusciva dalla "Agip Abruzzo" e che potrebbe, uso il condizionale, rimandare ad attività di bunkeraggio clandestino in cui avrebbero potuto essere coinvolte delle bettoline». Bunkeraggio clandestino, ovvero contrabbando di petrolio.

Forse il mistero della «Moby Prince» è tutto qui: in un'attività criminale nel porto di Livorno, il furto del petrolio dalla grande petroliera dell'Ente di Stato. In traffici di bettoline che facevano di tutto per nascondersi, a costo di mettere a rischio la navigazione dei traghetti di linea. 

E anche l'avaria che avrebbe reso invisibile la «Agip Abruzzo» acquista un sapore diverso. Tutto quello che ne è seguito, depistaggi, false piste, processi imbastiti in fretta e furia, ipotesi campate in aria, sarebbe allora un gigantesco tentativo di nascondere le tracce. 

E finora ha funzionato egregiamente. A dispetto di quel che si disse agli inizi, la commissione parlamentare ha reso onore all'equipaggio, che fece il suo dovere fino in fondo, avendo «raccolto tutti i passeggeri nel salone». Un comportamento «di valore e coraggio straordinari. I membri dell'equipaggio, infatti, sono eroicamente rimasti ai posti assegnati, nel tentativo disperato di salvare i passeggeri con loro imbarcati». 

E infatti quella sera morirono tutti, i 65 membri dell'equipaggio (salvo il caso fortunatissimo di un mozzo) assieme ai 75 passeggeri. L'Eni, invece, non ha brillato per collaborazione con il Parlamento. «Questa Commissione ritiene di biasimare - si legge - il comportamento di Eni, connotato di forte opacità». Continua a non spiegare l'effettiva provenienza della petroliera, quale carico era realmente trasportato, quali le attività svolte in rada. E non ha giovato alla verità l'accordo assicurativo sulla collisione, siglato nell'immediatezza dei fatti «per la rappresentazione dei fatti prospettata e che in seguito fu accolta dall'autorità giudiziaria».

Moby Prince, una terza nave causò il disastro in cui morirono 140 persone. Il Tempo il 15 settembre 2022

Una novità clamorosa viene fuori dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro Moby Prince, avvenuto al largo di Livorno il 10 aprile 1991. Il traghetto di proprietà della Nav.Ar.Ma. si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo: per le conseguene dell'impatto morirono 140 persone (65 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri). "Lo scenario più vero della collisione coincide con un cambio di rotta improvviso della Moby Prince, più marcato di 15 gradi, nell’arco di 30-40 secondi, che fu provocato dall’improvvisa comparsa di una terza nave di fronte alla Moby Prince", ha detto il deputato del Pd, Andrea Romano, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro  Moby Prince presentando la relazione conclusiva approvata oggi all’unanimità.

Per evitare la collisione certa con questa terza nave, spiega Romano, il traghetto effettuò una "manovra di emergenza che lo portò a collidere con la petroliera Agip Abruzzo, che si trovava in una zona dove non doveva trovarsi e che in base alle nostre indagini e valutazioni, era invasa da una nube di vapore acqueo, provocata da una possibile avaria dei sistemi che producevano vapore. Insieme a questo l’Agip Abruzzo era stata colpita da un black out tale da renderla di fatto invisibile agli occhi della Moby Prince".

Su quale fosse la terza nave, ci sono solo ipotesi. "Purtroppo non siamo in grado di identificare la terza nave ma diamo due piste su cui eventualmente lavorerà chi vorrà farlo - ha chiarito Romano - . Una pista è quella relativa alla nave 21 October II che è un ex peschereccio battente bandiera somala sul quale esistono incertezze circa la presenza davanti al porto di Livorno" dove si doveva trovare per alcune riparazioni dopo "un incidente a Zanzibar". "L’altra pista - ha aggiunto - è quella delle bettolina o bettoline, a cui si fa riferimento già nelle comunicazioni radio di quel momento. Il comandante della petroliera Agip Abruzzo Superina nei primi momenti dice ’ci è venuta addosso una bettolina'. Qui facciamo riferimento parziale ad altri elementi, come quello di un tubo che fuoriusciva dalla Agip Abruzzo e che potrebbe, uso il condizionale, rimandare ad attività di bunkeraggio clandestino in cui avrebbero potuto essere coinvolte delle bettoline".

L'attività della commissione "si è interrotta prima della fine della legislatura - ha concluso Romano - sappiamo con ragionevole certezza che si è trattato di una terza nave a provocare la collisione, purtroppo non possiamo darle un nome e dobbiamo limitarci ad indicare alcune piste". 

Luca Serranò per repubblica.it il 15 settembre 2021.

"La Moby Prince è andata a collidere con la petroliera Agip Abruzzo per colpa della presenza di una terza nave comparsa improvvisamente davanti al traghetto che provocò una virata a sinistra che ha poi determinato l'incidente. Purtroppo questa nave non è ancora stata identificata con certezza".

Potrebbe essere vicina la verità sul disastro del Moby Prince, il traghetto della Navarma che la sera del 10 aprile del 1991 si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo, provocando la morte di 140 persone. Come spiegato dal presidente della commissione parlamentare d'inchiesta, Andrea Romano, le indagini hanno accertato la presenza di una terza nave - circostanza affiorata anche nei giorni successivi la tragedia, ma mai riscontrata - che di fatto avrebbe provocato il disastro. L'imbarcazione, anche a causa della fine anticipata dei lavori della commissione, non è ancora stata identificata. Due le ipotesi, secondo Romano, su cui si dovrebbe investigare ancora: una bettolina (una chiatta per il trasporto merci), o un peschereccio somalo.

"Le perizie ci dicono che l'esplosione non fu causa della collisione", ha aggiunto ancora Romano presentando i risultati della relazione finale, in cui si esclude tra le altre cose la presenza di esplosivo a bordo del traghetto. Poi, riguardo le condizioni meteo di quella notte: "Sono state ricostruite con vari documenti o misure fatte da strumenti che si trovavano in quell'area: le conclusioni sono che visibilità di fronte al porto di Livorno era buona se non ottima, vento di pochi nodi, mare calmo e corrente marina ininfluente".

Le conclusioni della Commissione d'inchiesta. Strage Moby Prince, altro che nebbia: “disastro provocato da una terza nave” e ruolo opaco dell’Eni. Redazione su Il Riformista il 15 Settembre 2022 

A provocare il disastro del 10 aprile 1991, quando lo scontro nella rada del porto di Livorno tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo provocò la morte di 140 persone (65 membri dell’equipaggio e 75 passeggeri), fu “una terza nave che non è stato possibile identificare con certezza” ma che ha costretto il traghetto a una virata improvvisa culminata con lo schianto contro la petroliera che non doveva trovarsi in quella posizione. E’ quanto emerge dalla conclusione dei lavori della Commissione di inchiesta parlamentare che ha approvato all’unanimità la relazione finale sulla strage avvenuta ben 31 anni fa. Commissione che ha “lavorato in collaborazione con le procure di Livorno e di Firenze” e ha stabilito che “le verità giudiziarie a cui si era arrivati in passato erano infondate” ha dichiarato il deputato del Pd, Andrea Romano, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro Moby Prince presentando la relazione conclusiva approvata oggi all’unanimità.

“La collisione tra il traghetto Moby Prince e la petroliera Agip Abruzzo è avvenuta all’interno dell’area di divieto di ancoraggio nella rada del porto di Livorno, a seguito di una turbativa esterna della navigazione provocata da una terza nave che non è stato possibile identificare con certezza” aggiunge Orlando. Le vittime viaggiavano tutte sul traghetto diretto a Olbia: l’unico sopravvisto del Moby Prince fu il mozzo Alessio Bertrand.

Sulla mancata identificazione della terza nave coinvolta Romano spiega che “non abbiamo potuto dare risposte certe sull’identificazione del natante che ha causato la collisione perché non ne abbiamo avuto il tempo a causa della fine anticipata della legislatura, ma abbiamo suggerito nella relazione conclusiva due piste da seguire in futuro sia da parte della magistratura e del prossimo Parlamento”. La Commissione chiarisce poi la dinamica della collisione e il ruolo della terza imbarcazione: “La presenza di una terza unità navale in movimento ha interferito con la rotta del traghetto e obbligato Moby Prince a una virata a sinistra per evitare una collisione certa con essa, per poi andare a collidere con la petroliera ancorata dove non doveva essere e resa invisibile da un improvviso black out”.

La stessa Commissione offre due tracce per individuare la nave che provocò l’incidente: la prima porta alla 21 Oktobaar II, un ex peschereccio somalo; la seconda è relativa alla presenza di una o più bettoline “che stavano effettuando bunkeraggio clandestino”. Del resto, hanno accertato i commissari, la notte del 10 aprile 1991, “la navigazione si stava svolgendo con condizioni di visibilità buona, se non ottima, vento a regime di brezza e mare calmo” e che l’esplosione a bordo del Moby, “è avvenuta dopo la collisione”, pertanto negli anni scorsi le ipotesi “di nebbia, di una bomba sul traghetto o di una distrazione del comando della nave” come cause della collisione “hanno contribuito a creare confusione” creatasi nelle indagini. Sarà però la magistratura, e nello specifico la Procura di Livorno, a stabilire se siano state condotte negligenti o veri e propri depistaggi.

Secondo Romano “la Commissione ha avuto conferma della valutazione, pienamente condivisibile, fatta dalla Commissione senatoriale sul ‘comportamento di Eni connotato di forte opacità‘, riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione dell’effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno: comportamento, dunque, certamente opaco che questa Commissione ritiene di biasimare”. Da qui l’appello all’Eni “a rendere pubblici i suoi documenti interni visto che forse sapeva che Agip Abruzzo si trovava dove non doveva essere, forse sapeva anche del black out o del vapore e perfino che forse era coinvolta in attività di bunkeraggio clandestino: noi abbiamo chiesto i materiali delle inchieste interne ma non li abbiamo avuti”.

All’agenzia Agi Luciano Chessa, uno dei due figli del comandante del Moby Prince commenta: “Ciò che sta emergendo è un risultato positivo. Già il presidente della commissione aveva dato delle indicazioni importanti che ribaltavano le verità processuali. E’ importante aver scoperto che la virata improvvisa del traghetto è stata legata alla presenza di una terza imbarcazione. Poi, certo, adesso bisognerà capire quale era questa terza nave. Sarà molto importante adesso sapere esattamente quale era questa terza nave”, ha osservato Chessa, “perché in questo modo si potrà capire chi ha lavorato per nascondere la verità e per quale ragione l’ha fatto”. Secondo Nicola Rosetti, vicepresidente del Comitato Moby Prince 140, “bisogna trovare i responsabili di quelle menzogne che da subito volevano farci credere che fu la nebbia e una tragica fatalità a determinare la morte di 140 persone”.

Moby Prince, non c'era esplosivo nel locale motore. La nuova perizia sul traghetto andato a fuoco nel 1992. "I reperti furono contaminati erroneamente". La Repubblica il 13 Settembre 2022.

Non c'era esplosivo nel locale motore dell'elica di prua e nel garage sovrastante all'interno del Moby Prince, il traghetto della Nav.Ar.Ma andato a fuoco il 10 aprile 1991 di fronte al porto di Livorno dopo una collisione contro la petroliera Agip Abruzzo. Un disastro che causò la morte di 140 persone fra passeggeri ed equipaggio e il ferimento di una persona, il mozzo Alessio Bertrand, unico superstite della tragedia. Lo avrebbe stabilito l'analisi del colonnello dei carabinieri Adolfo Gregori, comandante della sezione chimica del Ris di Roma a cui la Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause del disastro della nave Moby Prince ha recentemente affidato l'incarico di fare chiarezza su questo punto specifico che ha generato, nel corso di questi anni, tutta una serie di congetture fino ad ipotizzare un traffico di armi ed esplosivi a bordo del traghetto Moby Prince lasciando intravedere, addirittura, l'ombra di Cosa Nostra.

Le conclusioni dell'esperto del Ris contraddicono la precedente perizia esplosivistica depositata nel febbraio 1992 e svolta dall'ex agente del Sismi Alessandro Massari, incaricato dalla Procura di Livorno di analizzare i resti del traghetto. Nella perizia di Massari, che il 21 dicembre scorso venne anche audito dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul disastro della Moby confermando di aver diretto un laboratorio chimico dei Servizi segreti militari prima di passare alla Criminalpol, si parlava infatti di esplosivo, forse contenuto in una borsa, anche se non è stato possibile stabilire se esploso prima o dopo la sciagura.

La nuova perizia, firmata dal colonnello dei carabinieri del Ris Adolfo Gregori, che ha potuto utilizzare tecnologie innovative e strumentazioni più sofisticate ancora inesistenti all'epoca dell'analisi precedente, svela che sul traghetto non vi era alcun esplosivo e che quello trovato nel 1991 sui reperti analizzati dal perito Massari è frutto di "evidenti tracce di contaminazioni" esterne da cattiva conservazione. In definitiva i reperti - che non avevano inizialmente tracce di esplosivo - furono, poi, contaminati, secondo il Ris, portando erroneamente alla conclusione che vi fosse esplosivo sul traghetto.

Il materiale analizzato venne recuperato nel 1991 dai precedenti periti dal locale motore dell'elica di prua e dal garage sovrastante la Moby Prince. E comprendeva, fra l'altro, lembi di stoffa, frammenti di borse e valigie, pezzi di plastica e di legno, fili elettrici, bulloni e rondelle, lamierini, circuiti stampati e strati di vernici oltre a campionamenti recuperati da un camion che si trovava a bordo del traghetto. Tutto quel materiale, analizzato nei laboratori della polizia Scientifica della Criminalpol e dell'Enea dall'ex-007 militare su incarico della Procura di Livorno, restituì un quadro inquietante con la presenza, scrisse il perito Alessandro Massari, di vari tipi di esplosivi.

Il lavoro del colonnello del Ris dei carabinieri, Adolfo Gregori, sarà presentato il prossimo 15 settembre assieme alla Relazione finale dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sulle cause del disastro della nave Moby Prince. L'analisi chimico-esplosivistica contenuta nel rapporto di una quarantina di pagine consegnato dal colonnello Gregori sia alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla Moby Prince sia alla Procura di Firenze che sta procedendo ad una nuova indagine con la Direzione Distrettuale Antimafia, ha accertato la presenza di "esplosivo da contaminazione" non solo su alcuni reperti prelevati dal locale motore dell'elica di prua e dal garage sovrastante ma perfino - ed è questo il punto - all'esterno degli stessi scatoloni e delle buste contenenti il materiale, fatto che lascia immaginare una non corretta repertazione e conservazione del materiale, evidentemente maneggiato da chi, in quei frangenti, era contaminato da esplosivo.

Moby Prince: morto Angelo Chessa, una vita spesa per la verità. (ANSA l'11 giugno 2022. ) - CAGLIARI, 11 GIU - È morto a Milano all'età di 56 anni Angelo Chessa, primario di ortopedia, figlio di Ugo, comandante del traghetto Moby Prince al largo di Livorno nel 1991. Insieme al fratello Luchino ha combattuto per anni, attraverso un comitato, in Parlamento e nelle aule dei tribunali per fare luce sulla tragedia che costò la vita al padre e ad altre 140 persone con un solo superstite.

"Una persona speciale, una vera forza. Porteremo avanti questa battaglia sino alla fine anche nel suo ricordo", dice all'ANSA Luchino, dirigente medico dell''Aou di Cagliari. La tragedia nella notte del 10 aprile 1991: alle 22.25, il traghetto Moby Prince della Navarma entrò in collisione con l'Agip Abruzzo, petroliera della Snam, a 2,7 miglia dalla costa. Fu l'inferno: morirono in 140 - di cui 26 sardi - tra passeggeri e equipaggio del Moby. Si salvò solo Alessio Bertrand, mozzo del traghetto che partito alle 22 era diretto a Olbia. Tutti salvi sulla nave Agip.

La battaglia di Luchino e Angelo Chessa partì qualche anno dopo. Una missione, con il coinvolgimento dei parenti delle vittime, per capire, al di là dei primi responsi sulle responsabilità, che cosa fosse accaduto davvero quella notte. Nella storia di questa ricerca della verità anche il lavoro di una commissione parlamentare, presieduta dal senatore sardo Silvio Lai. Gli esiti: lo scontro non era stato causato dalla nebbia o dall'imprudenza di un comandante. Ora c'è un'altra commissione di inchiesta in corso. Nel disastro morì anche la madre di Luchino e Angelo Chessa, Maria Giulia Ghezzano.

Un documentario del giornalista Rai Paolo Mastino, intitolato Buonasera Moby Prince, ha riassunto le fasi salienti della vicenda è delle inchieste. "Angelo e Luchino Chessa - spiega all'ANSA - hanno diviso la loro vita tra famiglia, professione e ricerca della verità. Proprio Angelo coinvolse a Milano i consulenti che ribaltarono le conclusioni dei processi facendo venire alla luce nuovi decisivi dettagli". (ANSA).

Morto Angelo Chessa, figlio del comandante del Moby Prince. Il Dubbio l'11 giugno 2022.  

Per 30 anni, insieme al fratello Luchino, Angelo si era impegnato per individuare la verità sul rogo del Moby Prince e per tenere alta la reputazione del padre.

È morto a Milano all’età di 56 anni, dopo una lunga malattia, Angelo Chessa, primario di ortopedia, figlio di Ugo Chessa, comandante del traghetto Moby Prince, che il 10 aprile 1991 entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno. Insieme al fratello Luchino, Angelo Chessa è stato anima dell’Associazione “10 Aprile” che, con l’Associazione “Io sono 141”, hanno tenuto vivo il ricordo delle vittime della più grande tragedia della marineria civile e si sono battuti per la verità sui motivi del disastro che costò la vita al loro padre ad altre 140 persone.

Per 30 anni, insieme al fratello Luchino, Angelo si era impegnato per individuare la verità sul rogo del Moby Prince e per tenere alta la reputazione del padre. Insieme alle associazioni, ricorda Salvetti, Chessa «ha dato un contributo fondamentale per riaprire le inchieste e attivare le commissioni parlamentari che devono fare luce sulla tragedia e sulle tante lacune emerse nella ricostruzione dell’incidente e sugli interrogativi aperti». «La scomparsa di Angelo Chessa sarà un ulteriore stimolo per l’Amministrazione per non dimenticare, né ora né mai e per stare al fianco dei familiari delle vittime del Moby nell’inseguire giustizia e verità», ha detto il sindaco.

MOBY PRINCE. ATTENTI A QUEI DUE. MARIO AVENA su La Voce delle Voci il 6 Gennaio 2022.

Un altro colpo di scena nel tragico giallo del Moby Prince che sta per compiere 40 anni il prossimo 10 aprile senza che mai un colpevole, neanche l’ombra, sia stato assicurato alle patrie galere.

Nel corso di una delle ultime audizioni che si stanno svolgendo davanti alla seconda Commissione parlamentare d’inchiesta, stavolta presieduta dal PD Andrea Romano, un ex funzionario dei servizi segreti, al quale incredibilmente nel corso della prima inchiesta venne assegnato il ruolo di perito, tira fuori la storia dell’esplosivo a bordo del Moby Prince, di cui sostiene di aver a suo tempo rilevato le tracce: venne snobbato, racconta, dai pm con i quali entrò in rotta di collisione, arrivando fino ad una denuncia al Csm.

Adesso spuntano fuori i verbali di una precedente audizione, in queste ore resa nota per via di alcune possibili ‘secretazioni’, e in qualche modo torna a far capolino la ‘pista esplosivo’. O meglio, improvvisamente (ossia dopo 40 anni!) salgono alla ribalta due misteriosi individui a bordo nelle ore precedenti la partenza del traghetto e quindi del rogo che stroncò tante vite innocenti.

A raccontare la storia, davanti ai membri della Commissione, è Marina Caffarata, moglie del secondo ufficiale del Moby Prince, Lido Giampedroni. La signora si imbarcò sul Mobyin compagnia del marito e del figlio di due anni, Emanuele, alle 14 di quel tragico 10 aprile 1991.

Ecco le sue parole: “Quando siamo arrivati, un marinaio ha detto a mio marito: ‘Sai che abbiamo trovato a bordo?’”.

Sempre in presenza della signora Caffarata, la notizia viene confermata al marito anche dal capo dei marinai, il nostromo Ciro Di Lauro, il quale osservò: “Non sappiamo cosa stavano a fare”. Al che Giampedroni chiede al nostromo se avessero chiamato la polizia, sentendosi rispondere in modo laconico ‘No, li abbiamo fatti scendere”.

Marina Caffarata afferma davanti ai commissari di avere, all’epoca dell’inchiesta, riferito l’episodio al pm incaricato, Luigi De Franco e al coordinatore della polizia giudiziaria della Procura, l’ispettore Giampiero Grosselle. “Ma il mio racconto non venne mai preso a verbale”, puntualizza adesso.

E aggiunge un altro elemento non da poco. “Un anno fa ho scritto quanto accaduto anche alla Procura di Livorno (che ha riaperto il caso, ndr), via pec: ma non mi hanno mai risposto”.

Da notare che Di Lauro non era a bordo del Moby la sera della collisione con la petroliera Agip Abruzzo, perché aveva ottenuto un ‘permesso verbale’, mai ben chiarito. 

Alcuni familiari delle vittime della Moby Prince in tribunale.

E fu lo stesso nostromo, cinque mesi dopo la tragedia, nel settembre ’91, a confermare alla procura di Livorno di aver effettuato una manomissione alla timoneria del Moby Prince, il giorno dopo l’ormeggio in porto del relitto durante le fasi di recupero dei corpi.

Reo confesso, quindi, Di Lauro, e assolto dai giudici livornesi con sentenza definitiva perché “il fatto non sussiste”. Se l’era sognata, quella manomissione?

E fu assolto anche chi, a sua volta, il nostromo aveva tirato in ballo come colui il quale gli aveva ordinato quella manovra: ossia il vicecapo ispettore tecnico della compagnia armatoriale del Moby, Pasquale D’Orsi.

Misteri nei misteri.

Moby Prince, la strage e gli esplosivi a bordo: 30 anni dopo, la svolta in tribunale. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 30 dicembre 2021. Trent' anni. Ci sono voluti (esattamente) trent' anni per riaprire il caso della Moby Prince e, in sostanza, tornare a uno dei punti di partenza. La procura di Firenze vuole far luce sulla tragedia del traghetto della Navarmar avvampato in un incidendo nella rada del porto di Livorno il 10 aprile del 1991. Un processo infinito, due gradi di giudizio, una commissione parlamentare d'inchiesta: siamo ancora qui, tre decenni dopo, a chiederci cosa sia successo, ad aspettare gli esiti di una perizia (altri novanta giorni) affidata a tre esperti di esplosivi. Adolfo Gregori, comandante della sezione Chimica dei Ris di Roma; Gianni Bresciani, ingegnere "esplosivista" e Danilo Coppe, che ha lavorato anche sulla strage di Bologna. La magistratura toscana (e mica solo lei) vuole sapere se ci sono nuovi elementi a suffragio della tesi che la Moby Prince stesse trasportando materiali pericolosi. Solo che, nel frattempo, la nave è affondata ed è stata recuperata e l'unico sopravvissuto (il mozzo Alessio Bertrand) dice di convivere «con l'ansia e la depressione».

Due scatole, 25 buste e una serie di reperti prelevati nel novembre del 1991. Una vita fa. Non è la prima volta che l'ipotesi degli esplosivi fa capolino tra le carte processuali. Già nel 1992 la Scientifica ha ammesso di aver «evidenziato tracce di esplosivo di uso civile all'interno di un locale a prua»: cinque tipi (ma ce ne sarebbero anche altri due, questa volta impiegati in campo militare), tra nitroglicerina e nitrato di ammonio. Quelli che "a uso civile" son noti come gelatine o dinamite. Il mandato che riapre l'inchiesta è firmato dalla Direzione distrettuale antimafia fiorentina, e forse non è un caso. Quella maledetta sera del 10 aprile di trent' anni fa, sulla Moby Prince, c'erano 141 persone: se n'è salvata solo una, un ragazzo napoletano che lavorava con l'equipaggio. Tutti gli altri son morti dopo le 22:03. Avevano appena lasciato il molo in direzione di Olbia, in Sardegna. Stavano uscendo dal porto quando il traghetto è entrato in collisione con la petroliera Agip Abruzzo. È finito diritto dentro la cisterna numero sette, che conteneva qualcosa come 2.700 tonnellate di oro nero. Uno sversamento. In mare, ma anche sulla prua della Moby Prince. Quella prua che adesso è (di nuovo) sotto osservazione. E poi quell'incendio, le fiamme nel salone principale che era sì dotato di pareti tagliafuoco, ma era anche circondato dal rogo e non c'è stato più niente da fare. Una storia lunga trent' anni che ha vagliato il possibile errore umano, il malfunzionamento di alcuni apparati di sicurezza, le procedure di uscita dal porto.

"Si ventilano due ipotesi", dice Coppe al quotidiano Il Fatto, «che sono da smentire o da confermare: la prima riguarda l'esplosione come causa dell'incidente, la seconda il trasporto di esplosivi di matrice mafiosa, che poi sono bruciati». «Attendiamo fiduciosi gli esiti di quanto disposto», fa sapere, invece, Nicola Rosetti, che è il portavoce dell'associazione dei famigliari delle vittime. A complicare le indagini ci si è messo il 28 maggio del 1998, quando la Moby Prince, allora ancora sotto sequestro, è affondata nelle acque del porto di Livorno, sotto gli occhi di chi guardava dalla banchina. L'hanno recuperata e l'hanno avviata alla demolizione in Turchia, ma intanto l'orologio continuava a girare. A maggio di questi' anno è stata istituita pure una nuova Commissione sul disastro che è riuscita, per la prima volta, ad acquisire un nastro delle comunicazioni radio che non era mai stato ascoltato in passato perché (l'ennesima beffa) mancava un registratore particolare che era uscito di produzione. Resta l'amaro in bocca per il tempo trascorso, le 140 morti che ancora non trovano una spiegazione univoca, chiara. Quesiti senza risposta. E l'ennesima inchiesta mai arrivata in fondo.  

·        I Cold Case italiani.

Dal delitto Mattei agli attentati contro Falcone e Borsellino: il libro nero delle stragi di Stato. Il Fatto Quotidiano l'1 dicembre 2021.

Pubblichiamo l'introduzione del Libro nero delle stragi di Stato di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, edito da Chiarelettere. Il volume ripropone in edizione unica quattro libri degli stessi autori: L'agenda rossa di Paolo Borsellino, Profondo nero, L'agenda nera della Seconda repubblica, DepiStato. Il risultato è un'inchiesta completa sullo stragismo italiano con radici mafiose e il suo carico di complicità istituzionali.

La parresia è un’attività verbale in cui un parlante esprime la propria relazione personale con la verità e rischia la propria vita, perché riconosce che dire la verità è un dovere per aiutare altre persone (o se stesso) a vivere meglio. Nella parresia il parlante fa uso della sua libertà e sceglie il parlar franco invece della persuasione, la verità invece della falsità o del silenzio, il rischio di morire invece della vita e della sicurezza, la critica invece dell’adulazione e il dovere morale invece del proprio tornaconto o dell’apatia morale.

Non c’è bisogno di scomodare la «parresia» di Michel Foucault o le sue analisi del discorso pubblico con la zona di «indistinzione tra visibile e dicibile» per confessare di avere iniziato a scrivere insieme libri nel 2006 sulla spinta di una considerazione tanto banale quanto evidente a tutti: la diffusione di informazioni parziali e fuorvianti sull’arresto, dopo quarantatré anni di latitanza, del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, spacciato come l’ultimo padrino al vertice di una mafia agreste, che in un casolare del corleonese tra ricotta e cicoria governava i «picciotti» con l’uso di pizzini sgrammaticati. Una visione tranquillizzante di una mafia ormai sconfitta dalla forza dello Stato di diritto, severo ed efficace nel reprimere ogni pulsione mafiosa originata dalla stagione delle stragi, trasmessa a reti unificate, pubbliche e private, e particolarmente sottolineata dal Tg2 che il giorno dopo l’arresto portò a Montagna dei Cavalli, nel covo corleonese del boss, le telecamere di Anna La Rosa, accompagnata dal senatore Beppe Lumia, per mostrare ai telespettatori italiani il materasso senza lenzuola, le caciotte appese al muro e il televisore affidato a un’antenna fatiscente, esposta ai capricci del vento, unico collegamento del superlatitante con la realtà del mondo esterno.

Una visione che non ci convinse per nulla e che in quei giorni ci spinse a scrivere un libro, Il gioco grande. Ipotesi su Provenzano, che non compare in questa raccolta perché pubblicato da un altro editore: «Quella che i media ci hanno raccontato» scrivevamo nell’introduzione «è la favola della mafia a una dimensione; la storia minimalista di Provenzano, il padrino di una mafia arcaica e pretecnologica che tra lupara e cicoria ha concluso la sua parabola lontano dagli scenari occulti e ufficiali del potere…». E poi: «Lo Stato esulta perché ha catturato Provenzano, i media celebrano la sconfitta della mafia, la borghesia mafiosa gioisce alla scoperta che la verità della mafia è quel profilo basso di “pizzo” e “pizzini” sbandierando finalmente la prova che tutto il resto (trame occulte, mandanti occulti) esiste solo nelle cervellotiche ricostruzioni fantagiudiziarie». Una riflessione che in molti si affrettarono a bollare come fantasia di complottisti, termine abusato in questi ultimi decenni per descrivere l’approccio all’analisi di dinamiche sociali attraverso la chiave di lettura di un fenomeno, il complotto, che (come ben sanno gli storici in polemica con noi) ha costantemente fatto parte della storia italiana dai tempi di Machiavelli e dei Borgia. Vista l’evoluzione degli avvenimenti negli ultimi settant’anni forse è il caso di aggiornare anche il lessico corrente, sottraendo a questo termine l’accezione di riprovazione e scandalo e restituendogli il significato originario di intrigo, macchinazione, cospirazione criminale di natura sistemica.

Il numero, le dimensioni e il livello delle protezioni politiche e delle coperture giudiziarie e investigative che hanno segnato la lotta alla mafia e la ricerca della verità sulle stragi sono, infatti, una componente strutturale della vicenda italiana, venuta a galla con il verdetto di primo grado del processo sulla trattativa Stato-mafia la cui riforma subita recentemente in appello non sembra mettere in discussione la ricostruzione storica operata dalla Procura di Palermo: per i giudici, infatti, il fatto (la trattativa o la minaccia veicolata fino al cuore di tre governi, lo si capirà dalle motivazioni) si è verificato, ma non è qualificabile come reato. La sentenza del 23 settembre 2021, promulgata dalla Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, precisamente, ha assolto gli ex ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno «perché il fatto non costituisce reato», e l’ex senatore Marcello Dell’Utri «per non aver commesso il fatto»: ha dunque tirato fuori quelle responsabilità penali individuali individuate in primo grado dal groviglio criminale della stagione delle stragi. Ma confermando contestualmente la condanna per i boss Leoluca Bagarella (ventisette anni, uno in meno rispetto al giudizio di primo grado) e Antonino Cinà (dodici anni), accusati di aver veicolato la minaccia mafiosa all’interno dello Stato, la Corte di Palermo ha convalidato, indipendentemente da ogni giudizio «a caldo» sul verdetto, il rapporto di continuità con quella prassi tradizionale di minacce e intimidazioni (sfociate nel 1992-1993 in una brutale aggressione terroristica) che aveva già indotto un magistrato consulente della commissione Antimafia, Antonio Tricoli, a sostenere in una relazione depositata il 12 luglio 2012 a palazzo San Macuto, come «per la difficile e travagliata cogestione del potere si è sempre addivenuti alla stipula di compromessi o patti informali anche ai limiti della legalità», fino a giungere al punto in cui «la trattativa con la criminalità è diventata quasi consuetudine».

Ma se questa componente strutturale è un dato consacrato in migliaia di atti parlamentari, fin dal 5 luglio 1950, giorno dell’omicidio del bandito Giuliano (la cui versione ufficiale venne smentita pochi giorni dopo da un articolo de «L’Europeo» firmato da Tommaso Besozzi), quello che in Italia non si era mai visto in diretta era il cammino verso la morte di un dead man walking. Per cinquantasei lunghissimi giorni, tra il botto di Capaci e l’orrore di via D’Amelio, Paolo Borsellino andò consapevolmente incontro al suo martirio davanti alle telecamere di giornalisti italiani e stranieri che facevano a gara per intervistarlo, alle voci squillanti di membri del governo che si affannavano a indicarlo come l’unico erede di Falcone, salvifico per tutti, ai voti compatti dei parlamentari di un partito, Alleanza nazionale, che in quarantasette lo votarono contro la sua volontà, candidandolo al Quirinale. Per l’Italia ufficiale era l’eroe antimafia che avrebbe garantito la risposta dello Stato dopo Capaci vendicando il suo amico Falcone; per l’Italia sotterranea, ovvero nella consapevolezza di boss, picciotti e uomini degli apparati, era soltanto il prossimo agnello sacrificale. Quella frase «Satò macari Paluzzu» pronunciata dal boss Mariano Agate al botto del 19 luglio, udito da una cella dell’Ucciardone, a poche centinaia di metri da via D’Amelio, fu il sigillo della fine di un’attesa, l’ovvia conclusione di un dramma greco andato in scena in quella estate del 1992 davanti a milioni di telespettatori. L’eroe muore, e improvvisamente l’informazione italiana, come schiacciata dal peso di un segreto troppo fitto e intrecciato con le turbolenze istituzionali del passaggio tra Prima e Seconda repubblica individua la via d’uscita più semplice, ma meno onorevole: trasforma la cronaca in tragedia. E come i greci inventarono la tragedia per rappresentare la volontà degli dei nella punizione dell’eroe buono, facendone affiorare la consapevolezza senza spiegarne le ragioni, così l’informazione italiana ha ritenuto per decenni di indagare sui misteri di quella strage rappresentando l’orrore della sua violenza e i tributi alla memoria delle vittime, senza occuparsi delle ragioni che l’hanno determinata, dribblando i dubbi e ignorando i punti oscuri, concentrandosi solo sui «successi» investigativi di Arnaldo La Barbera, conseguenza del primo (e più grave) dei depistaggi che hanno segnato la Seconda repubblica.

Per qualche giorno, nel 2007, discutemmo se dare al libro L’agenda rossa un titolo diverso: Zona rimozione, con il doppio riferimento al provvedimento mai adottato dallo Stato per proteggere nel modo più ovvio il giudice Paolo Borsellino in via D’Amelio, ma soprattutto per sottolineare come già a pochi anni dalle stragi era in corso quella che il procuratore Roberto Scarpinato ha definito la «sagra della rimozione» collettiva, che a oggi impedisce di raccontare lo stragismo italiano con tutte le sue implicazioni politico-istituzionali, anche sotto i profili eversivi. Il volume L’agenda rossa non fu uno scoop, ma ebbe tra i lettori un effetto ancor più dirompente, perché per la prima volta i fatti (umani, professionali, istituzionali) contenuti, già noti a tutti, erano messi in fila raccontando il «contesto» drammatico e sconcertante di un uomo delle istituzioni, Paolo Borsellino, ultimo baluardo nella lotta contro un nemico invincibile (e solo in parte visibile), che non fu soltanto lasciato solo ma che negli ultimi cinquantasei giorni della sua vita fu stretto in un abbraccio mortale, e indicato come parafulmine da una classe politica ormai in via di dissoluzione, mentre in Parlamento gli allarmi sul pericolo di una stagione eversiva lanciati dal ministro dell’Interno Vincenzo Scotti venivano ridicolizzati dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Era il 2007, la Procura di Caltanissetta aveva aperto due anni prima l’inchiesta sulla sparizione dell’agenda rossa dall’auto blindata tra le fiamme di via D’Amelio, sui giornali le parole di Vincenzo Scarantino venivano spacciate per verità granitiche fino a quando, l’anno successivo, un imbianchino di Brancaccio divenuto killer di fiducia dei boss Graviano, Gaspare Spatuzza, ribaltò la narrazione giudiziaria autoaccusandosi del furto della 126 usata come autobomba. Aspettammo due anni per scrivere L’agenda nera della Seconda repubblica, e raccontare la piccola storia ignobile di Vincenzo Scarantino, prototipo del capro espiatorio da laboratorio, individuato da Arnaldo La Barbera fin dai giorni dell’omicidio dell’agente Agostino (ucciso con la moglie a Palermo il 6 agosto 1989), riproposto in un identikit anonimo già nei giorni immediatamente successivi alla strage, allevato nelle «veline» dei servizi segreti, costruito dagli investigatori nei colloqui al carcere di Pianosa, e via via preservato e difeso con azioni ai confini della legalità nella sua incredibile e sconclusionata verità, pur tuttavia creduta fino ai massimi livelli della Cassazione.

In mezzo, nel 2009, scoprimmo su uno scaffale di una libreria romana, in largo Chigi, a Roma, un libretto giallo dal titolo accattivante Il Petrolio delle stragi scritto da un poeta pesarese, Gianni D’Elia. Dentro c’era raccontato per la prima volta il legame tra i delitti Mattei e De Mauro con l’omicidio Pasolini. Era un’intuizione in forma poetica, raccolta dall’archiviazione giudiziaria del pm di Pavia, Vincenzo Calia, ma sufficiente per mettere a fuoco i collegamenti, fino a quel momento ignorati, tra l’attentato più grave alla sovranità italiana, spacciato per decenni per un incidente aereo, l’omicidio di un giornalista che aveva indagato su quel mistero a Palermo e il pestaggio mortale dell’intellettuale apocalittico, l’unico in Italia a denunciare in presa diretta la strategia della tensione, indicandone i nomi dei responsabili e chiedendo un processo per i dirigenti di allora della Democrazia cristiana. Il libro Profondo nero, che apre questo volume, è stato un viaggio dentro il segreto del potere con radici siciliane, con il suo carico di omicidi e stragi, di ricatti incrociati e depistaggi, che ancora oggi rende quella italiana una cronaca inceppata, ancora arenata nelle secche della Storia, con molte appendici nei traffici di influenze e nelle corruzioni dei colletti bianchi, versione 2.0 di cappucci, grembiuli e compassi che oggi, come sessant’anni fa, continuano a segnare la vita di un paese, ormai entrato dentro i meccanismi di una tecnocrazia diffusa in tutto il pianeta, senza riuscire a scrollarsi di dosso il suo passato più ingombrante con una definitiva operazione verità.

Scritto nel 2019, infine, a ventisette anni da via D’Amelio, il volume DepiStato cerca di comprendere perché il livello della risposta giudiziaria per la strage Borsellino è ancora giudiziariamente tarato sulle responsabilità di tre poliziotti, ultimi anelli di una catena di comando coinvolta a livello decisionale nelle scelte, investigative e giudiziarie, che hanno trasformato un artigiano analfabeta in un provetto stragista, allontanando la verità per due decenni. Un ritardo che se ovviamente non fornisce la «prova regina» di quanto hanno sostenuto il presidente dell’antimafia siciliana Claudio Fava e il fratello del giudice assassinato in via D’Amelio, Salvatore Borsellino, e cioè che «a piazzare il tritolo furono gli stessi che hanno fatto sparire l’agenda rossa», consente di affermare senza timore di querele che quella di via D’Amelio fu una «strage di stato», come ha fatto l’avvocato Fabio Repici, assolto dal gip di Catania Stefano Montoneri dall’accusa di diffamazione nei confronti dell’ex procuratore di Caltanissetta Amedeo Bertone: quell’indagine, sottolineò il gip citando la sentenza del Borsellino Quater, nacque con un vizio d’origine, e cioè con un’iniziativa «decisamente irrituale» (ma in realtà da qualificarsi, più correttamente in lingua italiana, come «illecita», in quanto contraria a norme di legge) del procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che già nella serata del 20 luglio 1992 chiese al numero tre del Sisde (Bruno Contrada) di collaborare alle indagini sulle stragi, sebbene egli non rivestisse la qualità di ufficiale di polizia giudiziaria, e nonostante la normativa vigente precludesse al personale dei servizi di informazione e sicurezza di intrattenere rapporti diretti con la magistratura.

Oggi, a oltre settant’anni da Portella della Ginestra, la prima strage del dopoguerra, nel mainstream mediatico (tv e testate giornalistiche), l’informazione sulla mafia e sulle sue complicità è stata sostituita, tranne qualche eccezione, dalla fiction. E di quella stagione di bombe che hanno cancellato la Prima repubblica resta una memoria funzionale agli schieramenti in campo, spesso circoscritta solo agli addetti ai lavori. E la disattenzione progressiva dei media non può che suscitare un dubbio legittimo e inquietante: il sospetto che chi ha creato in questi anni una lunga teoria di depistaggi (non soltanto a partire da via D’Amelio) abbia brigato nell’ombra anche per condizionare un’informazione di per sé poco incline a deragliare dai binari tranquillizzanti dell’agenda politica del paese, orientando, calmierando e promuovendo di volta in volta le notizie funzionali ai propri disegni di conquista di spazi politico-istituzionali o di mantenimento di equilibri faticosamente raggiunti sul sangue dei servitori dello Stato.

È certamente singolare che l’informazione oggi così attenta alla scarcerazione di Giovanni Brusca e agli scivoloni, indotti o meno, delle parole pronunciate, peraltro autosmentendosi, dal pentito Maurizio Avola, che nega ogni partecipazione dei «servizi» in via D’Amelio, ignori quelle dei procuratori Giuseppe Lombardo e Gabriele Paci che nelle rispettive requisitorie, a Reggio Calabria e a Caltanissetta, hanno sottolineato i gravissimi ritardi e gli errori investigativi che hanno consentito alla ’ndrangheta di restare fuori per due decenni dal contesto stragista, pur essendo coinvolta sin dall’inizio, e al boss Matteo Messina Denaro di evitare un mandato di cattura per la strage di Capaci arrivato solo ventidue anni dopo nonostante quattro collaboratori (Giovanni Brusca, Balduccio Di Maggio, Vincenzo Sinacori e Vincenzo Ferro) avessero indicato fin dall’inizio il superlatitante trapanese come uno dei registi dell’attacco allo Stato. Negligenze gravi, come quelle sottolineate dal pg di Palermo Giuseppe Fici nel processo d’appello per la trattativa Stato-mafia, sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso, e sulla restituzione di tre cellulari mai ufficialmente sequestrati al suo guardaspalle, Giovanni Napoli, favoreggiatore del capo corleonese, custode della fortuna miliardaria del boss nel paese.

Mentre oggi sui social in molti si spingono a ipotizzare scenari stragisti in cui i mafiosi vestono i panni dei figuranti, esecutori di volontà esterne alle finalità stesse dell’organizzazione decimata dalla reazione dello Stato, alimentando di fatto le accuse di complottismo, questo libro che raccoglie settant’anni di cronache di massacri in un paese come l’Italia, dove un presidente del Consiglio che ha retto alternativamente le sorti di governo per oltre due decenni è indagato per strage a Firenze ed è chiamato in causa come socio da uno dei principali boss stragisti, serve anche a ricordare che la verità terribile di questi anni è ancora lungi dall’essere raccontata.

Come ha sottolineato il pg Giuseppe Fici nella sua requisitoria del processo d’appello sulla trattativa, riferendosi ai segreti delle coperture del boss Bernardo Provenzano: «Chi ha agito violando le regole lo ha fatto per la salvezza di un determinato assetto di potere. Anche a costo di calunniare degli innocenti, distruggendo famiglie e seminando dolore e lo ha fatto al di fuori delle dinamiche democratiche. Noi invece vogliamo capire. Lo dobbiamo a tutti i familiari delle vittime».

Massimo Lugli per “il Venerdì di Repubblica” l'11 aprile 2022.

L’ultimo sospettato è un fantasma. E ci mancava solo questa, la svolta surreale e vagamente horror del grande giallo a puntate, l'ultimo capitolo di una serie interminabile di misteri mai risolti. 

Casi giudiziari che si snocciolano per decenni, indagini che si aprono, si chiudono, tornano a riaprirsi con la promessa di una svolta sempre attesa e mai in arrivo. Presunti colpevoli che finiscono sotto i riflettori e svaniscono nel buio, innocenti alla gogna mediatica, testimoni che si contraddicono o riacquistano la memoria dopo anni e anni, perizie tecniche in disaccordo, magistrati e poliziotti che si accapigliano tra loro, sentenze capovolte nei vari gradi di giudizio.

I cold case italiani sono un pentolone che ribolle di continuo sotto la fiamma alimentata da titoli d'apertura dei telegiornali, interminabili dissertazioni in diretta, criminologi da salotto, lettere anonime ad avvocati improbabili. E quasi sempre la vittima ha un nome e un volto di donna, da Wilma Montesi a Christa Wanninger, da Milena Sutter a Ida Pischedda, preistoria criminale. Fino a Simonetta Cesaroni. Già, lei, la ventenne di via Poma, la ragazza sulla spiaggia in costume da bagno con un'espressione che vorrebbe essere disinvolta e un sorriso strano. 

È il Giallo per eccellenza, una serie tv interminabile che sembra riservare un colpo di scena a ogni nuova stagione. Fino agli ultimi sviluppi recenti. 

Dopo Pietrino Vanacore, il portiere del palazzo, arrestato e scarcerato in meno di un mese, dopo Federico Valle, nipote di un noto ingegnere che abitava a via Poma e che fu indagato e scagionato senza mai arrivare a un processo, dopo Raniero Busco, l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, condannato a ventiquattro anni in primo grado e definitivamente assolto in Appello e Cassazione, adesso nel mirino è finito un personaggio scomparso sei anni fa: indagini riaperte per un processo che non si farà mai. 

L'omicidio di via Poma, 7 agosto del 1990, sembra uno di quei casi destinati a restare nella storia, forse il più noto tra i gialli senza colpevole (o con un colpevole molto dubbio) che tengono i lettori e gli spettatori della cronaca nera col fiato perennemente sospeso.

Il nome del "sospettato", tenuto nascosto nei primi giorni dopo l'uscita della notizia, è finito per trapelare come inevitabilmente succede in questi casi. Ed è un nome che pesa: Francesco Caracciolo di Sarno, ex presidente dell'Associazione italiana alberghi della gioventù, l'ufficio dove Simonetta lavorava da poco e che avrebbe lasciato il giorno successivo al delitto. 

Famiglia blasonata, personaggio corrusco e scontroso che si era rintanato da tempo nella sua tenuta di Tarano, nella Bassa Sabina, Caracciolo era entrato e uscito dall'inchiesta a passo di carica.

Il suo alibi («Avevo accompagnato mia figlia e un'amica all'aeroporto a prendere un aereo e poi mi sono fatto riaccompagnare a Tarano») sembrava inattaccabile e, del resto, in quei primi giorni la Squadra mobile puntava tutto sul portiere, Vanacore. Ricordiamolo: l'uomo si uccise alla vigilia della sua nuova testimonianza in Corte d'Assise durante il processo Busco: rimorso? Paura di venire smascherato? O addirittura un omicidio mascherato da suicidio? Altri misteri. Sta di fatto che, secondo la pm Ilaria Calò, Vanacore avrebbe avuto comunque un ruolo nel delitto, se non altro di copertura.

La nuova pista, in realtà, non è affatto nuova. Di Francesco Caracciolo di Sarno si parlò in un'informativa della Digos, una delle tante carte dimenticate, in cui l'uomo veniva definito più o meno un molestatore seriale.

Nel 2010, una testimone che smentiva la sua versione fu ascoltata dalla polizia ma la cosa finì lì. È stata la pubblicazione di un romanzo Il giallo di via Poma, edizioni Newton Compton, firmato da chi scrive e da Antonio Del Greco, a riaccendere i riflettori sulla vicenda della ragazza uccisa con ventinove pugnalate. Del Greco è l'ex funzionario della mobile che diresse le indagini sul giallo assieme a Nicola Cavaliere: fu lui ad arrestare Vanacore e, successivamente, a indagare su Federico Valle.

Dopo l'uscita del libro, l'ex poliziotto fu letteralmente bersagliato di segnalazioni, sospetti, suggerimenti, insinuazioni più o meno velenose. La maggior parte erano spazzatura ma, tra le tante soffiate fasulle, è arrivata quella, molto più consistente, che puntava a Caracciolo. Ascoltato in Procura per oltre cinque ore, Del Greco ha ripreso in mano tutti gli appunti e la documentazione sull'omicidio.

Disincantato e scettico per natura, l'ex investigatore evita di sbilanciarsi ma sembra convinto che, stavolta, la pista potrebbe reggere - e se ci crede lui Il problema è che l'inchiesta è diretta dallo stesso pubblico ministero che, dodici anni fa, sostenne l'accusa in quel delirio giudiziario che fu il processo a Raniero Busco e riuscì perfino a vincerlo: 24 anni di galera per il segno di un morso che forse non era un morso sul seno della ragazza e per una traccia di Dna sul reggiseno.

Una follia che, fortunatamente, non costò all'ex fidanzato neanche un giorno di carcere: i due successivi gradi di giudizio ristabilirono una verità fin troppo evidente: innocente come Abele. 

Cambiare strada, ammettere l'errore e ricominciare da capo è segno di intelligenza e duttilità e bisogna vedere fino a che punto la Procura sarà in grado di smentire se stessa. Una sola cosa è certa: l'inchiesta si fermerà dove dovrebbe cominciare, visto che non si possono fare accertamenti su una persona deceduta né tantomeno condannarla post mortem. La verità, almeno quella ufficiale, sancita da una sentenza definitiva, insomma, resterà sempre nascosta.

Restano il dolore dei familiari di Simonetta, la delusione degli investigatori di allora, l'interesse quasi maniacale per un omicidio che continua a dilagare e ad alimentare ricostruzioni più o meno deliranti che rimbalzano di continuo sui social e sui siti sempre più frequentati di crime investigation.

I grandi gialli, dicevamo, sono quasi sempre al femminile. Gli ingredienti perché una storiaccia di cronaca nera diventi un mistero infinito sono sempre gli stessi: la vittima deve suscitare empatia e compassione, nell'indagine deve comparire un presunto colpevole, gli indizi debbono essere labili o poco convincenti. Ciliegina sulla torta: il caso deve prestarsi a quelle dietrologie tipicamente italiane che fantasticano di servizi segreti deviati, grandi intrighi internazionali e, magari, misteri d'Oltretevere.

Già perché un altro viso di ragazza che contende a Simonetta il primato di vittima più nota d'Italia è quello di Emanuela Orlandi. 

Quindici anni, figlia di un dipendente del Vaticano, l'adolescente uscì da una lezione di musica il 22 giugno del 1983 e scomparve nel nulla. Di lei si è saputo tutto senza sapere niente. L'elenco delle piste investigative potrebbe riempire un'antologia del crimine: rapita dalla Banda della Magliana come ritorsione per i fondi della gang bloccati dallo Ior, la Banca vaticana, uccisa durante un'orgia di pedofili in clergyman, sequestrata da agenti segreti bulgari, seppellita sotto un palazzo romano, ricoverata in permanenza in una clinica psichiatrica a Londra, viva e madre in Turchia, avvistata in vacanza su un'isola greca. 

Rivelazioni a tassametro, spiate di detenuti infami, rivelazioni in diretta a Chi l'ha visto?, una tonnellata di fiction, docufiction, romanzi, dibattiti televisivi, film, serie tv, disperati appelli del fratello che cerca ancora la verità con implacabile ostinazione. Risultati: zero. 

La sceneggiata più assurda fu la riapertura dell'ossario della basilica di Sant' Apollinare in Classe, dove fu sepolto Enrico De Pedis, il "Renatino" della Magliana, con tanto di analisi sui resti umani che risalivano al 1500, ovviamente sotto l'occhio onnipresente delle telecamere. Indagini spettacolo destinate a dissolversi come fumo. 

Ma l'esempio più eclatante di inchiesta mediatica senza risultati fu il caso di Denise Pipitone, la bimba di 4 anni scomparsa all'ora di pranzo del 1° settembre 2004 a Mazara del Vallo e mai ritrovata.

Faida familiare, visto che la piccola era nata da una relazione adulterina? Vendetta? Ritorsione? Indagini difficili, in un contesto intriso di omertà e diffidenza, con personaggi pericolosamente vicini alle cosche locali e, sembra, alcuni investigatori collusi. Dopo anni di silenzio, l'ex pm, Maria Angioni, trasferita al Tribunale del lavoro, diventa una specie di star televisiva e riapre il caso.

 Parla, accusa, denuncia, indica nuove piste a tamburo battente e riesce nella difficile impresa di comparire in tre diversi programmi nel giro di un solo giorno. «Io so dov' è, ha due figli, vive all'estero ed è felice», annuncia, sibillina, a Storie Italiane, il programma condotto da Eleonora Daniele, davanti agli ospiti basiti e ai telespettatori esterrefatti. E non demorde neanche quando le sue rivelazioni verranno puntualmente smentite dagli inviati delle televisioni, che sembrano gli unici a indagare veramente mentre la magistratura sonnecchia. 

Conclusione: l'indagine viene nuovamente chiusa e l'ex pm Angioni finisce sotto processo per ostacolo alle indagini e falsa testimonianza. Per consolidare la fiducia nella magistratura non è decisamente il massimo.

Ma in Italia, del resto, le toghe dei giudici non sono state mai particolarmente amate, forse per via di tre gradi di giudizio che a volte, se la Cassazione annulla un dibattimento, possono diventare quattro o cinque con sentenze stravolte o capovolte nel giro di pochi mesi. Chi ha ragione? L'ultimo che parla?

Anche per questo il caso di Marta Russo si è lasciato dietro uno strascico di polemiche e dubbi che durerà almeno per un paio di generazioni. La ragazza, studentessa di giurisprudenza (voleva diventare magistrato), fu uccisa da un colpo di pistola calibro 22 in un vialone dell'università La Sapienza, il 9 maggio del 1997. 

Omicidio senza movente, arma del delitto scomparsa, classico processo indiziario: il 15 dicembre del 2003 la Corte di Cassazione condanna in via definitiva gli assistenti universitari Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, a 5 anni e 4 mesi e a 4 anni e 2 mesi di reclusione, una pena quasi simbolica. Una sentenza contestata in ogni modo possibile e immaginabile: troppo blanda, di compromesso, ingiustificata, "pilotata", assurda. I due non hanno mai confessato e molti continuano a ritenerli innocenti. I dubbi, comunque, restano.

È chiuso per sempre, invece, un altro dei gialli romani più clamorosi dell'ultimo mezzo secolo: l'omicidio di Alberica Filo della Torre, strozzata nella sua villa dell'Olgiata il 10 luglio 1991, l'anno successivo al delitto di via Poma, una sorta di maledizione estiva capitolina. Classico giallo alla Poirot, con ingredienti da best seller: una nobildonna fascinosa assassinata mentre stava per festeggiare i dieci anni di matrimonio, una rosa di sospettati ristretta, una famiglia con legami nel mondo della finanza e della politica.

Manca solo un detective impomatato che se ne esca con «L'assassino è in questa stanza». 

Per vent' anni gli investigatori si arrabattarono dietro le piste più folli senza cavare un ragno dal buco. Un magistrato piuttosto noto arrivò a ipotizzare che un unico serial killer avesse ucciso Simonetta, Alberica e, perché no, anche altre tre o quattro donne romane. Il caso fu archiviato e riaperto nel 2011 dopo ripetute istanze della famiglia. 

Ai nuovi investigatori bastarono pochi giorni per trovare una macchia di sangue mai analizzata e individuare il colpevole: Manuel Winston Reyes, ex domestico della villa, licenziato dalla contessa.

L'assassino è il maggiordomo, roba da Agatha Christie. Winston Reyes confessò, si beccò 16 anni, è uscito pochi mesi fa ed è tornato dalla figlia, battezzata Alberica come la sua vittima. 

"Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem", dice il principio del Rasoio di Occam che risale al XIV secolo, "Non moltiplicare gli elementi più del necessario". Un concetto chiarissimo: a parità di fattori, scegli la spiegazione più semplice. Funziona, ma molti investigatori sembrano essersene dimenticati. O magari non averlo mai sentito nominare. 

·        Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

Circeo: Greta Scarano racconta la serie sul massacro che sconvolse l'Italia. Francesco Canino il  23/09/22 su Panorama.

1975, quartiere popolare della Montagnola: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez, due adolescenti piene di vita e di sogni, si preparano per uscire con dei ragazzi della Roma bene, da poco conosciuti. Quando accettano di accompagnarli a una festa al mare, non si immaginano che quella serata presto diventerà un incubo: sequestrate, picchiate e violentate per ore in una villa al Circeo, dove verranno rinchiuse nel bagagliaio di una macchina perché credute morte. Ecco compiuto il massacro del Circeo. Ripercorre le fasi del processo seguito ad uno dei casi di cronaca che più hanno sconvolto l'opinione pubblica italiana Circeo, la serie disponibile su Paramount+ Original, prodotta da Cattleya in collaborazione con VIS, Paramount+ e RAI Fiction con la giovanissima Ambrosia Caldarelli nei panni della Colasanti e Greta Scarano in quelli di Teresa Capogrossi, un'ambiziosa avvocata (è un personaggio di fantasia) che imparerà a prendersi cura della sopravvissuta al dramma, dimostrando che può vincere il processo e cambiare la legge. Proprio Greta Scarano racconta a Panorama.it il progetto, quanto sia stato complicato calarsi nel ruolo e quanto la serie sia un modo per rivendicare quel senso di giustizia che la Colasanti ha ricercato per tutta la vita.

La mattina del 1° ottobre, i giornali, le televisioni, le radio aprono tutti con la stessa notizia: in un’auto a viale Pola sono state trovate due ragazze. Nude, avvolte nelle coperte. Una è morta. L’altra è viva: Donatella. Il delitto del Circeo scuote l'Italia e il processo che ne segue viene raccontato quotidianamente da tutti i giornali. Donne da ogni angolo del Paese si presentano al tribunale di Latina per sostenere Donatella e assicurarsi che gli assassini vengano condannati all'ergastolo. Ciò che però la ragazza non sa è che dal quel momento in poi non sarà mai più semplicemente Donatella, ma sempre e solo “la sopravvissuta del Circeo”. Per tutti, infatti, Donatella diventerà un simbolo del movimento femminista e in gioco non c'è solo il desiderio di giustizia per lei e per Rosaria, ma ci sono anche i diritti di tutte le donne.

La posta in gioco è alta: cambiare la legge e la mentalità di un Paese in cui lo stupro non è considerato un crimine contro la persona ma un’offesa alla pubblica morale. A difendere Donatella c’è Teresa Capogrossi (personaggio di fantasia interpretato appunto da Greta Scarano), la giovane e ambiziosa avvocata che lavora prima per il noto penalista Fausto Tarsitano e poi per Tina Lagostena Bassi, l’ “avvocato delle donne” impegnata in prima linea per la riforma della legge sulla violenza sessuale. Teresa è una donna idealista e appassionata, mossa da una forte sete di giustizia: come una sorella maggiore, imparerà a prendersi cura di Donatella dimostrando che si può vincere il processo e anche cambiare la legge. Ad ogni costo. Così la serie in tre puntate diretta da Andrea Molaioli diventa un lungo viaggio verso la giustizia in cui le due donne impareranno molto l’una dall’altra, in una ricerca costante della propria identità e del proprio ruolo nel mondo. Circeo è scritta da Flaminia Gressi, Lisa Nur Sultan e Viola Rispoli.

·        La vicenda della Uno Bianca.

"Mai l'avrei pensato". Quegli agenti dietro rapine e omicidi. Francesca Bernasconi il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Per oltre sette anni, la Banda della Uno Bianca terrorizzò l'Emilia-Romagna e le Marche. I criminali erano quasi tutti poliziotti. L'uomo che disegnò i loro identikit: "Mai avrei pensato a un collega".

Per sette anni agirono indisturbati, seminando terrore e morte in Emilia-Romagna e Marche. Oltre cento le azioni criminali portate a termine, altrettanti i feriti e 23 le persone rimaste uccise. Poi i killer della Banda della Uno Bianca vennero individuati e fermati. Ma nessuno si aspettava che quei criminali senza scrupoli nel tempo libero lavorassero nei commissariati di Bologna, Rimini e Cesena. Tutti i membri della banda tranne uno infatti erano dei poliziotti. A guidarne le azioni erano due dei tre fratelli Savi, Roberto e Fabio, mentre gli altri componenti del gruppo vi orbitavano intorno erano Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

I criminali nascosti dietro una divisa

Nessuno si immaginava che dietro alla divisa da poliziotti potessero nascondere una doppia vita, fatta di rapine, agguati e omicidi. Difficile per chi indagava sospettare che un collega potesse essersi reso colpevole di crimini tanto atroci. Nemmeno il numero uno dei disegnatori di identikit, Giovanni Battista Rossi, che tratteggiò a matita il volto dei fratelli Savi, si rese conto di aver disegnato un collega: "Collega, guarda come gli assomigli", disse Rossi a un agente, dopo aver disegnato il volto di uno dei banditi. Ma la possibilità che quel collega fosse proprio il killer che stavano cercando non lo sfiorò nemmeno: "Mai avrei pensato una cosa del genere", ha rivelato a ilGiornale.it.

"Do volto alle paure". Un identikit per incastrare i criminali

L'identikit disegnato da Rossi rappresentava Roberto Savi, assistente capo della polizia di Bologna, considerato il capo della banda. In Polizia dal 1976, Roberto aveva 33 anni quando iniziò con le rapine. Era l’addetto alla sala operativa, quella cioè che riceve le segnalazioni di allarme e smista le auto. Per quanto riguarda la vita privata, al momento dell’arresto, Roberto era separato dalla moglie, con la quale aveva avuto un figlio, ed era andato a vivere con una ragazza nigeriana di 21 anni. Savi, come riporta l’Unità del 23 novembre 1994, venne "arrestato mentre stava prendendo servizio". In un garage gli agenti trovarono un vero e proprio arsenale: "Armi lunghe e corte, esplosivo, circa 230 milioni di lire in contanti".

Dopo l’arresto di Roberto, gli inquirenti iniziarono a cercare Fabio Savi. Il secondo fratello, 34 anni al momento del fermo, finì in manette pochi giorni dopo, intercettato in un Autogrill dell’autostrada Udine-Tarvisio, l’ultimo prima del confine con l’Austria. Fabio aveva provato a passare il concorso per entrare in polizia ma, non essendoci riuscito, lavorava in proprio e, dopo essere stato sposato e aver avuto un figlio, conobbe una donna romena di origine ungherese, Eva Mikula, con la quale viveva in Italia. Fu proprio la donna, fermata con lui all’Autogrill, a raccontare molti dettagli agli inquirenti. A casa di Fabio vennero trovate altre armi, polvere da sparo, baffi finti, parrucche e 80 milioni di lire in contanti. 

Anche il terzo fratello, Alberto Savi, era un poliziotto come Roberto. Sposato, con un figlio. Era il più piccolo dei tre fratelli e, nel 1994 quando venne arrestato, aveva 29 anni. In Polizia dal 1983, era in servizio al commissariato di Rimini come agente delle volanti, dopo essere stato a Ferrara e all’aeroporto di Miramare. "Se è davvero lui il killer della Uno farebbe bene a spararsi un colpo in testa", avrebbe detto riferendosi al fratello Roberto, quando venne resa nota la notizia dell’arresto. Gli agenti lo fermarono alla stazione, mentre aspettava il treno per Roma, dove era diretto per discutere il suo trasferimento. "Anch’io ero nella banda - ammise dopo l’arresto, secondo quanto riportato nell’Unità del 27 novembre 1994 - È stato un errore di gioventù. Ho iniziato nel 1987, con una rapina ad un casello dell'autostrada".

Oltre ai tre fratelli Savi, parteciparono ai colpi tra Emilia-Romagna e Marche anche altri tre poliziotti: Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli. Il primo, 34 anni al momento dell’arresto, in Polizia dal 1982, lavorava insieme a Roberto Savi, alla sala operativa di Bologna, dopo essere stato a Milano e a Firenze. Al suo arresto si arrivò grazie a una videocassetta trovata nell’arsenale di Roberto. Marino Occhipinti, 29enne al tempo, faceva parte della sezione Narcotici, dopo aver lavorato sulle volanti insieme a Roberto Savi, venne arrestato a casa sua, nel suo giorno di riposo, mentre Luca Vallicelli, in Polizia dal 1986 e agente scelto a Cesena, venne fermato mentre usciva da un bar.

Sette anni di terrore: così agiva la banda della Uno Bianca

I numeri del terrore

Sette. È il numero degli anni di paura, sangue e morte che hanno avvolto Emilia-Romagna e Marche, martoriate dal 1987 al 1994. Ma a questo vanno aggiunti tutti gli altri numeri della banda. Primo fra tutti, l’uno, corrispondente al modello dell’automobile maggiormente usata durante i colpi. Il motivo di questa scelta lo ha spiegato Fabio Savi a Franca Leosini, nel programma Storie Maledette: "Era quella più diffusa". Anche Roberto fece riferimento all’auto, specificando che la Uno "era una macchina anonima. Rubavamo quel modello di auto per non essere riconosciuti". In realtà, la Uno non è l’unica automobile a essere stata guidata nei colpi: "Usavamo macchine di tutti i tipi", precisò Fabio.

Poi ci sono le cifre, da brividi, legate alle azioni criminali: 103 i colpi effettuati, secondo il Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, di cui 91 tra rapine e tentate rapine, 102 i feriti e 23 le persone che hanno perso la vita a causa delle azioni del gruppo guidato dai fratelli Savi. Come precisato sul sito della Polizia penitenziaria, le rapine ebbero come obiettivi 22 banche, 22 caselli autostradali, 20 distributori di benzina, 15 supermercati (di cui 9 Coop), 9 uffici postali e una tabaccheria. 

E poi ci sono i numeri che fanno capire la totale impotenza di chi si è trovato faccia a faccia con i banditi della Uno Bianca. Sono tutti quelli che corrispondono alle età delle vittime: 21 sono gli anni che avevano le due vittime più giovani, Mauro Mitilini e Andrea Moneta, i due carabinieri uccisi al quartiere Pilastro a Bologna, mentre 66 sono quelli di Pietro Capolungo, il più anziano ucciso dalla Banda della Uno Bianca. Nel mezzo ci sono i carabinieri 22enni Cataldo Stati e Umberto Erriu, il poliziotto 41enne Antonio Mosca colpito a Cesena, i militari assassinati al Pilastro, le guardie giurate uccise durante le rapine o le tentate rapine e i comuni cittadini, colpevoli di aver ripreso verbalmente i banditi o di aver cercato di annotare la targa dell’auto dei criminali.

Gli arresti e le condanne

Il primo a essere arrestato fu Roberto Savi. Le manette scattarono ai polsi del più grande dei tre fratelli la sera del 21 novembre 1994 mentre si trovava al lavoro, in questura a Bologna. Gli arresti di tutti i componenti della banda avvennero nel 1994.

