Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Parliamo di Bibbiano.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
La Sindrome di Stoccolma.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia Ingiusta.
La durata delle indagini.
I Consulenti.
Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Il Diritto di Difesa vale meno…
Gli Incapaci…
Figli di Trojan.
Le Mie Prigioni.
Le fughe all’estero.
Il 41 bis ed il 4 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.
Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tribunale dei media.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Angelo Massaro.
Anna Maria Manna.
Cesare Vincenti.
Daniela Poggiali.
Diego Olivieri.
Edoardo Rixi.
Enrico Coscioni.
Enzo Tortora.
Fausta Bonino.
Francesco Addeo.
Giacomo Seydou Sy.
Giancarlo Benedetti.
Giulia Ligresti.
Giuseppe Gulotta.
Greta Gila.
Mario Tirozzi.
Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.
Mauro Vizzino.
Michele Iorio.
Michele Schiano di Visconti.
Monica Busetto.
Nazario Matachione.
Nino Rizzo.
Nunzia De Girolamo.
Piervito Bardi.
Pio Del Gaudio.
Samuele Bertinelli.
Simone Uggetti.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
Gli Impuniti.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Palamaragate.
Magistratopoli.
Le toghe politiche.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il Mistero della Strage di Ustica.
Il mistero della Moby Prince.
I Cold Case italiani.
Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda della Uno Bianca.
Il mistero di Mattia Caruso.
Il caso di Marcello Toscano.
Il caso di Mauro Antonello.
Il caso di Angela Celentano.
Il caso di Tiziana Deserto.
Il mistero di Giorgiana Masi.
Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il Caso di Marta Russo.
Il giallo di Polina Kochelenko.
Il Mistero di Martine Beauregard.
Il Caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Sonia Di Pinto.
La vicenda di Maria Teresa Novara.
Il Caso di Daniele Gravili.
Il mistero di Giorgio Medaglia.
Il mistero di Eleuterio Codecà.
Il mistero Pecorelli.
Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
Il Caso Bruno Caccia.
Il mistero di Acca Larentia.
Il mistero di Luca Attanasio.
Il mistero di Evi Rauter.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Milena Sutter.
Il mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sonia Marra.
Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero di Daniela Roveri.
Il caso di Alberto Agazzani.
Il Mistero di Michele Cilli.
Il Caso di Giorgio Medaglia.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
Il caso del serial killer di Mantova.
Il mistero di Andreea Rabciuc.
Il caso di Annamaria Sorrentino.
Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Il giallo di Domenico La Duca.
Il mistero di Giacomo Sartori.
Il mistero di Andrea Liponi.
Il mistero di Claudio Mandia.
Il mistero di Svetlana Balica.
Il mistero Mattei.
Il caso di Benno Neumair.
Il mistero del delitto di via Poma.
Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Il mistero di Michele Merlo.
Il Giallo di Federica Farinella.
Il mistero di Mauro Guerra.
Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Paolo Moroni.
Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
Il caso di Alessandro Nasta.
Il Caso di Mario Bozzoli.
Il caso di Cranio Randagio.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il Caso Gucci.
Il mistero di Dino Reatti.
Il Caso di Serena Mollicone.
Il Caso di Marco Vannini.
Il mistero di Paolo Astesana.
Il mistero di Vittoria Gabri.
Il Delitto di Trieste.
Il Mistero di Agata Scuto.
Il mistero di Arianna Zardi.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il giallo di Vanessa Bruno.
Il mistero di Laura Ziliani.
Il Caso Teodosio Losito.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il caso di Gianluca Bertoni.
Il caso di Denise Pipitone.
Il mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Francesco Scieri.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Mirella Gregori.
Il giallo del giudice Adinolfi.
Il Mistero del Mostro di Modena.
Il Mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso del Mostro di Marsala.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
Il Mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Lucia Raso.
Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il Mistero di Anthony Bivona.
Il Caso di Diego Gugole.
Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Il mostro di Foligno.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso Elisa Claps.
Il mistero di Unabomber.
Il caso degli "uomini d'oro".
Il mostro di Parma.
Il caso delle prostitute di Roma.
Il caso di Desirée Mariottini.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Alice Neri.
Il Mistero di Matilda Borin.
Il mistero di don Guglielmo.
Il giallo del seggio elettorale.
Il Mistero di Alessia Sbal.
Il caso di Kalinka Bamberski.
Il mistero di Gaia Randazzo.
Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Angelo Bonomelli.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il caso di Sabina Badami.
Il caso di Sara Bosco.
Il mistero di Giorgia Padoan.
Il mistero di Silvia Cipriani.
Il Caso di Francesco Virdis.
La vicenda di Massimo Alessio Melluso.
La vicenda di Anna Maria Burrini.
La vicenda di Raffaella Maietta.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Fatmir Ara.
Il mistero di Katty Skerl.
Il caso Vittone.
Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Il Caso di Salvatore Bramucci.
Il Mistero di Simone Mattarelli.
Il mistero di Fausto Gozzini.
Il caso di Franca Demichela.
Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.
Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.
Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.
Il mistero di Antonietta Longo.
Il Mistero di Clotilde Fossati.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il mistero di Michele Vinci.
Il Mistero di Adriano Pacifico.
Il giallo di Walter Pappalettera.
Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.
Il mistero di Andrea Mirabile.
Il mistero di Attilio Dutto.
Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.
Il mistero di JonBenet Ramsey.
Il Caso di Luciana Biggi.
Il mistero di Massimo Melis.
Il mistero di Sara Pegoraro.
Il caso di Marianna Cendron.
Il mistero di Franco Severi.
Il mistero di Norma Megardi.
Il caso di Aldo Gioia.
Il mistero di Domenico Manzo.
Il mistero di Maria Maddalena Berruti.
Il mistero di Massimo Bochicchio.
Il mistero della morte di Fausto Iob.
Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.
Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.
Il delitto insoluto di Piera Melania.
Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri.
Il mistero di Jessica Lesto.
Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.
L’omicidio nella villa del Rastel Verd.
Il Delitto Roberto Klinger.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.
LA GIUSTIZIA
OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Nordio: «La legge Severino va cambiata. I condannati in primo grado devono potersi candidare». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.
Il ministro della Giustizia: il traffico d’influenze così non va, è un’intenzione vaga
Lo scandalo di Bruxelles per Paolo Gentiloni è la più drammatica storia di corruzione degli ultimi anni. Carlo Nordio, come ministro della Giustizia, concorda?
«È sicuramente un fatto allarmante. Da autentico garantista attendo l’esito delle indagini. Ma, certo, la flagranza del reato e il possesso di fondi enormi ingiustificati, affievolisce il caposaldo della presunzione di innocenza».
Oltre ai singoli, coinvolge il Parlamento europeo.
«È questa la cosa più brutta. Se verrà accertato occorrerà una riflessione sul modo in cui vengono approvati i provvedimenti. Per capire se è stata un’eccezione o ci sono precedenti nascosti. E far sì che non accada più».
Sì, ma come?
«La ricetta è sempre la stessa: semplificare le procedure e individuare singole competenze e responsabilità. Il groviglio consente a intermediari di intervenire nell’ombra».
Quale lezione possiamo trarre da questa vicenda?
«Che la corruzione c’è da sempre, come narrano Cicerone e Lisia. E dappertutto, come dimostrò la vicenda Lockheed, nata in Olanda».
Ma da noi ce n’è di più?
«In Italia è più diffusa e capillare perché facilitata da un potere diffuso. La discrezione sconfina con l’arbitrio che spinge a oliare serrature altrimenti chiuse. La percezione da noi è 10 volte più alta. Non è un caso. A fronte di una media europea, a spanne, di 25mila leggi ne abbiamo 250.000. Più lo Stato è corrotto più sforna leggi».
Non insegna anche che le intercettazioni servono ed è pericoloso depotenziarle?
«Al netto di quelle per reati di mafia e terrorismo, che non vanno toccate, la norma va modificata: c’è un problema di divulgazione e uno puramente economico, perché vengono spesi centinaia di milioni che potrebbero essere utilizzati per altro, e producono pochi risultati».
La norma è appena stata modificata in modo restrittivo. Perché non basta?
«Se intercettazioni estranee al reato e che coinvolgono fatti privati finiscono sui giornali evidentemente non basta. E poi le intercettazioni devono essere uno strumento di indagine e non una prova».
A Bruxelles sono sui giornali. E non ne è nato un caso. Anzi.
«Per quanto si è capito, lì è esattamente accaduto ciò che è avvenuto a Venezia sul Mose. Anche noi abbiamo utilizzato intercettazioni. Ma la prova erano i soldi trovati».
Ma l’accesso alle notizie è garantito. Qui, dopo la riforma Cartabia, i magistrati rischiano il procedimento disciplinare. Non è eccessivo?
«Non l’abbiamo fatta noi. In effetti il pendolo che ha a lungo oscillato verso la divulgazione forsennata ora è completamente dall’altra parte».
E quindi?
«Va rimodulata la norma per conciliare il diritto all’informazione dei cittadini e quello dei singoli a non veder divulgate notizie segrete e intime che li riguardano. Per ripristinare una par condicio di informazione tra le parti».
Perché non lo fate subito?
«Siamo apertissimi a cercare un punto d’incontro tra diritto all’informazione e limiti alla graticola mediatica. Sono pronto ad aprire un tavolo di confronto tra rappresentanti dell’Anm, dell’avvocatura e del giornalismo, anche domani».
Non è incongruente la stretta sulle intercettazioni e il decreto sui Rave che le prevede per i ragazzi?
«Le intercettazioni non sono obbligatorie. E spero ne facciano poche o affatto».
Non sono troppi sei anni?
«La pena rischiava di essere inferiore a quella per invasione di terreni aggravata. Sarebbe stata una contraddizione».
Con l’allarme appetiti della criminalità sui fondi del Pnrr è il caso di rimettere mano alla legge Severino?
«Abbiamo ricevuto sollecitazione dall’Anci, e l’apertura del Pd, per abolire o modificare radicalmente abuso d’ufficio e traffico di influenze».
Il traffico di influenze non è il primo passo contro la corruzione chiesto dall’Ue?
«Sì, ma l’Ue non ha chiesto una norma inadeguata che manca di tassatività e specificità facendo sì che tutti possano essere indagati ma quasi nessuno condannato. E poi leggendola non si capisce il reato che descrive, c’è solo un’intenzione vaga di punire il lobbismo».
Pensa che invece servirebbe una legge sulle lobby?
«Sì. E poi ci sono altre parti della Severino che non funzionano».
A quali si riferisce?
«Occorre far sì che la norma sull’incandidabilità non venga applicata ai condannati in primo grado».
Cioè tornerebbero candidabili i condannati?
«In primo grado sì. Altrimenti la norma confliggerebbe con la presunzione di innocenza. L’incandidabilita dovrebbe scattare dalla sentenza di appello in poi».
Anche per chi ha commesso reati gravi?
«Su questo si può discutere. Certamente la norma non può essere applicata retroattivamente perché è pur sempre un provvedimento afflittivo, visto che chi è in carica vuole rimanerci. Comunque su questo ci sono idee trasversali diverse. Credo che dobbiamo fare un dibattito trasparente e senza pregiudizi».
Non è stato un errore escludere i reati di corruzione dall’ergastolo ostativo?
«Abbiamo seguito le indicazioni della Corte Costituzionale. In ogni caso una norma così severa va limitata a reati gravissimi».
Lei è tornato a parlare anche di separazione delle carriere. Perché è urgente?
«Non lo è. È un obiettivo a cui tendere. Ma necessita di tempi molto lunghi perché prevede una revisione costituzionale. In questo momento dobbiamo dedicarci a cose meno divisive come l’efficienza della giustizia».
Incontrerà l’Anm che l’ha criticata?
«L’ho già incontrata. Queste riforme erano già state anticipate. È stata trascurata la prima parte della mia relazione, proprio quella relativa all’efficienza della giustizia».
Alla luce delle indagini di Bruxelles è il caso di trattare con Paesi a rischio diritti umani, come il Qatar che, a Priolo, è in corsa con gli Usa per acquistare la Lukoil?
«È un problema politico di livello più alto. Non compete al ministro della giustizia».
Ha annunciato interventi sul carcere. Quali?
«Sto cercando di ottenere parte del tesoretto per devolverlo a polizia penitenziaria e usarlo per i detenuti: l’aiuto psicologico a chi è a rischio suicidio e il lavoro. Serve un intervento sulle strutture anche se le risorse sono scarse».
E allora come?
«Con pochi soldi per la ristrutturazione si possono utilizzare le caserme dismesse per detenuti in attesa di giudizio o con reati minori. La migliore socializzazione è il lavoro».
La vera dichiarazione di Guerra. Il delirio di onnipotenza dei pm che attaccano Nordio: è la democrazia, bellezza. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista l’11 Dicembre 2022
Guardate un po’ cosa succede, in questo nostro sfortunato Paese, se un Ministro di Giustizia si azzarda a compitare alcune basiche proposte di matrice schiettamente liberale. Un putiferio. Una chiamata subitanea alle armi ed ai forconi. Evocazioni addolorate della Costituzione violata e bestemmiata. E soprattutto, quella allarmata ed accorata accusa: è stata dichiarata guerra alla magistratura! La quale ultima accusa è la più esemplare dimostrazione di come, in Italia, i parametri di giudizio riguardo alla politica giudiziaria vengano ormai, da un buon trentennio in particolare, letteralmente sovvertiti. Partiamo proprio da qui, se avrete pazienza di seguirmi.
Carlo Nordio è innanzitutto un parlamentare della Repubblica, da subito indicato agli elettori come futuro Ministro Guardasigilli, in forza esattamente di quelle idee liberali sulla giustizia penale che egli professa, con la parola e con gli scritti, da lunga pezza. Lui viene eletto, e lo schieramento politico che lo candidava a regista della politica giudiziaria del Paese stravince le elezioni e dunque governa il Paese. Non mi sfuggono, sia chiaro, ambiguità e misteriose contraddizioni alla base di quella designazione. Nordio siede, infatti, su un ossimoro esplosivo, che prima o poi detonerà: siamo garantisti sul processo -ama dire la Presidente Meloni, che pure è una donna intelligente- e giustizialisti sulla esecuzione della pena. Questa si, una bestemmia, e staremo a vedere come il nostro Carlo se la sbroglierà.
Ma è la democrazia, bellezza. Si chiama volontà popolare. Non è che l’on. Nordio, inebriato dalla prestigiosa nomina, ha cominciato a sproloquiare idee bizzarre e sconosciute. Ripete quelle per realizzare le quali è stato eletto dalla maggioranza degli elettori. Quindi, la prima domanda, molto semplice, è questa: chi sta dichiarando guerra a chi? Non certo l’on. Nordio. È la Magistratura, sono alcuni giornali, è la opposizione parlamentare ad aver dichiarato guerra a Nordio. Lui, con quelle sue idee, è passato al vaglio democratico del voto popolare, e quel vaglio non solo lo facoltizza, ma anzi gli impone di attuarle. A tutti costoro non piacciono le idee liberali sulla giustizia penale. Le patiscono come l’acqua i gatti. Sono estranei e naturalmente ostili ad esse, educati come sono da sempre a considerarle, nella più generosa delle ipotesi, boutade salottiere, e pigramente abituati a Ministri di Giustizia di tradizioni culturali opposte o comunque lontanissime da esse.
Cosa ha detto di eversivo il nostro scandaloso Ministro? Per esempio che vuole un ordinamento giudiziario a carriere separate tra PM e Giudici. Si tratta, giusto perché non lo si dimentichi, del sistema ordinamentale più diffuso – nelle sue varie, possibili articolazioni- nelle principali democrazie del nostro pianeta. Siamo noi, insieme a Bulgaria, Romania e Turchia, giusto per capirci, ad essere l’eccezione. E la Francia, dove però i P.M. sono sotto il controllo dell’esecutivo. Non mi risulta che negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Portogallo, in Germania, in Canada, e così via discorrendo, i criminali governino quei Paesi e le persone per bene, terrorizzate, vivano chiuse nelle loro case. Siamo noi in ritardo con la Costituzione, dopo la riforma dell’articolo 111 della Carta, che pretende parità tra accusa e difesa e terzietà del giudice.
La magistratura pretende che quella terzietà sia affidata alla virtù del giudice (“cultura della giurisdizione”, viene chiamata nei dibattiti); noi liberali, se non disturba troppo, pensiamo non basti. E con noi, come tutti sanno, la stragrande maggioranza della pubblica opinione. E che dire delle patologie legate all’uso ed al governo incontrollato delle intercettazioni telefoniche? Nordio non ha dettagliato la natura degli interventi che ha in mente, aspettiamo almeno che ce ne possa parlare, senza per questo dover essere accusato di “favorire le mafie” (Cafiero de Raho). E l’obbligatorietà dell’azione penale? Non esiste più, se mai è esistita, tant’è che le leggi prevedono esplicite deroghe.
Sapete quale è la vera partita? Vogliono che le deroghe (si chiamano “priorità”) continuino ad essere insindacabilmente riservate ai Procuratori della Repubblica. Dunque una scelta politica (tale è una scelta di “priorità” dell’azione penale) affidata ad un qualificato burocrate, che però non ne risponde a nessuno. Per carità, sono idee come altre, ognuno difenda le proprie. Ma piantiamola con questa invereconda buffonata della “dichiarazione di guerra alla magistratura”. Ammoniamo piuttosto la Magistratura a restare nel suo proprio ruolo, e a non dichiarare guerra ad un Ministro democraticamente legittimato a proporre e realizzare quel programma di riforme. Torniamo ad una Politica che abbia l’orgoglio della propria funzione: attuare la volontà dei cittadini come democraticamente espressa nelle cabine elettorali. Siano gli altri a non dichiarare guerra alle regole democratiche.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Gogna o strumento d’indagine? È lite sulle intercettazioni. Il no dei magistrati al piano del guardasigilli: «Sono indispensabili». Esultano i penalisti: «Finalmente se ne discute». Valentina Stella Il Dubbio il 9 dicembre 2022.
Il tema delle intercettazioni continua ad essere terreno di scontro tra una parte della politica e la magistratura. Abbiamo raccolto il parere di Rossella Marro, presidente di Unicost: «In materia di intercettazioni va sgomberato il campo da un primo equivoco, ossia che in Italia in modo ingiustificato se ne facciano molte di più che in altri Paesi.
L’Italia infatti ha purtroppo il primato delle organizzazioni criminali di stampo mafioso (ndrangheta, sacra corona unita, camorra, mafia) ed il contrasto alle organizzazioni criminali, così come a qualunque altra forma di reato associativo, è possibile soprattutto grazie alle intercettazioni. Anche il fenomeno della concussione o corruzione assume contorni allarmanti ed anche in questi casi lo strumento delle intercettazioni è indispensabile».
Premesso ciò, Marro prosegue: «Condividiamo pienamente la preoccupazione del ministro per le indebite diffusioni di intercettazioni riguardanti anche aspetti di nessun interesse pubblico che tuttavia stravolgono la vita di persone che fino a prova giudiziaria contraria sono innocenti. La gogna mediatica è un fenomeno da contrastare e, sotto questo profilo, è meritorio mantenere sempre alta l’attenzione». Ma si tratta «di un aspetto diverso che nulla ha a che vedere con la indispensabilità dello strumento investigativo. Sul tema della diffusione peraltro di recente è intervenuta una disciplina molto restrittiva in attuazione di una direttiva della Comunità europea, che ha proprio la finalità di assicurare la riservatezza e la tutela della dignità delle persone coinvolte a vario titolo nelle intercettazioni. Occorre verificare sul campo l’efficacia della nuova normativa». È in ogni caso «ingeneroso» attribuire ai magistrati «la responsabilità della diffusione perché spesso proprio i magistrati “subiscono” le fughe di notizie da altri provocate. Le intercettazioni infatti sono necessariamente nella disponibilità di diverse persone che potrebbero avere interesse ad un eventuale uso strumentale delle stesse».
Altre riflessioni ci arrivano da Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, a partire dal sostegno di Nordio alle intercettazioni preventive: «Mi pare chiaramente contraddittorio con la sua reclamata appartenenza culturale di tipo liberale perché, in realtà, esse sono sostanzialmente fuori dal circuito giudiziario. Vengono sì autorizzate dal procuratore generale ma, innanzitutto, non c’è una autorizzazione di un giudice come quelle ordinarie. Poi, soprattutto, la grande differenza tra quelle ordinarie e quelle preventive è che queste ultime rimangono per sempre segrete. Neanche l’interessato, ex post, verrà mai a sapere di essere stato intercettato. E non verrà neanche a sapere che quelle intercettazioni contengono elementi della sua vita privata. Invece oggi, grazie alla legge Orlando, si può ottenere, a posteriori, la distruzione delle intercettazioni non rilevanti per le indagini. Mi sembra singolare che il ministro non colga la differenza tra questi due meccanismi, proprio sul piano delle garanzie».