Per la Banda della Uno Bianca non si è svolto un solo maxiprocesso, ma tre distinti processi a Bologna, Rimini e Pesaro. Nessuno quindi ha preso in considerazione l’intera catena di delitti. Fabio e Roberto Savi sono stati riconosciuti responsabili di quasi tutti i fatti di sangue attribuiti alla banda, mentre Alberto Savi, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli sono stati considerati come membri associati, gregari, che hanno partecipato solamente ad alcuni colpi.

In particolare, secondo quanto ricorda Ursula Franco, Alberto Savi partecipò ad alcune rapine ai caselli autostradali, all’assalto a una Coop e a un ufficio postale e alla strage del Pilastro, mentre Marino Occhipinti prese parte a una rapina terminata in tragedia, con l’omicidio della guardia giurata Carlo Beccari. Pietro Gugliotta si unì alla banda per alcune rapine e l’assalto a uno degli uffici postali, mentre Luca Vallicelli partecipò ad una sola rapina incruenta.

Il processo in Corte d’Assise di Rimini si concluse il 6 marzo del 1996. Roberto, Fabio e Alberto Savi vennero condannati all'ergastolo e all'isolamento diurno. Tredici anni di reclusione, invece, per Pietro Gugliotta. Anche a Bologna, il 31 maggio 1997, i tre fratelli Savi vennero condannati all’ergastolo, insieme a Occhipinti, mentre Gugliotta a 18 anni e Vallicelli patteggiò a 3 anni e 8 mesi. Inoltre la Corte condannò il Ministero degli Interni a risarcire le parti civili.

Che fine hanno fatto i membri della banda?

Dopo le condanne, tutti i membri della banda finirono in carcere per scontare la loro pena. I tre fratelli Savi si trovano ancora in carcere. Roberto ha chiesto la grazia, ricevendo per tre volte un parere sfavorevole; Fabio aveva fatto richiesta, respinta, di usufruire del rito abbreviato a posteriori; Alberto, dopo 23 anni di carcere, ha iniziato a beneficiare di permessi premio. Nel 2008 è stato invece scarcerato Pietro Gugliotta, dopo 14 anni di reclusione, mente nel 2018 Marino Occhipinti è stato ritenuto "non socialmente pericoloso" e ha ottenuto la libertà. Luca Vallicelli è tornato libero dopo aver scontato la sua pena.

Banda della Uno bianca Marino Occhipinti libero: "Non è più pericoloso"

Ma quali furono i moventi che spinsero i banditi ad agire? "Io volevo pagare i debiti", dichiarò a Franca Leosini Fabio Savi. Anche secondo il sostituto procuratore Daniele Paci, "la motivazione principale era far quattrini", precisando però, in un’intervista a Pandora Rivista, che alcuni delitti "non hanno nulla a che fare con motivi di lucro".

Anche il pubblico ministero Walter Giovannini, durante il processo di Bologna, ha parlato dell’assenza del movente del denaro in alcuni delitti, definendo la vicenda "caratterizzata in modo ritmico da totale indecifrabilità, incomprensibilità, totale assenza di giustificazione che non sia una giustificazione da ricercare nei meandri di una mente malata", disse, ricordando "episodi di così gratuito spargimento di sangue che forse il movente era altro, insondabile, inspiegabile, irrazionale". 

D’accordo con queste conclusioni anche la presidentessa dell’Associazione dei familiari delle vittime della Uno Bianca, Rosanna Zecchi, che dichiarò: "Non accettiamo la tesi che lo facevano solo per lucro, va al di là della nostra comprensione". Per questo, recentemente, i famigliari delle vittime sono tornati a chiedere la verità sull’intera vicenda, facendo luce su eventuali complici e sui mandanti. "Siamo sempre di più familiari delle vittime a chiedere la verità attraverso la riapertura completa delle indagini - hanno dichiarato i parenti di Otello Stefanini, Andrea Moneta e Mauro Mitili, come riportato da Ansa - non solo per la strage del Pilastro".

Un contributo in questo senso potrebbe arrivare dalla digitalizzazione degli atti sulla Banda della Uno Bianca, che era stata chiesta proprio dall'associazione. Infine, ribadendo la richiesta di una "completa verità", i familiari delle vittime hanno annunciato che continueranno "a contrastare permessi e sconti di pena per chi ha terrorizzato un'area del nostro Paese con crimini efferati e apparentemente inspiegabili". Francesca Bernasconi

Sette anni di terrore: così agiva la banda della Uno Bianca. Francesca Bernasconi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

La storia della banda che per 7 anni macchiò di morte e terrore Emilia-Romagna e Marche e che sconvolse l'Italia. Dietro ai killer anche cinque poliziotti.  

Prima le rapine ai caselli stradali, poi le banche e i furgoni portavalori, fino agli agguati a cittadini indifesi, poliziotti e carabinieri. Sette anni di terrore chiusero in una morsa di paura l’Emilia-Romagna e le Marche, da Bologna e Cesena, passando per Rimini, fino a Pesaro. Protagonista dei numerosi fatti di sangue una banda, formata da sei uomini, cinque dei quali poliziotti, diventata nota con il nome del modello di auto solitamente usato durante i colpi: una Fiat Uno bianca. Dal 1987 al 1994 la banda della Uno Bianca ha commesso centinaia di delitti, uccidendo decine di persone e ferendone oltre cento. A lungo le forze dell’ordine hanno indagato per cercare di dare un volto a quei criminali, che poi si rivelarono essere dei colleghi. In carcere finirono i tre fratelli Savi, due dei quali (Roberto e Alberto) erano poliziotti, mentre il terzo, Fabio, era un camionista, e altri agenti di polizia, Pietro Gugliotta, Marino Occhipinti e Luca Vallicelli.

Dalle rapine ai caselli agli omicidi

Oltre cento sono i colpi attribuiti alla banda della Uno Bianca. Il primo in ordine cronologico corrisponde alla rapina al casello di Pesaro, del 19 giugno 1987. Quella volta il bottino fu di 1.300.000 lire. Poi, nel giro dei successivi due mesi, vennero messi a segno altre dodici rapine, tutte ai danni di caselli autostradali, tranne una, che venne effettuata in un ufficio postale di Coriano. Così, dai caselli autostradali si passò alle rapine negli uffici postali e, successivamente, la banda prese di mira i supermercati, soprattutto Coop. Fino a qui, la banda si era lasciata alle spalle solamente un ferito.

Tutto cambiò nell’ottobre del 1987, quando la banda tentò un’estorsione. Dopo aver crivellato di colpi le vetrine di un’autoconcessionaria di Rimini, i criminali inviarono al proprietario una lettera con una richiesta di 50 di lire. La somma avrebbe dovuto essere consegnata sulla A14: la vittima dell’estorsione, secondo le indicazioni dei malviventi, avrebbe dovuto fermarsi a ogni cavalcavia, a uno dei quali avrebbe trovato una corda, dove avrebbe dovuto legare la valigetta coi soldi, per poi andarsene. Il proprietario dell’autosalone avvisò subito la polizia di Rimini, che intervenne con l’obiettivo di smascherare i ricattatori. Il 3 ottobre 1987 l’uomo si recò all’appuntamento con la propria auto, ma nel bagagliaio era nascosto un agente di polizia, mentre un’altra auto con a bordo tre poliziotti seguiva quella della vittima dell’estorsione.

Arrivati vicino al cavalcavia al chilometro 104 della A14, a poca distanza dal casello di Cesena, l’auto della polizia venne investita da una raffica di colpi e, durante il seguente conflitto a fuoco, vennero feriti i tre poliziotti che viaggiavano a bordo: Antonio Mosca, Addolorata Di Campi e Luigi Cenci. Mosca morì nel luglio del 1989, dopo un lungo periodo di sofferenza, e viene considerato la prima vittima della banda della Uno Bianca.

Dopo questo colpo i criminali in divisa passarono alle rapine nei supermercati e, durante quella alla Coop di Rimini, il 30 gennaio 1988, venne uccisa la guardia giurata Giampiero Picello, 41 anni. Erano circa le 18 quando i criminali iniziarono a sparare, uccidendo Picello, ferendo gravemente un’altra guardia giurata e altre persone, tra cui una bambina di 9 anni. "Ero andata a fare la spesa con mio padre, mia madre e mia sorella di tre anni - raccontò quella bambina al Corriere della Sera, diversi anni dopo - Mentre eravamo sulla rampa che portava all’ingresso della Coop sentimmo degli scoppi alle nostre spalle [..] Poi sentii ancora le urla di mio padre che ci dice di stare giù perché stanno sparando".

A questo episodio seguirono una serie di rapine e tentate rapine. Durante quella compiuta in un supermercato a Casalecchio di Reno ci fu un’altra vittima: di nuovo guardia giurata, Carlo Beccari, 26 anni, che stava prelevando l’incasso giornaliero insieme a tre colleghi, che rimasero feriti.

I carabinieri uccisi a Castel Maggiore 

Dopo altri due colpi, a un casello e a una Coop, si arrivò al 20 aprile del 1988. La lista di morti legati alla Uno Bianca si allungò. A perdere la vita furono due carabinieri di 22 anni, Cataldo Stasi e Umberto Erriu, durante un giro di perlustrazione nelle zone più isolate di Castel Maggiore (Bologna). I militari si avvicinarono all'auto della banda, puntandovi contro il piccolo faro della vettura per illuminare. Poco dopo, i due carabinieri vennero investiti da una raffica di colpi, che li lasciò a terra, senza vita.

Come si legge nella Sentenza della Corte d’Assise di Bologna del 31 maggio 1997, Roberto e Fabio Savi ammisero di essere i responsabili della morte dei due carabinieri. "Sparai io con la 357 e Fabio con un’altra pistola a tamburo", disse Roberto raccontando l’episodio: "Eravamo a Castel Maggiore per la rapina al furgone portavalori, ce ne stavamo andando perché le guardie giurate erano fuori orario […] Ricordo che noi stavamo andando via quando arrivarono i carabinieri. Noi dicemmo che andavamo di fretta e che eravamo in ritardo. I due militari tirarono fuori la pistola e ci chiesero i documenti. A quel punto noi sparammo. Non ricordo se anche i due militari riuscirono a sparare. Anche se direi di no". Anche Fabio ammise il duplice omicidio, dichiarando, come si legge in sentenza: "lo abbiamo fatto io e mio fratello Roberto". E descrivendo la dinamica "in maniera del tutto corrispondente alla versione fornita dal complice".

Nel corso del 1988 la banda compì ancora diverse rapine a caselli, supermercati e uffici postali, collezionando altri feriti e un bottino complessivo da centinaia di milioni di lire. Successivamente, il 26 giugno 1989, i killer colpirono di nuovo: poco dopo aver rapinato la Coop di Corticella, i banditi incontrarono il 52enne Adolfino Alessandri, che li apostrofò con un "cosa fate, delinquenti?". Tanto bastò a spingere i membri della banda a uccidere l’uomo. Seguirono ancora una serie di rapine, tra cui quella all’ufficio postale di Bologna, che causò una quarantina di feriti, uno dei quali, Giancarlo Armorati, morì successivamente. La stessa sorte di Alessandri toccò anche a Primo Zecchi, colpevole di aver assistito a una rapina in una tabaccheria e di aver provato a prendere la targa dell’auto dei criminali.

Nel 1990 la banda della Uno Bianca si rese protagonista di diverse azioni delittuose e di altri tre omicidi. I primi, in ordine cronologico, furono quelli di Rodolfo Bellinati e Patrizia Della Santina, colpiti dai criminali che avevano aperto il fuoco sul campo nomadi di via Gobetti a Bologna. Era il 23 dicembre 1990, due giorni prima di Natale. Appena quattro giorni dopo, una Uno bianca si fermò a un distributore di benzina a Castel Maggiore e due uomini armati chiesero al benzinaio di consegnare l’incasso della giornata. Prima di andarsene, i criminali uccisero Luigi Pasqui. Ma l’uomo non fu l’unica vittima di quel giorno: anche Paride Pedini venne ucciso, probabilmente perché aveva visto la banda cambiare auto, a Trebbio di Reno.

La strage del Pilastro

Un altro agguato, dopo gli omicidi a Castel Maggiore, coinvolse i carabinieri. Era il 4 gennaio del 1991. Ore 21.45. Una pattuglia dell’Arma stava transitando nel quartiere Pilastro di Bologna. Dopo aver imboccato via Casini, l’auto venne investita dai primi colpi, che ferirono mortalmente il militare alla guida, Otello Stefanini. L'auto dei carabinieri sbandò, prima contro il marciapiede, rompendo la ruota anteriore e lo sterzo, e poi finì contro quattro cassonetti. Quando l’auto dei militari si fermò, per gli altri due carabinieri a bordo, Mauro Mitilini e Andrea Moneta, non c’era più scampo: gli assassini iniziarono a sparare addosso ai sopravvissuti, dandogli poi il colpo di grazia. I killer del Pilastro erano a bordo di una Fiat Uno bianca. La stessa macchina, notarono inquirenti, stampa e opinione pubblica, comparsa in molti degli omicidi compiuti nella zona di Bologna negli ultimi mesi.

Roberto e Fabio confesseranno di essere i killer dei poliziotti e daranno la loro versione, nel corso degli interrogatori e del processo di Bologna del 1994. "All’inizio di via Casini venimmo sorpassati da un’auto dei carabinieri e pensammo che questa stesse per fermarci - dichiarò Roberto - Allora esplosi dal finestrino del posto anteriore destro alcuni colpi in direzione del baule della vettura […] C’eravamo io, Alberto alla guida, Fabio dietro". La loro presenza al Pilastro venne spiegata con la necessità di procurarsi delle auto da usare nei successivi colpi. "Noi pensammo che i carabinieri stessero scappando via - continuò Roberto - poi circa 100-150 metri più avanti la macchina era ferma, questi erano scesi e stavano sparando verso di noi, io rimasi ferito nel momento in cui stavo scendendo dalla macchina".

La strage del Pilastro fu uno dei crimini più efferati commessi dalla banda della Uno Bianca e quello che ha maggiormente sconvolto l’opinione pubblica, tanto che l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì la strage "un atto di guerra". Quella sera a perdere la vita non furono solo tre carabinieri, ma tre ragazzi poco più che ventenni, che lasciarono madri, padri, mogli, figli, fratelli e sorelle a piangere la loro morte. 

Gli ultimi colpi

L’ultima strage non fermò la banda della Uno Bianca, che per altri due anni continuò a seminare terrore e morte tra Emilia-Romagna e Marche. Il 20 aprile 1991 perse la vita il titolare di una stazione di servizio di Borgo Panigale, il cinquantenne Claudio Bonfiglioli, che stava ritirando l’incasso del self-service automatico. A terra, in mezzo al sangue, rimasero la gran parte dei soldi appena prelevati dall’uomo.

Il 2 maggio dello stesso anno, a perdere la vita furono Licia Ansaloni, 48 anni, e Pietro Capolungo, 66. Come riporta il Comune di Bologna, che ha ricostruito una mappa degli atti delittuosi della banda, intorno alle 10.15 di quella mattina, un uomo entrò nell’armeria di Licia Ansaloni, in pieno centro a Bologna, chiedendo di visionare alcune pistole. Quell’uomo era Fabio Savi, che poco dopo fu raggiunto da Roberto. A scoprire i corpi di Ansaloni e Capolungo, a cui i killer avevano sparato a distanza ravvicinata, furono un cliente e un negoziante. Anche questa volta, i soldi erano rimasti al loro posto. A mancare erano, invece, due pistole.

Il 19 giugno, la banda si recò distributore di benzina di Cesena, dove trovò il gestore Graziano Mirri, 55 anni. Quando la Uno bianca si fermò, due banditi scesero dall’auto, intimando all’uomo di consegnare loro i soldi, come percepito anche dalla moglie della vittima, che assistette alla scena. "Cos’è, uno scherzo?", avrebbe risposto Mirri ai killer, che senza dare ulteriori spiegazioni esplosero nove colpi di pistola contro l’addome dell’uomo, uccidendolo. Nessun bottino. Solo un morto in più nella lunga lista di sangue.

Circa due mesi dopo il colpo al distributore di benzina, i killer presero di mira due operai senegalesi, Ndiaj Malik, 29 anni, e Babou Chejkh, 27 anni. I due operai erano in cerca di un albergo, quando furono affiancati dall’auto diventata tristemente famosa. Gli uomini a bordo scaricarono sulle vittime decine di colpi, che tolsero la vita ai due ragazzi.

Tra il 1993 e il 1994 altre tre persone perirono sotto i colpi dei poliziotti-killer. Il 24 febbraio 1993 venne assassinato Massimiliano Valenti, un ragazzo di 21 anni, dipendente di una ditta di trasporti, che senza volerlo aveva assistito al cambio di auto della banda, dopo la rapina al Credito Romagnolo di Zola Predosa. Lì, intorno alle 8.30, un bandito, travestito con baffi finti, occhiali neri e un cappello, aveva portato via 50.000.000 di lire. Massimiliano venne costretto dai banditi a entrare nella loro auto e, dopo averlo ucciso, lo abbandonarono sul ciglio di un fossato. Nello stesso anno, i banditi tentarono una rapina alla Cassa di Risparmio di Riale. Lì però, l’impiegata presa di mira riuscì a ribellarsi e uscì per dare l’allarme, avvicinandosi a un’officina. I killer però non rinunciarono alla vendetta e iniziarono a sparare in direzione dell’officina, ferendo gravemente l’elettrauto Carlo Poli, che morì pochi giorni dopo.

Risale al 24 maggio 1994 l’ultimo omicidio della banda della Uno Bianca. Erano da poco passate le 8 a Pesaro e il direttore della Cassa di Risparmio, Ubaldo Paci, stava entrando in filiale, quando venne avvicinato da un uomo con barba posticcia, occhiali e cappello, che gli sparò un colpo di pistola alla schiena. Poi, con un altro colpo si assicurò che Paci morisse. Poco distante, un complice, in macchina, lo aspettava per fuggire.

Questa fu l’ultima azione della banda della Uno Bianca. Dopo centinaia di azioni criminali e 23 omicidi i killer vennero fermati.

·        Il mistero di Mattia Caruso.

Laura Berlinghieri per la Stampa il 28 settembre 2022.

Una ferita in pieno petto, nel parcheggio di un locale della provincia di Padova, inferta da un uomo che indossava una felpa con il cappuccio. Ha ucciso Mattia Caruso, 30 anni, commerciante ambulante di dolciumi, di Albignasego. Accoltellato a morte, il ragazzo ha comunque provato a fuggire, in macchina, con la fidanzata. Per poi arrendersi, uscire dall’abitacolo ed, esanime, crollare sull’asfalto, macchiato dal sangue.

Montegrotto, domenica sera. Caruso e la fidanzata trascorrono la serata nel locale Ai laghi di Sant’Antonio. C’è una festa: dopo l’omicidio, i partecipanti saranno tutti ascoltati dagli inquirenti. Passano un paio d’ore e la coppia decide di rientrare a casa. Mattia e la fidanzata escono dal locale, dirigendosi verso la macchina. È a quel punto che il 30enne viene avvicinato da un uomo. Probabilmente aveva partecipato alla festa. Mattia lo conosce e, per questo, dice alla fidanzata di precederlo in auto, lui l’avrebbe raggiunta poco dopo.

Sarà così, ma in quell’auto Mattia rientrerà con una ferita al petto, che si rivelerà fatale. Il giovane è nel parcheggio del locale, discute animatamente con l’uomo con il cappuccio. Poi questi estrae un coltello e lo colpisce al cuore. Un solo colpo, basterà a ferirlo a morte. Mattia a quel punto cerca di fuggire, sale in macchina, sul posto del guidatore. Sul sedile accanto c’è la fidanzata Valentina, che dirà di non essersi accorta di nulla. Caruso gira la chiave nel cruscotto, ingrana la prima e parte con l’auto. Una strada, poi l’altra, poi l’altra ancora.

Poi non ce la fa più. Nemmeno un chilometro, Comune di Abano. Mattia accosta, scende dall’auto e crolla sull’asfalto. È solo a quel punto - riferirà agli inquirenti - che la donna si rende conto che il fidanzato è ferito, e chiama il 118. Intanto Mattia è disteso a terra, esanime. Alcuni residenti vedono la scena e, a loro volta, chiamano i Carabinieri. Sul posto arrivano un’ambulanza e una pattuglia del Nucleo radiomobile della compagnia di Abano. Mattia viene trasportato d’urgenza all’ospedale di Padova, dove morirà poco dopo.

Ieri i Carabinieri hanno sentito una decina di persone, compresi i partecipanti alla festa, intorno ai quali starebbero già stringendo il cerchio. Sono potenziali testimoni dell’aggressione o quantomeno dei momenti che l’hanno preceduta, nel locale. È stata sentita a lungo, sia lunedì che ieri, anche la fidanzata di Caruso. I due stavano insieme da un paio d’anni. Un rapporto travagliato, fatto di continui tira e molla, e per questo osteggiato dalla famiglia di lui.

A Mattia non interessava e da qualche giorno si era trasferito a casa sua. «Era una relazione turbolenta, fatta di giorni di amore folle e altri di enormi litigi. Ma lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per lei», racconta la sorella Melinda. Lei, la fidanzata, che domenica sera non si era resa conto di nulla. Gli investigatori confrontano le versioni, proprio nel tentativo di capire come sia possibile che la donna non si fosse accorta che il suo fidanzato, alla guida, fosse stato accoltellato. 

Si passano al setaccio le immagini delle telecamere. Così come i messaggi e le telefonate di Mattia: il suo telefono è stato acquisito dai Carabinieri subito dopo l’omicidio. E si indaga nelle sue frequentazioni. Cattive frequentazioni, ultimamente. Potrebbe essere questa la chiave dell’omicidio, forse nato nell’ambito di un regolamento di conti, forse legato alla droga. Intanto, la sorella Melinda chiede giustizia: «Lo avevo visto domenica, era passato a trovarmi. E poi l’ho rivisto disteso sul letto dell’obitorio. Voglio sapere cos’è successo a mio fratello». 

Omicidio Mattia Caruso, la confessione della fidanzata: «Sono stata io ad accoltellarlo». Riccardo Bruno, Roberta Polese su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.

La 31enne Valentina Boscaro aveva depistato le indagini sull’omicidio di Abano Terme. «Non volevo, mi ha picchiata». In un primo tempo aveva indicato un uomo di colore con il cappuccio. Dopo averlo colpito, ha messo l’arma nella tasca del compagno. 

Il suo racconto agli inquirenti era apparso subito pieno di lacune, di incongruenze. Valentina Boscaro aveva detto che domenica scorsa, dopo aver passato un paio d’ore in una discoteca di Montegrotto Terme, nel Padovano, era salita in macchina con il suo fidanzato, Mattia Caruso . Che non si era accorta che era ferito, che lui dopo un chilometro aveva fermato l’auto, era sceso e si era accasciato a terra. Una donna aveva visto la scena, Valentina ancora sotto choc, e aveva chiamato il 118. Ma i soccorsi erano stati vani, Mattia era morto poco dopo in ospedale. Lei aveva anche aggiunto che davanti al locale Mattia si era allontanato per parlare con un uomo di colore con un cappuccio. Un tentativo, poi si è capito, per sviare le indagini.

I carabinieri del Reparto operativo di Padova, guidati dal tenente colonnello Gaetano La Rocca, in questi quattro giorni hanno sentito diversi testimoni e soprattutto visionato le telecamere all’esterno della discoteca. Hanno visto che Valentina e Mattia salivano subito sull’auto, nessun contatto con altre persone, e poi andavano via. Ieri mattina hanno convocato la ragazza in caserma, le hanno chiesto di chiarire i punti oscuri. Lei ha provato a resistere, poi ha ceduto. «L’ho ucciso io, ma non volevo. Abbiamo litigato, lui era alterato, aggressivo, violento. Mi ha picchiata e strattonata e non era la prima volta. Ho preso il coltellino che aveva nel cruscotto e l’ho colpito».

La posizione di Valentina Boscaro, 31 anni, è così cambiata da testimone ad accusata di omicidio. A quel punto sono stati chiamati i suoi legali, Nicola Guerra e Federico Cibotto. L’interrogatorio è proseguito fino alla sera davanti al pm Roberto Piccione, che poi ha emesso il fermo in quanto indiziata di delitto. Essendo incensurata, sono stati disposti i domiciliari.

Oggi sul corpo di Mattia Caruso sarà eseguita l’autopsia. Da un primo esame sembra che sia stato raggiunto da un solo colpo al torace, all’altezza del cuore. Un fendente che non gli ha lasciato scampo. Valentina ha poi posato il coltellino nella tasca del compagno. Un dettaglio su cui il pm ha insistito. Lei si è difesa: «Non mi ricordo dove l’ho messo».

Mattia avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 11 ottobre. Nato e cresciuto ad Albignasego, un grosso comune a sud di Padova, lavorava con la famiglia che vende dolci siciliani nelle fiere e nelle sagre. Aveva qualche piccolo precedente per rissa e droga, da ragazzino avevo fatto parte di una baby gang. Sembra che nell’ultimo periodo, come ha raccontato qualche amico, avesse di nuovo iniziato a frequentare ambienti poco raccomandabili.

Con Valentina, madre di una bambina di sei anni affidata al padre, si erano conosciuti un paio di anni fa nei mercatini, anche lei venditrice ambulante di vestiti. Una relazione vissuta tra alti e bassi, che non piaceva alla famiglia di lui. Melinda, la sorella maggiore di Mattia, ha detto al Corriere del Veneto: «Da poco aveva cominciato a vivere con lei e aveva lasciato la casa dei miei genitori, eravamo un po’ preoccupati per lui. Era innamoratissimo di quella ragazza un po’ complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione. Era un rapporto tormentato».

In questi giorni, Valentina è stata sentita più volte dai carabinieri. Un altro tassello che non tornava, prima ancora di visionare le immagini delle telecamere, era il fatto che nessuna traccia di sangue era stata trovata nel piazzale della discoteca. Strano, se davvero Mattia era stato colpito lì. La verità è che non aveva discusso con nessun uomo con il cappuccio, la lite era nata in macchina tra i due fidanzati. Lei ieri ha ammesso: «La nostra era una storia burrascosa, abbiamo litigato anche quella sera». Forse lei non voleva che così «alterato» si mettesse alla guida. In effetti alle 22.20, lui chiama un amico: «Ho fatto una cavolata, vienimi a prendere». Ma poi decide di partire con Valentina. A casa Mattia non arriverà mai. Ucciso con un colpo al cuore dalla donna di cui era innamorato.

Marina Lucchin per "il Gazzettino" l'1 ottobre 2022.

È una storia di litigi e botte, di urla e sangue, di un amore vicendevolmente tossico quella di Mattia Caruso, assassinato a 30 anni con una pugnalata al cuore, e Valentina Boscaro, la sua carnefice, che ora piange e si dispera nella sua casa, dov’è stata confinata agli arresti domiciliari.

Ieri il suo avvocato è andato a trovarla, per pianificare come comportarsi questa mattina quando la donna, 31 anni, padovana, comparirà davanti al gip del tribunale di Padova per la convalida del fermo d’indiziato di delitto per il reato di omicidio volontario, aggravato dal fatto che i due erano legati da una relazione sentimentale: Valentina rischia l’ergastolo. «Sta male - spiega il legale, Nicola Guerra - È sotto choc perché si rende conto di quel che è avvenuto. Una cosa che Valentina Boscaro non avrebbe mai voluto accadesse». 

Eppure la 31enne ha fatto di tutto pur di scamparla, inventando bugie, mettendo in atto depistaggi. Un castello di menzogne che è crollato dopo quattro giorni di “resistenza”. Finché la padovana giovedì mattina non è capitolata davanti ai carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale euganeo, guidato dal colonnello Michele Cucuglielli. «La nostra era una storia burrascosa, litigavamo sempre. Mi picchiava e mi minacciava, una volta voleva farmi mangiare una tartaruga morta.

Quella sera guidava veloce, ha iniziato a strattonarmi tirandomi le mutande. È imprevedibile quando beve. Io ero stanca ed esasperata, ho visto il suo coltello sul cruscotto, l’ho preso e l’ho colpito». Poi Valentina ha iniziato a raccontare i due anni passati con Mattia. Lei assicura tra botte e maltrattamenti, anche se non l’ha mai denunciato e mai è andata al pronto soccorso per qualche ferita. Mentre gli amici di lui, e anche il fratello Rosario assicurano che lui la amava più della sua stessa vita e che «era lui che qualche volta è tornato a casa con un occhio nero perché lei lo picchiava». 

Voci, racconti. Quel che è certo è che lui aveva un discreto curriculum criminale: nel 2014 aveva preso quattro mesi di reclusione, convertiti in affidamento in prova ai servizi sociali, per resistenza e rifiuto di un accertamento in stato di ebbrezza; nel 2015 otto mesi (con la sospensione) per falso; nel 2019 altri otto mesi per furto in un bar, mentre nel 2021 un fascicolo per lesioni è stato archiviato per tenuità del fatto. Mattia era stato anche segnalato alla prefettura quale assuntore di cocaina, motivo per cui gli era stata ritirata la patente.

La questione della droga, ha assicurato al pubblico ministero Roberto Piccione, era uno dei motivi di tante litigate, perché lei, mamma di una bimba piccola, si è sempre detta contraria all’uso di stupefacenti. In gioventù aveva commesso un errore anche lei: nel 2010 era stata processata per furto in un negozio. Prese 2 mesi e una multa di 100 euro. Poi ha cambiato rotta. Dopo gli studi al liceo Modigliani di Padova si è trasferita in India, quindi a Roma, dove ha conosciuto il padre di sua figlia. Una storia tormentata anche quella, finita con la separazione: la bambina è affidata a lei e ogni tanto va nella Capitale a trovare il papà. Come in quest’ultimo fine settimana. Ecco perchè Valentina era potuta uscire liberamente, non avendo il pensiero di prendersi cura della figlia per un paio di giorni. «Non esco mai» ha raccontato ai carabinieri.

Ma cos’è scattato nella testa della donna per arrivare ad assassinare il fidanzato? Lei racconta di botte e litigate violente. Di minacce e “punizioni”. Come quella volta che lui voleva obbligarla a mangiare la sua tartaruga domestica, accusandola di essere stata lei la causa della morte. Agli inquirenti tutto fa pensare a un delitto d’impeto. Ma poi, nonostante lo choc, c’è stato il tentativo di depistare gli investigatori: il coltellino riposto nelle tasche di Mattia, l’abbraccio al fidanzato morente per non destare sospetti sul fatto che fosse sporca di sangue, l’aggressione da parte di un “uomo nero” e incappucciato. Alla fine il crollo: «Sono stata io». Un amore tossico, di cui restano solo sangue e lacrime, una vita spezzata, e un’altra rovinata.

Da repubblica.it il 29 settembre 2022.

«L’ho ucciso con il coltello a serramanico che aveva sempre con sé». Questa la svolta nelle indagini relative all’omicidio di Mattia Caruso, il 30enne di Albignasego ucciso nella notte tra domenica e lunedì con una profonda coltellata al cuore: è stata fermata dai Carabinieri la fidanzata del giovane, Valentina Boscaro, che avrebbe confessato l’omicidio.

Diversi i punti oscuri su cui Procura e carabinieri stavano indagando. La sera di domenica 25 settembre Caruso era ai Laghi di Sant'Antonio con la fidanzata. È stata lei a raccontare agli inquirenti cosa sarebbe accaduto quella notte, un racconto – con diverse versioni – che ha subito suscitato diversi dubbi, spingendo il pm a convocarla nuovamente in caserma per ascoltarla.

Stando a quanto riferito dalla giovane, infatti, i due fidanzati si sarebbero recati a una festa, al termine della quale Caruso si sarebbe allontanato con un estraneo, mentre lei sarebbe rimasta in auto. Il giovane sarebbe stato accoltellato da un ragazzo, per poi risalire in macchina e percorrere qualche chilometro prima di morire, fermandosi in via dei Colli. Boscaro ha dichiarato di non essersi accorta che il fidanzato sanguinava. Una versione che non ha convinto gli inquirenti. Durante l’interrogatorio la ragazza è crollata, confessando il delitto.

Caruso è morto con molta probabilità per il colpo fatale inferto al cuore. Giunti sul posto, i carabinieri lo hanno trovato in gravissime condizioni. I soccorsi lo hanno portato in ospedale, dove però non c’è stato nulla da fare e il 30enne è deceduto.

Riccardo Bruno,Roberta Polese per il “Corriere della Sera” il 30 settembre 2022.  

Il suo racconto agli inquirenti era apparso subito pieno di lacune, di incongruenze. Valentina Boscaro aveva detto che domenica scorsa, dopo aver passato un paio d'ore in una discoteca di Montegrotto Terme, nel Padovano, era salita in macchina con il suo fidanzato, Mattia Caruso. Che non si era accorta che era ferito, che lui dopo un chilometro aveva fermato l'auto, era sceso e si era accasciato a terra.

Una donna aveva visto la scena, Valentina ancora sotto choc, e aveva chiamato il 118. Ma i soccorsi erano stati vani, Mattia era morto poco dopo in ospedale. Lei aveva anche aggiunto che davanti al locale Mattia si era allontanato per parlare con un uomo di colore con un cappuccio. Un tentativo, poi si è capito, per sviare le indagini.

I carabinieri del Reparto operativo di Padova, guidati dal tenente colonnello Gaetano La Rocca, in questi quattro giorni hanno sentito diversi testimoni e soprattutto visionato le telecamere all'esterno della discoteca. Hanno visto che Valentina e Mattia salivano subito sull'auto, nessun contatto con altre persone, e poi andavano via. Ieri mattina hanno convocato la ragazza in caserma, le hanno chiesto di chiarire i punti oscuri. Lei ha provato a resistere, poi ha ceduto. «L'ho ucciso io, ma non volevo. Abbiamo litigato, lui era alterato, aggressivo, violento. Mi ha picchiata e strattonata e non era la prima volta. Ho preso il coltellino che aveva nel cruscotto e l'ho colpito».

La posizione di Valentina Boscaro, 31 anni, è così cambiata da testimone ad accusata di omicidio. A quel punto sono stati chiamati i suoi legali, Nicola Guerra e Federico Cibotto. L'interrogatorio è proseguito fino alla sera davanti al pm Roberto Piccione, che poi ha emesso il fermo in quanto indiziata di delitto. Essendo incensurata, sono stati disposti i domiciliari.

Oggi sul corpo di Mattia Caruso sarà eseguita l'autopsia. Da un primo esame sembra che sia stato raggiunto da un solo colpo al torace, all'altezza del cuore. Un fendente che non gli ha lasciato scampo. Valentina ha poi posato il coltellino nella tasca del compagno. Un dettaglio su cui il pm ha insistito. Lei si è difesa: «Non mi ricordo dove l'ho messo». Mattia avrebbe compiuto 31 anni il prossimo 11 ottobre. 

Nato e cresciuto ad Albignasego, un grosso comune a sud di Padova, lavorava con la famiglia che vende dolci siciliani nelle fiere e nelle sagre. Aveva qualche piccolo precedente per rissa e droga, da ragazzino avevo fatto parte di una baby gang. Sembra che nell'ultimo periodo, come ha raccontato qualche amico, avesse di nuovo iniziato a frequentare ambienti poco raccomandabili. Con Valentina, madre di una bambina di sei anni affidata al padre, si erano conosciuti un paio di anni fa nei mercatini, anche lei venditrice ambulante di vestiti.

Una relazione vissuta tra alti e bassi, che non piaceva alla famiglia di lui. Melinda, la sorella maggiore di Mattia, ha detto al Corriere del Veneto : «Da poco aveva cominciato a vivere con lei e aveva lasciato la casa dei miei genitori, eravamo un po' preoccupati per lui. Era innamoratissimo di quella ragazza un po' complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione. Era un rapporto tormentato». In queste giorni, Valentina è stata sentita più volte dai carabinieri.

Un altro tassello che non tornava, prima ancora di visionare le immagini delle telecamere, era il fatto che nessuna traccia di sangue era stata trovata nel piazzale della discoteca. Strano, se davvero Mattia era stato colpito lì. La verità è che non aveva discusso con nessun uomo con il cappuccio, la lite era nata in macchina tra i due fidanzati. Lei ieri ha ammesso: «La nostra era una storia burrascosa, abbiamo litigato anche quella sera». 

Forse lei non voleva che così «alterato» si mettesse alla guida. In effetti alle 22.20, lui chiama un amico: «Ho fatto una cavolata, vienimi a prendere». Ma poi decide di partire con Valentina. A casa Mattia non arriverà mai. Ucciso con un colpo al cuore dalla donna di cui era innamorato.

Rashad Jaber e Roberta Polese per corriere.it il 30 settembre 2022.

Mattia e Valentina, coetanei, giovani, belli e maledetti. La loro relazione è nata sotto una cattiva stella, un amore complicato, tormentato, struggente e a tratti violento. Così gli amici descrivono la storia finita domenica nel più tragico dei modi: con Mattia morto in ospedale dopo una coltellata al cuore e Valentina che, quattro giorni dopo, ha confessato agli inquirenti di averlo colpito.

L’incontro

Mattia e Valentina si erano conosciuti due anni fa ai mercatini. Lui lavorava al banco dei genitori che vendono dolcetti siciliani alle sagre e alle fiere. I Caruso li conoscono tutti, e Mattia era un ragazzo turbolento che si faceva ben volere. La bella Valentina invece è figlia di impiegati e qualche anno fa ha aperto anche lei un’attività di ambulante di vestiti. Lei e Mattia si erano conosciuti ad uno di questi mercatini, tutti sapevano chi erano: dalla festa di Radio Sherwood alla fiera del Socco a Grisignano, dal mercatino di Natale nelle piazze alle tante fiere venete.

Lei è bella e tormentata, le girano attorno molti ragazzi perché il suo fascino è irresistibile. Ma tra tutti Mattia fa breccia nel suo cuore. Lei esce da una storia travagliata che le ha dato una figlia, lui è single. Si vedono, si piacciono e si mettono insieme. Ed è lì che inizia il viaggio verso l’abisso. Perché Valentina vuole stare in coppia ma vuole essere libera, lui le sta addosso poi si allontana, e allora lei se lo riprendere. Una relazione tossica, una dipendenza affettiva che li allontana da tutti. Per gli amici è difficile stargli accanto e lentamente si isolano. 

I litigi continui

«Gli avevo detto mille volte di lasciarla - racconta Mihail Eftene, l’amico del cuore di Mattia - lei lo faceva impazzire, lei dice che lui la picchiava? Tutte bugie, era lei che lo prendeva a pugni, è venuto a casa mia tante volte con un occhio nero perché lei lo pestava, certo Mattia ogni tanto si difendeva, ma non alzava le mani, le prendeva e basta, ma non riusciva a staccarsi da lei - spiega - li ho visti a cena martedì della settimana scorsa, era impossibile stare vicino a entrambi, litigavano continuamente». 

Vite turbolente

A detta di tanti Valentina è una ragazza instabile: cammina su un filo di lana fatto di follia e bisogno di sicurezze, trasgressioni e ricerca di tranquillità. Ha un fratello e due genitori che le vogliono bene e cercano di starle vicino ma pare che niente sia abbastanza. La nascita della bambina sei anni fa sembrava le potesse portare un po’ di stabilità, ma non è stato così. Mattia dal canto suo non era certo un tipo tranquillo e remissivo. In passato aveva avuto qualche problema con la giustizia, piccolo spaccio, risse da bar in cui erano stati coinvolti anche alcuni suoi familiari.  

Da piccolo aveva fatto parte di quella che tutti conoscevano come la baby gang della Guizza, un quartiere di Padova. Il lavoro al truck dei dolciumi gli consentiva di mantenersi. Ma lo stop delle fiere per via del Covid lo aveva colpito profondamente. Il denaro che prima c’era e poi non c’era più, la fatica di ricominciare, quella relazione burrascosa con quella donna di cui era follemente innamorato erano tutti elementi che avevano contribuito a destabilizzarlo ancora di più. 

La convivenza

E nel conto bisognava mettere pure i cattivi rapporti con la famiglia, interrotti da quando Mattia aveva iniziato a frequentare Valentina. Ai Caruso quella ragazza non piaceva per niente. «Da un po’ di tempo era andato a vivere con lei, lasciando casa dei miei genitori - aveva dichiarato nei giorni scorsi la sorella Melinda - Mattia era innamoratissimo di lei. Noi eravamo preoccupati per via del fatto che Valentina si fosse già dimostrata una persona complicata, si lasciavano e si riprendevano in continuazione, avremmo solo voluto vederlo più sereno». 

 Una relazione che fra alti e bassi durava da ormai due anni, al punto da evolvere in una convivenza, ma evidentemente ciò non era bastato a limitare le discussioni e i litigi fra i due. Mattia aveva lasciato la casa di Albignasego, il paese appena fuori Padova dove è nato e cresciuto, per andare a stare con Valentina che abitava in una casetta nell’ultimo lembo di campagna padovana in via Ca’ Silvestri a Montà. Nel giardino della donna il 29 settembre, giorno del suo fermo, si vedevano i giochi della bambina che evidentemente passa molto tempo a casa insieme alla mamma. Ma c’era anche un cartello sul campanello «No ai giornalisti».

Eppure mattina Valentina era dai carabinieri di buon’ora, quel cartello evidentemente era stato messo il giorno prima. Del resto era inevitabile cercarla e voler parlare con lei, che era l’ultima ad aver visto vivo Mattia Caruso. Eppure in quella casa, che lei stessa aveva condiviso con Mattia, ha tenuto il suo segreto ben saldo, senza farne parola con nessuno. Chissà se pensava di farcela, di riuscire a portarsi dentro una croce così pesante, da sola.

·        Il caso di Marcello Toscano.

Napoli, il professore Marcello Toscano trovato morto nel cortile della scuola. Il Tempo il 28 settembre 2022

Riverso a terra in una pozza di sangue in un'aiuola del cortile della scuola. È stato trovato così Marcello Toscano, insegnante di sostegno della scuola media Marino Guarano, a Melito di Napoli, in provincia di Napoli.

Sul corpo l'uomo, ex consigliere comunale di Mugnano, sono state ferite riconducibili a un'arma bianca. L'allarme era scattato nella tarda serata di ieri quando l'uomo non aveva fatto ritorno a casa. È stata la figlia a individuare la macchina del padre nei pressi della scuola. I carabinieri stanno indagando e hanno acquisito diverse immagini delle telecamere presenti in zona.

"Non so cosa sia successo ma potrebbe essere stata una nota a scatenare l'ira di qualche ragazzo o qualche genitore", dice a LaPresse il professor Andrea Cipolletti, che insegna alla scuola 'Melissa Bassi' di Scampia, amico di Marcello Toscano. "Marcello a mezzogiorno ha chiesto a un suo collega di insegnargli a mandare la posizione tramite WhatsApp, probabilmente si sentiva in pericolo", racconta.

Chi lo conosce parla di un uomo normalissimo "un padre di famiglia, prossimo alla pensione", con un sogno "quello di trovare un casolare del Cilento per passare la pensione, il suo sogno è morto un martedì dei fine settembre", racconta ancora a LaPresse il cugino. "È un problema di ordine pubblico. È allucinante nel 2022 che si muoia accoltellato nel cortile di una scuola - prosegue -. Questa questione deve accendere i riflettori sul quadrante di Napoli. Tra l'altro nella stessa scuola ci sono stati comunque dei precedenti", aggiunge facendo riferimento all'accoltellamento avvenuto a maggio ai danni di uno studente 13enne.

"È emergenza sicurezza", denuncia Luciano Mottola, il sindaco di Melito, denunciando una "impotenza conclamata, quella che scaturisce dall'impossibilità di essere numericamente pronto per fronteggiare l'emergenza delinquenziale che attanaglia la mia città e tante altre della cintura di Napoli. Ti senti piccolo piccolo, quasi inerme. Al punto da avere voglia di mollare tutto, ma poi viene fuori l'orgoglio e la volontà di voler lottare per cambiare il destino, apparentemente già segnato, della nostra Melito ed allora lanci un disperato appello a Sua Eccellenza il Prefetto di Napoli, al fine di ottenere un dispiegamento maggiore di forze dell'ordine sul nostro territorio.

Un'emergenza criminalità che non la si può certamente combattere con i mezzi attualmente a disposizione, ma che deve essere ai primi posti nell'agenda del nascente governo se non si vorrà abbandonare Melito, e tante altre realtà come Melito, al proprio destino".

Il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi affida a Twitter il proprio sgomento: "Sono sconcertato per la tragica morte del Professor Marcello Toscano, a Melito di Napoli. Mi stringo al dolore della sua famiglia e della comunità scolastica. Chiediamo sia fatta luce al più presto sul drammatico avvenimento". Intanto nessuno è stato fermato ma una persona si trova in caserma dei carabinieri ed è stata sentita dal pm che indaga sulla morte dell'insegnante.

 Omicidio Melito, sangue sui vestiti del bidello: la pista del debito con il professore ucciso. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 30 Settembre 2022.

Il delitto del professore nel cortile della scuola a Melito (Napoli). Fermato l’uomo sospettato: è un bidello. Il racconto dei testimoni e le immagini delle telecamere. In casa del collaboratore scolastico trovati vestiti forse macchiati di sangue.

Ci sarebbe una questione legata a un debito all’origine dell’omicidio di Marcello Toscano, il docente di sostegno sessantaquattrenne della media «Marino Guarano» di Melito ritrovato martedì sera nel cortile dell’istituto con l’addome e il torace squarciati da diverse coltellate (in una foto pubblicata ieri dal Corriere è stata attribuita al professor Toscano — come indicato dall’agenzia Photo Masi — l’immagine di un’altra persona). Ne sono convinti i pm della Procura di Napoli Nord, che ieri hanno disposto il fermo di un bidello della stessa scuola in cui lavorava Toscano: Giuseppe Porcelli, 54 anni.

In tempi brevissimi, i carabinieri hanno raccolto una serie di elementi ritenuti dai magistrati più che sufficienti per accusare Porcelli di omicidio. Anche se lui, durante l’interrogatorio, non ha mai fatto ammissioni.

Il movente ricondurrebbe a un debito contratto dal bidello con il professore. Secondo alcuni testimoni, Porcelli avrebbe chiesto a Toscano — ottenendolo — un prestito per avviare una attività commerciale. Non emergono dettagli sull’ammontare della cifra né sulle modalità concordate per la restituzione, ma gli investigatori sono sicuri che questo argomento sia stato al centro del confronto sfociato poi nell’accoltellamento.

I principali elementi a carico del bidello verrebbero dall’impianto di videosorveglianza di una macelleria che si trova in viale delle Magnolie, proprio di fronte al cortile della Guarano. Le immagini registrate intorno alle 13, quando le classi sono appena uscite e ci sono ancora ragazzi fermi davanti al cancello, mostrerebbero Toscano e Porcelli che, a pochi secondi di distanza l’uno dall’altro, si dirigono verso la ex casa del custode, una palazzina bassa separata dal corpo della scuola, utilizzata ora come deposito. Il cadavere del professore sarà ritrovato intorno alle nove di sera davanti a quel piccolo fabbricato, ma è all’interno che si sarebbe consumato l’omicidio. Le telecamere, infatti, non inquadreranno più Toscano, dopo averlo ripreso mentre si avvia verso la ex casa del custode. Inquadreranno invece poco dopo Porcelli che fa il percorso inverso e poi esce dalla scuola. Intorno alle cinque del pomeriggio eccolo arrivare di nuovo. Stavolta spalanca il cancello, entra con l’auto e si dirige di nuovo verso il deposito.

Le tracce di sangue trovate sugli scalini dimostrerebbero che Porcelli ha trascinato all’esterno il corpo del professore, verosimilmente con l’intenzione di caricarlo in macchina per poi abbandonarlo chissà dove. A fargli cambiare programma un imprevisto: la scuola non era deserta come immaginava. Voci provenienti dalla palestra, dove alcuni inservienti stavano rimettendo in ordine gli attrezzi, lo hanno messo in allarme. E per capire chi ci fosse si è affacciato e ha finito per farsi vedere da quelle persone che poi sono state ascoltate dai carabinieri e hanno riferito l’episodio.

Il resto lo ha fatto una perquisizione a casa del bidello, dove sono stati trovati e sequestrati abiti macchiati, presumibilmente di sangue. E anche la testimonianza della sua compagna non lo ha aiutato: la donna avrebbe riferito che per due volte, a ora di pranzo e nel pomeriggio, appena rientrato si è cambiato.

Grazia Longo per “la Stampa” il 30 settembre 2022.

C'è un prestito non restituito, o forse elargito con interessi troppo alti, dietro l'omicidio dell'insegnante di sostegno Marcello Toscano, 64 anni, accoltellato lunedì nel cortile della scuola media "Marino Guarano" di Melito dove lavorava. 

Ad ucciderlo sarebbe stato Giuseppe Porcelli, 54 anni, arrestato l'altra notte dai carabinieri del Comando provinciale di Napoli, coordinati dalla procuratrice Maria Antonietta Troncone. 

Il professore, da quanto risulta al momento, avrebbe prestato del denaro al bidello, che svolgeva funzioni di custode, per consentirgli di aprire un'attività commerciale. Ma qualcosa è andata storto e tra i due è nata una lite, degenerata nel drammatico epilogo. Ad inchiodare il collaboratore scolastico ci sono le chiare immagini della telecamera di un negozio davanti al cortile della scuola (la video sorveglianza all'interno dell'istituto scolastico non funzionava) e i vestiti sporchi di sangue trovati a casa sua.

Intorno alle 13 di lunedì le immagini riprendono sia il professore sia il bidello dirigersi verso l'ex casa del custode, ora utilizzata come deposito, accanto alla quale è stato poi trovato il cadavere. Ma dopo alcuni minuti torna indietro solo il bidello. Il professore no. Segno che, con tutta probabilità è stato ucciso proprio in quel frangente. 

«Dopo le 13 sono uscito da scuola e non ci sono più tornato» ha raccontato Porcelli agli inquirenti. Falso. Perché le telecamere lo inquadrano di nuovo mentre entra nel cortile della scuola con la sua automobile intorno alle ore 17. E si avvicina di nuovo al deposito sui cui gradini è stato ritrovato del sangue. Forse voleva recuperare il corpo della vittima per trasportarlo altrove? Fatto sta che viene disturbato dal rumore proveniente dalla palestra e commette l'errore di affacciarsi sulla porta per vedere chi c'è.

Ecco che alcuni addetti alla pulizia della palestra lo vedono, lo riconoscono e racconteranno di averlo notato. A questo punto lui non porta più via il cadavere, che rimane nascosto dietro un cespuglio dove verrà poi ritrovato lunedì dopo le 21 dai carabinieri, in seguito alla denuncia di scomparsa del docente presentata dal figlio Ciro e dopo che la figlia Ezia aveva notato l'auto del padre parcheggiata davanti alla scuola. Tante le persone interrogate, ma l'attenzione di investigatori e inquirenti si è subito concentrata su Porcelli, che lunedì pomeriggio è stato messo sotto torchio e nella notte è stato poi sottoposto a fermo.

Difeso dall'avvocato Emanuele Caianiello non ha per ora confessato. «Io e il professore eravamo amici» si sarebbe limitato a dire. Ma la sua convivente ha ammesso che lunedì pomeriggio a casa si è cambiato due volte: dopo le 13, quando è rientrato la prima volta e poi dopo le 17, quando è tornato dopo essersi recato nuovamente a scuola. E gli abiti sporchi di sangue sono stati prelevati dai carabinieri del Ris che hanno svolto anche esami sulle tubature del bagno dove l'uomo si è presumibilmente lavato. L'arma del delitto non è ancora stata ritrovata e neppure il telefonino del professore. A proposito del movente economico del delitto, sul profilo Facebook di Porcelli, il 7 settembre un'amica gli chiedeva se aveva aperto la sua nuova attività. «Ormai l'apro la seconda settimana di settembre» rispondeva lui. Poi va a capire che cosa è successo.

Prof ucciso a Napoli, la svolta: fermato collaboratore scolastico. Rosa Scognamiglio il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'uomo, del quale non sono ancora note le generalità, è stato lungamente ascoltato dagli inquirenti. L'ipotesi di reato che gli viene contestata è di omicidio

C'è un fermo per il presunto assassinio di Marcello Toscano, l’insegnante di sostegno di 64 anni trovato senza vita dai carabinieri in un’aiuola della scuola "Marino Guarano" di Melito, nel Napoletano. Si tratterebbe di un collaboratore scolastico fermato con l'ipotesi di reato per omicidio dopo essere stato lungamente ascoltato degli inquirenti. Le indagini del caso sono affidate ai militari dell'Arma e coordinate dal procuratore Maria Antonietta Troncone.

I fatti

Il cadavere di Toscano è stato trovato attorno alle 22.30 di mercoledì (27 settembre). Le ricerche dell'uomo erano partite alle ore 20, quando i familiari della vittima allertato le forze dell'ordine. Sarebbe stato il figlio dell'insegnante, per primo, a denunciare la scomparsa del padre ai carabinieri di Mugnano. Poi la figlia di Toscano avrebbe notato l'auto del genitore vicino alla scuola "Mariano Guarano". A quel punto ha allertato immediatamente militari dell'Arma. I carabinieri, giunti sul posto, hanno ispezionato l'intero perimetro dell'istituto rinvenendo il corpo senza vita dell'insegnante in un'aiuola in cortile.

Le ferite all'addome

Dalle prime osservazioni cadaveriche sembrerebbe che Toscano sia stato ucciso con un'arma bianca, trafitto all'addome con un coltello (l'arma del delitto non è stata ancora rinvenuta). I carabinieri hanno acquisito i filmati delle telecamere di videosorveglianza della scuola nel tentativo di ricostruire la dinamica dell'aggressione fatale. L'ipotesi di una rapina sfociata nel sangue è stata scartata fin da subito dal momento che il 64enne aveva con sé ancora tutti gli effetti personali. Quanto alla pista delittuosa, ormai certa, restano ancora molti dubbi da sciogliere. In primis il movente che, al momento, è ancora sconosciuto.

Le tracce di sangue

Al vaglio degli investigatori che indagano sul presunto omicidio a Melito di Marcello Toscano, vi sono anche - secondo quanto apprende l'agenzia di stampa Ansa - alcuni reperti ematici rilevati in un magazzino adiacente al luogo dove è stato rinvenuto il cadavere. Non si esclude che le tracce di sangue possano appartenere all'assassino. Analogamente, i carabinieri stanno vagliando le immagini di alcune telecamere di sorveglianza presenti in zona, sempre allo scopo di trovare altri elementi utili all'inchiesta. 

Professore ucciso a scuola, fermato un bidello per l’omicidio di Marcello Toscano: giallo sul movente. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 29 Settembre 2022 

Svolta nelle indagini sull’omicidio di Marcello Toscano, il professore di sostegno di 64 anni trovato cadavere nel cortile dell’edificio dove insegnava, la Marino Guarano di Melito (Napoli), poco dopo le 21.30 di martedì 27 settembre. Dopo circa 24 ore è stato sottoposto a fermo un collaboratore scolastico che lavora nello stesso edificio.

All’uomo – lungamente ascoltato dagli inquirenti – la procura di Napoli Nord, guidata da Maria Antonietta Troncone, contesta il reato di omicidio. Si tratta – così come riferisce Il Mattino – di Giuseppe Porcelli. Non è ancora chiaro il movente dell’omicidio. Il fermo dovrà essere convalidato nelle prossime ore dal giudice.

Sconcertanti le parole di un altro docente, Andrea Cipolletti, che insegna in una scuola nel vicino quartiere di Scampia ed era amico della vittima: “Marcello a mezzogiorno ha chiesto a un suo collega di insegnargli a mandare la posizione tramite WhatsApp, probabilmente si sentiva in pericolo”. Parole sulle quali sono in corso accertamenti dei carabinieri a lavoro per verificare se Toscano avesse rivelato qualcosa ai suoi colleghi poche ore prima di essere ucciso.

Toscano è stato ucciso con almeno cinque coltellate all’addome. Il suo corpo è stato ritrovato dietro a un cespuglio nei pressi di un piccolo edificio dove in passato viveva il custode della scuola. C’è un buco di sette ore con gli inquirenti che stanno provando a ricostruire le ultime ore di vita del 64enne, originario di Mugnano e in passato consigliere comunale in quota Pd. Toscano era a scuola per le lezioni ed è stato in aula fino alle 13. Poi da qui iniziano i mille interrogativi. 

L’uomo non è tornato a casa e dalle 15 è stato più volte chiamato sul cellulare dai familiari. Alle 19 il figlio Ciro si è recato dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Passano due ore e l’altra figlia, Ezia, segnala ai militari dell’Arma la presenza dell’auto del genitore nel parcheggio all’esterno della scuola. I militari hanno fatto aprire i cancelli al custode (che non vive nello stesso edificio dove si trova la scuola) e dopo aver ispezionato tutti i locali hanno ritrovato il corpo del 64enne dietro un’aiuola, a poca distanza dall’edificio dove in passato abitava il custode.

Proprio nei pressi di questo edificio sarebbero state trovate tracce di sangue che potrebbero essere riconducibili alla vittima anche se sarà l’esame del Dna a cristallizzarlo. In caso contrario potrebbero appartenere invece a chi ha ucciso o partecipato all’omicidio del docente. Tracce ematiche che sono state trovate a pochi metri dal cadavere: non è presente una scia di sangue, quindi presumibilmente il corpo non è stato trascinato. Nessuna traccia anche del coltello utilizzato da chi ha ucciso il professore.

In attesa degli accertamenti della Scientifica, i carabinieri hanno ascoltato numerose persone che hanno incontrato Toscano nella mattinata di ieri. Dalla preside ai colleghi docenti passando per i collaboratori scolastici agli stessi alunni. Ascoltati anche i familiari, a partire dalla moglie. Si scava nella vita personale del 64enne anche se per il momento non è emerso nulla di rilevante su possibili controversie sia in ambito lavorativo (rapporti turbolenti con alunni) che privato.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Trovate tracce di sangue sugli indumenti del collaboratore scolastico. Professore ucciso da bidello “per soldi”, la figlia chiede scusa: “Ci vergogniamo, sono mortificata e umiliata”. Redazione su Il Riformista il 29 Settembre 2022. 

“Io e la mia famiglia ci dissociamo da quello che è accaduto, è un gesto assolutamente ingiustificabile, non posso fare altro che vergognarmi e chiedere umilmente scusa a tutti i parenti”. A parlare, all’agenzia LaPresse, è la figlia di Giuseppe Porcelli (nella foto a destra), il collaboratore scolastico di 54 anni sottoposto a fermo dalla procura di Napoli nord con l’accusa di omicidio volontario. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, le indagini sono condotte dai carabinieri, sarebbe stato lui a uccidere Marcello Toscano, il professore di sostegno di 64 anni, residente a Mugnano di Napoli, trovato cadavere nel cortile dell’edificio dove insegnava, la Marino Guarano di Melito (Napoli) la sera del 27 settembre scorso.

Dopo circa 24 ore, Porcelli, che lavora nella stessa scuola, è stato sottoposto a fermo dopo un lungo interrogatorio. Non ha confessato l’omicidio che sarebbe maturato per questioni di natura economica e non a dissidi in ambito lavorativo o di natura sentimentale. La Procura ha raccolto gravi indizi di colpevolezza nei confronti del collaboratore scolastico che adesso si trova nel carcere di Poggioreale in attesa della convalida da parte del giudice.

Il provvedimento – scattato dopo un lungo interrogatorio nella caserma dei carabinieri – è stato emesso anche per evitare che stamattina si potesse recare al lavoro. Tracce di sangue sono state trovate dai carabinieri di Marano (Napoli) su alcuni indumenti sequestrati a casa del collaboratore scolastico. I militari dell’arma hanno anche raccolto immagini dei sistemi di videosorveglianza presenti nella zona circostante il luogo del delitto.

Inoltre è stato accertato che il telefono del docente era irraggiungibile già dalle 12.30 di martedì 27 settembre, quando aveva già ultimato la lezione e sarebbe dovuto rientrare a casa.

A LaPresse la figlia ha tagliato corto chiedendo scusa alla famiglia di Toscano (sposato e padre di due figli) per il “gesto assolutamente ingiustificabile”, se dovesse essere confermato, del genitore. “Le scuse le porta il vento, e ne sono consapevole. Ma ad oggi, non posso fare altro… sono veramente mortificata e umiliata“. “Al momento in casa regna il silenzio ed il dolore” ha aggiunto.

Toscano è stato ucciso con almeno cinque coltellate all’addome. Il suo corpo è stato ritrovato dietro a un cespuglio nei pressi di un piccolo edificio dove in passato viveva il custode della scuola. C’è un buco di sette ore con gli inquirenti che stanno provando a ricostruire le ultime ore di vita del 64enne, originario di Mugnano e in passato consigliere comunale in quota Pd. Toscano era a scuola per le lezioni ed è stato in aula fino alle 13. Poi da qui iniziano i mille interrogativi. 

L’uomo non è tornato a casa e dalle 15 è stato più volte chiamato sul cellulare dai familiari. Alle 19 il figlio Ciro si è recato dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Passano due ore e l’altra figlia, Ezia, segnala ai militari dell’Arma la presenza dell’auto del genitore nel parcheggio all’esterno della scuola. I militari hanno fatto aprire i cancelli al custode (che non vive nello stesso edificio dove si trova la scuola) e dopo aver ispezionato tutti i locali hanno ritrovato il corpo del 64enne dietro un’aiuola, a poca distanza dall’edificio dove in passato abitava il custode.

Proprio nei pressi di questo edificio sarebbero state trovate tracce di sangue che potrebbero essere riconducibili alla vittima anche se sarà l’esame del Dna a cristallizzarlo. In caso contrario potrebbero appartenere invece a chi ha ucciso o partecipato all’omicidio del docente. Tracce ematiche che sono state trovate a pochi metri dal cadavere: non è presente una scia di sangue, quindi presumibilmente il corpo non è stato trascinato. Nessuna traccia anche del coltello utilizzato da chi ha ucciso il professore.

·        Il caso di Mauro Antonello.

A Chieri una strage preparata con gli appunti per la festa. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022

Sono passati poco meno di 20 anni, le responsabilità penali sono chiare. Ma restano i dubbi tra ipotesi di insanità mentale e un movente incerto 

Mauro Antonello e la moglie Carla Bergamin

«Appunti per la festa» è il nome che un padre di famiglia di Chieri aveva dato alla pianificazione non del compleanno della figlia ma di una strage, così barbara e fuori contesto da essere stata inghiottita dal silenzio di una comunità che non accettava il peso di sette persone ammazzate seguendo alla lettera un ricettario di morte.

Il movente impossibile

Sono passati poco meno di vent’anni da quel 15 ottobre del 2002 nel quale si consumò una tragedia della quale sì, si conoscono precisamente le responsabilità penali, tecnicamente non è un caso misterioso. Ma è rimasto un episodio dai contorni sfuggenti, sfrangiati tra ipotesi di insanità mentale e tentativi di ricostruire un movente cui appendere il peso di sette vite innocenti.

Gli appunti

«Appena obbiettivo ti guarda spara: importante. Appena esce dalle scale, scendi da camper e aspetta dietro cinta Maurizio. Quando lei gira l’angolo, affrettati senza correre. Passato soglia cancello carrabile, chiuderne un’anta. Sparare a tutto nel raggio di 25 metri. Primaria importanza scovare obiettivi». Sembra una scrittura per un ciak di Rambo, invece è il delirante piano di azione di Mauro Antonello, quarant’anni, carpentiere. O meglio: ex carpentiere.

La sua storia

L’uomo era sposato con Carla Bergamin, tre anni più giovane di lui, di mestiere bidella in una scuola materna di Andezeno. La coppia aveva in animo di crescere insieme la figlia di otto anni. Dopo due anni di convivenza, tuttavia, Carla se n’era andata: iracondo, dai comportamenti imprevedibili e scombinati, restare sotto lo stesso tetto non era più possibile. Lui era rimasto nella casetta tra Chieri e Cambiano contando sugli aiuti del fratello per sopravvivere, insieme a qualche lavoretto saltuario. Per colpa non sua, come si evince dalle cronache autoprodotte, ma del «cemento dei cantieri che mi ha rovinato le mani».

Il risentimento covato

Su tutto, aveva iniziato a covare la sua vendetta perché, come lasciò scritto nei diari dedicando alcune righe alla figlia, «tua madre non vuole tornare con me, non capisce che per una bimba non c’è gioia più grande che vederci insieme». La disoccupazione, colpa del mestiere usurante. La fine del matrimonio, responsabilità della moglie: la circostanza che i suoi comportamenti fossero intollerabili e che proprio da quelli fosse dipesa la separazione, evidentemente, neanche lo sfiorava.

La scelta di lei

Lei, intanto, era tornata a vivere in una villetta condivisa con la madre, la signora Teresa, rimasta vedova e ancora responsabile del laboratorio tessile al piano terreno della casa, un’attività che il marito gestiva prima che si togliesse la vita. Lo temeva ma sperava di riuscire ad affrancarsi definitivamente dalla sua presenza.

La passione per le armi

Avvicinandosi la data della formalizzazione in tribunale, Mauro Antonello aveva deciso di risolvere la questione della sua vita fallita a modo suo. Appassionato di armi e di film di guerra, si era costruito un poligono insonorizzato in casa e, col tempo, aveva completato la sua collezione di pezzi facendo acquisti presso un negozio specializzato in città. Undici tra pistole e fucili, due chilogrammi di polvere da sparo; pure un puntatore laser, di quelli in dotazione alle forze speciali. Per quasi una settimana spiò i movimenti della casa in cui vivevano la donna e la figlia, cui lui si rivolgeva con l’appellativo di «Pulcino».

Il piano diabolico

Affittò un camper, lo parcheggiò nel piazzale di fronte al cancello e, da una feritoia nel bagno, prese a segnare meticolosamente ogni spostamento, le partenze e gli arrivi di tutti. Il mattino del 15 ottobre passò all’azione: bevve abbondante camomilla con un sedativo e un antiemetico, si mise i tappi nelle orecchie e partì verso il suo obiettivo.

L’inizio della strage

La prima a essere colpita fu proprio Carla, nel cortile. Stava salendo sull’automobile per andare al lavoro, venne falciata da cinque proiettili. Gli spari allarmarono il vicino di casa, il povero signor Decio Guerra. Nonostante il killer si fosse proposto di agire chirurgicamente e di non fare vittime innocenti (sic!) cambiò subito idea e fulminò lui e la moglie, Laura. La quarta vittima fu la madre di Carla: anche per lei, fu fatale l’affacciarsi all’uscio per capire cosa stesse capitando. A cadere per quinta, un’altra persona che con i fallimenti di Antonello non aveva alcunché a che fare: Pietrangela Gramaglia, che lavorava nella ditta tessile. Appena entrato in casa, l’uomo trovò Sergio, suo cognato, e la cognata Margherita. Per loro, una pioggia di proiettili.