Nordio ha riportato degli esempi di persone, anche magistrati, la cui vita è stata rovinata dalle intercettazioni. «Ma questi episodi fanno parte del secolo scorso», ricorda Albamonte che continua: «Nel frattempo è cambiata la legge. La disciplina Orlando prevede che quelle non rilevanti vengano già controllate e custodite sotto la responsabilità anche disciplinare del procuratore della Repubblica. Quindi non capisco a cosa faccia riferimento Nordio». Per il pubblico ministero, «questo tema, come diversi altri, è trattato dal ministro in modo pretestuoso per solleticare le aspettative di una certa parte della maggioranza politica – mi riferisco a Forza Italia che ne ha sempre fatto un cavallo di battaglia – e di un segmento di opinione pubblica, che teme le intercettazioni». Anche perché, conclude Albamonte, «ho sentito esponenti del Governo sostenere in televisione che le intercettazioni non verranno toccate per i reati di mafia e terrorismo, pedopornografia, prostituzione e tratta di esseri umani. Stringi, stringi a me pare che non si abbia il coraggio di dire chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito: eliminare le intercettazioni per i reati di concussione e corruzione».
È «importante» invece per Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere penali, «che si torni a discutere della disciplina delle intercettazioni ed è un bene che il ministro Nordio abbia riconosciuto come il bilanciamento tra poteri di investigazione e diritti fondamentali della persona nel nostro sistema processuale sia pessimo». Rosso ricorda che «nella scorsa Legislatura si è mandata al macero la riforma Orlando, che pure qualche freno alle intercettazioni e alla loro divulgazione aveva previsto, e si è adottata una disciplina ben poco garantista che prevede il sostanziale via libera all’uso del trojan».
Infine «è utile ricordare a coloro che ancora oggi – sempre con il solito refrain della lotta alla criminalità organizzata – paventano l’impunità per i criminali che, con la legge n. 7 del 2020 e con la foglia di fico di due aggettivi, si sono in un sol colpo superati gli stessi limiti che la Corte di Cassazione aveva individuato prima con le Sezioni Unite Scurato e poi con la sentenza Cavallo. La fotografia dell’oggi sono i fenomeni della cosiddetta “pesca a strascico” per la ricerca del reato e non della prova». Mettere mano alle intercettazioni «servirà finalmente a ribadire che le comunicazioni tra difensore e indagato non debbono essere non solo utilizzate ma neppure ascoltate».
Aggiotaggio giudiziario. Le riforme di Nordio, le indagini sulla Juventus e il problema tutto italiano dell’inquinamento delle informazioni. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 9 Dicembre 2022.
Le proposte del Guardasigilli, non così garantiste come sembrano, sono state bocciate dal solito circo giornalistico-giudiziario, proprio mentre i giornali riportano intercettazioni sul club bianconero diffondendo solo le tesi dell’accusa. Una vera piaga, mai risolta, della nostra democrazia
Il Guardasigilli Carlo Nordio ha esposto alla Commissione giustizia della Camera una sorta di personale “libro dei sogni” in cui sono contenute quelle “riforme minime” – dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, al rispetto concreto ed effettivo del principio di legalità – che sarebbero appunto il “minimo sindacale” per un paese degno di qualificarsi come governato come uno stato di diritto.
Per questo motivo, l’ex magistrato veneziano ha subito il solito trattamento che il partito giornalistico delle procure riserva a chiunque osi mettere sul tavolo questi temi, vale a dire un indifferenziato pestaggio mediatico e la “fatwa” dei giustizialisti nostrani.
Da ultimo, l’immancabile Gustavo Zagrebelsky ha unito in un unico tratto le critiche al presidente della Repubblica, a Bankitalia e alla magistratura come un complessivo disegno d’assalto alle istituzioni di garanzia mosso dalla destra italiana.
Chi scrive ha avuto modo, su questo giornale, di esprimere la personale diffidenza nei confronti del nuovo Guardasigilli, in particolare sottolineando come la sua visione sia sostanzialmente autoritaria perché, a fronte di massime garanzie per i “galantuomini” nel processo, egli sostiene massimo controllo e chiusura nella fase di prevenzione dei crimini e di esecuzione della pena.
Dunque, per Nordio, le intercettazioni sono da restringere come fonte di ricerca della prova durante l’indagine, ma vanno invece abbondantemente usate prima e a prescindere da ogni controllo giudiziario di legalità come strumento di contrasto sociale alla criminalità.
Così il ministro della Giustizia teorizza che le forze di polizia, in segreto e senza controllo della stessa magistratura, e senza mai darne pubblico conto, possano intercettare i sospetti di ipotetiche illecite attività ancora da accertare. Un modello di stampo ungherese da rigettare in toto.
Nessuna misericordia inoltre per i condannati, con qualche rara eccezione per i responsabili di reati minori. In questa visione, come dimostra il recente decreto anti-rave, i “ladri di Stato” corrotti e corruttori sono equiparati a mafiosi e trafficanti, per cui nessuna alternativa vi può essere al marcire nelle più vergognose carceri europee.
Per questa idea di giustizia chi scrive non ha nessuna simpatia, al contrario delle tante cheerleader di Nordio tra insospettabili organi di stampa e politici sedicenti garantisti.
Tuttavia il vero scandalo è lo squadrismo mediatico che si abbatte su chi osa toccare i fili, a partire dalla famosa e “limacciosa” commissione bicamerale di Massimo D’Alema di fine millennio.
In ragione di ciò, a oggi è problematico finanche eleggere i membri laici per il Consiglio superiore della magistratura dove concorrono personaggi che la magistratura non ama come gli avvocati Gaetano Pecorella e Mauro Anetrini, garantisti e pure autorevoli e per questo invisi alle toghe.
Tuttavia il vero problema non è solo una magistratura arroccata sui suoi privilegi, bensì una diffusa sottocultura che la protegge e accompagna nei suoi vizi, magari per interessi di bottega.
Il mercato delle intercettazioni indiscriminatamente pubblicate sulla stampa, ad esempio, non è una fisima di Nordio ma una piaga reale che inquina la democrazia.
Tramite esso si colpisce un principio di civiltà come la presunzione di innocenza vanamente ribadito da una legge di recente introdotta in mezzo agli strepiti del partito filo-procure dei Travaglio, Bianconi, Bonini e Giannini e non se ne abbiano a male alcuni destinatari (“Amicus plato sed magis veritas…”).
La legge impone ai magistrati la prudenza e la riservatezza sulle indagini, una cosa ovvia, ma non impedisce di surrogare le vecchie conferenze stampa di pm e carabinieri con estesi editoriali sui giornali amici. E dunque basta passare le carte per avere le solite vecchie sentenze anticipate di condanna.
Tale sorte accomuna potenti e cittadini comuni, cardinali, imprenditori e vecchi pregiudicati, dagli Agnelli a Massimo Carminati.
Ultimamente è capitato anche ai proprietari di Gedi, il più importante gruppo editoriale italiano, a proposito del procedimento penale che coinvolge una delle loro più rilevanti partecipazioni, la Juventus, di cui va evidenziato un curioso quanto significativo episodio.
Raccontano le cronache che Cristiano Ronaldo, ex calciatore bianconero negli anni oggetto di indagine, abbia fatto richiesta di accesso agli atti del processo che sono stati depositati per le parti al termine delle indagini, quale soggetto interessato.
Richiesta legittimamente respinta perché il contenuto del fascicolo, ancorché non più coperto dal segreto d’indagine, non può comunque essere pubblicato almeno fino al termine dell’udienza preliminare e la copia dei singoli atti addirittura sino al processo vero e proprio a norma dell’articolo 114 del codice di procedure penale.
Il punto è che invece le gazzette hanno riportato pezzi interi di intercettazioni, alcune con soggetti non coinvolti e hanno diffuso le tesi dell’accusa.
Quasi nessuno ha illustrato le ragioni della difesa e ha correttamente spiegato che l’unica volta in cui è intervenuto un giudice “terzo e imparziale” ha dato torto all’accusa non solo respingendo la solita richiesta di misure cautelari ai danni dei principali imputati, ma addirittura ponendo in dubbio la rilevanza penale delle strombazzate plusvalenze che costituiscono la polpa delle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio informativo.
Stiamo parlando di una società quotata in Borsa ma lo stesso discorso ormai è ricorrente in svariati casi. L’aggiotaggio e l’inquinamento dell’informazione giudiziaria sono un grosso problema di democrazia non ancora risolto e duro a morire.
"Anm fuori dalla realtà. È cambiato il clima: Nordio non è Mastella". L'ex magistrato: "Il ministro è inattaccabile. E ora tutti censurano le toghe politicizzate". Luca Fazzo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio ci ha messo solo quarantadue giorni per scatenare le ire dell'Associazione nazionale magistrati. E adesso cosa accadrà? Cercheranno di silurarlo per via giudiziaria?
«In passato è accaduto spesso - risponde Luca Palamara, che dell'Anm è stato a lungo il potente presidente - che ministri della Giustizia pagassero cara la contrapposizione alle correnti. Basti pensare a quanto accadde al ministro Clemente Mastella. Ma stavolta la vedo dura. Il profilo professionale di Nordio, uno che ha fatto per tutta la vita il pubblico ministero, lo rende difficilmente attaccabile».
Non è paradossale che a entrare quasi immediatamente in rotta di collisione con le correnti delle toghe sia il primo Guardasigilli che viene proprio dalle fila delle Procure?
«Me lo spiego semplicemente col fatto che ormai ci sono problemi divenuti a tal punto patrimonio comune dell'opinione pubblica che non è più possibile nascondersi dietro una foglia di fico. Nordio ha avuto il coraggio di mettere sul tavolo emergenze che, fuori dall'ipocrisia, sono vissute come tali dall'intera società civile italiana. Proprio perché ora provengono da uno che ha fatto per tutta la vita il pm sarebbe il caso che anziché ricorrere alle solite, stereotipate invettive l'Anm affrontasse serenamente i problemi che ha posto. Aggiungo: sarebbe il caso che a rispondere a Nordio fossero persone qualificate e non soggetti che puntano senza titolo a qualificarsi come grandi giuristi. Parlo ovviamente di alcuni giornalisti».
In passato, Cartabia compresa, la scena era sempre la stessa. Arrivava un nuovo ministro, annunciava riforme più o meno epocali, le correnti dei giudici ruggivano e la riforma finiva in niente o quasi. L'Anm di oggi ha ancora il potere di fermare Nordio?
«Tutto quello che è accaduto ha inciso in profondità nel tessuto connettivo della magistratura italiana. La magistratura non è più quella di dieci anni fa, non siamo più all'epoca delle corazzate antiberlusconiane. La politicizzazione della magistratura è vista come un male dalla grande parte della magistratura, anche se l'Anm cerca disperatamente di riproporre le stesse parole d'ordine di sempre. Ancora più incredibile è che a farlo sia l'attuale presidente dell'Associazione, che prima era il capo dell'ufficio legislativo del ministro di centrosinistra e che mischia i due ruoli in maniera clamorosa».
L'altro giorno all'assemblea di Area, la corrente dei giudici di sinistra, si sentivano cose da anni Settanta. Il governo di centrodestra è stato accusato di volere «un ridimensionamento del modello costituzionale di magistrato», di lavorare «all'idea di un pubblico mistero sempre più compresso e sacrificato».
«Ci sono pezzi della magistratura refrattari a qualunque maturazione, decisi a portare avanti fino alla fine l'idea che schierarsi politicamente sia un diritto e anzi un dovere. Sono tagliati fuori dalla realtà».
A mettere Nordio sotto tiro è stato soprattutto il suo annuncio di ridurre l'utilizzo delle intercettazioni. Così si aiutano i criminali, è stato detto. La leader di Area ha definito le intercettazioni «pacificamente indispensabili per le attività di indagine».
«Il problema delle intercettazioni si trascina da vent'anni, l'abuso che ne è stato fatto è perfettamente noto anche a tutti i pubblici ministeri e a tutti i giudici. Oggi si difendono a spada tratta le intercettazioni solo perché sono funzionali a un processo penale utile a interessi diversi da quelli della giustizia: utile ai giornali, utile alle forze politiche per eliminare l'avversario di turno. È un insulto all'intelligenza dei cittadini sostenere che limitare questi abusi vorrebbe dire indebolire la tenuta del processo penale. Nordio non ha nessuna intenzione di indebolire la lotta al crimine, e accusarlo di avere questa intenzione è una clamorosa bugia, una falsità indegna di qualunque magistrato perbene. Ed è grave che venga rilanciata in maniera acritica dai soliti organi di stampa».
Lei sembra convinto che sia la volta buona perché la politica non subisca i diktat delle toghe organizzate.
«Sì. È cambiato il clima, è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. E fortunatamente sono cambiati anche i giudici».
Liana Milella per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022.
«Nordio? Non mi piace più come ministro della Giustizia dopo i suoi discorsi in Parlamento». L'ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick ripercorre con Repubblica il Nordio pensiero che «rischia di non risolvere i tanti problemi della giustizia».
Tra Senato e Camera Nordio ha distrutto la magistratura. Reati inutili, intercettazioni di fatto illegali, Csm "palamariano", presunzione d'innocenza violata.
Come giudica questa "tabula rasa"?
«Mi lascia perplesso usare questa definizione per una realtà complessa che viene molto semplificata, da un lato con le parole di Nordio, e dall'altro con le critiche che gli si muovono. Preferisco vedere la magistratura nei termini in cui essa è stata richiamata dal capo dello Stato nel giorno del suo insediamento».
Cosa disse che l'ha stupita?
«Sono rimasto colpito dalla distanza tra l'elogio alla magistratura che il presidente aveva fatto nel 2018, e la durezza del quadro che ne ha fatto quest' anno. Necessità di un profondo impegno riformatore, perplessità di fronte a un terreno di scontro che ha fatto perdere di vista gli interessi della collettività, necessità che il Csm corrisponda alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità».
Allora lei è un "nordiamo"?
«Per niente. Condivido le censure pesanti che tanti, compreso Nordio, muovono alla dinamica delle intercettazioni e alla loro divulgazione. Non credo però che il rimedio possa essere quello che lui propone, intercettazioni segrete di competenza pressoché esclusiva della polizia, senza un controllo effettivo della magistratura e senza garanzie di conoscenza per chi ne è oggetto».
Nordio ce l'ha con gli ex colleghi?
«In alcuni passaggi ne parla troppo male per non ingenerare il sospetto di un inconscio freudiano e di una latente rivalsa».
Le intercettazioni, Nordio minaccia di dimettersi se non riesce a ridurle e a non farle più uscire.
«Le registrazioni che stanno all'interno del processo e che sono "assolutamente indispensabili" per proseguire le indagini, sono già regolate da una legge precisa e valida, che proposi io 20 anni fa e che ha attuato dopo molte discussioni il Guardasigilli Orlando nel 2017. Il problema è far rispettare questa legge e usare le intercettazioni quando ne ricorrono i presupposti. Ma non è logico contestare un reato con pene alte al solo fine di poter intercettare».
Come altri prima di lui, vedi Berlusconi e Renzi, Nordio agogna una riforma costituzionale.
«Qualche modifica costituzionale può essere necessaria. La prima è riconoscere al capo dello Stato la nomina del suo vice al Csm che oggi è oggetto di una trattativa tra correnti dei togati e laici. Le "porti girevoli" vanno chiuse non solo per chi entra ed esce dalla magistratura per fare politica, ma anche da chi esce dalla politica per andare al Csm. La Costituzione richiede, per i laici, non requisiti di rappresentanza politica, ma di preparazione tecnica».
Un ministro dura in carica, se tutto va bene, 5 anni. Ha senso imbarcarsi in una riforma costituzionale? I precedenti di Berlusconi e Renzi sono fallimentari
«Se si vogliono separare le carriere, obiettivo mitico e storico del contrasto tra giudici e avvocati, e se si vuole eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale che da principio di eguaglianza finisce per diventare foglia di fico di una discrezionalità abnorme, occorre la modifica costituzionale. Ma è così necessaria e urgente? A me pare che la concretezza dei problemi della giustizia richieda interventi subito operativi e non anni di attese».
Che garanzie dà la discrezionalità dell'azione penale? Perché invece tutti i reati, grandi e piccoli, non vanno perseguiti?
«Sì, ma solo se è possibile. L'esperienza insegna che i reati sono tanti e per giunta si continua a prevederne altri».
Pensa al decreto Rave?
«Come ha fatto a indovinare?».
Da avvocato vede un connubio "scandaloso" tra pm e giudici?
«Ho visto qualche episodio che mi ha lasciato perplesso, ma non si può generalizzare. Il problema non è quello di separare le carriere, quanto di chiedere ai pm il rispetto rigoroso delle regole».
"Garantisti nel processo, giustizialisti nella pena", dice Meloni.
"È un binomio contrario alla Costituzione, per me inaccettabile, che mi auguro Nordio rettifichi totalmente nel suo "vasto" programma"».
Se serve un pm per regolare i pm. È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. Augusto Minzolini il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.
È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. È il pedigree che differenzia Carlo Nordio dai tanti predecessori che negli ultimi quarant'anni hanno tentato di rimettere ordine invano in un settore in cui da decenni le gerarchie sono saltate, come pure i ruoli, in un meccanismo perverso di bracci di ferro e prove di forza. Il fatto che l'attuale Guardasigilli provenga dalla categoria che più di altre ha esondato dai propri poteri, che ha fatto il bello e cattivo tempo in giustizia come in politica, cioè i pubblici ministeri, è un punto di forza, perché ne conosce limiti, ossessioni e ambizioni. Soprattutto non subisce i timori, le minacce più o meno velate, le intimidazioni che hanno spesso tenuto al guinzaglio il Parlamento e bloccato una riforma degna di questo nome.
Quella del ministro Cartabia, ad esempio, anche se è intervenuta su temi importanti - come l'andirivieni di magistrati tra tribunali, Procure, Camera e Senato - si è tenuta distante dai nodi cruciali, cioè quelli che hanno permesso ai pm di avere il sopravvento sul resto del mondo togato e di condizionare non poco le fasi politiche. Parlo dell'uso smodato delle intercettazioni e della separazione delle carriere fra giudici e pm, questione di cui si parla nei convegni, mai in Parlamento. Sono argomenti che possono determinare una svolta, la fine di un'epoca in cui l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione è stato messo a repentaglio senza che nessuno abbia potuto - e saputo - opporsi efficacemente.
Nordio il coraggio lo ha. Lo si comprende dalla chiarezza del suo disegno che non sta appresso alle fumisterie che spesso hanno accompagnato riforme molto declamate ma che non hanno portato risultati. E si arguisce dalla determinazione con cui persegue il suo progetto, che ha messo in allarme tutti quelli che sono interessati a mantenere lo «status quo».
A cominciare dalla corrente dei magistrati di sinistra, le «toghe rosse», che hanno accusato il ministro di volere comprimere il ruolo dei pm. Un altolà preventivo che dimostra l'irrequietezza di chi vede messo in discussione il ruolo di protagonista di cui ha goduto in questi anni. Nei quali, con avvisi di garanzia e indagini basate sul nulla, si facevano saltare governi e si distruggevano carriere politiche o imprenditoriali. O, ancora, ne è prova il nervosismo con cui la sinistra, la parte politica che più è stata favorita da certa magistratura, ha cominciato ad erigere barriere, rifiutandosi di aprire un confronto. Anzi, l'ex responsabile Giustizia del Pd, Walter Verini, si è lasciato andare ad una previsione che non promette niente di buono: «Ricomincerà la guerra tra politica e toghe».
Era prevedibile. È una guerra di potere e ricomporre l'equilibrio non sarà semplice, né indolore. Molto dipenderà dalla capacità della maggioranza di centrodestra di restare unita e magari di coinvolgere una parte dell'opposizione che, non fosse altro per esperienze provate sulla propria pelle (Renzi), è più sensibile a questi temi.
Carlo Nordio monumentale: lezione agli spioni, cosa ha detto. Carlo Nordio su Libero Quotidiano il 10 dicembre 2022.
Nel seguente stralcio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde, nel corso di una seduta della Commissione giustizia del Senato in cui lo stesso ministro illustra le linee programmatiche del suo dicastero, a una domanda del senatore Roberto Scarpinato, ex magistrato e attuale senatore del Movimento 5 Stelle, sul rischio - a detta di Scarpinato - di «depotenziamento delle capacità di risposta del sistema penale al fenomeno della corruzione», e questo con particolare riferimento alla «riduzione dell'area di applicazione del reato di abuso di ufficio» e al «taglio alle spese di intercettazioni». Ecco dunque la risposta di Nordio.
Questa valutazione è stata fatta in ambito politico in questi giorni, ed è stata fatta in qua rant' annidi procura della Repubblica, ruolo che ho avuto l'onore di ricoprire prima nel 1982 del indagando sulle Brigate Rosse e ricevendo a casa spesso lettere con la stella a cinque punte; poi indagando sulla Tangentopoli veneta tra il 1992 e il 1996, mandando a giudizio tutti i vertici dell'allora pentapartito - Democrazia Cristiana, Partito Socialista, ministri come De Michelis, Bernini, presidenti di regione; indagando sulla mafia del Brenta, la banda Maniero, indagando su tutti i sequestri di persona che hanno vulnerato la nostra regione negli anni Ottanta e Novanta, e per quanto riguarda la corruzione concludendo la mia carriera coordinando l'inchiesta del Mose, di fronte alla quale la corruzione e gli sprechi di Mani Pulite degli anni Novanta, compresa Milano, impallidiscono, perché corruzione e sprechi del Mose hanno portato a una cifra che grosso modo abbiamo contabilizzato in poco meno di un miliardo di euro. Quindi lei mi consentirà di parlare non ex cattedra, ma con una certa esperienza di questo (argomento).
EFFICACIA PLATONICA
Ho maturato la convinzione prima di tutto che l'intimidazione della norma penale così come è comminata, e che non è quasi mai irrogata, abbia un'efficacia intimidatoria puramente platonica. Va da sé che lo Stato deve prevedere pene molto severe per i gravi reati, va da sé che il giudice le deve irrogare in modo non dico esemplare ma equo, e va da sé che debbano essere eseguite come ho detto prima in modo certo. (Per quanto riguarda il reato di abuso di ufficio) Abbiamo avuto 5.400 procedimenti nell'anno 2021 e si sono conclusi con 9 condanne davanti al Gip e 18 condanne davanti al dibattimento, che significa che a fronte di circa 5.500 indagini abbiamo avuto poco più di una ventina di condanne.
Se noi mettiamo a confronto... Lei mi parla di costi e benefici, lei ha abbastanza esperienza per sapere cosa significa un processo per abuso di atti d'ufficio, significa fare un processo al processo, perché significa ricostruire l'iter amministrativo che ha dato luogo a un atto illegittimo, e significa ricostruire il dolo o il doppio dolo che è stato alla base, o sarebbe stato alla base, di chi ha commesso quell'atto amministrativo. Il costo medio di uno di questi processi è in termini di risorse umane e materiali insostenibile, perché il numero di udienze medie per un reato di abuso di atti di ufficio è di circa tre o quattro, perché ripeto occorre una tale acquisizione di materiale cartaceo e di pareri più o meno interessanti, illuminati, di consulenti e periti, che confondono i magistrati e alla fine si riducono - carta canta, come si dice - in assoluzioni o archiviazioni o non luogo a procedere. Il fatto che si debba avere una prospettiva di 27 condanne a fronte di 5.400 e passa indagini dà già una risposta economica al problema.
Per quanto riguarda le intercettazioni, esse ci costano mediamente 200 milioni l'anno - lei ha posto la domanda in termini economici, io rispondo in termini economici. Nessuno dubita che in certi reati, soprattutto di criminalità organizzata, le intercettazioni siano utili, talvolta indispensabili. Personalmente, credo che le più utili siano quelle preventive, che vengono autorizzate dal pubblico ministero e hanno il vantaggio di rimanere secretate, sotto la responsabilità di chi le ha autorizzate, e con la conseguente individuazione di chi un domani le divulgasse, ne consentisse la diffusione. Premetto subito che su questo punto questo ministro sarà estremamente rigoroso: ogni qualvolta un domani uscissero usciranno violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, la ispezione sarà immediata e rigorosa. Non è più ammissibile che, non si sa da quale parte provenienti, conversazioni che riguardano la vita privata di cittadini che non sono nemmeno indagati e finiscono sui giornali: questo non è tollerabile e non sarà tollerato, almeno nella parte in cui questo ministro ha competenza.
SOLDI PER LE CARCERI
Quindi, il taglio delle intercettazioni: perché? Perché anche qui la montagna ha partorito il topolino. A fronte di duecento milioni l'anno di intercettazioni, quando non abbiamo i soldi per ristrutturare le carceri, dove vengono commessi suicidi perché non c'è l'assistenza psichiatrica, psicologica e medica, l'idea di spendere l'ottanta per cento di questi denari in intercettazioni che sono assolutamente inutili, perché le abbiamo viste, le abbiamo firmate, io stesso le ho firmate a Venezia come procuratore aggiunto, è assolutamente intollerabile.
In definitiva, io sono convinto che la lotta alla delinquenza... Non sono convinto che la magistratura debba lottare, sono convinto che la magistratura debba applicare la legge e che la lotta debba essere fatta dalla politica, dall'educazione, dal senso civico, ma poiché nell'attuale sistema il pubblico ministero è capo della polizia giudiziaria, non trovo improprio che si possa parlare di lotta da parte dei pubblici ministeri nei confronti della criminalità organizzata... Resta il fatto che la sproporzione tra i risultati che sono stati raggiunti da parte di molti pubblici ministeri, dà molte procure della Repubblica, o che non sono stati raggiunti, a fronte di spese enormi e abnormi attraverso le intercettazioni, sono assolutamente incompatibili sia con la civiltà giuridica, con l'articolo 15 della Costituzione che tutela la segretezza delle informazioni, e sia con il momento drammatico economico che stiamo attraversando, che non consente sprechi di risorse.
Da Togliatti a Saragat Il garantismo appartiene al Dna della sinistra. Nordio sta tentando di spostare a destra una tradizione che, prima alla discesa in campo di Berlusconi, le era estranea. Aldo Varano su Il Dubbio il 10 dicembre 2022.
È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran- populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal- liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti.
Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre.
La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira.
Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti.
La svolta giustizialista nel nostro paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro Io sono Giorgia.
Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere.
I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome).
Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana.
Nessuno “virò” su Viola ma da quella parola fraintesa nacque il Palamaragate. Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 dicembre 2022.
Ma se ci fossero regole diverse sulle intercettazioni telefoniche e sul contrasto alla loro diffusione illecita, come affermato l’altro giorno dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Palamaragate sarebbe scoppiato? Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019.
A differenza, però, di quanto accaduto ad esempio ad Angelo Massaro, che per una telefonata distorta scontò da innocente 21 anni di carcere, nel Palamaragate le manette non scattarono: ci si limitò alle dimissioni di sei consiglieri su 16 del Csm e a quelle del procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, oltre allo stop della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. Il telefonino dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, come si ricorderà, era stato prima intercettato e poi “infettato” con il famigerato trojan per scoprire se ci fosse corruzione nelle nomine di Procure e Tribunali.
Nella richiesta di archiviazione, per uno dei filoni, firmata dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani il 13 dicembre del 2021, accolta dal gip Piercarlo Frabotta lo scorso 2 febbraio 2022, si è scoperto come iniziò e si sviluppò l’indagine con il ricorso alle intercettazioni che, in realtà, nulla avevano poi rivelato sulla presunta corruzione, limitandosi a dimostrare che tutti si rivolgevano a Palamara per essere nominati nella ambite cariche senza tuttavia corrispondergli alcuna contropartita, se non quella tipica correntizia.
In particolare, l’ex magistrato di Siracusa Giancarlo Longo aveva riferito nell’interrogatorio del 26 aprile 2019 che l’avvocato Giuseppe Calafiore gli aveva confidato di avere consegnato 40mila euro a Palamara per ottenere la nomina dello stesso Longo quale procuratore di Gela, senza che tuttavia si fosse concretizzato nulla, poiché la toga non prese alcun voto al Csm, neppure quello di Palamara. Non solo. Sempre i pm di Perugia scrissero che Calafiore, interrogato il 10 maggio 2019, aveva negato «fermamente di aver dato 40mila euro a Palamara… Io non ho rapporti con lui». Ebbene, ciononostante per questi 40mila euro mai riscontrati Palamara venne intercettato da febbraio 2019 a maggio 2019 e nell’ultimo mese anche con il trojan.
Il 30 maggio successivo la Procura di Perugia eseguì una perquisizione nei confronti di Palamara, che finì su tutti i giornali, contestandogli anche «il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, nel caso specifico per avere ricevuto, quale componente del Csm, la somma pari ad euro 40mila da Calafiore per la nomina di Longo quale procuratore di Gela».
Anche se Calafiore, come detto, aveva smentito Longo 20 giorni prima. Per non farsi mancare nulla, all’ex deputato dem Luca Lotti, uno dei partecipanti al dopo cena presso l’hotel Champagne, registrato con il trojan nel telefono di Palamara, venne messa in bocca la frase cardine di tutta la vicenda: «Si vira su Viola». In realtà quella frase, riportata dal Gico della guardia di finanza e finita anch’essa su tutti i giornali ad indagini in corso, non era stata mai pronunciata. Lotti si limitò ad affermare «si arriverà su Viola».
Non si trattò, quindi, di una “spinta” del parlamentare nei confronti di Viola quanto, invece, di una constatazione. Insomma, non ci fu nessun accordo toghe- politica per pilotare la nomina di un procuratore compiacente a Roma e favorire Lotti, all’epoca imputato proprio nella Capitale. Quando l’errore venne scoperto, dopo oltre un anno, era ormai troppo tardi. L’iniziale clamore mediatico aveva determinato l’immediato azzeramento del voto in Commissione a favore di Viola e la sua estromissione dal concorso.
La stretta di Nordio sulle intercettazioni serve contro il fango giudiziario. Federico Novella su Panorama il 07 Dicembre 2022.
Per anni, forse decenni, certe procure hanno fatto uscire grazie ad una certa stampa complice pezzi di conversazioni inutili ai fini dell'inchiesta ma perfette per rovinare vite. È ora di dire basta
L’Italia è il Paese dove, spesso, il banale è rivoluzionario. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio stamattina ha ripetuto il concetto: “"La diffusione arbitraria di intercettazioni non è civiltà né libertà" , bensì “una porcheria” e per combatterla "sono pronto a battermi fino alle dimissioni". Al di là del polverone che si è sollevato, sotto sotto sappiamo tutti che l’ex magistrato oggi Guardasigilli ha ragione da vendere: le intercettazioni sono uno strumento utile, che tuttavia in Italia è da anni oggetto di abuso. E una riforma è indispensabile.
Il Ministro, forte della sua esperienza da pm, ha le spalle abbastanza larghe per affrontare l’argomento senza girarci intorno. Ed era prevedibile che le sue parole venissero storpiate dagli avversari. La parte più giustizialista dell’opposizione, con certi giornali in scia, sta raccontando che Nordio vorrebbe abolire le intercettazioni, e alcuni giornalisti suonano l’allarme sulla fine della lotta alla mafia e alla criminalità. Ovviamente non è ciò che ha detto Nordio. Il Ministro ha semplicemente precisato che le intercettazioni, da strumento per ottenere prove, si trasformano troppo spesso nella prova stessa, divenendo in sostanza una trappola mediatica per “delegittimare” gli indagati o gli avversari politici. Allo stesso tempo, Nordio denuncia l’”intollerabile arbitrio” , spesso elevato a sistema, degli stralci di intercettazioni assolutamente estranee alle indagini, che inspiegabilmente filtrano dagli uffici giudiziari sulle prime pagine dei giornali. E anche questo, nessuno può negarlo: il mistero del fango giudiziario trasportato dalle cancellerie dei tribunali alle redazioni è sempre stato un giallo non chiarito della vita pubblica italiana, fin dai tempi di Tangentopoli. Per questo Nordio chiede una profonda revisione di questi istituti. E per l’appunto suona come disperata la risposta di chi, nel Pd, giudica “deludenti le frasi del Ministro”. Mentre truffaldina suona la risposta del manettarismo a cinque stelle, che tuona contro non si sa quale “attacco alla legalità”. E’ paradossale che a farsi paladini della legalità siano gli stessi che, su temi delicati come la sicurezza nelle città e l’immigrazione clandestina, portano avanti da anni la linea più lassista. E più in generale, è fallimentare il tentativo di confondere la legalità con il garantismo. Nessuno vuole eliminare le intercettazioni, ma regolarle è d’obbligo. Qualcun altro vorrebbe invece lasciare tutto così com’è: per poter continuare ad attaccare l’avversario politico tramite vie giudiziarie. O semplicemente per vendere qualche copia in più, sbattendo il mostro indagato in prima pagina, salvo poi dimenticarsene in caso di assoluzione.
Urge la riforma Nordio. Ecco le intercettazioni taroccate da Gratteri e le troppe persone innocenti arrestate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 8 Dicembre 2022.
Sono quei casi che un profano potrebbe ritenere rarissimi. Non sono rarissimi. Specialmente non lo sono a Catanzaro. Cosa è successo? Che un signore che si chiama Francesco Pannace, di 35 anni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di un omicidio. Anche particolarmente ignobile. Aveva freddato con la pistola – secondo l’accusa e la Corte – un padre di famiglia che teneva per mano il figlioletto di sei anni. A incastrarlo alcune testimonianze dei pentiti, che però erano in contrasto una con l’altra, e dunque non potevano provare nulla, ma soprattutto una intercettazione, presentata dall’accusa, che era stata interpretata come una specie di confessione.
Pannace avrebbe detto a un amico: “Hai saputo? Mi hanno incastrato per l’omicidio Polito”. Per la verità non sembra una frase così chiara, ma alla Procura di Gratteri e alla Corte era sembrata chiara e inequivocabile. Al processo d’appello però gli avvocati hanno chiesto che si ascoltasse l’originale dell’intercettazione. E si è scoperto che nella trascrizione era stato tagliato un pezzo della frase. Pannace diceva: “Hai saputo cosa si dice in giro?”. Cioè semplicemente riferiva delle voci contro di lui che poi erano le voci che portarono alla sua incriminazione. Nessuna confessione. Anzi. I giudici della Corte d’appello non hanno avuto dubbi e lo hanno assolto.
Dicevamo che taroccare le intercettazioni a Catanzaro non è una cosa rarissima. Recentemente è emersa l’intercettazione taroccata con la quale due anni fa fu incastrato- appunto: incastrato, che non vuol dire “scoperto” – l’avvocato Pittelli. Era la voce di una signora che diceva al marito, considerato dall’accusa un mafioso: “qui abita l’avvocato Pittelli. È mafioso”. Più che sufficiente questa affermazione per spiccare il mandato di cattura. Poi l’intercettazione è stata ascoltata. Era diversa. La moglie chiedeva al marito: “Ma è mafioso?”, col punto interrogativo. Il marito rispondeva: “No: è avvocato”.
Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”
Pensateci un po’ a questi episodi. Ieri Gratteri ha dichiarato a un giornale che nessuno mai lo farà tacere perché lui è un uomo libero. Va bene: nessuno lo farà tacere. Il problema è se qualcuno gli impedirà di arrestare troppa gente innocente. Che non è libera perché lui, per sbaglio, li ha messi in cella. Magari ci penserà Nordio, se rispetterà la parola e riformerà drasticamente le intercettazioni. Speriamo.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
(ANSA il 7 Dicembre 2022) "Non è vero che ho accusato i pm di aver diffuso le intercettazioni" ma "c'è stato un difetto di vigilanza", "quando usando questo strumento delicatissimo che vulnera, non vigili abbastanza per evitare che persone che non c'entrano nulla con le indagini vengano delegittimate". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, illustrando le linee programmatiche. "Il vulnus non ha colpito solo politici e amministratori, ma anche magistrati", ha ricordato, citando anche Loris D'Ambrosio, deceduto "forse perché coinvolto in questa porcheria di diffusione arbitraria". "Sono disposto a battermi fino alle dimissioni", ha detto.
"Qualcuno ha detto che mi sono scatenato contro i pubblici ministeri, ma figuriamoci se uno che ha fatto il pm per 40 anni può scatenarsi contro i suoi colleghi. Potete immaginare che io possa volere una soggezione del pm al potere esecutivo? E' quasi un insulto. La separazione delle carriere non è soggezione all'esecutivo": questa è una 'speculazione' per non dire che il problema esiste". La ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in audizione alla Commissione della Camera sulle linee programmatiche.
"Reati evanescenti" come l'abuso di ufficio e il traffico d'influenze "vanno rimodulati", e "vi sono delle opzioni che vanno dalla abrogazione, a una maggiore accentuazione della tassatività e della specificità". Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in commissione Giustizia. Nordio li ha definiti reati che "rendono i pubblici amministratori inerti, paralizzati" e "non per paura della condanna" ma di "dimissioni, estromissioni, fine delle carriere politiche, per la strumentalizzazione da parte di nemici e, soprattutto, di amici", che chiedono un passo di lato, insomma: "la morta politica di queste persone".
"Non ho mai detto e non dirò mai che le intercettazioni debbano essere eliminate. L'inchiesta che ho coordinato sul Mose ha avuto migliaia di intercettazioni, ma erano mezzi di ricerca della prova, non di prova" e "non è uscita una parola sui giornali, non è uscita una delegittimazione su un cittadino di Venezia o del resto d'Italia. Se si vuole si può, se non avviene vuole dire che c'è una culpa in vigilando". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo alle domande dei deputati dell'opposizione in audizione alla Commissione Giustizia.
"Voglio che qualcuno mi dica che è tollerabile che escano sui giornali", ha ribadito, ma "se esiste un modo per coniugare la forza delle indagine e la segretezza delle comunicazioni siamo perfettamente d'accordo". "C'è un rimedio? In parte c'è - secondo Nordio -, sono le intercettazioni preventive. E' vero che negli altri Stati esistono le intercettazioni, ma sono solo quelle che noi chiamiamo preventive: segretissime, servono come spunto di indagine e sono conservate nella cassaforte di chi le ha autorizzate sotto la sua responsabilità". "Non si troverà uno scritto in cui dico che vanno eliminate, vanno regolamentate, e impedito che chi non è direttamente coinvolto possa essere delegittimato", ha concluso.
"Si può immaginare se dopo aver fatto 40 anni di magistratura ho intenzione di attaccarla. E' solo perché sono deluso per il comportamento di alcuni, pochi, magistrati, e per l'amore che ho per la magistratura che mi rifiuto che abbia perso legittimità". Lo ha detto il Guardasigilli Carlo Nordio, rispondendo ai deputati. "Quando facevamo le indagini sulle Brigate rosse, e io ricevevo la stella a 5 punte a casa, la nostra credibilità era all'85%. Sa cosa pensano di noi gli italiani? Meglio non dirlo. E questo è un dolore", ha aggiunto, "se oggi la nostra credibilità è crollata è perché molti di noi hanno contribuito a farla crollare".(ANSA)
DAGONEWS il 7 Dicembre 2022.
Nessun Pm della Procura di Milano è andato ieri sera ad assistere alla prima della Scala con il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel carcere di San Vittore, come era previsto.
La mancata partecipazione è una reazione, in evidente dissidio, alle affermazioni di Nordio sulle intercettazioni, ritenute gravi. Era prevista la presenza del Procuratore Capo, del Procuratore Generale e di vari Pm aggiunti, ma nessuno si è presentato, lasciando il Ministro con la sola “Mestizia” Moratti.
Vana l’attesa del Direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano che ha fatto rimuovere i posti a sedere dei pm assenti, alcuni dei quali sono andati direttamente al Teatro della Scala a seguire l’opera dal vivo.
Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 7 Dicembre 2022.
Giorgia Meloni approva, Matteo Salvini esulta e Carlo Nordio mette nero su bianco […] il programma del governo per la riforma della giustizia. […] Una «profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni, la separazione delle carriere, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale che si è ormai tradotta in «intollerabile arbitrio» e, nella pratica immediata, l'accelerazione della riforma della giustizia civile per non perdere i fondi del Pnrr sono i capisaldi del lavoro che intende fare, con severità nei confronti della magistratura inquirente.
Il tutto nel giorno in cui in commissione Giustizia è stata votata l'abolizione della parificazione dei reati della Pubblica amministrazione con quelli di mafia, ai fini del diritto ai benefici penitenziari, misura - come denuncia il viceministro della Giustizia Francesco Sisto - che era stata voluta «dalla foga giustizialista dei Cinque Stelle: una delle battaglie storiche di Forza Italia si avvia così al successo».
[…] Se Matteo Renzi apprezza ma attende che si passi «dalle parole ai fatti», il Pd con Walter Verini parla di relazione «deludente, contraddittoria, con alcuni contenuti inaccettabili» e il M5S insorge: «Nordio vuole la stretta alle intercettazioni, indebolisce la legalità: la lotta alla corruzione non è una priorità di questo governo». L'Associazione nazionale magistrati reagisce con delusione: «Sulle intercettazioni parole vaghe e ingenerose»
[…] Secondo Nordio la riforma del Codice penale va adeguata al dettato costituzionale. Bisogna intervenire perché la presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi», perché appunto c'è un uso «eccessivo e strumentale delle intercettazioni», perché «l'azione penale è diventata arbitraria e capricciosa» e la custodia cautelare è usata «come strumento di pressione investigativa». […]
Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.
Carriere separate tra pm e giudici, meno intercettazioni, azione penale discrezionale su linee guida politiche, uso massiccio e repentino delle ispezioni nelle Procure: non tradendo attese né biografia, il ministro Carlo Nordio ha declamato in Senato il suo manifesto sulla giustizia. […] marcerà «la profonda revisione dei reati generici che intimoriscono sindaci, assessori e governatori: non solo abuso di ufficio ma anche concussione per induzione e traffico di influenze illecite, «vaghe e proteiformi fattispecie». Cambierà anche la legge Severino che sospende gli amministratori condannati in primo grado: «Applicata retroattivamente è una manifesta iniquità».
[…] Nordio intende spogliare il giudice per l'indagine preliminare della competenza a decidere sulle richieste di arresti cautelari delle Procure, affidandola a collegi di giudici incardinati nelle Corti di appello. Quindi più esperti e anziani, in grado di garantire «maggiore ponderatezza e omogeneità di indirizzo». Ma nulla dice sul fatto che le Corti di appello sono già il collo di bottiglia dell'organizzazione giudiziaria, con durata dei processi di 1167 giorni, dieci volte più che in Europa; che hanno organici sottodimensionati del 20%, con punte del 35%; che i bandi di reclutamento vanno regolarmente deserti.