Il racconto sul diario

Così spiegata nel diario: «Lui ha convinto la sorella a separarsi da me, lei parlava male di me». Quattro minuti e c’erano a terra i corpi di sette individui. L’ottavo cadavere che la scientifica identificò, ucciso da un colpo di pistola al petto autoinflitto, fu quello di Mauro Antonello. Aveva, secondo il piano della “festa”, previsto una fuga per i campi dal suo sterminio ma l’arrivo dei carabinieri, o forse la consapevolezza di ciò che lo attendeva, lo convinsero a sottrarsi al giudizio umano. Che sia passato tanto tempo da quei fatti lo testimonia un’intervista a un attempato criminologo, a poche ore dalla strage: ci teneva a spiegare che l’artefice «non è un killer, è un autolesionista che poi si suicida». Mancava solo un rimando al dovere della donna di tenere insieme la famiglia e di non andarsele a cercare. 

·        Il caso di Angela Celentano.

Il giallo di Angela Celentano. «Presto il Dna di una ragazza sudamericana che somiglia alla sorella».  Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 7 Novembre 2022

L’avvocato della famiglia della bambina scomparsa a tre anni, nell’estate del 1996 sul monte Faito, conferma che attende il Dna per sottoporlo a comparazione

Nelle prossime settimane la famiglia di Angela Celentano, la bambina scomparsa a tre anni, nell’estate del 1996 sul monte Faito, potrebbe venire in possesso del Dna di una ragazza sudamericana che presenta più di una caratteristica in comune con Angela. A farlo sapere, con una dichiarazione rilasciata stamattina ai microfoni della trasmissione Mattino 5, e successivamente confermata al Corriere, è l’avvocato Luigi Ferrandino, il legale che da alcuni anni assiste Maria e Catello Celentano, i genitori della bambina (oggi donna) scomparsa. Per comprendere come nasce questa nuova pista imboccata per risolvere un mistero impenetrabile da più di 26 anni va premesso che tra le iniziative che la famiglia non ha mai sospeso per ritrovare la bambina, da qualche mese, grazie alla collaborazione con una associazione internazionale impegnata nella ricerca di persone scomparse, un’immagine di Angela, rielaborata al computer e resa come presumibilmente potrebbe essere oggi la ragazza, compare sugli schermi dei bancomat di mezzo mondo.

Ciò ha fatto arrivare numerose segnalazioni, e a destare maggiormente l’attenzione dei Celentano è stata quella relativa a una giovane donna sudamericana che non solo ha una profonda somiglianza con una delle sorelle di Angela, ma condivide con la bambina scomparsa anche una macchia sulla schiena, seppure non precisamente nello stesso punto. Secondo quanto riferisce l’avvocato Ferrandino c’è qualcuno, da lui definito «un nostro gancio», che opera nello stesso ambito professionale di questa ragazza e l’ha contattata proponendole di partecipare a un progetto lavorativo. Lei si sarebbe mostrata interessata e avrebbe detto che nelle prossime settimane sarà in Europa (Ferrandino non ha voluto specificare il Paese) e quindi potrà incontrare il «gancio» per discutere i termini di una eventuale collaborazione. Nessun riferimento, quindi alla vicenda di Angela né a una eventuale comparazione del Dna.

«Ma in quella occasione — spiega il legale dei Celentano — ci auguriamo di riuscire a prelevare un quantitativo sufficiente di materiale biologico di questa ragazza in modo da poterne estrarre il Dna e confrontarlo con quello dei familiari di Angela». Ferrandino aggiunge che sarà il “gancio” stesso, in base a istruzioni che lui gli ha impartito, a raccogliere il materiale biologico e a spedirlo a Napoli, dove sarà portato in laboratorio. Stavolta, quindi, il legale e i suoi clienti hanno deciso di intraprendere una strada assolutamente nuova e non priva di rischi. Innanzitutto, relativamente all’attendibilità dell’esame: raccogliere e conservare materiale biologico senza averne la necessaria competenza può comportare contaminazioni che vanificherebbero poi la ricerca del profilo biologico. E anche procedere alla raccolta di un dato così sensibile — il più sensibile in assoluto — all’insaputa dell’interessata è una procedura che fino a oggi nel caso Celentano, ma anche in quello di Denise Pipitone, non è mai stata seguita.

Si è sempre fatto tutto rimanendo nel rispetto delle leggi, delle regole e delle persone. Perché stavolta sia diverso e perché l’avvocato Ferrandino sia andato anche ad annunciarlo in tv, sapendo che le sue parole avrebbero avuta un’eco rilevante, non è chiaro. Potrebbe sembrare una mossa sballata, ma l’impressione è che dietro ci sia un motivo specifico, e non è escluso che possa entrarci qualcosa un altro riferimento fatto dal legale: «Questa ragazza appartiene a una famiglia molto importante e svolge una professione per la quale gode di una rete di protezione particolare». Lui, però, al Corriere la spiega così: «Se avessimo voluto fare come sempre ci saremmo dovuti rivolgere alla Procura che avrebbe dovuto coinvolgere il ministero degli Esteri e avviare una rogatoria internazionale e sarebbero passati mesi se non anni. E poi chi ci dice che la persona avrebbe accettato di sottoporsi al test? Se si tratta di Angela non si ricorda certo della sua famiglia, per lei i parenti sono quelli con cui ha vissuto negli ultimi 26 anni e quindi è presumibile che rifiuterebbe l’esame per proteggerli. Perché se dovesse venire fuori che la ragazza è Angela Celentano, quelli che lei crede siano i suoi genitori dovrebbero spiegare molte cose. Insomma, si scatenerebbe l’inferno. Quindi preferiamo prima sapere la verità: se è quella che sospettiamo, presenteremo tutte le denunce necessarie e l’inferno lo faremo scatenare noi».

La svolta tra poche settimane. Angela Celentano, la ragazza sudamericana e la somiglianza con una delle due sorelle: “Verrà in Europa per la prova del dna”. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Novembre 2022

Per la famiglia Celentano la speranza di ritrovare Angela non si è mai affievolita, anche se i colpi sono stati tanti e duri. Da quando Angela è scomparsa il 10 agosto 1996 dal Monte Faito, Catello e Maria Celentano e Rosa e Noemi, le due sorelle della bambina non hanno mai smesso di cercarla. Ventisei dolorosi e lunghi anni di ricerche, tra falsi allarmi e speranze disattese. La famiglia da qualche mese segue una nuova pista: ci sarebbe una ragazza in un non meglio precisato luogo del Sud America i cui dati anagrafici corrispondono a quelli di Angela Celentano e ci sarebbe anche una grossa somiglianza fisionomica oltre alla coincidenza di una macchia sul dorso. Ma oltre le speranze la prova regina resta quella del Dna, l’unica in grado di confermare o smentire questa tesi. E non mancherebbe troppo tempo per saperlo: “Tra poche settimane la ragazza sud americana sarà in Europa e in quella occasione ci auguriamo che si riesca a raccogliere il materiale per la prova del dna”, ha detto l’avvocato Luigi Ferrandino intervistato da Mattino Cinque.

Il legale che da sempre è al fianco dei Celentano nelle ricerche della bambina che oggi avrebbe 29 anni. Già da mesi si cercano conferme e si segue la pista sud americana. In un’intervista al Riformista Maria e Catello Celentano spiegarono che si stava procedendo con i piedi di piombo e con tutta la cautela del caso vista la delicatezza della materia trattata. L’avvocato Ferrandino ha spiegato che “la nostra persona di riferimento ha raggiunto un accordo con la ragazza Sud Americana e nelle prossime settimane verrà in Europa, non posso svelare dove e noi ci auguriamo che si riesca a prelevare del materiale per la prova del dna”.

“La persona che fa da contatto fa parte dello stesso ambiente professionale – ha spiegato l’avvocato – le ha prospettato la possibilità di lavorare insieme in un bel progetto e la ragazza ha detto che verrà in Europa nelle prossime settimane per lavorarci. In quella circostanza speriamo che questa persona riesca a prelevare un campione di saliva tale da poter fare il test del dna. Ovviamente gli abbiamo dato dei suggerimenti, io gli ho dato delle indicazioni su come prelevare il campione e farcelo pervenire senza che possa essere contaminato o che sia insufficiente per ricavare il dna”. Come fanno i Celentano ad essere certi che la ragazza verrà all’appuntamento con questa persona in Europa? “Il nostro contatto è un’autorità nell’ambito della loro attività professionale – ha precisato Ferrandino – una persona che ha credibilità e autorevolezza per avvicinare la ragazza. L’idea di lavorare insieme per lei è allettante. La ragazza è una che gira il mondo quindi per lei spostarsi in Europa non è un problema e quindi ha accettato di incontrare il nostro contatto”.

Le indagini su questa ragazza sono state fin ora molto complicate perché, ha spiegato l’avvocato “è una persona che ha una rete di protezione per la famiglia perché appartiene a un nucleo familiare piuttosto importante in Sud America. Anche la ragazza per la professione che svolge è un po’ più protetta rispetto ad altre persone che fanno una vita normale”. Ferrandino e i Celentano, scottati dalle delusioni precedenti, ci vanno cauti ma l’avvocato dice di avere buone sensazioni questa volta. “Ho visto più di una foto di questa ragazza perché siamo riusciti ad avere una serie di fotografie – ha continuato il legale – La mia sensazione è che ci sia una grande somiglianza, ma la mia sensazione ha poca importanza. Quello che ha importanza è la sensazione che ha avuto Maria, la mamma di Angela. Uno perché la mamma riesce a vedere laddove gli altri non riescono a vedere e perché essendo una donna è più attenta ai dettagli e ai particolari. Ritengo che la sua opinione sia di grandissima importanza. Quando ha visto la foto Maria ha sobbalzato e si è anche commossa e c’è una grande somiglianza con una delle due figlie, una delle sorelle di Angela”.

Nonostante tutto porti a far sperare molto, i Celentano ci vanno cauti: “Tutto questo non vuol dire nulla – ha concluso l’avvocato – lo ribadisco: noi non vogliamo illudere la famiglia, loro non si illudono, sono persone con i piedi per terra, che ne hanno già passate tante e quindi diciamo che il percorso siamo obbligati a farlo perché gli elementi sono tanti, ma siamo consapevoli che potrebbe essere un ulteriore buco nell’acqua”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

“Sono io Angela Celentano”: nuova pista sul caso della bambina scomparsa nel 1996. Federica Palman l'08/10/2022 su Notizie.it.

Rimane valida anche la pista in Sudamerica, dove vive una donna che somiglia all'elaborazione del viso che potrebbe avere oggi Angela Celentano. 

Il caso di Angela Celentano, la bambina di 3 anni scomparsa sul Monte Faito, in provincia di Napoli, il 10 agosto 1996, è tornato sotto i riflettori dopo due recenti sviluppi. Il primo riguarda una giovane donna sudamericana, molto somigliamente a come dovrebbe essere Celentano nel 2022; il secondo una donna italiana convinta di essere la bambina sparita, come rivelato nella puntata di Quarto grado di venerdì 7 ottobre 2022.

La donna ha contattato l’avvocato della famiglia Celentano, Luigi Ferrandino, raccontandogli dei ricordi d’infanzia che potrebbero essere compatibili con quanto successo ad Angela.

Una donna italiana è convinta di essere Angela Celentano

Nel corso della trasmissione, Luigi Ferrandino ha riferito quanto raccontatogli dalla donna italiana. Sarebbe stata rapita in un bosco quando era bambina e avrebbe trascorso una notte in una grotta. La mattina seguente, sarebbe stata portata in un casolare e poi prelevata dalla famiglia che l’avrebbe cresciuta.

Secondo il racconto della donna, nel casolare ci sarebbero stati altri bambini, probabilmente rapiti anche loro. L’esame del Dna svelerà se la donna è effettivamente Angela Celentano.

In Sudamerica vive una donna che somiglia a come Angela Celentano dovrebbe essere

Rimane ancora valida anche la pista sudamericana, che vede una donna molto somigliante a come sarebbe Angela Celentano secondo l’elaborazione dell’associazione statunitense Missing Angels, che ha incrociato i tratti somatici dei genitori e delle sorelle.

Come rivelato dal padre, inoltre, la ragazza avrebbe la stessa voglia della bambina. Anche in questo caso la verità sarà rivelata dall’esame del Dna.

Il neo, il Dna, il bancomat: "Così speriamo di ritrovare Angela Celentano". L'avvocato Luigi Ferrandino a ilGiornale.it: "C'è una grande somiglianza tra la ragazza della foto e Angela Celentano. Aspettiamo il Dna". Rosa Scognamiglio il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

Una segnalazione giunta dal Sud America ha riacceso le speranze di poter ritrovare Angela Celentano, la bimba di 3 anni scomparsa durante una gita coi genitori sul Monte Faito (Vico Equense) il 10 agosto del 1996. "C'è una ragazza che assomiglia a nostra figlia. Stiamo verificando una serie di elementi prima di procedere, qualora dovesse esserci un riscontro positivo, col test del Dna ", aveva raccontato Catello Celentano, il papà di Angela, in un'intervista rilasciata alla nostra redazione. Ma c'è di più.

"C'è un neo sul corpo della ragazza che, per forma e colore, è simile a quello di Angela. Siamo ancora in fase di accertamento, bisogna essere cauti", spiega a ilGiornale.it l'avvocato Luigi Ferrandino, il legale della famiglia Celentano.

Le testimonianze contrastanti e il dubbio: com'è stata rapita Angela Celentano?

Avvocato Ferrandino, ci sono novità?

"Siamo in attesa di ricevere il materiale genetico della donna che sembrerebbe avere una grande somiglianza con Angela Celentano".

Dopodiché?

"Si procederà con un test comparativo del Dna tra i genitori, le sorelle di Angela e la ragazza della segnalazione".

A proposito della segnalazione. Com'è nata?

"Virginia Adamo, l'esperta alla quale i coniugi Celentano hanno affidato il coordinamento del team social, nonché presidente dell'associazione 'Manisco World' e amministratrice del gruppo 'Busco mi Familia Biològica' ('Cerco la mia Famiglia Biologica', ndr), che si avvale della collaborazione di ben 80 associazioni internazionali, è riuscita a ottenere un accordo con il circuito bancomat Atm che ha diffuso la foto di Angela in decine di Paesi di tutto il mondo".

E poi?

"Una persona ha notato una particolare somiglianza tra Angela e una ragazza, dunque lo ha segnalato all'associazione. Dopodiché sono stati informati i coniugi Celentano e quindi anche io".

"C'è una pista". E spunta una nuova foto di Angela Celentano

Quale è stata la mossa successiva?

"Abbiamo fatto una serie di indagini, come sempre accade ogniqualvolta riceviamo una segnalazione, e ci è sembrata una pista interessante".

Per quale motivo?

"Perché ci sono indubbiamente delle somiglianze tra Angela e la ragazza della segnalazione".

Di che genere?

"Sia per il vissuto personale di questa donna che per una serie di dettagli".

Qualcosa in particolare?

"C'è un neo sul corpo della ragazza che, per forma e colore, è simile a quello di Angela. Quando ci siamo accorti del dettaglio abbiamo consultato una dermatologa poiché, attraverso il riscontro fotografico, abbiamo notato che il neo della donna è posizionato al centro della schiena e non a destra com'era quello di Angela. Ma la dottoressa ci ha spiegato che è probabile si sia spostato durante la crescita"

C'è qualche altro dettaglio che può rivelarci?

"Ci sono altri elementi interessanti ma preferisco non sbilanciarmi più del necessario. Bisogna tutelare anzitutto la privacy della ragazza".

"Ha bisogno di ritrovare la famiglia", si cerca Angela Celentano ai bancomat

Come siete riusciti a rintracciarla?

"Abbiamo fatto una serie di ricerche e poi, mediante alcuni contatti, siamo riusciti ad ottenere varie foto di questa persona. Successivamente sono stati fatti degli accertamenti e, grazie alla mediazione delle autorità locali, abbiamo acquisito in forma privata (quindi senza costi per lo Stato) il Dna della ragazza".

A proposito del Dna, quello dei genitori di Angela è già disponibile?

"Sì, c'è già una copia disponibile del profilo genetico sia dei coniugi Celentano che delle sorelle presso la polizia scientifica".

Avvocato, sono passati 26 anni dalla scomparsa di Angela. Che idea si è fatto di questa storia?

"Non mi sono fatto nessuna idea. Da avvocato sono abituato a valutare i fatti in modo obiettivo e realistico. Dietro la scomparsa di Angela potrebbero esserci decine di situazioni, si possono fare molteplici ipotesi: dalle adozioni illegali a molte altre. La verità è che non c'è alcun elemento che possa far propendere per l'una o l'altra possibilità".

Ma resta la speranza.

"Certo. I genitori di Angela non hanno mai smesso di cercare la loro figlia e sono fiduciosi, come è giusto che sia, di poterla riabbracciare un giorno. Ed è quello che ci auguriamo noi tutti".

Intervista a Maria e Catello Celentano. Angela Celentano e la nuova pista in Sud America, la mamma e il papà: “Troppe delusioni, restiamo con i piedi per terra in attesa del Dna”. Rossella Grasso su Il Riformista il 9 Settembre 2022 

Migliaia di volte hanno immaginato di trovarsi davanti alla loro figlia Angela, scomparsa dal Monte Faito il 10 agosto 1996. Catello e Maria Celentano da 26 anni non hanno mai smesso di cercare la figlia di cui si sono perse le tracce quando aveva 3 anni e che oggi ne avrebbe 29. La speranza di trovarla non si è mai affievolita sin dal primo istante in cui la cercarono ovunque su quella montagna in provincia di Napoli con il cuore in gola. I due genitori non sanno cosa le direbbero se la trovassero davanti. “Si possono pensare a mille cose poi magari…Se ci sarà un abbraccio vorrà dire tanto. Se ci sarà un pianto…io solo a immaginarlo inizio a piangere. Abbiamo immaginato più volte questo momento, sarà sicuramente un momento molto forte”, dice Maria senza riuscire a trattenere le lacrime. Eppure ora si apre una nuova pista, una segnalazione che arriva dal Sud America che riaccende la speranza che possa trattarsi di lei, di Angela. “Restiamo con i piedi per terra – dicono Angela e Maria – Dopo la fase di Celeste Ruiz che è durata alcuni anni, quando davvero abbiamo creduto di aver ritrovato Angela, per poi scoprire che era tutto un bluff, per noi è stata una mazzata. Questa volta l’ho detto dal primo momento: stiamo con i piedi per terra, non ci dobbiamo illudere di niente”.

Maria e Catello Celentano hanno ripercorso con Il Riformista 26 dolorosi anni di ricerche, tra falsi allarmi e speranze mai svanite. “Il nostro intento non è più quello di riportare Angela a casa, perché ora è grande e ha una vita sua, ma quello di ritrovarla. Vogliamo farle sapere che ci siamo sempre stati, ci siamo, questa è la sua famiglia, casa sua. La decisione sul prosieguo della sua vita poi spetta a lei. Sono cambiati un po’ gli obiettivi delle ricerche in un certo senso. Stiamo facendo tutto questo perché la nostra speranza è che sia lei a trovare noi”. E dopo la pista messicana, ora si apre anche quella in Sud America.

Oggi c’è una nuova pista, quella in Sud America. Come ci siete arrivati?

La pista è arrivata a giugno tramite la segnalazione dell’associazione ‘Busco Mi familia biologica’ che collabora con altre 80 associazioni in tutto il mondo. Avevamo diffuso la foto in age progression di Angela sui social e così ci è arrivata questa segnalazione. Ce ne sono arrivate tante, non è stata l’unica. Addirittura ci scrivono ragazze che cercano la loro origine sapendo di essere state adottate. Tra le tante segnalazioni questa ci sembrava da prendere in considerazione più delle altre.

Perché proprio questa segnalazione ha catturato la vostra attenzione?

Abbiamo visto la foto ed è molto somigliante per i tratti somatici alle nostre due figlie, Rossana e Naomi e anche a noi. Poi questa persona ha una macchiolina sulla schiena, una voglia color caffè, come l’aveva Angela. Vari elementi ci hanno portato ad approfondire in maniera più accurata questa segnalazione.

Come vi siete mossi dopo la segnalazione?

Abbiamo iniziato le indagini a livello privato con il nostro team. Stiamo ancora prendendo quante più informazioni è possibile e se dovessero coincidere totalmente passeremo alla prova del Dna.

Maria, lei ha visto una foto della ragazza che potrebbe essere Angela, come si è sentita vedendola?

Da premettere che siamo abbastanza con i piedi per terra. Dopo la fase di Celeste Ruiz che è durata alcuni anni, quando davvero abbiamo creduto di aver ritrovato Angela, per poi scoprire che era tutto un bluff, per noi è stata una mazzata. Questa volta l’ho detto dal primo momento: stiamo con i piedi per terra, non ci dobbiamo illudere di niente. Vogliamo fare le cose che devono essere fatte, rimanendo sempre con i piedi per terra. Quando ci è arrivata questa foto l’abbiamo vista e rivista tantissime volte e abbiamo deciso di valutare attentamente. Così sono partite le indagini per avere qualche informazione in più su questa ragazza.

L’avvocato Ferrandino ha detto che state agendo tramite attività investigativa privata per scelta. Come mai?

È il modo più veloce. Con tutta la burocrazia rallenteremmo tanto.

Che tipo di informazioni state cercando per avere delle conferme? 

Tutte le informazioni che ci possono portare al risultato finale che è la prova del Dna. Stiamo aspettando questo momento, questa opportunità che dovremmo avere a breve per portare così a conclusione. Abbiamo in campo una serie di collaborazioni.

La ragazza che potrebbe essere Angela e la sua famiglia sono a conoscenza delle indagini che state svolgendo?

Ancora no.

Come riuscirete ad arrivare alla prova del dna?

Per quello ci vuole la collaborazione della famiglia e della ragazza stessa. Ecco perché prima prendiamo tutte le informazioni possibili. Stiamo ancora aspettando e cercando altre informazioni perché la faccenda è molto delicata, non è una cosa semplice andare ad intaccare la sensibilità delle persone e delle identità.

Tutto parte dall’ultimo rendering diffuso di come sarebbe Angela oggi?

Quella è stata una spinta in più per far veicolare la notizia della scomparsa di Angela e delle ricerche. La nuova age progression che abbiamo pubblicato è molto somigliante alle sorelle e ai tratti somatici della famiglia. Sta veicolando bene tramite i social, Tiktok, Instagram. Tra poco useremo anche il sito che ora è in allestimento. Stiamo avendo una buona risposta da parte delle persone che ringraziamo e invitiamo a continuare a far circolare la notizia perché in questo modo Angela sta arrivando in tutto il mondo. Abbiamo riscontri dall’America Latina, Europa, Australia, sta arrivando ovunque.

Per le indagini state procedendo privatamente, in tutti questi anni di ricerche vi siete sentiti abbastanza supportati dallo Stato?

Ritornare sul passato non cambia le cose. È un po’ come in tutti i casi di scomparsa, fortunatamente pochi, che ci sono stati di bambini italiani. Bisognerebbe migliorare molti aspetti per quanto riguarda le ricerche, la parte investigativa,…è come se si ripetessero sempre gli stessi errori. Lo Stato per quello che ha potuto fare l’ha fatto ma evidentemente non è bastato.

Avete perso fiducia nei confronti dello Stato?

È difficile dirlo o pensarlo perché comunque è lo Stato. È sempre lo Stato, l’organo a cui ci dobbiamo rivolgere anche nel caso di ritrovamento di Angela per poter convalidare il dna e poter poi rifare tutto. Più che perso fiducia, in alcuni momenti, siamo rimasti un po’ delusi.

Anche quando è stato archiviato il caso, cosa avete provato?

È stato un caso aperto per tanti anni, 24 per la precisione, e questo ha meravigliato anche gli addetti ai lavori. Non ce lo aspettavamo però lo sentivamo. Ma l’archiviazione non ci ha tolto la speranza di ritrovare Angela o ci ha rallentati, anzi. È stata una spinta in più per riprendere personalmente in mano le redini della situazione componendo questo nuovo pool investigativo con cui collaboriamo con l’avvocato Ferrandino, il criminologo Sergio Caruso e Virginia Adamo che si occupa della parte web delle indagini. Siamo un buon gruppo e stiamo facendo un buon lavoro.

Se dovesse essere positivo il test cosa farete?

Noi lo abbiamo sempre detto, soprattutto negli ultimi anni: ora il nostro intento non è più quello di riportare Angela a casa, perché ora è grande e ha una vita sua, ma quello di ritrovarla. Vogliamo farle sapere che ci siamo sempre stati, ci siamo, questa è la sua famiglia, casa sua. La decisione sul prosieguo della sua vita poi spetta a lei. Sono cambiati un po’ gli obiettivi delle ricerche in un certo senso. Stiamo facendo tutto questo perché la nostra speranza è che sia lei a trovare noi.

C’è un’altra mamma che da 18 anni cerca la figlia scomparsa, Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone. Lei dice spesso che i bambini non scompaiono da soli e che vanno cercati.

È così, i bambini vanno cercati sempre. Tutte le persone vanno cercate. Non è possibile che le persone scompaiano nel nulla, nessuno vede niente, nessuno sa niente, non si sa dove sono. È assurda questa cosa. Figuriamoci i bambini, non se ne vanno via da soli, c’è qualcuno che li porta via. Finchè abbiamo vita il nostro obiettivo è cercarli.

Che idea si è fatta, cosa è successo sul monte Faito quel 10 agosto 19996?

La nostra idea da sempre è che Angela è stata rapita per una adozione illegale. È sempre stato il nostro pensiero che ci accompagna tutt’oggi. Angela è stata presa per essere adottata illegalmente. O è stata una cosa occasionale o organizzata, non lo sappiamo.

Intorno alla vicenda della scomparsa di Angela c’è sempre stato molto clamore mediatico. Negli anni c’è stato qualcosa che vi ha infastidito o addolorato come conseguenza di questo clamore?

Ci ha dato fastidio che ci sono persone che approfittano della storia per cercare visibilità, farsi notare e remare contro. Ci sono sempre queste persone. Ma più che guardare a queste, magari uno in negativo, guardiamo a 100mila positivi che ci sono stati. È la vita così, non ci possiamo fare niente.

Ci sono state segnalazioni mosse da morbosità e suggestione date proprio magari da questo clamore?

Sì, ci è successo. Finchè le indagini erano aperte invitavamo tutte le persone che ci facevano segnalazioni a rivolgersi alle forze dell’odine. Non potevamo noi con le indagini aperte prendere iniziative. Ci sono stati anche dei mitomani, dei folli. Ne abbiamo viste di cose in questi anni. C’è chi ha chiamato per chiederci un riscatto, chi ci ha detto che sapeva dove stava Angela e noi siamo corsi sul posto anche lontano da noi. E alla fine abbiamo scoperto che la persona che ci aveva fatto la segnalazione era un paziente psichiatrico in cura. Non ultimo la persona che si nascondeva dietro Celeste Ruiz. Quella è stata una cosa per noi incredibile, ancora oggi, che è durata 7 anni.

Questa persona vi contattava e vi diceva di essere Angela?

Si, ha iniziato nel 2010 e tutto si è concluso nel 2017 con la persona che si è riconosciuta nella foto che ci ha detto di non essere Celeste Ruiz e che non era nostra figlia Angela. Ci disse che qualcuno aveva rubato la sua foto per fare tutto quello che ha fatto. Ci siamo anche incontrati con questa donna ma poi non l’abbiamo più sentita.

Cosa vi ha dato la forza in tutti questi anni di continuare a cercare usando ogni mezzo?

La fede in Dio ci ha sostenuto tanto e continua a sostenerci. Non è facile affrontare tutto questo, per niente. Ma grazie alla fede in Dio siamo ancora qui oggi e abbiamo ancora speranza. Ed è forte, è una cosa che ci mantiene in vita questa. È la speranza forte di riabbracciarla un giorno, quello che ci fa continuare le nostre ricerche. E la sentiamo oggi come la sentivamo allora.

La foto di Angela è circolata anche attraverso i bancomat.

All’inizio doveva essere una settimana poi è stato prolungato per due settimane. È stata visualizzata 90milioni di volte al giorno in tutta Europa in 50mila Atm. Ora stanno continuando con altre foto di altre persone.

Se dovesse finalmente riabbracciare Angela oggi o almeno sapere chi è cosa le direbbe?

Non lo sappiamo. Si possono pensare a mille cose poi magari…Se ci sarà un abbraccio vorrà dire tanto. Se ci sarà un pianto…io solo a immaginarlo inizio a piangere. Abbiamo immaginato più volte questo momento, sarà sicuramente un momento molto forte. Poi non so la nostra reazione quale sarà. Siamo contenti che le persone ci stanno aiutando nella divulgazione della foto e questo per noi è molto importante, non ci fermiamo. Mentre stiamo continuando le indagini su questa ragazza continuiamo a diffondere la foto. Vogliamo ringraziare tutte le persone che in qualsiasi modo lo stanno facendo, questo per noi è molto importante.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Angela Celentano, choc dal Messico: "Sulla schiena...", il dettaglio decisivo? Libero Quotidiano il 03 settembre 2022

Una nuova segnalazione arrivata dal Messico dà speranza a Maria e Catello Celentano, i genitori di Angela, la bambina scomparsa 26 anni fa - il 10 agosto 1996 - durante una gita con la famiglia sul Monte Faito. Da quel momento più nessuna notizia della piccola. Con la segnalazione è giunta anche una foto della ragazza che potrebbe essere Angela. "Quando una delle figlie dei coniugi Celentano ha visto una foto della ragazza ha esclamato: 'Ma sembro proprio io!'", ha raccontato all'Ansa l'avvocato Luigi Ferrandino.

Non è certo la prima volta che arriva una segnalazione di questo tipo alla famiglia Celentano. Ecco perché il loro legale ha chiarito: "Di questo tipo di indicazioni, ne arrivano di continuo. Tutte passano al vaglio ma solo alcune vengono da noi poi attivamente seguite". Questa volta, però, sembra esserci qualcosa di diverso: "I genitori di Angela non si fanno particolari illusioni. Ma certo stavolta gli elementi sono diversi", ha detto Ferrandino.

"Detto dell'incredibile somiglianza con una delle figlie della coppia, c'è la foto di un neo sulla schiena che potrebbe corrispondere a quello che aveva la piccola Angela - ha continuato l'avvocato -. E poi ci sono rapporti che i genitori di questa ragazza hanno avuto con l'Italia in quegli anni, in particolare con la Campania e con Vico Equense". Per ora, però, non sono stati coinvolti né l'autorità giudiziaria italiana né quella del Paese dove risiede la ragazza. L'avvocato, infine, ha spiegato che al momento mancherebbe solo il test della Dna.

Angela Celentano in Sud America? Il papà: "Aspettiamo riscontri, poi il Dna". Si riaccendono le speranze per la bimba scomparsa 26 anni fa sul Monte Faito. Il papà a ilGiornale.it: "Quella ragazza ha gli stessi tratti del viso di Angela. Siamo speranzosi". Rosa Scognamiglio il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

Sono passati 26 anni dalla scomparsa di Angela Celentano. La bimba - al tempo aveva 3 anni - svanì nel nulla durante una gita sul Monte Faito (Vico Equense) con i genitori, le sue sorelline e il gruppo di preghiera di cui faceva parte la sua famiglia. All'epoca la notizia suscitò grande clamore mediatico attirando le telecamere dei tiggì di tutto il mondo.

Era il 10 agosto del 1996. "Oggi ha trent'anni, è una donna", racconta in una intervista alla redazione de ilGiornale.it Catello Celentano, il papà di Angela che, assieme a sua moglie Maria e le altre due figlie, Rosa e Noemi, non ha mai perso la speranza. Una speranza che si è riaccesa con una recente segnalazione dal Sud America: "C'è una ragazza che assomiglia a nostra figlia. - spiega Catello - Stiamo verificando una serie di elementi prima di procedere, qualora dovesse esserci un riscontro positivo, col test del Dna".

"C'è una pista". E spunta una nuova foto di Angela Celentano

Signor Catello, in occasione del 26esimo anniversario della scomparsa, lei e sua moglie Maria avete diramato una foto che mostra come potrebbe essere Angela oggi. Come l'avete ottenuta?

"L'immagine è stata realizzata dagli esperti dell'associazione Missing Angels Org, con sede in Florida (Usa) e con cui siamo in contatto, mediante uno speciale e avanzato software che ha permesso di realizzare una age progression del volto di mia figlia da bambina. Come ha spiegato l'avvocato Ferradino, il nostro legale, l'immagine è stata ottenuta elaborando i tratti somatici miei, di mia moglie e delle altre due mie figlie, Rosa e Noemi".

La foto è stata diffusa su tutte le piattaforme social. Avete ricevuto qualche riscontro?

"Sì. L'immagine è stata diffusa in tutti i database dedicati alle persone scomparse nel mondo e sui vari social network. E devo dire che abbiamo raggiunto già una buona copertura, c'è stato subito un ottimo riscontro".

Si è parlato anche di una segnalazione dal Sud America. Quindi c'è una nuova pista?

"Al momento stiamo verificando tutta una serie di elementi relativi alla segnalazione di una ragazza che, per i tratti del viso, somiglia molto a nostra figlia".

Può dirci qualcosa in più al riguardo?

"Questa ragazza sembrerebbe compatibile con Angela anche per una serie di dettagli. Per ora stiamo facendo alcuni accertamenti. Poi, qualora il riscontro dovesse essere positivo, si procederà con la prova del Dna".

"Ho visto Angela sull'autobus" La testimone che riapre il caso

Sono passati 26 anni dalla scomparsa. Col senno di poi, cosa crede sia successo quel giorno?

"L'idea che ho oggi e la stessa che avevo 26 anni. Credo si tratti di una 'questione illegale', mettiamola in questi termini. Così come penso che, se al posto suo ci fosse stata un'altra bambina o bambino, non sarebbe cambiato nulla per i presunti rapitori".

Quindi, secondo lei, è stata "scelta" a caso?

"Io credo di sì". 

Nel corso di questi anni avete ricevuto molte segnalazioni?

"Di segnalazioni, per fortuna, ne sono arrivate tante in questi anni. Le abbiamo sempre verificate approfondendo quelle che ci sembravano attendibili. Purtroppo però, come è noto anche alla stampa, alcune piste si sono rivelate completamente false o infondate. Ciononostante io e la mia famiglia non abbiamo mai smesso di cercare Angela".

Avete mai pensato che Angela possa trovarsi ancora in Italia?

"Io lo escluderei. Ho sempre pensato che si trovasse all'estero".

Quei bambini sospesi nel nulla

Quando è scomparsa aveva tre anni. Che bambina era?

"Molto vivace, intelligente ed espansiva".

E oggi, come immagina sia diventata?

"Un mix tra Rosa e Noemi, le sue sorelle. E poi credo che abbia conservato il carattere estroverso". 

Come hanno vissuto Rosa e Noemi la scomparsa della sorella?

"Al tempo erano piccine, non ricordano molto. Crescendo però ci hanno dato una grossa mano e si sono spese tantissimo per aiutarci nelle ricerche. Ora curano tutta la parte social con le varie pagine che abbiamo abbiamo attive sulle diverse piattaforme".

In che modo, lei e sua moglie, siete riusciti a mantenere viva la speranza di potere riabbracciare Angela per tutto questo lungo tempo?

"Con la fede. La fede è una cosa ben diversa dalla speranza perché non ti abbandona mai, non perde mai forza e intensità, specie nei momenti più difficili".

In Italia ci sono tantissimi genitori nella sua stessa condizione. Quale suggerimento sente di voler dare a queste famiglie?

"Una cosa che mi preme dire è che non bisogna colpevolizzarsi né tantomeno prendersela con il proprio partner. Io e mia moglie Maria ci siamo sempre sostenuti a vicenda, siamo stati l'uno la spalla dell'altro in questi anni. E quando ripensiamo al giorno della scomparsa, rifaremmo tutto allo stesso modo. Non rimpiangiamo di aver organizzato quella gita sul Monte Faito perché ciò che è accaduto non potevamo prevederlo. Quindi dico a queste famiglie, a questi genitori che vivono nell'attesa, di restare uniti e remare insieme nella stessa direzione".

Se invece potesse parlare direttamente ad Angela, cosa le direbbe?

"Vorrei rassicurarla del fatto che non intendiamo in alcun modo turbare la sua serenità. Sappiamo che adesso è una donna adulta, con un vissuto diverso dal nostro e probabilmente ha anche una famiglia tutta sua. A noi interessa solo sapere che è felice. Speriamo che un giorno ci riconosca e decida di contattarci per dirci che sta bene. Non chiediamo nulla di più. L'aspettiamo".

"Stiamo vagliando diverse segnalazioni, una di queste in America Latina sta meritando la nostra attenzione". Angela Celentano, a 26 anni dalla scomparsa la famiglia continua a cercare: “Ecco come sarebbe oggi”. Rossella Grasso su Il Riformista il 9 Agosto 2022. 

Era il 10 agosto 1996 quando in pochi istanti la piccola Angela Celentano che all’epoca aveva solo 3 anni, scomparve nel nulla dal Monte Faito mentre stava facendo un picnic con la famiglia. Tra piste poi rivelatesi sbagliate, avvistamenti poi smentiti, la sua famiglia non ha mai perso le speranze di riabbracciarla. E ha sempre continuato a cercarla lanciando appelli e usando qualsiasi mezzo per ritrovarla. Sono passati 26 anni esatti e adesso la famiglia punta ad usare il grandissimo potere di diffusione dei social per arrivare ad Angela che oggi avrebbe 29 anni. La speranza è che la ragazza, riconoscendosi nelle foto diffuse, possa essere lei stessa a contattare la sua famiglia.  E per questo motivo i Celentano hanno fatto elaborare da esperti una nuova foto di come sarebbe oggi Angela.

“Noi Catello e Maria Celentano, in coincidenza con il ventiseiesimo anniversario della scomparsa di nostra figlia Angela, avvenuta il 10 agosto del 1996 sul Monte Faito, rendiamo noto che esperti dell’Associazione ‘Missing Angels Org’ con sede in Florida, USA, grazie ad uno speciale ed avanzato software, hanno realizzato una age progression della sua immagine che corrisponderebbe in maniera quasi reale alle sembianze che avrebbe oggi . È stata forte la nostra emozione la foto è veramente veritiera, Maria ha pianto vedendo una foto che sembra reale”, scrive la famiglia sulla pagina Fabebook che le sorelle di Angela, Rosa e Naomi, hanno messo su per portare avanti le ricerche.

“Per compiere questa progression sono state utilizzati i tratti somatici di tutti i componenti della nostra famiglia, con particolare riferimento alle altre nostre due figlie Rossana e Naomi. Vogliamo ringraziare tutti coloro che stanno mettendo il cuore nella ricerca di nostra figlia , in primo luogo uno dei massimi esperti in indagini difensive italiani, il penalista napoletano il Prof. Luigi Ferrandino che coordina il team di esperti che ci coadiuva nella ricerca di nostra figlia, il noto criminologo calabrese Dott. Sergio Caruso, e tutte le associazioni che hanno diffuso e continuano a diffondere le immagini di Angela da piccola”, continua il post della famiglia Celentano.

E spiegano: “Riteniamo che i social siano di fondamentale importanza poichè ci consentono di spingere la ricerca in ogni angolo del pianeta. Per questo motivo abbiamo affidato il coordinamento del team social ad una esperta del settore, la Signora Virginia Adamo, presidente dell’Associazione ‘Manisco World’ e amministratrice del gruppo ‘Busco mi Familia Biològica’ che si avvale della collaborazione di ben 80 associazioni internazionali, grazie alla quale si è raggiunto un accordo con il circuito bancomat ATM che ha pubblicato in decine di paesi di tutta la terra l’immagine di nostra figlia”. L’iniziativa è stata portata avanti in molti paesi in tutto il mondo. Andando al bancomat le persone possono vedere sulla schermata le foto di Angela e il suo segno distintivo di una macchia sul dorso.

“Sono state create diverse pagine su differenti piattaforme social per la ricerca di nostra figlia Angela, riteniamo di ripeterne qui gli indirizzi chiedendo ad ogni persona un gesto di forte sensibilizzazione e solidarietà condividendo la age progression che oggi diffondiamo con questo comunicato affinchè si raggiungano i massimi risultati in termini di visibilità – conclude il post della famiglia Celentano –  INSTAGRAM ” Angela.Celentano_official ” , TIK TOK ” @angela.celentano ” , FACEBOOK ” Rosa e Naomi per Angela Celentano” . Chiediamo a tutti di contribuire alle ricerche. Il lavoro nostro e dei nostri esperti per portare a casa Angela non si ferma, sono in corso varie attività in ogni settore investigativo e stiamo vagliano diverse segnalazioni interessanti, in particolare una di queste in America Latina sta meritando la nostra attenzione. Il nostro avvocato, Luigi Ferrandino, raccomanda sempre grande prudenza e assieme ai nostri esperti, vaglia ogni minimo dettaglio coinvolgendoci in ogni attività investigativa”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

·        Il caso di Tiziana Deserto.

La donna andrà in una casa famiglia di Brindisi. Tiziana Deserto torna libera 12 anni dopo la condanna per la morte della figlia Maria. La Redazione su la Voce di Manduria martedì 9 agosto 2022.

E’ tornata libera Tiziana Deserto, oggi 44enne, la donna originaria di Erchie, provincia di brindisi, che ha terminato di scontare 15 anni di reclusione (tre condonati), che le vennero inflitti per concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, morta all’età di due anni e sette mesi a Città di Castello nell’aprile del 2004.

La condanna venne definitivamente confermata dalla Cassazione il 17 maggio del 2012, anche per concorso nella violenza sessuale subita dalla piccola. Addebiti ai quali Deserto si è sempre proclamata estranea. Maria Geusa morì il 6 aprile del 2004, è emerso dai processi, in seguito alle violenze subite dall’imprenditore edile Giorgio Giorni, condannato definitivamente all’ergastolo. Secondo la ricostruzione accusatoria, la donna gli affidò la figlia dopo essersi innamorata di lui.

"Sono libera, finalmente. Se sono felice? Si, per aver riconquistato la libertà, ma penso sempre alla mia piccola Maria”, ha detto Tiziana Deserto alla “Nazione”. ” Io sono innocente – ha aggiunto – sono stata condannata per pregiudizi nei miei confronti. Cercavano un capro espiatorio. Mia figlia conosce la verità, lei sa tutto. Sa quanto l’ho amata e quanto la amo. Il mio pensiero è fisso su mia figlia Maria. Adesso che sono libera farò del tutto per riportarla al cimitero di Torre Santa Susanna. Provo rabbia e rancore, perché è stato rubato il suo futuro”. Sempre al quotidiano “La Nazione” la donna ha spiegato di essere ancora nella comunità dove ha scontato gli arresti domiciliari. “Alla fine di questa settimana, al massimo all’inizio della prossima- ha proseguito – mi trasferirò a Brindisi, in una più grande con un servizio sanitario all’interno. Ripartirò da lì, sempre con la mia Maria nel cuore. Vorrei fare la commessa in un negozio di abbigliamento o di scarpe. Si, nel settore della moda mi vedrei bene”. Giorgio Giorni, imprenditore edile d San Sepolcro, ammise di aver picchiato la piccola Maria ma negò di aver abusato di lei .

Confessò al Procuratore della Repubblica di Perugia di allora (Nicola Miriano) e al Pm Giuseppe Petrazzini che si trattò di un raptus di follia, che lo avrebbe colto verso le 12,30, prendendo a pugni e calci la bambina, rimasta sola, poco prima, per circa un’ora nell’abitazione di Città di Castello. Negò in maniera determinata ogni tipo di violenza sessuale. Tuttavia, i primi esami medici all’ospedale di Città di Castello. dove Maria fu portata in fin di vita, confermarono la presenza di gravi lesioni sessuali . Giorni aveva dichiarato di aver lasciato sola Maria perché era rimasto chiuso fuori dall’abitazione, ed era andato a San Sepolcro a prendere una copia delle chiavi. Avrebbe poi affermato che la porta non aveva subito effrazioni durante la sua assenza. Maria fu sepolta ad Erchie, il paese dei nonni paterni.

MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA? MALAGIUSTIZIA. IL CASO DELLA PICCOLA MARIA GEUSA.

Non intende smettere di lottare Massimo Geusa: dopo aver chiesto al Presidente della Repubblica la grazia per sua moglie, Tiziana Deserto, è arrivato in televisione per perorare la sua causa, scrive Maura De Gaetano su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 27.04.2013. L’uomo è stato ospite de “I fatti vostri”, popolare programma di Rai2, nella mattinata di ieri. Sostenuto dalla presenza fisica del suo legale, Giuseppe Caforio, e da quella ideale dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, Geusa ha spiegato al conduttore, Giancarlo Magalli, i motivi della sua richiesta. «Mia moglie ha subito una grande ingiustizia – ha ribadito l’uomo – perché è stata condannata praticamente senza prove, come se già non fosse sufficiente il male che ha subito, con la perdita di nostra figlia». Tiziana Deserto dovrà scontare 15 anni di reclusione per concorso nell’omicidio e nella violenza sessuale della piccola Maria, figlia concepita con il marito e morta, a meno di 3 anni nel 2004, per mano del nuovo compagno della donna. «Quelle violenze sessuali reiterate non ci sono mai state – ha affermato ancora una volta Geusa – perché altrimenti sarei stato il primo ad accorgermene, vivendo in casa con la bimba. Sono certo che mia moglie non avrebbe mai affidato nostra figlia nelle mani di un uomo, sapendo che costui la violentava». Il devoto marito di Tiziana ha raccontato alle telecamere, ancora una volta, la sua versione dell’accaduto: la benevolenza dimostrata dall’assassino Giorgio Giorni, condannato all’ergastolo, e la fiducia che questi si era conquistato tanto presso la mamma, quanto presso il papà di Maria. A un Magalli stupefatto dell’amore dimostrato, nonostante tutto, da Geusa a sua moglie, l’uomo ha spiegato: «Da tempo ho perdonato il suo tradimento e la sua storia con Giorni. Non potrei mai perdonarla, però, del concorso nell’omicidio di nostra figlia. Se ho chiesto la grazia per lei, è perché sono convinto della sua buona fede». La domanda di grazia, inviata a Giorgio Napolitano lo scorso mese, è al momento al vaglio del ministro di Grazia e giustizia, che ha avviato le procedure del caso. «Ho ancora fiducia nella giustizia – conclude Geusa – e spero che la verità sulla morte di Maria venga a galla: Tiziana è innocente».

«Ho commesso una leggerezza, ma amavo mia figlia. Non le avrei mai fatto nulla di male». Così Tiziana Deserto, in carcere da quasi un anno per il concorso nell’omicidio della figlia Maria Geusa, racconta con dolore la morte della bambina di due anni e mezzo uccisa il 5 aprile 2004 a Città di Castello da Giorgio Giorni, datore di lavoro del marito, Massimo Geusa, e sogno di una vita insieme per lei, scrive Egle Priolo su “L’Espresso”. Lei che in un anno (ne deve scontare altri 11) ha cambiato tre istituti penitenziari a causa delle sue pessime condizioni di salute. Da fuori, il marito Massimo continua a sostenerla in ogni modo. Ha già chiesto al presidente della Repubblica la grazia per la sua Tiziana (la pratica è stata inoltrata) e ora, dopo la lettura delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di cassazione ha reso definitiva la condanna a 15 anni (tre condonati per l’indulto), vuole addirittura la revisione del processo per quanto riguarda l’accusa di concorso in violenza sessuale. La Corte, che ha ribadito quanto stabilito in primo e secondo grado, ha però ritenuto fondato il motivo del ricorso che riguarda l’aggravante dell’uso di sevizie e crudeltà. Non cambia nulla dal punto di vista della pena («ininfluente sul trattamento sanzionatorio», ribadiscono i giudici), ma per i genitori di Tiziana e per Massimo è lo spiraglio per chiedere la revisione del processo. Un’ipotesi che l’avvocato della Deserto, Giuseppe Caforio, conferma di star studiando. «Stiamo valutando questa possibilità», spiega il legale, mentre Massimo si sta impegnando a cercare una consulenza medico legale che possa sostenere la convinzione che ha da sempre. «Ho perso una figlia, non voglio perdere anche una moglie - racconta oggi -. Le ho perdonato il tradimento, ma non avrei perdonato a Tiziana gli abusi sulla nostra bambina. Ma quegli abusi non ci sono stati, sono sicuro. Ho cambiato Maria fino al giorno precedente l’omicidio e non aveva nessun segno, nessuna ferita. Niente di niente che possa far pensare a una violenza sessuale. I giudici hanno sbagliato». I giudici, secondo Massimo, hanno sbagliato sei volte (i tre gradi per Giorni e i tre per Tiziana), stabilendo una verità processuale, ma non scientifica. Basata su quell’«alta suggestione», cioè alta probabilità della violenza. «Probabilità, non certezza», insiste Massimo Geusa. Che ora, operaio in Puglia, quando non va a trovare Tiziana in carcere, passa il tempo su internet a informarsi sulle violenze sui minori, su riscontri e prove, cercando di individuare professionalità che possano dare un sostegno scientifico alle sue convinzioni. Paradossalmente, se ci riuscisse, potrebbe aiutare l’uomo che ha ucciso sua figlia per salvare la sua amata Tiziana. Che da maggio scorso (si è presentata in carcere il 18 maggio) ha perso più di venti chili e adesso non riesce neanche a mangiare. «Non trattiene più nessun alimento - racconta l’avvocato Giuseppe Caforio - ed è in un preoccupante stato di prostrazione psicofisica». Anche per questo motivo, l’avvocato ha richiesto il suo trasferimento già due volte: da Lecce a Foggia e da Foggia a Trani. Ma sembra che le sue condizioni non migliorino. Prostrata e distrutta, a ripetere solo di non aver mai fatto del male alla piccola Maria.

·        Il mistero di Giorgiana Masi.

Quando uccisero Giorgiana io c’ero, ma nessuno ancora ci dice chi sia stato a spararle. Quel 12 maggio 1977 il Partito Radicale aveva organizzato a piazza Navona un concerto, ma dal Viminale arrivò un “no”. Valter Vecellio su Il Dubbio il 12 maggio 2022.

“Eroe della sesta giornata”: così si definisce quel personaggio che si intruppa ai vincitori quando ormai il pericolo è passato, la vittoria conquistata, la lotta (nello specifico le famose cinque risorgimentali giornate della rivolta milanese contro gli austriaci), finita. Poi ci sono i “professionisti del reducismo”, spesso millantatori. Non foss’altro per anagrafiche ragioni, non possono essere reduci di nulla; e in quanto alla professione, diciamo che vanno dove li porta il cuore, a volte; o l’interesse, spesso. Categorie che spesso, come la cattiva erba finiscono col soffocare quella commestibile; moneta di pessimo conio che soppianta quella “buona”. Considerazione generale, vale per la storia in genere, e le “storie” che poi ne fanno parte. Per questo sono importanti le “memorie”; quelle che si ricavano dai diari, dalle lettere, dai memoriali; i racconti che si tramandano; poi è compito degli storici depurare i ricordi, le memorie dalle scorie che inevitabilmente contengono: come il diamante estratto: prima di diventare un prezioso gioiello, va pazientemente, sapientemente lavorato.

I rischi di chi scrive di storia sono sempre tanti: non solo la fatica di trovare le giuste fonti; immancabilmente ci si imbatte, appunto, negli “eroi della sesta giornata”, quelli che raccontano, senza esserci mai stati, con dovizia di particolari, cos’è accaduto quel giorno specifico. Chi davvero c’era, nel vederli in “esibizione”, nell’ascoltarli, non può che pensare alla fulminante battuta di Ennio Flaiano: “Quelli là, credono di essere noi”. Tocca dunque sbrigarci, noi che c’eravamo, e che ancora ci siamo; tanti, purtroppo, se ne sono andati, di loro è rimasta labilissima traccia.

Quel 12 maggio 1977, dunque: già 45 anni fa: una quasi vita… Quel giorno una studentessa romana di 19 anni appena, Giorgiana Masi, vuole trascorrere la serata in compagnia del fidanzato, e ascoltare musica. Si dirige a piazza Navona, luogo fissato per un annunciato concerto. Non ci arriverà mai. All’altezza del ponte di Garibaldi si trova coinvolta in una immotivata, brutale carica dei carabinieri. Qualcuno, dalla parte delle forze dell’ordine, esplode dei colpi di pistola, un proiettile raggiunge la ragazza alla schiena. Colpita, cade a terra, muore. Sono circa le 20 di sera. Questi, i fatti, nella cruda essenzialità.

C’è un contesto. Quello che si è scritto finora è appena una parte di un “tutto” che ancora, a quasi cinquant’anni dai fatti, attende di essere spiegato in modo soddisfacente: sotto il profilo giudiziario, politico, storico. Nel volume che raccoglie i diari dell’ambasciatore Ludovico Ortona negli anni in cui è stato Consigliere Stampa di Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, alla data 16 maggio 1987, si legge: “Esce su alcuni quotidiani un attacco di Pannella a Cossiga sulle vicende dell’epoca in cui era ministro dell’Interno (Giorgiana Masi, caso Moro). Lo vedo piuttosto turbato, anche se poi si riesce a ridimensionare l’episodio dicendogli che è un attacco del solito Pannella. Ne è chiaramente dispiaciuto”. Indicativo quel “si riesce a ridimensionare l’episodio”; sarebbe interessante sapere “chi”, ha ridimensionato; “come” ha ridimensionato; quanto al “perché” lo si intuisce. C’è quel “dispiaciuto…”: il presidente della Repubblica a cui Pannella rimprovera il ruolo giocato sulle vicende Masi e Moro, si “dispiace”. Crediamoci. Ma limitarsi a un “dispiacere” è davvero poca cosa. Ben altro che il dispiacere, per quei due tragici eventi che sono alla base della polemica accesa da Pannella. Si torni, ora al quel 12 maggio 1977.

Il Partito Radicale convoca a piazza Navona un concerto. Si festeggia l’anniversario della vittoria del NO all’abrogazione della legge sul divorzio, e si raccolgono le firme per altri referendum abrogativi di legge fasciste, autoritarie, liberticide. Dal ministero dell’Interno, “governato” allora da Cossiga, arriva un NO: manifestazione vietata. Quale sia il timore che si nutre nelle inutilmente austere stanze del palazzone progettato dall’architetto Manfredo Manfredi nel 1911, non è dato sapere. Mai i radicali sono stati un problema per quel che riguarda l’ordine pubblico. Perché quell’assurdo divieto? E cosa si “prepara”, cosa nasconde, sottende quel NO improvviso, a manifestazione già convocata? Naturalmente nessuno sospetta che si stia preparando quello che poi accadrà. Ingenuità? Forse, ma col senno del dopo.

Come che sia, quel giorno Roma è in stato d’assedio: mancano solo i carri armati; per il resto, c’è tutto: poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, caschi, scudi, lacrimogeni, fucili usati come sfollagente; e tanti agenti in borghese, travestiti da autonomi: rivoltella in pugno, spranghe in mano: infiltrati tra i manifestanti: ore e ore di provocazioni, aggressioni, botte, arresti; si spara ad altezza d’uomo, e non per legittima difesa, sia chiaro. Gli incidenti cominciano alle 14, vicino al Senato; coinvolgono ragazzi, turisti, passanti. Calci, pugni, sputi ai parlamentari che pur si qualificano come tali, e anzi, magari li si aggredisce con maggiore gusto e cura. Di questo, chi scrive, è diretto testimone e vittima: conservo ancora con somma cura la giacca di renna dilaniata dai carabinieri; e una istantanea che mi “fissa” mentre sono malmenato; la ritroverò pubblicata sulla tedesca “Stern”. La didascalia parla di “autonomo milanese” durante non precisati scontri (a prova del fatto che la “precisione” non è solo del giornalismo italiano).

Gli scontri si allargano a macchia d’olio, tutto il centro città è coinvolto in questa programmata follia: fino a Trastevere e oltre, una vera caccia all’uomo. A ponte Garibaldi, Giorgiana è colpita alle spalle, muore. Nessun agente o carabiniere, in divisa o in borghese ha sparato, dice il sottosegretario agli Interni Nicola Lettieri, subito smentito dai fatti. “Fuoco amico”, insinua Cossiga. “Amico” di chi? Non certo di Giorgiana, colpita alle spalle, mentre cerca di fuggire. E’ tutto documentato, nel libro bianco, le testimonianze, le fotografie, i filmati che il Partito Radicale diffonde poche ore dopo i “fatti”. Una documentazione inoppugnabile, mai smentita. Uno straordinario documento, il racconto di una strage cercata e voluta; e più che mai si può citare l’Elias Canetti de La provincia dell’uomo: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto ‘al momento giusto’”.

Chi ha sparato a Giorgiana e l’ha uccisa è uno dei tanti misteri italiani. Tutti ricordano la foto di Giovanni Santone, il poliziotto in borghese, maglione bianco con una banda scura, pistola in mano, spranga bianca nell’altra, borsa di Tolfa a tracolla (per la carta igienica, racconterà poi); ma la prova regina, la testimonianza fondamentale è un’altra: un video girato in “super 8” da una signora che abita in piazza della Cancelleria in cui si vedono chiaramente due poliziotti in divisa, nascosti dietro le colonne, che estraggono la pistola dalla fondina e sparano ad altezza uomo. Quelle immagini smentiscono clamorosamente quanto detto dal sottosegretario Lettieri in Parlamento: “Le forze di polizia non fecero uso di armi da fuoco”. Si cercava il morto. Si voleva il morto. Purtroppo il morto c’è stato. Questi i fatti. Vissuti e raccontati da chi ha vissuto le “cinque giornate”; e ora ascolta con amarezza divertita i racconti di chi è accorso il sesto giorno.

·        Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Rita Cammarone per “Il Messaggero” il 26 maggio 2022.

Attorno alla morte dell'ex campione di kickboxing Gianmarco Pozzi una rete di spaccio tra Roma, Ponza e Napoli. Un'attività ben organizzata per un volume d'affari di 5.000 euro al giorno, 150mila al mese. 

È quanto emerge dall'ordinanza del Gip Domenico Di Croce del Tribunale di Cassino che ieri ha portato all'arresto, con restrizione ai domiciliari, di cinque persone e all'obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, due volte al giorno, a carico di altri tre indagati, accusati a vario titolo di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, cocaina e hashish.

«Finalmente si smuovono le acque - ha commentato l'avvocato Fabrizio Gallo, legale della famiglia Pozzi -. Questa operazione avvalora la nostra ipotesi, formulata sin dall'inizio delle indagini difensive, in base alla quale riteniamo che Gimmy (Gianmarco Pozzi, ndr) sia stato ucciso nell'ambito del traffico di stupefacenti tra Ponza e Roma».

I provvedimenti cautelari hanno riguardato anche il coinquilino del pugile di 27 anni trovato morto il 9 agosto 2020, con la testa fracassata e ferite multiple su tutto il corpo, all'interno di un'intercapedine tra il muro di contenimento di un terreno e una villetta in località Santa Maria sull'isola, a poche centinaia di metri dall'abitazione che i due condividevano insieme ad altri ragazzi.

Si tratta del 28enne Alessio Lauteri, residente a Roma, da ieri ai domiciliari. Ma hanno riguardato anche Vincenzo Pesce, 34 anni di Ponza, titolare del Blue Moon, noto locale della movida ponzese in cui nell'estate 2020 lavoravano sia Lauteri che Pozzi.

Ai domiciliari anche Angelo e Circo Monetti, rispettivamente di 44 e 61 anni, residenti a Napoli e Afragola, e Antonio Iaria, 28enne originario di La Spezia e residente a Roma. 

Destinatari della misura dell'obbligo di presentazione alla pg due romani, di fatto domiciliati a Ponza, Manuel M. e Marco B., entrambi di 39 anni, e Antonio P., 46enne residente a Pozzuoli, nell'hinterland napoletano. 

Oltre cinquanta le cessioni di droga fotografate dagli investigatori dell'Arma, attribuite agli indagati nel periodo appena antecedente alla morte di Gianmarco Pozzi e da quel momento fino ad ottobre dello stesso anno.

Le indagini, come emerge nell'ordinanza del Gip, hanno consentito di ricostruire anche la contabilità dell'attività illecita, con tanto di crediti e debiti, in grado di fruttare all'organizzazione come riferiscono gli indagati intercettati fino a 5.000 euro al giorno. 

I canali di approvvigionamento della droga sono stati individuati sia nella capitale, con importante piazza di spaccio nel quartiere Laurentino 38, sia nell'hinterland dal capoluogo campano.

Le indagini sul traffico di stupefacenti per l'estate ponzese, condotte dai carabinieri della Compagnia di Formia e coordinate dalla Procura di Cassino, con i conseguenti arresti di ieri, hanno tratto spunto proprio dal decesso del giovane pugile romano, buttafuori al Blue Moon, avvenuto in circostanze ancora da chiarire e per il quale hanno precisato ieri gli inquirenti sono ancora in corso accertamenti. 

Nell'ordinanza viene evidenziato che le circostanze della morte di Pozzi avevano destato da subito perplessità negli investigatori per il coinvolgimento del giovane nelle attività di spaccio sull'isola e, successivamente, per i dubbi sollevati dalla sorella Martina, sentita dagli inquirenti a proposito della morte del fratello.

Cause inizialmente attribuite dalla Procura di Cassino a una caduta accidentale dell'ex campione di kickboxing da un'altezza di tre metri, mentre era sotto gli effetti della cocaina. Una ricostruzione smontata dalla perizia medico-legale del professor Vittorio Fineschi, ingaggiato dalla famiglia Pozzi, in base alla quale il 27enne sarebbe stato massacrato di botte e poi gettato nell'intercapedine.

Secondo Fineschi, inoltre, il quantitativo di cocaina assunto dal ragazzo non sarebbe stato tale da provocare il delirio e la conseguente caduta mortale. L'inchiesta sullo spaccio mette in luce che i due giovani, Lautieri e Pozzi, pochi giorni prima della tragedia sono andati a Roma per acquistare 70 grammi di cocaina per Pesce, ceduti a 4.800 euro. 

Ma soprattutto mette nero su bianco la testimonianza di un barista di Formia che rivoluziona gli orari forniti dal coinquilino di Gimmy su quella tragica mattina del 9 agosto. Una vicenda ancora tutta da ricostruire quella della morte del pugile sull'isola. 

Giallo di Ponza, la famiglia accusa: «Il nostro Gimmy come Cucchi, anche nel suo caso ci sono stati depistaggi». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 27 aprile 2022.  

Lettera anonima inviata al padre di Gian Marco Pozzi, trovato morto sull’isola il 9 agosto di due anni fa: «Coinvolte due persone che indagavano». Il papà: «Noi lasciati soli, il Presidente Mattarella ci aiuti». 

Un altro colpo di scena nella vicenda della misteriosa morte del campione di kick boxing Gian Marco Pozzi, detto Gimmy, trovato senza vita all’alba del 9 agosto di due anni fa a Ponza dove lavorava come addetto alla sicurezza in un locale sul porto, il Blue Moon. Secondo la famiglia il 28enne, romano di Quarto Miglio, sarebbe stato massacrato di botte e ucciso forse nell’ambito di un regolamento di conti per droga.

Adesso, il 20 aprile scorso, al padre del ragazzo, Paolo Pozzi, è stato recapitato per posta un messaggio anonimo, indirizzato anche alla procura di Cassino e alle Iene di Italia 1 nel quale si gettano ombre su due persone coinvolte nelle indagini sul fronte investigativo che avevano rapporti fra loro e che potrebbero - secondo il mittente sconosciuto - aver occultato prove per nascondere le negligenze dei primi accertamenti svolti sull’isola. Sul corpo di Pozzi non è stata effettuata l’autopsia e poi la salma, su disposizione dei familiari, è stata cremata. Rimangono foto del 28enne deceduto dal quale, secondo una perizia della famiglia, si evincono le botte subìte e il risultato degli esami tossicologici che confermano una forte assunzione di cocaina prima del decesso.

«Penso sia una cosa grave, su consiglio dell’avvocato, ho preso la lettera e l’ho inviata al pm con una raccomandata velocissima», racconta il padre del campione all’Aska News. «Secondo me chi ci scrive è qualcuno che fa parte dell’apparato dello Stato, perché per come è formalmente scritta nei modi e nella maniera, sembra un personaggio delle istituzioni - ha aggiunto -. Indagini fatte male fin dall’inizio e adesso anche questa illazione, non so se sia vera o falsa, perché la lettera è anonima, però porta sempre del marcio sulle indagini, su qualcosa che non è stato fatto nell’immediatezza».

«Vorrei - dice ancora Pozzi - un segnale dal presidente della Repubblica Mattarella e dal ministro Cartabia, per la seconda volta ho inviato la seconda raccomandata 3-4 giorni fa, io voglio essere sentito, perché ci sono troppe anomalie. Mio figlio l’hanno ucciso, ma perché le indagini le hanno condotte in una maniera pessima? Sono passati 21 mesi e non ho ricevuto nulla, né dal magistrato, che devo dire ultimamente l’ho incontrato e mi ha fatto un ottimo effetto, il pm Flavio Ricci, però non ho segnali di niente, non mi sembra normale, io sono la parte offesa, mi volete dire qualcosa, mi volete aiutare?».

Secondo il legale della famiglia, Fabrizio Gallo, «questa lettera anonima non ci sorprende, questo fatto lo conoscevamo da mesi, la figlia di Paolo, la sorella di Gianmarco (Martina Pozzi, ndr), ne aveva già notiziato il pm di questa circostanza importante e grave, che se fosse vera sconvolgerebbe tutto il percorso, anche probatorio. É una circostanza importante, che sembrerebbe confermare le voci che erano già arrivate alla famiglia, cioé di una compromissione, naturalmente tutta da verificare, dalla quale prendiamo le distanze perché non è stato accertato, ma chiediamo al pm (Flavio Ricci, ndr) di voler accertare se vi sono state intromissioni di gente delle istituzioni che stava facendo le indagini nei confronti di soggetti che stavano facendo relazioni importanti sulle indagini». «È un caso simile - conclude l’avvocato -, come quello di Stefano Cucchi, dove sono coinvolti dei carabinieri. Le due storie sono identiche, ci sono coinvolti dei carabinieri lì, ci dovrebbero essere coinvolti dei carabinieri anche qui, perché le indagini sono state fatte o non sono state fatte da loro».

·        Il caso di Cristina Mazzotti.

Sequestro Mazzotti, sono quattro gli indagati per il rapimento di 47 anni fa: c'è anche il boss Giuseppe Morabito.  Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

La procura chiude le indagini sul caso della 18enne rapita il 1° luglio 1975 a Eupilio, nel Comasco. Cristina Mazzotti venne trovata morta un mese dopo in una buca a Castelletto Ticino (Novara). Indagati Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Talia e Peppe Morabito 

Quattro nomi: Demetrio Latella, Antonio Talia, Giuseppe Calabrò, alias 'u Dutturicchiu, e Giuseppe Morabito. Sono loro, secondo le nuove indagini  della squadra Mobile, coordinata dai pm Stefano Civardi e Alberto Nobili, i responsabili del sequestro della 18enne Cristina Mazzotti, rapita a Eupilio nel Comasco 47 anni fa. Secondo la ricostruzione della procura, Giuseppe Morabito, oggi 78enne, originario di Africo ma emigrato da molti anni a Tradate (Varese) e organico alla cosca Morabito-Falzea, avrebbe messo a disposizione l'Alfa Romeo Giulia super 1300 blu usata dal commando per «segnalare l'arrivo della Mini Minor» sui cui viaggiava la vittima e per «fare la staffetta verso il luogo di prigionia». 