Nordio vuole limitare le intercettazioni, sia telefoniche che ambientali che telematiche (virus trojan inserito nel cellulare). «Il loro numero è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni». […] Nei Paesi anglosassoni anche organi non giurisdizionali (polizia, autorità di regolamentazione di settore) possono disporre intercettazioni. In Italia no: il pm chiede, il giudice autorizza.
Le statistiche ministeriali dicono che negli ultimi anni le intercettazioni in Italia sono diminuite.
Le utenze-bersaglio (le persone sono meno, circa 65mila, perché in genere ne hanno più di una) erano 141mila nel 2013 (record) e oltre 121mila nel 2019; nel 2021 sono state 109mila (stima su dati del primo semestre). Merito di riforme e sentenze della Cassazione che hanno limitato fortemente in senso garantista le autorizzazioni e il travaso da un processo all'altro. Nordio ha aggiunto: «Gran parte delle intercettazioni si fanno sulla base di semplici sospetti e non concludono nulla. Non si è mai vista una condanna inflitta sulla sola base delle intercettazioni». In realtà, finora le critiche garantiste erano alla dominanza probatoria delle intercettazioni rispetto alle indagini tradizionali soprattutto per reati di mafia, corruzione, droga.
[…] Fioccheranno ispezioni nelle Procure in caso di fughe di notizie segrete. Quanto alla pena, il ministro di una coalizione bicefala prova ad accontentare i forcaioli («pena certa, eseguita e rapida») e i liberali («non significa tuttavia sempre e solo carcere»). Quindi pene alternative per i reati minori, patteggiamenti allargati e giustizia riparativa. Se tutto ciò andrà in porto, la fase due punterà a modificare la Costituzione. […] Csm a cui Nordio vuole cambiare i connotati su nomine e valutazioni professionali e sottrarre i processi disciplinari, affidandoli a un'alta corte di nomina mista (proposta Violante); appellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione, su cui a suo tempo Berlusconi fu respinto dalla Corte Costituzionale. […]
Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.
È l'avvocato più famoso d'Italia […] il decano dei penalisti che ha difeso da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi […] Franco Coppi sospira quando gli si chiede cosa pensa di questa annunciata riforma della Giustizia firmata Carlo Nordio. […]
Ma partiamo da Nordio, che ha annunciato una revisione della disciplina delle intercettazioni. «Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria». Soddisfatto?
«Il segreto istruttorio esiste o non esiste […] Occorre rivedere il tema del segreto istruttorio non solo nella prospettiva delle intercettazioni, ma stabilirne i limiti e le sanzioni e come possa essere contemperato con le esigenze dell'informazione. Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova che va accettato se disciplinato bene. […]».
[…] Nordio vuole la divisione delle carriere dei magistrati. D'accordo su questo?
«Io affronterei invece il tema dell'immissione dei magistrati in ruolo. Ci si deve chiedere se il sistema sia al passo con i tempi. Si deve cambiare il concorso con forme che garantiscano veramente l'idoneità del candidato al ruolo, al di la delle conoscenze giuridiche. Ricordo una brillante studentessa che mi chiese la tesi; e voleva fare il pm perché "si sentiva giustizialista". Tutti 30 e 30 e lode, ma io non le ho dato la tesi».
Torniamo alla separazione delle carriere.
«Il problema non è la separazione delle carriere, ma separare le persone intelligenti da quelle che non lo sono. Una persona perbene e preparata sa come deve comportarsi da pm e da giudice».
Quale sono i punti della giustizia da riformare secondo lei?
«[…] c'è sicuramente da rivedere l'udienza preliminare, che si è risolta in un fallimento, dove non c'è un effettivo spazio per le difese. Meglio andare direttamente al dibattimento. Oggi a Roma tra udienza preliminare e inizio del processo passa anche un anno. Ad allungare i tempi ci si mette anche il fatto che il giudice del processo non può conoscere gli atti dell'istruttoria».
[…] Abuso di ufficio?
«Reato al limite della costituzionalità per mancanza di tassatività e determinatezza, […] di difficile definizione normativa e riscontrabilità pratica. […]». […]
L'attacco al guardasigilli. L’innocenza dei pm non esiste, le procure insorgono per la riforma Nordio su intercettazioni e separazione carriere. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’8 Dicembre 2022
Non se lo aspettavano, che dal bozzolo sarebbe uscita la farfalla. Nella prima riunione del Consiglio di ministri, il neo-guardasigilli Carlo Nordio pareva chiuso in se stesso, passivo, mentre si decidevano cose -il rinvio della riforma Cartabia, il peggioramento della norma sull’ergastolo ostativo, un decreto frettoloso e male scritto sui rave party– che rappresentavano il contrario di quel che lui negli anni aveva detto e scritto.
Si erano rilassati, dalle toghe militanti fino all’avvocato del popolo che sta girando l’Italia, soprattutto del sud, per difendere lo stipendio di Stato a chi non lavora, e anche il suo quotidiano di partito. Ma è stata sufficiente un’audizione in commissione Giustizia del Senato perché saltasse per aria il tavolo del conformismo giudiziario, appiattito da trent’anni sulla sub-cultura di Mani Pulite, nonostante gli sforzi di tanti ministri, ultima Marta Cartabia. Dal bozzolo in cui stava rinchiusa quel 31 ottobre è uscita poco più di un mese dopo la farfalla-Nordio con il suo programma, i suoi cavalli di battaglia, la sua storia. E pareva stesse leggendo uno dei suoi libri, uno dei suoi tanti articoli. Non ha ceduto su nulla. Ha evocato lo spirito di Vassalli e la sua riforma del processo del 1989 con l’introduzione del sistema “tendenzialmente” accusatorio.
Ma ha anche annunciato implicitamente che quell’avverbio che aveva denotato un coraggio a metà, andrebbe abolito per sposare il sistema del common law, che prevede la discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere fino a portare il pubblico ministero fuori dallo stesso alveo della magistratura. Il giudice e il pm svolgono ruoli diversi, ha detto il guardasigilli, e non possono percorrere la medesima carriera. Facendo insorgere non solo il sindacato delle toghe, ma anche ex procuratori considerati mostri sacri come Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Con argomenti, spiace dirlo, molto banali oltre che scontati e un po’ bugiardi. Come si fa infatti a parlare ancora di “cultura della giurisdizione” del pm, dopo i metodi usati dalla Procura di Milano nelle inchieste di Tangentopoli ma anche nel recente processo Eni, o quelle di Nicola Gratteri in Calabria? E vogliamo parlare dell’obbligo per legge del pm di raccogliere anche le prove a favore dell’indagato?
Naturalmente il ministro sa bene che questo tipo di riforma, di rilievo costituzionale, può essere solo un programma di legislatura, per i tempi tecnici necessari per cambiare la legge delle leggi. Alla Camera sono già pronte le proposte di partiti di governo sulla separazione delle carriere. Ma intanto sarà il lavoro quotidiano della formichina a decidere se davvero quella di Carlo Nordio, prima di arrivare alla rivoluzione copernicana da lui (e da noi) auspicata, sarà la svolta della giustizia che il Presidente delle Camere Penali Giandomenico Caiazza già vede come l’apertura di una “nuova stagione dopo le storture viste in questi decenni”. La custodia cautelare, non solo in carcere, prima di tutto. E la disciplina sulle intercettazioni con la loro divulgazione, quella che ha fatto venire l’orticaria ieri al sindacato dei magistrati, che si è sentito chiamato in causa da quella battuta su ispezioni ministeriali contro “ogni diffusione impropria”.
È vero, come ha ricordato con tono saputello l’Anm, cha esiste già una riforma del 2017 che dovrebbe preservarne la riservatezza, ma è ancor più sacrosanto il fatto che gli atti giudiziari, soprattutto quando riguardano il mondo della politica, sono dei veri colabrodo. E sono armi micidiali contro il principio di non colpevolezza dell’indagato e la sua reputazione. E il pm, che dovrebbe essere il custode sacro della segretezza degli atti, non ne risponde mai quando questa viene violata. E non bisogna dimenticare la necessità di scindere anche la complicità tra magistrati, forze dell’ordine e giornalisti. Ma c’è tutta una lunga meticolosa attività quotidiana di formichina che il ministro di Giustizia, e con lui il Parlamento, può avviare per poi giungere alla rivoluzione copernicana.
Due giorni fa nel pomeriggio per esempio, nella stessa giornata in cui i senatori avevano interloquito al mattino con il guardasigilli, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva approvato un emendamento del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin di modifica della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro grillino Bonafede. Un emendamento che ha sottratto i reati contro la Pubblica amministrazione all’elenco di quelli “ostativi”, che impediscono la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, come accade per la mafia e il terrorismo. Un tentativo già portato avanti in aula nella scorsa legislatura, ma con poca fortuna, dal deputato di più Europa Riccardo Magi.
Un passo in avanti, per il ripristino della civiltà giuridica, votato anche dal senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva. Naturalmente ci sarà da fare i conti con le contraddizioni sempre più convulse degli esponenti del Pd. Che si sono astenuti, ma che hanno già fatto sapere, dalla voce della responsabile giustizia Rossomando, che faranno rientrare negli ostativi l’aggravante associativa. Con il risultato (possibile non lo capiscano?) che il reato associativo sarà contestato più spesso. O qualcuno crede ancora a Babbo natale e all’innocenza di certi pm?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Da Casarini a Gori, i supporter che non t’aspetti per Nordio «garantista». Storia di Lorenzo Salvia Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.
«Non sono certo amico di ma non posso che condividere con lui la volontà di mettere un freno a questo strapotere dei magistrati». Ricordate Luca Casarini? Ex capo dei Disobbedienti veneti negli anni ‘90, leader del Movimento no global italiano, oggi vive a Palermo e lavora con una ong che si occupa de i migranti in arrivo dalle coste africane. Una voce di sinistra, sebbene irregolare per definizione e per metodo. Che però appoggia gli interventi annunciati dal ministro della Giustizia, iscrivendosi di diritto al fronte pro Nordio che non t’aspetti.
E sull’eliminazione preventivo sono completamente d’accordo con lui» ha detto ieri al Corriere del Veneto, dopo una discreta serie di post e di interventi vari in cui aveva già messo agli atti la sua posizione. Certo, dietro un ragionamento politico c’è spesso un concreto elemento autobiografico. Forse anche stavolta è così. Casarini è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, le intercettazioni delle sue telefonate sono state pubblicate facendo scoppiare un caso: «Ma ero contro la diffusione delle intercettazioni ben prima che capitasse a me» assicura lui, che poi chiama in causa addirittura Berlusconi: «L’accanimento giudiziario contro di lui a cosa ha portato? A vent’anni di berlusconismo».
Resta il fatto che quella di Casarini non è l’unica sorpresa tra le voci a sostegno della riforma annunciata dal nuovo ministro della Giustizia. Difficile immaginare una sinistra più lontana da Casarini rispetto a quella rappresentata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo per il Pd. Eppure, il suo tweet pubblicato pochi giorni fa esprime gli stessi concetti: «Il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto». E poi: «Le proposte di Nordio — rafforzamento presunzione d’innocenza, separazione carriere tra pm e giudici, stop abuso carcerazione preventiva e intercettazioni — vanno sostenute. Stop al giustizialismo di destra e di sinistra». Tra i commenti sotto il suo post, che naturalmente non costituiscono un campione statisticamente rappresentativo, ci sono tanti complimenti. Ma anche chi gli dice «basta, vai con Renzi».
Ecco, Renzi. alle riforme annunciate dal ministro Nordio non è certo una sorpresa. Resta il fatto che si tratta di un partito che sta all’opposizione, anche se mai dire mai. E che lo stesso Renzi fino al 2017, non una vita fa, era proprio il segretario del Pd.
Nel fronte pro Nordio che non t’aspetti c’è anche Anna Paola Concia, deputata del Pd fino al 2013. Anche lei ha scelto Twitter per sostenere il ministro della Giustizia dopo il suo intervento in Parlamento: «Bravissimo Nordio oggi in commissione Giustizia. Speriamo riesca a fare tutto quello che promette».
Ex di molte cose — tra tutte, consigliere di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi — Claudio Velardi è abituato ad andare controcorrente. A volte anche per il gusto di sparigliare, ma stavolta la questione è seria: «Sulla giustizia —scrive su Twitter — hanno fallito tutti i governati del passato. Se il ministro Nordio fa l’ottima riforma annunciata, avvia a soluzione il principale problema italiano dell’ultimo trentennio». E ancora: «Se ci riuscirà, il governo di Giorgia Meloni acquisirà un merito storico. Se». L’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, verrebbe quasi da dire.
Il processo a cosa serve? Intercettazioni usate come gossip e materiale scandalistico: la lapidazione vissuta sulla mia pelle. Luca Casarini su Il Riformista l’8 Dicembre 2022
Non so se alla fine Nordio potrà fare quello che dice. Non so quanto sia ostaggio o vera anomalia di questo governo. Da eretico fruitore di “Law and Order”, ho ben presente quale possa essere l’utilità, in termini di immagine e consenso, dei contrasti sbandierati che poi servono solo a “rafforzare” il sistema. La vecchia storia del poliziotto buono e di quello cattivo, insomma. Vedremo.
Certo è che quando il neo ministro dichiara al Senato che le “intercettazioni sono utilizzate per delegittimare politicamente l’avversario”, dice una sacrosanta verità. Lui è al governo con quelli che proprio su questo hanno costruito la loro fortuna politica, con tanto di carriere folgoranti come quella del suo collega Salvini, passato direttamente dalla Ruota della Fortuna a un reddito di cittadinanza a molti zeri da più di vent’anni e a un futuro vitalizio per una serena vecchiaia. Da allora, da quando il suo partito, la Lega, faceva oscillare il cappio in Parlamento al grido di “Di Pietro coraggio c’è ancora il terzo raggio”, l’uso “politico” di spie, microspie, intercettazioni, telecamere nascoste e quant’altro, uso politico e non solo giudiziario, con processi celebrati sui media prima e a volte unicamente, non nei tribunali, ha avuto un crescendo esponenziale.
Questo paese certo, ha conosciuto ben prima di Tangentopoli sia l’abuso del controllo, sia l’utilizzo della carcerazione preventiva come mezzo per far parlare l’indagato. Gli anni 70 e tutta la legislazione di emergenza non sono stati uno scherzo per lo “stato di diritto”. Ma oggi vi è un di più. La “Information Society”, la società dei media, “dello spettacolo” come la descriveva Guy Debord, ma moltiplicato mille. Le tendenze autoritarie, manettare, giustizialiste connaturate fisiologicamente ad ogni democrazia in crisi, si fondono con la mutazione antropologica che ha trasformato i “sapiens” in “Homo Social”. Ne esce un quadro che giustamente Nordio, parlando delle gogne mediatiche imbastite su conversazioni private, manipolate da sapienti “copia incolla” e utilizzate per sbattere il mostro in prima pagina, definisce “inquietante ed inaccettabile”.
Certo, i travagliati apologeti del Minority Report dall’altra parte, dicono che senza intercettazioni a pioggia, non si sarebbero sconfitte mafie e terrorismi. E che questo abdicare al diritto di restare innocente finché un regolare processo non provi il contrario, è un “incidente collaterale” accettabile. Io penso invece a quella mattina, quando mi sono piombati in casa molti poliziotti di varie “specializzazioni”, con un mandato di perquisizione in mano. Mentre stavano facendo il loro lavoro, uscivano già le agenzie con gli stralci delle intercettazioni, che “sapientemente” il pm aveva trascritto sul provvedimento, in modo da non incorrere nel reato di divulgazione di notizie secretate. Non c’è stato bisogno nemmeno delle classiche “veline”: dalla Procura, non saprei dire da dove altro, qualcuno aveva inviato il tutto a giornalisti “amici”, che stavano scrivendo a nove colonne la sentenza.
Io sono stato condannato, e con me i miei coindagati, mentre ancora la polizia stava “cercando”. Le intercettazioni inoltre, non possono certo restituire la complessità di un dialogo, il tono, il contesto, quello che si dice alla fine. Ci vorrebbero giornali di tremila pagine, e poi chi li leggerebbe? Ci vuole un titolo ad effetto, per vendere quella mercanzia. E quindi “frasi”, prese da trascrizioni di mesi ( perché tanto durano le intercettazioni, mica due giorni) e se fai la cazzata di dire una parola sbagliata, o di scherzare troppo al telefono, sei morto. Marchiato dallo stigma. Perché quello che dovrebbe essere parte di una attenta e scrupolosa valutazione degli inquirenti nel segreto delle indagini, diventa gossip, materiale scandalistico, lapidazione pubblica.
Il processo a quel punto a cosa serve? L’obiettivo è già stato raggiunto. Che era sicuramente altro dal “fare giustizia”. Lo so, il fatto che sia capitato a me, e oggi ne scriva, magari non c’entra con il dibattito che si è scatenato nei palazzi dopo le dichiarazioni del Ministro. E forse lui si riferiva ai danni patiti dai potenti, da Renzi, Berlusconi etc. Ma a me non cambia l’opinione questo. Come non sono mai stato un fan di Di Pietro e dei metodi del pool quando erano dei santi intoccabili, allo stesso modo credo che in un paese civile quello che hanno fatto con molti esponenti politici da me lontanissimi e di cui vado fiero di essere avversario radicale, sia vergognoso. E pericoloso per tutti.
Nel frattempo, il solito collega di governo di Nordio, ha in questi giorni montato l’ennesima bufala contro le Ong, addirittura utilizzando “intercettazioni effettuate da un sommergibile”. L’uso politico delle intercettazioni non ha limiti, e chi dovrebbe inabissarsi per quello che ha fatto a donne, uomini e bambini da Ministro, invece emerge. Luca Casarini
Uccisi dalla gogna. Morire di intercettazioni, le storie dei pm D’Ambrosio, Coiro e Misiani: le tre bombe della malagiustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022
Morire di inchiesta giudiziaria, morire di intercettazioni, morire di reputazione distrutta. Lo abbiamo visto accadere troppe volte, soprattutto nel mondo politico o quello delle amministrazioni locali, in terra di mafia. Ma se mettiamo insieme anche la possibilità di “morire di Csm”, ecco che si parla dell’assassinio di magistrati. Morte professionale e toga sporca, locuzione cara a certi giornali.
Il ministro Carlo Nordio ne ha citati tre, di questi magistrati, nel suo discorso di programma alla Camera dei deputati. Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Giorgio Napolitano, ucciso nel 2019 a 64 anni da un vero infarto giudiziario per un’intercettazione con l’ex ministro Nicola Mancino, nelle indagini nel fallimentare “processo trattativa”. Avrebbe dovuto portare pazienza, potrebbe commentare il cinico, visto che due anni dopo, con l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, il processo finì dove avrebbe sempre dovuto stare, nel cestino della carta straccia. E chissà se il senatore Scarpinato, che finalmente può lottare a viso aperto con quel ruolo politico che alle toghe non dovrebbe essere consentito, ogni tanto ripensa al recente passato in cui fu pg nel “processo trattativa” e a quel collega morto di crepacuore all’ombra di quelle inchieste finite con la bocciatura dei giudici di Palermo.
Il secondo nome citato dal Guardasigilli è quello di Michele Coiro, che fu tra i fondatori di Magistratura Democratica, e poi Procuratore capo a Roma verso la fine degli anni novanta, e lui stesso membro di quel Csm che fu covo di serpi nei suoi confronti. E lui c’è morto, di ictus, a 71 anni. E allora, ma solo allora, gli furono tributati i funerali di Stato. I membri del Csm, tranne un paio di amici personali, rimasero a casa, quel giorno. Nel picchetto d’onore alla bara rimase per molte ore un pm che aveva lavorato con lui e che indosserà la toga per l’ultima volta, Francesco “Ciccio” Misiani, travolto insieme al suo capo dalla furia del famoso rito ambrosiano dei tempi di Mani Pulite. Morirà nel 2009, di malattia, un po’ come Enzo Tortora quando disse “mi è scoppiata una bomba dentro”.
La bomba della malagiustizia. Che vedrà questo altro esponente importante di Md tradito dai “compagni” che a Milano avevano saltato il fosso e abbandonato il tradizionale garantismo della corrente, e poi esposto alla gogna peggiore. Con le telecamere in agguato dietro la porta dell’ufficio mentre ancora non sapeva di essere indagato, lui toga rossa, dalle toghe rosse di Milano. In un processo per il quale sarà assolto anni dopo “perché il fatto non sussiste” da un reato di favoreggiamento ormai prescritto, mentre la Procura colse l’occasione per non ricorrere in appello.
Ciccio e Michele erano due amici. Due magistrati democratici e garantisti. Bisognerebbe ricordare che cosa era la corrente di Md della magistratura, in quegli anni precedenti alle inchieste di Tangentopoli e alla nascita di quel mostro che verrà chiamato “rito ambrosiano” che ruppe ogni schema, trasformò gli amici in calunniatori e la logica del sospetto mise sotto la lente di ingrandimento chiunque fosse fuori dal fortino del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, uffici della Procura della repubblica. Ciccio Misiani è finito dentro un imbroglio, interrogato due volte dai pm milanesi Gherardo Colombo e Ilda Boccassini sulla base di un’intercettazione che tale non era. Il magistrato romano era stato visto da un poliziotto in un locale, il bar Mandara di Roma, insieme al capo dei gip Renato Squillante, già inquisito per corruzione e che poco dopo sarà arrestato.
L’agente, che evidentemente controllava l’alta toga romana, aveva cercato di origliare e preso appunti su un tovagliolino di carta. Nella relazione aveva aggiunto qualche considerazione personale per far apparire Misiani nella veste di consigliere e complice. Emergerà in seguito che lui, di fronte ai timori del superiore di essere arrestato, visto che ormai giravano voci, si era limitato a dirgli di stare tranquillo e dire la verità ai colleghi, dal momento che Squillante si dichiarava innocente e sosteneva di essere in possesso di denaro vinto in borsa. Ma la graticola del Csm, oltre che, nel caso di Misiani, il processo penale, fu la fine per i due esponenti di Magistratura democratica. Coiro a un certo punto non resse più al sospetto e all’isolamento, dopo aver scoperto che in un altro bar romano frequentato da magistrati, i suoi colleghi milanesi avevano messo una microspia per spiarli tutti. La pratica per il suo trasferimento fu troncata a metà dalla sua decisione di accettare la proposta del ministro Flick di andare a dirigere il Dap. Sarebbe stato un ottimo capo delle carceri, se un ictus non lo avesse fermato pochi mesi dopo.
Ciccio Misiani aveva invece affrontato il procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale con astuzia politica, oltre che con l’angoscia di chi sente non solo di subire un’ingiustizia ma anche di essere tradito da coloro che considerava i suoi amici e compagni: Gherardo Colombo, Ilda Boccassini e soprattutto Francesco Greco, suo ex uditore, il più “rosso” di tutti, quello che nelle riunioni bisognava sempre trattenere perché il suo dogma era “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Misiani con il suo discorso sincero e appassionato era riuscito a spaccare il Csm e la sinistra. Il ruolo dell’accusatore era svolto dal professor Fiandaca e il vicepresidente era il professor Carlo Federico Grosso, altro insigne giurista, indicato dal Pds. La votazione finì 11 a 11, con il voto favorevole al trasferimento del vicepresidente che valeva doppio.
Così Francesco Misiani fu mandato a Napoli, finché non decise poi di lasciare la magistratura. Solo in seguito fu assolto nel processo milanese di primo grado. Poi la malattia, e il ricordo di quella toga che aveva indossato per tanti anni e che aveva dovuto abbandonare dopo la morte del suo amico Coiro. Che differenza fa? Infarto o ictus o quella bomba che ti scoppia dentro. Questi tre magistrati sono stati uccisi, e Carlo Nordio bene ha fatto a ricordarli. Bravo ministro, te ne siamo grati. Uno dei tre, Ciccio, era mio amico, e quella frase che gli dissi al funerale del suo capo “Ti raccomando non farci scherzi anche tu” e che lui ha citato nel libro “La toga rossa”, significava proprio non lasciarti uccidere. Purtroppo è accaduto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Carlo Nordio, corruzione: "Impunità se collaborano". Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022.
"Inutili e dannose": così Carlo Nordio ha definito le leggi sulla corruzione, spingendo per una loro revisione o anche per la loro abolizione. Le norme in questione avrebbero puntato sull'inasprimento delle pene nel corso del tempo, cosa che non avrebbe portato risultati. Il ministro della Giustizia, come riporta il Messaggero, ne ha parlato durante un convegno alla Farnesina nella giornata internazionale contro la corruzione. In quell'occasione ha anticipato quella che sarà la sua strategia contro il fenomeno: il suo obiettivo è spezzare il legame tra corrotto e corruttore.
Nordio ha chiarito come la sua riforma riguarderà in primis il reato di corruzione: "Oggi corrotto e corruttore sono tutti e due punibili e quindi hanno interesse a tacere quando vengono interrogati dal magistrato. Bisognerebbe interrompere questa convergenza di interessi e far sì che chi ha pagato sia indotto a collaborare, attraverso l’impunità, o una profonda revisione dello stesso reato di corruzione". Lo scopo è "fare in modo che uno dei due collabori, altrimenti è un reato di cui sapremo mai nulla". Secondo il ministro, però, non può essere "la minaccia della galera a indurre una persona a parlare", altrimenti "cadremmo nella barbarie giuridica".
"In questi 25 anni sono state elaborate varie leggi anticorruzione, sono state inasprite pene, ma non è servito a nulla - ha proseguito il ministro -. La conclusione che ho maturato è che è inutile cercare di intimidire il potenziale corrotto: non lo sarà mai dal numero delle leggi e dall’asprezza delle pene, perché sarà sempre convinto di farla franca". Il problema, secondo Nordio, è rappresentato dall'eccessiva quantità di leggi sulla materia. In Italia, infatti, la produzione normativa è "10 volte superiore alla media europea". Di qui la soluzione, ossia "delegificazione rapida e radicale per ridurre le leggi, individuare bene le competenze e semplificare le procedure".
La magistratura che vuole Nordio: carriere separate, discrezionalità dell’azione penale e test psicoattitudinali. GIULIA MERLO su Il Domani il 06 dicembre 2022.
Nel suo intervento alla commissione Giustizia del Senato, in cui ha presentato le linee guida del suo ministero, è intervenuto in modo pesante contro l’attuale assetto della magistratura. Interviene anche sulla depenalizzazione dei reati e sul carcere e incassa il plauso del Terzo Polo e il prudente e parziale favore del Pd
Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è tornato se stesso nel suo intervento di enunciazione delle linee guida del suo dicastero, che ha concluso dicendo: «Noi siamo garantisti».
Dopo un inizio di legislatura in cui il guardasigilli si era posto in maniera prudente ed era stato anche accusato di aver fatto passi indietro rispetto alle sue posizioni storiche, ora Nordio ha dato risposte di segno opposto, annunciando anche riforme costituzionali.
Tre punti cardine del suo intervento: carcere, depenalizzazione e riforma dell’assetto della magistratura.
I passaggi più duri, però, hanno riguardato la magistratura e l’assetto della categoria di cui lo stesso Nordio ha fatto parte per quarant’anni, da procuratore di Venezia.
LA RIFORMA DEL SISTEMA
«Con l’articolo 101 della Costituzione si è consacrato il rito anglosassone, che ha ispirato il codice Vassalli del 1988, ma il recepimento di questo sistema è stato parziale e con contraddizioni insanabili», è stato il presupposto del ragionamento di Nordio.
Tra le incongruenze, il fatto che sia rimasta l’obbligatorietà dell’azione penale, che «si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce alle ambizioni di pochi magistrati. Anche perchè si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere».
Altra modifica che il ministro ha individuato come necessaria è la separazione delle carriere, tra pm e giudici. La separazione, secondo il ministro, non aveva senso con il sistema inquisitorio in cui la polizia giudiziaria indagava in modo autonomo, mentre il codice Vassalli ha posto il pm come capo della polizia giudiziaria e questo lo rende «una parte pubblica, ma pur sempre parte, che non ha senso appartenga allo stesso ordine del giudice, perchè svolge un ruolo diverso».
Nordio ha poi affrontato anche il tema delle modalità di accesso alla magistratura, parlando di profili poco razionali perchè l’esame verifica solo la conoscenza giuridica dei candidati. «Nulla attesta l’attitudine fisio-psichica alla professione, per questo la revisione è ineludibile, con l’aiuto dell’università, degli ordini forensi e della magistratura. Inoltre, per la dirigenza degli uffici ci si basa solo sulla sapienza giuridica, che non coincide con l’attitudine manageriale».
L’ultimo passaggio riguarda un altro aspetto delicato della vita professionale del magistrato: la funzione disciplinare, dal cui giudizio dipende anche la progressione della carriera.
«Il problema è che l’organo giudicante è la sezione disciplinare, con membri eletti tra i togati al Csm con meccanismi correntizi dagli stessi magistrati oggetto di accertamento», ha detto Nordio, auspicando che il parlamento convochi la seduta comune per la nomina dei laici, ad oggi differita sine die.
Poi il colpo che probabilmente provocherà conseguenze polemiche sul fronte della magistratura associatata: «Il disciplinare va spostato davanti a una corte terza e non elettiva, individuata con criteri oggettivi. Non è tollerabile che i giudici siano nominati dai giudicati».
Poi, in una risposta ad una domanda di Roberto Scarpinato sulla depenalizzazione, il ministro ha lanciato l’ultimo affondo alla magistratura sull’abuso di intercettazioni: «Le intercettazioni costano 200 milioni l’anno, nessun dubita che per certi reati siano utili e indispensabili, ma io credo che le più utili siano quelle preventive, autorizzate dal pm con il vantaggio di essere secretate sotto responsabilità di chi le ha disposte. Su questo sarò rigoroso: ogni qualvolta usciranno violazioni del segreto istruttorio su intercettazioni, ci sarà una ispezione immediata e rigorosa».
DEPENALIZZAZIONE
Il secondo punto dell’intervento di Nordio ha riguardato la corruzione e la depenalizzazione. «Le nostre leggi sono troppo numerose e contradditorie per essere applicate. Il loro numero è inversamente proporzionale alla loro efficacia, e l’incertezza è sinonimo di disordine e soprattutto di corruzione».
Secondo il ministro, «I rimedi si sono dimostrati peggiori del male: più pene e nuovi reati, due vaghe fattispecie prive del principio di tassatività (l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze illecite) e la manifesta iniquità della retroattività della legge Severino».
Ha poi snocciolato i dati per l’abuso d’ufficio, con solo il 3 per cento di condanne. Le statistiche parlano di 5400 procedimenti el 2021, conclusi con 9 condanne davanti al gip e 18 in sede di dibattimento.
«L’unica conseguenza è il rischio di essere indagati. I politici temono la bagarre mediatica con spesso l’estromissione dal proprio ruolo, ecco perchè si rifugiano nell’inerzia. Dobbiamo abbandonare l’idea di tutelare il buon andamento della pa con minaccia della pena», ha concluso, ricordando gli appelli dei sindaci di diverse parti politiche in direzione di una riforma di questi reati.
CARCERE
Nordio, che ha iniziato il suo mandato con le visite a Poggioreale a Napoli e Regina Coeli a Roma, ha annunciato implementazione organica alla polizia penitenziaria e interventi di ammodernamento tecnologico delle strutture di sorveglianza.
Per i detenuti, invece, ha parlato di un necessario aumento di tutele per i tossicodipendenti e per chi soffre di disagio psicofisico: «Viviamo con il dolore dei molti suicidi» di quest’anno, ormai quasi 80.
Dopo gli attacchi per i tagli in finanziaria proprio a questo settore, Nordio ha detto che «Il ministero si sta attivando per limitare i tagli della legge di bilancio e devolvere eventuali residue risorse disponibili al sistema carcerario».
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Da lastampa.it il 6 dicembre 2022.
Il ministro di Giustizia Nordio annuncia al Senato l'intenzione del governo di avviare «una riforma del Codice penale», una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche con una «revisione della Costituzione». Per il Guardasigilli è necessaria anche «una profonda revisione delle intercettazioni.
Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione arbitraria e impropria per evitare che la diffusione selezionata e pilotata divenga strumento di delegittimazione personale e spesso politica». La presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi». Per Nordio, infine, «non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso».
Apertura alla separazione delle carriere
Nordio apre inoltre alla separazione delle carriere in magistratura affermando: «Non ha senso che il pm appartenga al medesimo ordine del giudice perché svolge un ruolo diverso». E chiarisce: «Nella gestione di migliaia di fascicoli, il pubblico ministero non è in grado, per carenza di risorse, di occuparsene integralmente, e quindi è costretto a una scelta; non solo, ma può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno.
Un tale sistema conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un'egemonia resa più incisiva dall'assenza di responsabilità in caso di mala gestione. Come capo della polizia giudiziaria, il pm ha infatti una reale autorità esecutiva. Ma come magistrato gode delle garanzie dei giudici, e quindi è svincolato da quei controlli che, in ogni democrazia, accompagnano e limitano l'esercizio di un potere».
Nordio sottolinea quindi che l'obbligatorietà dell'azione penale «si è tradotta in un intollerabile arbitrio. Il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno».
Riforma del Codice penale
Il ministro annuncia inoltre la riforma del Codice penale per adeguarla al dettato costituzionale, e una completa attuazione del codice Vassalli, insieme con una «riforma garantista e liberale» da realizzare anche con una «revisione della Costituzionale. Nordio indica i fronti sui quali intervenire: la presunzione di innocenza che «continua a essere vulnerata in molti modi», l'«uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni», l'azione penale che è «diventata arbitraria e capricciosa», la custodia cautelare usata come strumento di pressione investigativa.
La reazione del presidente Anm
Molto dura la reazione di Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: «Mi sembra un salto indietro di vent’anni, con un linguaggio pesante e pericolose divagazioni. Nordio parla come se fosse seduto in un salotto ai tempi di Mani Pulite».
Carcere: “Assistiamo all'uso e, talvolta abuso della custodia cautelare”
In merito al nodo carcere, spiega poi, davanti alla commissione Giustizia: «Assistiamo all'uso e, talvolta, all'abuso della custodia cautelare come surrogato temporaneo dell'incapacità dell'ordinamento di mantenere i suoi propositi. La benevolenza finale per la quale alla facilità di ingresso in carcere prima della sentenza fa seguito la liberazione dopo la condanna non è una manifestazione di generosità ma di rassegnazione». Quanto al tema della controversia sulla prescrizione, si tratta della «certificazione finale dell'inefficienza dell'ordinamento che, per evitare una prolungata graticola sulla giustizia da parte del cittadino, richiede l'estinzione del reato o l'improcedibilità».
Rivoluzione digitale: “Garantiremo la riservatezza”
Il ministro pensa inoltre a una «rivoluzione tecnologica» per la giustizia, a partire dall'accelerazione della digitalizzazione, e assicura che questa operazione «avverrà sotto lo strettissimo controllo della riservatezza dei dati sensibili presso i rispettivi uffici giudiziari». Un punto «che ci sta molto a cuore - sottolinea davanti alla commissione -. Quando saranno adottate tutte le misure opportune per evitare alterazioni o intromissioni illecite nella consapevolezza che ad ogni avanzamento operativo aumentano i rischi di interferenze interessate».
Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm: “Mi sembra un salto indietro di vent’anni”
«Mi sembra un salto indietro di vent’anni, con un linguaggio pesante e pericolose divagazioni. Nordio parla come se fosse seduto in un salotto ai tempi di Mani Pulite».
Giustizia. Il programma-bomba del ministro Nordio: “Carriere separate, basta abusi dei pm”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Dicembre 2022
Il Guardasigilli ha esposto le linee programmatiche del ministero alla commissione Giustizia del Senato. Sui pubblici ministeri: «L’obbligatorietà dell’azione penale si è tradotta in un intollerabile arbitrio»
Si potrebbe affermare senza ombra di alcun dubbio che il ministro della Giustizia Carlo Nordio, sia tornato quello di sempre nell’illustrare le linee programmatiche del suo dicastero dinanzi alla commissione Giustizia del Senato : un garantista e liberale, scrittore di saggi anticonformisti, presidente del Comitato per il “Sì” ai referendum sulla giustizia giusta del Partito Radicale e della Lega.
Nordio nei suoi due primi mesi alla guida del ministero di via Arenula è stato attaccato soprattutto da chi lo ha accusato di subire la linea intransigente di Fratelli d’Italia senza opporre resistenza e della Lega. Invece Nordio questa mattina ha riproposto tutto il suo repertorio: separazione delle carriere, presunzione di innocenza, abuso delle intercettazioni, misure alternative al carcere, riforma del Csm. Ha disegnato una road map dei prossimi cinque anni da far tremare l’Anm.
La relazione del ministro ha toccato vari aspetti del “pianeta giustizia“, ad esempio la revisione del reato di abuso d’ufficio, chiesta a gran voce dai sindaci e sulla quale anche la premier Meloni si è detta d’accordo: “Sul reato di abuso d’ufficio le statistiche sono a dir poco allarmanti. Su 5.400 procedimenti nel 2021, 9 si sono conclusi con condanne davanti al gip e 18 in dibattimento”. Inoltre, tali procedimenti “hanno un costo medio insostenibile ed occorre acquisire materiale cartaceo e pareri che confondono i magistrati e si riducono in assoluzioni, non luoghi a procedere o archiviazioni“.
“Poiché in questo momento la priorità assoluta – ha esordito il Guardasigilli – è il superamento della crisi economica, le prime iniziative tenderanno a incidere favorevolmente in questa direzione, attraverso la semplificazione della legislazione e dell’organizzazione giudiziaria, attraverso una complessiva rivisitazione della sua geografia e piante organiche di magistratura e personale amministrativo“. Poi ci sarà spazio per le riforme più complesse, quelle che riguarderanno anche la Costituzione: “In un secondo momento saranno elaborate le proposte che incideranno più radicalmente nel sistema complessivo. Il lavoro preliminare è già iniziato, con il progetto di istituire le opportune commissioni e gruppi di lavoro. Ma poiché alcune riforme richiederanno una revisione costituzionale, i tempi saranno meno brevi”.
Riguardo alla giustizia civile, verranno adottati i decreti attuativi “entro il 30 giugno 2023, ma stiamo lavorando per anticipare i tempi. Particolarmente sensibile è, poi, il tema dell’equo compenso“, rispetto al quale è in previsione “la costituzione di un apposito Osservatorio” in linea peraltro con quanto già avvenne, grazie al Cnf, quando a via Arenula c’era Bonafede. E’ sulla riforma del sistema penale che è tornato alla ribalta il Nordio non “amato” a una grande fetta della magistratura, soprattutto requirente: “Occorre una riforma del codice penale, adeguandolo, nei suoi principi, al dettato costituzionale, e una completa attuazione del codice Vassalli. Una riforma garantista e liberale che può essere attuata in parte con leggi ordinarie e, negli aspetti più sensibili, con una revisione della Costituzione.”.
Il primo è la presunzione di innocenza: “Essa è stata e continua a essere vulnerata in molti modi: l’uso eccessivo e strumentale delle intercettazioni, la loro oculata selezione con la diffusione pilotata, l’azione penale diventata arbitraria e quasi capricciosa, l’adozione della custodia cautelare come strumento di pressione investigativa, lo snaturamento dell’informazione di garanzia diventata condanna mediatica anticipata e persino strumento di estromissione degli avversari politici”.
Un’ argomento memorabile per Nordio in cui decisivo è il tema della custodia cautelare. La quale, “proprio perché teoricamente confligge con la presunzione di innocenza, non può essere demandata al vaglio di un giudice singolo”. Per il Guardasigilli sarebbe “più ragionevole spostare la competenza dal gip a una sezione costituita presso la Corte d’Appello, con competenza distrettuale. Avremmo l’enorme vantaggio di una maggiore ponderatezza della decisione e anche di omogeneità di indirizzo” . Puntuale l’ affondo impietoso sul tema delle intercettazioni: “In Italia il numero di intercettazioni telefoniche, ambientali, direzionali, telematiche, fino al trojan e un domani ad altri strumenti, è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni. Il loro costo è elevatissimo, con centinaia di milioni di euro all’anno. Gran parte di queste si fanno sulla base di semplici sospetti, e non concludono nulla”.
Il guardasigilli sulle intercettazioni sostiene che “la loro diffusione, talvolta selezionata e pilotata, costituisce uno strumento micidiale di delegittimazione personale e spesso politica. Si tratta di sostanziali violazioni dell’articolo 15 della Costituzione, che fissa la segretezza delle comunicazioni come interfaccia della libertà”. Conseguentemente ha aggiunto Nordio “ne proporremo una profonda revisione, e comunque vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione arbitraria o impropria“.
Nordio ha risposto a Roberto Scarpinato, ex pg di Palermo eletto senatore nel M5S che contestava la razionalizzazione degli ascolti: “Su questo punto il ministro sarà estremamente rigoroso: ogni volta che usciranno sui giornali violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, l’ispezione sarà immediata e rigorosa”.
Un altro capitolo nella riforma della giustizia per il ministro Nordio è la certezza della pena: “Essa dev’essere certa, eseguita, rapida e soprattutto proporzionata al crimine commesso“, ma “certezza e rapidità della pena non significano tuttavia sempre e solo carcere“. Per i “reati minori in termini giuridici e razionali è meglio la concreta esecuzione di una pena alternativa“. In merito ai numerosi suicidi (nel 2022 si è registrato in carcere il tasso più alto di suicidi degli ultimi 10 anni) Nordio ha aggiunto: “Abbiamo vissuto con grande dolore la sequenza di suicidi: anche per questo il ministero si sta attivando con una pressante energia per limitare i tagli previsti dalla legge di Bilancio e per devolvere al settore eventuali risorse disponibili“.