La Direzione distrettuale antimafia di Milano, che ha riaperto le indagini grazie a una sentenza della corte di Cassazione secondo la quale il reato di omicidio aggravato non può mai estinguersi per prescrizione, ha così ricostruito le fasi del rapimento. Il 31 luglio 1975 un commando composto (tra gli altri) da Latella, Talia, Morabito e Calabrò avrebbe bloccato la Mini su cui viaggiava Cristina Mazzotti con due amici intorno all'1.30 di notte «nei pressi dell'abitazione della vittima». «Dopo aver ricevuto il segnale dell'arrivo della Mini, da parte di una Alfa Romeo Giulia che superava la Mini lampeggiando - Alfa Romeo messa a disposizione da Morabito -, con una vettura Fiat 125 condotta da Talia, bloccarono il cammino della Mini». 

Il commando aveva messo l'auto di traverso puntando i fari abbaglianti, poi aveva circondato l'auto della vittima e costretto i tre occupanti a sedersi nei sedili posteriori. Qui li avrebbero minacciati con una pistola impugnata da Calabrò e con le due auto erano poi partiti verso Appiano Gentile, dove i complici avevano preso in consegna la vittima, l'avevano incappucciata, mentre gli amici «furono legati e semi narcotizzati e lasciati nei sedili posteriori della Mini». Calabrò, secondo gli inquirenti, avrebbe «reclutato Latella e Talia a Milano nel gruppo di azione per il sequestro». Il rapimento sarebbe stato invece «ideato da Morabito insieme Francesco Aquilano e Giacomo Zagari», entrambi deceduti. Peppe Morabito avrebbe poi partecipato all'azione mettendo a disposizione la Giulia «intestata alla sorella Antonia». Il nome di Morabito era emerso già nei verbali di Antonio Zagari, importante collaboratore di giustizia morto nel 2004 in un incidente d'auto. 

Nuova inchiesta a Milano su un rapimento di 47 anni fa. ANSA il 30 aprile 2022.

C'è una terza e nuova inchiesta della Procura di Milano, con quattro indagati nella vecchia 'mala' milanese vicina alla 'ndrangheta, sul sequestro a scopo di estorsione che si è concluso con l'omicidio, 47 anni fa, della 18enne Cristina Mazzotti, la prima donna a essere rapita dall'Anonima sequestri al Nord Italia. 

I pm milanesi Alberto Nobili e Stefano Civardi, sulla base del lavoro della squadra Mobile, contestano a 4 persone legate alla 'ndrangheta l'omicidio volontario della 18enne, nel presupposto che "segregandola in una buca senza sufficiente aereazione e possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti e eccitanti", ne abbiano "così cagionato la morte" nelle stesse ore in cui il padre pagava il riscatto tra il 31 luglio e l'1 agosto 1975. Si tratta di Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Romeo e Antonio Talia. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

Cristina Mazzotti fu rapita la sera del'1 luglio 1975 fuori dalla sua villa di Eupilio (Como). Al padre della ragazza, Helios, furono chiesti 5 miliardi di lire di riscatto e dopo un mese l'uomo racimolò 1 miliardo e 50 milioni che pagò. Il primo settembre del '75 una telefonata anonima indicò ai carabinieri di scavare in una discarica di Galliate (Novara), e lì fu ritrovato il cadavere. Cristina era stata uccisa da un cocktail di farmaci. Un primo processo si concluse a Novara con 13 condanne di cui otto ergastoli a carico di fiancheggiatori ma non degli esecutori materiali del sequestro finito in omicidio. (ANSA).

Giuseppe Legato,Monica Serra per “la Stampa” il 30 aprile 2022.

All'epoca, nel 1975, fu il primo caso di una ragazza sequestrata che morì nella lunga stagione dell'Anonima al Nord. Ma le condanne già inflitte per l'omicidio della diciottenne Cristina Mazzotti, figlia di un ricco industriale, trovata morta in una discarica nel Novarese dopo aver vissuto in un fosso imbottita di psicofarmaci, hanno raccontato solo parte della verità. Per questo, dopo 47 anni, la procura di Milano ha riaperto l'inchiesta, e iscritto per concorso in omicidio volontario aggravato dalla crudeltà quattro nomi nel registro degli indagati. Nomi «inconfessabili» anche per gli imputati già finiti all'ergastolo.

Tra loro c'è l'ex gangster della Milano di Epaminonda, Demetrio Latella, calabrese di 67 anni, che, incastrato da un'impronta, già nel 2007 aveva confessato di aver partecipato al sequestro di Cristina. E aveva tirato in ballo Giuseppe Calabrò, 72 anni di San Luca, uomo d'oro del narcotraffico lombardo, detto «u dutturicchiu», il dottorino, per via di qualche esame dato all'università; Antonio Talia, 71enne di Africo e l'avvocato civilista 66enne di Bovalino, Antonio Romeo, cognato di Calabrò che mai prima d'ora era stato indagato per il delitto.

Tutti e quattro oggi liberi, sono stati interrogati dai pm Alberto Nobili e Stefano Civardi, e dalla Squadra mobile diretta da Marco Calì. E tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, tranne Latella, che avrebbe aggiunto dettagli importanti alla confessione già resa.

A incastrare Latella nel 2007 era stata un'impronta trovata sulla Mini Minor in cui la notte del primo luglio 1975, Cristina fu rapita mentre tornava alla villa di famiglia, a Eupilio, nel Comasco. Già all'epoca erano stati indagati anche Calabrò e Talia, ma il fascicolo finì archiviato per la prescrizione dei reati contestati. L'anno scorso però l'avvocato Fabio Repici, che assiste la famiglia del procuratore ammazzato dalla 'ndrangheta Bruno Caccia, scavando su Latella, ha presentato un esposto sul caso Mazzotti, ricostruito anche nel suo libro «I soldi della P2». 

E ha segnalato, tra le altre cose, che nel 2014 le sezioni unite della Cassazione hanno stabilito che non c'è prescrizione per l'omicidio volontario aggravato. In base a questa sentenza il caso Mazzotti è stato riaperto, nella speranza di riscrivere, definitivamente, questa dolorosa storia.

Per Cristina Mazzotti la giustizia non arriva mai. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Caro Aldo, fu atroce l’eco che generò il sequestro di Cristina Mazzotti. Io avevo solo un anno ma per oltre un decennio vissi sempre sotto controllo. Una volta in famiglia ad una festa ci fu una rapina con banditi armati di fucili: il terrore dei rapimenti segnò l’Italia per parecchi anni. Gian Paolo Conte Che storia terribile, ma meglio tardi che mai. Cristina Mazzotti ha avuto una morte tremenda, sapere che non si è mai smesso di cercare gli esecutori materiali del sequestro, mi fa sentire fiero del nostro sistema giudiziario. Cristina merita giustizia. Andrea Graziano 

Cari lettori, Per la generazione che era bambina negli anni 70, il rapimento e la morte di Cristina Mazzotti furono uno choc, non meno grave di quello provocato dai crimini del terrorismo nero e rosso. Cristina aveva appena diciotto anni. Fu sequestrata e detenuta in condizioni feroci, in una buca. Le furono dati tranquillanti, per farla dormire, ed eccitanti, per farle telefonare a casa in modo da indurre i genitori a pagare. Sul Corriere Luigi Ferrarella e Cesare Giuzzi hanno ricostruito la vicenda giudiziaria, che aggiunge orrore a orrore, sconcerto a sconcerto. Le inchieste avevano portato in cella i fiancheggiatori, non gli esecutori materiali del sequestro. Nel 2007 un’impronta incastrò il bandito Demetrio Latella, uscito di galera l’anno prima per altri crimini, il quale confessò e chiamò a correo i suoi (presunti) complici. Ma un magistrato valutò che il reato fosse prescritto. Cioè uno sequestra una ragazza di diciotto anni, la chiude in una buca, la uccide, incassa un miliardo dai genitori la cui vita sarà distrutta dal dolore, e per la giustizia italiana non può essere punito. Ora però il caso è stato riaperto da un avvocato, che assiste la famiglia Caccia — Bruno Caccia è l’eroico procuratore della Repubblica a Torino assassinato dalla ‘ndrangheta il 26 giugno 1983: era domenica e Caccia aveva lasciato la giornata libera alla scorta —, e ha ricordato come nel 2015 la Cassazione abbia stabilito che l’omicidio volontario è un reato imprescrittibile. Intanto dalla morte di Cristina Mazzotti sono passati quarantasette anni. Oggi Cristina ne avrebbe sessantacinque. Come lei, non sono tornati a casa Duccio Carta, 18 anni; Emanuele Riboli, 18 anni; Giovanni Stucchi, 31 anni; Paolo Giorgetti, 16 anni; Gianfranco Lovati, morto per asfissia...

'Ndrangheta e sequestri, dopo quasi 50 anni 4 indagati per la morte di Cristina Mazzotti. Il Quotidiano del Sud il 30 aprile 2022.

C’è una terza e nuova inchiesta della Procura di Milano, con quatto indagati nella vecchia “mala” milanese vicina alla ‘ndrangheta, sul sequestro a scopo di estorsione che si è concluso con l’omicidio, 47 anni fa, della 18enne Cristina Mazzotti, la prima donna a essere rapita dall’Anonima sequestri al Nord Italia.

I pm milanesi Alberto Nobili e Stefano Civardi, sulla base del lavoro della squadra Mobile, contestano a 4 persone legate alla ‘ndrangheta l’omicidio volontario della 18enne.

La Procura di Milano contesta ai 4 indagati l’omicidio di Cristina Mazzotti nel presupposto che «segregandola in una buca senza sufficiente aereazione e possibilità di deambulazione, somministrandole massicce dosi di tranquillanti e eccitanti», ne abbiano «così cagionato la morte» nelle stesse ore in cui il padre pagava il riscatto tra il 31 luglio e l’1 agosto 1975.

Le persone indagate sono Demetrio Latella, Giuseppe Calabrò, Antonio Romeo e Antonio Talia, Tutti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere.

Cristina Mazzotti fu rapita la sera del’1 luglio 1975 fuori dalla sua villa di Eupilio (Como). Al padre della ragazza, Helios, furono chiesti 5 miliardi di lire di riscatto e dopo un mese l’uomo racimolò 1 miliardo e 50 milioni che pagò. Il primo settembre del ’75 una telefonata anonima indicò ai carabinieri di scavare in una discarica di Galliate (Novara), e lì fu ritrovato il cadavere. Cristina era stata uccisa da un cocktail di farmaci.

Un primo processo si concluse a Novara con 13 condanne di cui otto ergastoli a carico di fiancheggiatori ma non degli esecutori materiali del sequestro finito in omicidio. Nel 2007 un’impronta digitale, grazie alla nuova banca dati, fu attribuita Demetrio Latella. Il gip ne respinse per mancanza di esigenze cautelari l’arresto chiesto dalla Procura di Torino,

ma Latella ammise di essere stato uno dei sequestratori e chiamò in causa altre due persone. Il fascicolo (passato a Milano per competenza territoriale) fu archiviato nel 2012: prescritti, per varie ragioni, il sequestro di persona e l’omicidio volontario aggravato. Nel frattempo, però, una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione nel 2015 aveva indicato imprescrittibile il reato di omicidio volontario.

Un esposto è stato quindi riproposto da Fabio Repici, già avvocato della famiglia Mazzotti e poi parte civile per la famiglia del magistrato torinese Bruno Caccia ucciso nel 1983 in un delitto nel quale per Repici avrebbe avuto un ruolo Latella.

·        Il Caso di Marta Russo.

Gabriele Moroni per il Resto del Carlino il 15 agosto 2022.

Il 9 maggio 1997 è un venerdì di sole. Marta Russo, 22 anni, studentessa del terzo anno di giurisprudenza alla Sapienza di Roma, libretto costellato di 30, cammina con l'amica e compagna di studi Iolanda Ricci in un vialetto dell'università. Le 11.42.

Marta si accascia davanti a un'aiuola. In ospedale le viene scoperto un proiettile calibro 22 nella nuca. Dopo tre giorni di agonia è dichiarata clinicamente morta. I genitori autorizzano l'espianto degli organi. Quella del 9 maggio è una data fosca. 

Diciannove anni prima è stato ucciso Aldo Moro. Lo stesso giorno la mafia ha eliminato Peppino Impastato. L'attesa del Giubileo del 2000 agita la paura del terrorismo islamico. Il questore Rino Monaco parla di «un muro di omertà».

Le indagini si concentrano sulle persone presenti nella stanza da dove sarebbe partito lo sparo, la numero 6 al primo piano dell'Istituto di filosofia del diritto. La polizia scientifica consegna una perizia: sul davanzale di una finestra è stato trovato un residuo di polvere da sparo.

C'è un telefono e dai tabulati risulta che sono state fatte due chiamate, una alle 11.44 diretta a casa Lipari e una quattro minuti dopo, allo studio Lipari. Maria Chiara Lipari, figlia di Nicolò, docente nella stessa università ed ex parlamentare della Dc, lavora nell'istituto. È la prima testimone. All'inizio dichiara di non avere visto nessuno, poi parla di alcune persone, fra cui Gabriella Alletto, una segretaria. La Alletto diventa la teste-chiave. È interrogata a lungo. L'11 giugno giura di non avere mai messo piede nella stanza 6. Il 14 giugno la versione definitiva: dopo avere sentito come un tonfo, ha visto un bagliore, Salvatore Ferraro portarsi la mano alla fronte in segno di disperazione e Scattone con in pugno una pistola nera che ha riposto in una borsa, poi portata via da Ferraro.

Scattone e Ferraro vengono arrestati in nottata. Sono amici.

Scattone, 29 anni, figlio di una buona famiglia romana, carabiniere nel servizio di leva, si è laureato con 110 e lode. Ferraro, di Locri, ha 30 anni. Il giorno dopo l'arresto avrebbe dovuto sostenere l'esame finale per il dottorato di ricerca. Si difendono sicuri: la loro parola contro quella dell'accusa. Dalle perizie emerge che il colpo letale è compatibile con nove tipi di arma, compresa una carabina. La dinamica è tortuosa. Scattone avrebbe dovuto avvicinarsi alla finestra, spostare la tenda, aggirare il condizionatore, prendere la mira, fare fuoco, con il rischio di essere visto.

Dubbi e interrogativi che si rincorrono nei cinque processi, il primo grado, due appelli, due pronunce della Cassazione. Il sigillo finale dalla quinta sezione penale della Suprema Corte (15 dicembre 2003) lima le condanne: cinque anni e quattro mesi a Scattone per omicidio colposo, quattro anni e due mesi a Ferraro per favoreggiamento. «La premessa conclusiva - scrive la sentenza - della Corte del disposto rinvio è che al termine del processo si sa che Giovanni Scattone ha sparato, ma non si sa né perché né come». Una condotta grave.

«Le conseguenze di omicidio per la provocata morte di Marta Russo non possono, però, essere ascritte all'imputato a titolo di dolo». Questo «per difetto assoluto di dimostrazione probatoria di un effettivo intento omicidiario». Rimane un grumo di interrogativi. Solo ipotesi sulla traiettoria del proiettile. L'arma e il suo innesco non compatibili con la particella di polvere da sparo. E anche su questa il dubbio che si trattasse invece del residuo dei freni di una macchina o di una stampante. La pistola e il bossolo mai trovati. Il movente? Sconosciuto. Ma perché lei, perché Marta Russo?

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 9 maggio 2022.

Umidità. Segni neri del tempo. Passaggio degli anni sulla targa per Marta Russo.

«Voi conoscete la sua storia?». 

Le ragazze stanno sdraiate su un'aiuola al sole e mangiano un panino davanti all'ingresso dell'Università La Sapienza. «No, chi era?». Marta Russo, 22 anni, studentessa di Giurisprudenza, campionessa di fioretto, figlia di Aureliana Iacoboni e di Donato Russo, sorella di Tiziana, uccisa con un colpo di pistola sparato dall'aula 6 dell'istituto di Filosofia del diritto il 9 maggio del 1997. 

Uccisa a caso. Mentre andava a lezione. 

Sono passati venticinque anni e nessuno ha ancora trovato pace per quel delitto senza movente.

«La stanza di Marta è rimasta identica», dice adesso il padre Donato Russo. «Abbiamo tenuto tutte le coppe. Ho avuto la fortuna di essere il suo maestro di scherma quando ha vinto il titolo italiano a 11 anni. Quello per me è il ricordo più felice, e lì che vado a cercare conforto. Ma poi Marta era cresciuta, voleva diventare magistrato. Era molto sensibile e portata per lo studio, bravissima. E noi eravamo felici per lei». 

I genitori di Marta Russo questo lunedì torneranno sotto la targa all'Università. 

«Andremo al mattino. È sempre difficile passare là sotto. Bisogna farsi coraggio e certe volte il coraggio non basta. Fa ancora male stare nel punto esatto dove è successo il dramma». 

Marta Russo, che camminava in un vialetto della città universitaria a fianco all'amica Jolanda Ricci, si è accasciata all'improvviso. Il proiettile passato dall'orecchio sinistro si è conficcato nella nuca. È morta dopo quattro giorni di coma. I suoi organi sono stati donati, come lei stessa aveva detto di voler fare dopo aver sentito in televisione la storia di Nicholas Green. Dunque, oggi, Marta Russo vive altrove. Mentre tutti gli altri protagonisti del delitto sono rimasti prigionieri di quel tempo. È uno di quei casi in cui la storia di un processo non diventa storia. 

Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro si sono sempre dichiarati innocenti e ancora lo fanno. Sono stati condannati a 8 e 6 anni di carcere per omicidio colposo e per favoreggiamento e porto abusivo d'arma. Erano due assistenti universitari. Erano amici, appassionati di calcio, uno della Juve e l'altro del Toro. Ancora lo sono. Il primo fa traduzioni dall'inglese e dallo spagnolo, il secondo insegna chitarra e pianoforte, scrive canzoni e lotta per i diritti dei carcerati. Sono entrambi convinti di essere vittime di un clamoroso errore giudiziario. Giovanni Scattone abita all'Eur, nella stessa casa della sua famiglia in cui andarono ad arrestarlo: «Ho deciso di non rilasciare più interviste, perché tanto è inutile». Salvatore Ferraro vive con la moglie accanto all'Università La Sapienza: «Sono sempre rimasto qui. Accetto volentieri di parlare, ma solo se possiamo fare un lavoro organico su tutte le carte processuali. Altrimenti, va bene lo stesso». Così aveva detto in aula: «Non posso confessare nulla, perché non ho fatto nulla».

Tutti i dubbi sono già stati messi in fila durante questi anni. Per esempio nel podcast Polvere, firmato da Cecilia Sala e Chiara Lalli per l'HuffPost. 

Il residuo di polvere da sparo trovato sulla finestra dell'aula numero 6 forse non era polvere da sparo: la particella bario più antimonio potrebbe essere altro. La testimonianza ritrattata dell'impiegata Gabriella Alletto, che tuttavia diventerà il caposaldo dell'accusa: «Io in quell'aula non c'ero! Lo volete capire? Lo giuro sulla testa dei miei figli! Io non ho visto nulla». «Si sforzi. Deve per forza ricordare qualcosa».

E sì, alla fine Gabriella Alletto ricorderà: 36 giorni dopo il delitto. Ma perché hanno sparato? L'assenza di movente fu la ragione stessa dell'omicidio: dimostrare di saper compiere un delitto perfetto. Per questo Scattone e Ferrara l'hanno ideato. Per una specie di «superomismo» nietzschiano, per dimostrare a loro stessi di esserne capaci. Infine, il dubbio più grande, la pista alternativa: quella dei dipendenti dell'impresa di pulizie che avevano un bagno al primo piano sulla stessa ala dell'università, bagno da cui avevano sparato per gioco e che chiamavano «il deposito delle munizioni». 

Due dipendenti di quella impresa di pulizie andavano a esercitarsi al poligono. Il padre di Marta Russo sa tutto questo, e lo sa con rammarico: «Purtroppo la verità giudiziaria non è mai diventata anche la verità fuori dall'aula. Eppure gli investigatori erano fra i più bravi in circolazione, poliziotti finiti ai vertici nazionali. Ci sono stati cinque gradi di giudizio e sentenze, nonostante questo sempre qualcuno mette in discussione la verità». Le fa male questa solitudine?, domandiamo al padre di Marta Russo.

«Può dispiacermi, ma se dopo un quarto di secolo quelle due persone non hanno provato un sentimento di compassione per nostra figlia io non so cosa dire, mai abbiamo ricevuto una parola da Scattone e Ferraro». L'aula 6 adesso è «un'aula seminari». Ma il numero è scritto ancora in alto con un pennarello nero. Da quella finestra è partito il colpo di pistola. «Mia madre venticinque anni fa era una studentessa, è lei che mi ha spiegato la storia di Marta Russo, è grazie a lei se adesso so quello che è successo», dice lo studente di Filosofia del diritto Massimo D'Angelo. La finestra è aperta: una ragazza con lo zainetto rosso sta passando lungo lo stesso vialetto, alla medesima ora. È lo specchio rotto d'Italia, dove i pezzi non si ricompongono mai.

·        Il giallo di Polina Kochelenko.

Ex modella Polina Kochelenko annegata in una roggia del Pavese: riaperte le indagini dopo la richiesta della famiglia. La Repubblica l'1 Luglio 2022. 

La donna, 35 anni, addestratrice di cani, era stata trovata morta a Valeggio nell'aprile 2021. I genitori non hanno mai creduto alla morte accidentale e per questo avevano assunto un pool di investigatori.

La procura di Pavia ha riaperto le indagini su Polina Kochelenko, addestratrice di cani, ex modella e concorrente di reality show, trovata morta annegata in una roggia a Valeggio (Pavia) il 18 aprile del 2021. Lo riporta oggi la Provincia Pavese.

La donna, di 35 anni, era stata trovata annegata nella roggia Malaspina, ma i genitori non hanno mai creduto alla morte accidentale. Il pm aveva archiviato il caso ma la famiglia ha assunto un pool di investigatori e legali che hanno presentato nuova documentazione e il gip ha deciso la riapertura dell'inchiesta. I suoi oggetti personali sono stati trovati a 800 metri di distanza e qualcuno, secondo la tesi della famiglia, avrebbe cancellato la geolocalizzazione dai social.

Polina quel giorno era uscita con sei cani. Una delle ipotesi è che si fosse gettata nella roggia per salvarli, ma l'acqua non era molto alta e lei sapeva nuotare. Due animali, inoltre, non sono mai stati ritrovati.

Monica Serra per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

Polina Kochelenko è morta annegata. E questa è l'unica cosa certa. Il corpo della criminologa, addestratrice di cani, ex modella di 35 anni è stato trovato senza vita a mezzanotte del 17 aprile dello scorso anno nei sessanta centimetri d'acqua della roggia Malaspina a Valeggio, poco più di duecento anime in provincia di Pavia. 

Un paesino sperduto tra i campi, dove Polina aveva affittato una villetta a fine 2020, in pieno lockdown, per avere tutto lo spazio necessario per addestrare i quattro cuccioli di pastore tedesco che le erano stati affidati da un centro cinofilo pavese. E che accudiva con i suoi due Border Collie.

Per il pm Alberto Palermo, che da subito ha aperto un fascicolo per omicidio colposo, dietro la morte della giovane ex concorrente del reality «L'isola di Adamo ed Eva» ci sarebbe stato un suicidio o un incidente avuto, forse, per salvare i cani caduti in quel rivolo d'acqua artificiale usato per irrigare le risaie. 

Ma la ricostruzione non ha mai convinto la mamma Alla e l'avvocata di famiglia, Tiziana Barrella che, evidenziando tutti i misteri mai chiariti dagli accertamenti, si sono opposte all'archiviazione dell'inchiesta. Così, il giudice Maria Cristina Lapi ha ordinato nuove indagini alla procura.

A partire dall'analisi dell'iPhone di Polina, ritrovato a ottocento metri dal cadavere, nell'erba, dalla madre che la cercava disperata, con un accendino, le cuffiette (una schiacciata nel terreno) e tre fazzolettini usati (mai repertati). 

Quel cellulare è stato tenuto sotto sequestro per mesi e poi restituito alla famiglia senza mai essere controllato dagli inquirenti. Che ora dovranno anche fare nuovi tabulati telefonici, e ascoltare alcune persone vicine alla trentacinquenne, mai interrogate o che potrebbero aver mentito.

«Anche gli abiti di Polina, il giubbino a fiori, i pantaloni neri, che riportano degli strappi non sono mai stati analizzati», spiega l'investigatore privato Claudio Ghini, ingaggiato dalla famiglia. Che ha raccolto la testimonianza di due vicini di casa: «Polina aveva amici e famiglia a Torino, dove vive la madre. Nella sua nuova casa non andava a trovarla nessuno: solo un uomo misterioso di cui parlano i due testimoni, con una monovolume grigia, che qualche volta si era fermato a dormire da lei».

Chi è quest' uomo? L'identikit è quella di un quarantenne, magro, brizzolato, coi capelli alle spalle che non si è mai fatto avanti. Perché? «Due sono le cose: o era sposato e non voleva problemi, o ha qualcosa da nascondere», dice Ghini. 

Polina aveva interrotto da qualche tempo la relazione con l'ex, con cui conviveva a Pavia e neanche a lui aveva dato il nuovo indirizzo. Secondo l'investigatore, ma anche secondo il consulente di parte Fabrizio Vinardi, Polina non è caduta nel punto indicato dalla procura, ma a cinquecento metri di distanza, da un ponticello nascosto dalla vegetazione dove potrebbe essere arrivata per inseguire i cani (due dei sei non sono mai stati trovati).

 «Lì potrebbe aver incontrato il suo aggressore», conclude Ghini. Sul corpo della donna c'erano diversi lividi «segno di una possibile colluttazione - sottolinea l'avvocata Barrella - in corrispondenza degli strappi dei vestiti». C'è altro. E a scoprirlo è stata una blogger pavese che ha presentato due esposti in procura, dando via a un secondo fascicolo d'inchiesta. Analizzando i profili social di Polina, ha scoperto che alcuni dati importanti - foto, geolocalizzazioni, link - sarebbero stati rimossi anche mesi dopo la sua morte. Chi lo ha fatto? E perché? Risponde l'avvocata: «Ora potrebbe avere le ore contate».

Polina Kochelenko, il giallo dell’allevatrice morta nel canale: i cani spariti, il blog e gli spostamenti, caso riaperto. Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.

Polina Kochelenko, 35enne russa, è stata trovata nella roggia Malaspina di Valeggio (Pavia) il 17 aprile 2021: apparentemente annegata in pochi centimetri d’acqua. La famiglia si è opposta all’archiviazione, prima udienza il 6 giugno. Due esposti in Procura di una blogger appassionata di criminologia.

Il caso non è chiuso, e forse non è stata una fatalità ma omicidio: la prima udienza per chiarire le cause della morte dell’allevatrice di cani sarà il 6 giugno, presso il tribunale di Pavia. Il Gip Maria Cristina Lapi ha ritenuto ammissibile l’opposizione all’archiviazione da parte della famiglia di Polina Kochelenko, la 35enne di origini russe trovata morta dai vigili del fuoco in un canale irriguo, la roggia Malaspina, nella mattinata del 17 aprile 2021. Era a 500 metri da casa sua, nelle campagne di Valeggio, in provincia di Pavia, coi suoi cani che sono spariti nel nulla. L’autopsia eseguita presso la Medicina Legale di Pavia, pur non avendo chiarito i dubbi sulle reali cause del decesso, aveva indotto la Procura della Repubblica di Pavia a richiedere l’archiviazione. La famiglia di Polina si è sempre opposta, viste le numerose anomalie ancora non spiegate.

Gli esposti in Procura

Inoltre una blogger, appassionata di criminologia, ha inviato due esposti in Procura perché alcuni dati relativi a Polina e ai suoi spostamenti, emergenti dal blog della sfortunata 35enne, erano stati cancellati dopo la sua morte. Il sospetto è che qualcuno conoscesse le sue credenziali di accesso. Polina Kochelenko, addestratrice cinofila, laureata in criminologia, si era trasferita a Valeggio, centro rurale di 200 abitanti, da pochi mesi per permettere ai cani che le erano stati affidati di poter ricevere un ottimo addestramento, in un luogo dove lo spazio di certo non mancava. Ma quella sera, il 16 aprile 2021, la giovane non aveva dato più notizie di sé.

La ricostruzione dei fatti

A dare l’allarme è stata la madre. Il giorno seguente le due donne sarebbero dovute andare a comprare un’auto nuova, ma Polina a quell’appuntamento non è mai andata. A conclusione delle ricerche avviate a seguito della scomparsa, subito denunciata ai carabinieri di San Giorgio Lomellina, la giovane donna veniva ritrovata priva di vita non lontana da casa, in campagna, dove si era recata a fare una passeggiata con cinque cani, di cui 3 di razza pastore tedesco di proprietà di un famoso centro cinofilo, presso il quale collaborava come istruttrice. La Procura della Repubblica di Pavia ha subito aperto un procedimento penale contro ignoti per omicidio colposo, ma poi la morte per annegamento veniva archiviata ritenendo che Kochelenko fosse affogata nel tentativo di salvare due dei cinque cani di 6/7 mesi che, forse caduti in acqua, non riuscivano a risalire la ripida sponda della roggia Malaspina.

Gli animali scomparsi

Gli animali però, del valore di almeno 4 mila euro l’uno, non vennero mai ritrovati né nelle acque del canale, né in altri luoghi. Una circostanza che ha fatto da subito dubitare della ricostruzione i suoi familiari. Molte le circostanze anomale riguardo la morte della giovane: Polina è annegata in un canale irriguo dove l’acqua era alta poche decine di centimetri. I cani di alta genealogia e molto costosi non sono mai stati rinvenuti, né vivi a seguito delle numerose segnalazioni anche ad opera dei media, né morti nei canali irrigui. La giovane era un’abile nuotatrice, una donna sportiva ed in piena forma fisica. Le indagini difensive sono state coordinate dall’avvocato Tiziana Barrella del foro di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) che assiste quale persona offesa la madre della giovane, dall’investigatore privato Claudio Ghini, dall’ingegner Fabrizio Vinardi dell’Ordine degli Ingegneri di Torino e da altri periti e consulenti. Tutti sono ancora convinti che la tragedia non abbia nulla a che fare con un semplice incidente e che uno dei possibili moventi sia di ordine economico, dato l’alto valore dei due pastori tedeschi, cuccioli di elevato valore e pregio.

·        Il Mistero di Martine Beauregard.

Confessioni spontanee, sfruttatori e personaggi altolocati: chi ha ucciso Martine Beauregard? Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 9 Maggio 2022.

La donna esercitava la professione e fu trovata in un fosso a Vinovo con segni di strangolamento e sevizie. Dopo parecchi indagati, l’inchiesta fu archiviata. 

Chi ha ammazzato Martine Beauregard? Non si sa. Apprendista, operaia turnista, collaboratrice domestica: non avesse cambiato mestiere, la sua tragica storia sarebbe stata dimenticata in una settimana. Invece di Martine, una splendida ragazza, una delle più affascinanti e sofisticate a esercitare il mestiere di «mondana», come la castigata e pruriginosa stampa dell’epoca definiva le prostitute, si parlò per anni. Nata a Parigi nel 1944 da papà Alberto, anziano pittore, e mamma Georgette, era vissuta in centro a Moncalieri, in via Real Collegio, con i genitori e quattro sorelle. Il babbo, già sposato in epoca pre-divorzio, non aveva potuto dare il suo cognome alle figlie. Fino alla maggiore età non era stata una privilegiata: a quattordici anni, si era fatta intestare il libretto di lavoro e le annotazioni non raccontano una carriera rutilante. A vent’anni, fine dei mestieri ufficiali. In famiglia raccontarono che avrebbe voluto fare l’ostetrica, prima di essere plagiata dal balordo che l’aveva messa sulla strada. Nelle sue agende private, a partire dal gennaio del 1965 era comparso un altro tipo di contabilità: data, giorno della settimana e, accanto, la cifra di incasso quotidiana: cinquemila lire, diecimila, ventimila. Da trecento a cinquecentomila lire al mese, con un’impennata — ebbe la malizia di notare un cronista dell’epoca — «nei mesi estivi, quando le mogli sono in vacanza». Proprio come nel film con Marilyn Monroe, del suo innamorato Tom Ewell e della scena immortale della grata della metropolitana.

Clara l’ultima a vederla

La si trovava tra corso Galileo e corso Re Umberto. Frequentava spesso gente inserita in società e, come direbbero oggi i giovani, altospendente, ma anche sbalestrati e lingére. Il 17 giugno 1969, verso sera, era passata a prenderla un signore a bordo di una Dino. I due avevano cenato insieme. Dopodiché si era fatta riaccompagnare all’incrocio, dove aveva incontrato la sua collega Clara. L’ultima testimone a vederla viva. La donna raccontò di aver notato, verso le 23, una Fiat 125 chiara targata Cn, o forse Ch, con gli interni rossi, accostarsi nel controviale. Martine aveva scambiato due parole con la persona alla guida ed era salita, salutando l’amica. Ma quell’arrivederci era stato un addio: il suo corpo fu ritrovato il giorno dopo in un fosso, vicino all’ippodromo di Vinovo, qualche metro più in là degli attuali campi di allenamento della Juventus. Il medico legale relazionò di un iniziale tentativo di strozzamento, varie sevizie e poi il soffocamento. Bastò poco per individuare il protettore della povera Martine in tale Ugo G (foto in basso), un viveur sfaccendato ma occupato in una vita dispendiosa. Proprietario di una spider rossa Dino, venne incarcerato con l’accusa di sfruttamento della prostituzione e con l’ipotesi di aver fatto del male alla ragazza, sebbene avesse presentato un alibi: nelle ore dell’omicidio era in un locale notturno. Ciononostante, restò per mesi in custodia cautelare. Nel passare dal Don Pepe al Mack 1, due locali alla moda di quei tempi, si disse che poteva avere avuto il tempo di commettere l’omicidio. Per non parlare di chi vide una Dino nella zona di ritrovamento del cadavere. E del fatto che i segni di tortura suggerissero la classica lezione impartita dallo sfruttatore alla sfruttata.

Il signor Carlo C.

Non successe null’altro fino al dicembre di quell’anno quando un giovane uomo, il signor Carlo C., noto agli amici come “Champagne”, non telefonò al capo della squadra mobile, il mitico commissario Montesano, per confessare l’omicidio. Disse di essere passato a prendere Martine con la sua 125, di averla portata nella sua casa di corso Galileo. La ragazza si era sentita poco bene, forse aveva bevuto troppo e aveva chiesto di farsi un bagno. Lui l’aveva assecondata, per poi trovarla priva di sensi nella vasca e, per qualche ragione, invece di aiutarla l’aveva guardata annegare. Preso dal panico, l’aveva caricata in auto e abbandonata in un luogo isolato. Peccato che nulla tornasse: non c’era acqua nei polmoni di Martine, né alcol nel suo sangue. Nel gennaio del 1970, l’uomo ritrattò: spiegò di essersi trovato in una situazione disperata con la sua azienda di prestiti e, a forza di leggere articoli di giornale sul caso Beauregard, aveva avuto la brillante pensata di uscirsene dai guai economici confessando un crimine a caso. Venne creduto. Verso la fine di quell’anno, i due erano stati prosciolti da ogni accusa sulla morte di Martine.

L’epilogo

Il padre di Carlo si era suicidato per la vergogna. Si trovò un mazzo di fiori al Monumentale, sulla sua tomba, con un biglietto: «Perdonami». Emerse che, a piazzarlo, era stato un giornalista frustrato per l’assenza di nuovi spunti da raccontare. Poi, uno strano riscontro: nell’ottobre del 1970, una collega di Martine, Rosanna, morì in un incidente stradale a Cavagnolo. Nella sua agenda trovarono nomi e numeri di personaggi in vista: uno di questi era riportato anche in un’agenda della Beauregard. Apparteneva a uno scapolo quarantenne della provincia di Cuneo che, effettivamente, aveva una 125 chiara. Rintracciato, ammise di frequentare Rosanna ma di non sapere neanche chi fosse Martine e di non sapersi spiegare la presenza del suo recapito telefonico. Nient’altro. Nel 1971, si prese due anni di reclusione per sfruttamento della prostituzione anche il vecchio fidanzato di Martine, Giancarlo R.: secondo la corte, era stato il primo a trarre vantaggio dai sentimenti della ragazza, donna volubile e facilmente manovrabile. Ma non l’aveva uccisa. È appena di cinque anni fa l’ultimo sussulto: una donna raccontò che il padre, sul letto di morte, le aveva fatto il nome dell’assassino di Martine. Era suo zio, Giovanni M., imprenditore ormai in pensione e peraltro amico di Carlo «Champagne». L’anziano negò di averla mai conosciuta. Venne indagato; l’inchiesta fu archiviata per insufficienza di indizi. Nessuno l’avrebbe più riaperta.

·        Il Caso di Davide Cervia. 

Davide Cervia. LA LUNGA STORIA DI UN MISTERO ITALIANO. Gianluca Zanella il 18 aprile 2022 su Il Giornale.

Che i servizi segreti di Paesi stranieri abbiano operato in Italia con il tacito accordo dei nostri apparati – se non addirittura con la collaborazione attiva – è un fatto acclarato. Pensiamo alla strage dei dissidenti libici operata nel corso degli anni Settanta e Ottanta per mano dei sicari di Muhammar Gheddafi; pensiamo al rapimento di Mordechai Vanunu a opera del Mossad; ricordiamo il rapimento, nel 2003, a Milano, di Abu Omar, quando a operare sul campo fu la Cia con il supporto dell’allora Sismi.

Insomma, non c’è troppo da stupirsi, eppure c’è una storia che batte tutte le altre per i risvolti incredibili che si annidano nelle sue pieghe oscure; una vicenda poco nota (“appassionati” di misteri a parte), che vede coinvolti apparati certamente interni allo Stato italiano, ma anche presenze estere sulle quali, purtroppo, non è mai stata fatta luce. Stiamo parlando del rapimento di Davide Cervia. 

Prologo – Chi era Davide Cervia

Ma chi era Davide Cervia? Per capirlo – e per ricostruire nelle sue fasi più importanti questa storia terribilmente vera – abbiamo parlato a lungo con il giornalista investigativo che più di tutti si è occupato della vicenda, pagando questo impegno anche a livello personale: Gianluca Cicinelli.  “Davide Cervia era un militare della Marina militare italiana, un esperto di guerra elettronica. Uno dei pochi a saper utilizzare – e a poter insegnare come farlo – il sistema missilistico Teseo Otomat. Nel 1990, anno della sua scomparsa, in Italia erano solo un centinaio di persone ad avere le sue competenze”. 120, per la precisione. All’epoca della sparizione di Davide Cervia, solamente una sessantina di queste erano ancora in servizio. Così come 64 erano i Paesi a cui nel 1990 era stato venduto il Teseo Otomat.

Fermiamoci un attimo e spieghiamo cosa voglia dire – tra la fine degli anni Ottanta e il principio dei Novanta – “guerra elettronica”. Semplificando, si tratta di un sistema di individuazione, di difesa e – contemporaneamente – di offesa attraverso dei missili. Un sistema che – oggi viene quasi da sorridere – risolveva il problema della curvatura terrestre: “Il sistema Teseo Otomat, una coproduzione italo francese tra la Oto Melara e la Matra”, ci spiega Gianluca Cicinelli, “era in grado di individuare, per fare un esempio, un aereo a 3 mila chilometri di distanza. Ma non solo, il Teseo Otomat era in grado di capire se l’aereo in questione era amico o nemico, con che tipo di equipaggiamento era rifornito, quante persone c’erano a bordo e, cosa più importante, poteva distruggerlo senza svelare la propria posizione”.

In questo contesto, Davide Cervia era un’eccellenza. Non un ingegnere, ma un ottimo operatore. Peccato che nel 1984 decida di congedarsi. Un divorzio dal mondo militare assolutamente tranquillo, una decisione maturata per stare più vicino alla moglie Marisa, a suo figlio e a sua figlia, entrambi nati da poco.

Da quel momento, quella di Davide Cervia diventa una vita del tutto ordinaria. Trasferita la famiglia nelle campagne di Velletri, prende impiego in una fabbrica del posto e tutto scorre serenamente fino al 1990.

Poi qualcosa cambia. “In questa vicenda, un ruolo cruciale lo giocano le date”. Gianluca Cicinelli si riferisce a un giorno in particolare: il 2 agosto 1990. Data in cui Saddam Hussein invade il Kuwait. Scoppia la Prima guerra del Golfo: “È all’inizio dell’estate che cominciano i primi segnali. E da lì fino al 12 settembre dello stesso anno, sarà un’escalation che si conclude con il rapimento di Cervia”.

Marisa Gentile Cervia, moglie di Davide Cervia. 

Capitolo 1 – Il rapimento

Come in un film, la tranquilla quotidianità di una famiglia serena viene inghiottita in una spirale di eventi che solamente Davide è in grado di decifrare. Sua moglie Marisa, da oltre 30 anni in prima linea per cercare la verità, non sa che il marito è un esperto di guerra elettronica. Per lei, come del resto per tutti quelli che non fossero i suoi colleghi, Davide è un ex marinaio. E tanto basta.

Al principio dell’estate, nei terreni intorno alla casa dei Cervia compaiono delle persone. Operai. “Marisa ricorda che il marito ci andò a parlare per capire cosa stessero facendo. Dissero che si stavano occupando del censimento dei vigneti. Peccato che Davide avesse tolto il suo nel 1988”.

Poi arrivano altre persone. Marisa Gentile vede suo marito parlarci animatamente. Cosa inusuale per uno come Davide, una persona estremamente educata e con una grande capacità di autocontrollo. “Quella volta, Davide le disse che quelle persone chiedevano solo indicazioni”.

Ad agosto nuovi segnali. Solo a posteriori possiamo capire di cosa si trattasse: era il cappio che si stringeva: “La rete della recinzione viene tagliata in corrispondenza di dove Davide parcheggiava la sua Golf bianca. Marisa ci racconta che a quel punto suo marito comincia a essere molto agitato. Lei, più che per questi episodi, si meraviglia dell’agitazione di Davide che, poco dopo, chiede il porto d’armi per un fucile”.

Ma l’incubo di Cervia non si ferma: l’impianto elettrico della sua macchina prende fuoco: “Marisa racconta che il marito ebbe una crisi di pianto. Una cosa che la colpì molto, non aveva mai visto Davide in quello stato”.

Davide Cervia deve aver capito molto bene quello che gli stava accadendo, eppure non una parola, non una richiesta di aiuto. Con l’intento di salvaguardare la famiglia che aveva tanto desiderato mettere in piedi con sua moglie Marisa, cerca di gestire da solo la situazione. Ma sottovaluta la portata dell’ingranaggio in cui era caduto e dal quale viene risucchiato.

Il 12 settembre 1990 Cervia esce da lavoro attorno alle 17 e da quel momento, diventa un fantasma. L’orario lo fornisce un suo collega, l’ultima persona ad averlo visto. Almeno fino a dicembre, ma ci arriviamo. Quando Marisa va a fare denuncia di scomparsa, i carabinieri locali minimizzano: “Le dissero che probabilmente era scappato con una bionda”.

Rimasta sola con due figli da gestire, improvvisamente sola, Marisa veste suo malgrado i panni dell’investigatrice, supportata costantemente da suo padre, Alberto. “Comincia a scavare nella vita di suo marito su suggerimento di alcuni ex colleghi di Davide, dei militari di Marina. Trova i manuali crittografati su cui il Cervia della vita precedente, l’esperto in guerra elettronica, studiava e si aggiornava costantemente sul sistema missilistico Teseo Otomat”. In poche parole, Marisa Gentile comincia a unire i puntini degli ultimi mesi e si convince ancora di più di quanto già non lo fosse che Davide non è andato via. È stato rapito.

La certezza – come sopra accennato – arriva però solo a dicembre.

“Il vicino di casa telefona a Marisa. Le chiede di incontrarla. Considerando che lui e Davide non si parlavano da anni a causa di una disputa di vicinato, Marisa a quell’incontro ci va con un registratore”. L’uomo, intorno alle 17.30 del 12 settembre, ha assistito al rapimento di Davide: “Era in giardino quando Davide ha parcheggiato la macchina di fronte al cancello di casa. Subito dopo è arrivata un’altra macchina, da cui sono scese tre persone. Mentre in due si avventavano su Davide, costringendolo a salire sulla macchina rimasta in moto con una persona alla guida, il terzo saliva sulla Golf bianca di Cervia. Prima di essere infilato a forza in quell’auto, Davide vede il suo vicino e lo chiama per tre volte”.

Nonostante il tardivo rigurgito di coscienza del vicino, sembra trattarsi di una testimonianza che meriterebbe un approfondimento immediato. Ma i carabinieri di Velletri sono di tutt’altro avviso: “Non presero agli atti la testimonianza di quell’uomo. Dissero che non ci vedeva. Si era sbagliato”.  

Capitolo 2 – Il depistaggio

Gianluca Cicinelli entra in questa storia non solo come giornalista. Ne diventa parte a tutti gli effetti e in un ruolo di comprimario accanto a Marisa e suo padre. Il grande assente di questa storia è proprio il suo protagonista, Davide.

“Era il gennaio 1991 e lavoravo a Roma presso Radio Città Aperta. Un giorno si presenta questo Alberto, che mi racconta una storia di spionaggio. Di matti ne capitavano tanti lì in redazione e non ci feci caso più di tanto. Mi diede un volantino, annunciava una manifestazione che si sarebbe tenuta di lì a un paio di settimane di fronte Montecitorio”.

Casualità (ma il caso in questa storia c’entra davvero poco) Cicinelli quel giorno deve andare proprio a Montecitorio ed è lì, sulla piazza, che incontra nuovamente Alberto, suocero di Davide Cervia, e conosce Marisa, la moglie: “C’erano loro, i bambini e pochi altri amici di Davide. Mi colpirono gli occhi di Marisa. Ci mettemmo a parlare e non andai nemmeno dove dovevo andare, restai lì ad ascoltarla”.

Gianluca Cicinelli e Marisa Gentili cominciano a lavorare fianco a fianco per scavare in questa storia, per farla conoscere all’opinione pubblica: “Di questa storia si parlava solo a livello locale. E lì a Velletri Marisa veniva considerata una matta, perché diceva che suo marito era stato rapito dai servizi segreti”.

Il 22 gennaio 1991 il caso Cervia finisce a Chi l’ha visto? Condotto al tempo dalla compianta Donatella Raffai. Nel corso della trasmissione, chiama un autista dell’allora Acotral, che il 12 settembre 1990 se lo ricorda molto bene. Quel giorno, attorno alle 17.40, stava percorrendo la via Appia da Roma a Velletri. Proprio in corrispondenza dell’imbocco della strada che porta alla casa di Cervia, aveva dovuto inchiodare. Due macchine erano sbucate a velocità folle. Dentro la prima, gli era sembrato di vedere due uomini intenti a trattenere un terzo sdraiato sul sedile posteriore. Questa testimonianza si incastra perfettamente con quella del vicino di casa.

Da quel momento, Marisa comincia a ricevere telefonate nel cuore della notte. Al suo indirizzo, arrivano anche due lettere battute a macchina: “Lascia perdere qualsiasi ricerca su Davide”. Ma lei non si lascia intimidire.

Con l’arrivo di una minima notorietà sulla vicenda, si attiva quello che Gianluca Cicinelli definisce il vero e proprio depistaggio: nel corso di una puntata di un programma televisivo (che ebbe vita breve) che doveva essere la risposta al successo di programmi come Telefono Giallo e, appunto, Chi l’ha visto?, parla quello che viene presentato come un amico di Davide Cervia.

Giuseppe Carbone sostiene in diretta televisiva che poco prima di sparire, Davide gli aveva detto di essere stanco della vita in famiglia e che, parlando l’arabo, aveva deciso di trasferirsi in qualche imprecisato Paese a lavorare. La sua testimonianza – a differenza di quella del vicino di casa – viene ritenuta talmente importante dai carabinieri di Velletri, che Carbone viene invitato a deporre e la sua deposizione finisce agli atti. Peccato che – intervistato da due giornaliste – l’uomo dimostrò di non aver nemmeno mai avuto a che fare con Davide Cervia. Chi fosse e per chi lavorasse realmente Giuseppe Carbone, non si è mai capito. 

Capitolo 3 – Il mistero della macchina (da scrivere)

“Il primo marzo 1991 Donatella Raffai chiama Marisa. Hanno ritrovato a Roma la macchina di Davide”.

La Golf bianca di Cervia si trova in via Marsala, in buono stato. A giudicare dall’erbetta cresciuta sotto le ruote, dev’essere ferma lì da non più di due, tre mesi. Peccato che quella zona vicino alla stazione Termini fosse stata battuta palmo a palmo da Alberto, il papà di Marisa, e dai suoi amici e conoscenti: “Alberto, prima di trasferirsi con sua moglie a casa della figlia, aveva gestito per tanti anni un’edicola vicino Termini. Subito dopo la sparizione di Davide aveva attivato l’intero quartiere per cercare la macchina. In quella strada non c’era di sicuro”.

I problemi di Cicinelli cominciano con questo episodio: “Sono finito in tribunale e ho vinto. Avevo scritto che la Digos sapeva della presenza di quella macchina in via Marsala molto prima del primo marzo”.

La Golf di Davide Cervia era alimentata a gas.

La Digos – guidata in quell’occasione dall’ispettore Sandro Nervalli, noto per aver arrestato i brigatisti Morucci e Faranda – intervenne con gli artificieri, che per aprire la macchina fecero saltare il portabagagli con una piccola carica esplosiva: “Ci sono le immagini a testimoniarlo. Se nell’impianto ci fosse stato del gas, via Marsala sarebbe diventata come Beirut. Ma evidentemente la Digos sapeva che in quella macchina non c’era gas”. Come si è arrivati alla macchina? “Una lettera anonima alla redazione di Chi l’ha visto?”.

E anche qui un dettaglio enigmatico: “L’abbiamo fatta analizzare. È stata battuta dalla stessa macchina con cui sono state scritte le due lettere anonime ricevute da Marisa a Velletri”.

Tre lettere, stessa macchina da scrivere. Le prime due intimano a Marisa di lasciar perdere; la terza fornisce un aiuto concreto per provare a capirci qualcosa: “In uno spettacolo teatrale sul caso Cervia, ho immaginato che per mancanza di fondi, Sismi e Sisde utilizzassero la stessa macchina da scrivere. Ad ogni modo, ritengo che dietro la tastiera ci fossero due persone diverse. Appartenenti allo stesso apparato, ma con finalità e coscienze diverse”.

Cominciano le interrogazioni parlamentari. Gianluca Cicinelli e Marisa Gentile parlano con tutti i governi che si sono succeduti dal 1992 al 2002. Dieci anni in apnea a nuotare in una palude. “Tutto in questa storia ha una doppia chiave di lettura, tutto è ambivalente. Arrivi a un certo punto in cui ti chiedi quanto di quello che accade sia realmente come lo percepisci”. Cicinelli si riferisce a episodi in ordine sparso: dalla cartomante che chiama Marisa e che, tra le varie cose, sa esattamente com’era vestito Davide al momento del rapimento (dettaglio mai diffuso pubblicamente), al biglietto di auguri di Natale nella sua macchina: “Era chiusa. Sul biglietto c’era scritto auguri a te e famiglia. Ma era marzo”.

Il collega di Davide che l’aveva visto all’uscita da lavoro viene minacciato da un uomo che si scoprirà legato al Sismi e anche il giornalista comincia a ricevere telefonate notturne: “Vallo a spiegare a quella che era mia moglie che ero finito in una storia di spionaggio!”.

Capitolo 4 – La pista francese

Tra il 1994 e il 1995 Gianluca Cicinelli scrive due libri su questa storia: “Il secondo è arrivato così presto perché nel giro di un anno c’erano state delle novità importanti”.

La novità principale riguardava la ditta di censimento dei vigneti vista da Marisa nell’estate del 1990, che Cicinelli dimostra essere legata al ministero della Difesa, ma questo secondo libro innesca un ulteriore sviluppo nella vicenda. È grazie alla sua pubblicazione se si apre concretamente una pista internazionale. Nello specifico, la pista francese.

“Il libro esce il 12 settembre 1995 in edicola con la rivista Avvenimenti. Mentre sono in redazione mi arriva una telefonata. È un uomo, ha comprato il libro, vuole vedermi”.

L’uomo è un pensionato dell’Air France Italia e vive a Roma, quartiere Montesacro: “Ricordava perfettamente che nel gennaio del 1991 i carabinieri di Velletri erano andati alla sede romana dell’Air France per fare accertamenti. Lui aveva chiamato la sede centrale a Parigi per trasmettere il nome da verificare e da Parigi gli avevano risposto che sì, Davide Cervia risultava presente su un volo effettuato il 15 gennaio da Parigi a Il Cairo, che nel 1991 era l’unica porta d’accesso per il teatro infuocato dalla guerra del Golfo”. Due giorni dopo scatta l’operazione Desert storm e gli Stati Uniti invadono l’Iraq.

Ma c’è di più: il biglietto con cui viaggia Cervia fa parte di un pacchetto di due biglietti acquistati dall’agenzia Les invalides, nella cui orbita c’è anche un ospedale per militari, su mandato del Ministero degli Affari esteri francese. Su chi fosse il compagno di viaggio di Cervia, il mistero. “Cercai il direttore dell’Air France per l’Italia dell’epoca, lo trovai a Parigi e lui mi confermò che era tutto vero, ma che poi passò la pratica ai servizi di sicurezza francesi, perché aveva sentito parlare di Davide Cervia in televisione e si era preoccupato”.

I servizi francesi prendono in carico la cosa. Nulla stupisce in questa storia. Cicinelli denuncia tutto alla questura di Roma e scattano i controlli della criminalpol presso la sede romana dell’Air France. Morale della favola: il fascicolo su Cervia evapora. Al suo posto, un fascicolo dove si parla di una mademoiselle Cervia, imbarcata su una tratta differente, in una data differente.

Ormai, nonostante le pressioni ricevute, quello di Davide Cervia appare incontrovertibilmente per quello che è: non solo un rapimento, ma una intricatissima storia di spionaggio internazionale che – al consueto traffico di armi – aggiunge anche il traffico di uomini. E ricordiamo i dettagli: una sessantina di esperti per il funzionamento del sistema Teseo Otomat; 64 Paesi a cui il sistema è stato venduto al 1990. Andato in congedo Davide Cervia, qualcuno è probabilmente rimasto con il cerino in mano e con un giocattolo tanto costoso quanto inutile senza un istruttore.

Capitolo 5 – L’ombra dei servizi segreti italiani

“Sono convinto che Davide sia stato rapito da uomini dei servizi fuori servizio. Un rapimento su commissione di uno dei paesi a cui il sistema era stato venduto”.

E i servizi italiani, in questa vicenda? “Il Sisde disse che Davide era solo un semplice marinaio. Il Sismi fu più sottile, disse che sì, Davide era un esperto e che si trovava in Iraq. Se ci fosse andato di sua sponte, non lo specificarono mai”. Per anni si è cercato di sminuire la portata di questa vicenda anche passando attraverso una manipolazione della figura professionale di Davide: “Per un periodo circolarono quattro fogli matricolari diversi. In uno Cervia non risultava nemmeno sposato. Per ottenere quello vero, dove si parlava delle sue specializzazioni, io e Marisa dovemmo letteralmente occupare una sala del ministero della Difesa. Alla fine intervenne Falco Accame e, almeno su quel fronte, la verità venne pienamente a galla”.

Nel 1998, grazie all’avvocato Nino Marazzita, il fascicolo su Cervia viene avocato dalla Procura generale di Roma per inerzia della procura originaria e l’indagine passa nelle mani del magistrato Luciano Infelisi, che nel 2001 chiede l’archiviazione, ma segnando un punto fondamentale: “È un’archiviazione importante, perché viene affermato che Cervia è stato rapito a opera di un paese straniero, non più identificabile a causa del troppo tempo passato, a causa della sua competenza in guerra elettronica. Per la prima volta viene messo nero su bianco in una sentenza di tribunale che Cervia è stato rapito, che si tratta di un’operazione di spionaggio internazionale”. E i carabinieri di Velletri di questo ne erano a conoscenza già il 15 settembre 1990, tre giorni dopo il rapimento, quando un uomo del Sios Marina, l’apparato d’intelligence presente in ogni forza armata, si era presentato in caserma. Un dettaglio emerso durante uno dei processi sostenuti da Cicinelli, che fu denunciato dai carabinieri di Velletri per diffamazione a mezzo stampa. E che venne assolto.

Epilogo – Vittoria (simbolica)

Il colpo di coda di questa storia c’è nel 2021, ma dobbiamo fare un passo indietro di tre anni. Nel 2018, infatti, il Tribunale Civile condanna il ministero di Grazia e Giustizia e il ministero della Difesa per aver ostacolato il raggiungimento della verità nel caso Cervia. Una sentenza importante. Nel giugno di quell’anno scadono i termini per l’Appello, ma l’allora ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, decide di mettere la parola fine. Nonostante molte pressioni. Il tribunale – in accordo con la famiglia Cervia – stabilisce un risarcimento simbolico di un euro. Marisa ha vinto. Se di vittoria si può parlare.

“Ma succede qualcosa di strano. La presa di posizione della Trenta fa storcere il naso a qualcuno. E nel 2021 assistiamo e veniamo sfiorati da una guerra tra bande tutta interna alle istituzioni e agli apparati d’intelligence. Qualcosa di simile a quanto avvenuto con il ritrovamento della macchina”.

In corrispondenza alla pubblicazione della sentenza civile che condanna il ministero della Difesa (avvenuta il 23 gennaio 2018), la sorella di Davide viene convocata dai carabinieri di Sanremo che le chiedono il consenso per il prelievo del Dna. Lei acconsente.

Tre anni dopo, nel maggio 2021, un magistrato attribuisce a un cadavere ritrovato nel lago Maggiore una comparazione altissima con la sorella di Davide. Il cadavere in questione, ripescato nel 2013, ha un foro di proiettile nella nuca ed è alto circa 1 metro e 68. Davide era alto 1 metro e 82 “e, cosa più importante, la comparazione del Dna funziona tra genitori e figli, non tra fratello e sorella”.

Nel giro di poche ore la squadra si rimette in moto: Marisa, sua figlia e suo figlio e Gianluca Cicinelli formano una squadra di tecnici, tra cui un esperto di Dna e tracce ematiche: “Poche ore dopo aver comunicato alla procura la nomina di questa squadra, il pm blocca tutto: quel cadavere non è di Davide Cervia”.

Arrivati alla fine di questa storia incredibile, abbiamo fatto a Gianluca Cicinelli la domanda più difficile: Davide Cervia è vivo o morto? “Fino a poco tempo fa non rispondevo a questa domanda, ma sono passati 32 anni. Io credo che Davide sia morto e che ciò sia avvenuto poco dopo il suo rapimento”. 

Secondo il giornalista che per oltre trent’anni ha seguito la vicenda in ogni suo risvolto e che, ce lo sottolinea più di una volta, si muove nel campo delle deduzioni, Davide potrebbe essere finito in Arabia Saudita, Paese che aveva acquistato il Teseo Otomat e che, sceso a patti con “il grande Satana”, durante la guerra del Golfo aveva concesso agli Stati Uniti una base d’appoggio “Secondo le mie valutazioni è il posto più probabile. Si presta alla segretezza e subisce dei bombardamenti. Saddam spara i suoi missili, anche se con scarso esito. Ed è mia convinzione, molto indiziaria, che Davide sia morto nei primi mesi della Prima guerra del Golfo. Dopotutto, ritengo sia complesso nascondere qualcuno per oltre 30 anni”. Autore: Gianluca Zanella

·        Il Mistero di Sonia Di Pinto.

(ANSA il 18 Aprile 2022. ) -  "Non me l'hanno fatta vedere, mi hanno solo detto che un gran colpo le ha fracassato il cranio. Domani ci sarà l'autopsia". Così all'ANSA Sauro Diogenici, compagno di Sonia Di Pinto, l'italiana trovata morta in un ristorante in Lussemburgo. 

"Penso a una rapina, non credo sia stato premeditato. Era una persona tranquilla. Faceva il suo lavoro e lo faceva bene", dice Diogenici. "Convivevamo da 5 anni, ci saremmo dovuti sposare il 14 maggio -racconta - Lei era solita rientrare tardi, quando io già dormivo. Ieri al mio risveglio non c'era, ho pensato fosse uscita. Aspettavamo amici a pranzo... invece l'hanno uccisa".

 Da ilmessaggero.it il 18 Aprile 2022.

Forse una rapina finita male. È questa l'ipotesi che si fa strada tra gli inquirenti sulla morte di Sonia Di Pinto, la 47enne italiana trovata morta nel giorno di Pasqua in Lussemburgo. Il cadavere è stato ritrovato nel seminterrato poco lontano dal ristorante dove lavorava, nel quartiere di Kirchberg, in JF Kennedy Avenue. 

Originaria di Petacciato, in Molise, la donna sarebbe stata colpita alla testa. L'autopsia, disposta dalla magistratura, chiarirà maggiormente le cause del decesso. L'allarme lo ha dato il compagno, allarmato per il mancato rientro a casa della donna dopo il turno di lavoro.

Secondi i media locali potrebbe essersi trattato di una rapina finita male. Secondo i primi rilievi effettuati dalla polizia, alla donna sarebbero stati portati via circa tremila euro. Fondamentali saranno le immagini delle telecamere di videosorveglianza per individuare l'autore o gli autori del delitto. Secondo quanto riportato dal giornale locale Le Quotidien, la 46enne sarebbe stata colpita in testa con un corpo contundente.

«Esprimo a nome mio, dell'amministrazione comunale e di tutta la cittadinanza il cordoglio per la tragica e improvvisa scomparsa di Sonia. Il dolore, lo smarrimento sono i sentimenti prevalenti dell'intera comunità di Petacciato che si stringe intorno ai genitori e ai fratelli per questa tragedia che lascia tutti nello sconcerto». È quanto afferma il sindaco di Petacciato (Campobasso) esprimendo le condoglianze della sua comunità ai familiari di Sonia di Pinto, la 46enne molisana trovata senza vita ieri nel seminterrato del ristorante dove lavorava in Lussemburgo.

La donna sarebbe stata uccisa con un colpo alla testa. La polizia locale - riferiscono i media locali - sta indagando su un possibile tentativo di rapina finito in tragedia ma non si escludono altre ipotesi. È stata disposta l'autopsia mentre si lavora sulle immagini riprese dalle telecamere di sicurezza attive nella zona del locale.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 18 aprile 2022.  

Il corpo di Sonia Di Pinto era nel seminterrato del ristorante dove lavorava, in Avenue JF Kennedy, una strada a scorrimento veloce a Kirchberg, il quartiere residenziale a nord di Lussemburgo sede delle più importanti istituzioni europee. 

Sabato sera, Sonia, 46 anni, originaria di Petacciato, in provincia di Campobasso, aveva finito il suo turno di responsabile di sala del ristorante della catena Vapiano. Era tardi, come accadeva sempre, sabato però qualcuno l'avrebbe attesa e colpita alla testa con un oggetto molto pesante per rubare l'incasso. Forse la donna che aveva praticato arti marziali ha reagito e la rapina è finita male. 

A dare l'allarme, ma soltanto al mattino, è stato Sauro Diogenici, il compagno con il quale Sonia viveva a Esch-sur-Alzette, a circa venti chilometri da Kirchberg, e che avrebbe sposato tra un mese. Non era rientrata dal lavoro.

Ora, l'autopsia, disposta dalla magistratura, chiarirà le cause del decesso. La famiglia ha ricevuto la drammatica notizia il giorno di Pasqua, al ritorno a casa dopo la messa. In contatto con il funzionario dell'ambasciata d'Italia a Lussemburgo, i genitori e i fratelli sono subito partiti. Ad attenderli Sauro che, disperato, ha postato diversi ricordi su Facebook: «Non posso ancora crederci. Eravamo felici, mi hanno strappato l'anima, sei stata sempre la migliore tra noi due, non riesco ad accettarlo», ha scritto in un breve post condividendo la foto di Sonia.

Le indagini sono ancora in corso, l'autopsia chiarirà anche la dinamica dell'aggressione. Ma sembrano esserci pochi dubbi sul fatto che possa essersi trattato di una rapina. La polizia locale ha verificato infatti che mancano tremila euro, ossia gli incassi del ristorante nella serata di sabato. 

Secondo la prima ricostruzione, Sonia aveva appena finito di lavorare e stava uscendo dal locale quando è stata colpita alla testa. Il cadavere della donna è stato ritrovato otto ore dopo la fine del turno. Adesso saranno le telecamere di sorveglianza, già acquisite dalla polizia, a fornire ulteriori elementi e forse anche a svelare di più sui responsabili. Ma nessuna pista è esclusa.

«Non me l'hanno fatta vedere, mi hanno solo detto che un gran colpo le ha fracassato il cranio. Domani (oggi per chi legge ndr) ci sarà l'autopsia - racconta Diogenici - Penso a una rapina, non credo sia stato premeditato. Era una persona tranquilla. Faceva il suo lavoro e lo faceva bene - aggiunge l'uomo - convivevamo da cinque anni, ci saremmo dovuti sposare il 14 maggio. Lei era solita rientrare tardi, quando io già dormivo. Ieri al mio risveglio non c'era, ho pensato fosse uscita. Aspettavamo amici a pranzo, invece l'hanno uccisa».

Sonia era partita cinque anni fa da Petacciato per trasferirsi in Lussemburgo. Ora l'intera comunità è sconvolta. «È sempre stata sempre una ragazza che si è distinta per la sua voglia di fare ma anche l'impegno sociale. Assurdo morire così. Assurdo. Difficile capacitarsi», ha commentato il sindaco Antonio Di Pardo. 

utti in paese conoscevano e stimavano Sonia Di Pinto per il suo impegno nel sociale. La Protezione civile di cui faceva parte, piange la sua scomparsa: «La notizia ci ha sconvolti, non si può morire così», ha scritto in un post su Facebook. Cordoglio anche dalla scuola di Kung Fu, dove Sonia era diventata cintura marrone: «Ricordiamo tutti Sonia come un'atleta, donna tranquilla e gentile con tutti. Una ragazza dolcissima e sempre disponibile», si legge in un post della scuola.

 «Ha perso la vita in modo assurdo, per una rapina sul posto di lavoro, per una manciata di euro. Ci resta di Sonia il ricordo delle giornate trascorse insieme, le sue risate e la sua voce squillante Quando una persona ci lascia inaspettatamente, un pezzo del nostro cuore si spezza per sempre. Riposa in pace cara Sonia».