Ma il passaggio più “incendiario” dell’intervento del ministro Nordio al Senato è stato quello sul ruolo del pubblico ministero. Se “nell’ordinamento anglosassone la discrezionalità dell’azione penale è vincolata a criteri oggettivi nel nostro Paese l’obbligatorietà è stata mantenuta e si è convertita in un intollerabile arbitrio”. Secondo Nordio “il pm può trovare spunti per indagare nei confronti di tutti senza dover rispondere a nessuno. Un tale sistema conferisce alle iniziative, e talvolta alle ambizioni, individuali di alcuni magistrati, per fortuna pochi, un’egemonia resa più incisiva dall’assenza di responsabilità in caso di mala gestione“.
Tutto è cambiato con il codice di procedura penale del 1988 . Da qui ha origine l’esigenza di separare le carriere: “Il pm è una parte pubblica a tutti gli effetti, ma è pur sempre una parte. E quindi non ha senso che appartenga in tutto e per tutto al medesimo ordine del giudice” dice Nordio che si è soffermato su un “nodo problematico”: il giudizio disciplinare. I componenti della sezione disciplinare ricorda il Guardasigilli “sono eletti con criteri di appartenenza correntizia da quegli stessi magistrati che vengono poi giudicati“. Un passaggio di “buon senso“, secondo Nordio, “potrebbe essere lo spostamento del giudizio disciplinare dal Csm a una Corte disciplinare terza, non elettiva e individuata con criteri oggettivi, per esempio tra ex presidenti della Cassazione o di alte giurisdizioni o ex giudici della Consulta, nominati dal Capo dello Stato”..
Sempre sul Csm il ministro di Giustizia ha aggiunto: “Trattandosi di un organo costituzionale auspico una rapida convocazione delle Camere per l’elezione dei membri laici che è stata differita sine die” con un passaggio sulla paralisi amministrativa. Mentre per quanto concerne l’abuso di ufficio “le condanne irrogate sono una percentuale minima rispetto al numero di indagine e riguardano episodi di scarso disvalore”. Pertanto, conclude il ministro, “gli appelli continui e pressanti dei pubblici amministratori e in particolare dei sindaci di diverse parti politiche dovrebbero costituire un forte stimolo per rapide conclusioni senza vincoli dogmatici o emotivi“.
“Auspico la rapida convocazione delle Camere per eleggere i membri laici del Csm“. ha concluso il ministro Nordio sottolineando che “un organo costituzionale così delicato non può restare sospeso“. Affermazioni che hanno trovato il totale consenso del premier Giorgia Meloni, che da Tirana ha commentato: “Penso che la riforma della giustizia sia prioritaria e mi sembra che in molti siano d’accordo. L’approccio di Nordio è l’approccio che il governo condivide. Una riforma della giustizia deve avere due grandi obiettivi: garantire il massimo delle garanzie agli indagati e imputati e poi certezza della pena. Mi definisco una garantista nella fase di celebrazione del governo e una giustizialista nella fase di esecuzione della pena. E credo che quello Nordio disegna sia un meccanismo di questo tipo“.
Entusiasmo alle stelle anche dagli ambienti di Forza Italia che con il capogruppo Pierantonio Zanettin subito definisce “una relazione molto coraggiosa”. Tant’è che basta a riassumerne i pilastri principali. A partire anche da una rampogna alla Camere per aver “rinviato sine die” la nomina dei 10 consiglieri togati del Csm. Ma è sui pubblici ministeri e sulle intercettazioni che Nordio fa sfoggio di tutto il suo dichiarato “garantismo“. Redazione CdG 1947
Otto e mezzo, Bocchino fa infuriare Travaglio: scintille sulle intercettazioni. Il Tempo il 06 dicembre 2022
Due visioni opposte, quelle di Marco Travaglio e Italo Bocchino sulla giustizia. Il direttore del Fatto quotidiano e l'ex parlamentare, ora alla guida del Secolo d'Italia, sono intervenuti nella puntata di martedì 6 dicembre di Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7. Travaglio critica le parole sulle intercettazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che vuole intervenire per evitare distorsioni del loro utilizzo. La conduttrice sottolinea come il ministro "ha detto di essere garantista in sede di processo e giustizialista sulla certezza della pena. Ma chi è che non è d'accordo su questo?".
A riguardo, Bocchino ricorda come la premier Giorgia Meloni ponga "due questioni che purtroppo non sono attuate oggi in Italia. Puoi avere l'avvocato, ci sono tre gradi di giudizio ma mentre accade tutto ciò le Procure danno ai giornalisti i fascicoli con le intercettazioni, vengono sparate sui giornali, rovinate delle vite e poi magari vieni assolto". A quel punto il direttore del Fatto sbotta: "Falso, totalmente falso". "Non ci sarà lo stop alle intercettazioni - ricorda Bocchino - Nordio ha detto che non possono essere utilizzate per delegittimare le persone".
L'ex parlamentare di An e di Fli poi racconta una vicenda a cui ha assistito in prima persona: "Sono stato testimone una volta a un processo di una cosa. Ho visto il giudice e il pm arrivare in auto insieme, ditemi voi se è possibile che chi ti accusa e chi ti deve giudicare possano arrivare insieme in auto...". Il direttore del Secolo poi provoca ancora l'ira dell'interlocutore: "Con la scusa dell'obbligatorietà dell'azione penale, un pm che ha cento fascicoli, se il fascicolo di un reato grave non lo fa andare in prima pagina sui giornali lo lascia lì. Se il fascicolo di un reato meno grave lo fa andare in prima pagina lo tira fuori e decide lui. Ed è l'arbitrio di cui parla Nordio". Anche qui, Travaglio protesta seccato: "Ma cosa dice? Ma cosa dice?".
Otto e mezzo, Italo Bocchino: "Cosa ho visto fare a un giudice con un pm". Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022
Vivacissimo scambio di "vedute" a Otto e mezzo, su La7, tra Marco Travaglio e Italo Bocchino sul tema giustizia. Il direttore del Fatto quotidiano critica le parole sulle intercettazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, mentre la padrona di casa Lilli Gruber critica la premier Giorgia Meloni: "Ha detto di essere garantista in sede di processo e giustizialista sulla certezza della pena. Ma chi è che non è d'accordo su questo?".
"La Meloni pone due questioni che purtroppo non sono attuate oggi in Italia - replica Bocchino -. Puoi avere l'avvocato, ci sono 3 gradi di giudizio ma mentre accade tutto ciò le Procure danno ai giornalisti i fascicoli con le intercettazioni, vengono sparate sui giornali, rovinate delle vite e poi magari vieni assolto". "Falso, totalmente falso", borbotta Travaglio in collegamento. "Nordio ha detto meno intercettazioni e meno fondi", puntualizza la Gruber. "Non ci sarà lo stop alle intercettazioni - replica Bocchino -, Nordio ha detto che non possono essere utilizzate per delegittimare le persone. Sono stato testimone una volta a un processo di una cosa: ho visto il giudice e il pm arrivare in auto insieme, ditemi voi se è possibile che chi ti accusa e chi ti deve giudicare possano arrivare insieme in auto...".
Poi la frase che fa imbestialire Travaglio: "Con la scusa dell'obbligatorietà dell'azione penale, un pm che ha 100 fascicoli, se il fascicolo di un reato grave non lo fa andare in prima pagina sui giornali lo lascia lì. Se il fascicolo di un reato meno grave lo fa andare in prima pagina lo tira fuori e decide lui. Ed è l'arbitrio di cui parla Nordio". "Ma cosa dice? Ma cosa dice?", ripete Travaglio.
Dietrofront del governo. Meloni teme Travaglio e i magistrati: “Assoluzione inappellabile? Non si può”. Paolo Comi su Il Riformista il 6 Dicembre 2022
“Giorgia Meloni è letteralmente terrorizzata da Marco Travaglio e dai pm di Magistratura democratica. Per evitare qualsiasi incidente di percorso non darà mai il via libera ad una legge che preveda l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione”. A rivelarlo è un parlamentare di Forza Italia, che per ovvi motivi preferisce restare anonimo, commentando con il Riformista la decisione del governo di stoppare l’emendamento presentato dal senatore azzurro Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze.
L’emendamento, inizialmente dichiarato ammissibile dalla Commissione giustizia di Palazzo Madama, è stato congelato l’altro giorno dal governo che ha fatto sapere di essere assolutamente contrario. Un dietrofront giustificabile solo con il timore di una possibile campagna stampa orchestrata dal Fatto Quotidiano con il contorno degli strali dei pm di Magistratura democratica che già non perdono occasione per attaccare il governo di destra centro sulla giustizia. Meloni, dopo aver fiutato l’aria, avrebbe preferito glissare, mandando avanti il suo fedelissimo Andrea Del Mastro, sottosegretario alla Giustizia. Doccia fredda per Zanettin che era pronto a portare a casa una storica proposta di Forza Italia.
Nei confronti del senatore vicentino, ex componente laico del Consiglio superiore della magistratura, pare essere scattata in queste ore una moral suasion per fargli ritirare l’emendamento, trasformandolo in un banale ordine del giorno in cui si invita l’esecutivo ad attuare una riforma delle impugnazioni. L’emendamento, comunque, al momento di andare in stampa non è stato ritirato. Ciò che sta accadendo in Senato stride con quanto dichiarato fino a qualche settimana fa dal ministro della Giustizia Carlo Nordio il quale in un’intervista aveva affermato come fosse possibile condannare in appello qualcuno che “è stato già assolto in primo grado”. Un assist all’inappellabilità delle sentenze era arrivato anche dalla Commissione per la riforma penale presieduta dal presidente emerito della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi. Secondo l’ex numero uno della Consulta l’inappellabilità delle sentenze è “compatibile con il quadro costituzionale”. Una copertura giuridica di altissimo livello che avrebbe messo il governo al riparo delle critiche da parte dei giureconsulti del Fatto Quotidiano.
Per FI il ritiro dell’emendamento sarebbe uno smacco clamoroso anche perché l’inappellabilità delle sentenze, oltre ad essere nel programma elettorale, era stata oggetto di una clip di Silvio Berlusconi: “Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili. Un cittadino – una volta riconosciuto innocente – ha diritto di non essere perseguitato per sempre”. Forse proprio il timore che questa riforma possa servire all’ex premier ha messo in allerta Meloni. Lo scorso fine settimana, infatti, dalle parti del Fatto avevano già affilato le armi, scrivendo in un articolo che se fosse stata approvata la norma si sarebbe applicata al Ruby ter in corso a Milano. Processo per il quale la sentenza non è stata pronunciata ma che Travaglio e soci ritengono, evidentemente, che possa essere solo di assoluzione.
La decisione di Meloni rischia di rinnegare quanto fatto da An su questo tema. L’onorevole Antonino Caruso, quando venne approvata la legge Pecorella, affermò euforico che da ora in avanti non ci sarebbero più state “persecuzioni giudiziarie a danno di cittadini chiamati a difendersi anche se prosciolti”. E quando la legge Pecorella venne poi bocciata dalla Consulta, Giuseppe Consolo, altro esponente di punta di An, dichiarò che “certamente sarà colpa mia, ma per quanto mi sforzi di comprendere, non so come sia giustificabile tale importante decisione”.
Sarà interessante, allora, sentire cosa dirà questa mattina Nordio in Commissione giustizia al Senato dove è atteso per un intervento sulle “linee programmatiche”. Il condizionamento di Travaglio avrà fatto effetto anche nei suoi confronti? Comunque vada, i primi passi del governo in tema di giustizia non sono entusiasmanti. E che il clima nella maggioranza non sia dei migliori lo dimostra il fatto che il Guardasigilli non ha ancora, a distanza di due mesi dal suo insediamento, assegnato le deleghe al suo vice ministro Francesco Paolo Sisto (FI) e ai sottosegretari Andrea Ostellari (Lega) e Andrea Del Mastro (Fd’I). Paolo Comi
Diffamazione, se la vittima è una toga la vittoria è in tasca. Secondo lo studio di Sammarco e Zeno-Zencovich, i magistrati vincono sette volte su 10. E i risarcimenti valgono il doppio. Un esempio? I quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 06 dicembre 2022.
Il maxi risarcimento di quarantamila euro che Maurizio Costanzo dovrà corrispondere al giudice del tribunale di Rimini Vinicio Canterini per avergli detto “complimenti” ha acceso ancora una volta i riflettori sul tema della diffamazione tramite i media.
Nel caso in questione, lo storico giornalista Mediaset, durante una puntata del “Maurizio Costanzo Show” andata in onda il 20 aprile del 2017, aveva ospitato Gessica Notaro, la ragazza di Rimini che era stata sfregiata l’anno prima con l’acido dal suo ex fidanzato Edson Tavares. La ragazza, rispondendo alle domande di Costanzo, aveva ripercorso le tappe della tragedia, affermando di aver denunciato a settembre del 2016 il suo ex che la stava perseguitando da tempo e che il magistrato aveva disposto nei suoi confronti il solo divieto di avvicinamento per tre mesi e mezzo.
Scaduto il divieto Tavares si era appostato sotto casa sua sfregiandola con l’acido e rendendola per sempre cieca ad occhio. Costanzo, senza mai fare il nome di Canterini, gli aveva fatto i “complimenti”, chiedendo all’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando di aprire una inchiesta nei suoi confronti «perché non ha fatto quello che gli ha aveva detto il pm di mettere agli arresti domiciliari» Tavares, poi condannato a 15 anni e 5 mesi. Canterini, sentitosi diffamato dalle parole pronunciate da Costanzo, lo aveva denunciato ottenendo la scorsa settimana di essere risarcito.
Lo studio: diffamazione, le toghe vincono 7 volte su 10
Il settore dei risarcimenti ha confini quanto mail labili ed è sostanzialmente impossibile fare previsioni sul “quantum”. Sul Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, è stata pubblicata nelle scorse settimane una ricerca sul punto ad opera dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno analizzato le sentenze per diffamazione, circa 700 depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma. Le sentenze sono state acquisite presso il locale ced previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute. In taluni casi la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.
Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre 400 sentenze di rigetto praticamente tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione. Nel caso si tratti di magistrati la domanda viene accolta però in sette casi su dieci. Esattamente il contrario, tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene a qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, eccetera).
Per quanto concerne gli importi, la media è 20mila euro, esattamente il doppio per le toghe. Un magistrato, ex pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione ha imbastito ben 23 cause con un risarcimento complessivo pari a 578mila euro. Il convenuto, come detto, è solitamente un mezzo di comunicazione di massa, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. Va peraltro segnalata la presenza di non poche decisioni in cui la contesa è fra persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Tenendo conto della sede di taluni editori a Roma e delle regole sulla competenza territoriale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi, in quanto non possono tenere conto degli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora luogo di residenza dell’attore.
E veniamo, infine, ai “parametri” che i giudici dovrebbero tenere in considerazione ai fini del risarcimento. Il primo riguarda la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Il secondo l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore. Il terzo il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la diffusività dello stesso sul territorio nazionale. Il quarto il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato. Il quinto, infine, l’eco suscitata dalle notizie diffamatorie. Il differente esito processuale, comunque, non può non indurre ad una riflessione sul fatto che esista una “giustizia domestica” fra le toghe per questo genere di cause.
Marcio Vigarani per corriere.it il 3 dicembre 2022.
Gli era costata già una diffida, adesso è arrivata una condanna per Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e presentatore televisivo, accusato di diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nativo di Loreto (Ancona).
La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa. La sentenza è arrivata mercoledì 30 novembre. Trattandosi di un giudice parte offesa, costituito parte civile con l’avvocato Nazzareno Ciucciomei, il processo è stato tenuto in un tribunale diverso da quello dove esercita; per Rimini ha competenza Ancona.
In una puntata del Maurizio Costanzo show, trasmessa il 20 aprile del 2017, Costanzo si era lasciato andare a commenti ritenuti offensivi dell’operato del giudice per una misura cautelare emessa nei confronti diEdson Tavares, ex fidanzato di Gessica Notaro, riminese sfregiata con l’acido il 10 gennaio del 2017. La misura cautelare riguardava episodi di stalking precedenti al fatto dell’acido, il gip aveva disposto il divieto di avvicinamento alla donna mentre la procura aveva chiesto gli arresti domiciliari. «Mi voglio complimentare col gip.
Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo», aveva affermato il giornalista. La difesa di Costanzo ha sostenuto che non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello.
Il riferimento al gip
Quel giorno, in trasmissione, c’era anche Gessica Notaro che per la prima volta, dopo tre mesi dai fatti, parlava in pubblico. Costanzo aveva detto «complimenti a questo gip, vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Diamo il nome. Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo». Il nome di Cantarini non era stato fatto ma il riferimento era stato chiaro. Costanzo si era rivolto anche al ministro della Giustizia di allora, Orlando, incalzando «faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?».
Secondo la difesa di Costanzo non c’era alcuna volontà diffamatoria. Ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda.
Magistratura solidale…vietato dire “complimenti al gip”? Maurizio Costanzo condannato a 1 anno di carcere. Una vergogna! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Dicembre 2022.
La giudice Maria Elena Cola del Tribunale di Ancona ha inflitto al giornalista un anno di reclusione, con la sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa
Clamoroso, ma vero. E’ vietato dire “complimenti al gip”. A finire nel tritacarne giustizialista è Maurizio Costanzo, 84 anni, giornalista e simbolo della televisione italiana, condannato per diffamazione aggravata nei confronti del giudice per le indagini preliminari di Rimini, Vinicio Cantarini, 56 anni, nato a Loreto, in provincia di Ancona. A condannare Costanzo la giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona: un anno di reclusione, con sospensione della pena subordinata al pagamento di 40mila euro come risarcimento danni alla parte offesa.
Andiamo indietro nel tempo fino al 20 aprile del 2017 per capire cosa è accaduto. Maurizio Costanzo ospitava nel suo noto programma “Maurizio Costanzo show” per la prima volta Gessica Notaro, che appariva in pubblico dopo essere stata sfregiata con l’acido dal suo ex fidanzato. Costanzo criticò (secondo noi e praticamente tutt’ Italia, quella sana…) il gip Cantarini per una misura cautelare emessa nei confronti dello sfregiatore, Edson Tavares, misura che riguardava precedenti episodi di stalking. La procura di Rimini aveva chiesto gli arresti domiciliari, mentre il gip dispose soltanto una misura cautelare, cioè un provvedimento meno restrittivo. E subito dopo, Tavares lasciato libero di imperversare sfregiò la Notaro buttandole l’acido in faccia sfigurandola.
Nel corso della trasmissione incriminata, Costanzo aveva detto: “Mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm, al Consiglio Superiore della Magistratura: fate i complimenti da parte mia a questo gip che ha deciso questo”. e senza mai fare il nome di Cantarini. Maurizio Costanzo si era rivolto direttamente all’allora ministro della Giustizia, Andrea Orlando: “Faccia un’inchiesta su questo gip perché non ha fatto quello che gli ha chiesto il pm di tenere questo qui agli arresti domiciliari, di dov’è? Di Rimini?“.
Il gip Vinicio Cantarini ha pensato di querelare Costanzo per diffamazione. Ed una sua collega, incredibile vero un “magistrato donna“, gliel’ha data vinta. Secondo la difesa del conduttore televisivo non vi era alcuna volontà diffamatoria in quelle parole, per l’accusa al contrario avrebbe offeso la reputazione della toga lasciando intendere che Gessica fosse stata sfregiata in seguito alle decisioni del gip. Costanzo ora potrà ricorrere in appello. Per l’accusa Costanzo avrebbe invece offeso la reputazione del giudice lasciando intendere che le conseguenze gravissime derivate alla donna fossero conseguenza dell’atteggiamento inoperoso o superficiale dello stesso giudice che, non era stato sufficientemente vigile nel seguire l’evoluzione della vicenda. In realtà i fatti sembrano provare proprio questo.
Per fortuna esiste anche quella che noi definiamo la “buona Giustizia” con la “G” maiuscola. Edson Tavares 30enne originario di Capo Verde, aggressore di Gessica Notaro che era stato lasciato a piede libero dal Gip di Rimini, è stato condannato in secondo grado nel novembre del 2018 a 15 anni, 5 mesi e venti giorni. Pena lievemente calata, rispetto ai 18 anni del primo grado (10 anni nel processo per l’aggressione e 8 in quello per stalking), ma che sostanzialmente conferma la gravità dei fatti che qualcuno aveva valutato in maniera più superficiale .