Lussemburgo, l’uccisione di Sonia Di Pinto, svolta nell’indagine: arrestate tre persone, una è un collega. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

La svolta nell’inchiesta sulla morte della 46enne di Petacciato, banconista in un fast-food nel Granducato. Presi i due rapinatori che l’hanno colpita con violenza. Fermato anche l’addetto che ha permesso ai malviventi di entrare all’interno del locale.  

Sonia Di Pinto tradita da un collega di lavoro, da una persona che lavorava nel suo stesso ristorante. La svolta nelle indagini sulla morte della 46enne di Petacciato (Campobasso) uccisa la sera del Sabato Santo in Lussemburgo nel locale dove lavorava da sette anni, è arrivata dieci giorni dopo il delitto e ha portato a galla una verità che per i familiari della donna è stato un altro duro colpo da incassare: una delle tre persone finite in manette perché sospettate di essere coinvolte nell’omicidio lavorava proprio nello stesso ristorante dove è avvenuta l’aggressione mortale, il Vapiano. Una specie di «basista», insomma. La svolta conferma anche le perplessità iniziali di cui il compagno della donna, Sauro Diogenici, aveva parlato a Corriere.it riferendosi al fatto che al mattino di Pasqua la collega di Sonia che aveva aperto il locale aveva trovato la serratura regolarmente chiusa. «Come se i rapinatori fossero rimasti all’interno e fossero usciti da una finestra», aveva raccontato l’uomo.

A svelare i nuovi dettagli delle indagini è stato oggi (venerdì) il giornale online lussemburghese Rtl : sarebbe stata proprio una persona che lavorava nel ristorante a permettere ai due malviventi, che poi hanno aggredito la donna, di entrare nel locale. Questa persona sarebbe stata la prima ad essere stata arrestata e interrogata e solo dopo le sue rivelazioni sarebbero stati identificati e arrestati anche gli altri due malviventi coinvolti nella vicenda. Prima degli arresti inoltre sono state eseguite anche perquisizioni in Place de la Gare e a Bonnevoie, due quartieri della stessa città dove è avvenuto il delitto. Fondamentali per la ricostruzione dell’accaduto sono state le immagini delle telecamere di sicurezza che hanno ripreso i due rapinatori mentre aggredivano Sonia Di Pinto.

È stato proprio grazie a quei video che gli investigatori sono riusciti a risalire a chi avrebbe favorito l’ingresso dei malviventi nel locale per poter rubare l’incasso della serata, circa 3mila euro. La rapina come è noto è poi però finita in tragedia con la morte della 46enne che è stata picchiata e colpita alla testa. L’ufficio del pubblico ministero lussemburghese nel confermare i tre arresti ha anche reso noto che si tratta di giovani tra i 20 e i 30 anni. Il compagno di Sonia, Sauro Diogenici, con il quale la donna molisana si sarebbe dovuta sposare tra due settimane, non ha voluto commentare gli sviluppi delle indagini, ma ha preferito ricordare il suo legame con Sonia rivolgendosi direttamente a lei con un post su Facebook: «Ciao Angelo mio, non ti dico addio perché sarà un arrivederci, sono stato molto fortunato a conoscerti, tante cose avevamo in programma, purtroppo ce l’hanno impedito brutalmente, sarai sempre una persona importante — ha scritto — per me nei miei pensieri e nei miei ricordi, il tuo sorriso mi scaldava il cuore e mi faceva sciogliere come neve al sole, sei stata davvero unica».

Anche lo staff del ristorante dove è avvenuto il delitto, locale che oggi è ancora chiuso, ha voluto salutare Sonia attraverso i social: «Siamo tutti profondamente addolorati e rattristati per aver perso Sonia, membro della famiglia Vapiano dal 2014. La sua tragica scomparsa ci riempie tutti di paura, dolore e ci colpisce profondamente. Lei era un modello per tutti noi, la sua professionalità e la sua dedizione erano un esempio per tutti. Non la dimenticheremo, il suo bel sorriso rimarrà per sempre nei nostri pensieri».

Italiana uccisa in Lussemburgo: arrestati tre giovani. Tradita da un collega di lavoro. La Repubblica il 29 Aprile 2022.  

Sonia Di Pinto, 46 anni di Petacciato (Campobasso), è stata assassinata la notte di Pasqua. Fondamentale, per l'inchiesta, il video delle telecamere di sicurezza.

La svolta è arrivata dieci giorni dopo il delitto. Tre giovani sono stati arrestati per l'omicidio di Sonia Di Pinto, la 46enne di Petacciato (Campobasso) uccisa la notte di Pasqua in Lussemburgo, nel ristorante dove lavorava da 7 anni. A far segnare una svolta alle indagini sono state le immagini riprese dalle telecamere di sicurezza che mostrano i malviventi mentre aggrediscono la donna.

E l'inchiesta chiarisce che Sonia Di Pinto è stata tradita da un collega di lavoro, da una persona impiegata nello stesso ristorante: il Vapiano. A svelare i nuovi dettagli è stato oggi il giornale online lussemburghese Rtl: sarebbe stata proprio una persona che lavorava nel ristorante a permettere ai due malviventi, che poi hanno aggredito la donna, di entrare nel locale. Questa persona sarebbe stata la prima ad essere stata arrestata e interrogata e solo dopo le sue rivelazioni sarebbero stati identificati e arrestati anche gli altri due malviventi. Le persone finite in manette hanno tra i 20 e i 30 anni.

Prima degli arresti inoltre sono state eseguite anche perquisizioni in Place de la Gare e a Bonnevoie, due quartieri della stessa città dove è avvenuto il delitto.

Le immagini delle telecamere di sicurezza hanno ripreso i due rapinatori mentre aggredivano Sonia Di Pinto. Grazie a quei video gli investigatori sono riusciti a risalire a chi avrebbe favorito l'ingresso dei malviventi nel locale per poter rubare l'incasso della serata, circa 3mila euro. La rapina  è poi però finita in tragedia con la morte della 46enne, picchiata e colpita alla testa.

Il compagno della vittima, Sauro Diogenici - i due si sarebbero dovuti sposare tra due settimane - non ha voluto commentare gli sviluppi delle indagini. Ha preferito ricordare il suo legame con Sonia  rivolgendosi direttamente a lei con un post su Facebook: "Ciao Angelo mio, non ti dico addio perché sarà un arrivederci, sono stato molto fortunato a conoscerti, tante cose avevamo in programma, purtroppo ce l'hanno impedito brutalmente".

·        La vicenda di Maria Teresa Novara.

Maria Teresa, la bimba che non tornò mai dai genitori. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

La tremenda vicenda di Maria Teresa Novara, tredicenne rapita e tenuta chiusa in una botola a Canale dove venne fatta prostituire. 

Per come venne vissuta dall’Italia degli anni Sessanta, la storia di Maria Teresa Novara è un tragico esempio di quelle pratiche odiose e squallide, tali da non essersi trovate parole italiane per definirle: victim blaming la chiamano, la colpevolizzazione della vittima. Una cultura maschilista e perbenista che allignava in un Paese in cui l’emancipazione femminile era ancora più vagheggiata che seriamente affrontata. E che rende ancora oggi insopportabile una serie di avvenimenti atroci che consegnarono nelle mani di due balordi il destino di una povera ragazzina. Aveva tredici anni, Maria Teresa Novara, e viveva in una frazione di Cantarana, nell’Astigiano. I genitori, Mario e Angela, erano gente semplice, aveva tre fratelli e, del mondo, non aveva visto nulla. Essendo inverno, padre e madre si erano accordati con una famiglia di cugini per farla ospitare nella loro cascina di Villafranca d’Asti, così da facilitarle il viaggio mattutino verso scuola. Destino volle che due delinquenti, tali Bartolomeo Calleri e Luciano Rosso, avessero preso di mira il fattore perché si diceva detenesse beni e denaro in quantità. Nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1968, i due tentarono il furto ma trovarono, nel deposito individuato per il “colpo”, una ragazzina addormentata. Convinti si trattasse della figlia del proprietario, ebbero la bella pensata di rapirla. La discesa agli inferi ebbe là il suo principio. Non venne chiesto alcun riscatto: Calleri, il leader, un bandito professionista e spietato, decise di sfruttare in altra maniera la sua prigioniera. La nascose a Canale, paese del Roero vicino ad Alba, in una cascina di cui era proprietario. Quando lui e il socio si allontanavano per le loro scorribande criminali, la chiudeva in una botola. Altrimenti la deteneva in un locale che aveva destinato a casa di appuntamenti. L’omertà generale contribuì a non chiarire mai alcuni aspetti della sciagura e, anzi, servì a generare un flusso incontrollato di versioni: si parlò di festini organizzati con l’arrivo di prostitute e di gente facoltosa, anche da Torino e circondario.

Tutto fa pensare che Maria Teresa sia stata sfruttata per mesi, stordita con farmaci, venduta a uomini che abusavano di lei a pagamento. Legata a una catena, seviziata, ridotta a merce a disposizione di uomini schifosi. Quando fu trovata cadavere, era truccata. A margine di una pagina di un fumetto che gli aguzzini le avevano lasciato per riempire le sue inimmaginabili giornate, aveva scritto così: «Sono Maria Teresa Novara e voglio tornare dai miei genitori». Ma nessuno l’avrebbe ricondotta in famiglia. Successe che Calleri e Rosso, rincorsi dai carabinieri dopo un furto a Torino il 5 luglio del 1969, si tuffarono nel Po. Calleri morì annegato; l’altro si salvò ma non fece il nome del complice, identificato solo dopo il ritrovamento del cadavere. Tutto cospirò per tardare l’ispezione alla cascina Barbisa dove, in realtà, gli agenti cercavano solo refurtiva e non certo Maria Teresa. Questioni di firma sul mandato rallentarono ulteriormente la perquisizione fin quando, il 13 agosto, venne ritrovata, per caso, l’entrata di un tugurio sotterraneo. Dentro, il corpo di Maria Teresa Novara. Era morta, così riferiva l’esame necroscopico, da non più di ventiquattr’ore. Non potendo processare Calleri, la procura riuscì a provare la responsabilità di Rosso per la sola «sottrazione a scopo di libidine». L’uomo negò sempre di sapere sia del rapimento, sia della detenzione ma ciò che lascia sgomenti è che nessuno, neanche con quel gesto vigliacco che è la spedizione di una lettera anonima, avesse pensato di salvare la vita di quella ragazza facendo sapere dove era stata segregata. Come se non bastasse, parte della stampa suggeriva potesse essersi trattato di una fuga volontaria e non di un martirio, usando come argomento l’ipotesi che si fosse prostituita e suggerendo che, in fondo, non fosse una ragazza perbene.

Nel 2019, il procuratore Laura Deodato ha tentato di restituire un briciolo di giustizia a Maria Teresa Novara rileggendo il fascicolo delle indagini e del processo, ascoltando un ormai anziano vicino di casa di Calleri - che era stato arrestato e processato e assolto - perché sospettato di favoreggiamento. Ha risentito il procuratore Mario Bozzola, che indagò con impegno per mesi sulla vicenda ed è morto novantenne nel 2020, e il professor Baima Bollone, nel 1969 giovane medico legale cui toccò l’autopsia sul corpo della vittima. Ma per l’omicidio della ragazza, unico reato non caduto in prescrizione, non sono stati trovati elementi sufficienti per identificare altri responsabili. Rosso era morto l’anno precedente la riapertura delle indagini. Nelle cronache del tempo si legge che, dopo la scoperta della tragedia, per mesi fluirono i pellegrini del macabro. Volevano ispezionare la botola e passeggiare nell’aia della cascina dell’orrore; sui prati circostanti, venditori di bibite e panini. Niente selfie, ma solo perché mancava lo strumento: in questo, dopo cinquant’anni, siamo rimasti gli stessi di allora.

·        Il Caso di Daniele Gravili. 

Il rapimento, lo stupro, la morte: quel bimbo senza giustizia. Angela Leucci il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.

Nel 1992 il piccolo Daniele Gravili fu rapito dalla casa dei genitori e violentato sulla spiaggia: il bimbo morì perché la sabbia gli ostruì i polmoni.  

È un caldo pomeriggio sulla costa salentina, quella del litorale adriatico. È quasi la fine dell’estate. È rimasta poca gente a Torre Chianca, pochi, pochissimi villeggianti, per lo più locali e residenti. Molti riposano, hanno da poco terminato il pranzo. Qualcuno passeggia al mare. Un bambino fa avanti e indietro nel cortile della sua casa. Ha solo 3 anni, fa quello che tutti i suoi coetanei fanno. Si gode il sole del primo pomeriggio. Ma succede qualcosa: qualcuno, un estraneo, apre il portone. Quello che i suoi genitori hanno chiuso affinché lui possa star tranquillo, mentre loro finiscono di caricare l’auto per rientrare a Lecce.

Inizia così la tragica vicenda di Daniele Gravili, un bambino scomparso alle 14 del 12 settembre 1992 in una frazione di Lecce e ritrovato poco dopo in fin di vita, sulla spiaggia, stuprato e soffocato. Il colpevole non è mai stato ritrovato. “L’unico insuccesso, tra i casi di una certa gravità, che abbiamo avuto come Procura di Lecce”, dice a IlGiornale.it Cataldo Motta, il magistrato che all’epoca si occupò del caso.

La scomparsa

La sparizione di Daniele avviene proprio dal cortiletto della casa di villeggiatura. Uno sconosciuto riesce ad aprire il portone, adesca il piccolo - forse con delle caramelle mou poi ritrovate nei pressi dagli inquirenti - e lo porta sulla spiaggia. La strada percorsa sarebbe stata una scorciatoia, resa nota da una persona che fu accusata da un messaggio anonimo, ma non c’è certezza su questo dettaglio.

"Saluti, al prossimo omicidio". La firma del "mostro" sui bimbi morti

I genitori Silvana e Raffaele, insegnante e autista, si accorgono dell’assenza del figlio pochissimi istanti dopo. Iniziano a cercarlo spasmodicamente, bussando a tutte le case del vicinato ancora abitate. Ma in quegli attimi concitati nulla accade.

Il ritrovamento 

Alle 15.30 il 112 viene allertato da una telefonata. Un ragazzino, anche lui di nome Daniele, ha trovato un bambino agonizzante sulla battigia. L’adolescente è inizialmente sotto choc, non riesce a capire se si tratta di un bambolotto o di una persona. Teme che il bimbo sia stato restituito dal mare, che abbia rischiato di annegare.

Daniele Gravili è ancora vivo però. Ha una parte dei vestiti stracciati, graffi sul corpo, sta a faccia in su. Sono i soccorritori del luogo ad allertare i carabinieri e l’ambulanza, un vigile del fuoco che vive Torre Chianca gli pratica la respirazione bocca a bocca in attesa dell’ambulanza. Che arriva, e porta il piccolo al “Vito Fazzi” di Lecce. Qui viene svelata una scoperta ancor più raccapricciante: Daniele è stato stuprato e il suo aguzzino gli ha tenuto la testa nella sabbia per non farlo urlare. Il bimbo ha i polmoni pieni di sabbia. E da poco passate le 21 spira, dopo aver conosciuto l’orrore più grande della sua breve vita.

Le tracce

Il mostro che ha aggredito, violentato e ucciso Daniele non ha agito con circospezione. Sul bambino sono infatti state trovate tracce di sangue e sperma del suo aggressore. Queste circostanze, all’inizio, hanno lasciato ben sperare gli inquirenti: quei fluidi contenevano il Dna del criminale, la sua firma. Ma purtroppo non è bastato. Nonostante siano stati sottoposti svariati uomini e ragazzi, a volte “denunciati” da telefonate o lettere anonime, all’esame per il confronto del corredo genetico, non ci sono stati match di corrispondenza. Nessuno di loro è colpevole. “Erano i primi vagiti di una tecnica che poi è andata migliorandosi molto - anche se già allora non era una rarità - diventando una delle tecniche di identificazione più diffuse”, spiega Motta.

Stuprata e poi gettata nel vuoto: "Così fu uccisa Fortuna"

Non è bastata neppure quella manciata di persone, una ventina scrivono le testate locali, presenti in spiaggia a quell’ora. Tutte interrogate, tutte risposero di non aver visto nulla. Ma non si può stabilire con certezza: era fine estate, era il momento della controra in una località come Torre Chianca che all’epoca non poteva vantare un turismo di massa come Otranto o Gallipoli. “Purtroppo il caso è andato male dall’inizio, perché nessuno aveva visto nulla, nessuno poteva dire nulla, nessuno sapeva nulla - chiarisce Motta - Mentre sulla spiaggia però c’era ancora gente che si muoveva. Certo la gente non ha parlato, sarebbe stato fondamentale per le indagini. Non abbiamo nessuna prova che ci sia gente che ha visto. Si può ipotizzare che qualcuno abbia visto. In quel momento non c’era un particolare affollamento, era apparentemente una situazione tranquilla. Sarebbe però arbitrario dire se ci fosse gente”.

Nel 2010 il ragazzino che aveva ritrovato il piccolo Gravili fu ascoltato da “Chi l’ha visto?” per via delle contraddizioni nella sua testimonianza. Dapprima aveva detto di aver trascorso del tempo con un amichetto più grande, poi di esserselo inventato per paura di un uomo con i capelli brizzolati e la barba incolta visto vicino al corpo del piccolo e poi in fuga verso la torre. Alla trasmissione di Rai 3, Daniele, oggi adulto, smentì e spiegò: “Quando sono arrivati i genitori, hanno detto: ‘Chi è stato?’. Pensavano che fossi stato io. La spiaggia era un deserto, non c’era nessuno. Non ho mai detto di essere stato spaventato da qualcuno”.

Sempre nel 2010, una giovane donna che nel 1992 aveva circa 10 anni, raccontò di aver visto una vettura bianca quel giorno allontanarsi a tutta velocità dalla zona. Era una circostanza insolita, poiché in quella zona giocavano spesso i bambini: era un fatto noto e tutti si muovevano con circospezione sulle quattro ruote.

Le indagini senza esito

Trenta anni dopo il suo stupro e l’omicidio, Daniele Gravili non ha ricevuto giustizia. E non l’ha ricevuta perché il colpevole di tanto orrore non è mai stato ritrovato. “Di questo evento si è tornati a parlare più volte, ma non ci sono mai state novità purtroppo”, conclude Motta.

I rom, la famiglia, l'ipotesi russa: "Denise? Qualcuno ha visto"

E anche quei pochi messaggi anonimi si sono rivelati un buco nell’acqua. "Quando accadono eventi di una certa rilevanza, ci sono persone che ritengono di depistare, di non farsi notare - in modo da poter essere ascoltati - e ricorrono alle lettere anonime - aggiunge - Che non dovrebbe avere aspetti sconosciuti, perché si tratta di qualcuno che scrive dicendo: ‘Io c’ero’. Come è capitato in altri casi, che il testimone o comunque la persona informata dei fatti venga fuori in un secondo momento. Accade quando l’omertà non è legata a fatti di criminalità organizzata. Qui però non abbiamo davvero nessuno che ci abbia indirizzato. Si sono distratti i genitori un momento e il bambino è stato preso da qualcuno: è tutto molto vago. Abbiamo elementi per sapere che la morte è avvenuta per soffocamento. E ci lascia l’amaro in bocca, perché non ci dice null’altro”.

·        Il mistero di Giorgio Medaglia.

Giorgio Medaglia morto annegato nell’Adda: è stato ucciso? «Troppe anomalie, coinvolte più persone». Andrea Galli su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.

Giorgio Medaglia è morto il 28 giugno 2020 a Lodi: astemio, è stato ritrovato con una altissima quantità di alcol in corpo. Il gip si oppone all’archiviazione per suicidio e ordina nuovi accertamenti dopo la contro-inchiesta del «Corriere». La madre Ombretta Meriggi: «Forse l’hanno scaraventato nel fiume per vederlo affannarsi e disperarsi». 

Giorgio Medaglia è morto il 28 giugno 2020 nell’Adda a Lodi: aveva 34 anni

Del resto «è un dato di fatto che la morte di Medaglia presenta diversi aspetti che lasciano intendere come probabile la partecipazione di altre persone…». Il gip di Lodi, dottor Francesco Salerno, con atto depositato in cancelleria lo scorso venerdì, non soltanto si è opposto alla richiesta di archiviazione sulla morte di Giorgio Medaglia, il 28 giugno 2020 a Lodi, accogliendo la contro-indagine del «Corriere» confluita in una delle puntate di «Giallo padano», la serie giornalistica sui delitti irrisolti; il gip ha altresì ordinato nuovi accertamenti. Che, nell’esame delle azioni da svolgere, comportano di fatto il ritorno delle indagini alle loro origini.

La battaglia della mamma Ombretta Meriggi

Dunque paga, pur nell’eterno strazio della perdita del figlio unico, l’instancabile lotta di Ombretta Meriggi, la mamma di Giorgio, che aveva 34anni e soffriva di un disturbo neuro-evolutivo della condizione motoria; e paga la precisa attività dell’avvocato Lorenza Cauzzi, che ha cristallizzato le anomalie rendendole perfino plastiche. Giorgio, figlio unico, venne rinvenuto senza vita nel fiume Adda, a quindici chilometri di distanza; l’autopsia rivelò una massiccia, perfino quasi insostenibile presenza di alcolici; eppure Giorgio era terrorizzato dall’acqua e non beveva nemmeno un goccio di spumante a Capodanno. Se davvero, come avvenne, i carabinieri seguirono anche l’ipotesi di un suicidio, pur nell’insondabile labirinto della mente esso contrastava e con l’animo di Giorgio, con il suo momento esistenziale di gioia e impegni, con l’imminenza delle sognate vacanze in Liguria. Dopodiché, grava sulla (rapida) richiesta del pm di chiudere il caso, una sequenza di elementi quantomeno anomali, come confermato dal gip.

Lo scooter Liberty, il percorso, l’alcol

Per cominciare, un amico di Giorgio non ricordò oppure volontariamente mentì su alcune telefonate e sulla loro coincidenza temporale (lo stesso, diede al Corriere versioni contrastanti); non fu mai trovato un ragazzino visto da dei residenti parcheggiare il motorino di Giorgio, uno scooter Liberty, e andarsene a piedi; andrà esplorata la figura di un barman a domicilio, che cioè vendeva alcolici a case propria, nella geografia prossima al tratto di Adda dove Giorgio entrò (spinto, a questo punto) in acqua, in quanto proprio da quell’uomo Giorgio potrebbe esser stato ubriacato; manca la precisa ricostruzione, attraverso i filmati delle telecamere di Lodi, del percorso compiuto quella sera da Giorgio, il quale era uscito con l’unico obiettivo di un giretto prendendo un po’ di fresco in giorni più che afosi; bisognerà di nuovo interrogare titolari e frequentatori della palestra usata da Giorgio, che al momento del rinvenimento, indossava pantaloncini non suoi. Mamma Ombretta ci aveva già detto (e val la pena riportare per intero il discorso): «Era buono, generoso, disponibile. Non incline a reagire neanche quando lo offendevano. L’hanno tirato in mezzo, costretto a bere, fatto ubriacare, per deriderlo. L’hanno accompagnato in riva all’Adda e spinto a fare cose strane… delle stupide sfide… Non sopportava l’acqua, ne aveva assoluto terrore, non sapeva nuotare e non aveva mai voluto imparare. Forse l’hanno scaraventato nel fiume per vederlo affannarsi e disperarsi».

Le bugie, i tradimenti, la pista dell’omicidio

Lo scorso 13 gennaio Ombretta ha depositato un’opposizione all’archiviazione (indaga la procura di Lodi). Dopo oltre un mese, nessuna risposta. «Spesso penso a un pregiudizio: quello di dire che siccome Giorgio stava in un Centro psico-sociale, beh, allora avrà per forza fatto tutto da solo, impazzendo all’improvviso». La signora Ombretta, infermiera, donna gentile, non cerca vendette: cerca la verità. E forse questa volta gli inquirenti potrebbero scoprire chi, come e perché causò la morte di Giorgio Medaglia, che di certo, come da sottinteso del gip, non fece tutto da solo. Più d’uno ha mentito, più d’uno l’ha tradito, più d’uno l’ha assassinato. 

·        Il mistero di Eleuterio Codecà.

Codecà, l’ingegnere della Fiat ucciso sotto casa. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera l'11 Aprile 2022.

Cinquant’anni fa l’omicidio del manager in via Villa della Regina: l’ex partigiano Faletto fu accusato dell’assassinio e poi assolto. 

A sfogliare un quotidiano di settant’anni fa, in un’era di ricostruzione post bellica e priva di aggeggi elettronici, si ritrovano temi familiari: le liti tra i partiti della maggioranza, «i cinque teatri di guerra in Asia», «la pioggia arrivata appena in tempo» per arginare i danni della siccità e, soprattutto, le brutte notizie. Il Corriere del 15 aprile 1952 raccontava di una perpetua accusata di essere una serial killer di parroci, di uno sciopero per la crisi di un’azienda telefonica, di una tragica inondazione, di un incidente mortale sul lavoro. E della partita di pallone: quel fine settimana si sarebbe giocato uno dei Torino-Juventus ancora segnati dal dopo Superga. Sarebbe finita sei a zero per Boniperti e compagni ma Eleuterio Codecà, per tutti Erio, il derby non l’avrebbe mai visto.

Una carriera fulminante

L’ingegner Codecà, quella sera, era uscito dallo stabilimento Fiat di Torino ed era salito sulla sua 1100. Attraversato il Po, si era fermato di fronte alla sua villetta — tuttora esistente e abitata — di via Villa della Regina, al civico 26. Aveva parcheggiato sul lato opposto, col muso rivolto verso il fiume, e si era ritirato. Era solo in casa, salva la presenza della governante: la moglie Elena e la figlia Gabriella stavano passando qualche giorno di svago a Rapallo. Codecà era nato nel 1901 da una buona famiglia e aveva fatto carriera: dopo la laurea in ingegneria in Francia, la Fiat lo aveva assunto e incaricato di coprire ruoli di responsabilità negli stabilimenti in Romania e in Germania. A Bucarest aveva conosciuto Elena Piaseski, figlia di un medico di origine polacca, poi divenuta sua moglie. Durante la guerra, era stato figura di vertice della Deutsche Fiat Automobil Verkaufs ed era rientrato in Italia dopo l’armistizio dell’otto settembre, per occuparsi del centro produttivo di Mirafiori. Nel 1952, da responsabile delle divisioni Grandi Motori, faceva parte di un gruppo ristretto di dirigenti realmente influenti, capitanati dal presidente Vittorio Valletta.

Una passeggiata dopo lavoro

Verso le 21.30, dopo aver cenato e chiamato la famiglia al telefono, Codecà uscì di casa col suo cocker per fare una passeggiata. Fece in tempo a caricare il cane in automobile quando qualcuno, nascosto dietro una siepe, gli sparò addosso un colpo di pistola. Il proiettile trapassò l’emitorace destro, perforò fegato, polmoni, cuore e non gli diede scampo. In tasca gli trovarono una lettera col timbro di Rapallo e un biglietto: «Caro Papà, ti faccio tanti auguri di buona Pasqua». Nei giorni seguenti, sui muri di Mirafiori comparvero scritte che inneggiavano all’assassinio: «Uno di meno», «Il primo è servito e altri ne seguiranno». Non erano ancora i tempi del terrorismo nelle fabbriche, ma della lotta di classe sì: la Cgil si affrettò a prendere le distanze da quelle vaghe rivendicazioni, condannando pubblicamente l’esecuzione. Il fatto è che Codecà, al di là del carattere mansueto, pareva un bersaglio improbabile per un assassinio politico: non si era mai esposto, non risultavano intestati a suo nome provvedimenti degni di vendetta. Era un uomo buono.

La Procura si muove

Nonostante il clamore e a dispetto dello sconvolgimento della città, nel giro di qualche settimana il caso dell’ingegner Codecà si sgonfiò, per mancanza assoluta di indizi. Fino all’estate del 1955: in luglio, il procuratore generale Cassina mandò a prelevare un uomo residente a Pianezza. Si trattava di Giuseppe Faletto, 34 anni, ex partigiano col nome di battaglia di Briga: secondo i suoi conoscenti, un tipo spregiudicato e coraggioso che, spesso, durante la Liberazione aveva passato il segno macchiandosi di atti illeciti. A incastrarlo, due rudimentali intercettazioni ambientali con un magnetofono, catturate in un ristorante di Druento. A preparargli la trappola due presunti amici, Vinardi e Camia, che si erano rivolti ai carabinieri raccontando di aver ascoltato Faletto mentre si vantava dell’omicidio Codecà. In corte d’Assise, però, le accuse non ressero: non c’erano prove dirette della presenza di Briga nel luogo dell’omicidio quel 15 aprile, né indizi solidi.

Gli accusatori allettati dalla taglia

I due accusatori pare fossero stati attirati dalla taglia offerta dalla Fiat per chi avesse aiutato a risolvere il caso. Faletto venne assolto con la formula, oggi estinta, dell’insufficienza di prove ma scontò comunque un ergastolo, poi ridotto a diciotto anni di reclusione nel carcere di Fossano, per reati commessi durante la guerra. Mandato a uccidere una panettiera, ritenuta una spia fascista, aveva ammazzato anche il figlio, del tutto estraneo alle vicende belliche. Si era macchiato anche dell’omicidio di un fattore dei conti Valperga, da cui aveva preteso capi di bestiame e denaro. Ma con la tragica morte di Codecà non aveva nulla a che fare. L’ex senatore torinese del Pci Lorenzo Gianotti, vent’anni fa, scrisse un libro in cui si suggerivano piste alternative alla vendetta di un ex partigiano comunista per i licenziamenti di operai di sinistra in Fiat. Faceva riferimento ad appunti in caratteri cifrati trovati sulla scrivania dell’ingegnere, a minacce ricevute nei mesi precedenti l’attentato e al possibile traffico di segreti industriali con Paesi dell’est. Ma sono rimaste pure congetture. Elena Piaseski è morta nel 1979, senza sapere perché le toccò in sorte di rimanere vedova e di crescere orfana di padre una ragazzina di dodici anni che, fino in tarda età, negli anniversari di aprile ha fatto pubblicare un necrologio che somiglia tanto a quella lettera del ’52: «A papà, con immutato affetto».

·        Il mistero Pecorelli.

Omicidio Pecorelli, procura Roma avvia nuova indagine. I pm della capitale hanno affidato alla Digos l'incarico di svolgere nuovi accertamenti. La richiesta di riapertura era stata avanzata dalla sorella del giornalista, ucciso quasi 40 anni fa, il 20 marzo del 1979, scrive il 5 marzo 2019 La Repubblica. La procura di Roma ha avviato una nuova indagine sull'omicidio di Mino Pecorelli, il giornalista ucciso nella capitale il 20 marzo 1979. A chiedere la riapertura era stata alcune settimane fa la sorella di Pecorelli. I magistrati romani hanno affidato agli uomini della Digos l'incarico di svolgere una serie di accertamenti preliminari dopo l'istanza depositata negli uffici della Procura da Rosita Pecorelli il 17 gennaio scorso. Il legale della donna, Valter Biscotti, chiedeva ai pm di avviare nuovi accertamenti balistici su alcune armi che furono sequestrate a Monza nel 1995 ad un soggetto in passato esponente di Avanguardia Nazionale. Si tratta, tra le altre, di una pistola Beretta 765 e di quattro silenziatori artigianali. Nella richiesta finita all'attenzione dei pm si fa riferimento anche ad una dichiarazione che l'estremista di destra Vincenzo Vinciguerra fece nel 1992 all'allora giudice istruttore Guido Salvini. Vinciguerra sosteneva di aver sentito un dialogo in carcere tra due militanti di estrema destra in cui si affermava che l'uomo poi arrestato tre anni dopo a Monza aveva in custodia la pistola usata per uccidere il giornalista. Il caso Pecorelli, dal punto di vista processuale, è chiuso dal 30 ottobre 2003, quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall'accusa di essere il mandante. In primo grado, il 24 settembre del 1999, il sette volte presidente del consiglio fu assolto per non aver commesso il fatto assieme agli altri presunti mandanti Gaetano Badalamenti, Claudio Vitalone, Pippo Calò e a due imputati accusati di essere gli esecutori materiali del delitto, cioè Massimo Carminati e Michelangelo La Barbera. Il 17 novembre del 2002, in appello, invece, fu confermata l'assoluzione per tutti ad eccezione di Andreotti e Badalamenti che vennero condannati a 24 anni di reclusione. Condanna che la Suprema Corte spazzò via annullando senza rinvio la sentenza di secondo grado.

«Tirate fuori quella pistola: voglio la verità su Mino». La sorella Rosita Pecorelli, 84 anni, chiede la riapertura delle indagini sull’omicidio del giornalista, scrive Simona Musco il 18 gennaio 2019 su "Il Dubbio". «C’è un appiglio ed io mi aggrappo». Rosita Pecorelli sta lasciando Piazzale Clodio assieme all’avvocato Valter Biscotti quando, con una foto del fratello tra le mani, pronuncia queste parole. Quaranta anni dopo l’omicidio di suo fratello Mino, giornalista scomodo ucciso in circostanze mai chiarite il 20 marzo 1979, i due si sono presentati in Procura a Roma, chiedendo la riapertura del caso. Un’istanza presentata sulla base di una vecchia dichiarazione di Vincenzo Vinciguerra, ex membro dei movimenti neo- fascisti Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo – all’ergastolo per l’uccisione di tre carabinieri nella strage di Peteano del 1972 – che nel 1992 fece il nome di colui che, a suo dire, conservava l’arma di quel delitto: l’avanguardista Domenico Magnetta. Quella dichiarazione nell’immediatezza, non portò a nulla. Ma il ritrovamento di alcune armi in suo possesso, tre anni dopo, potrebbe ora portare ad una svolta nella vicenda. Quel verbale è stato rispolverato dalla giornalista Raffaella Fanelli il 5 dicembre scorso ed è proprio da un suo articolo che Rosita Pecorelli ha tratto spunto per chiedere la riapertura del caso. Si tratta di dichiarazioni risalenti al 27 marzo 1992: Vinciguerra parla di una pistola, una calibro 7.65, l’arma usata per uccidere il giornalista. «Il Tilgher – si legge nel verbale – mi disse che Magnetta (vicino a Massimo Carminati, l’ex Nar processato e assolto per l’omicidio Pecorelli, ndr) si stava comportando male in quanto gli aveva fatto sapere che o veniva aiutato ad uscire dal carcere o lui avrebbe consegnato le armi in suo possesso, fra cui la pistola che era stata utilizzata per uccidere il giornalista Mino Pecorelli». Un verbale conservato in un fascicolo sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, raccolto dal magistrato Guido Salvini, giudice istruttore negli anni di piombo. Vinciguerra fa riferimento a due avanguardisti con cui parla in carcere, tra il 10 e il 20 novembre del 1982, a Rebibbia. Si tratta di Adriano Tilgher e Silvano Falabella, con i quali parla dell’arresto di Magnetta e Carminati, avvenuto nel 1981. Si trovavano al valico del Gaggiolo quando furono fermati da una pattuglia, stavano tentando la fuga in Svizzera. L’arresto causò a Carminati la ferita che lo portò a perdere l’occhio sinistro. Magnetta, dice dunque Vinciguerra a Salvini, aveva l’arma usata per uccidere Pecorelli, una calibro 7.65 col quale venne colpito quattro volte, tre alla schiena e uno in faccia. Per ammazzarlo vennero usati proiettili marca Gevelot, molto rari sul mercato e dello stesso tipo di quelli sequestrati nell’arsenale della Banda della Magliana – alla quale Carminati era affiliato – nei sotterranei del Ministero della Sanità. Vinciguerra, conferma Salvini a Fanelli, è credibile. E quel verbale, spiega oggi l’avvocato Biscotti al Dubbio, «venne trasmesso subito a tutti i procuratori che si occupavano di terrorismo in Italia in quel periodo. Tra questi c’era Giovanni Salvi, al quale nel luglio del 1992 Vinciguerra confermò quella versione. Tutte le comparazioni fatte dalla Procura sulle armi, però, non portarono alcun risultato». Ma la storia non si ferma qui. E’ quanto accade tre anni dopo che oggi porta al deposito della richiesta di riapertura delle indagini. A Magnetta, infatti, il 4 aprile 1995 vengono sequestrate delle armi, ritrovate in un doppiofondo nel bagagliaio dell’auto: tra queste anche una semiautomatica calibro 7.65 Beretta con matricola parzialmente punzonata, una canna per pistola calibro 7.65 priva di numero di matricola e quattro silenziatori di fabbricazione artigianale. Su quelle armi, afferma Biscotti, «sicuramente non è stata fatta alcuna analisi. Quello che chiediamo noi – aggiunge – è che si vada ad individuare quella pistola e che venga fatto un confronto con proiettili agli atti del processo, che potrebbero ancora trovarsi nell’ufficio dei corpi di reato del tribunale di Monza. Una richiesta che la signora Pecorelli ha voluto presentare perché, finché avrà fiato in gola, vuole cercare di capire chi ha ucciso suo fratello. Se la comparazione fosse positiva allora questo signore dovrà dire chi gli ha dato quella pistola». Nell’articolo pubblicato dalla giornalista Fanelli sul sito Estreme conseguenze è proprio Guido Salvini a sostenere che, con molta probabilità, quel confronto balistico oggi chiesto dalla signora Pecorelli non è mai stato eseguito. «Non sapevo del sequestro di quest’arma – conferma a Fanelli – se fosse stata fatta una perizia lo saprei. Se non è stata fatta sarebbe interessante farla perché certamente c’è una corrispondenza». «Mio fratello sapeva troppe cose, era un pericolo per tutti e bisognava farlo fuori. Ho combattuto 40 anni per sapere la verità sull’omicidio di Mino e non mi arrenderò mai. Mi aspetto di avere giustizia – spiega Rosita Pecorelli, oggi 84enne – Mio fratello era tutto per me, mi ha fatto da padre, fratello e amico. Oggi – conclude – ci sono elementi per cui pensiamo ci sia qualcosa di nuovo che possa aiutare a raggiungere la verità».

Che senso ha vietare a uno stragista i funerali della figlia? Niente permesso per i funerali della figlia a Maurizio Tramonte, condannato all’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia, scrive Damiano Aliprandi il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Ieri non ha potuto assistere al funerale della figlia di 18 anni Magda Francesca Nyczak, morta nel sonno giovedì scorso. Parliamo di Maurizio Tramonte, che sta scontando l’ergastolo per la strage di Piazza della Loggia a Brescia. Un permesso negato, quello nei confronti dell’ex informatore dei Servizi che sta scontando la condanna al carcere di Fossombrone. «Non hai mai odiato né invidiato. La tua onestà e la tua semplicità sono sempre state la tua ricchezza ed è questo che ci lasci in eredità», sono le parole di Maurizio Tramonte che sono riecheggiate ieri nella chiesa di Sant’Andrea a Concesio durante le esequie. Ha potuto mandare solo questa lettera, senza essere presente. Nel suo messaggio ha ricordato il giorno della nascita di Magda Francesca e di come «nel silenzio del sonno e senza disturbare ti sei ritrasformata nella più lucente stella». E poi: «Franci, la tua vita è stata breve ma non sei stata una meteora. Il tuo affetto, i tuoi sorrisi, la tua luce e la tua semplicità rimarranno nel mio cuore. Arrivederci tesoro mio». Una decisione, quella del permesso negato, che ha trovato disapprovazione anche da parte di Manlio Milani, presidente dell’Associazione Vittime della Strage e marito di una delle vittime. «Non condivido la decisione – ha spiegato Milani – di non concedere a Maurizio Tramonte di partecipare alle esequie di sua figlia adottiva. A un padre, come in questo caso, non può essere negata la possibilità di assistere al seppellimento della figlia». Parole, quelle del presidente dell’associazione vittime della strage che colpiscono al cuore di uno Stato diventato sempre più cinico. «Ci sono occasioni – ha concluso Milani – per compiere gesti umani che uno Stato democratico dovrebbe sempre rispettare anche nei confronti di chi ha commesso reati». Eppure anche gli ergastolani, così come anche nei confronti di chi rientra nel 41 bis, hanno il diritto al permesso di necessità. Non mancano sentenze della Cassazione, come quella riguardante un detenuto al 41 bis al quale morì un fratello, fissando il principio di diritto per cui: «Rientra nella nozione di evento familiare di particolare gravità eccezionalmente idoneo, ai sensi dell’articolo 30 secondo comma della legge 254 del 26 luglio 1975, a consentire la concessione del permesso di necessità, la morte di un fratello in conseguenza della quale il detenuto richieda la possibilità di unirsi al dolore familiare, in questo risolvendosi la sua espressa volontà di pregare sulla sua tomba, giacché fatto idoneo a umanizzare la pena in espiazione e a contribuire alla sua funzione rieducativa». Quando innescò l’ordigno di Brescia, Maurizio Tramonte aveva solo 21 anni ma già poteva contare diversi anni di militanza nel movimento neofascista di Ordine Nuovo, nato nel dicembre 1969 pochi giorni dopo la strage di Piazza Fontana a Milano. Originario di Camposampiero, paese alle porte di Padova dove era nato nel 1952, Tramonte è attivista dell’Msi sin dalla prima adolescenza. Dopo la militanza nell’estrema destra parlamentare di Ordine Nuovo a cavallo tra gli anni ‘ 60 e ‘ 70 sarebbe entrato in contatto con i settori deviati dei servizi segreti del Sid (Servizio informazione difesa), di cui diviene informatore con il nome in codice ‘ Tritone’. Con questo ruolo Tramonte avrebbe innescato l’ordigno a Brescia, mischiandosi tra la folla della manifestazione sindacale indetta quel giorno di 43 anni fa. Poco dopo la strage si trasferisce a Matera, terminando l’attività di informatore ed iniziando una serie di attività imprenditoriali che lo porteranno a guai giudiziari per bancarotta, finendo ai domiciliari all’inizio degli anni 90. Solo nel 1993, a quasi vent’anni dalla strage di Piazza della Loggia, sarà interrogato per il suo ruolo di esecutore materiale dell’attentato terroristico di Brescia. L’iter giudiziario lo vedrà imputato assieme al mandante, il neofascista Carlo Maria Maggi. Inizialmente assolto nei primi due gradi di giudizio, Tramonte sarà condannato in via definitiva nel 2015 dopo che la Cassazione aveva istruito un nuovo processo, durante il quale una complessa perizia antropologica lo aveva riconosciuto in un’istantanea scattata accanto al cadavere di una delle vittime. La sentenza che lo condanna all’ergastolo arriva nel giugno 2017. Pochi giorni prima Tramonte era andato in Portogallo attraverso la Francia e la Spagna. Viene arrestato a dicembre del 2017 a Fatima, durante una visita al Santuario. Maurizio Tramonte si dichiara però ancora innocente.

L’omicidio dimenticato: Mino Pecorelli, scrive Valter Vecellio il 20 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Il giornalista viene ammazzato la sera del 20 marzo a Roma, il processo in cui sono imputati anche Andreotti e la banda della Magliana vede tutti assolti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, Mino Pecorelli. È il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto (e avidamente letto) come OP. Il lungo iter giudiziario si conclude con la piena assoluzione degli imputati, tra cui Andreotti. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Ne abbiamo scritte e dette di ogni tipo, in questi giorni, sull’Affaire Moro, profittando del 40 anniversario della strage a via Fani. In questo oceano di parole, dove tutti hanno ricordato, rievocato, raccontato, interpretato, si registrano anche dei vuoti. Uno, clamoroso – ma ci si potrà tornare, ne vale, letteralmente, la pena – la furibonda polemica che si accende in generale attorno al distorto slogan “Né con lo Stato, né con le Br”, malevolmente attribuito come paternità, a Leonardo Sciascia: che mai ha detto quelle cose e le ha pensate. Occasione- pretesto per una lacerante polemica: quel che si sostiene e scrive (e si fa) attorno alle lettere che Aldo Moro in quei 55 giorni del sequestro e prima d’essere ucciso, merita d’essere pensato e ripensato. Ma nessuno si è ricordato (e ha riconosciuto) che Sciascia con il suo L’Affaire Moro (da tanti criticato e contestato, senza neppure averlo letto, due per tutti: Eugenio Scalfari e Indro Montanelli), aveva visto giusto, e soprattutto ha avuto il torto di avere ragione. Quelle lettere erano Moro, con quello che ne consegue. Ma oggi c’è un altro clamoroso “vuoto” con cui in qualche modo occorre fare i conti. La sera del 20 marzo di 39 anni fa, viene ucciso a Roma, in via Orazio, poco prima delle 20,40, un giornalista. L’assassino, o gli assassini, lo sorprendono a bordo della sua automobile, e lo crivellano con quattro colpi di pistola. Quel giornalista si chiama Mino Pecorelli, ed è il direttore di un settimanale Osservatore Politico, da tutti conosciuto ( e avidamente letto) come OP. Chi è Pecorelli all’epoca lo sapevano tutti gli addetti ai lavori (oggi, magari un po’ meno; per dire: nelle rievocazioni dei giornalisti uccisi, il suo nome non figura mai, eppure il tesserino rosso in tasca l’aveva lui pure. E che il suo non sia stato un suicidio, è sicuro…). Negli atti processuali, Pecorelli viene così descritto: «… Era uno spregiudicato e scanzonato avventuriero della notizia. Le sue allusioni più o meno decifrabili, la sua ironia, il suo sarcasmo talvolta incisivo ed elegante, talvolta greve e becero, disegnano la traccia di una personalità complessa ma, tutto sommato, ben delineabile. La traccia di una passione civile affermata con troppo chiari accenti di sincerità per non essere autentica, anche se posta al servizio di valori e di scelte discutibili. Una passione civile nella quale sopravvive lo spirito di avventura che lo aveva portato, a sedici anni, a combattere con le truppe polacche inquadrate nell’esercito inglese. E poi, il gusto di infastidire i potenti, di svelarne le meschinità piccole e grandi, di incrinarne la facciata impeccabilmente virtuosa. Soprattutto, come abbiamo detto, una personalità ingovernabile». Per tanti, se no per tutti, Pecorelli s’era fatta fama di “ricattatore”. Il non lieve particolare, è che non è morto lasciando particolari proprietà e “beni”. Certamente avrà cercato finanziamenti e sostegni, finalizzati alla sopravvivenza della sua rivista, di cui era anche editore. Certamente avrà pubblicato documenti e “materiali” che a qualcuno conveniva fossero pubblicati e resi noti. Un do ut des che ben conosce, e quasi sempre pratica, chi per mestiere frequenta aule di tribunale e palazzi del potere. Certamente Pecorelli dispone di ottimi contatti ed “entrature” nel mondo non solo dei servizi segreti, ma di coloro che “sanno”; ha una quantità di materiali e li pubblica. Non è insomma persona “comoda” per tanti, prova ne sia che a forza di “incomodare”, finisce come è finito. Perché Pecorelli merita d’essere ricordato, e qualcuno ancora oggi si adopera perché non lo sia? In soccorso vengono ancora gli atti processuali: «La lettura della collezione di OP nel periodo marzo 1978- marzo 1979 rafforza il convincimento che grazie ai suoi collegamenti… fosse a conoscenza di inquietanti retroscena o accreditandosi dinanzi ai lettori – forse a qualcuno in particolare – quale depositario di “riservatissime” informazioni. Sta di fatto che OP è stato l’unico organo di stampa a pubblicare, nella fase del sequestro, alcune lettere di Moro ai propri familiari… Grazie alle sue indiscusse entrature negli ambienti del Viminale e della Questura di Roma era dunque riuscito a procurarsi copia di quel carteggio epistolare…». C’è tantissimo altro (e di altro interessante, e che merita di essere letto e riletto con gli occhi e il senno dell’oggi) nelle duecentomila pagine chiuse in 400 faldoni del processo Pecorelli celebrato a Perugia; un labirinto di carte meritoriamente conservato e digitalizzato nell’Archivio di Stato di Perugia: uno spaccato di Italia di “ieri” e la cui ombra ancora si profila sull’ “oggi”. Un filo d’Arianna in questo labirinto viene da un recente libro, Il Divo e il giornalista scritto a quattro mani da Alvaro Fiorucci e Raffaele Guadagno (Morlacchi editore, pp. 377, 15 euro). Fiorucci è forse il giornalista che più di ogni altro può citare a memoria quella babele di carte. Cronista prima di Paese Sera, poi di Repubblica, per anni ha retto la sede della Rai di Perugia, e in questa veste ha seguito tutte le udienze di quel tormentato processo che ha visto sul banco degli imputati Giulio Andreotti, e Claudio Vitalone “mescolati” a mafiosi del calibro di Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calò, un Massimo Carminati all’epoca giovane militante della destra estrema, ed elementi della Banda della Magliana. Guadagno, impiegato al ministero della Giustizia, in virtù del suo lavoro ha preso parte alle attività processuali, raccolto e catalogato quel mare di carte e certamente le conosce e sa “leggerle” come pochi. Il lungo iter giudiziario, va ricordato, si conclude con la piena assoluzione degli imputati. Il delitto Pecorelli resta senza colpevoli. Assolti coloro che venivano indicati come esecutori, assolti coloro che venivano indicati come mandanti. Ma, ricorda il procuratore di allora Fausto Cardella, «le carte restano per chi voglia conoscere un pezzo della nostra storia, ancora da scrivere». Il valore del certosino lavoro dei due autori consiste in una puntuale ricostruzione di una sconcertante successione di episodi e di fatti che hanno “segnato” la nostra storia recente. Una zona oscura e buia nella quale le nostre istituzioni hanno rischiato di perdersi. Fiorucci e Guadagno le elencano, e ogni “capitolo” parla: “Il memoriale di Aldo Moro scomparso”, lo scandalo Italcasse, le banche e gli “affari” di Michele Sindona, la truffa dei petroli… Sono tutte vicende che vedono Pecorelli e la sua OP protagonista, nel senso che pubblicano e rendono note indicibili verità, che tanti avevano interesse a tenere nascoste. Sullo sfondo, la eterna strategia della tensione a fini stabilizzatrici, gli anni di piombo, la vicenda Gladio, il terrorismo rosso e lo stragismo nero, le stragi e gli attentati della Cosa Nostra, i servizi che sempre si definiscono “deviati”, ma che erano (e presumibilmente sono) appunto quelli che chiamati a svolgere lavori sporchi… Pecorelli e il suo delitto sono parte integrante, dicono i due autori, di «un melting-pot che ribolle per più di un ventennio. C’è tutto questo nella sintesi dei processi per l’omicidio di un giornalista scomodo». Il libro è stato presentato ad Assisi, nell’ambito della prima edizione di “Tra me Giallo Fest”, dicono gli osservatori che l’appuntamento è stato tra quelli che ha riscosso maggior successo. Indicativo, che a un evento dedicato al “giallo” abbia suscitato maggior interesse una storia vera che sembra inventata, rispetto a tante altre storie inventate che posson sembrare vere.

20 marzo 1979: chi ha ucciso Mino Pecorelli? Emanuele Beluffi il 20 Marzo 2022 su Culturaidentita.it su Il Giornale.

Oggi, 20 marzo 2022, sono passati 43 anni dall’assassinio di Mino Pecorelli, giornalista e direttore della rivista OP-Osservatore Politico (ma ahilui anche OP-Omicidio Pecorelli).

Come per altri misteri italiani, anche questa storia giudiziaria (e non solo giudiziaria) è una storia travagliata: ad oggi non sono stati individuati “al di là di ogni ragionevole dubbio” né i mandanti né gli esecutori materiali dell’assassinio. Solo la fine è nota, tanto per citare il romanzo poliziesco di Geoffrey Holiday Hall, poi diventato un film.

E la fine è quella Citroën CX Pallas verde, all’angolo con via Tacito, m​ezza sul marciapiede, con l’indicatore di direzione destro acceso, la retro inserita e il finestrino in frantumi.

Sono le 20.40 di martedì 20 marzo 1979, al lato guida e riverso sul sedile del passeggero, forse per prendere la pistola nel vano porta oggetti in un estremo tentativo di difesa, c’è Mino Pecorelli. Gli hanno sparato quattro proiettili, il primo dritto in bocca, come per mettere a tacere una volta per tutte “il cantante”: perché lo chiamano così, quel giornalista che chiede i contributi finanziari per OP agli stessi che poi sputtana sulle pagine di OP.

Pecorelli è al di là dei limiti deontologici e professionali del giornalismo oppure opera dentro questi limiti ma in maniera folle?

​OP-Osservatore Politico è la rivista settimanale che dal marzo 1978 (proprio in concomitanza con il sequestro di Aldo Moro in via Fani a Roma la mattina del 16 marzo 1978) fa il grande balzo in avanti, dopo essere uscita come bollettino diffuso per abbonamento a un indirizzario selezionatissimo di politici, magistrati, avvocati, industriali, militari, giornalisti e alti prelati: ora invece questa pubblicazione, dove spesso gli articoli li capisce solo il cerchio magico della nomenklatura romana, scende dalle scrivanie giuste e arriva nelle edicole.

​Ma chi tocca i fili muore e Mino Pecorelli con la sua OP ne tocca un verminaio: tanti sono i “cold case” in cui cercare la spiegazione dell’omicidio, dallo scandalo petroli a quello dell’Italcasse, dal golpe Borghese al crack della banca di Sindona, tanto per citarne qualcuno.

Chi ha ucciso Pecorelli? Perché? Chi sono i mandanti? 

Ombre e misteri fanno da sfondo a tante possibili verità: ha scoperto dei segreti di Stato? O forse questi segreti di Stato sono i vizi inconfessabili di qualche uomo politico?

Chi, quella sera del 20 marzo 1979, quando devono ancora arrivare le Alfetta col lampeggiante, apre il bagagliaio della sua CX messa di traverso? E chi entra per primo nella redazione di via Tacito? Gli interrogativi sono tanti e non finiscono qui.

A un certo punto (è il 1992) Tommaso Buscetta dice: “Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano“. Di qui il mistero del memoriale di Aldo Moro e di una sua parte mancante, che però ad oggi nessun comune mortale ha visto nemmeno col binocolo, un segreto di cui sarebbero stati a conoscenza sia dalla Chiesa che Pecorelli, memoriale rinvenuto nel covo brigatista di via Monte Nevoso a Milano nell’ottobre 1978, cinque mesi dopo il rinvenimento del cadavere di Moro nel bagagliaio della celeberrima Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani (è un dattiloscritto o ci sono anche documenti manoscritti? Ci sono forse anche delle bobine con la voce di Moro, come lascia intendere Pecorelli in un suo articolo?). E ri-trovato, una seconda volta, in fotocopie, nell’ottobre 1990.

Contengono forse qualcosa di sconvolgente per la sicurezza dello Stato queste verità nascoste del “memoriale Moro”? O forse riguardano qualcosa di indicibile per qualcuno dei “potenti”?

La storia dell’omicidio Pecorelli è del resto anche una storia giudiziaria dall’iter complicato, che dalla Procura di Roma devia a quella di Perugia per competenza territoriale e che alla fine non porta pressoché a nulla di concreto: chi e perché ha ucciso Pecorelli non si sa.

Idem per la pistola che ha sparato (nonostante i particolarissimi proiettili conducano ex post a un certo deposito, “free” per gli esponenti di una famosissima banda criminale romana).

Forse l’unica e plausibile spiegazione del delitto si basa sul rasoio di Occam, per cui la più semplice è quella giusta. E allora Pecorelli potrebbe essere stato ucciso per aver mandato in fumo il “piano di liberazione” architettato da un notissimo criminale (poi assassinato brutalmente da un altro galantuomo, lo stesso che con le proprie dichiarazioni manderà in galera il povero Enzo Tortora) per “guadagnarsi” la libertà, con in mezzo un noto falsario collegato alla criminalità romana (poi assassinato anche lui, ma non senza prima avergli fatto fare, non si sa da chi, un colpaccio miliardario in una società di trasporto valori della Capitale) e che a un certo momento dell’affaire Moro entra pesantemente con una sorta di messinscena vagamente teatrale.

Insomma, se quella del “boss dei due mondi” non è ‘na sòla (“Pecorelli e dalla Chiesa sono cose che si intrecciano“), allora, forse, questo intreccio passa per il sequestro Moro, un po’ per finta e un po’ per davvero: vaste programme, per dirla con de Gaulle.

Non possiamo qui addentrarci in una fittissima trama, ma se può valere (anche) questa ipotesi di spiegazione del delitto Pecorelli, allora la possiamo sintetizzare così. Niente politici, niente mafiosi, niente servizi “deviati” (che “deviati” lo sono per definizione, come dice Antonio Cornacchia alias Airone 1, all’epoca del sequestro Moro colonnello e comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Roma e arrivato per primo, o fra i primissimi, in via Tacito a cadavere di Pecorelli ancora caldo): Pecorelli e dalla Chiesa fanno saltare una macchinosa cialtronata (ma basata su fatti veri, cioè il sequestro Moro) organizzata da un ospite delle patrie galere per guadagnarsi i “titoli” per uscire di prigione.

Questa è una delle tante verità, magari la meno sexy, dell’omicidio Pecorelli.

Pecorelli muore il 20 marzo 1979, dalla Chiesa tre anni e mezzo dopo, il 3 settembre 1982 a Palermo, massacrato insieme alla giovane moglie Emmanuela Setti Carraro da “circa cinquanta colpi da 7,2 millimetri, un calibro da arma da guerra” (cit. Francesco Pazienza): troppo tempo per “intrecciarli“?

Post scriptum. Il tenente colonnello Antonio Varisco e il liquidatore del Banco Ambrosiano (crack Sindona) Giorgio Ambrosoli muoiono assassinati neanche quattro mesi dopo Pecorelli, rispettivamente il 13 e l’11 luglio. Tutti e tre, insieme a dalla Chiesa, un giorno si incontrano nell’ufficio del colonnello Varisco in Piazza delle Cinque Lune a Roma: è questa un’altra storia? E’ un caso se il bellissimo film del regista italiano ostracizzato dagli operatori chic, Renzo Martinelli, incentrato sul sequestro di via Fani, si intitola Piazza delle Cinque Lune? E’ anche questa un’altra delle (tante) verità dell’Omicidio Pecorelli?

·        Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Nella "tela del ragno": così il "mostro" dava le vittime in pasto ai maiali. Francesca Bernasconi l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Ernesto Picchioni fu il primo assassino seriale italiano del '900. Per attirare le sue vittime tesseva una "tela", che le costringeva a entrare nella sua casa. La giornalista Rita Cavallaro: "Faceva a pezzi le vittime e le dava in pasto ai maiali".

Chiodi, candele e una casa accogliente. Erano gli ingredienti che Ernesto Picchioni, ribattezzato dalle cronache come "il mostro di Nerola", utilizzava per attirare le sue vittime in trappola. Le aspettava, come fa un ragno con le mosche, dopo aver tessuto la tela. Poi le colpiva, le uccideva, rubava tutto quello che possedevano e le seppelliva in giardino. Così, il chilometro 47 della via Salaria, che da Roma porta a Porto d'Ascoli sul Mare Adriatico, divenne tristemente noto negli anni immediatamente successivi alla Seconda Guerra Mondiale, quando Picchioni iniziò a colpire.

"Lui è il primo serial killer italiano della storia moderna", ha spiegato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro, autrice insieme a Emilio Orlando del libro "22 gradini per l'inferno. Dal mostro di Nerola al depezzatore di Roma. I serial killer italiani nella scala del male", edito da Male Edizioni di Monica Macchioni, che analizza gli assassini seriali italiani, per capirne il grado di malvagità. "Lui, nonostante abbia commesso molti delitti in maniera efferata - continua la giornalista - non si pone a un livello alto della scala del male, perché non agiva per piacere o impulsi sadici, ma uccideva per profitto".

Chi era Ernesto Picchioni?

Nato nel 1906 a Ascrea (Rieti), Ernesto Picchioni era andato ad abitare vicino a Nerola, in una casa costruita su un terreno che si estendeva al lato della via Salaria. "Ha iniziato ad agire nel periodo della Seconda Guerra Mondiale - ha precisato la giornalista Cavallaro - Era un periodo in cui c'erano guerra, fame e disagio sociale ed erano stati creati dei quartieri per i reietti". Durante e immediatamente dopo la guerra, le persone povere e quelle che vivevano nell'emarginazione e nel disagio erano tante. L'uomo che divenne "il mostro di Nerola" era tra queste.

Era un contadino che per vivere, a suo dire, vendeva lumache. Picchioni viene descritto dall'Unità come un uomo "tarchiato, basso, robusto. Un volto chiuso, come il guscio di una grossa noce. Mani grandi, forti, abituate alla zappa e all'aratro. Occhi piccoli nascosti sotto sopracciglia folte e sporgenti". Era una persona "senza cultura, appartenente al basso ceto sociale e non aveva un lavoro - ricorda la giornalista Cavallaro - era un perditempo. Passava le giornate senza far nulla se non giocare a dadi, frequentare bische clandestine e andare a bere nelle osterie fino a ubriacarsi".

Viveva in un'abitazione al 47esimo chilometro della via Salaria insieme alla moglie Filomena e ai loro quattro figli, tre femmine e un maschio. Ma quella casa Picchioni l'aveva ottenuta con la forza. L'uomo infatti aveva aggredito il proprietario del fondo sul quale abitava abusivamente e lo aveva colpito con una pietra. Per questo era stato condannato a scontare alcuni mesi di carcere, ma poi aveva continuato a vivere in quella casa insieme alla famiglia. E anche lì, nel focolare domestico, Picchioni non risparmiava botte, minacce e insulti. "Per lui, la moglie andava comandata e sottomessa, con botte e soggiogamento psicologico - ha spiegato Rita Cavallaro a ilGiornale.it - In questo quadro, lui agiva sempre con carattere da despota e manipolatore, sia all'interno che all'esterno della famiglia, attuando minacce per cercare di imporre la sua volontà". Fu in questo contesto che iniziò ad agire il "mostro di Nerola".

Come un ragno che tesse la tela

"Vieni nel mio salotto, disse il ragno alla mosca". In una poesia scritta nel 1829 da Mary Howitt, il ragno gettava l'esca per far cadere in trappola la sua preda, senza muoversi dal suo nascondiglio. Lo stesso faceva Ernesto Picchioni. Ma la sua tela era fatta di chiodi e candele. Il "mostro" infatti aveva messo a punto una strategia efficace, che gli permetteva di attirare a sé le sue vittime, che entravano volontariamente in casa sua.

"Buttava dei chiodi per terra - ha raccontato la giornalista Cavallaro - e quando qualcuno passava in bicicletta o in motocicletta bucava". Così chi percorreva la via Salaria si ritrovava con una gomma forata al chilometro 47. Intorno il nulla. Impossibile chiedere aiuto a qualcuno. Ma poi, poco lontano, i passanti scorgevano qualcosa: "Si vedevano solo le luci fioche della casa di Picchioni - ha spiegato Rita Cavallaro - Lui lasciava accese apposta le luci delle candele per farsi vedere. Perché era l'unica cosa che si vedeva nel buio e attirava così le sue vittime".

Chi era in difficoltà si avvicinava a casa sua e vi trovava un contadino gentile e disponibile: "Una volta aperta la porta, Picchioni recitava la sua parte e, come un ragno, le attirava all'interno". La recita consisteva nell'offrire alle persone chiedevano aiuto "cibo e vino. Poi si offriva di ospitarli per la notte, dicendogli che l'indomani li avrebbe aiutati a cambiare la gomma", spiega la giornalista Cavallaro. Ma quando il malcapitato di turno si addormentava, l'assassino "entrava nella stanza, lo colpiva e lo uccideva. Una volta morto, Picchioni portava via alla vittima tutto quello che aveva, soldi, gioielli e lo spogliava anche dei vestiti. Poi lo faceva a pezzi e una parte la sotterrava e l'altra la dava in pasto ai maiali".

Negli anni successivi all'arresto dell'uomo anche i giornali raccontarono la tecnica utilizzata dal "mostro di Nerola", paragonandola ad una ragnatela: "Secondo la sentenza, il Picchioni aveva escogitato una trappola - si legge su un numero dell'Unità di diversi anni dopo la scoperta dei corpi - Aspettava le vittime come un ragno al centro di una rete. La rete era formata di chiodi disseminati sulla Salaria. Passava un ciclista, un motociclista, un automobilista, forava, chiedeva aiuto alla casa più vicina. Il 'ragno' sembrava gentile, offriva cibo e vino, ubriacava il malcapitato e lo uccideva per derubarlo". Lo scopo di Ernesto Picchioni, infatti, era quello di recuperare qualche soldo e oggetto, per poter continuare con la sua vita di sempre, tra osterie, partite a carte e debiti. Una dopo l'altra, le sue prede rimanevano impigliate nella tele e il "mostro di Nerola" otteneva soldi o oggetti.

Le vittime del mostro di Nerola

Otto. È il numero delle vittime accertate ma, secondo le dichiarazioni della moglie, ce ne sarebbero molte di più. Difficile il riconoscimento dei resti, dato che "non si trovarono mai i corpi, perché lui li faceva a pezzi e una parte andava in pasto ai maiali, mentre l'altra la sotterrava", ha raccontato a ilGiornale.it la giornalista Rita Cavallaro.

Tra le vittime sospette, un nome è certo: Pietro Monni, un avvocato di Rieti, scomparso il 5 luglio del 1944. Quel giorno, ricostruirono poi gli inquirenti, Monni passava sulla Salaria, diretto a Ponterotto, una frazione a pochi chilometri da Nerola, provenendo da Roma. Al chilometro 47 però, un chiodo sulla strada gli fece bucare una gomma. Intorno a lui il nulla, tranne un'abitazione: quella di Ernesto Picchioni. Il contadino gli aprì la porta, fornendogli aiuto. Poi il "mostro" colpì l'avvocato, lo uccise e lo depredò di ogni avere. E seppellì il corpo.

"La causa della morte fu senza dubbio prodotta dallo scoppio del cranio, scoppio che, a ricostruzione eseguita del cranio, si è potuto stabilire essere stato conseguenza di un colpi d’arma da fuoco a proiettili multipli esploso contro la regione posteriore destra del cranio", si legge sul referto medico, riportato su La zona morta. Il corpo venne seppellito nell'orto davanti all'abitazione del "mostro".

Quando i carabinieri andarono a scavare, spiega la giornalista Cavallaro "riuscirono a identificare solamente il corpo di Pietro Monni. Gli altri erano resti". Quando Picchioni venne interrogato sull'omicidio dell'avvocato Monni, ammise di averlo ucciso, ma tentò di giustificarsi, come riportò un numero dell'Unità del 1985: "Mentre mangiava - disse - cominciammo a discutere. Era un uomo istruito, voleva avere sempre ragione e allora io cominciai a odiarlo, gli urlai degli insulti. Lui mi rispose. Io afferrai un fucile e lo freddai. Poi lo seppellii nell’orto".