L’ avvocata di parte civile Elena Fabbri, aveva commentato duramente: “Per Gessica è un fine pena mai, ogni giorno che si guarderà allo specchio non vedrà più se stessa, ha subìto un omicidio di identità”. Resta da chiedersi cosa avrebbero detto e fatto il Gip Cantarini ed il giudice Maria Elena Cole del Tribunale di Ancona se qualcuno avesse fatto la stessa cosa, cioè sfregiare con l’acido la faccia di una loro moglie, o di una loro figlia. Ce lo chiedono i lettori e noi ci associamo a loro. Chissà cosa ne pensano il ministro di Giustizia, ed il Csm. Chiedere un’opinione è forse diventato un reato ? Redazione CdG 1947
Vietato ironizzare sul gip in televisione. Condanna con risarcimento per Costanzo. Il conduttore si era "complimentato" con la toga che non aveva disposto gli arresti per l'uomo che sfregiò con l'acido Gessica Notaro. Massimo Malpica il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Guai a criticare i magistrati. Chiedere per conferma a Maurizio Costanzo, condannato a un anno di reclusione per sarcasmo. O, per essere precisi, condannato per diffamazione di un Gip, aggravata dal mezzo radiotelevisivo. Il giudice in questione è Vinicio Cantarini, in servizio al tribunale di Rimini. Il caso risale a cinque anni e mezzo fa, aprile 2017. Ospite del salotto tv di Costanzo era Gessica Notaro: la ragazza tre mesi prima, il 10 gennaio, era stata sfregiata con l'acido dal suo ex fidanzato, Edson Tavares, che già prima di quell'ultimo gesto aveva mostrato la sua indole violenta. Proprio Gessica, raccontando la sua terribile esperienza al presentatore, aveva ricordato come fosse stato proprio quel gip, in seguito a una precedente denuncia per stalking contro Tavares, a chiedere per l'uomo il solo divieto di avvicinamento e l'obbligo di dimora notturna e non, come richiesto dal pm, gli arresti domiciliari.
«L'ho denunciato sperando che la facesse finita. Vorrei sapere perché il pm ha deciso che andava arrestato e invece il gip gli ha dato solo gli obblighi domiciliari. Il giudice ha sentito solo la versione di Tavares, non la mia», s'era sfogata la ragazza. Costanzo aveva preso le sue parti attaccando il gip. «Complimenti a questo gip aveva detto vogliamo dire il nome del gip che ha fatto questo? Io mi voglio complimentare col gip. Dico al Csm: fate i complimenti da parte mia al gip che ha deciso questo». E aggiungendo, in collegamento telefonico con l'allora Guardasigilli Andrea Orlando, il suggerimento di indagare sul giudice.
Il nome di Cantarini, in realtà, non era stato fatto, anche se il riferimento era inequivocabile. E nemmeno l'arresto almeno dal punto di vista cronologico, e senza considerare l'effetto dissuasorio di una misura più severa - avrebbe cambiato le cose, considerato che Tavares sarebbe tornato libero il 30 dicembre 2016, undici giorni prima del suo attacco con l'acido alla ragazza. Proprio il gip aveva rimarcato questo punto, sottolineato anche nell'alzata di scudi a sua difesa dell'avvocatura riminese e dell'Anm, che oltre a rimarcare la correttezza formale del provvedimento adottato dal gip (Tavares non aveva violato quel divieto di avvicinamento), avevano condannato la «gogna mediatica» contro il collega, risparmiando solo Gessica dalle critiche. Ma all'interessato non era bastata la difesa di casta. Cantarini aveva diffidato Costanzo, e quest'ultimo lo aveva invitato in trasmissione, a maggio 2017, suggerendo di chiudere la questione offrendogli il diritto di replica: «Sono disponibile ad ospitarla per ascoltare la sua versione», aveva spiegato il conduttore. Ma Cantarini aveva in mente una diversa soluzione. Il giudice riminese ha preferito querelare Costanzo per quei «complimenti» sarcastici, e il 30 novembre scorso un altro giudice, Maria Elena Cola del tribunale di Ancona, ha dato ragione al collega. Stabilendo che è stato vittima di diffamazione aggravata, condannando Costanzo - che ha 85 anni - a un anno di reclusione, e infine subordinando la sospensione della pena al pagamento di un risarcimento danni a Cantarini di 40mila euro.
"Giustizia irriformabile. Dopo tanti anni volevo mollare tutto". Il legale: "Processi mediatici e diritti calpestati. La riforma Cartabia? Non cambierà nulla". Felice Manti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.
«Dopo l'esito del processo di Avetrana celebrato nei confronti di Sabrina Misseri e della sua anziana madre Cosima, ho sentito assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l'Università, la ragione della mia vita». È un Franco Coppi durissimo a vergare queste parole nell'introduzione del libro Il delitto di Avetrana (Rino Casazza, Algama editore) in uscita in questi giorni. Al telefono con Il Giornale il legale che in passato ha difeso tra gli altri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti rincara la dose. «La successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna avevano generato uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell'inutilità e della vanità dell'opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all'abbandono».
Queste sono parole sue, le conferma?
«Guardi, ho vinto processi che pensavo di perdere e viceversa. Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte».
Eppure, ai più la condanna sembra scritta nel granito. Chiederà la revisione?
«Revisione? Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione».
Avetrana è stato un processo mediatico, lo sappiamo. Contro le storture c'è la riforma firmata dall'ex Guardasigilli Cartabia, no?
«Mah, ho molte perplessità. Dopo più di 50 anni passati nei tribunali vedo con preoccupazione il futuro dell'avvocatura, che mi sembra molto sacrificato rispetto ai diritti della difesa in Appello e in Cassazione. Non credo possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento».
Che cosa andrebbe riformato, secondo Lei?
«Per esempio, servirebbe la riforma dell'udienza preliminare ma non un semplice gioco di parole. Bisogna prendere atto che l'istituto è fallito. Bisogna pensare a come sostituirlo, anziché ritoccarlo».
Cosa ne pensa del Guardasigilli Carlo Nordio?
«È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro».
Il prossimo 13 dicembre il Parlamento deciderà i 10 membri laici del Csm. Mai come questa volta il suo peso sarà decisivo per riscrivere le regole del funzionamento della giustizia.
«Il ruolo del Csm è certamente delicatissimo ma io sono convinto che tutto dipenda dalle persone: c'è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all'opera».
La magistratura ha gli anticorpi per chiudere i conti con il passato? Penso al caso Palamara, ai casi Davigo-Storari eccetera
«Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un'altra serie di magistrati sono pessimista».
Caiazza: dalle feste illegali all’ergastolo, il decreto lascia al giudice un potere che diventa arbitrio. Nella sua audizione in Senato sul decreto 162, il presidente dei penalisti ha denunciato l’indeterminatezza di gran parte del testo. Il Dubbio il 22 novembre 2022
Riportiamo di seguito un estratto della relazione esposta ieri dal presidente dell’Ucpi Gian Domenico Caiazza nel corso delle audizioni svolte dalla commissione Giustizia del Senato sul decreto 162.
La considerazione di carattere generale che desta più allarme è la ennesima dimostrazione di una purtroppo ormai consueta attitudine del legislatore a porre in dubbio esso per primo, nei testi legislativi emanati o emanandi, il primato della legge sulla interpretazione giurisprudenziale. Ciò avviene quando il legislatore, per finalità piuttosto mediatiche che di effettiva regolazione di fenomeni sociali, confeziona provvedimenti che sembrano scritti apposta per consentire alla giurisdizione l’esercizio di un potere interpretativo della norma pressoché illimitato ed incontrollabile.
Tanto è infatti inevitabile, quando si introducono nelle leggi – come accade doviziosamente nel presente decreto – concetti di indistinto contenuto precettivo, evocativi di messaggi mediatico-politici forse suggestivi, ma del tutto indeterminati, consegnando in tal modo all’interprete dei fogli in bianco, che ciascun giudice riempirà a proprio piacimento, e secondo le proprie personali sensibilità culturali, giuridiche o politiche.
Si prenda il caso degli articoli che introducono – o pretenderebbero di introdurre, forse è meglio dire – condotte punitive dei cosiddetti rave-party, assurti misteriosamente a prioritaria urgenza del Paese. Il testo, in primo luogo, di tutto parla fuorché dei rave-party, prestandosi a punire qualunque forma di assembramento di più di 50 persone in terreni privati o aperti al pubblico senza l’autorizzazione del proprietario o la comunicazione all’autorità pubblica. Ma soprattutto, la condotta materiale si pretenderebbe connotata dalla contrarietà all’ordine pubblico (limite al diritto di riunione ignoto all’art. 17 della Costituzione) che -come dovrebbe essere noto- è nozione di una straordinaria vastità. (…) Usando con questa approssimazione nozioni tecniche complesse, si attribuisce al giudice la facoltà pressoché illimitata ed incondizionata di definire la liceità o la illiceità dell’evento che si pretenderebbe di punire.
Lo stesso vizio traspare dalla lettura degli articoli dedicati al tema delle ostatività. Qui il legislatore, per raggiungere lo scopo di una regolamentazione più severa del regime delle ostatività, e dunque della possibilità di eluderle in assenza di collaborazione da parte del detenuto, introduce condizioni che, a prescindere ora dal merito, sono costruite su nozioni a dir poco indeterminate. Cosa si pretende debba significare, ad esempio, la nozione di “collegamento con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, che il richiedente le misure alternative dovrebbe dimostrare inesistenti sia in termini di attualità, sia in termini di “pericolo di ripristino”? La nozione di “contesto” è già semanticamente nebulosa, figuriamoci cosa potrà accadere in concreto quando il giudice dovrà vagliare collegamenti con un non meglio identificato “contesto nel quale il reato è stato commesso”.
Ancora una volta, per dare corpo al “segnale politico” dell’inasprimento di un istituto normativo, si consegna al giudice un potere interpretativo immenso, illimitato, incontrollabile. Sorprende allora che simili pericolosissime dinamiche di accelerazione del processo degenerativo della tipicità del precetto penale vengano innescate da parte di chi poi, in altri contesti, lamenta (ben giustamente, aggiungo), l’irrimediabile squilibrio tra poteri dello Stato in favore del potere giudiziario. Passo ora a qualche sintetica considerazione di dettaglio.
Sulla proroga della entrata in vigore della riforma Cartabia, ed a prescindere dalle articolate obiezioni di costituzionalità già sollevate dal Tribunale di Siena, occorre che voi, illustri Senatrici e Senatori, sappiate che essa sta già determinando un caos ben superiore a quello che si proponeva di prevenire: e credo avrete motivo di fidarvi di chi può disporre di un osservatorio costituito da 129 Camere Penali distribuite su tutto il territorio nazionale. La ragione è molto semplice ed intuitiva.
Faccio un esempio: se quella legge delega, già in vigore da oltre un anno, ha modificato – e stiamo parlando di una riforma di grande rilievo – la regola di giudizio della udienza preliminare in senso più favorevole agli imputati (altrimenti come sappiamo destinati al rinvio a giudizio nel 97% dei casi) è del tutto ovvio che gli imputati a carico dei quali si devono celebrare udienze preliminari tra ottobre e dicembre del 2022, avranno almeno diritto al rinvio della udienza. Lo stesso vale per quegli imputati nei confronti dei quali il giudice debba pronunciare sentenza, e che avrebbero già beneficiato della modifica del regime di alcuni reati ora perseguibili solo a querela di parte. Ed infatti, è quello che sta accadendo in tutta Italia, con un gran numero di udienze rinviate, che si aggiungono al carico già insopportabile dell’arretrato pendente. (…)
Cannibalismo. L’impossibile riforma della giustizia e la destituzione dello Stato di diritto. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'1 Novembre 2022.
È evidente che la magistratura abbia marciato sulle carenze del nostro sistema giuridico, ma non è il punto d’origine di questo sfacelo
Chi si domandasse per quale motivo in Italia è tanto difficile mettere in campo una qualsiasi, seria riforma dell’amministrazione della giustizia, troppo facilmente concluderebbe che a opporvisi e a renderla impossibile è la prepotenza di un mandarinato giudiziario capace di intimidire e ricattare il legislatore riformatore.
Non che questa componente non esista e non abbia efficacia inibitoria, ma la realtà è che quel movimento di interferenza e reazionario sarebbe insufficiente a raggiungere l’obiettivo se non potesse contare su una temperie di disfacimento dello Stato di diritto che vede nel potere giudiziario l’utilizzatore finale, non il motore primigenio.
Un capannello togato che richiama le televisioni per protestare contro l’infamia di una legge sgradita resterebbe quel che è, un disinvolto e solo potenzialmente pericoloso conato di insulto alla legalità repubblicana, se il proclama ribellista che ne viene non ridondasse nel festoso riscontro presso l’informazione e l’opinione pubblica ben disposte ad accreditarne i meriti moralizzatori.
Un leader di procura che si mette a disposizione del presidente della Repubblica in caso di chiamata, come il colonnello in fregola nell’attesa della formazione della junta, rimarrebbe quel che è, un impertinente con poca cautela e molta boria, se non finisse magnificato in eternità equestre sul magazine del primo quotidiano d’Italia.
Un pubblico ministero che indugia sui sensi di colpa dell’indagato che si toglie la vita apparterrebbe al rango meritato, quello di un malvissuto cui non dovrebbe essere consentito di far giustizia sui propri simili, se le sue parole non fossero l’eco della turba che reclama le vie spicce per i corrotti.
La realtà è che la destituzione dello Stato di diritto è avvenuta per cannibalizzazione, e a spacciare il succedaneo non è stata solo la magistratura, anzi questa ha preso semplicemente (non vuol dire incolpevolmente) a valersi di quel prodotto confezionato e reso commerciabile da altri: anche per perpetuare il proprio potere, certo, ma in un clima di acquiescenza quando non di istigazione che rimanda a responsabilità ben più vaste e implicanti.
La verità è che è scritta in italiano comune, non in vernacolo giudiziario, la condanna a morte dello Stato di diritto. E le mancate riforme sono la pena accessoria di quella sentenza, un corollario sottoscritto da molti.
Criticare i magistrati? Un’eresia. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Settembre 2022
Non sempre e non esplicitamente, ma spesso e fondamentalmente la querela del magistrato nei confronti di chi scrive cose che non gli piacciono ha natura antidemocratica. Si basa cioè sulla pretesa autoritaria di veder punito l’autore della critica perché questa attenta non già alla reputazione dell’offeso, sebbene alla tracotanza pomposa del potere in cui egli si identifica.
Egli non amministra giustizia: egli “è” giustizia, di modo che fare le pulci a lui significa bestemmiare la sacertà di una missione incoronata. E vale l’opposto, chiaramente: dir male della giustizia o, peggio che mai, di una delle mostrine sociologico-moraleggianti che ad essa sono affibbiate (“Mani Pulite”, “Antimafia”, eccetera), significa molestare personalmente e intimamente chi rappresenta la cerchia. Significa non pulirsi la bocca quando si parla della Famiglia.
Secondo questa impostazione, che oscuramente quanto efficacemente lavora a eccitare un buon numero delle iniziative di querela da parte dei magistrati, la critica è passibile di inibitoria e di sanzione perché si rivolge a lesione di un bene (la maestà togata) rispetto al quale la libertà di opinione è necessariamente condizionata e recessiva. Tu non hai diritto di affermare (e ovviamente puoi farlo con ragione o no, secondo il giudizio di ciascuno; ovviamente puoi farlo adoperando argomenti condivisibili o no, questa è un’altra faccenda), non hai diritto, dicevo, di affermare che una certa cultura della giurisdizione costituisce una vergogna per la società costretta a subirla e per l’ordinamento che ne è contaminato: perché affermarlo sente di eresia, e fornisce a qualunque magistrato il titolo sufficiente a querelarti.
E si noti come nessun’altra categoria (se non, forse, quella non casualmente assai simile costituita dai giornalisti) osi neppure immaginare per sé stessa qualcosa di simile, cioè sentirsi e pretendersi una cosa sola con il proprio potere trasfigurato in feticcio penalmente presidiato.
Che poi la querela del magistrato sia scritta in vernacolo giudiziario, cioè in una favella direttamente intesa dalla colleganza che si incarica di mandarla avanti, è solo l’ultimo dettaglio – si fa per dire – di questa generale stortura. Iuri Maria Prado
Le riforme legislative e le proposte. L’eclissi lunga e dolorosa della magistratura. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Settembre 2022
«It’s not dark yet, but it’s getting there» cantava il premio Nobel per la letteratura Bob Dylan. «Non è buio ancora, ma presto lo sarà» sembrano le parole che, a mezza voce e con malcelata preoccupazione, sussurrano le toghe italiane di fronte allo scenario politico inaugurato dalle elezioni del 25 settembre. È vero, non è la prima volta che il centrodestra (Cdx) si aggiudica una competizione elettorale nazionale. È vero, non è la prima volta che quello schieramento annuncia riforme radicali sul versante della giustizia.
Ma è la prima volta che il Cdx mette in campo una strategia a doppia partizione: per un verso ha annunciato in campagna elettorale modifiche legislative ordinarie di un certo peso, per altro pretende una revisione della Costituzione in varie sue parti, senza mai escludere espressamente le norme sul potere giudiziario. Si badi bene. Esclusa qualche scaramuccia periferica sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, mai la Costituzione repubblicana era finita sotto il mirino delle ambizioni costituenti della politica italiana. A nessuno era venuto in mente di modificare l’assetto dell’organizzazione giudiziaria prendendo le distanze dallo statuto della Carta del 1947.
Certo, nel 1999, si erano introdotte nell’articolo 111 le norme sul “giusto processo”, scopiazzandole dalla Cedu, ma gli effetti benefici sul processo penale e civile di quella riscrittura costituzionale sono stati sempre pressoché nulli, dopo qualche iniziale entusiasmo. Anzi. Si è avuto come l’impressione che principi basilari come la ragionevole durata del processo, la terzietà del giudice, la parità delle parti dovessero, essi, adattarsi alla morfologia ambigua della giustizia italiana, perdendo ogni capacità performante e ogni spinta innovatrice. Se davvero il Cdx intende modellare la forma di governo o addirittura di Stato in senso presidenzialista, è evidente che la magistratura ordinaria non potrebbe non subire un pesante contraccolpo da questa riscrittura della Carta.
L’attribuzione della presidenza del Csm a un presidente eletto dal popolo e non più di estrazione parlamentare, altera in modo decisivo l’autogoverno della magistratura dovendosi immaginare che un presidente del Repubblica di diretta derivazione dal voto popolare sarebbe senz’altro propenso a interventi, come dire, ravvicinati sul funzionamento di palazzo dei Marescialli. Senza considerare che sia il presidente che il vicepresidente potrebbero facilmente appartenere alla medesima coalizione politica e derivare dagli esiti della stessa tornata elettorale; circostanza sinora evitata dalla sfasatura tra il settennato quirinalizio e il quadriennio consiliare. Se l’opzione fosse, poi, quella dell’elezione diretta del premier sul modello del cd. sindaco d’Italia, anche questa volta le conseguenze non sarebbero di scarso momento sul funzionamento dell’organizzazione giudiziaria con un gabinetto a palazzo Chigi fortemente legittimato politicamente e poco propenso a mediazioni con la corporazione delle toghe, sempre diffidenti verso governi autorevoli (basti pensare allo scontro con la ministra Cartabia).
Insomma, questa volta la copertura della Costituzione – che tante volte ha dato modo alla Consulta di neutralizzare gli effetti di riforme legislative ordinarie malviste dalle toghe (si pensi alla legge caducata sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione o alla norma cassata sull’obbligo di archiviazione in caso di annullamento di un mandato di cattura) – potrebbe vacillare. Nello schieramento del 25 settembre, soprattutto nei suoi settori più sensibili alle geometrie costituzionali e istituzionali, potrebbe trovar spazio l’idea di un complessivo rimodellamento dell’assetto della giurisdizione irrompendo nella cittadella disegnata nel 1947 attraverso l’escamotage di dare sostanza e forma definitiva a una battaglia tutto sommato ben vista dalla pubblica opinione come quella della separazione delle carriere tra giudici e pm.
Di lì il passaggio verso il doppio Csm sarebbe agevole, come pure ghiotta potrebbe essere l’occasione per sistemare il principio di obbligatorietà dell’azione penale o la disponibilità diretta della polizia giudiziaria da parte dei pm o i poteri del Csm o la creazione dell’Alta Corte disciplinare. Tutte proposte che riscuotono consensi ben oltre gli steccati dell’attuale Cdx e che hanno visto spendersi figure autorevole della politica italiana (primo tra tutti, Luciano Violante). Certo non è ancora buio, ma tra un poco il sole della magistratura italiana rischia un’eclissi lunga e dolorosa cui, francamente, non si è del tutto pronti a reagire con proposte autorevoli. Alberto Cisterna
Elezioni Csm. Vendette, bestemmie e tradimenti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Settembre 2022
Il nuovo Csm sarà impegnato anche sul fronte politico dovendosi occupare dalle riforme penali e civili in fase di attuazione ai conflitti che si proporranno inevitabilmente con la nascitura maggioranza parlamentare, sopratutto se a trazione centrodestra, su dossier come quello della separazione delle carriere e responsabilità civile che comporterebbe la possibilità di maggioranze variabili con i componenti laici.
La campagna elettorale per il rinnovo della componente togata del Consiglio superiore della magistratura, l’organo di rilievo costituzionale presieduto dal capo dello Stato, composto da magistrati eletti da magistrati e da docenti/avvocati eletti dal Parlamento, e competente su vita, morte e miracoli del terzo potere, finalmente da 48ore è finita, e nelle prossime ore si conoscerà l’esito dell’urna. La riforma ha anche aumentato il numero di consiglieri: i togati passano da 16 a 20, i laici (che saranno eletti dal prossimo Parlamento) da 8 a 10.