Oltre a quello di Pietro Monni, i giornali dell'epoca fecero anche il nome di Alessandro Daddi, impiegato al Ministero della Difesa e scomparso nel maggio del 1947, mentre si recava a trovare la madre a Contigliano, in provincia di Rieti. Il giorno della scomparsa, Daddi viaggiava a bordo di una bicicletta su cui era stato montato il Cucciolo, un piccolo motore che trasformava la bici in una sorta di motocicletta. Secondo quanto sostennero i quotidiani del tempo, anche il Daddi avrebbe bucato al chilometro 47 della Salaria e avrebbe chiesto aiuto a Picchioni, che lo avrebbe ucciso.

Il "mostro", si legge sull'Unità, avrebbe confessato l'omicidio: "Anche il Daddi bucò, chiese aiuto e fu ucciso. Perché? 'Lui mi insultò e mi aggredì - narrò il Picchioni - Era ben più alto di me e, quando stava per buttarmi a terra, riuscii ad afferrare un coltello e a colpirlo alla gola'". In realtà, ha spiegato la giornalista Rita Cavallaro, "non c'è una certezza. L'unico accertato dai documenti è Pietro Monni". Gli altri resti ritrovati nel terreno vicino alla casa di Picchioni "erano solo pezzi di corpi - spiega la giornalista - e dalle analisi scoprirono che alcuni erano di un adolescente, mentre altri di un signore con i baffi. Riuscirono ad accertare otto vittime, ma la moglie disse che il marito ne uccise molti di più".

"Avrebbe continuato a uccidere"

Nell'ottobre del 1947 Ernesto Picchioni venne fermato. Ma, secondo la giornalista Rita Cavallaro, "sicuramente, se non fosse stato arrestato, avrebbe continuato a uccidere". E probabilmente non avrebbe colpito solo persone estranee: "I carabinieri - continua la giornalista - avevano scoperto che lui aveva già messo in contro anche di sterminare la sua famiglia", sia la moglie che i figli. Ma fu proprio la sua famiglia a fermare "il mostro di Nerola".

Un giorno, infatti, la moglie Filomena "uscì di casa con una scusa e corse alla stazione dei carabinieri e raccontò tutto. Così venne fuori chi era davvero Ernesto Picchioni". La moglie parlò degli omicidi, della trappola messa a punto dal marito, che aveva costretto lei e il figlio Angelo a scavare la fossa dell'orto, dentro la quale seppelliva i resti delle sue vittime: "Ha confessato di essere stata costretta a seppellire il cadavere, sotto la minaccia di fare la stessa fine - si legge nell'Unità del 30 ottobre 1947 - Anche i figli del Picchioni, Angelo di 14 anni, Valeria di 10, Carolina di 8 e Gabriella di 4 e la vecchia madre Clorinda, vivevano sotto l'incubo del malvivente. Una volta il Picchioni aveva costretto la moglie e il figlio più grande a scavare una fossa e poi aveva detto: 'Qui ci metterò voi e tutti gli altri se fiaterete'".

Fu forse anche questa paura a spingere Filomena a parlare. "Fu grazie alla moglie che venne fuori tutto - ha spiegato Rita Cavallaro - Altrimenti nessuno avrebbe mai immaginato l'orrore che aveva messo in scena in quegli anni" Ernesto Picchioni, perché in quel tempo, con la guerra, la scomparsa di una persona non rappresentava un evento straordinario. Ma la donna, rendendosi conto che Picchioni avrebbe potuto uccidere anche lei e i figli, decise di raccontare la verità e indicò agli inquirenti il luogo in cui avrebbero dovuto scavare per trovare i resti delle vittime.

Il processo contro l'uomo ormai conosciuto come "il mostro di Nerola" iniziò nel marzo del 1949 e, in tribunale, la moglie raccontò nuovamente gli orrori commessi dal marito. Il 13 marzo 1949, la Corte d'Assise di Roma condannò Ernesto Picchioni a due ergastoli e 26 anni di carcere. I giudici, come spiegò l'Unità, lo ritennero "un simulatore". Ma, successivamente, "il direttore del carcere nel quale il Picchioni scontava la sua pena accertò che l'ergastolano non era completamente padrone di sé e Io fece ricoverare al manicomio giudiziario di Reggio Emilia, dove egli fu trattenuto per quattro anni".

Per questo, mentre era in attesa dell'Appello, l'uomo venne sottoposto a una perizia psichiatria. Ma, la perizia accertò l'assenza di infermità mentale, che il Picchioni intendeva simulare: "Al termine delle osservazioni cui è stato sottoposto, il detenuto in oggetto è risultato esente da infermità mentale in atto - si legge nella perizia riportata su La zona morta - Egli presenta solo le note di una costituzione neurodegenerativa originaria ed esibisce disordini del pensiero e della condotta di natura chiaramente intenzionale". Nel 1954 l'Appello confermò la condanna all'ergastolo e nel 1956 la Cassazione rese definitiva la sentenza. Ernesto Picchioni morì in carcere nel maggio del 1967.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

·        Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

«Abbiamo sparato noi su Andrea Rocchelli e Andrej Mironov uccidendoli». Un soldato svela la verità. Il programma Spotlight di Rai News 24 intervista un militare ucraino che rivela come a uccidere i due giornalisti il 24 maggio del 2014 furono i lealisti ucraini. E il loro comandante oggi è deputato e cura i rapporti con l’Italia. Valerio Cataldi, Giuseppe Borello e Andrea Sceresini su L'Espresso il 31 gennaio 2022.

L’uomo osserva la mappa sullo schermo del portatile, poi annuisce e si infila in bocca una sigaretta: «Sì, quel giorno ero lì», esclama massaggiandosi le tempie. «Ho ancora la scena davanti agli occhi. Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: “Quelle persone non devono stare lì”.

·        Il Caso Bruno Caccia.

Omicidio Caccia, lo sfogo della figlia Paola: “I mandanti del delitto sono ancora sconosciuti”. L’accusa al convegno “Mafia, 30 anni dalle stragi” al Politecnico. la Stampa l'01 Marzo 2022.  «Ancora oggi, 40 anni dopo il suo assassinio, esistono tante verità nascoste su mio padre. C’è luce sugli esecutori di quel delitto che sappiamo essere persone appartenenti alla ‘ndrangheta calabrese, ma non sappiamo ancora chi siano stati i veri mandanti. Non sappiamo chi ha incoraggiato questo omicidio e questa verità, questo piccolo pezzo di verità, non ci basta».

Non è mai banale Paola Caccia, figlia del magistrato Bruno ucciso da un commando della ‘ndrangheta la sera del 26 giugno 1983 in via Sommacampagna (delitto per il quale sono stati finora condannati Domenico Belfiore e Rocco Schirripa affiliati alla malavita calabrese) e non lo è stata nemmeno ieri al convegno dal titolo «Mafia, 30 anni dalle stragi» che si è tenuto al Politecnico di Torino e al quale hanno preso parte, tra gli altri, Giancarlo Caselli e il sindaco di Palermo Leoluca Orlando.

La figlia del magistrato ha lanciato una sorta di appello: agli investigatori certo, ma anche a tutti quelli che conoscono «ciò che di nascosto c’è ancora oggi sull’uccisione di mio papà e non parla». Ha aggiunto: «Sappiamo che è passato tanto tempo, forse troppo. Non abbiamo più tanta fiducia in una verità processuale. Molte persone che avrebbero potuto sapere cose rilevanti su quei fatti sono morte. Ma una verità storica auspichiamo di averla ancora. Io, queste verità nascoste su quell’omicidio, le sento tutt’oggi attorno a noi vivendo questa città. Vi assicuro che non è una sensazione piacevole». Paola Caccia ha ripercorso «le tante difficoltà incontrate per far riaprire il caso insieme al legale Fabio Repici a 30 anni di distanza: «Molti indizi che portavano anche in altre direzioni non erano stati presi in debito conto e lo consideriamo un modo di non contribuire alla verità oltre ad aver in questo modo fatto sì personaggi mafiosi di assoluto spessore di attraversare questi decenni senza alcun problema. Rileggendo gli atti sono riuscita, io che non ho conoscenze giuridiche approfondite, a trovare almeno 20 anomalie sulla storia dell’uccisione di mio padre. Perché è accaduto? Tuttora non lo so» ha concluso.

Bruno Caccia: l’omicidio di un magistrato e quelle indagini rimaste senza giustizia. Un collega di Torino, ora in pensione, racconta delle trame di altri colleghi togati che avrebbero favorito gli stessi malavitosi che Caccia mise sotto inchiesta. di Mauro Vaudano su lavocedinewyork.com il 9 Gennaio 2022.

Bruno Caccia (Cuneo 16 novembre, 1917 - Torino 26 giugno 1983)

"La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze..."

IL CONTESTO

Per comprendere il contesto in cui è maturato l’assassinio del procuratore capo della Repubblica a Torino Bruno Caccia è necessario inquadrare l’ambiente storico e culturale e criminale piemontese degli anni 70-80. Era il periodo in cui la città di Torino e lo stesso Piemonte e gran parte dell’Italia era sotto la pressione del terrorismo  “rosso” della sinistra estrema rivoluzionaria e “nero” della destra estrema eversiva. Le Brigate Rosse e di Prima Linea da un lato; dall’altro del terrorismo cosiddetto “nero” di estrema destra di Ordine Nuovo, i Nuclei Armati Rivoluzionari (NAR)  e altri gruppuscoli di estrema destra neofascista. Senza trascurare gli altri aspetti criminali  organizzati che si svilupparono in modo preoccupante proprio in quello stesso periodo.  Fu il dilagare in Nord Italia di sequestri di persona legati all’ambiente della mafia siciliana e calabrese esistenti da tempo, criminalità nel Nord Italia non ancora percepita nelle sue dimensioni e sua importanza.

LA SITUAZIONE A TORINO NEL 1980

In questa situazione storica Bruno Caccia fu nominato procuratore capo della Repubblica nel 1980. Egli così successe a magistrati capi dell’ufficio che non avevano dimostrato di essere capaci di iniziative penetranti. Caccia aveva già seguito insieme ai giudici istruttori di Torino tutta una fase importantissima delle istruttorie sulle Brigate Rosse. Istruttorie trasferite a Torino per competenza a causa nella presenza di vittime tra i magistrati di Genova e della conseguente assegnazione a Torino delle indagini  stabilita dalla Cassazione.

Ricordo bene che quando entrai in magistratura come giovanissimo giudice istruttore nel 1972 il capo dell’ufficio era una persona carismatica: Mario Carassi mio, indimenticabile maestro e guida. Mario Carassi mi mise subito in guardia su una certa situazione molto delicata e spiacevole. Mi informò che infatti non vi era un rapporto ideale tra i due uffici della Procura della Repubblica e quello dei Giudici Istruttori almeno in alcuni casi… Pertanto invitò a essere potentemente diffidente nei confronti specifici di magistrati  anziani in servizio alla Procura.

Bruno Caccia arrivò già ben consapevole di questa situazione e subito ebbe la conferma concreta del perdurare di condotte scorrette di alcuni sostituti procuratori già noti. Gli stessi che poi furono sottoposti a processo disciplinare e penale, per sua specifica iniziativa. Quando Bruno Caccia fu ucciso, insomma, l’Italia era distratta (e a questa distrazione non rimediò mai). Il 1983 fu l’anno in cui, come scrive Gian Carlo Caselli in Le due guerre, «l’Italia poté considerarsi fuori dall’emergenza terrorismo». Anche grazie all’impegno in prima linea di Bruno Caccia. Nel 1975 era stato lui, a Torino, a redigere e firmare la richiesta di rinvio a giudizio contro il nucleo storico delle Brigate Rosse che si stava celebrando in quei giorni nel carcere torinese delle Vallette in secondo grado (la requisitoria porta la data del 3 luglio 1975). Il processo iniziò nel 1976, ma – alcuni lo ricorderanno – nel 1977 non si era celebrata neppure un’udienza, perché in tutta Torino non si trovavano sei cittadini disposti a ricoprire l’incarico di giudici popolari. Bruno Caccia, sostituto procuratore generale, e Gian Carlo Caselli, giudice istruttore, avevano costruito l’intero processo ricorrendo per la prima volta all’accusa di “banda armata”.

L’Italia delle elezioni politiche del 1983, dunque, usciva dall’emergenza del terrorismo. Non da quella delle mafie, che nelle terre di origine, proprio in quegli anni, facevano centinaia di morti. Tra il ’79 e l’83 si contarono 818 morti ammazzati in Campania, dove Luigi Giuliano aveva costituito una federazione di famiglie napoletane (denominata prima Nuova Fratellanza, poi Nuova Famiglia) per combattere lo strapotere di Raffaele Cutolo. E mille morti ammazzati tra l’81 e l’83 in Sicilia, dove Totò Riina aveva dato inizio alla cosiddetta “seconda guerra di mafia”, per sterminare i mafiosi palermitani della vecchia guardia. La ’ndrangheta era uscita rinnovata da qualche anno dalla prima guerra di mafia (iniziata nel ’75 con l’omicidio del capo dei capi della ’ndrangheta, ’Ntoni Macrì, padrino vecchia maniera). Da allora si chiamava “Santa”: inizialmente trentatré (numero tipico del rituale massonico), i “santisti” erano autorizzati dal codice della nuova organizzazione a intrattenere rapporti con ambienti prima vietati (a cominciare da carabinieri e poliziotti), e ad affiliarsi alla massoneria deviata, in modo da gestire direttamente il potere politico ed economico e ad aggiustare le sentenze. Vedremo più avanti con quali possibili risvolti proprio nel movente.

LA  RINASCITA DELLA PROCURA

Posso quindi con tranquillità affermare che da un lato Bruno Caccia fu amatissimo da una parte di magistrati della Procura che vedevano in lui  la possibilità di un vero riscatto dell’ufficio; nonché dalla maggior parte dei giudici istruttori che infine vedevano la possibilità di collaborare con reciproca fiducia ed efficacia con l’ufficio della Procura della Repubblica evitando tante situazioni spiacevoli e dannose degli anni precedenti. Altrettanto non si poteva dire di altri magistrati che inevitabilmente ( sia pure in maniera non esplicita ) si opposero all’azione risanatrice portata avanti da Bruno Caccia. Nel 1983 queste trame erano ancora oscure. Il primo a squarciarle, com’è noto, fu Tommaso Buscetta. Per la ’ndrangheta bisognerà aspettare fino al 1992, quando inizierà la collaborazione di Giacomo Lauro, inizialmente coperto dagli inquirenti con il codice “Alfa”.

Raccontare il caso Bruno Caccia significa anche riesumare le «relazioni pericolose» a cui è dedicato il capitolo più doloroso della seconda sentenza di appello per l’omicidio, che descrive il quadro delle indagini. Gli investigatori non avevano ancora individuato chi lo aveva ucciso, ma a poco a poco scoprivano le trame di alcuni suoi colleghi per favorire gli stessi malavitosi che lui aveva messo sotto inchiesta, dirigendo un ufficio di magistrati giovanissimi. La sentenza per l’omicidio condannerà moralmente quei “magistrati inquinati”, perché con la loro «disponibilità» verso i malavitosi ne avrebbero rafforzato la motivazione ad uccidere Bruno Caccia, confidando che alla sua morte sarebbero subentrati i magistrati loro amici. Un giudizio severo, ma – come vedremo – per lo più senza conseguenze.

Ecco perché si può dire che eliminazione fisica di Bruno Caccia, (poiché non era certamente possibile influenzarlo in altro modo con le minacce né attraverso blandizie) finì per divenire necessaria secondo la parte criminale privata e quella pubblica collusa. Forse fu perché era stato vanamente tentato di “sondare il terreno”  nei suoi confronti che una parte dei delinquenti organizzati insediati a Torino ed in Piemonte e collegati a quel gruppo di magistrati infedeli decisero di passare all’atto omicida. Sia pure a posteriori é quindi emerso con chiarezza che Bruno caccia fu assassinato sia per quello che aveva fatto, sia per quello che si temeva che avrebbe potuto ancora fare in una serie di delicate indagini in corso: come quella sui Casinò della Valle d’Aosta (collegati ad altri in Liguria come Sanremo e al confine svizzero come Campione d’Italia) ed ancora in altre delicate inchieste.

IL SABATO PRIMA...

Il sabato mattina 25 Giugno 1983  io ero in ufficio come quasi sempre. Mi incombevano, come giudice istruttore, le necessità di lavoro urgenti di chi si occupava di un processo di grandissima rilevanza sullo scandalo dei Petroli. Bruno Caccia, era ugualmente presente anche quel sabato, come sua costante abitudine. Ebbi quindi la possibilità di consultarlo e coinvolgerlo in un parere urgente in ordine alla necessità di emissione di un’importante e delicato mandato di cattura. Si trattava di un provvedimento urgente nei riguardi di altissimi ufficiali della Guardia di Finanza e di alcuni alti funzionari del ministero delle Finanze, nel  settore delle Dogane e dell’ imposta di fabbricazione sugli oli minerali (petrolio). In questa occasione ebbe modo di mostrarmi alcuni appunti riservati. Queste annotazioni tra l’altro concernevano il comportamento di magistrati di cui alcuni del suo ufficio. Tra di essi, uno in particolare che aveva palesemente insabbiato alcune inchieste quando il settore di frode e corruzione nel contrabbando petrolifero era in piena espansione. In questa occasione volle parlarmi specificatamente in ordine ad un appunto da me inviatogli che conteneva una precisa denuncia nei confronti di questo magistrato. Costui aveva chiaramente tenuto un comportamento di copertura dei responsabili di frodi nello stesso settore dei Petroli. Inoltre poco tempo prima mi aveva inviato un biglietto di velate minacce verso di me (scritto di suo pugno); che, in più, rivelava indirettamente un suo costante contatto con un imprenditore, all’epoca latitante su mandato di cattura da me emesso per falso e contrabbando in oli minerali, nel processo dei petroli. Questi contatti illeciti furono poi provati e confessati nell’istruttoria del giudice istruttore di Milano a carico dello stresso magistrato torinese. La sera successiva Bruno Caccia fu assassinato davanti la sua abitazione.

Il PRIMO TENTATIVO DI DEPISTAGGIO

Bruno Caccia fu assassinato il 26 giugno 1983 mentre portava a passeggio il proprio cane; venne affiancato da una macchina con due uomini a bordo, che spararono numerosi colpi di arma da fuoco.

Sin da subito le indagini degli inquirenti presero la pista delle Brigate Rosse: infatti, mezz’ora dopo l’agguato, un uomo chiamò il centralino del quotidiano La Stampa: “Non capisco, stavo dormendo, è squillato il telefono. Un tale mi ha detto di avvertirvi subito e di dirvi che loro, le Brigate Rosse, hanno ucciso il dott. Bruno Caccia”.

Il mattino successivo due telefonate a quotidiani di Roma e alla sede RAI di Milano rivendicarono nuovamente l’attentato a nome delle BR. Tuttavia quindici giorni dopo l’omicidio, l’11 luglio 1983, le Brigate Rosse negarono ufficialmente di essere autrici del delitto: “Con la morte di Bruno Caccia noi non c’entriamo – dichiarò il brigatista Francesco Piccioni leggendo un comunicato nell’aula del carcere ‘Le Vallette’ di Torino -. Questo è un omicidio a cui purtroppo siamo estranei”. 

LA RIPRESA DELLE INDAGINI A MILANO

Un mese dopo il delitto, il 26 luglio 1983, gli atti dell’inchiesta sull’omicidio furono trasferiti per competenza da Torino a Milano, dove il Procuratore capo Mauro Gresti assegnò il fascicolo ad un magistrato relativamente giovane.

Le indagini sull’omicidio segnarono il passo per circa un anno, durante il quale furono sentiti diversi frequentatori del casinò di Saint-Vincent, tra cui anche Rosario Cattafi. Questa pista di indagine non fu ritenuta valida nonostante alcuni testi e ufficiali di polizia giudiziaria l’avessero indicata esplicitamente

Il RUOLO DEI SERVIZI SICUREZZA ( SISDE)

Lo svolgimento delle indagini istruttorie dopo una lunga fase di stallo ebbe (dopo anni) un nuovo impulso da un intervento molto particolare. Un responsabile del centro torinese dei servizi segreti civili ( SISDE) si offrì di far agire come agente provocatorio all’interno del carcere di Torino un noto e importante mafioso catanese, Domenico “Ciccio” Miano. Questi risultava legato da rapporti di cooperazione criminale al gruppo mafioso calabrese impiantato da tempo a Torino: gruppo che poteva essere responsabile dell’omicidio. Lo scopo era quello di indurre a parlare dei fatti e delle motivazioni dell’omicidio il loro capo riconosciuto, Giuseppe Belfiore.

Francesco Miano fu incaricato di effettuare occultamente in carcere la registrazione di colloqui da lui intrattenuti con il boss ‘ndranghetista Domenico Belfiore, ugualmente detenuto nel carcere di Torino per altra causa.

Stando alle dichiarazioni di Miano e alle registrazioni dei suoi colloqui con Belfiore, quest’ultimo si sarebbe assunto la responsabilità di mandante dell’omicidio Caccia.

In seguito, e correlatamente a questa azione, a partire dal mese di luglio 1984, alcuni membri della criminalità organizzata in stato di detenzione iniziarono a rilasciare all’Autorità Giudiziaria una serie di dichiarazioni che indicavano elementi della malavita organizzata di origine calabrese come gli autori e mandanti dell’omicidio del procuratore Caccia. Mimmo Belfiore fu la persona che poi sarà il principale imputato condannato (e alla fine, l’unico; almeno fino a un’epoca recentissima) come mandante dell’assassinio. Questa impostazione dell’indagine risultò poi essere stata decisa e consentita dai magistrati inquirenti torinesi ( peraltro già non più formalmente competenti per questo delitto!) allo scopo di ottenere dei risultati altrimenti (secondo essi)  non  altrimenti conseguibili.  Tuttavia questa scelta finì per inquinare (o almeno restringere) la ricerca della verità nello svolgimento processuale successivo, sia istruttorio, sia dibattimentale. Di fatto questo orientamento a senso unico non permise di arrivare a elementi di più ampia comprensione dei fatti e della responsabilità penale e morale di questo spietato assassinio mafioso.

IL CRIMINE ORGANIZZATO AL NORD, UNA REALTA’ GIA’ NEL 1970-1985

E’ necessario sottolineare che già negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la criminalità organizzata operante a Torino faceva principalmente riferimento a due gruppi, distinti tra loro sulla base della provenienza geografica ma poi legati da comuni parziali interessi criminali.

Si trattava de  “i catanesi (i cd cursoti)” e  “i calabresi ndranghetisti”. Leader dei ‘catanesi’ è personaggio comunque di indiscusso prestigio, Francesco Miano, che si avvaleva – nella prevalente attività di commercio di sostanze stupefacenti – della collaborazione del fratello Roberto (…).

Il gruppo dei ‘calabresi’ – dedito in particolare ai sequestri di persona a scopo di estorsione – aveva al suo vertice Domenico Belfiore, con il fratello Giuseppe Belfiore e soprattutto con il cognato Placido Barresi, Mario Ursini e la ‘mente finanziaria’ del gruppo, Franco Gonella’. (…) Le attività dei due gruppi avevano numerosi punti di contatto. Le indagini condotte dall’Autorità Giudiziaria di Torino accertarono, ad esempio, il sostegno fornito dal gruppo dei ‘catanesi’ a quello dei ‘calabresi’ (e viceversa) per sfruttare ‘entrature’ nel mondo giudiziario e condizionare l’iter processuale di procedimenti penali riguardanti membri appartenenti ai due clan” 

L’ABBANDONO DELLA PISTA DEI CASINO’

La pista dei casinò fu quindi completamente abbandonata .

La mafia messinese e quella di Barcellona Pozzo di Gotto cui risultava essere legato quel Rosario Pio Cattafi  indicato nel rapporto del maggiore Bertella, non fu mai realmente coinvolta nelle indagini istruttorie e nemmeno nei successivi processi .

I processi che si celebrarono in seguito videro infatti solo la condanna definitiva di Domenico Belfiore quale mandante dell’omicidio. Il movente che spinse Domenico Belfiore a programmare l’omicidio del Procuratore Caccia fu identificato nella costante azione di contrasto che il magistrato esercitava nei confronti del gruppo criminale guidato da Belfiore. Tuttavia, nulla emerse durante i dibattimenti sui nomi degli esecutori dell’omicidio e su eventuali altri mandanti rimasti nell’ombra. (…)  Nelle sentenze inerenti l’omicidio Caccia, solo poche pagine sono dedicate ad un possibile movente del delitto distinto da quello indicato a carico di Domenico Belfiore.

NUOVI ELEMENTI, DOPO 19 ANNI

Diciannove anni dopo la sentenza di condanna definitiva a carico di Belfiore, una intercettazione telefonica ruppe la coltre di silenzio calata sull’omicidio Caccia.

Nel 2011, infatti, furono depositati a Reggio Calabria gli atti relativi ad un’inchiesta in cui un magistrato, il dottor Olindo Canali, era indagato dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria per falsa testimonianza aggravata.

Nel fascicolo era presente un’intercettazione del dr. Canali poi confermata testimonialmente in giudizio nella quale egli faceva diretto riferimento, in merito all’omicidio Caccia, a Rosario Pio Cattafi.

Egli all’epoca dell’assassinio di Bruno Caccia era uditore giudiziario a Milano nell’ufficio del magistrato titolare delle indagini, Francesco Di Maggio.

A trent’anni dall’omicidio, quindi, i figli di Bruno Caccia, con il loro avvocato Fabio Repici, chiesero alla Procura di Milano di riaprire le indagini.

La famiglia tramite il suo difensore propose, con una dettagliata controinchiesta, l’ipotesi del coinvolgimento nell’omicidio del Procuratore Caccia della mafia catanese di Nitto Santapaola e dei suoi presunti colletti bianchi, che allora tentavano di riciclare nel casinò di Saint Vincent e altre case da gioco i guadagni dei loro traffici illeciti.

I nomi delle persone chiamate in causa dalla famiglia furono principalmente due: Rosario Pio Cattafi, identificato come ipotetico mandante dell’omicidio, e Demetrio “Luciano” Latella, quale ipotetico esecutore.

Secondo il legale della famiglia Caccia, Fabio Repici, il pm Francesco Di Maggio all’epoca avrebbe già “raccolto elementi indizianti ben significativi su soggetti diversi da quelli poi sottoposti a processo. (…) La rilevante mole di fonti probatorie relative a Rosario Cattafi, a uno dei presunti killer e al possibile movente del delitto rimase però del tutto trascurata. Su di essa fu omessa ogni valutazione, anche solo finalizzata a destituirla di fondamento“.

Per due volte, i procuratori della Direzione investigativa antimafia di di Milano iscrissero l’inchiesta tra gli atti “non costituenti notizia di reato”. Registro che proceduralmente non consente di svolgere se non delle limitate attività informative.

Le indagini quindi non avanzarono.

Solo nel 2015 e solo in seguito al deciso intervento del Procuratore generale reggente cui si erano rivolti i famigliari tramite il legale, i nomi di Cattafi e Latella furono infine iscritti nel registro degli indagati, con l’ipotesi di reato di concorso nell’omicidio del procuratore Bruno Caccia e vi fu una nuova spinta investigativa in generale che coinvolse anche la Squadra Mobile di Torino.

Infatti da alcuni mesi Giuseppe Belfiore era stato messo in detenzione domiciliare per gravi motivi salute e si trovava nella sua abitazione in provincia di Torino. Furono attivate intercettazioni ambientali, inizialmente senza esito.

Il 22 dicembre 2015, a sorpresa, il GIP di Milano dispose l’arresto di una persona diversa, con l’accusa di essere uno dei killer di Bruno Caccia.

Si trattava di un panettiere di origini calabresi, già coinvolto e condannato in processi per traffico di stupefacenti, Rocco Schirripa.

La squadra mobile di Torino, sotto la direzione dei magistrati milanesi titolari del fascicolo sull’omicidio, aveva infatti inviato a Schirripa e ad altri affiliati della cosca Belfiore (ma non ai due denunciati dalla famiglia, Rosario  Cattafi e Demetrio Latella) una lettera anonima contenente ritagli del quotidiano La Stampa sull’omicidio Caccia e un foglio con la scritta: “Omicidio Caccia: se parlo andate tutti alle Vallette (il carcere di Torino, nda). Esecutori: Domenico Belfiore – Rocco Barca Schirripa. Mandanti: Placido Barresi, Giuseppe Belfiore, Sasà Belfiore”.

Questo  stratagemma sollecitò i dialoghi tra i protagonisti destinatari della lettera, che furono contestualmente mantenuti sotto intercettazioni telefoniche e ambientali.

Da queste indagini emersero elementi solidi indiziari a carico di Schirripa che portarono al suo arresto.

Nel luglio 2017 Rocco Schirripa fu condannato in primo grado all’ergastolo per l’omicidio di Bruno Caccia.

Il processo di appello, iniziato il 5 febbraio 2019, vide la richiesta di conferma della sentenza di primo grado.

Il 14 febbraio 2019 la Corte d’assise d’appello confermò la sentenza di condanna, per il reato di concorso in omicidio, a carico di Rocco Schirripa.

Un anno dopo la Cassazione rese definitiva la condanna di Rocco Schirripa che é attualmente tuttora detenuto.

UNA NUOVA INDAGINE ANCORA FORSE…

Nell’ottobre 2016, intanto, si era pentito il giovane ‘ndranghetista Domenico Agresta, rivelando nuovi elementi sull’omicidio Caccia

Il procuratore Caccia – secondo le dichiarazione del neopentito – non avrebbe voluto ascoltare le richieste della famiglia Belfiore di “aggiustare alcune indagini e processi” .

Per questo, Rocco Schirripa e Francesco D’Onofrio, un estremista di Prima Linea vicino alla cosca calabrese, l’avrebbero ucciso.

D’Onofrio venne così iscritto nel registro degli indagati per omicidio, fino a quando, scaduti i termini per approfondire le indagini, la Procura di Milano chiese l’archiviazione della posizione di D’Onofrio, cui seguì prontamente la richiesta di opposizione all’archiviazione da parte della famiglia Caccia.

A quel punto la Procura generale di Milano decise di avocare l’inchiesta a carico di Francesco D’Onofrio sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, poiché – venne scritto nel decreto di avocazione – era “mancata nel presente procedimento una reale attività di indagine”.

L’indagine preliminare risulta ad oggi essere ancora in corso.

RISULTATI ANCORA INSUFFICIENTI E PARZIALI

Questi primi nuovi risultati ( in sé certamente positivi) non hanno portato purtroppo alla possibilità di trovare prove nei confronti di altre persone pur indicate nelle ripetute denunce alla Procura di Milano della famiglia Caccia e del suo avvocato.

I magistrati milanesi incaricati della nuova inchiesta non ritennero mai che vi fossero sufficienti elementi: nemmeno per eseguire perquisizioni e intercettazioni telefoniche nei confronti di costoro.

Pertanto almeno al momento in cui si scrive non ci sono state nuove indagini né incriminazioni ulteriori possibili responsabili.

Mauro Vaudano. Magistrato in pensione. Giudice istruttore a Torino 1972-1988, poi come Procuratore della repubblica ad Aosta 1989-1994, come direttore dell'ufficio ministeriale Estradizioni e assistenza giudiziaria internazionale 1994 e membro ufficio studi del CSM 1995-1997, ed infine come Presidente del Tribunale distrettuale Piemonte e Valle di Aosta 1997-2001 con un breve periodo alla Corte di Cassazione nella seconda parte del 2001. Dal 2002 al 2010 ha assunto la funzione di consigliere giudiziario operazionale presso l'ufficio europeo antifrode (OLAF) a Bruxelles fino al pensionamento. Tra il 1986 e 1988 ha collaborato intensamente in delicate indagini di riciclaggio all'estero di finanze mafiose con Giovanni Falcone.

·        Il mistero di Acca Larentia.

Acca Larentia, 7 gennaio 1978: una strage da non dimenticare. Alessio Buzzelli su Il Tempo il 07 gennaio 2022.

Sono le 18,30 del 7 gennaio 1978, fuori è già buio ormai da diverse ore. Cinque giovani escono da quella che allora era una delle sezioni romane del Movimento Sociale Italiano, in via di Acca Larenzia, quartiere Tuscolano, per fare un po’ di volantinaggio per il prossimo concerto della band «Gli amici del vento», uno dei pochi gruppi di musica alternativa «di destra» allora in circolazione. I cinque ragazzi facevano parte del Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del partito da cui bisognava partire – come del resto allora avveniva in ogni altro partito - se si voleva essere un «militante» degno di questo nome.

Dopo pochi secondi dall’uscita, una pioggia di proiettili travolge il gruppo di giovani; pallottole provenienti da armi automatiche, quelle che di solito non lasciano scampo. A fare fuoco un commando di cinque o sei persone, difficile contarle in mezzo a quel frastuono di spari ed urla. Uno dei giovani militanti, Franco Bigonzetti, 20 anni, iscritto al primo anno di Medicina e chirurgia, muore sul colpo. Altri tre militanti, due illesi e uno colpito ad un braccio, riescono miracolosamente a rientrare nella sede del MSI e a chiudere la porta alle loro spalle, sfuggendo agli assassini che ancora non sono andati via. Manca il quinto del gruppo, il diciottenne Francesco Ciavatta: non è a terra, fortunatamente, ma nemmeno con gli altri al sicuro all’interno della sede di partito. Francesco, infatti, è ancora in strada e sta cercando di fuggire disperatamente dai suoi assassini, correndo a perdifiato sulla scalinata che si arrampica di fianco alla sezione del partito. Ma una pallottola, l’ennesima sparata dal commando, lo raggiunge dritto alla schiena; morirà poco dopo in ambulanza. Due ragazzi, uno di venti e uno di diciotto anni, sono stati ammazzati per strada, a freddo. È chiaramente un agguato politico, come troppi ne avvenivano in quegli anni. Anni di piombo.

Le ore successive al doppio omicidio sono dense di sgomento e rabbia, in aumento man mano che la notizia correva lungo le strade della Capitale; alla spicciolata gruppi di persone si ritrovano fuori la sede del MSI fino a diventare una folla sempre più difficile da gestire. E infatti, con l’arrivo della Polizia, iniziano fatalmente gli scontri tra i militanti e le forze dell’ordine, perché il sangue versato quel giorno non era ancora stato abbastanza. Pugni, calci, bastoni, manganelli. Poi, spari di pistola. I primi in aria, l’ultimo si pianta nella fronte di Stefano Recchioni, diciotto anni, militante della sezione MSI di Colle Oppio e chitarrista del gruppo di musica alternativa Janus. Morirà anche lui dopo due giorni di agonia. Il colpo che uccise Recchioni è stato oggetto di numerose indagini e perizie balistiche nel corso degli anni, ma ancora oggi nessuno sa dire con certezza chi, quando e perché sparò il proiettile. Un «mistero», questo, che si aggiunge ad un altro, sempre riguardante la tragedia di Acca Larentia, anch’esso mai sciolto davvero: quello della mitraglietta Skorpion utilizzata dagli assassini durante l’agguato, rinvenuta nel 1988 in un covo delle Brigate Rosse a Milano. In seguito ad un’interpellanza parlamentare del 2013, si è scoperto che l’arma fu inizialmente acquistata legalmente nel 1971 da un famoso cantante italiano e poi rivenduta 6 anni dopo ad un commissario di Polizia, senza però riuscire a svelare come da lì arrivò nelle mani degli assassini. 

La prima rivendicazione dell’attentato, invece, arriva qualche giorno dopo l’agguato, con il ritrovamento di una cassetta audio accanto ad una pompa di benzina, in cui una voce leggeva un comunicato a nome dei Nuclei Armati per il Contropotere Territoriale e che si concludeva con la frase «abbiamo colpito duro e non certo a caso». Molto dopo, nel 1987, grazie alla confessione di una pentita, si arrivò finalmente ad individuare cinque responsabili per la strage di Acca Larentia, tutti militanti di Lotta Continua e tutti accusati per il duplice omicidio. Di quel giorno resta una targa commemorativa, il ricordo di tre giovani morti troppo presto e la speranza di essersi lasciati davvero alle spalle quegli anni terribili.

·        Il mistero di Luca Attanasio.

(ANSA il 15 novembre 2022) - La Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio di due dipendenti del Programma alimentare mondiale (Pam), agenzia dell'Onu, per la vicenda legata alla morte dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo il 22 febbraio dell'anno scorso. 

Nei confronti di Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, il procuratore Francesco Lo Voi e l'aggiunto Sergio Colaiocco, contestano il reato di omicidio colposo. I due sono gli organizzatori della missione del nord del Paese africano durante il quale i due italiani furono uccisi.

I due indagati sono accusati di avere "attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, - spiegò una nota della Procura quando furono chiuse le indagini - quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima".

Una morte misteriosa aumenta i dubbi sull’uccisione di Luca Attanasio. LUCA ATTANASIO su Il Domani il 22 luglio 2022

Nella serata del 19 luglio è arrivata la notizia dell’uccisione di una delle persone che avrebbero preso parte all’agguato del 22 febbraio 2021 in cui sono stati uccisi l’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo.

L’uomo ucciso si chiamava Mauziko Banyene (anche se sul nome non c’è totale certezza), ed è stato linciato dalla folla della zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, perché considerato un crudele bandito.

Questa notizia rende ancora più ingarbugliata la lettura delle indagini sul drammatico agguato del 22 febbraio 2021, i cui progressi sembrano ancora destinati a sollevare dubbi più che ad alimentare certezze.

Nella serata del 19 luglio è arrivata la notizia dell’uccisione di un elemento del commando che, secondo gli inquirenti congolesi, avrebbe preso parte all’agguato del 22 febbraio 2021 in cui sono stati uccisi il nostro ambasciatore a Kinshasa, Luca Attanasio, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. L’uomo ucciso si chiamava Mauziko Banyene (anche se sul nome non c’è totale certezza), ed è stato linciato dalla folla della zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, perché considerato un crudele bandito.

Banyene non era tra i cinque detenuti interrogati dai carabinieri dei Ros volati in Congo a inizio luglio perché, non è ancora chiaro sulla base di quale motivazione, era stato rilasciato qualche settimana fa e, a quanto risulta, avrebbe ripreso la sua attività estorsiva nella zona, incurante della polizia e degli abitanti che ne subivano le crudeli gesta.

GLI ARRESTI DI GENNAIO

Questa notizia rende ancora più ingarbugliata la lettura delle indagini sul drammatico agguato del 22 febbraio 2021, i cui progressi sembrano ancora destinati a sollevare dubbi più che ad alimentare certezze.

Aveva per esempio alimentato speranze la notizia che finalmente, dopo reiterate richieste italiane di collaborazione sistematicamente ignorate e due rogatorie cadute nel nulla, i carabinieri del Ros fossero stati invitati a Kinshasa per incontrare i loro colleghi congolesi e interrogare cinque dei sei uomini arrestati a gennaio scorso con l’accusa di essere il commando che ha effettuato l’agguato.

Al loro ritorno, in realtà, in attesa che le carte consegnate ai carabinieri e a disposizione della procura di Roma vengano tradotte dallo swahili, l’entusiasmo iniziale ha lasciato sempre più spazio alle perplessità. Le prime notizie riportate, infatti, darebbero per certa la versione sostenuta dalla magistratura congolese secondo cui i sei arrestati lo scorso gennaio e condotti ammanettati, scalzi, e seduti sul prato davanti al comando di polizia di Goma, sarebbero gli autori di uno dei più gravi attentati mai compiuti nella Repubblica Democratica del Congo.

Il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, il 18 gennaio, convocata un’improvvisata conferenza stampa, ha dichiarato ai giornalisti presenti che quei sei erano «parte del commando che ha progettato ed eseguito l’agguato del 22 febbraio».

I nostri inquirenti volati in Congo avrebbero acquisito confessioni secondo cui i sei (ci sarebbe un settimo, soprannominato Aspirant, il cui nome sarebbe Amos Mutaka Kiduhaye, che risulta ancora latitante) quella mattina avrebbero atteso il primo convoglio di “bianchi” per eseguire una rapina. Sempre secondo la ricostruzione dei fatti avvenuta grazie ai colloqui con gli inquirenti congolesi e i cinque arrestati e la visione di filmati, il commando avrebbe atteso l’arrivo del convoglio e fermato le due macchine per richiedere una somma di circa 50mila dollari senza sapere che a bordo di uno dei veicoli viaggiava l’ambasciatore italiano.

RICOSTRUZIONE DUBBIA

I dubbi attorno a questa versione sono numerosi. Intanto le confessioni non sono affatto lineari, ci sono state varie ritrattazioni, la più clamorosa delle quali è quella di Marco Prince Nshimimana, che ha ammesso di aver fatto parte del commando ma non, a differenza delle accuse che gli sono state mosse, di essere stato lui a sparare e uccidere Attanasio e Iacovacci.

Dalla lettura delle carte del fascicolo chiuso dal procuratore Colaiocco a febbraio con l’iscrizione nel registro degli indagati dei funzionari del Pam Leone e Rwagaza per «omesse cautele» poi, risultano molte incongruenze rispetto alla ricostruzione presentata dalle autorità congolesi. Secondo le testimonianze raccolte e inserite nelle migliaia di pagine conservate dalla procura di Roma, infatti, risulta innanzitutto che il commando che avrebbe eseguito l’agguato fosse appostato nella zona, con armi adeguate a un’operazione più grande di una semplice rapina, da due giorni e che, un’ora prima circa dell’attentato, sullo stesso tratto di strada viaggiassero altri “bianchi” membri di una ong, che hanno proceduto indisturbati. Come mai non sono stati rapinati da un commando che attendeva qualcuno da rapinare da due giorni? È plausibile poi che un commando bene armato fosse lì appostato da 48 ore per una rapina che gli avrebbe fruttato 50mila dollari?

LO SCONTRO A FUOCO

Ci sono altri punti che suscitano perplessità e che attengono al momento dello scontro a fuoco. Una volta compreso che la somma richiesta non era disponibile, gli attentatori hanno intimato a tutti i componenti di scendere (tra questi anche l’italiano Rocco Leone, dirigente Pam dell’area Congo) e dirigersi verso il vicino parco del Virunga.

Nessuno del convoglio di cui faceva parte Attanasio era armato mentre i ranger del parco, accorsi sul luogo allertati dagli spari, non hanno aperto il fuoco contro gli attentatori. Non si capisce perché il commando a un certo punto ha deciso di sparare e colpire, peraltro, solo Attanasio e Iacovacci (Milambo era già stato ucciso), e non gli altri quattro componenti l’equipaggio, tra cui un “bianco”.

Secondo le perizie balistiche poi, i colpi sarebbero stati sparati dal basso verso l’alto, evenienza che porta a pensare a fuoco aperto da qualcuno appostato a terra che mirava a obiettivi precisi.

«Nulla ci porta a pensare – dichiara una fonte investigativa interna alla procura – che quanto ci dicono gli inquirenti congolesi sia incongruo. Possono esserci dei dubbi, ma non abbiamo elementi di prova che la versione sia contraria al vero. Nel caso di Regeni, ad esempio, ci sono state fornite ricostruzioni assolutamente incongruenti, impossibili. In questo caso, invece, possiamo avere dei dubbi, ma non dire che siano del tutto da escludere, non c’è incompatibilità».

Il fatto che finalmente sia stato concesso ai Ros di andare a Kinshasa e ottenere collaborazione dalle autorità politiche e giudiziarie è sicuramente un fatto positivo che arriva, però, dopo un anno e mezzo di tentativi falliti e indifferenza alle richieste italiane. «È comunque un successo per il nostro paese, per la procura di Roma e per la Farnesina – riprende la fonte – se si considera che la Repubblica Democratica del Congo tende a non collaborare neanche con paesi con cui ha legami storici e più saldi, come il Belgio o la Francia. Non usano proprio rispondere alle rogatorie, l’Italia in qualche modo è riuscita, quindi è un successo frutto dell’attenzione del governo. C’è stato un intervento del presidente Felix Tshisekedi che ha mostrato una precisa volontà di collaborare e condividere i risultati e tutto il materiale probatorio. Quello che ci aspettiamo è di capire se questo materiale raccolto sarà utilizzabile secondo i parametri dell’ordinamento italiano».

Nel frattempo il procuratore di Kinshasa ha promesso di inviare alla procura di Roma «a stretto giro come risposta alle rogatorie tutto il fascicolo delle indagini che ritengono chiuse» e si spera che entro «agosto siano stati tradotti gli atti e che arrivi per vie diplomatiche il fascicolo intero».

Per quanto riguarda il fascicolo chiuso a febbraio scorso da Colaiocco che iscriveva nel registro degli indagati i due dirigenti Pam Leone e Rwagaza per gravissime omissioni nei protocolli e falsificazione di documenti (i due continuano ad appellarsi alla immunità diplomatica), sono state presentate le memorie difensive e la procura conta «di arrivare a decisioni finali subito dopo l’estate: se le memorie ci avranno convinto procederemo all’archiviazione altrimenti ci sarà il rinvio a giudizio».

LUCA ATTANASIO

Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante  (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017;  Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018.

Ucciso uno dei presunti killer dell'ambasciatore Attanasio: come cambiano le indagini. Mauro Indelicato su Il Giornale il 19 luglio 2022.   

Uno dei presunti assassini di Luca Attanasio sarebbe stato ucciso dalla popolazione inferocita di una località di Goma, capoluogo del North Kivu. Il suo nome era Maunguniko e a gennaio era comparso in un video della polizia locale che lo ritraeva tra i sei sospettati arrestati per l'omicidio dell'ambasciatore italiano.

A ricostruire la vicenda è stato il giornalista congolese Justin Kabumba. Poche frasi scritte su Twitter che però hanno permesso di capire ancora qualcosa in più del contesto in cui si è svolta (e si sta svolgendo) la vicenda relativa alle indagini sulla morte di Attanasio.

“Presentato dalle forze dell'ordine congolesi come uno degli autori dell'omicidio di Attanasio – si legge sul canale Twitter di Kabumba – Maunguniko è stato ucciso domenica scorsa dalla popolazione di Sake, nei pressi di Goma. Questa popolazione lo ha accusato degli atti di rapimento degli abitanti sulla Sake Road”.

La notizia della morte del ragazzo è arrivata a pochi giorni dai nuovi sviluppi dell'indagine portata avanti dalla procura di Roma e dagli uomini del Ros dei Carabinieri. In particolare, i militari dell'arma avrebbero sentito almeno quattro dei sospettati. Tra questi non c'era Maunguniko. Il loro racconto è stato importante per scorgere luci e ombre sull'inchiesta congolese.

Per Kinshasa infatti il caso è chiuso. Attanasio, assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista Mustapha Milambo, è stati vittima di un tentativo di rapimento lungo la N2, la strada che collega Goma a Rutshuru, operato da una banda di criminali che volevano chiedere un riscatto. Qualcosa è andato storto e un componente del gruppo, tale Marco Prince Nshimimana, ha ucciso il nostro ambasciatore, il carabiniere di scorta e l'autista.

Questa la versione congolese. A Roma però si vorrebbe vedere con maggior nitidezza l'intera vicenda. Sia perché, una volta interrogati dagli italiani, alcuni sospettati avrebbero in parte ritrattato le loro confessioni rese agli inquirenti congolesi. E sia perché sono ancora diversi gli aspetti da chiarire, a partire dal discorso relativo alla gestione non proprio lungimirante della sicurezza.

La morte di Maunguniko potrebbe aver aggiunto un altro tassello. Perché testimonierebbe l'esistenza di una banda operativa nella zona di Goma e dedita al rapimento di cittadini. Non che prima questa circostanza fosse un mistero. Il North Kivu è martoriato dalla presenza di bande comuni e gruppi terroristici che lo rendono uno dei mosti meno sicuri dell'intero continente africano.

Il fatto però che uno degli arrestati dalla polizia congolese fosse effettivamente implicato in rapine lungo le strade della regione, potrebbe dare un piccolo importante indizio anche agli investigatori italiani. Resta da capire però se realmente Maunguniko faceva parte della banda accusata dell'uccisione di Attanasio e se la mattina del 22 febbraio il ragazzo si trovava effettivamente nel lungo dell'agguato.

La banda, per la cronaca, secondo la polizia congolese era composta da sette persone. Sei arrestate, tra queste Maunguniko ucciso domenica a Sake. Poi risulta latitante il presunto capo del gruppo, soprannominato “Aspirant” e tuttora introvabile.

Omicidio Attanasio, il Ros lascia il Congo con 40 video sugli arrestati. FRANCESCA POLIZZI su Il Domani il 13 luglio 2022

Le autorità della Repubblica democratica del Congo (Rdc) hanno consegnato ai carabinieri del Ros un totale di 40 video relativi alle indagini svolte nel paese per l’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio. A gennaio le autorità congolesi avevano annunciato l'arresto dei presunti autori dell'omicidio, ma non c’era stata un’immediata collaborazione con la procura di Roma

Il caso dell’omicidio dell’ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci potrebbe essere a un punto di svolta. Si è conclusa la missione che ha portato i carabinieri del Ros nella Repubblica democratica del Congo. I carabinieri hanno ottenuto 40 video relativi ai sopralluoghi effettuati dagli investigatori sui luoghi oggetto di indagine e sulle attività svolte dalle persone arrestate. È stata inoltre consegnata agli inquirenti italiani una copia degli atti di indagine raccolti dalla magistratura congolese.

LA MISSIONE DEI CARABINIERI

Negli scorsi giorni, i carabinieri del Ros hanno potuto interrogare le cinque persone poste in stato di arresto dalle autorità congolesi.

Questa nuova missione arriva dopo le prime che, effettuate nel periodo immediatamente successivo all’omicidio, avevano ottenuto pochi esiti a causa della scarsa collaborazione degli organi congolesi. Infatti, le reiterate richieste e rogatorie da parte delle autorità italiane erano rimaste inascoltate.

LE INDAGINI

A giugno la giustizia italiana ha aperto un’indagine contro un funzionario congolese del Pam che, stando a quanto riferito, si era occupato della verifica delle misure di sicurezza della spedizione. A gennaio le autorità congolesi avevano annunciato l’arresto dei presunti autori dell'omicidio, presentati come probabili membri del gruppo armato ribelle Balume Bakulu.

Dopo quell’annuncio, a procura di Roma aveva fatto richiesta di acquisire i verbali delle dichiarazioni rese dagli arrestati per esaminarli e verificare le eventuali responsabilità, sulle quali gravano dubbi riguardo a mandanti, esecutori e movente.

DOVEVA ESSERE UN RAPIMENTO

La non immediata collaborazione da parte delle autorità congolesi era stata motivata dal governatore militare del Nord Kivu, il generale Ndima Constant, come un bisogno di più tempo per «investigare su chi ha partecipato all’assassinio», come ha detto in un’intervista rilasciata all’agenzia Nova. Ha anche chiesto «più tempo per scavare ulteriormente in direzione di prove confermate». 

Secondo quanto riferito in una conferenza stampa dal comandante provinciale della polizia, Aba van ang Xavier, il nome dell’uomo sospettato di aver sparato a Luca Attanasio è Aspirant. Il comandante riporta che, quando Aspirant ha sparato all’ambasciatore, gli altri membri della banda «si sono molto dispiaciuti» perché le loro intenzioni prevedevano il rapimento del diplomatico per chiedere in cambio un milione di dollari per il rilascio.

LA VICENDA

L’accaduto risale al 22 febbraio 2021, quando l’ambasciatore Luca Attanasio, 43 anni, è morto dopo essere stato colpito da colpi di arma da fuoco. Attanasio viaggiava su un convoglio del programma alimentare mondiale ed è caduto in un’imboscata a nord di Goma, alla periferia del parco nazionale di Virunga.

Nell’agguato sono morti anche la guardia del corpo italiana dell’ambasciatore, il carabiniere Vittorio Iacovacci, e l’autista congolese del Pam, Mustapha Milambo. FRANCESCA POLIZZI

Delitto Attanasio, i 5 sospettati: non sapevamo che c’era l’ambasciatore, puntavamo a un sequestro per soldi. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.  

La Procura di Roma interroga i membri della gang arrestati in Congo, che hanno causato la morte dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio, quella del carabiniere Luca Iacovacci e del loro autista Mustafa Milambo. La banda è stata arrestata dopo un altro sequestro, andato a buon fine. 

I banditi che il 22 febbraio 2021 hanno rapito e ucciso l’ambasciatore italiano in Congo Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, non sapevano di aver assaltato un convoglio diplomatico. 

Volevano fare un «semplice» sequestro a scopo di estorsione, e aspettavano le prime vittime «bianche» lungo la Route nationale 2, al confine con Uganda, Ruanda e Burundi, com’era accaduto in altre occasioni. Il colore della pelle indica prede più ricche, turisti o cooperanti che siano. 

Poi però il sequestro che doveva essere «lampo» — il tempo di chiedere e ottenere il riscatto — s’è trasformato in triplice omicidio: l’autista Mustafa Milambo ucciso sul luogo dell’agguato, Attanasio e Iacovacci nella foresta, nel conflitto a fuoco con le guardie locali. 

È la sintesi delle confessioni di cinque predatori arrestati un anno fa e ritenuti responsabili dalla Procura militare di Kinsasha. Per il Congo il caso è chiuso, grazie anche alle ammissioni dei presunti colpevoli; per la Procura di Roma che procede in parallelo ancora no. Gli atti trasmessi e quelli compiuti dai carabinieri del Ros che nei giorni scorsi, durante una missione, hanno riascoltato gli arrestati assistiti da un avvocato, presentano molti aspetti da valutare; a partire dalle parziali ritrattazioni dei cinque di ciò che avevano detto ai magistrati del loro Paese. 

Il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco non ha ancora deciso se iscrivere i loro nomi sul registro degli indagati, proprio perché le deposizioni raccolte dagli investigatori italiani (le uniche valide secondo il nostro codice, giacché quelle rese ai congolesi senza difensore non lo sono) risultano molto più sfumate rispetto a quanto riferito ai congolesi. 

I cinque attualmente in carcere a Kinshasa farebbero parte di un commando di sette persone guidato da Amos Mutaka Kiduhaye, chiamato anche «Aspirant», tuttora latitante. Sarebbe lui il regista dell’agguato; obiettivo: un riscatto da un milione di dollari. Tuttavia, dal racconto delle vittime sopravvissute agli inquirenti italiani è emerso che sul momento i banditi chiesero 50.000 dollari che però Attanasio e gli altri non avevano; di lì la decisione del sequestro e la fuga nel bosco dove successivamente c’è stata la sparatoria con i rangers. L’ha detto Mansour Rwagaza, il collaborare del il Pam (Programma alimentare mondiale) delle Nazioni unite che aveva organizzato il viaggio dell’ambasciatore. 

Secondo le confessioni degli arrestati, il commando agiva con una tecnica ben sperimentata: due «vedette» a bordo di moto attendevano lungo la strada il passaggio di possibili vittime, le seguivano per un tratto e avvisavano i complici appostati più avanti. 

Così sarebbe andata anche la mattina del 22 luglio quando due giovani congolesi, Issa Seba Nyani e Amidu Sembinja Babu, si sono messi sulle tracce delle due auto con a bordo Attanasio, Iacovacci, il vicedirettore del Pam in Congo Rocco Leone e altre tre persone. Hanno avvertito «Aspirant», che alla vista del convoglio è uscito dalla boscaglia insieme ad altri due complici, Marco Prince Nshimimana e Bahati Kiboko. 

Hanno fermato le macchine armati di kalashnikov: Nshimimana davanti alla prima intimando l’alt, Kiboko dietro la seconda per bloccare un eventuale tentativo di fuga. 

Saltata l’estorsione è cominciata la fuga, fino allo scontro a fuoco con militari e guardiaparco, nel quale i banditi hanno colpito Attanasio e Iacovacci. Secondo la ricostruzione congolese l’assassino sarebbe Marco Prince Nshimimana, che però ha ammesso la partecipazione all’agguato ma non l’uccisione delle due vittime italiane. 

Ora la Procura di Roma valuterà il materiale investigativo arrivato da Kinshasa, confrontando tutte le deposizioni e compiendo ulteriori indagini. La polizia congolese ha realizzato e trasmesso in Italia anche una quarantina di video con le registrazioni dei sopralluoghi sulla scena dei crimini (agguato e omicidi) e dei pedinamenti dei sospettati prima della loro cattura, avvenuta indagando su un altro sequestro — andato a buon fine, nel maggio 2021 — ai danni di un imprenditore locale. In uno di questi video si vedono i presunti colpevoli riuniti a cena, circostanza ritenuta rilevante perché alcuni di loro avevano negato di conoscersi.

A Roma è arrivato anche il telefono satellitare di Iacovacci, trovato sul luogo del delitto, oltre al cellulare e due schede telefoniche di uno dei cinque arrestati, che verranno esaminati dagli investigatori italiani. Gli accertamenti a carico dei sospettati congolesi, che in patria rischiano comunque il processo, sono scollegati dal procedimento per omicidio colposo (dovuto alle mancate precauzioni nell’organizzazione della missione) a carico di Rocco Leone e Mansour Rwagaza per i quali, dopo l’estate, è attesa la richiesta di rinvio a giudizio.

Luca Attanasio: dubbi, misteri e omissioni sulla morte dell’ambasciatore in Congo. LUCA ATTANASIO su Il Domani l'11 aprile 2022

Lo scorso 8 febbraio è stato chiuso il fascicolo d’indagine aperto a Roma sull’uccisione dell’ambasciatore e del carabiniere Iacovacci.

Dalle carte emerge la notizia di alcuni arresti misteriosi e di piste mai approfondite. A pesare è anche la scarsa collaborazione delle autorità congolesi.

Nonostante due viaggi in Italia del presidente Tshisekedi si ancora troppo poco. Resta adesso da vedere se l’arrivo a Kinshasa di Alberto Petrangeli, nuovo ambasciatore presso la Repubblica Democratica del Congo, potrà segnare un cambio di tendenza. 

LUCA ATTANASIO. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante  (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017;  Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni, settembre 2018. La sua pagina:lucaattanasio.com

La lettera inedita del giovane Attanasio. Luca Attanasio il 16 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel 2000 scriveva a se stesso: "Sii strumento di pace, fai del bene per gli altri".

Caro Luca, come va?

Lo so. So che sei un bel po' stanco... il lavoro, il voler stare coi tuoi amici e far sempre tardi. Vabbe', avrai modo, forse un giorno, di riposare il corpo e la mente. Ma il tuo cuore? Dove ti sta portando? Verso dove viaggia? Te lo chiedo perché non mi sembra che tu abbia le idee chiare in merito. Ti vedo un po' perso e un po' frenetico. Stai diventando un uomo. Ma che uomo. Freddo e menefreghista? Sarà poi vero o è il momento? Lotta per ciò che vuoi. Non lo fai mai. Ti rassegni. Perché non ti accendi ed illumini chi ti sta intorno? Perché non ti lanci verso chi avrebbe realmente bisogno di qualche gesto di affetto? Non sei capace di fermarti, né di ascoltare, ascoltare te e gli altri. Mi sembra che tu vuoi essere sempre al centro dell'attenzione, forse un po' meno di qualche anno fa, ma sei ancora troppo preso da te stesso. Tant'è che non sai dar valore al bene fatto dagli altri. La tua riconoscenza spesso è insipida, passeggera, fatta solo di parole. Forse fai lo stesso anche con Gesù. Non provi ammirazione? Sì, ma a parole. Caspita! E poi ti fermi lì. Hai sempre un «sì, però...», pronto a farti passare sempre a qualche altra cosa. Ti distrai. E sono le cose meno serie, le più stupide a distrarti. Quanto sei preso dal tuo apparire, dal tuo essere un qualcosa che gli altri possano ammirare. Ma non ti fai schifo? Reciti per una ricompensa. Ma Gesù ha detto che non devi cercare la ricompensa delle tue azioni sulla terra. Nascondi, dietro l'umiltà, ogni tuo gesto di bontà. Fuggi dall'IPOCRISIA. Ma ami veramente il Signore? Sì? Cosa hai fatto per lui? A cosa hai rinunciato per lui? Sei un uomo che ha paura di solcare il mare in burrasca perché sei troppo attaccato alla tua vita, quella stessa vita che ti è stata data dalle mani di Dio. Sei troppo attaccato alle cose comode e belle. Alla vita comoda e bella che Dio ti ha regalato. Ma usa questa vita! Porta serena allegria. Forse per Dio non hai mai rinunciato a niente. O forse sì. In tal caso speriamo che LUI abbia una memoria (più grande) e migliore della tua e della mia. So che vuoi studiare, imparare e fare tanto bene agli altri. Ma devi capire bene in che modo. Tu credi di imparare a conoscere come ci si comporta in questo mondo e in particolare nel mondo degli affari per poi fare del bene immenso alle persone. Ma temo due cose: che ti attiri molto il guadagnare bene, l'essere ricco. Ma ancor di più l'essere ammirato ed apprezzato per il bene che fai. Chiedo scusa, chiedo perdono a Dio. Ma è così. Sappi che è così e vergognatene. Tu non ti accontenti di fare le cose in piccolo. Vuoi gratificarti per il successo di un qualcosa di grande. Vuoi creare una comunità, un'organizzazione o non so che altro per aiutare gli altri. Io spero che ce la farai. Spero soprattutto che ti resti la voglia di fare del bene. Non ti attaccare ai beni materiali. Non vanno molto d'accordo con le idee che hai di fratellanza. Sii strumento di pace. Fai del bene per gli altri. O meglio, vivi facendo del bene, sacrificando la tua comodità, per gli altri? No! E allora sei un chiacchierone. E Dio? Non entri realmente in contatto con lui. Egli è anche negli altri. Ma c'è anche lui. Dedicagli più tempo. Ama perché tutto ciò che fai per puro amore, con cuore disinteressato, è sicuramente giusto. Ama, senza riserve, dando il meglio di te. Dio ti ama. Dio ama e non giudica. Legge il tuo amore dalle labbra del tuo cuore. Impara a parlare d'amore. Impara ad ascoltare, anzitutto.

Questo è il primo passo. Non ti affannare per voler apparire il migliore. Perché ti affanni? Certo, impegnati e dai il meglio di te in tutto. In tutto però. Non solo nelle cose che ti vengono più comode. Ti voglio bene. Luca Attanasio 

Da “Oggi” il 24 febbraio 2022.  

«Luca non è morto per caso, è stata un’esecuzione». Salvatore Attanasio, padre dell’ambasciatore italiano, Luca Attanasio, 43, ucciso in Congo in un agguato il 22 febbraio 2021 rilancia il sospetto. 

Nell’intervista rilasciata al settimanale OGGI, in edicola da giovedì 24 febbraio, Attanasio ipotizza il movente della morte del figlio: «In quella zona ci sono risorse preziose, si parla di fosse comuni.

Forse Luca aveva scoperto qualcosa che non doveva sapere. E mio figlio non era uno che girava la testa di là». 

Poi elenca e tenta di ricollocare i pezzi del puzzle della vicenda che non trovano risposta. E lancia un’accusa che coinvolge anche i vertici dello Stato Italiano: «Nessuno ha compiuto un gesto fondamentale: presentare un’interrogazione alle Nazioni Unite sull’operato di una loro agenzia».

Valentina Errante per "Il Messaggero" il 22 febbraio 2022.

«Era un fatto privato. È la sua vita insomma, aveva scelto dove andare», così la moglie di Rocco Leone, vicedirettore del Pam nella Repubblica democratica del Congo, indagato per non avere protetto né informato l'ambasciatore Luca Attanasio dei concreti rischi del viaggio nel quale è stato ucciso, commentava il 27 febbraio scorso al telefono con un'amica.

Esattamente un anno fa, in quella trasferta Attanasio rimase vittima di un agguato insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, che per quella missione aveva chiesto un'auto blindata, che non è mai stata consegnata e all'autista Mustafà Milambo a Goma.

È quanto emerge dagli atti della procura di Roma che ha chiuso le indagini, accusando Leone e il responsabile della sicurezza del Pam, Mansour Rwagaza di omicidio colposo e omesse cautele. 

Leone sostituì il nome dell'ambasciatore con quello di un funzionario del Pam per evitare la lunga procedura che avrebbe di fatto bloccato la visita nella scuola. Un progetto per il quale l'Italia avrebbe dato un contributo al Programma di un milione di dollari.

È stato il carabiniere Luigi Arilli, anche lui in missione nella Repubblica democratica del Congo, a riferire di avere sentito quando il collega ha chiamato Mansour con il suo cellulare congolese: «Ho assistito io alla conversazione, perché ci trovavamo insieme nella stessa stanza. Durante la telefonata, dopo essersi presentato, Iacovacci ha chiesto a Mansour informazioni sulle misure di sicurezza che sarebbero state predisposte nel corso della missione e in particolare se sarebbe stato utilizzato un veicolo blindato per trasportare l'Ambasciatore».

E aggiunge: «Mansour garantiva la presenza di autovetture blindate, ma fornite da altri organismi, perché il Pam non ne aveva di proprie, almeno da quello che ho capito. Mansour riferiva che anche i dispositivi di protezione individuale sarebbero stati forniti da altri organismi. Per dispositivi di protezione individuale intendo i giubbetti antiproiettile».

Arilli ha riferito a verbale al Ros, che ha condotto le indagini, coordinate dall'aggiunto Sergio Colaiocco, che Iacovacci aveva anche chiesto informazioni generali sulla sicurezza nella zona «Mansour gli ha risposto che si sarebbe svolto un briefing sulla sicurezza, subito dopo l'arrivo a Goma. Il 19 febbraio. Da parte nostra, non sono state chieste informazioni sull'eventuale presenza di scorte armate».

È invece il direttore del World food program, che all'epoca dell'omicidio aveva il Covid ed era sostituito da Leone, a riferire ai militari che l'Italia avrebbe dato un consistente contributo al programma: «Sono arrivato nella RDC il 15 gennaio 2021 ma il 19 sono risultato positivo al Covid, quindi ho potuto presentare le credenziali solo l'8 febbraio.

Qualche giorno dopo il mio vicario, Rocco Leone mi ha parlato di un contributo italiano di un milione di dollari e mi ha riferito che ci sarebbe stato un viaggio con il defunto ambasciatore Attanasio e qualche giorno dopo ho dato il via libera firmando l'ordine di missione, la mia conoscenza della visita è avvenuta 2-3 giorni prima della partenza della missione».

Di fatto, in base alle indagini, è stata intenzionalmente omessa la richiesta di security briefing a Monusco (Cioè all'Onu) e il nome dell'Ambasciatore nella richiesta di security clearance al dipartimento sicurezza Concludono i carabinieri del Ros in un'informativa: «Dunque, l'insieme di queste omissioni di procedure tutte accomunate dalla finalità di coinvolgere nel processo di SRM, fa ritenere esse siano state intenzionali, volte a salvaguardare lo svolgimento della missione dei tempi previsti. 

Da questo punto di vista, l'unica persona che aveva interesse a che la missione venisse svolta, per soddisfare la richiesta dell'ambasciatore italiano, era Rocco Leone, il quale, preso l'impegno, aveva l'esigenza di mantenerlo.

Le procedure, quindi non vennero rispettate salvare la missione, «attraverso l'omissione della comunicazione a Monusco e, in generale, di qualunque informazione che riguardasse la presenza dell'ambasciatore italiano nella missione, cosa che avrebbe dato avvio a una rivalutazione del rischio con il conseguente rischio di cancellazione della missione stessa».

Il tempo stringeva e la presenza di un diplomatico italiano avrebbe richiesto valutazioni più approfondite. È sempre Paola Colli, la moglie di Leone intercettata che commenta con le amiche l'agguato: «Ha detto Rocco, non era pericolosa, cioè è pericolosa in assoluto, ma relativamente a com'è il Congo no! E allora non dovevano andà in Congo allora. Non dovevano mettere piede nel Paese per stare sicuri, hai capito?». 

L'amica chiede come mai non ci fosse una scorta e se l'epilogo di questa vicenda potesse in qualche modo avere eventuali ripercussioni sull'impiego professionale del marito Rocco: «Ieri era preoccupato anche per quello poi mi ha detto: no, meno male che hanno guardato tutto, è stato fatto tutto secondo le regole, secondo le procedure». E invece Leone, proprio in quei giorni, si era sottratto all'interrogatorio del Ros, fingendo di essere in ospedale.

(ANSA il 9 febbraio 2022) - Due dipendenti del Programma alimentare mondiale (Pam), agenzia dell'Onu, rischiano di finire sotto processo per la vicenda dell'ambasciatore italiano Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi in Congo il 22 febbraio dell'anno scorso. 

La Procura di Roma ha chiuso le indagini, atto che precede la richiesta di rinvio a giudizio. I due, organizzatori della missione nel nord del Paese africano, sono accusati di omicidio colposo.

Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, coordinati da Francesco Lo Voi e Sergio Colaiocco, i due dipendenti del Pam, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza, avrebbero "omesso, per negligenza, imprudenza e imperizia - è detto in una nota della Procura - secondo la ricostruzione effettuata allo stato, che risulta in linea con gli esiti dell'inchiesta interna all'Onu, ogni cautela idonea a tutelare l'integrità fisica dei partecipanti alla missione Pam che percorreva la strada Rn2 sulla quale, negli ultimi anni, vi erano stati almeno una ventina di conflitti a fuoco tra gruppi criminali ed esercito regolare".

(ANSA il 9 febbraio 2022) - I due indagati dalla Procura di Roma, nell'ambito dell'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, sono accusati di avere "attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci, - è detto in una nota della Procura - quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima".

Per i magistrati di piazzale Clodio i dipendenti del Pam avrebbero anche "omesso, in violazione dei protocolli Onu, di informare cinque giorni prima del viaggio, la missione di pace Monusco che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza informando gli organizzatori della missione dei rischi connessi e fornendo indicazioni sulle cautele da adottare (come una scorta armata e veicoli corazzati)".

E ancora: "avrebbero omesso di predisporre le cautele richieste dalla classificazione di rischio attribuita al percorso da effettuare che, pur avendo dei tratti classificati verdi cioè a basso rischio, aveva anche delle parti classificate gialle, cioè a rischio medio che avrebbero imposto di indossare, o avere prontamente reperibile il casco e il giubbotto antiproiettili".

 I due inoltre avrebbero omesso "in presenza di un ambasciatore, che rappresentando il proprio Paese, costituisce soggetto particolarmente a rischio, e dopo aver dato assicurazioni al carabiniere Iacovacci, a seguito delle sue richieste, di poter usufruire di veicoli blindati (che il Pam aveva in dotazione a Goma), che le misure di sicurezza base sarebbero state incrementate, di approntare ogni utile ulteriore misura di mitigazione del rischio". 

Le indagini proseguono infine per quanto riguarda il reato di sequestro di persona a scopo di terrorismo e sono "finalizzate ad identificare i componenti del gruppo di fuoco, anche attraverso le due rogatorie già inoltrate alle autorità della Repubblica democratica del Congo".

(ANSA il 9 febbraio 2022) - "Mi sarei stupito del contrario. Ci auguriamo che sia il primo passo verso la verità, perché senza verità non c'è giustizia". Così, raggiunto dall'ANSA, Salvatore Attanasio, padre di Luca, l'ambasciatore italiano in Congo ucciso il 22 febbraio 2021 nel corso di un agguato assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista Mustapha Milambo, ha commentato la notizia della chiusura delle indagini della Procura di Roma e il probabile rinvio a giudizio per i due dipendenti del Pam (il Programma Alimentare Mondiale) dell'Onu, Rocco Leone e Mansour Luguru Rwagaza.

Per l'omicidio Attanasio l'Onu è sotto inchiesta. Fausto Biloslavo su Il Giornale il 10 febbraio 2022.  

I funzionari del Programma alimentare mondiale, costola dell'Onu, non hanno rispettato le norme di sicurezza, che avrebbero potuto salvare il nostro ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci e l'autista congolese Mustapha Milambo. La procura di Roma ha indagato, nell'ambito della mortale imboscata, l'italiano Rocco Leone, numero due del Pam in Congo e Mansour Luguru Rwagaza responsabile della sicurezza del Programma alimentare. Il convoglio della morte era partito da Goma la mattina del 22 febbraio 2021 e un'ora dopo è finito in un agguato. L'autista è stato ucciso subito e l'ambasciatore con il carabiniere sono stati portati via dai rapitori, ma hanno perso la vita poco dopo durante il conflitto a fuoco con i ranger del parco Virunga intervenuti per sventare il sequestro.

Una nota della procura rivela che Leone e Rwagaza sono accusati di avere «attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell'Onu, indicando nella richiesta di autorizzazione alla missione, al posto dei nominativi dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci quelli di due dipendenti Pam così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima». In pratica non avevano fatto in tempo ad avvisare i caschi blu della missione Monusco, che potevano garantire una scorta armata e mezzi blindati. Gli inquirenti sottolineano che i due dipendenti Onu hanno omesso anche di «predisporre le cautele richieste dalla classificazione di rischio attribuita al percorso da effettuare () che avrebbero imposto di indossare, o avere prontamente reperibili, il casco (elmetto nda) ed il giubbotto antiproiettile».

Ancora più gravi le promesse non mantenute «in presenza di un ambasciatore che, rappresentando il proprio Paese, costituisce soggetto particolarmente a rischio, e dopo aver dato assicurazioni al carabiniere lacovacci, a seguito delle sue richieste, di poter usufruire di veicoli blindati (che il Pam aveva in dotazione a Goma), - si legge nella nota - che le misure di sicurezza base sarebbero state incrementate».

La Procura continua le indagini sull'agguato per sequestro di persona a scopo di terrorismo «finalizzate ad identificare i componenti del gruppo di fuoco, anche attraverso le due rogatorie già inoltrate alla Repubblica democratica del Congo». Il 19 gennaio la polizia di Goma aveva annunciato l'arresto di due membri della banda, ma dei loro interrogatori e verbali non si è saputo più nulla.

«Auspico che nessuno si sottragga alle proprie responsabilità e che il Pam non ostacoli in alcun modo lo svolgimento di un giusto processo nel Paese per cui Luca e Vittorio hanno sacrificato le loro giovani vite» ha dichiarato a caldo, Zakia Seddiki, la moglie dell'ambasciatore Attanasio. I legali del Pam avevano già alzato come scudo un'inesistente immunità diplomatica in Italia. «É emerso che la morte di mio marito non si sarebbe verificata se il Pam, come era suo obbligo fare, avesse gestito in modo scrupoloso e adeguato la sicurezza della missione» ribadisce la moglie.

Il padre di Attanasio, Salvatore, che fin dall'inizio ha puntato il dito contro l'Onu commenta così le notizie della Procura: «Mi sarei stupito del contrario. Ci auguriamo che sia il primo passo verso la verità, perché senza verità non c'è giustizia». 

Attanasio, un anno dopo: "Ucciso per 50mila dollari". Ma il padre non ci crede. Patricia Tagliaferri il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La moglie: "«Quel giorno dovevo essere con lui". Il fratello del carabiniere morto: "Servono risposte".

Alla storia del rapimento finito male non crede. Neppure ora che dalle carte dell'indagine della Procura di Roma emergono i dettagli sull'omicidio dell'ambasciatore Luca Attanasio e del carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi per non aver dato ai banditi i 50mila dollari che chiedevano per lasciarli passare.

Il padre del diplomatico, Salvatore, nel giorno della commemorazione del figlio, a un anno dalla scomparsa, non si dà pace. La conclusione dell'inchiesta non lo convince: non è stato un rapimento andato storto. «Ci sono tantissime cose che non quadrano», dice. Per i pm, invece, sarebbe andata proprio così: il 22 febbraio del 2021 i balordi che assaltarono il convoglio Onu su cui viaggiava Attanasio in Congo chiesero la consegna immediata del denaro, che l'ambasciatore non aveva con sé. Il rifiuto avrebbe scatenato il conflitto a fuoco in cui persero la vita il diplomatico e la sua scorta. Una tragedia che, per i magistrati, si sarebbe potuta evitare se fossero stati rispettati i protocolli di sicurezza della missione. Per questo sono stati indagati per omicidio colposo Rocco Leone, vicedirettore del Pam, il programma alimentare dell'Onu, e il suo collaboratore Mansour Rwagaza. Il padre di Attanasio lo considera «un primo passo», ma aspetta ulteriori sviluppi: «È un cerchio che via via si stringe. Vediamo quanti pesci nella rete resteranno impigliati». «Finché non ci sarà verità e non ci sarà giustizia, noi non avremo pace», dice. Attanasio ha fiducia nella giustizia e si augura che «il sostegno delle istituzioni continui perché senza l'aiuto del governo anche i magistrati possono fare poco». Un dolore immenso, quello della famiglia Attanasio: «Per noi tutti i giorni sono come il primo giorno, il dolore è sempre uguale. Anzi, a volte non ci rendiamo conto di quello che è successo». Solo per un caso - come emerge ora dal libro del giornalista Fabio Marchese Ragona - il giorno dell'agguato la moglie dell'ambasciatore, Zakia Seddiki, non era con lui. «Dovevo essere insieme a Luca - rivela - ma questa volta per via di una coincidenza, mia mamma che non poteva tenere le bambine, ero stata costretta a rimanere a Kinshasa. Era una mattina normalissima, avevo preparato le bimbe e le stavo accompagnando a scuola in macchina. Sapevo che Luca aveva in programma di fare una visita al progetto Pam riguardante le mense scolastiche e che era sempre con Vittorio. Aveva chiamato sua mamma per un saluto e poi me». Di lì a poco l'assalto mortale. E ora il vuoto che cerca di superare portando avanti il messaggio del marito: credere nei sogni e nell'umanità. Con le tre figlie al fianco. «Chiedono sempre del papà, ma lui ci darà la forza di superare la sua mancanza», dice. Un dolore condiviso con la famiglia Iacovacci: «È forte come il primo giorno, mentre aumentano la consapevolezza che nulla sarà come prima e l'esigenza di avere risposte», afferma il fratello del carabiniere ucciso, Dario. Patricia Tagliaferri

«In Congo fu un atto politico contro l’Italia». Diego Motta su Avvenire il 10 febbraio 2022.  

«La morte di mio figlio non può essere letta come un semplice fatto di cronaca. Luca era un ambasciatore e la sua uccisione è stata un atto politico contro lo Stato italiano». Salvatore Attanasio custodisce da quasi un anno la memoria del massacro avvenuto in Congo. Non ha mai creduto alle notizie sugli arresti dei presunti responsabili effettuati a Goma e ha sempre individuato nel comportamento del Pam, il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, la causa di quanto è accaduto. L’inchiesta della Procura di Roma è finalmente «un primo passo verso la verità – dice –. Ora ne serviranno altri».

Quali?

Mio figlio si trovava nel nord Kivu, quel giorno, su invito del Pam. La lettera di viaggio per quella missione era stata firmata dall’Onu, i voli aerei su cui ha viaggiato erano dell’Onu. A loro spettava di garantire il massimo della sicurezza. Perché non è avvenuto? Perché nel documento in cui si presentava la missione, il nome di mio figlio non era indicato? Perché mancavano auto blindate per garantire maggiore protezione? Sono queste le domande a cui non abbiamo mai avuto risposta in questi mesi. E oltre all’alterazione delle lettere di viaggio, resta l’incredibile decisione dei testimoni oculari di rifiutarsi di parlare, trincerandosi dietro una presunta immunità diplomatica.

Si aspettava questa svolta?

Assolutamente sì. Mi sarei stupito del contrario. Ripeto: opporre l’immunità di fronte a un triplice omicidio è gravissimo. Ora per arrivare alla verità è necessario che le indagini vadano avanti: è necessario interrogare questi signori per poter ricostruire l’esatta dinamica dei fatti. Serve maggiore pressione dallo Stato e anche dall’Europa, di cui l’Italia è Paese fondatore. Ci sono stati troppi tentativi di depistaggi, troppe omissioni. Si arrivi alla verità, perché senza verità non ci sarà mai giustizia.

Quali ricadute sono possibili, dal punto di vista diplomatico?

Non sta a me dirlo. Durante il G20, Mattarella e Draghi hanno incontrato il presidente del Congo e questo è stato un segnale importante. A Strasburgo, una mozione firmata da 48 europarlamentari italiani ha chiesto un impegno chiaro all’Unione, perché si impegni a ottenere chiarezza sulla vicenda. Penso che ottenere la massima trasparenza dal Programma alimentare sia il minimo, anche vincolando i fondi destinati alla necessaria collaborazione nell’inchiesta.

Il capo dello Stato, nel consegnare alla vostra presenza l’onorificenza di Gran Croce d’Onore dell’Ordine della Stella d’Italia alla memoria di Luca, ne parlò come di un emblema e un simbolo per lo stile del diplomatico.

Luca faceva e non diceva, non amava il clamore. Interpretava la diplomazia come un servizio alla comunità e ricordava spesso che l’ambasciata, la sua ambasciata, doveva essere la casa degli italiani. Per questo, amava i medici e i missionari. In questi mesi abbiamo ricevuto testimonianze e ricordi del suo impegno a tutte le latitudini, dall’Africa agli Stati Uniti. Speriamo che il suo sacrificio non sia vano.

Attanasio, la verità un anno dopo: «L'impegno per l'Africa continua». Diego Motta su Avvenire.it il 21 Febbraio 2022.   

Gli orfani di Luca sono tanti, ma nel frattempo la sua famiglia si è allargata. Un anno fa moriva in un agguato, sulla strada verso Goma, l’ambasciatore Luca Attanasio, insieme al carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci, e all’autista Mustapha Milambo. Oggi la Fondazione Mama Sofia, presieduta dalla moglie Zakia Seddiki, è sempre più presente nella Repubblica democratica del Congo, attraverso progetti e iniziative diverse, dalla clinica mobile per i bimbi di strada all’ambulatorio medico, fino al sostegno per la maternità. Lo fa attraverso i volti di tanti sostenitori e amici di Luca, che ne testimoniano ancora oggi la visione e che ne sono la concreta eredità sul territorio. «Vogliamo tradurre in interventi concreti i valori e gli intenti in cui io e mio marito abbiamo sempre creduto – ha detto Zakia –. Nella vita e nella carriera, Luca ha dimostrato che con la passione e il coraggio si possono restituire dignità e gioia a tanti giovani che non hanno di fronte a loro un orizzonte sereno. La Fondazione Mama Sofia nasce per lottare contro ogni situazione di disagio, marginalità, discriminazione, intolleranza e negazione dei più elementari diritti umani e di tutela dei minori».

Il riscatto e l’imboscata

Proprio domenica è filtrata, ad opera della Procura di Roma, la prima ricostruzione dei fatti, che completa il mosaico sulle responsabilità di quanto accaduto la mattina del 22 febbraio 2021, per i quali sono accusati di omicidio colposo, tra gli altri, anche due funzionari del Pam, il Programma alimentare mondiale. Il gruppo di banditi che assalì il convoglio, che procedeva senza auto blindate e senza le minime condizioni di sicurezza imposte da quella missione, avrebbe chiesto 50mila dollari. I passeggeri non avevano quel denaro e l’imboscata si trasformò subito in un tragico tentativo di sequestro a scopo di estorsione. Nel corso dell’interrogatorio reso agli inquirenti, il vicedirettore del Pam a Kinshasa, Rocco Leone, uno dei due indagati del Programma alimentare dell’Onu, ha spiegato di aver dato «tutto quello che avevo, 300-400 dollari, e il mio telefonino. Anche l’ambasciatore ha cominciato a togliersi le cose che aveva indosso, sicuramente il portafogli e forse l’orologio – ha spiegato –. Ho detto a Iacovacci di stare calmo e di non prendere la pistola, forse gliel’ha detto anche l’ambasciatore». Dal canto suo Mansour Luguru Rwagaza, il responsabile della sicurezza, anch’egli coinvolto nell’indagine, ha raccontato che i banditi «hanno intimato di consegnare i soldi, altrimenti ci avrebbero portati nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto. Ho detto a Rocco Leone che dovevamo cooperare». I due, nella ricostruzione dell’inchiesta sulla preparazione della missione, sono accusati di avere «attestato il falso, al fine di ottenere il permesso dagli uffici locali del Dipartimento di sicurezza dell’Onu». Nella richiesta di autorizzazione, al posto dei nominativi di Attanasio e Iacovacci, sono stati infatti inseriti i nomi di due dipendenti del Pam, «così da indurre in errore gli uffici in ordine alla reale composizione del convoglio e ciò in quanto non avevano inoltrato la richiesta, come prescritto dai protocolli Onu, almeno 72 ore prima». Inoltre, non è stata data alcuna informazione, nei canonici cinque giorni prima del viaggio, alla missione di pace Monusco «che è preposta a fornire indicazioni specifiche in materia di sicurezza». Per questo mancavano ad esempio una scorta armata e veicoli corazzati.

Le ultime ore

Sugli ultimi attimi di vita dei tre uomini uccisi nel nord Kivu, non mancano ovviamente parti da chiarire, come ad esempio lo scontro a fuoco con i militari e le guardie del parco giunti a sorpresa nel bosco dove i banditi stavano conducendo gli uomini della missione a scopo di riscatto. Aspetti che andranno appurati con precisione nei prossimi mesi, una volta che sarà avanzata da Piazzale Clodio la richiesta di rinvio a giudizio per gli indagati, verosimilmente a metà marzo. «Quel giorno dovevo essere insieme a Luca» ha raccontato la moglie, a proposito delle ultime ore del marito. «Mia moglie ha deciso che bisogna essere ambasciatori e rappresentanti dello Stato. Insieme – sosteneva l’ambasciatore Attanasio nel discorso pronunciato nel 2020 ritirando il Premio internazionale Nassiriya per la pace –. Per questo viviamo in Congo e insieme rappresentiamo lo Stato in tutte le sue varie forme». L’opera di aiuto e solidarietà continua, anche a un anno di distanza da quella tragedia.

Luca Attanasio, arrestati gli assassini dell’ambasciatore in Congo: «Volevano rapirlo». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.

Il diplomatico è stato ucciso un anno fa assieme a un carabiniere e all’autista.  

«Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto». A quasi un anno dall’imboscata assassina in cui morirono Luca Attanasio, il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l’autista, Mustafa Milambo, la polizia del Congo cattura e mostra al mondo i presunti assassini.

Sono sei giovani, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Tutti ammanettati, quattro sono scalzi, alle spalle nove agenti col mitra a tracolla. I sei tacciono. Di fronte hanno un gruppetto di giornalisti e fotografi, invitati per la conferenza stampa: «Signor governatore — proclama con voce solenne il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang — , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore».

A dire il vero, l’uomo che ha sparato non c’è: è il capo d’una banda nota col nome di «Aspirant», dicono gli investigatori, ed «è ancora in fuga, ma gli stiamo dando la caccia». Di sicuro, spiega un altro militare, il colonnello Constant Ndima Kongba, su quel prato sono in manette i suoi complici: «Gli uomini d’altre due gang criminali, i Bahati e i Balume. Sappiamo dove si trova il capo di ‘Aspirant’. Speriamo di trovarlo».

La banda era ricercata da vari mesi. Dopo l’agguato ad Attanasio il 22 febbraio dello scorso anno, sulla strada fra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, in tutta la regione ci sono stati diversi assalti a convogli: in uno, a novembre, era stato ammazzato anche un uomo d’affari della zona, Simba Ngezayo. E sarebbero stati proprio gli indizi raccolti durante l’inchiesta per quest’ultimo assassinio, sostengono i giornalisti di Goma, a mettere la polizia del Nord Kivu sulle tracce di queste tre bande.

Il generale Van Ang non racconta come si sia arrivati alla cattura. Non fa cenno alle inchieste italiane che nel giugno 2021 hanno portato a indagare un funzionario congolese del World Food Program, sospettato d’avere trascurato le misure di sicurezza previste per il trasporto dei diplomatici. Nemmeno fornisce elementi particolari che spieghino il collegamento con l’uccisione di Attanasio.

Ma i toni sono determinati. «Aspirant» e i suoi uomini, dice l’ufficiale, tesero l’imboscata alle auto dell’ambasciatore italiano e del World Food Program «con uno scopo ben preciso»: volevano rapire il diplomatico e chiedere un riscatto milionario. Secondo gli investigatori, infatti, «quando ‘Aspirant’ sparò sugli obbiettivi», uccidendo quasi all’istante Attanasio e Iacovacci, «si morsero le mani» perché la loro intenzione era di prendere gli ostaggi bianchi e trattare con l’Italia per rilasciarli. «È la stessa tattica usata in altri casi», viene spiegato, e che doveva funzionare anche per rapire Ngezayo. «Ora lancio un appello alla giustizia — dice il generale del Nord Kivu —: che questi criminali siano puniti tenendo conto di tutto quel che hanno fatto sopportare alla nostra popolazione». Nei mesi passati, la polizia congolese aveva già annunciato possibili arresti smentiti, poi, in poche ore: se sia la svolta giusta, è ancora presto per dirlo.

Luca Attanasio e il carabiniere, uccisi per 50 mila dollari. L’inchiesta sul rapimento e i quattro colpi fatali.  Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

L’ ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci, uccisi un anno fa insieme all’autista Mustafà Milambo a Goma, sul confine orientale del Congo, sono morti per 50.000 dollari. I banditi che assalirono il convoglio la mattina del 22 febbraio 2021 pretendevano quella cifra, che i passeggeri non avevano. A quel punto l’imboscata alle due macchine con a bordo tre uomini bianchi s’è trasformata in un sequestro a scopo di estorsione. Gli ostaggi servivano per ottenere un riscatto, ma l’azione è fallita con la sparatoria in cui sono rimasti vittime il diplomatico italiano e il carabiniere addetto alla sua sicurezza. I dettagli dell’agguato sono svelati dagli atti dell’inchiesta della Procura di Roma a carico di Rocco Leone, vicedirettore del Pam, il Programma alimentare dell’Onu, e il suo collaboratore locale Mansour Rwagaza, accusati di omicidio colposo per non aver rispettato i protocolli di sicurezza nella preparazione del viaggio.

«Norme violate»

È dal loro racconto e da quello di altri testimoni che il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco e gli investigatori del Raggruppamento operativo speciale dell’Arma hanno ricostruito gli antefatti della missione e l’imboscata mortale. Fino alla conclusione contenuta nell’informativa del Ros: «Si ritiene che l’organizzazione frettolosa e informale abbia fatto sì che non venissero attivate le procedure normalmente attuate in questo genere di missioni, perché i tempi ridotti non lo avrebbero permesso». Tutto fu concordato attraverso «una gestione personalistica in violazione delle norme che regolano la sicurezza all’interno delle o rganizzazioni dell’Onu». Anche la relazione del Dipartimento di sicurezza delle Nazioni unite, acquisita dalla Procura, ha sottolineato l’inosservanza di diverse disposizioni, tra cui le mancate informazioni alla missione dell’Onu e alla sua unità di sicurezza, oltre i nomi indicati nella «lista di autorizzazioni» cambiati all’ultimo momento, senza avvertire nessuno.

Niente auto blindate

Il 22 febbraio era l’ultimo giorno di una spedizione cominciata il 18, ai confini con Ruanda e Burundi, per visitare i programmi del Pam in Congo. La sera prima Iacovacci parlò con l’altro carabiniere addetto all’ambasciata, Luigi Arilli, rimasto a Kinshasa: «Siamo stati noi a decidere, di comune accordo, che andasse Iacovacci, perché a breve sarebbe stato trasferito e perché più interessato di me a viaggiare e conoscere la gente del posto, essendo anche appassionato dell’artigianato locale... Del viaggio dell’indomani mi ha riferito che sarebbero andati in una zona non troppo tranquilla, ma non era preoccupato». Nei giorni precedenti Arilli aveva assistito a una telefonata tra Iacovacci e Rwagaza: «Mansour garantiva la presenza di vetture blindate, ma fornite da altri organismi perché il Pam non ne aveva». In realtà le due auto partite poco dopo le 9 dal Kivu Lodge di Goma non erano blindate perché, come riferito da Fidele Nzabandora, responsabile di settore del Pam, «per tutte le visite non sono mai state utilizzate... I giubbotti antiproiettile erano nel cofano del portabagagli, se ne avessimo avuto bisogno bastava girarsi e prelevarli. Nel corso dell’attacco non abbiamo avuto il tempo di metterli».

Seguiti dalle moto

Mansour Rwagaza — che aveva ricevuto il nulla osta per il viaggio ma senza indicare nei documenti la presenza dell’ambasciatore e del carabiniere di scorta, «perché non si fa la security clearence per gli ospiti» — era sulla prima macchina, guidata da Milambo, insieme a Nzabandora; nella seconda c’erano Attanasio, Iacovacci, Leone e l’autista. Nessuno si è preoccupato delle moto che seguivano gli equipaggi che, trascorsa circa mezz’ora, li hanno superati. Poco dopo sono sbucate dalla foresta sei persone armate di kalashnikov e machete, sparando in aria e bloccando il convoglio. «Ci hanno intimato di consegnare i soldi — racconta Rwagaza —. Volevano 50.000 dollari, altrimenti ci avrebbero portati via nella foresta e poi avrebbero chiesto un riscatto... Ho detto a Rocco che dovevano cooperare per evitare che fossimo sparati».

Lo scontro a fuoco

Rocco Leone: «Ho dato tutto quello che avevo, 300-400 dollari e il mio telefonino. Anche l’ambasciatore ha cominciato a togliersi le cose che aveva indosso, sicuramente il portafogli e forse l’orologio». Poi gli assalitori hanno cominciato a spingere gli ostaggi verso il bosco: «Ho detto a Iacovacci di stare calmo e di non prendere la pistola, forse gliel’ha detto anche l’ambasciatore». All’inizio del cammino ci sono stati altri spari, che hanno ucciso Milambo e ferito Rwagaza a una mano. Rocco Leone, l’ultimo della fila, è caduto a terra, i rapitori l’hanno lasciato lì ed è riuscito a tornare indietro: «Ho visto un uomo in tenuta militare, gli ho chiesto di chiamare aiuto ma non l’ha fatto perché non aveva credito sul telefonino». Percorsi un paio di chilometri, i banditi e gli ostaggi sono stati sorpresi dal fuoco di militari e guardaparco, arrivati da nord-est. Mansour Rwagaza: «Il conflitto a fuoco è durato almeno cinque minuti, poi c’è stato un minuto di silenzio e lì è successo il peggio. Il carabiniere si è alzato e ha provato a sollevare l’ambasciatore dalla cintura, a quel punto è stato colpito a un braccio e al fianco sinistro... Ho visto chiaramente che gli assalitori sparavano contro la guardia del corpo e l’ambasciatore, hanno tirato quattro colpi contro di loro... Ho sentito una forte espirazione, credo si trattasse delle esalazioni del carabiniere... Sentivo invece l’ambasciatore che mi diceva di essere ferito, mi diceva che non sentiva più i piedi... Mi ha chiesto di avvicinarmi, diceva che stava soffocando».

La corsa in ospedale

I banditi sono riusciti a fuggire, i militari hanno caricato Attanasio e gli altri sui fuoristrada e sono tornati sul luogo dell’agguato, dove hanno incontrato Leone: «Ho visto Mansour seduto su una camionetta militare tenere l’ambasciatore in braccio. Sono salito sulla camionetta, che è partita tutta velocità». Giunti alla base Onu, dotata di un piccolo ospedale, Attanasio è stato portato in sala operatoria: «Abbiamo atteso dieci minuti o un quarto d’ora, finché il medico responsabile ci ha detto che non c’era speranza per l’ambasciatore». A un anno di distanza, le autorità congolesi hanno arrestato sette presunti sequestratori, che avrebbero confessato confermando nella sostanza la versione delle vittime superstiti dell’agguato. Agevolato, secondo l’accusa degli inquirenti italiani, dal mancato rispetto delle procedure per l’organizzazione della missione. Che Attanasio e Iacovacci stavano vivendo con entusiasmo, come confermato dall’ultima conversazione del carabiniere col suo collega Arilli: «Mi ha detto che era contento, e che grazie all’ambasciatore gli era stata regalata una maschera artigianale».

Zakia Seddiki, la moglie di Luca Attanasio: «È ancora con me». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.  

Un anno dopo l’agguato mortale dell’ambasciatore del Congo Luca Attanasio, per ricordarlo la moglie Zakia Seddiki inaugura la Fondazione Mama Sofia in Italia. 

È passato un anno da quell’attentato sanguinario. Luca Attanasio lasciò la sua vita a Kibumba, vicino alla città di Goma, in Congo, dove era stato nominato ambasciatore. Aveva 43 anni. E lei, la moglie Zakia Seddiki, lo ha voluto ricordare proprio oggi con una partita di calcio con la Nazionale cantanti, nel paese dove Luca Attanasio era nato, Limbiate, provincia di Monza e Brianza. E poi con un nuovo avvio della sua Fondazione. «In memoria di Luca la Fondazione Mama Sofia da oggi opererà anche in Italia. Porterà avanti anche qui i valori di Luca». 

Di cosa si occupa Mama Sofia?

«È nata per seguire i bambini di strada, in Congo, l’ultimo Paese dove Luca ha lavorato. Si occupava principalmente di dare loro istruzione e formazione». 

E poi?

«Abbiamo allargato i progetti, con una rete in Congo di 14 organizzazioni impegnate nei diritti dell’infanzia. È stato Luca che ha creato questa rete». 

Anche Luca era impegnato nella Fondazione Mama Sofia?

« Lui la seguiva molto da vicino. Era un ambasciatore diplomatico, sì, ma soprattutto umano». 

Avete già progetti italiani in programma?

«Sì. E ci occuperemo delle persone che soffrono, non soltanto di bambini. Ad esempio siamo stati contattati da Rita, una donna disabile siciliana. Lavoreremo perché possa vedere rispettati tutti i suoi diritti. Studiare, muoversi come gli altri, anche un aiuto psicologico». 

Impegni e progetti molto importanti, utili a sostenere la mancanza di Luca, un anno dopo?

«Non sento la mancanza di Luca». 

In che senso?

«Non so come spiegarlo. Luca è ancora con me. Non c’è fisicamente ma è ancora qui. Continua a fare delle cose». 

Che cosa?

«Tutto. Mi sostiene in ogni cosa che faccio. Continua a unire le persone». 

Cosa intende?

«Unire le persone, come nella rete del Congo: è stato Luca a crearla. Adesso è rimasta unita». 

Lei ha tre bambine piccole, come vivono la mancanza del padre?

«Vivono una mancanza fisica. Ma il padre c’è sempre». 

Cosa vuole dire?

«A casa nostra tutti i giorni si parla di Luca. Questo aiuterà le bambine a superare la mancanza fisica del padre». 

È vero che il giorno dell’attentato lei avrebbe dovuto essere con suo marito?

«Sì, lo seguivo spesso nelle sue missioni». 

E invece?

«Invece nei giorni della missione del Pam (Programma alimentare mondiale, ndr) mia madre aveva dovuto fare un viaggio in Marocco. E io sono rimasta a casa con loro. Non avevo mai lasciato le bambine da sole con le tate». 

E non lo ha fatto nemmeno quella volta?

«No». 

Un segnale?

«Già. Adesso loro hanno me». 

Dopo l’attentato lei si è trasferita a Roma.

«Sì, era quello che avremmo voluto fare con Luca per il futuro delle bambine». 

E adesso tornerà in Congo per seguire il progetto di Mama Sofia?

«È troppo presto».

A Roma la fondazione ha una collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio?

«In realtà la collaborazione con loro è cominciata in Congo, con quei progetti che adesso dovranno andare avanti. Ma qui in Italia sicuramente ne faremo altri insieme con la Comunità di Sant’Egidio». 

Lei è musulmana nata in Marocco, Luca era italiano ed era cattolico. Avete mai avuto problemi per la differenza tra le vostre religioni?

«No, non è stato mai importante. Avevamo un rapporto che andava oltre la religione. C’è un essere sopra di noi che ognuno può chiamare come vuole. Allah, Dio. Cosa cambia?». 

Adesso sopra di lei c’è anche Luca...

«Che mi aiuta e mi sostiene ogni giorno».

"Arrestati in Congo gli assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio". Francesca Galici il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Svolta nelle indagini per la morte di Luca Attanasio in Congo: arrestate due persone ritenute responsabili della morte del diplomatico.

La polizia del Nord Kivu, in Congo, ha annunciato che sono stati arrestati i presunti assassini del diplomatico Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Iacovacci e all'autista del Pam Mustafa Milambo, assassinati lo scorso 22 febbraio. Sul web circolano alcuni video che li mostrano negli istanti subito successivo all'arresto, con le manette ai polsti e seduti per terra, circondati dagli agenti armati.

Sono in 6 e sono stati indicati dal comandante della polizia della provincia orientale del Paese, Aba Van Ang, come membri di "tre gruppi di criminali che hanno insanguinato Goma". Il comandante aggiunge anche: "Tra loro, il gruppo che ha attaccato il convoglio dell'ambasciatore". Tuttavia, nel gruppo non ci sarebbe l'uomo che ha materialmente premuto il grilletto per uccidere Luca Attanasio, il carabiniere di scorta e il suo autista. Lui risponderebbe al nome di Aspirant ma "è ancora in fuga", ha aggiunto Aba Van Ang.

Le operazioni non si concludono qui ma proseguiranno nei prossimi giorni anche con l'obiettivo di catturarlo. Il comandante assicura: "Sappiamo dove si trova e speriamo di trovarlo". Ovviamente, per non tradire il vantaggio acquisito, il comandante non ha rivelato i dettagli dell'operazione, tuttavia è stato riferito che il gruppo avrebbe inizialmente voluto solo rapire l'ambasciatore per poi chiedere un riscatto da un milione di dollari. Ma quando 'Aspirant' ha sparato all'ambasciatore in fuga, uccidendolo, hanno necessariamente dovuto cambiare i loro piani.

Al momento dell'agguato, Luca Attanasio era in missione fuori da Goma con il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite che avrebbe dovuto garantirne la sicurezza. Appena pochi giorni fa il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, aveva scritto al Pam chiedendo "la massima collaborazione con la magistratura italiana" per contribuire a far luce sull'uccisione di Attanasio, Iacovacci e Milambo. Inoltre, Inside Over ha recentemente lanciato un reportage in Congo per cercare, e raccontare, la verità dietro la morte di Luca Attanasio.

Insieme al gruppo in cui ci sarebbero gli assassini di Luca Attanasio, inoltre, sono stati arrestati gli appartenenti di due gruppi, chiamati Bahari e Balume, ritenuti responsabili di diversi omicidi e di attacchi a scopo di rapina.

Sono tre le indagini aperte in merito alla morte del diplomatico italiano. L'ipotesi privilegiata dagli inquirenti è quella del conflitto a fuoco seguito a un tentativo di rapimento. Attanasio e Iacovacci morirono durante una sparatoria tra i sei assalitori e i ranger del parco, intervenuti dopo aver sentito i colpi esplosi per bloccare il convoglio. Nel momento in cui la pattuglia intimò agli assalitori di abbassare le armi, questi ultimi avrebbero aperto il fuoco contro il militare dell'Arma dei carabinieri, uccidendolo, e contro l'ambasciatore italiano, ferendolo gravemente.

I pubblici ministeri italiani hanno contestato i reati di omesse cautele in relazione al delitto, in base agli articoli 40 e 589 del codice penale, e hanno indagato Mansour Rwagaza, funzionario congolese del Wfp responsabile della sicurezza del convoglio con cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

L'annuncio della polizia locale non confermato dalle autorità centrali. Omicidio dell’ambasciatore Attanasio, arrestati presunti assassini: “Volevano un riscatto da un milione di dollari”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Gennaio 2022.  

La polizia congolese ha annunciato in una conferenza stampa di aver arrestato alcuni dei presunti assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio. Il diplomatico venne ucciso in un agguato, nella Repubblica Democratica del Congo, il 22 febbraio 2021 con il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista Mustapha Milambo. Sul caso sono aperte tre inchieste. Della conferenza stampa hanno scritto sui social i corrispondenti Justin Kabumba, France24 e A, e Stanis Bujakera Tshiamala, Reuters e Dpa.

I tweet dei giornalisti mostrano foto e video dei presunti assassini consegnati al governo militare del Nord Kivu. Al momento non ci sono però conferme da parte delle autorità centrali congolesi. Sei gli arresti. “Ecco i colpevoli dell’uccisione dell’ambasciatore italiano. Volevano rapirlo. E chiedere un milione di dollari di riscatto”, le parole della polizia. “Signor governatore — proclama il comandante di polizia del Nord Kivu, il generale Aba Van Ang – , vi consegno tre gruppi di criminali che hanno portato il lutto nella città di Goma. Fra di loro, c’è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell’ambasciatore”.

Tutti ammanettati i presunti assassini, quattro scalzi, seduti sul prato della caserma di Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu al confine col Ruanda. Di fronte a loro giornalisti, fotografi e operatori. L’uomo che avrebbe esploso i colpi tuttavia non c’è: è un membro di una banda detta “Aspirant” ed è in fuga, anche se gli agenti dicono di sapere dove si trova e che gli stanno dando la caccia. Quelli in manette sono i suoi complici, uomini di altre due bande criminali, i Bahati e i Balume. Le indagini sono arrivate ai tre gruppi dopo l’omicidio di un uomo d’affari, Simba Ngezayo, lo scorso novembre.

Attanasio, Iacovacci e Milambo furono uccisi in un agguato sulla strada tra Goma e Rutshuru, ai confini del parco nazionale dei Virunga, patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1979, nella provincia del Nord-Kivu, al confine con il Ruanda, storicamente instabile e territorio della cosiddetta Guerra Mondiale Africana. “Inizialmente, non era loro intenzione uccidere Attanasio – ha detto il giornalista Justin Kabumba di France 24, riferendo le parole della polizia – avevano programmato di rapirlo per chiedere un riscatto di un milione di dollari. Le cose sono andate male, il piano è fallito e i rapitori hanno subito ucciso l’ambasciatore”.

Secondo il giornalista solo due dei sei arrestati sono presunti assassini di Attanasio, uno avrebbe confessato”. Dopo l’imboscata si scatenò un conflitto a fuoco tra gli assalitori e le guardie del parco intervenute dopo aver sentito i colpi. Attanasio aveva una moglie, Zadia Seddiki, e tre figlie. Sul caso sono aperte tre indagini: quella del Dipartimento per la sicurezza delle Nazioni Unite, quella delle autorità italiane e quella delle autorità congolesi.

Erano già circolate notizie di arresti, in diverse occasioni, senza però riscontri che avevano lasciato ombre sulla dinamica dei fatti e le responsabilità. Si è parlato molto della mancanza di un’adeguata protezione armata al convoglio in un’area attraversata da bande, miliziani e jihadisti. I pubblici ministeri italiani hanno contestato i reati di omesse cautele in relazione al delitto, in base agli articoli 40 e 589 del codice penale, e hanno indagato Mansour Rwagaza, funzionario congolese del World Food Programme (Wfp) responsabile della sicurezza del convoglio con cui viaggiavano Attanasio e Iacovacci. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Il padre di Attanasio: «Gli arresti soltanto una messinscena, la chiave è il silenzio dell’Onu». Francesco Battistini su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.

I genitori dell’ambasciatore ucciso in Congo: vogliamo i mandanti.  

Si chiamano Bahati Kibobo e Balume Bakulu. Sono molto giovani. Scalzi, ammanettati, martedì li hanno fatti sedere assieme ad altri quattro su un prato del comando di polizia di Goma, mostrati come un trofeo. «Eccoli, gli assassini dell’ambasciatore italiano Luca Attanasio», ha proclamato sicuro il generale Aba Van Ang Xavier, il comandante provinciale del Nord Kivu. Kibobo e Bakulu non sarebbero due criminali qualsiasi. Secondo il generale, sono miliziani ribelli dell’M23: il Movimento 23 Marzo che dal 2009 combatte il governo e i caschi blu dell’Onu, «pagato dal Ruanda e dall’Uganda», terrorizzando il Nord Kivu con attentati e sequestri. In passato, raccontano, l’M23 ha già rapito operatori di Medici senza Frontiere e della Croce Rossa internazionale. Nel parco di Virunga, ha anche sequestrato e ucciso un turista inglese e una guardia forestale. «Kibobo e Bakulu rispondevano agli ordini d’un capo, soprannominato Aspirant, che è riuscito a fuggire e che stiamo ricercando». Il loro piano sarebbe stato di prendere vivi Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci che lo scortava, per chiedere un riscatto d’un milione di dollari: «Non sapevano che si trattasse d’un diplomatico, loro cercavano solo dei bianchi». 

Qualcosa però sarebbe andato storto, qualcuno del gruppo di Aspirant avrebbe sparato agli ostaggi, violando le consegne e «facendo arrabbiare gli altri». Il caso è risolto? «Kibobo e Bakulu hanno confessato dopo una serie d’interrogatori». Al momento, ci credono in pochi. Nessuno ha letto i verbali, non è stata presentata alcun’altra prova. Tace il presidente Felix Tshisekedi, ammutolito il governo. E di questa «svolta» nelle indagini sembra non fidarsi nemmeno il governatore militare della regione, Sylvain Ekenge, che ha chiesto ulteriori approfondimenti. Figurarsi gl’italiani: l’ambasciata a Kinshasa non ne sapeva niente, e meno ancora la Procura di Roma che da mesi trova un muro di silenzi e cerca (inutilmente) d’inviare in Congo i Ros. A Limbiate, hinterland monzese, davanti alla villetta di famiglia è scettico anche Salvatore Attanasio, il papà di Luca: «Ha i nomi degli arrestati? Me li risparmi, grazie. Non m’interessano. Non è la prima volta che arrivano notizie del genere, è successo anche a marzo e poi s’è rivelato tutto una farsa. Io sono come San Tommaso, non credo a questa storia finché non la certificano le autorità italiane. In autunno siamo stati dagli inquirenti a Roma, ogni tanto sento i Ros che mi tengono aggiornato sulle novità. Ho parlato stamane con un ambasciatore amico di Luca ed era d’accordo: sembra solo una messinscena per mettere a tacere tutto. Aria fritta. Forse in questi mesi c’è stata qualche pressione del governo italiano e in Congo hanno pensato di fare questa mossa. Ma io voglio i mandanti, non solo gli esecutori».

Quali mandanti? «Se non è stato un incidente, se è stato un agguato pianificato e non una rapina, sono troppi i dubbi. Se cercavano i bianchi, nel convoglio ce n’erano tre: perché ne hanno uccisi solo due? Luca poi ha ricevuto tre proiettili in pancia, Iacovacci uno al collo mentre cercava di proteggerlo: chi scappa da un agguato però viene colpito alle spalle, non davanti». Per gli Attanasio, la chiave è il silenzio del Pam, il Programma alimentare mondiale che aveva organizzato il convoglio: «Chi era coinvolto a qualche titolo nella vicenda, congolese o italiano, è stato mandato via dal Congo. Sparpagliato in altri Paesi. Anche Rocco Leone, il funzionario sopravvissuto alla sparatoria: dopo l’agguato, non s’è mai fatto vivo con noi. Ed è sparito, penso sia in Italia. Non sappiamo più nulla. Non si sono mai fatti vivi nemmeno con la moglie di Luca. E allora dico che il Pam dovrebbe spiegare tante cose: doveva provvedere alla sicurezza, perché non lo fece? Doveva comunicare ai caschi blu la presenza dell’ambasciatore, e non l’ha fatto. E sa perché? Se l’avesse fatto, non ci sarebbe stato il tempo materiale d’organizzare una scorta e i caschi blu non avrebbero dato l’ok al viaggio. Un missionario saveriano, padre Rinaldi, m’ha raccontato che Luca era molto attento alla sicurezza, quando andava nel Nord Kivu. Conosceva i rischi, e infatti prima d’ogni trasferta c’era una scorta armata. La sera prima del viaggio, a cena, Luca era molto preoccupato e chiedeva continuamente delle misure di sicurezza: quelli del Pam gli rispondevano di star tranquillo, la strada era sicura. Invece non c’era nessuno, a scortarli. Perché? Lo stesso Rocco Leone non poteva non conoscere i protocolli di sicurezza: perché non ha annullato il viaggio? O era un totale incompetente, e allora non doveva stare lì, oppure dovrebbe spiegare. Il Pam sta a Roma, i pm vorrebbero sentire la loro versione, ma i funzionari si sono appellati all’immunità e avvalsi della facoltà di non rispondere. Non collaborano in nulla. Non spiegano nulla. E’ una vergogna. Anche Di Maio è indignato e David Sassoli, prima di Natale, si stava interessando della cosa: va bene indagare il funzionario congolese del Pam, ma qui devono uscire le responsabilità pure dei vertici».

Difficile sopravvivere a un figlio, sempre. A un figlio come Luca Attanasio, «è durissima»: «S’immagini che Natale è stato, per noi. Fra qualche settimana è il 22 febbraio, l’anniversario, uscirà un libro, a Limbiate ci saranno eventi. Gli hanno intitolato la casa di riposo, una villa comunale. Riceviamo ancora lettere, lacrime, testimonianze dal Congo di tutto quel che faceva Luca».

Milano s’è dimenticata di lui, a dicembre, alla cerimonia degli Ambrogini d’oro… «Il problema non è dargli un Ambrogino, il sindaco Sala m’ha detto che farà qualcosa. Il punto è la sua memoria, da tenere viva. Lui ha mostrato al mondo la vera italianità, ha detto Mattarella, ed è vero: coniugava diplomazia e umanità, stava coi re e con gli ultimi, fin da ragazzino passava il tempo a impegnarsi nell’oratorio, ad aiutare gli anziani. Quando andavamo a trovarlo in Africa, c’erano i bambini di strada che l’aspettavano, lo amavano, lo chiamavano: ‘Monsieur l’Ambassadeur!’… Quel che dovrebbe essere un vero diplomatico. Tutto questo un po’ ci consola. Ma è durissima. Specie per mia nuora e le tre bambine, a Roma. E’ difficile spiegare la morte ai bambini. La più grande ha 5 anni, qualcosa ha capito. Ogni tanto si siede a tavola e chiede: a che ora arriva, papà?». 

L’ingegner Salvatore è stanco, ma sa che «la verità alla fine emergerà, questo è diverso dal caso Regeni: là c’era un ragazzo lasciato solo, qui c’era un ambasciatore che in quel momento rappresentava l’Italia. E l’Italia non può far finta di nulla». Vorrebbe solo «un po’ di schiena dritta: chi ammazza un ambasciatore in missione ufficiale, è come se ammazzasse il Presidente della Repubblica. Colpisce il nostro Stato. E non si può andare cauti solo perché c’è di mezzo l’Onu. L’avessero fatto a un diplomatico francese, americano o israeliano, stia sicuro, in Congo non sarebbe rimasto in piedi neanche un albero».

Il giallo dei killer di Attanasio. Tempi sospetti e niente prove. Fausto Biloslavo il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La cattura della banda non convince nessuno. Il papà del diplomatico teme la farsa: "Arresti di valore zero".  

Sei individui ammanettati e scalzi scortati da agenti con il dito sul grilletto per rendere la scena ad effetto. Il generale Aba Van Ang Xavier, comandante della polizia del Nord Kivu, nel Congo orientale, annuncia solennemente: «Fra di loro c'è anche il gruppo che ha attaccato il convoglio dell'ambasciatore» italiano Luca Attanasio. Il 22 febbraio dello scorso anno il nostro diplomatico è stato ucciso in un agguato assieme al carabiniere di scorta, Vittorio Iacovacci e l'autista del Programma alimentare mondiale Mustapha Milambo. L'obiettivo dei banditi sarebbe stato sequestrare il diplomatico e chiedere un milione di dollari di riscatto. Una notizia bomba per l'Italia, ma da prendere con la dovuta cautela. Poco dopo l'imboscata della morte erano già stati arrestati dei presunti assassini, ma poi si è scoperto che si trattava di uno scambio di persone. La tempistica è almeno sospetta. Il Congo non ha collaborato fino in fondo con i nostri inquirenti ostacolando le missioni dei carabinieri del Ros. E adesso che si attende la chiusura dell'inchiesta in Italia saltano fuori dei banditi. «Forse non è un depistaggio, ma solo la volontà di fare bella figura. Per ora direi che sono più che presunti responsabili» dichiara al Giornale una fonte che ha operato a Kinshasa e conosceva il carabiniere ucciso con l'ambasciatore.

I sei arrestati sono affiliati a tre bande criminali che operano nel Nord Kivu specializzate in sequestri. I due che avrebbero partecipato all'imboscata all'ambasciatore italiano fanno parte della gang «Balume Bakulu». Il loro capo Aspirant avrebbe sparato all'ambasciatore quando si è reso conto che non riusciva a portarselo via per l'intervento dei ranger del parco Virunga. Ma ancora non è chiaro da quale arma siano partiti i proiettili che hanno ucciso Attanasio e Iacovacci.

Aspirant è in fuga, ma la polizia spera «di trovarlo» sostenendo di sapere «dove si trova». Il governatore militare della regione, generale Ndima Constant, chiede «tempo per scavare ulteriormente in direzione di prove confermate». La svolta è arrivata grazie alle indagini sull'omicidio a novembre di Simba Ngezayo, un uomo d'affari locale. Non è drammatico come il depistaggio messo in piedi dagli egiziani sul caso Regeni, che hanno fatto fuori in un blitz dei banditi accusandoli della terribile fine di Regeni. Però non è stata fornita alcuna prova concreta, per ora, sui presunti assalitori del convoglio di Attanasio.

Il padre dell'ambasciatore ha pochi peli sulla lingua: «Non è la prima volta che dal Congo arrivano notizie del genere che poi si rivelano essere una farsa. Per cui non vorrei fare alcun commento sugli arresti prima che le nostre autorità abbiamo controllato e certificato l'operato della polizia congolese. Fino ad allora per noi famigliari questi arresti non contano nulla».

La procura di Roma, che ha già chiesto due rogatorie, si sta muovendo per acquisire i verbali «ed elementi che permettano la verifica e una attenta valutazione delle novità investigative che provengono dal Congo». L'obiettivo è far partire il prima possibile i carabinieri dei Ros che potrebbero anche interrogare i sospettati.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace.

"Il mio Vittorio ucciso in Congo. Non accetterò zone d'ombra". Fausto Biloslavo il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale. La fidanzata del militare morto per difendere Attanasio: "Ha fatto bene il suo dovere, sono orgogliosa di lui".

«Vittorio ha fatto bene il suo dovere. È il mio orgoglio. Sono fiera di lui, ma non possiamo permettere di perdere così, in questo modo, dei rappresentanti dello Stato». Le parole della promessa sposa, Domenica Benedetto, 29 anni, sono commoventi e coraggiose. Il suo amore, Vittorio Iacovacci, carabiniere di scorta, è stato ucciso in un agguato il 22 febbraio dello scorso anno in Congo assieme all'ambasciatore che proteggeva, Luca Attanasio e all'autista congolese Mustafa Milambo.

Un anno dopo l'agguato vicino a Goma le indagini dovrebbero chiudersi a breve. Cosa si aspetta?

«Con la sua famiglia vogliamo giustizia e chiarezza. Ho fiducia in chi sta portando avanti l'inchiesta. Non voglio neanche pensare che restino delle zone d'ombre in una storia del genere, dove lo Stato italiano è stato direttamente colpito».

Il responsabile della sicurezza del convoglio del Programma alimentare mondiale è indagato. L'Onu ha delle responsabilità?

«Sicuramente qualcosa non ha funzionato. È un dato di fatto. Spero che si possa fare luce con la chiusura delle indagini. Anche se la vedo dura: si parla di immunità (per i funzionari del Pam coinvolti) e il Congo non collabora. Chiediamo giustizia per Vittorio, Luca, l'autista e per tutta l'Italia in maniera tale che non si verifichino più situazioni del genere».

È stato sottovalutato il pericolo?

«Vittorio non lasciava nulla al caso e ha lavorato tanto per quella missione. Aveva sentito anche un collega che c'era già stato sullo stesso tragitto tempo prima. L'ambasciatore non era un incosciente e si è fidato del Pam».

Quando ha sentito l'ultima volta il suo fidanzato?

«Due ore prima dell'agguato da Goma, sul lago, ed era tranquillo, come al solito. Il 22 febbraio stavo lavorando e verso le 11 ho cominciato a leggere sul telefonino le prime notizie dell'ambasciatore d'Italia ferito. Lo conoscevo troppo bene e ho capito subito: Vittorio non avrebbe mai permesso che colpissero Attanasio. Piuttosto si sacrificava, altrimenti non se lo sarebbe mai perdonato. Aveva solo il suo corpo l'unica forma di difesa e l'ha usato come uno scudo per proteggere l'ambasciatore».

Si è fatta un'idea sul motivo dell'agguato e su chi siano gli assassini?

«Di sicuro sono stati attaccati dai terroristi, ma poi i ranger (del vicino parco Virunga) sono intervenuti ed è tutta gente che spara cosìnel mucchio. Chissà da chi sono partiti i colpi che hanno ucciso Vittorio e l'ambasciatore. È tutto confuso e il fatto che in Congo non ci lascino indagare fino in fondo la dice lunga».

Vittorio le raccontava qualcosa delle difficoltà delle missione?

«Del lavoro parlava poco. Mi diceva che il Congo è bello, ma non tutto era rose e fiori. Non entrava nei dettagli e non ha mai detto che la protezione fosse insufficiente. Una volta si è lamentato delle guardie locali che si addormentavano spesso. Allora ha insegnato loro a usare la moka per fare il caffè italiano».

Come vi siete conosciuti?

«Nel 2015 a Firenze quando studiavo. Una serata come tante, in discoteca. Lui era più insistente di altri e quindi siamo usciti a prendere un caffè. Allora era in servizio come paracadutista nella Folgore impiegato nell'operazione Strade sicure. È stato così strano e così bello. Sembrava che ci conoscessimo da una vita. Talvolta gli dicevo: Ma dove sei stato fino adesso?».

Avevate fissato le nozze?

«Volevamo sposarci, anche se non era ancora stata decisa la data. Mi stavo preparando al suo rientro dal Congo: Mancavano solo 15 giorni. La casa che avevamo messo su assieme, con tanto entusiasmo, era quasi pronta. In giardino Vittorio aveva voluto un pennone di otto metri per fare sventolare il Tricolore».

Cosa prova un anno dopo?

«Quando incontri una persona rara è impossibile dimenticarla e non voglio. Mi sembra sia successo ieri. Il tempo non ha aiutato a lenire il dolore».

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerr

"Attanasio? Morire per il Paese non merita meno rispetto". Gian Micalessin il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'ex sottosegretario alla Difesa: "Ora si pretenda la verità per Luca come per Regeni".

«L'indifferenza per l'uccisione in Congo dell'ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vittorio Iacovacci mi colpisce. Sembra quasi che morire servendo il proprio paese meriti meno rispetto».

L'ex sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto commenta così le parole di Salvatore Attanasio, padre del diplomatico ucciso, che denuncia il «silenzio tombale» sull'assassinio del figlio. «È evidente che quella vicenda - dichiara Crosetto in questa intervista a il Giornale - non suscita l'interesse riscontrato nei casi di Giulio Regeni o Patrick Zaki. Per questo non sentiamo politici, giornalisti o attivisti pretendere la verità su quanto successo o sul perché è successo. Questo colpisce perché la pietà non deve conoscere pregiudizi. E non devono esserci preferenze nell'invocare la verità. Chi s'indigna per la morte di Giulio Regeni, deve pretendere la verità anche per Luca Attanasio o per il dottorando Davide Giri accoltellato a morte a New York a dicembre».

Da Fabrizio Quattrocchi fino ad Attanasio e Giri c'è una sequela di morti classificate di serie B...

«Più che di classificazione parlerei di cinismo nell'utilizzo delle tragedie. Trattare pregiudizialmente i morti in base all'ideologia è molto brutto. Ancor peggio è celebrare e ricordare solo le vicende funzionali a trasferire una certa immagine della realtà. Chi è funzionale a quel disegno viene celebrato e diventa un morto di serie A. Chi non lo è passa in serie B e viene dimenticato».

Anche le disgrazie sono, insomma, funzionali ad una certa ideologia?

«Assolutamente. Dell'imprenditore veneto Marco Zennaro, prigioniero da mesi in Sudan, si è parlato molto poco. È stato dimenticato e abbandonato pur essendo un italiano trattenuto ingiustamente all'estero. Al contrario si è parlato tantissimo di un Patrick Zaki che, pur essendo una vittima, è un cittadino egiziano trattenuto in Egitto».

Dunque anche morti e ingiustizie rispondono al filtro del politicamente corretto?

«Certo, pensiamo alla vicenda di Giri. Il racconto del suo assassinio a New York per mano di un esponente d'una gang di colore andava contro il politicamente corretto. Per questo è stato ignorato e ridimensionato. Una vergogna perché bisogna avere la forza e il coraggio di scandalizzarsi per tutte le morti, non solo per quelle che fanno comodo. Il main stream, o meglio l'opinione corrente, cerca invece di farci vedere solo la realtà che risponde ai principi d'acclamare e celebrare. In quel teatrino la verità non conta, vite e morti si valutano solo attraverso le lenti dell'ideologia».

Torniamo al caso Attanasio. Il governo sta facendo abbastanza?

«Per quanto ne so governo, magistratura e Ros stanno facendo il possibile in una situazione resa particolarmente difficile dalla situazione conflittuale di quella regione del Congo. Farnesina, Carabinieri e Stato italiano stanno facendo di tutto per accertare la verità. Anche se questa è assai scomoda per il Pam (Programma alimentare mondiale)».

In che senso?

«Nel senso che il governo ha assunto una posizione molto dura sul tema dell'immunità diplomatica richiesta dal Pam, spiegando all'Onu che sarà la nostra magistratura a valutarla. Quindi ha respinto le tesi rivolte a impedire indagini approfondite».

Riusciremo a punire gli eventuali responsabili?

«Se le responsabilità verranno provate dovremo evitare che i responsabili ne escano impuniti come successe con i due aviatori americani responsabili della tragedia della funivia del Cermis. Dobbiamo imparare a comportarci come farebbero gli americani al nostro posto».

L'Onu riceve fondi dall'Italia. Ma tace sul caso Attanasio. Gian Micalessin l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il Pam continua a non rispondere alle domande dei pm. Dalla Ue ha preso quasi 2 miliardi nel 2020.

L'Italia nel 2021 le ha devoluto 60milioni 60mila 686 dollari. L'Unione Europea, Italia compresa, le ha allungato, nel 2020, un miliardo e 980 milioni di euro. Soldi in teoria ben spesi visto che il Pam (Programma Alimentare Mondiale) è un'agenzia dell'Onu che dona e trasporta cibo là dove guerre e carestie mettono a rischio intere popolazioni. Il problema è che a fronte della generosità del nostro paese e di un Unione Europea di cui siamo quarti contributori, il Pam contrappone un'omertosa chiusura sul fronte delle indagini riguardanti la morte dell'ambasciatore Luca Attanasio, del carabiniere Vittorio Jacovacci e dell'autista Mustapha Milambo uccisi mentre viaggiavano con l'organizzazione nella regione congolese del Kivu.

L'evidente contraddizione è evidenziata in una mozione degli eurodeputati di Fratelli d'Italia indirizzata all'Alto Rappresentante dell'Unione Europea Josep Borrel. Ora è chiaro dall'Ue, come si capì già ai tempi della questione dei marò detenuti in India, c'è da aspettarsi assai poco. Per contro c'è molto da riflettere sull'ambiguità di un'agenzia Onu che pur di trasformare un diplomatico in «testimonial» del proprio operato trascura e omette le più elementari norme di sicurezza portandolo di fatto alla morte assieme ad altre due persone.

Perché questo è il punto. Lo scorso febbraio Luca Attanasio, diplomatico giovane e generoso, intendeva approfittare d'una visita nel Kivu per visitare una scuola trasformata dal Pam in un centro di distribuzione alimentare. La disponibilità e la testimonianza del diplomatico rappresentavano la chiave per favorire i finanziamenti necessari all'apertura di un altro centro. Per effettuare la visita bisognava però attraversare una zona a rischio interessata in quei giorni da uno stato d'allerta. L'unico modo per farlo in sicurezza era chiedere una nutrita scorta di «caschi blu» della missione Monusco. Menzionare la presenza di un diplomatico straniero e di un carabiniere significava rischiare, però, che i vertici Monusco considerassero l'escursione troppo azzardata negando scorta e autorizzazione. Un problema che sembrerebbe esser stato risolto alterando i documenti così da nascondere alla Monusco la presenza dell'ambasciatore Attanasio e del carabiniere Iacovacci. Un'omissione che il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco, responsabile dell'inchiesta, vorrebbe verificare interrogando Mansour Rwagaza, il responsabile della sicurezza del Pam già indagato con l'accusa di omicidio colposo per omessa cautela, e l'italiano Rocco Leone al tempo vice-direttore del Pam in Congo. Due testimonianze preziose perché entrambi i funzionari del Pam viaggiavano con Attanasio e sono sopravvissuti all'imboscata.

Ma le legittime richieste del magistrato si scontrano con le barriere legali frapposte da un Pam deciso a rivendicare l'immunità diplomatica per i propri funzionari e nasconderne così le eventuali responsabilità. Una posizione sostenuta anche dopo la lettera del ministro degli Esteri Luigi Di Maio che chiede al direttore del Pam «la massima collaborazione con la magistratura italiana» e «una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso». Una posizione inaccettabile per un'agenzia Onu che, ha sede su un colle di Roma e lavora grazie ai finanziamenti di Italia ed Unione Europea. 

Gian Micalessin. Sono giornalista di guerra dal 1983, quando fondo – con Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo – l’Albatross Press Agency e inizio la mia carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. Da allora ho raccontato più di 40 conflitti dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria passando per le guerre della Ex Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa edell’America centrale. Oltre agli articoli per “Il Giornale” – per cui lavoro dal 1988 – ho scritto per le più importanti testate nazionali ed internazionali (Panorama, Corriere della Sera,Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review). Sono anche documentarista ed autore televisivo. I miei reportage e documentari sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali (Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv). Ho diretto i video giornalisti di “SeiMilano” la tv che ha lanciato il videogiornalismo in Italia. Ho lavorato come autore e regista alle prime puntate de “La Macchina del Tempo” di Mediaset. Ho lavorato come autore di “Pianeta7”, un programma di reportage esteri de “La 7”. Nel 2011 ho vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia. Nel 2012 ho vinto il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano.

La strada della morte. Lorenzo Vita su Inside Over il 9 gennaio 2022.

“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.

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Una strada nella giungla, nella parte più orientale della Repubblica Democratica del Congo. È lì che hanno perso la vita l’ambasciatore italiano Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del convoglio, Mustapha Milambo. Uccisi in un agguato vicino al villaggio di Kibumba mentre insieme ai mezzi del World Food Program si recavano da Goma a Rutshuru.

Il primo rapporto dell’intelligence ha riferito che l’attacco è avvenuto in una zona chiamata “delle tre antenne”. L’area è considerata ad alto rischio da diversi anni, in particolare da quando furono infatti rapiti due cittadini britannici nel 2018. E le cose non sono certo cambiate nell’arco degli ultimi anni, in cui il Congo democratico è stato dilaniato da guerre intestine che hanno sconvolto la vita di migliaia di abitanti e di persone che lavorano per dare al Paese un destino migliore. Anche il territorio vicino al luogo dell’uccisione di Luca Attanasio, il Parco di Virunga, è una regione in cui le milizie sfruttano la fitta vegetazione e l’insieme di rifugi naturali per trasformarla in una sorta di Tortuga del terrore. E tra contrabbando di preziose materie prime, rapimenti con richiesta i riscatti e terrorismo di matrice etnica o religiosa, non esiste un’area di quella parte di Congo in cui non sia stato versato del sangue.

La strada RN2, una lunga via che collega diverse zone della parte orientale della Repubblica democratica del Congo, si presta perfettamente a essere teatro di assalti e rapimenti. Le bande armate, se devono nascondersi, sfruttano, le foreste e le aree più profonde del parco di Virunga (dove non a caso hanno scatenato una lunga e sanguinosa guerra anche contro i ranger). Ma quando si tratta di colpire chi si addentra in quella regione ed è un obiettivo "appetibile" per i traffici criminali, è sulla strada RN2 che si colpisce. Perché è solo lì che passano le vittime.

Non tutti i tratti di strada sono ugualmente pericolosi. Come ricordava Mario Giro su Il Domani, "si tratta di una strada considerata 'gialla' secondo i gradi di allerta e sicurezza in vigore nell’area", quindi in sostanza non estremamente pericolosa. Ovviamente in base ai parametri di chi si trova a combattere quotidianamente con milizie terroristiche, bande armate, contrabbandieri e gruppi legati a orze straniere che conoscono perfettamente il territorio in cui si snoda quell'asse viario. Ma se non tutti i tratti di strada sono allo stesso modo teatro di agguati, i numeri sono certamente cristallini. Secondo il dossier dei servizi, annotava AdnKronos, "dal 2017, nella parte meridionale del Parco di Virunga (Provincia del Nord Kivu) sono stati registrati circa 1300 incidenti di sicurezza con vittime, oltre 1.280 scontri e quasi 1.000 casi fra sequestri e rapimento ai fini di riscatto".

La tragica conferma della pericolosità di quel tratto di strada RN2 è arrivata poi qualche settimana dopo l'uccisione di Attanasio, quando a pagare con la vita è stato il procuratore militare William Mwilanya Assani. L'uomo, ucciso a circa 20 chilometri dal luogo in cui sono stati assassinati Attanasio, Iacovacci e Milambo, è stato considerato all'inizio come il procuratore che seguiva le indagini sull'agguato contro l'ambasciatore italiano. Tuttavia, alcune fonti hanno ridotto la portata di questa lettura più "retroscenista" negando in realtà il nesso diretto tra i due tragici episodi. Il governatore del Nord Kivu, Carly Nzanzu Kasivita, ha ribadito ad Agenzia Nova che non esistono collegamenti tra i due fatti. Anche Angelo Ferrari, giornalista africanista dell'Agi, ha spiegato che non esistono certezze né sul legame tra le due morti né sul ruolo nelle indagini su Attanasio. E soprattutto se queste abbiano avuto realmente un peso nella scelta dell'uccisione del militare. Il magistrato stava tornando da Goma, dove aveva partecipato ad alcune riunioni sulla sicurezza dell'area, ed era diretto a Rutshuru. Nelle riunioni si era parlato anche del caso Attanasio, tuttavia il generale a capo delle indagini sull'assassinio era Vital Awashango, mentre William Mwilanya Asani era revisore dei conti presso l’ufficio del procuratore militare secondario di Rutshuru, ed era quindi uno dei funzionari impegnati nelle indagini. 

In base alle indagini su questo secondo tragico fatto di sangue, gli indizi hanno condotto verso un gruppo di militari ribelli, il 3416mo reggimento. Tuttavia, sembra che le fonti locali concordino (come riporta Formiche) sul fatto che questi miliziani stessero "infastidendo la popolazione sulla strada e quando hanno visto la jeep militare hanno iniziato a sparare". Una testimonianza che sembrerebbe spegnere le ipotesi sull'omicidio per coprire alcune verità scoperte durante le indagini, ma che conferma invece il tragico nome che circola su quel tratto di RN2: la strada della morte.

Gli ultimi sviluppi sull’agguato contro Luca Attanasio. Mauro Indelicato su Inside Over il 9 gennaio 2022.

“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.

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Baraka Dabu Jackson è un assistente del parco del Virunga, lo stesso percorso dalla route national N2 dove l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ha trovato la morte assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci lo scorso 22 febbraio. Jackson si trovava lì nel giorno dell’agguato. In alcune foto che ritraggono il corpo senza vita del diplomatico all’interno di un furgone, lui spunta con una maglietta rossa. La sua testimonianza, riportata nelle scorse ore dal quotidiano Domani, ha aggiunto nuovi dettagli all’inchiesta. Ma, al contempo, ha aperto nuovi interrogativi. In primo luogo su chi ha ucciso i due italiani e, in secondo luogo, sul perché il convoglio in cui viaggiava Attanasio è stato preso di mira.

Le ultime due testimonianze

Il 22 febbraio a Kibumba era giorno di mercato. Kibumba è il nome del villaggio più vicino al lungo dell’agguato. Si trova lungo la N2 in una zona che i locali riconoscono con il nome “trois antennes” per via della presenza di tre grandi antenne poco lontane. In quella mattinata, il villaggio era un brulicare di persone, tra gente comune, acquirenti e commercianti. Baraka Jackson era alle porte di Kibumba quando, intorno alle 10:15, ha sentito nitidamente colpi di arma da fuoco. Il giovane, assieme ad altri colleghi che lavoravano come assistenti nel parco del Virunga, ha notato quattro persone portate via da uomini ben armati. Questi ultimi, secondo quanto raccontato da Jackson, volevano raggiungere la fitta boscaglia ai lati della N2. Ma sono stati ben presto notati dai Rangers del parco. Ne è nata una colluttazione a fuoco durata almeno 40 minuti. Non era certo la prima volta che gli abitanti di Kibumba si trovavano davanti a una scena del genere. La N2 è tra le strade meno sicure e soprattutto serve una regione, quale quella del North Kivu, che è la più instabile della Repubblica Democratica del Congo. Baraka Jackson però, nell’osservare la scena, si è accordo di un dettaglio di non poco conto. Tra le quattro persone rapite dal gruppo armato erano presenti due bianchi. Si trattava, si è scoperto dopo, proprio di Attanasio e Iacovacci.

Durante il conflitto a fuoco a un certo punto i rapitori hanno sparato ai due italiani. Nella sua testimonianza, Baraka Jackson ha nitidamente descritto la drammatica scena. I rapitori hanno prima sparato contro il carabiniere, mirando alla sua gola, dopo hanno colpito allo stomaco l’ambasciatore. Successivamente sono fuggiti, dileguandosi nella foresta. Trovandosi a poca distanza da lì, Jackson si è diretto verso i due italiani provando a soccorrere Luca Attanasio, esanime ma ancora in vita: “Ho preso in braccio l’ambasciatore – ha dichiarato il ragazzo – per portarlo in strada verso i soccorsi. Ma è morto tra le mie braccia”. La testimonianza confermerebbe un dettaglio emerso già a febbraio dalle autopsie. Iacovacci infatti, secondo i medici che hanno condotto gli esami fatti in Italia, sarebbe morto sul colpo dopo essere stato raggiunto dalle pallottole. Attanasio invece sarebbe deceduto dopo almeno 50 minuti di agonia durante il trasporto in ospedale. Baraka Jackson ha fatto riferimento anche a ulteriori dettagli essenziali per l’indagine. Il primo riguarda l’armamento posseduto dai rapitori. Sarebbe stato ben più potente di quello dei Rangers. Non si trattava quindi di criminali improvvisati, come tra i tanti presenti tra i sentieri del Virunga. Il secondo ha a che fare invece con la lingua parlata dagli autori dell’agguato. Dalle urla ascoltate da Jackson, sembrerebbe parlassero una versione congolese del kinyarwanda, lingua parlata soprattutto in Ruanda ma anche in alcune zone dell’Uganda e del North Kivu.

Dopo aver provato a soccorrere Luca Attanasio, Baraka Jackson è stato fermato e poi arrestato nonostante non avesse nulla a che fare con il fatto. Per questo per mesi non è stato possibile raccogliere la sua testimonianza. Una sorte toccata anche a un altro testimone. Si tratta di Julien Kitsa, commerciante presente con il suo bancone della frutta quel giorno nel mercato di Kibumba. Dopo aver sentito gli spari, si è precipitato nel luogo dell’agguato per capire cosa stesse succedendo. Ha sentito i rapitori urlare a telefono, in lingua kinyarwanda, “abbiamo rapito i bianchi”. Poi ha notato l’autista del convoglio in fin di vita. Si trattava di Mustapha Milambo, terza vittima di quell’agguato, morto durante i tentativi di soccorso dello stesso Julien Kitsa. Il quale, subito dopo, è stato interrogato e fermato senza motivo.

Rimangono i misteri sui dispositivi di sicurezza

Le due testimonianze raccolte hanno quindi chiarito alcuni dettagli circa gli ultimi istanti di vita di Attanasio e Iacovacci. Ancora non si era riuscita a comprendere la dinamica dell’agguato e in che modo le due vittime italiane erano decedute durante lo scontro a fuoco. Al contempo però sono aumentati i misteri. A organizzare l’incursione armata non è stata una banda comune, bensì un gruppo ben equipaggiato con armi di un certo peso. Di chi si trattava? Nella zona operano le Forze Democratiche Ruandesi (Fdlr) e, poco più a nord, la costola locale dell’Isis che qui corrisponde alla sigla Adf (Allied Democratic Force). Entrambi i gruppi però hanno escluso ogni coinvolgimento. Il governo congolese dal canto suo, per bocca dello stesso presidente Felix Tshisekedi, ha sempre parlato di una banda di criminali comuni quale responsabile del rapimento, mostrando come prova in tal senso alcuni arresti effettuati tra febbraio e maggio. Se però i fermati a cui si è fatto riferimento avevano lo stesso coinvolgimento nullo dei due testimoni ingiustamente arrestati, allora vuol dire che l’indagine congolese è stata, nella migliore delle ipotesi, superficiale e poco significativa. Ad ogni modo, l’inchiesta nel North Kivu risulta oggi arenata. Il primo magistrato locale a curare il fascicolo, Mwilanya Asani William, è stato ucciso pochi giorni dopo l’agguato ad Attanasio e sempre lungo la N2. 

Altra domanda: perché i rapitori hanno ucciso i due italiani? La teoria della banda comune in azione ha sempre portato a pensare alla morte di Attanasio e Iacovacci quale conseguenza dello scontro con i rangers o di un tentativo di rapina andato a male. Ma, secondo la testimonianza di Baraka Jackson, i due sono stati uccisi a bruciapelo. C’è poi il quesito forse più importante: perché la sicurezza non è stata garantita? Per arrivare a una risposta la procura di Roma si sta scontrando non solo con l’inerzia congolese ma anche con quella del Pam, il Programma Alimentare Mondiale. L’ambasciatore italiano era in viaggio proprio con un convoglio Pam. Il responsabile della sicurezza, Mansour Rwagaza, ha avvisato soltanto la sera prima i propri vertici del passaggio del convoglio con Attanasio lungo la N2. I protocolli di sicurezza prevedono un preavviso di almeno 5 giorni. Inoltre Rwagaza ha comunicato che il convoglio sarebbe stato composto solo da personale Pam. Circostanza non vera ovviamente e che ha impedito l’organizzazione di un più efficiente dispositivo di sicurezza. Quella di Rwagaza, al momento unico iscritto nel registro degli inquirenti italiani, è stata una negligenza? Oppure c’è dell’altro? Il problema è che nemmeno il Pam sta pienamente collaborando. Lo stesso Rwagaza è stato trasferito in Mozambico. Fuori dal Congo è stato portato anche Rocco Leone, altro italiano presente nel convoglio e all’epoca tra i responsabili locali del Pam.

I buchi neri del caso Attanasio. Fausto Biloslavo su Inside Over il 10 gennaio 2022.

“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.

Il 20 dicembre il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha consegnato l’onorificenza di Gran Croce d’Onore dell’Ordine della Stella d’Italia, alla vedova dell’ambasciatore Luca Attanasio ucciso in un agguato in Congo assieme al carabiniere di scorta e l’autista. Al Quirinale erano presenti alla cerimonia la moglie del giovane diplomatico, Zakia Seddiki, la figlia Sofia, il padre Salvatore, la sorella Maria.

Due giorni dopo il ministero della Difesa ha avviato l’iter per assegnare al carabiniere Vittorio Iacovacci, che fece scudo con il suo corpo all’ambasciatore, la medaglia d’oro alla memoria. Il ministero degli Esteri ha intitolato ad Attanasio la sala della Farnesina utilizzata per i concorsi degli aspiranti diplomatici. Bello, giusto, ma non bastano medaglie e riconoscimenti per onorare la memoria dell’unico ambasciatore italiano ucciso in tempo di pace assieme alla sua scorta. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, l’ha chiarito senza se e senza ma, pochi giorni prima di Natale: “Auspico che venga fatta finalmente luce sul loro assassinio, e che si accertino prontamente tutte le responsabilità”.

L’agguato del 22 febbraio scorso in Congo è stato dimenticato in fretta dai media e dall’opinione pubblica nonostante i tanti aspetti ancora oscuri. Nel buco nero sta facendo luce la procura di Roma, che a breve dovrebbe chiudere le indagini, ma la strada per arrivare a verità e giustizia è tutta in salita. Il Programma alimentare mondiale, responsabile del convoglio finito in un agguato cerca di alzare lo scudo dell’immunità diplomatica sui suoi funzionari pesantemente coinvolti nella triste fine dell’ambasciatore, del carabiniere e dell’autista congolese, Mustafa Milambo. Le autorità di Kinshasa collaborano fino ad un certo punto. Non c’è certezza su chi abbia premuto il grilletto, i tagliagole dell’imboscata o le guardie del parco Virunga intervenute scatenando un conflitto a fuoco. Sulla matrice dell’agguato ed eventuali mandanti la nebbia è ancora più fitta. Pure la Farnesina e la nostra intelligence dovrebbero spiegare come mai il raddoppio della scorta richiesta da Attanasio è stato bocciato e nessuno ha pensato di intervenire per fermare l’ambasciatore in un viaggio non protetto e ad alto rischio.

Luca, Vittorio, Mustapha sono vittime che non vanno dimenticate  e per questo InsideOver vuole raccontare i drammi senza fine del Congo e alzare il velo sulle ombre che ancora avvolgono l’agguato del 22 febbraio. Per farlo abbiamo bisogno del vostro aiuto, lettori, (Sostieni il reportage) se credete che la tragica fine dell’ambasciatore e le altre due vittime non vada relegata nell’oblio oppure insabbiata senza colpevoli nella palude dei cavilli giudiziari e diplomatici. Ostacoli da sgomberare e lati oscuri da chiarire sono ancora tanti.

Indagini e immunità diplomatica

L’inchiesta del procuratore aggiunto di Roma, Sergio Colaiocco, ha subito puntato il dito contro il ruolo ambiguo del Pam, agenzia delle Nazioni Unite. Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha scritto al direttore del Pam chiedendo senza indugi “la massima collaborazione con la magistratura italiana” e “una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso”.

Il responsabile della sicurezza del convoglio finito nell’imboscata, Mansour Rwagaza, è indagato con l’accusa di omicidio colposo per omessa cautela. Non avrebbe chiesto con i cinque giorni previsti di anticipo il via libera al viaggio per ottenere la scorta armata delle forze di sicurezza congolesi ed eventualmente dei caschi blu dell’Onu presenti in zona. L’ambasciatore e il carabiniere di scorta hanno viaggiato su macchine non blindate con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio. E, fatto ancora più grave, sarebbe stata pure falsificata la lista dei nomi dei partecipanti alla missione omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Forse per evitare che la visita al progetto del Pam saltasse per la mancata protezione.

Le indagini devono chiarire anche il ruolo di altri personaggi, primo fra tutti l’italiano Rocco Leone, numero due del Programma alimentare mondiale in Congo, a bordo del convoglio, testimone oculare scampato per miracolo all’agguato. Un altro carabiniere italiano in servizio presso l’ambasciata italiana a Kinshasa ha raccontato che nei giorni prima del viaggio della morte aveva sentito il suo collega Iacovacci, consapevole dei rischi, parlare con Leone e Rwagaza sulle misure di sicurezza adottate per la missione.

I legali dell’agenzia dell’Onu, con sede centrale a Roma, hanno tentato di alzare lo scudo dell’immunità per i dirigenti coinvolti nell’inchiesta. E pensare, che con il cadavere ancora caldo di Attanasio, il Pam aveva giurato massima apertura e disponibilità per fare luce sull’agguato. In realtà il loro uomo indagato, secondo la procura di Roma, non gode di alcuna immunità diplomatica non essendo accreditato nel nostro paese.

Chi ha sparato?

L’ambasciatore doveva visitare un progetto Pam per le scuole nell’Est del paese. Il convoglio è stato intercettato sulla strada N2, che parte da Goma tagliando la provincia congolese del Kivu nei pressi del mercato di Kibumba. Tra il 2018 e il 2021 gli investigatori italiani hanno scoperto che sullo stesso percorso si sono verificati almeno 20 scontri a fuoco che hanno coinvolto i ranger, le guardie del parco Virunga. Secondo il racconto di Leone almeno cinque uomini armati di kalashnikov e uno di machete hanno partecipato all’agguato fermando il convoglio. I passeggeri, compreso l’ambasciatore ed il carabiniere, sono stati costretti a scendere e poi a seguire la banda nel fitto della foresta. I ranger del parco sono intervenuti nel tentativo di liberare gli ostaggi.

Secondo il rapporto dell’Onu il conflitto a fuoco è scoppiato ad un paio di chilometri dal convoglio. Iacovacci aveva lasciato la pistola d’ordinanza sul fuoristrada del Pam, ma dopo i primi spari avrebbe fatto da scudo all’ambasciatore cercando di proteggerlo e allontanandolo dalla linea di fuoco. Il carabiniere è stato colpito mortalmente al collo da un proiettile di Ak 47, ma sia i ranger che i presunti sequestratori  hanno sparato con quest’arma. Per Attanasio, ferito gravemente all’addome, non c’è stato nulla da fare.

Il terzo italiano, Leone, zoppicava e sarebbe rimasto indietro. Così è riuscito a dileguarsi durante il conflitto a fuoco. La sua guardia del corpo, ferita, si è salvata fingendosi morta.

Un anno dopo l’agguato non è ancora chiaro al 100% se Attanasio e Iacovacci siano stati uccisi dagli assalitori o dal fuoco amico.

“Gran parte dei poliziotti e militari congolesi sono un’Armata Brancaleone, poco addestrati e con il grilletto facile. Figuriamoci  i rangers del parco nazionale intervenuti per primi dopo l’imboscata del 22 febbraio. Non ci sarebbe da stupirsi se aprendo il fuoco abbiano ucciso, per sbaglio, l’ambasciatore ed il carabiniere” spiega al Giornale chi ha fatto il lavoro di scorta in Congo.

I carabinieri del Raggruppamento operativo speciale avrebbero dovuto compiere un’ulteriore missione investigativa in Congo concentrandosi sui dati e le ricostruzioni balistiche per cercare di capire con definitiva certezza chi ha tirato il grilletto. Il governo congolese, nonostante le promesse iniziali, non collabora come dovrebbe per fare luce sulle zone d’ombra forse temendo che possano emergere verità imbarazzanti.

Gli scheletri nell’armadio italiani

Il nostro paese è esente da responsabilità, dirette o indirette, sul tragico agguato? Nel 2018, un anno dopo il suo insediamento l’ambasciatore aveva chiesto alla Farnesina di raddoppiare la scorta in Congo, che contava solo su 2 carabinieri. Il ministro degli Esteri aveva avviato un’ispezione, come da prassi, che ha respinto la richiesta. Il livello di sicurezza della nostra ambasciata in Congo si è incredibilmente ridimensionato negli anni. “Dal 2014 ci sono solo 2 operatori di scorta, prima eravamo in 4 e prima ancora il reggimento Tuscania (carabinieri paracadustisti nda) aveva 8 uomini” rivela una fonte dell’Arma. Per assurdo è capitato che non ci fosse neanche un autista e l’uomo di scorta ha chiesto, in alcune situazioni, all’ambasciatore di guidare, altrimenti non avrebbe potuto proteggerlo in maniera adeguata.

La nostra intelligence perché non ha fermato Attanasio pur sapendo bene che la zona dalla missione del Pam non era sicura con un convoglio senza scorta?  Una fonte militare del Giornale sottolinea che “il movimento dell’ambasciatore da A a B dipende in ultima analisi dalla scorta italiana e dai nostri servizi, che devono autorizzare o meno gli spostamenti con tutte le garanzie di sicurezza dettate dalla situazione”. Purtroppo l’area del Congo era coperta da un ufficiale dei servizi segreti assegnato alla nostra ambasciata in Angola. Anche se il convoglio veniva gestito dal Programma alimentare mondiale, gli italiani dovevano accertare il livello di rischio e giudicare se fosse sufficiente la protezione. Qualcosa è andato storto come conferma un carabiniere che ha operato come scorta in Congo:  “L’Onu avrebbe potuto anche non avere uomini disponibili o rifiutarsi di concedere una scorta di caschi blu perché il tragitto è “giallo”, ma in questi casi ci si rivolge alla polizia locale chiedendo almeno una camionetta con degli agenti”. 

Ancor più se il primo rapporto della nostra intelligence a “caldo”, dopo la morte degli italiani e dall’autista congolese, confermava i pericoli lungo il tragitto. Il luogo dell’agguato, hanno scritto gli 007, “è ricompreso in un’area, denominata “Zona delle tre antenne” ad alto rischio per la sicurezza”.

Banditi o altro?

Sulla matrice dell’imboscata, che ha provocato la morte dell’ambasciatore, si è detto e scritto tutto e il contrario di tutto. Ancora oggi gli assassini non sono stati identificati e non è chiaro se fosse una tentata rapina, un rapimento o qualcosa di peggio. Il governo di Kinshasa aveva accusato i resti degli hutu delle Forze democratiche di liberazione del Ruanda annidati nel Kivu. Al contrario alcuni missionari comboniani hanno chiamato in causa il discusso colonnello Jean Claude Rusimbi legato al governo ruandese e coinvolto in massacri nella turbolenta zona di confine. Nell’area sono spuntate anche formazioni jihadiste e l’intelligence sottolinea che a Goma, i terroristi ispirati dal Califfato, hanno impiantato una cellula. Paradossale, che proprio l’Isis africano abbia accusato di recente la “milizia Mai Mai, alleata dell’esercito congolese” per combattere i gruppi jihadisti, “di avere ucciso un anno fa a Goma l’ambasciatore italiano”.

Tattiche dei mille specchi o fumo negli occhi, che sono un motivo in più per  dare un nome e cognome agli assassini di Attanasio, Iacovacci e  Milambo facendo piena luce sulla matrice dell’agguato. L’arduo compito spetta alla procura di Roma e al governo italiano. Noi giornalisti, andando sul posto con l’aiuto di voi lettori, racconteremo in un reportage il Congo dimenticato che sanguina oltre alle zone d’ombra, i dubbi, le domande senza riposta sulle nostre vittime: l’autista, il carabiniere e l’ambasciatore.

Fausto Biloslavo per "il Giornale" il 10 gennaio 2022.

Non bastano medaglie e riconoscimenti per onorare la memoria di Luca Attanasio, l'unico ambasciatore italiano ucciso in tempo di pace assieme al carabiniere di scorta e un autista congolese.

Un anno dopo l'agguato del 22 febbraio in Congo, dimenticato in fretta dall'opinione pubblica, ci sono ancora troppe zone d'ombra. L'Italia ha il dovere di fare piena luce. A breve la procura di Roma dovrebbe chiudere le indagini fornendo, si spera, le risposte alle domande sorte fin dall'inizio di questa triste storia.

A cominciare dal ruolo ambiguo del Programma alimentare mondiale, che aveva organizzato il convoglio con l'ambasciatore, il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci e l'autista congolese, Mustafa Milambo uccisi nell'agguato.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha scritto al direttore del Pam chiedendo senza indugi «la massima collaborazione con la magistratura italiana» e «una rapida risposta alla richiesta di elementi utili per le attività investigative in corso». 

Il responsabile della sicurezza del Programma alimentare in Congo, Mansour Rwagaza, è indagato con l'accusa di omicidio colposo per omessa cautela. Non avrebbe chiesto con i cinque giorni previsti di anticipo il via libera alla missione per ottenere la scorta armata delle forze di sicurezza locali ed eventualmente dei caschi blu dell'Onu presenti in zona.

L'ambasciatore e il carabiniere hanno viaggiato su macchine non blindate con i giubbotti antiproiettile nel bagagliaio. E, fatto ancora più grave, sarebbe stata pure falsificata la lista dei nomi dei partecipanti alla missione omettendo quelli di Attanasio e Iacovacci. Forse per evitare che la visita al progetto del Pam saltasse per l'inesistente protezione. 

Le indagini devono chiarire anche il ruolo di altri personaggi, primo fra tutti l'italiano Rocco Leone, numero due del Programma alimentare mondiale in Congo, a bordo del convoglio, testimone oculare scampato per miracolo all'agguato. 

I legali dell'agenzia dell'Onu, con sede centrale a Roma, hanno tentato di alzare lo scudo dell'immunità per i dirigenti coinvolti nell'inchiesta. In realtà il loro uomo indagato, secondo la procura di Roma, non gode di alcuna copertura diplomatica non essendo accreditato nel nostro paese.

Chi ha sparato all'ambasciatore? Secondo il racconto di Leone almeno cinque uomini armati di kalashnikov e uno di machete hanno partecipato all'agguato fermando il convoglio. 

Attanasio e il carabiniere sono stati costretti a scendere seguendo la banda nel fitto della foresta. I ranger del vicino parco di Virunga sono intervenuti aprendo il fuoco. Il carabiniere è stato colpito mortalmente al collo da un proiettile di Ak 47, ma sia i ranger che i presunti sequestratori hanno sparato con quest'arma.

Per Attanasio, ferito gravemente all'addome, non c'è stato nulla da fare. Il nostro paese è esente da responsabilità, dirette o indirette, sul tragico agguato? L'ambasciatore aveva chiesto, inutilmente, di raddoppiare la scorta in Congo, che contava solo su due carabinieri.

La nostra intelligence consapevole che l'area era a rischio non ha fermato Attanasio. L'area del Congo era coperta da un ufficiale dei servizi segreti assegnato all'ambasciata in Angola.

Anche se il convoglio veniva gestito dal Programma alimentare mondiale, gli italiani dovevano accertare il livello di rischio e giudicare se fosse sufficiente la protezione. Solo banditi i responsabili dell'agguato?

Ancora oggi gli assassini non hanno un nome e cognome e non è chiaro se fosse una tentata rapina, un rapimento o qualcosa di peggio. Paradossale, che proprio l'Isis africano abbia accusato di recente la «milizia Mai Mai, alleata dell'esercito congolese» per combattere i gruppi jihadisti, «di avere ucciso un anno fa a Goma l'ambasciatore italiano».

La procura di Roma e il governo dovranno dissipare i dubbi. Noi giornalisti vogliamo raccontare con un reportage, grazie all'aiuto dei lettori, il Congo che sanguina oltre alle zone d'ombra e le domande senza riposta per non dimenticare le nostre vittime: l'autista, il carabiniere e l'ambasciatore.  

Testimoni smentiscono l’ipotesi che Attanasio sia stato ucciso in una rapina. Luca Attanasio su Editorialedomani.it il 7 gennaio 2022. I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco, contraddicendo la versione ufficiale. Gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana, l’agenzia Onu responsabile della sicurezza tace. I membri del commando che a febbraio ha ucciso l’ambasciatore italiano in Congo, Luca Attanasio, e altre due persone, avevano armi sofisticate e parlavano una lingua ruandese, dicono due testimoni dell’attacco.

La ricostruzione corrobora l’ipotesi di un tentativo di rapimento scrupolosamente pianificato ed esclude la versione ufficiale, quella di una rapina fatta da banditi locali terminata con uno scontro a fuoco.

L’agenzia Onu responsabile della sicurezza rimane in silenzio e gli inquirenti congolesi non rispondono alle richieste della magistratura italiana. Perché il nostro governo non pretende collaborazione da quello del Congo, con cui pure vanta ottimi rapporti?

Luca Attanasio. Giornalista, scrittore, collabora con La Stampa, Atlante  (Treccani), Confronti, Agenzia Fides. Esperto di fenomeni migratori, geopolitica, Paesi dell’area Mena e Africa Subsahariana; Vaticanismo. Ha pubblicato vari testi, tra gli ultimi Se questa è una donna, Robin Edizioni, 2014; Libera Resistenza, Mincione Edizioni, marzo 2017;  Il Bagaglio. Storie e numeri del fenomeno dei migranti minori non accompagnati (seconda edizione con contributo di Roberto Saviano), Albeggi Edizioni,

I misteri sulla morte di Luca Attanasio. Mauro Indelicato su Inside Over il 30 dicembre 2021. “Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio. Circostanze che non tornano e governi, ancora una volta, poco collaborativi con l’Italia. Il 2021 ha portato via al nostro Paese l’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso nella Repubblica Democratica del Congo il 22 febbraio scorso assieme al carabiniere Vittorio Iacovacci, ma a fine anno ancora le inchieste non hanno portato all’individuazioni di mandanti e responsabili. Si sta indagando al Palazzo di Vetro, per via del coinvolgimento dell’agenzia Pam (Programma Alimentare Mondiale), così come a Kinshasa e a Roma. Nella capitale però gli inquirenti devono scontrarsi con elementi poco chiari e, soprattutto, ben poco chiariti dai diretti interessati.

Il ruolo della Pam

Luca Attanasio era ambasciatore dal 2016 nella Repubblica Democratica del Congo. Un Paese tanto vasto quanto tormentato. Soprattutto nelle regioni orientali dove da anni imperversano guerre, crisi alimentari ed epidemie. Attanasio il 22 febbraio si trovava proprio in questa parte del Congo. L’ultima notte il diplomatico l’ha trascorsa a Goma, capoluogo del North Kivu, una delle province più instabili del Paese e dell’Africa. Si è messo poi in viaggio verso Rutshuru, città raggiungibile tramite la strada N2. Si tratta di un’arteria molto pericolosa che attraversa il parco nazionale del Virunga, al cui interno sono attive bande criminali. Eppure non c’era personale di scorta, né dell’Onu (presente in zona con la missione Monusco) e né del governo congolese. Ed è questo il primo importante mistero con cui gli inquirenti si stanno scontrando. Attanasio era atteso a Goma per un evento del Pam. Il viaggio, nella sua interezza, era organizzato dall’agenzia Onu. Non solo lo spostamento del 22 febbraio, ma l’intera trasferta da Kinshasa iniziata il 19 febbraio. L’ambasciatore quel giorno, a bordo di un aereo messo a disposizione dall’agenzia, ha raggiunto Goma prima di spostarsi a Bukavu. A darne testimonianza è stato Padre Giovanni Magnaguagno, missionario saveriano che domenica 20 febbraio ha incontrato in questa città Attanasio. Poi lo spostamento di nuovo nel capoluogo, infine il viaggio verso Rutshuru.

Tutto sempre sotto l’egida del Pam. I vertici locali dell’agenzia ben conoscevano i rischi nel percorrere la N2. Eppure la strada è stata giudicata sicura. Attanasio, assieme a un convoglio composto da sette persone, era accompagnato unicamente dal carabiniere Vittorio Iacovacci, militare che prestava servizio nella nostra ambasciata. La settimana prima un contingente formato da diplomatici belgi, estoni, irlandesi e norvegesi sono transitati lungo la N2 scortati da un importante contingente armato. Il Pam invece non ha predisposto nulla in tal senso. Per questo la procura di Roma ha voluto ascoltare Mansour Rwagaza, funzionario Pam e coordinatore della sicurezza in quest’area del North Kivu. Secondo il sostituto procuratore Luca Colaiocco, Rwagaza avrebbe violato i protocolli di sicurezza dell’Onu. Contrariamente a quanto previsto in questi casi infatti non ha avvisato i vertici locali delle Nazioni Unite del viaggio del convoglio. Doveva farlo entro cinque giorni, in modo da predisporre le misure necessarie. L’unica nota è stata inviata il 21 febbraio, a meno di 12 ore dalla partenza del convoglio da Goma. Non solo: Rwagaza ha scritto che a bordo dei mezzi dovevano salire solo membri Pam. Dunque non è stata segnalata la presenza del nostro ambasciatore e del carabiniere al suo seguito.

Due mosse, quelle del funzionario, che forse hanno inciso su un livello di sicurezza piuttosto scarso per non dire inesistente. Gli inquirenti non escludono nulla: la negligenza o un’azione premeditata. Ascoltato e interrogato nei mesi scorsi, il diretto interessato si è avvalso della facoltà di non rispondere. Per la cronaca, anche le Nazioni Unite hanno aperto un’inchiesta, conclusa poche settimane dopo l’agguato e consegnata agli inquirenti romani. Il contenuto però è al momento segreto.

Kinshasa poco collaborativa

Fin qui gli aspetti legati alla sicurezza. C’è poi il discorso relativo alla dinamica dell’agguato. Chi è stato a uccidere i due italiani? E qual era lo scopo? Le autopsie hanno rivelato che il carabiniere Iacovacci è morto subito, centrato da un proiettile. Attanasio invece è stato raggiunto dai soccorsi ma le ferite erano gravi e il decesso sarebbe arrivato 50 minuti dopo aver subito il colpo. Morto all’istante è stato anche il loro autista, il congolese Mustapha Milambo. Illesi tutti gli altri, tra cui l’italiano Rocco Leone, vice direttore Pam in Congo. Si sa che il convoglio è stato fermato all’altezza della località nota come “3 Antennes” da ostacoli posti lungo la strada. Tra questo momento e quello dell’agguato fatale non si è ancora ben compreso cosa possa essere accaduto. Se cioè Attanasio e Iacovacci siano deceduti a seguito di colpi mirati verso di loro oppure dopo una fuga interrotta dai rapitori. Oppure ancora, se i due siano stati o meno colpiti da “fuoco amico” sparato dai Rangers del parco del Virunga, i primi a intervenire. 

Rapina o agguato mirato contro il nostro ambasciatore, due ipotesi non scartate ma impossibili al momento da verificare. Il governo di Kinshasa infatti non sta collaborando. Nessuna risposta è arrivata alle due rogatorie inviate dai nostri inquirenti, mentre nemmeno un documento è stato inviato dalla capitale congolese verso Roma. Si sa soltanto che in Congo l’inchiesta è aperta ed è costata la vita al magistrato William Assani, titolare dell’indagine e assassinato il 5 marzo scorso sempre lungo la N2. Il presidente Felix Tshisekedi ha assicurato collaborazione e ha parlato a maggio di due arresti che darebbero spazio all’ipotesi dell’azione di bande comuni e non di gruppi organizzati che operano nel North Kivu. Eppure non ha aggiunto altro, nemmeno in due incontri diplomatici ad alto livello tenuti a Roma negli ultimi mesi. Né, tantomeno, sembra aver dato input a una certa e più proficua collaborazione con i magistrati italiani.

·        Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Lara Argento, la transessuale di Pavia scomparsa a Natale 2019. Un omicidio senza colpevoli. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.

Nonostante lunghe e approfondite indagini il corpo non è mai stato trovato. I sospetti sul fidanzato poi scagionato. L’ultima notte in riva al Ticino, il giovane che l’aveva contattata per un incontro a pagamento: tanti enigmi ancora senza risposta. 

«Quei dettagli inquietanti»

Forse non tutti i morti sono uguali, specie i morti ammazzati. Ma nel caso di Lara Argento, inquieta e sofferente, precedenti per droga, cocainomane, malata di Aids, prostituta, quattro tatuaggi compreso uno con le impronte d’un cane, uscita dalla casa di Pavia nella notte tra il 21 e il 22 dicembre 2019, scomparsa e forse uccisa — il cadavere sepolto chissà dove, se non dato in pasto ai maiali che nulla di un corpo risparmiano —, ecco, tanto, davvero tanto è stato fatto. Ovvero trenta persone interrogate e venti intercettate, 1.600 targhe di macchine sott’esame, l’analisi di plurime telecamere di autostrade, tangenziali e paesi, poi elicotteri e droni, cani molecolari fra cascinali e fattorie, volontari di Protezione civile e Croce Rossa in esplorazione, gli esperti del Ris in abitazioni e macchine, ricerche in alberghi e ospedali, gli incroci tra le celle telefoniche e i cellulari agganciati in vaste aree della provincia, infine il rintraccio degli uomini che pagavano Lara — all’anagrafe Leandro Dos Santos Barcelos — perché Lara, trans brasiliana 38enne, si vendeva, soprattutto a pregiudicati e detenuti appena liberi. 

Un unico sospettato

L’aveva sempre fatto dall’arrivo in Italia e continuava a farlo pur vivendo insieme a Roberto Caruso, stessa età, una famiglia un po’ balorda, un’esistenza zoppicante, sospettato d’esser lui il killer, però scagionato e finita lì: caso chiuso. Ufficialmente. Di Lara, mai più traccia, e nemmeno si esclude, come ipotesi minoritaria prossima all’impossibilità, il gran colpo di scena: un’anomala mutazione nel codice di comportamento di una donna apprensiva, vigilante, attaccata ai telefonini e connessa il giorno come la notte — si annunciava sui siti di incontri sessuali — che avrebbe pianificato ed eseguito un allontanamento volontario. Spegnendo gli apparecchi, trovando un appoggio e complici per nascondersi, tornando in Brasile sotto falso nome, magari la coda di cavallo sciolta oppure una parrucca in testa, lei che odiava le parrucche. Possibile? Gli investigatori non ci credono, i magistrati nemmeno. Troppo prevedibile, Lara Argento, caduta dentro il buio non soltanto di una notte d’inverno, a due mesi dall’inizio della pandemia che non agevolò le indagini, essendosi fermata l’Italia intera (e i movimenti dei pregiudicati, le telefonate per accordi illegali, le perlustrazioni del sesso a pagamento). 

L’uomo del mistero

Vero che Caruso denunciò la scomparsa otto giorni più tardi, a mezzogiorno spaccato del 30 dicembre, motivando il ritardo con le abitudini di Lara a sparire senza comunicare alcunché, magari pagata da uomini per più giorni di servizio consecutivi fingendo d’essere una fidanzata, una moglie. Vero che mesi dopo Caruso vendette la macchina. Vero che un ventenne, l’ultimo a contattare Lara per del sesso, arrivò al luogo convenuto, il lido di Pavia sul Ticino, avvicinò la sua macchina a un’altra vettura «di colore grigio, non ricordo il modello», ci vide a bordo Lara stessa — quantomeno così ne aveva memorizzato il viso osservandola su Internet e convincendosi a scegliere lei —, e di fianco a Lara vide un uomo piccolo, in mutande; i due litigavano, senonché Lara scese, si avvicinò al ventenne che intanto spaventato si era sigillato nell’abitacolo, bussò sul finestrino, propose una cosa a tre, e il ragazzo scappò, rincasando a una velocità folle dalla fidanzata che lo cercava disperata, in quanto una sua amica aveva avuto un malore, bisognava correre in ospedale e quello non si trovava: ma non doveva andare a una cena con gli amici? I carabinieri del Nucleo investigativo mostrarono più avanti delle fotografie a quel ventenne, e lui, netto, puntò l’indice su una faccia che gli era ignota: Roberto Caruso. Ma Caruso lì, al lido, non c’era stato. O meglio, non c’era stato seguendo il suo cellulare, interrogando — di nuovo — le celle telefoniche, visionando – ancora – i filmati delle telecamere. Dunque chi era quell’uomo?

Le macchie di sangue

Quell’uomo non era nessuna delle persone comparse nel telefonino di Lara, che aveva due Sim. Strano: la trans adottava mille accorgimenti, dava un indirizzo e ne aggiungeva un secondo e pure un terzo, insisteva nel chiamare per avere un aggiornamento costante dei movimenti dell’uomo che l’aveva prenotata. Una forma di difesa, insieme alla sua robustezza (un metro e ottanta) utilizzata per aggredire Caruso: nella casa le liti erano frequenti. E a quelle liti, che esplodevano nei giorni di dosaggio ormonale, di astinenza dalle droghe e di eccessi alcolici, risalivano le 39 macchie di sangue isolate dal Ris, nel trilocale sporco, trasandato, dove appunto schizzi ematici ovunque non erano stati nemmeno puliti. Da settimane. Ma se si ipotizza che in quella casa si sia ambientata la scena del crimine, è un errore. Come lo è ragionare sulla macchina di Caruso: venduta, abbiamo detto, eppure ugualmente perlustrata dai carabinieri e intonsa dal punto di vista criminologico. Se però Lara non venne trasportata dalla macchina di Caruso, s’ignora su quale auto quella notte abbia viaggiato.

Il telefono

Torniamo ai giorni della sparizione. In particolare al 22 dicembre. E alla fascia temporale compresa tra 4.17 e le 7.09, quando le ultime celle agganciarono il cellulare di Lara, coprendo il territorio che va da Voghera a Lungavilla, verso sud. Qui, terre di pace e silenzi, i carabinieri del Comando provinciale di Pavia guidato dal colonnello Luciano Calabrò concentrarono le ricerche nel parco palustre e lungo gli argini del Po; qui l’assassino potrebbe aver portato Lara nascondendo corpo e telefonino. Nell’inventario complessivo dei reperti individuati in riva al Grande Fiume, vanno inclusi un paraurti di una macchina coperto da tracce di sangue e un braccialetto: oggetti considerati esterni all’inchiesta. Forse raccontano altre storie di sesso e miseria, dolore e violenza. Ma non questa storia. 

·        Il mistero di Evi Rauter.

Evi Rauter, mistero risolto dopo 32 anni. Suo il corpo trovato in Spagna. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.

La studentessa altoatesina sparì da Firenze nel settembre del 1990. Pochi giorni dopo un corpo fu trovato impiccato a un albero in Costa Brava. I genitori di lei lo hanno ora riconosciuto grazie ai vestiti e a un orologio. 

La studentessa che scomparve a Firenze nel settembre 1990 e la giovane trovata impiccata in Spagna pochi giorni dopo sono la stessa persona. Dopo quasi 32 anni è stato risolto un «cold case» unendo due misteri rimasti a lungo senza risposta. Il corpo trovato appeso a un albero in una località balneare spagnola appartiene a Evi Rauter, studentessa altoatesina sparita dal pensionato in cui viveva a Firenze. I familiari della vittima hanno riconosciuto i resti grazie all’aiuto di una trasmissione tv austriaca. Ma il giallo può dirsi svelato solo in parte: fonti spagnole nutrono dubbi sul fatto che Evi si sia tolta la vita e alcuni indizi fanno sospettare un caso di omicidio.

Evi Rauter aveva 19 anni e aveva appena passato l’esame di maturità quando nell’estate del 1990 dal piccolo comune di Lana (Bolzano) va a trascorrere un periodo di vacanza a Firenze dalla sorella che studia all’università e vive in un piccolo appartamento di un pensionato. La mattina del 3 settembre quest’ultima trova un biglietto lasciato da Evi: «Vado in gita a Siena». Sembrava trattarsi dell’escursione di un giorno e invece da quel giorno della giovane si perdono completamente le tracce.

Pochi giorni dopo in una pineta di Portbou, località della Costa Brava spagnola viene trovato il corpo senza vita di una ragazza impiccato ad un albero. All’epoca in Spagna non è ancora stato introdotto il test del dna come metodo di indagine e nessuno riesce a dare un nome a quel cadavere. Non aiutano le testimonianze dei frequentatori di un vicino camping (tra cui anche alcuni austriaci): nessuno sa fornire informazioni su quella ragazza nè si è accorto di nulla. La ragazza del mistero viene sepolta in un cimitero in una tomba anonima, il caso viene archiviato come un suicidio. Nessuno poteva sospettare un collegamento con il dramma che in quegli stessi giorni viveva la famiglia di Evi Rauter.

La soluzione arriva grazie all’insistenza di una trasmissione in onda sul canale privato austriaco ATV, una sorta di «Chi l’ha visto?». Il direttore dell’emittente Benedikt Morak ha dichiarato che i genitori di Evi hanno riconosciuto la loro figlia grazie ad alcune foto, ai vestiti e all’orologio trovati sul cadavere e conservati dalla polizia. La «dritta» decisiva sarebbe arrivata da un telespettatore che ha riconosciuto Evi in una ragazza da lui incontrata in Spagna proprio in quell’estate del 1990.

Per un mistero che si risolve , invece, un altro sembra destinato a rimanere tale. La polizia, come detto, ritiene che la morte vada attribuita a un suicidio. Le ragioni del quale restano del tutto insondabili. Un medico legale tuttavia, dopo aver visionato alcune immagini del cadavere e della scena del ritrovamento a Portbou sostiene una versione diversa: la posizione della testa, il fatto che l’albero sia molto basso fanno propendere lo specialista per un caso di omicidio. Ma per la legge spagnola il caso sarebbe ormai prescritto e riaprire le indagini risulterà molto difficile.

·        Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Marina Di Modica: per gli inquirenti uccisa e buttata in un fosso. Federico Ferrero su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.

Una sera di maggio del 1996 Marina uscì a comprarsi un paio di scarpe e sparì nel nulla. Mai ritrovata, ma per il suo omicidio è stato condannato a 14 anni il filatelico Paolo Stroppiana. 

Un appunto sull’agenda. Ricordava a Marina che, la sera dell’8 maggio di ventisei anni fa, avrebbe dovuto onorare un impegno: «b. cena Paolo x f.bolli». Gli inquirenti puntarono con tanta cura su quelle parole da considerarne tutte le possibili interpretazioni: riuscirono pure a scovare un certo Paolo Cena, che affittava un’autorimessa vicino a casa sua. E una ditta di raccoglitori per francobolli posseduta in società da un certo signor Paolo.

Le provarono davvero tutte, per capire in quale buco nero fosse stata risucchiata la povera Marina Di Modica, logopedista torinese vicina alla festa dei quarant’anni, che avrebbe dovuto festeggiare nella cascina di famiglia a Scaparoni d’Alba, dove invece oggi si trova una lapide in suo ricordo.

Invece, quella sera di maggio Marina uscì dal lavoro, andò a comprarsi un paio di scarpe e dei collant, si fece la messa in piega dal parrucchiere di fiducia e si chiuse alle spalle la porta di casa, per non tornare mai più. Suo padre, il professor Gaetano di Modica, accademico alla facoltà di chimica e personaggio illustre nel mondo delle scienze, non si dava pace.

Non aveva senso, quella scomparsa. Sua figlia era single, con una vita lavorativa piena e tanti amici con cui condivideva serate, l’amore per le piste da sci, i viaggi. Non c’era alcun motivo per considerare un allontanamento volontario: al di là della situazione personale, così stridente con l’ipotesi della fuga, Marina aveva lasciato tutto in casa. Mancava, sì, la sua automobile, che però una pattuglia di amici volenterosi ritrovò parcheggiata in via Magellano.

Il caso Di Modica lievitò facendosi argomento fisso sulla stampa, piemontese e non. Finché la famiglia non ricordò un dettaglio. Tempo prima, svuotando una soffitta, Marina aveva trovato una scatola di francobolli, appartenuti a un prozio avvocato. Li voleva far valutare e si era rivolta all’amica Bianca perché la aiutasse. Costei le aveva fatto conoscere il signor Paolo Stroppiana, impiegato della storica ditta di filatelia Bolaffi.

Il fratello di Marina, Marco, leggendo quell’appunto segnato sull’agenda, gli aveva attribuito il senso più immediato: andare a cena con Paolo (amico di b., cioè Bianca) per parlare dei francobolli. Chiamò lo Stroppiana in ufficio per sentirsi dire che sì, in effetti lui e Marina avevano in animo di vedersi prima o poi, ma nulla di più.

C’era materiale sufficiente per una convocazione in questura: di fronte agli agenti, Stroppiana ribadì di aver conosciuto Marina in una serata tra amici ma di non averla più incontrata. Dopo una ventina di giorni, venne riconvocato e ribadì la sua posizione.

Ma l’uomo aveva capito di essere sotto stretta osservazione e sentì l’obbligo di tornare una terza volta a colloquio con la polizia, di sua sponte, per rettificare l’alibi: «Effettivamente sì, avevo concordato un appuntamento con Marina. Ma l’ho disdetto un paio di giorni prima dell’8 maggio, perché avevo mal di schiena».

Intanto, di Paolo Stroppiana si andava componendo un identikit allarmante. A dispetto dei modi garbati, gli abiti di sartoria, e i sorrisi radiosi, il suo curriculum non era altrettanto ben stirato. Una condanna passata in giudicato per aver militato in Terza Posizione, su tutto. Il pubblico ministero Onelio Dodero, inizialmente, non credeva di aver incassato elementi sufficienti per un rinvio a giudizio: mancava il cadavere, il movente era oscuro.

I tracciati telefonici suggerivano che sì, l’uomo potesse essere tornato a casa dall’abitazione della sua fidanzata in tempo utile per incontrare Marina, ma senza certezze. Il giudice dispose l’imputazione coatta e iniziò un processo combattutissimo. Prima Dodero, poi il procuratore generale Vittorio Corsi e gli avvocati degli Stroppiana, Zancan e Castrale, da una parte. L’avvocato difensore Aldo Albanese dall’altra.

Tra racconti scabrosi di imprese con le sue tante frequentazioni femminili, ricostruzioni e smentite di alibi, Stroppiana venne sostanzialmente inchiodato alle sue bugie. La sua posizione reggeva sull’asserita telefonata di smentita dell’appuntamento concordato con Marina: peccato che i tabulati mostrassero soltanto la chiamata del 6 maggio, quella in cui l’appuntamento era stato fissato. L’imputato tentò, allora, la carta della improbabile telefonata fatta da una cabina telefonica (e perché mai?) non a casa di Marina, della quale aveva il numero, ma al centralino delle Molinette. Così che non ci fosse traccia da cercare.

La pervicacia nel proporre scenari poco credibili, e adattati alle smentite già incassate, diventò il cardine della ricostruzione accusatoria: Stroppiana aveva individuato un’altra preda sessuale in Marina. L’aveva incontrata e la serata, per qualche ragione, era degenerata in una situazione che alla donna non piaceva. Circostanza che, in qualche modo, era costata la vita.

Il suo corpo, secondo la procura, sarebbe poi finito in uno dei tanti orridi montani che Stroppiana, esperto alpinista, conosceva a menadito. La pena finale, per omicidio oltre l’intenzione, venne fissata dalla Cassazione, dopo un primo rinvio, in 14 anni. L’avvocato Zancan, con la sua oratoria da fuoriclasse, rievocò alcune affinità del caso di Marina con la scomparsa di una dipendente della Bolaffi, Camilla Bini. Sparita nel nulla nel 1989. Un caso senza colpevoli né indiziati.

A chi si indignava per una condanna priva di cadavere e movente, replicò che «dal precedente torinese del 1995 della povera trans Valentina, non conta più non accertarlo. Non è neppure decisivo ritrovare il corpo della vittima: ciò che conta è fare un percorso convincente di responsabilità». Stroppiana, di percorso, ne fece un altro: in carcere, senza mai ammettere alcunché. Grazie alla scontistica riconosciuta della legge penale e a un indulto, è libero dal 2019.

·        Il mistero di Milena Sutter.

Il "biondino", la spider rossa e i dubbi sulla morte di Milena: "C'è un'altra verità". Rosa Scognamiglio il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Milena Sutter, 13 anni, fu uccisa e gettata in mare il 6 maggio del 1971. Per l'omicidio fu condannato all'ergastolo Lorenzo Bozano. L'esperta: "Non c'è mai stata prova della sua colpevolezza". Tutti i dubbi sul caso.

“Milena uccisa”. Titolava così la prima pagina del Corriere Mercantile, il quotidiano storico di Genova, all'indomani del ritrovamento del cadavere di Milena Sutter, la 13enne di origini svizzere uccisa e poi gettata in mare il 6 maggio del 1971. Gli inquirenti dell'epoca attribuirono il delitto a Lorenzo Bozano, 25enne di estrazione alto-borghese, ribattezzato dalla stampa come il “biondino della spider rossa” per via dell'auto sportiva con cui era solito gironzolare per il capoluogo ligure.

Bozano, unico indagato per l'omicidio, fu condannato all'ergastolo a seguito di un processo indiziario. L'imputato dichiarò, a più riprese, di non conoscere Milena professandosi innocente fino all'ultimo dei suoi giorni (è morto a giugno dello scorso anno mentre si trovava in regime di libertà condizionata all'Isola d'Elba). Mentiva?

“Non vi è la prova che, oltre ogni ragionevole dubbio, Bozano sia colpevole nella morte di Milena. È assai probabile che la giovane studentessa della Scuola Svizzera di Genova non sia stata rapita per denaro. La richiesta di 50 milioni di lire (circa 500 mila euro di oggi) non sta in piedi. Forse si dovrebbero valutare soltanto i fatti oggettivi e togliere la parola rapimento dalla ricostruzione del caso”, spiega alla nostra redazione Laura Baccaro, criminologa e psicologa giuridica.

L'Omicidio di Milena Sutter: dal rapimento alla condanna del “biondino”

La scomparsa

Sono le ore 17 del 6 maggio del 1971. Milena, 13enne figlia del noto industriale della cera Arturo Sutter, esce dalla scuola svizzera di via Peschiera, a Genova, e si dirige verso la stazione Brignole per prendere il bus 88 che l'avrebbe riportata a casa, dalle parti di via Orsini. Deve rincasare alla svelta poiché ha una lezione privata fissata per le 17.30. Uno studente della prima media nota la ragazza mentre scende le scalette che conducono a via Groppallo, dove c'è la fermata dell'autobus 88. Da quel momento si perdono completamente le tracce di Milena.

Dopo averla cercata invano per l'intero pomeriggio, i coniugi Sutter decidono di denunciare la scomparsa della loro primogenita alla polizia attorno alle ore 21. È l'inizio di un'attesa spasmodica che culminerà 20 giorni dopo, quando il mare restituirà il cadavere di Milena.

La telefonata

Una scomparsa misteriosa o forse, data la giovane età della ragazza, un rapimento. La seconda ipotesi è suffragata da una telefonata che giunge a casa Sutter la mattina del 7 maggio 1971. Qualcuno, verosimilmente una voce maschile, formula una richiesta di riscatto: “Se volete Milena viva cinquanta milioni prima aiuola in corso Italia”, ripete per tre volte l'interlocutore “sillabando le parole”, precisa il giornalista e scrittore Maurizio Corte sul blog ilbiondinodellaspiderrossa.org citando un inquirente dell'epoca.

Si tratta della prima e unica volta in cui si fa vivo il presunto rapitore di Milena. La chiamata, confermata dal maresciallo di pubblica sicurezza Luigi Calanchi, non viene registrata per via di un non meglio precisato “guasto tecnico”. La cartella di Milena, invece, viene ritrovata nel punto indicato al telefono dallo sconosciuto: in un'aiuola di corso Italia.

Il ritrovamento del cadavere

Passano i giorni. I genitori di Milena, nel tentativo di stabilire una comunicazione coi presunti rapitori della figlia, chiedono il silenzio stampa. Temono che il trambusto mediatico creato attorno alla vicenda possa far desistere i responsabili della rapimento dall'intenzione di rilanciare la richiesta di riscatto. Di lì a breve giunge la tragica notizia.

È il pomeriggio del 20 maggio 1971. Due pescatori notano un corpo al largo delle acque di Priaruggia, a Quarto dei Mille. Il cadavere, parzialmente scarnificato dai pesci, sembra quello di un sommozzatore. A suggerire questa ipotesi è la presenza di una cintura da sub attorno alla vita. Fatto sta che i due uomini si dirigono verso la spiaggia per allertare le autorità. È un pescatore anziano, tal Benito Merli, a chiamare il 113.

Il corpo, estratto dal mare dai vigili del fuoco, è irriconoscibile per via della supposta lunga permanenza in acqua, che ha alterato i lineamenti del volto. Tuttavia la vittima ha con sé alcuni effetti personali tra cui una catenina con un ciondolo a forma di cuore in cui vi è inciso il nome “Milena”. Il dettaglio rimanda immediatamente alla ragazzina scomparsa dalla scuola svizzera. Motivo per cui gli inquirenti decidono di informare i coniugi Sutter.

L'autopsia eseguita dal medico legale, il professor Giorgio Chiozza, fuga ogni dubbio sull'identità del cadavere: “Non ci sono dubbi, purtroppo è lei (Milena ndr)”, afferma l'esperto attraverso le pagine del quotidiano genovese Il Secolo XIX all'indomani degli accertamenti cadaverici. Milena è morta per “asfissia meccanica” a seguito di uno strangolamento.

Il “biondino della spider rossa”

Sin da subito, i sospetti degli inquirenti si addensano su Lorenzo Bozano, 25enne di famiglia alto-borghese con una personalità eccentrica. All'indomani della scomparsa di Milena, precisamente nella notte tra il 9 e il 10 maggio, il ragazzo viene trattenuto in questura e poi rilasciato nelle ore successive.

Il soprannome di “biondino della spider rossa” salta fuori da un articolo di giornale. Alcune persone raccontano a un giornalista del Corriere Mercantile di aver visto un tal “biondino” a bordo di un'auto sportiva “rossa” aggirarsi dalle parti di via Orsini, dove abita la famiglia Sutter. Anche alcuni testimoni di via Peschiera dicono di averlo transitare/sostare davanti alla scuola svizzera frequentata da Milena. Tanto basta agli inquirenti per fare di Bozano un valido sospettato.

Ad avvalorare l'ipotesi di un coinvolgimento del 25enne nella scomparsa della giovane Sutter vi sono altri elementi. In primis, un biglietto che gli inquirenti ritrovano a casa del giovane durante una perquisizione. Sul foglio ci sono scritti tre verbi: “affondare, seppellire, murare”. Per gli investigatori è un indizio di colpevolezza. Bozano spiegherà che si tratta di una “ipotesi fantasiosa di rapimento”, nata a seguito di una chiacchierata tra amici e conoscenti sul sequestro di Sergio Gadolla. Non gli credono.

E poi ci sono altri possibili indizi: la cintura da sub (pare ne avesse una uguale a quella ritrovata attorno al corpo della giovane), una macchia di orina sui pantaloni e la mancanza di un alibi nell'ora in cui i periti hanno collocato il decesso della ragazza. La sera del 20 maggio 1971, a poche ore dal rinvenimento del cadavere di Milena, Bozano viene arrestato.

Il processo e la condanna all'ergastolo 

Per gli inquirenti Milena è stata uccisa nel contesto di un rapimento a scopo di estorsione il giorno stesso della scomparsa. Bozano viene accusato dell'omicidio per via di una mole notevole di elementi indiziari – 44 secondo i media dell'epoca - raccolti sia durante le indagini preliminari che nel corso dell'intero procedimento penale. Tuttavia manca una traccia certa e inequivocabile della sua colpevolezza. Motivo per cui, nel maggio del 1973, l'imputato è assolto al processo di primo grado dalla Corte d'Assise di Genova per "insufficienza di prove" e liberato subito.

Sta di fatto che il 25enne continua a essere l'unico indiziato del delitto. Secondo i magistrati genovesi, il pomeriggio del 6 maggio, Milena sarebbe salita sulla spider di Bozano. Dopodiché, nel contesto di un'ipotetica aggressione da parte del giovane, è stata uccisa. Dunque il presunto assassino si sarebbe recato sul Monte Fasce per seppellire il cadavere in una buca - alcuni testimoni lo avrebbero visto transitare sulla collinetta - ma poi avrebbe desistito. Quindi avrebbe caricato il corpo esanime della ragazzina nel bagagliaio della vettura decidendo, a tarda sera, di disfarsene in mare.

Nel giugno del 1975 Bozano incassa una condanna all'ergastolo con l'accusa di rapimento a scopo di estorsione, omicidio e soppressione di cadavere. L'anno successivo la Corte di Cassazione conferma l'entità della pena. Nel mentre l'imputato si è rifugiato in Francia dove, nel 1979, viene arrestato.

Giunto in Italia, dopo una estradizione piuttosto farraginosa, viene rinchiuso nel carcere di Porto Azzurro, all'Isola d'Elba. Nel 1997 viene accusato di aver molestato una ragazza di 16 anni spacciandosi per un poliziotto. Per questo reato, nel 1999, viene condannato a 2 anni di reclusione. Nel febbraio del 2019 ottiene la semilibertà e, nell'ottobre dell'anno successivo, la libertà condizionale. È morto per un malore il 30 giugno 2021, all'età di 76 anni, mentre faceva il bagno a largo delle acque di Bagnaia, all'isola d'Elba.

Tutti i dubbi sull'omicidio Sutter

La perizia medico-legale

Nel 1971 i consulenti del giudice istruttore - i professori Franchini e Chiozza - affermano che il decesso risale alle ore 18 del 6 maggio 1971, il giorno della scomparsa, e che l’immersione del cadavere in mare è avvenuta entro poche ore dalla morte. Inoltre precisano che "non vi è stata violenza carnale" né sono state "riscontrate nel sangue della vittima tracce di sostanze stupefacenti o di sostanze tossiche che abbiano potuto determinare la morte o uno stato di diminuita difesa".

Nel 1972 il perito di parte nominato dal giudice istruttore, il professor Giacomo Canepa, analizzando la perizia di Franchini e Chiozza, giunge a conclusioni diverse. A detta dell'esperto "il quadro anatomo-patologico non consente di attribuire la morte della vittima ad asfissia meccanica violenta" e che la morte può essere stata originata "da un'altra causa". Infine spiega che il decesso può risalire a un periodo compreso fra il 6 maggio 1971 e una settimana prima del ritrovamento del corpo. (Le informazioni sono state fornite dalla criminologa e psicologa giuridica Laura Baccaro).

“Il professor Canepa contesta sia l’ipotesi della violenta costrizione al collo (lo strozzamento) che il soffocamento - spiega la criminologa - La collocazione delle ipostasi (lividure cadaveriche, ndr), poi, è incompatibile con l’immersione in mare del corpo di Milena entro poche ore dal decesso. La Medicina Legale ci dice ancora oggi che le lividure cadaveriche sul corpo di Milena rivelano che nel post-mortem il cadavere è rimasto per 12-15 ore in posizione supina su un piano, in ambiente temperato, quindi non in mare. Questo non è compatibile con la ricostruzione fatta dai giudici della sentenza di condanna, emessa nel 1975. È anche da verificare se è possibile che un corpo gettato in mare vicino a Genova, possa essersi spostato in due settimane solo di poche centinaia di metri. È poi da verificare se le condizioni in cui in cui è stato trovato il corpo di Milena Sutter siano compatibili con la permanenza in mare per due settimane".

Quanto all'assenza di tracce di stupefacenti nel sangue di Milena, l'esperta precisa: “Oggi sappiamo che gli esami tossicologici eseguiti nel maggio 1971 erano già a quel tempo inadeguati. Quegli esami non erano in grado di intercettare la presenza di sostanze stupefacenti (eroina, ad esempio) e/o di barbiturici, che l’offender avrebbe potuto far assumere alla vittima (anche a sua insaputa)”.

Il profilo criminologico di Bozano

Sin da subito Lorenzo Bozano finisce su tutti i quotidiani nazionali come il “biondino della spider rossa”. Ma non è né biondo né di corporatura minuta. Di lui si dice in giro che sia un “perdigiorno”, sempre a caccia di soldi, uno con delle “perversioni sessuali” e dalla personalità eccentrica. “Quando lo incontrai, anni fa, Lorenzo Bozano era un anziano signore di 70 anni - spiega ancora la criminologa - Cortese come può esserlo chi ha una certa età, quasi fuori moda, mostrava una certa sobrietà di modi e di linguaggio. Era disponibile e aperto al confronto pur con una certa rigidità e diffidenza iniziali. Sicuramente è stato influenzato dalla preoccupazione di fornire un’immagine di sé conformista e convenzionale, proprio di chi ha trascorso una vita in carcere. Bozano era molto sensibile al pensiero e al giudizio degli altri".

Non solo: "Lorenzo mostrava, già da giovane, una personalità rigida e moralista, con un elevato senso del dovere, attenta ai dettagli a volte in modo esagerato, lenta e granitica nelle sue certezze. Questo lo faceva sembrare supponente e arrogante. Non gli sono mai stata simpatica perché, in base alle mie analisi riportate nel libro 'Il Biondino della Spider Rossa. Crimine, giustizia e media', ho detto che anche nel 1971 Lorenzo Bozano non era, secondo me, in grado di pianificare e portare a termine un progetto complesso come quello della scomparsa e del successivo triste epilogo di Milena Sutter”.

Eppure, i giudici dell'epoca ritennero che potesse esser stato in grado di commettere il delitto. “La costruzione del 'mostro Bozano', fatta dai giudici che lo condannarono in appello, è un’immagine stereotipata e sensazionalistica - continua l'esperta - È poco aderente alla realtà fotografata dalle analisi e dalle valutazioni tecniche degli esperti di psicologia e psichiatria che allora lo ebbero a valutare. Non sono mai state registrate 'perversioni sessuali' in Lorenzo Bozano: né allora, al momento del caso di Milena Sutter, né nelle mie indagini psicologiche”.

Il movente del delitto

Quanto al movente, l'ipotesi formulata dagli inquirenti fu quella di un rapimento a scopo di estorsione. “Sull'anomalia e poca credibilità di un rapimento di Milena Sutter a scopo di estorsione concordano gli stessi giornali genovesi del 1971, in alcune analisi del caso prima del ritrovamento del corpo di Milena. Dubbi ci sono anche fra gli inquirenti: il capo della Squadra Mobile di Genova, Angelo Costa, mostra chiaro di pensare a un’azione di tipo sessuale”, chiarisce la dottoressa Baccaro.

Secondo l'esperta, le ipotesi relative "all'azione dell'offender" possono essere tre. “Se è stato un omicidio premeditato, il movente è legato a un esercizio di potere/dominazione - spiega - Se è stato un incidente, ad esempio un arresto cardiaco in una circostanza da chiarire, la conseguenza è l’azione di staging (una messinscena) per nascondere il corpo, e poi farlo ritrovare al momento opportuno: il 20 maggio 1971, quando Bozano è libero e tale resterebbe se non si trova la vittima. Oppure un raptus del momento, ovvero una perdita di controllo da parte dell’offender. A mio parere la morte di Milena Sutter non era nelle intenzioni dell’offender: un’ipotesi fondata è che si sia trattato di un omicidio preterintenzionale. Forse si dovrebbero valutare soltanto i fatti oggettivi e togliere la parola rapimento dalla ricostruzione del caso”.

Chi è il biondino della spider rossa?

Come ben precisa il giornalista e coautore del libro “Il biondino della spider rossa”, Maurizio Corte, ci sono alcune piste investigative che non sono state prese in considerazione dagli inquirenti del tempo. Come, ad esempio, quella di “Claudio” un nome che ricorre nel diario personale e sullo zaino di Milena. “Claudio My Love. I love Claudio”, scrive la ragazzina nelle pagine della sua agenda. Ma non è tutto. “Ci sono elementi per dire che sia in via Peschiera, davanti alla Scuola Svizzera, sia in via Orsini, nella zona in cui abitava Milena Sutter, vi era un altro biondino, con una spider rossa nuova fiammante - afferma la criminologa - Non vi sono tuttavia dati sufficienti per affermare, oltre ogni dubbio, che questo biondino abbia a che fare con la morte di Milena”.

Al netto dell'ipotesi sulla identità dell'assassino di Milena, e della condanna inflitta a Bozano, restano ancora molti dubbi sulle dinamiche del delitto. Insomma, perché Milena è stata uccisa? “È assai probabile che la giovane studentessa della Scuola Svizzera di Genova non sia stata rapita per denaro. La richiesta di 50 milioni di lire (circa 500 mila euro di oggi) non sta in piedi. La versione del rapimento, con la telefonata del rapitore che mostra molte incongruenze, può essere solo una messinscena per distogliere l’attenzione. C’è infatti da chiedersi: come mai la vittima – se rapita per denaro – è stata trovata svestita, come accade nei delitti a sfondo sessuale? Senza contare un’interessante ipotesi avanzata da don Andrea Gallo, nel suo libro 'Io non mi arrendo'. Don Gallo afferma, a proposito del caso di Milena Sutter: 'È un affare tra borghesi'”.

·        Il mistero di Tiziana Cantone.

(ANSA il 25 maggio 2022) - Resta il suicidio per impiccagione l'ipotesi più probabile in relazione alla morte di Tiziana Cantone, la 31enne trovata senza vita, con un foulard al collo, il 13 settembre 2016, nell'abitazione della zia, a Casalnuovo (Napoli). E' quanto emerge dall'autopsia disposta nell'ambito delle indagini per omicidio volontario che hanno portato alla riesumazione del cadavere della donna, all'inizio del 2021.

La relazione dei medici legali, nominati dalla Procura di Napoli Nord, è stata depositata circa un mese fa. Resta comunque aperto il fascicolo (assegnato al sostituto procuratore Giovanni Corona) per l'ipotesi di omicidio volontario: gli inquirenti attendono il deposito della perizia psicologica che dovrebbe far luce sulle condizioni emotive di Tiziana, anche in relazione ai farmaci che assumeva e alle dichiarazioni che la ragazza aveva reso dopo la diffusione dei suoi video privati.

Solo a seguito di queste nuove risultanze, gli investigatori decideranno se archiviare l'indagine per omicidio oppure se continuare a indagare su questa pista. Nei giorni scorsi, uno dei dei video di Tiziana, è spuntato nuovamente dal deep web e ripubblicato on-line. Una vicenda, questa, che ha suscitato molto clamore e ravvivato le sofferenze della mamma della Cantone