Una sola cosa è certa: il Csm che si sta per eleggere sarà il più potente della storia. La riforma Cartabia da un lato ha accresciuto le competenze e aumenta il controllo dell’organo di vertice sulla carriera e sul profilo disciplinare dei magistrati, sottoposti a verifiche di ogni tipo (smaltimento arretrato, tempi di deposito atti, formalità di comunicazioni). Dall’altro lato verrà chiamato a gestire i numerosi di procedimenti disciplinari provenienti da controversi casi politici o dalle chat di Luca Palamara, in primo luogo quelli del suo alleato il magistrato in aspettativa Cosimo Ferri successivamente diventato parlamentare.
Il nuovo Csm sarà impegnato anche sul fronte politico dovendosi occupare dalle riforme penali e civili in fase di attuazione ai conflitti che si proporranno inevitabilmente con la nascitura maggioranza parlamentare, sopratutto se a trazione centrodestra, su dossier come quello della separazione delle carriere e responsabilità civile che comporterebbe la possibilità di maggioranze variabili con i componenti laici.
Il nuovo sistema elettorale denominato il” Cartabellum“, è riuscito a fare impallidire il “Rosatellum” licenziato a suo tempo dalle aule parlamentari, a seguito della riforma ha anche aumentato il numero di consiglieri da eleggere: i “togati” (cioè i magistrati) salgono da 16 a 20, i “laici” cioè quelli indicati dai due rami del parlamento che verrà eletti dopo le elezioni del prossimo 25 settembre, che aumentano da 8 a 10. Nella campagna elettorale vi è stato solo un solo dibattito pubblico in Cassazione, peraltro senza contraccolpi. Utilizzate le mailing list, e le chat, al massimo qualche aperitivo (sopratutto con giornalisti “amici” delle Procure. Piccoli gruppi, e poche promesse di voto. In tutto 87 candidati su poco più di 9mila votanti, più del triplo di quattro anni fa.
Una campagna elettorale, come facilmente prevedibile, caotica e dispersiva, in cui soltanto la metà dei candidati è collocabile nel sistema delle correnti organizzate. Con cadute di stile inqualificabile come quella rivelata dal quotidiano Il Foglio ad opera del candidato napoletano di Area, il magistrato Tullio Morello, che in un dibattito online con una trentina di colleghi ha dichiarato, appunto, che “Palamara è stato un grandissimo pezzo di merda e si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia“.
I membri “togati” vengono eletti con un sistema prevalentemente maggioritario. Due in Cassazione, come accadeva prima, mentre i pubblici ministeri sono divisi in due maxi collegi nazionali: uno che va lungo la dorsale tirrenica da tutto il Nord sino al Lazio , l’altro invece copre la dorsale adriatica fino alla Sicilia. Ogni collegio elegge i due pm più votati. Un quinto pm viene ripescato come miglior terzo. I giudici di merito, sono suddivisi in quattro collegi di medie dimensioni: anche per loro vengono eletti i primi due in ogni collegio. Gli altri cinque vengono ripescati con un meccanismo a dir poco complesso per favorire il “diritto di tribuna” alle minoranze, consentendo collegamenti formali ai candidati tra diversi collegi, come a riunirsi nei listini.
Mai nella storia delle elezioni del Csm erano state così indecifrabili a seguito dei postumi interni ad una magistratura sempre meno credibile e poco autorevole, a causa sopratutto delle guerre e contrapposizioni nelle correnti; mai si era sentito un candidato in una riunione arrivare a dire “Palamara è un mezzo di merda” dimenticando che quel signore è stato a lungo un suo collega ed il presidente dell’ Associazione Nazionale Magistrati, sino a quando a tutti conveniva.
Gli obiettivi della riforma Cartabia, al di là della volontà di limitare il precedente strapotere delle correnti interne alla magistratura, vogliono incentivare il radicamento territoriale dei candidati, e debellare eventuali maggioranze precostituite e “blindate”, consentendo la possibilità di candidature indipendenti. Il risultato dello scrutinio che comincerà domani pomeriggio dirà se sono stati raggiunti.
Molti prevedono che Unicost la corrente di “sistema” che ha sempre ondeggiato tra chiaro e scuro, dovrebbe uscire fortemente ridimensionata dal voto pagando dazio elettorale per lo scandalo delle intercettazioni e delle chat del gruppo Palamara, che hanno portato a non poche scissioni e guerre interne alla magistratura.
Al contrario Magistratura Indipendente pur essendone pesantemente coinvolta, ha raccolto i migliori frutti dallo scandalo. Le intercettazioni del maggio 2019 delle riunioni notturne all’hotel Champagne di Roma, avevano dimostrato che la corrente era ancora indirizzata e pilotata dal loro leader Cosimo Ferri, passato in politica prima in Forza Italia, poi sottosegretario renziano all’epoca nel Pd , ed adesso in Italia Viva che lo ha candidato in diversi collegi per il Terzo Polo . Non va dimenticato che 3 consiglieri su 5 riuniti in quell’infelice dopocena erano di Magistratura Indipendente e vennero costretti alle dimissioni dal Csm, prima di essere pesantemente condannati dalla sezione disciplinare, ed a breve la Cassazione sarà chiamato a pronunciarsi sul loro ricorso.
Ferri, nonostante sia stato sottoposto a processo disciplinare, dopo aver ripetutamente ricusato tutto il Csm, ha ottenuto dalla Camera lo scudo della inutilizzabilità delle sue intercettazioni. Una questione seria, trattandosi delle garanzie costituzionali di un parlamentare, sulla cui questione adesso dovrà pronunciarsi la Corte Costituzionale. Incredibilmente sono passati tre anni ed il processo è ancora fermo e se la Consulta gli darà ragione, verrà tutto archiviato. Contrariamente, il processo ripartirà, ma davanti al prossimo Csm, che dovrà giudicare Ferri anche per la “grave scorrettezza” contestatagli per aver portato dall’imputato Silvio Berlusconi il suo giudice naturale Amedeo Franco, pronto a rivelare con rivelazioni mai confermate, i sospetti di un complotto politico-giudiziario a monte della condanna di Silvio decadere da senatore lo aveva fatto decadere da senatore in quanto pregiudicato per frode fiscale del 2013 .
Rivelare il contenuto di una camera di consiglio come ben noto è un reato, ma il giudice Franco nel frattempo è deceduto. Ferri che non è mai stato indagato penalmente, ha sempre dichiarato di non aver pressato o istigato né di aver conosciuto il contenuto delle confidenze che Franco intendeva fare a Berlusconi. La Procura generale della Cassazione ha avviato nei suoi confronti l’azione disciplinare, uno degli ultimi processi promossi dal procuratore Giovanni Salvi prima di andare in pensione, il quale nelle settimane successive è stato oggetto di forti polemiche per le sue scelte in materia disciplinare, che hanno portato anche a un’ostile interrogazione parlamentare alla ministra Cartabia, da parte di Italia Viva.
L’attuale leadership di Magistratura Indipendente ha annunciato di volersi “deferrizzare” e ha promosso candidature in discontinuità generando l’effetto è che accanto ai candidati ufficiali si sono proposte candidature autonome di esponenti della stessa corrente. Alcuni formalmente collegati tra loro come il giudice napoletano Giuseppe Cioffi, tempo fa sorpreso ad una convention di Forza Italia mentre ne processava un importante esponente per camorra), altri no. Alcuni notoriamente legati a Ferri da antichi vincoli professionali come ad esempio il giudice romano Leonardo Circelli, e capo della sua segreteria quando era al ministero, altri no. Tutti legati dal proposito di un «ritorno dalle origini». Che tutto questo possa rappresentare una “rifondazione ferriana” che è diventata materia di discussione di campagna elettorale.
Così come le voci su un attivismo dello stesso Ferri nella campagna elettorale, che peraltro si sovrappone alla sua. Certo tra i più ferventi sostenitori del listino di “Rifondazione” compare un ex consigliere del Csm, Luca Forteleoni, vicino a Ferri.
Tra i pm, le candidature indipendenti definite “falsamente”, dai commenti velenosi di Magistratura Indipendente, sono state quelle di Gregorio Capasso procuratore capo di Tempio Pausania , che ha condotto l’indagine per stupro nei confronti del figlio di Beppe Grillo mandandolo a processo, e del procuratore aggiunto di Latina Carlo Lasperanza, che divenne famoso 25 anni fa per il processo sull’omicidio della studentessa della Sapienza, Marta Russo.
Il confronto elettorale in generale è stato duro, con il desiderio di contarsi, conquistare almeno un paio di seggi, per farne perdere due o tre a Magistratura Indipendente, per poi dare battaglia interna al prossimo congresso. Dalla parte opposta, il cosiddetto “campo largo” progressista creatosi dopo il caso Palamara si è sfaldata diventando molto circoscritto e ristretto.
La corrente Autonomia&Indipendenza costituita da Piercamillo Davigo con il gradimento del M5S e del Fatto Quotidiano , si è disunita, perdendo al suo interno la componente meridionale e antimafia composta dai pm Roberto Ardita e Nino Di Matteo. Dopo non poche esitazioni l’unica personalità spendibile, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ha deciso di non candidarsi preferendo indirizzare i suoi interessi per candidarsi alla guida della Procura di Napoli. Il pensionamento di Davigo dalla magistratura, con annessi veleni e processi che lo vedono imputato a Brescia sui verbali del “faccendiere” Piero Amara sulla loggia Ungheria, ha dato il colpo di grazia. La corrente si è disunita, ed il risultato elettorale che uscità oggi in Cassazione dallo spoglio delle votazioni dirà qualcosa di più sul suo futuro.
Dall’altro lato, quello progressista, del campo largo sicuramente meglio non va, avendo vissuto il divorzio non consensuale tra le correnti sinistrorse di Area e Magistratura Democratica. Nella scorsa primavera, a maggio si era parlato di un accordo “di desistenza”, per sfruttare le pieghe del sistema elettorale: candidature condivise in Cassazione e tra i pm per non disperdere voti, corse separate tra i giudici per massimizzare i risultati. Ma non si è arrivati ad un accordo e quindi Magistratura Democratica ha lanciato candidature autonome ovunque o addirittura sostenuto altri candidati.
Quindi sono attesi dei risultati imprevedibili, per i quali non si escludono sorprese, e non si può prevedere su quale corrente inciderà di più l’inesorabile astensione. Come sempre, il voto in Cassazione assumerà un rilievo non indifferente dal forte valore e significato politico. Nel 2018 fu clamoroso ed imprevedibile il successo del gruppo guidato da Piercamillo Davigo e la clamorosa sconfitta di Area ed un ridimensionamento di Unicost.
Oggi l’esito dello spoglio delle votazioni dei magistrati è molto incerto. In pole position i candidati di Area e Magistratura Indipendente ma sono considerati forti gli outsider di “Magistratura Democratica” e di «Rifondazione MI». La presenza di molti candidati (nove in tutto) abbassa il quorum di elezione, quindi il risultato finale si giocherà su pochi voti di differenza.
Ma lo spettacolo a cui assisteremo in definitiva è solo politica giudiziaria. Addio giustizia indipendente al di sopra delle parti. Redazione CdG 1947
Elezioni Csm: la sinistra della magistratura “divisa” aiuta la destra a prevalere. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Settembre 2022.
Si è quindi concluso lo spoglio delle schede dei 4 collegi maggioritari per i 13 giudici: risultano eletti i primi due per ciascun collegio, gli altri 5 posti dei togati in rappresentanza dei giudici verranno assegnati con un meccanismo proporzionale su base nazionale. Lo spoglio proseguirà domani per il secondo collegio, che assegnerà altri due seggi.
Arriva anche in questa tornata elettorale per eleggere il nuovo plenum del Csm, la prima dopo la riforma, è arrivato un forte vento di destra , grazie anche alle divisioni a sinistra , che se fosse unita per la somma dei voti avrebbe la maggioranza. Infatti come accade anche nella politica, proprio le divisioni a sinistra a dare più forza alla destra. La riforma Cartabia aveva l’intento di allargare la partecipazione e c’è stato infatti un boom di candidati, 87 in tutto, che non ha paragoni con il passato. Colpisce anche un altro dato, quello relativo alle schede nulle o bianche, quasi 1.000.
E come in politica, anche in magistratura gli esponenti della sinistra di Magistratura Democratica, le storiche “toghe rosse” che per la prima volta dopo anni si è presentata da sola “autonomamente” da Area. Una divisione per niente consensuale, che sa più di rottura che di separazione, e che era già maturata e nota da tempo.
Alla fine a prevalere sono stati i candidati sostenuti dai gruppi maggioritari anche nell’Associazione Nazionale Magistrati e si intravede una vittoria delle “correnti” (che si spacciano per associazioni…) rispetto ai candidati autonomi e non schierati politicamente. Arrivano dalla Suprema Corte di Cassazione i magistrati di legittimità che sono i primi due consiglieri eletti palazzo dei Marescialli.
I segretari delle due correnti di sinistra della magistratura, Eugenio Albamonte di Area e Stefano Musolino di Magistratura Democratica , la pensano diversamente anche nel commentare i primi risultati disponibili . Albamonte si dichiara “soddisfatto per il risultato della Cassazione che, nonostante la scissione di Md, ci consente di riconquistare il seggio dopo quattro anni con un magistrato eccellente” aggiungendo che “è ancora presto per anticipare valutazioni generali su un’elezione i cui esiti rimangono imprevedibili”. Il segretario di Area critica, la decisione di Magistratura Democratica che ha scelto di correre da sola, come del resto aveva fatto anche in passato: “Se avesse fatto scelte diverse il risultato sarebbe più visibile. Sommando i nostri voti con i loro si capisce che è ancora presto per dire che la magistratura sterza verso destra“.
Stefano Musolino segretario di Magistratura Democratica non ha dubbi invece sulla decisione di correre separati: “Il risultato di Lello Magi dice che Md è tornata ad incuriosire la magistratura. Il risultato ci dà entusiasmo per far vivere le nostre idea e la nostra sensibilità culturale. Ottenere oltre il 10% dei voti validi, nel brevissimo tempo concesso dalla campagna elettorale feriale e quando ancora stiamo riorganizzando il gruppo, dopo il recupero di autonomia da Area, è un risultato incoraggiante”.
Il segretario di uno dei gruppi associativi confessa: “Non è superabile con nessun sistema, nemmeno con il sorteggio. Anche il quel caso individueremmo il candidato più vicino alle nostre istanze. Delle correnti si vede la parte peggiore, la struttura di potere, ma noi ci riuniamo attorno a delle idee“.
“Destra e sinistra è una narrazione sbagliata – sostiene Angelo Piraino, segretario di Magistratura
Indipendente il gruppo delle toghe moderate – quello che ci distingue è il da farsi. Noi crediamo nell’indipendenza non solo verso l’esterno ma anche all’interno, nei confronti dei capi degli uffici. E crediamo nei criteri predeterminati, con un punteggio, per assegnare gli incarichi. E sono queste le cose
che ci distinguono, non l’essere di destra o sinistra“.
Si dice moderatamente soddisfatta la presidente di Unicost, Rossella Marro che può contare allo stato su tre seggi. Autonomia e Indipendenza (che nel 2018 aveva 2 seggi) per ora senza Piercamillo Davigo resta fuori e il segretario Guido Marzella riconosce a malincuore che l’assenza ha pesato. Ma il rammarico più grande è che non solo la riforma non ha limitato il peso, ma ha accentuato quello delle correnti più grandi: “Avevamo avvertito di questo rischio forse l’obiettivo era conservare l’esistente“.
l’ex-consigliere del CSM Luca Palamara
L’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara ex membro del plenum di Palazzo dei Marescialli che è stato radiato dalla magistratura dopo lo scandalo delle correnti nel Csm, è sicuro che Magistratura indipendente, con un orientamento di destra, esca “molto rafforzata dalla votazione in Cassazione e dai primi esiti parziali dei giudici di merito”. Ciò determina “un significativo spostamento a destra” e la “divisione interna alla corrente di Area con orientamento di sinistra marca ancor di più questo aspetto”. “È chiaro a tutti”, aggiunge l’ex magistrato, “che la riforma, limitandosi ad ampliare il numero di collegi, non avrebbe potuto risolvere i problemi legati alla correntocrazia come invece sarebbe potuto accadere con il sorteggio temperato”. Cioè con un altro tipo di sistema elettorale.
Oggi il conteggio dei voti è già ripreso con i 13 giudici in Cassazione, che ha allestito un ufficio ad hoc a piazza Cavour dove lo spoglio è stato seguito in presenza per i giornalisti accreditati e presenti.
Lo spoglio relativo al primo collegio per le elezioni dei nuovi togati al Csm in rappresentanza dei giudici del merito, si è concluso in Cassazione . Le più’ votate sono risultate Maria Luisa Mazzola, giudice a Bergamo, candidata con Magistratura Indipendente che ha ottenuto 558 preferenze, e Mariafrancesca Abenavoli, giudice a Torino, candidata con Area che ha raccolto 182 preferenze. In tutto sono 13 i togati che devono essere eletti in rappresentanza dei giudici: si attende ora lo scrutinio relativo agli altri 3 collegi per questa categoria.
Anche nel secondo collegio giudici lo spoglio effettuato in Cassazione ha visto affermarsi i candidati delle due correnti di Magistratura Indipendente ed Area. Sono risultati infatti più votati Bernadette Nicotra di Magistratura Indipendente con 636 voti, e Marcello Basilico, di Area, con 352 voti.
Al termine dello spoglio delle schede per il terzo collegio relativo ai rappresentanti dei giudici del merito nel nuovo Csm il più’ votato è stato ancora un candidato di Magistratura Indipendente, Edoardo Cilenti consigliere della sezione lavoro della Corte d’appello di Napoli (che in passato è stato anche segretario dell’Anm), il quale ha ottenuto 430 voti. Seguito da Roberto D’Auria, giudice del Tribunale di Napoli e candidato per Unicost, con 357 preferenze.
Nello scrutinio per il quarto collegio dei giudici di merito per l’elezione dei togati nel nuovo Csm i più votati, in questo collegio, sono stati Genantonio Chiarelli, originario di Martina Franca (Taranto), attualmente giudice del Tribunale di Brindisi e candidato di Area che ha ricevuto 324 voti ed Antonino Lagana’, consigliere alla Corte d’appello di Reggio Calabria e candidato di Unicost, al quale sono andate 244 preferenze.
Si è quindi concluso lo spoglio delle schede dei 4 collegi maggioritari per i 13 giudici: risultano eletti i primi due per ciascun collegio, gli altri 5 posti dei togati in rappresentanza dei giudici verranno assegnati con un meccanismo proporzionale su base nazionale. I risultati dello spoglio per i magistrati giudicanti di merito consegnano 4 eletti a Magistratura dipendente, la corrente dei conservatori che prende 2115 voti, e altri 4 ad Area, la componente considerata più “sinistrorsa” tra le toghe, seconda a quota 1319. 3 seggi vanno ad Unicost, la corrente moderata che si ferma a 1193, 1 a Magistratura Democratica, la storica sigla di sinistra che a differenza di quanto avvenuto negli ultimi anni ha scelto di correre separata da Area e ha preso 879 voti.
Per la categoria dei pubblici ministeri i primi due eletti del primo dei due collegi previsti per i
magistrati requirenti al Consiglio superiore della magistratura sono Eligio Paolini, sostituto procuratore a Firenze, di Magistratura indipendente che ha ricevuto 986 voti e Roberto Fontana, pm a Milano, candidato indipendente, che ha ottenuto 675 voti . Lo spoglio proseguirà domani per il secondo collegio, che assegnerà altri due seggi.
La commissione elettorale centrale procederà quindi all’assegnazione dei 5 posti rimanenti per i giudici di merito, con un meccanismo proporzionale su base nazionale, e del quinto pm attraverso il ripescaggio del miglior terzo. E così sarà completo il gruppo dei 20 togati al Csm per la prossima consiliatura.
Redazione CdG 1947
Elezioni CSM. Tutti gli eletti (ed i ripescati): ecco come sarà composto il prossimo plenum “togato”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere Del Giorno il 23 Settembre 2022
Un dato incredibile nel secondo collegio dei pm, è stato il numero di schede bianche, 461 e quelle delle schede annullate 104, per un totale di 565 magistrati che hanno così voluto manifestare il proprio disagio e la voglia di contestare e rompere con le logiche correntizie.
Come raccontavamo ieri si è svolto questa mattina lo spoglio per il secondo collegio dei pm, terminato alle h. 11:24 che ha assegnato altri due seggi, che ha visto smentite le previsioni dei soliti giornali “vicini” alla sinistra giudiziarie, che davano per scontata l’elezione dell’attuale procuratore aggiunto di Taranto, Maurizio Carbone esponente di Area nel prossimo plenum del Consiglio Superiore della Magistratura, che invece è stato il “grande bocciato” riuscendo ad entrare solo come primo dei non eletti. Primo degli eletti nel secondo collegio è stato il pm Marco Bisogni della corrente di Unicost, attualmente in servizio presso la DDA di Catania che ha ricevuto 974 preferenze, seguito dal pm antimafia di Palermo Dario Scaletta, esponente di Magistratura Indipendente, suffragato da 729 preferenze.
Soltanto terzo e primo dei non eletti Maurizio Carbone procuratore aggiunto di Taranto , ex segretario dell’ Anm (presidenza Sabelli), una carriera prevalentemente spesa nell’attivismo correntizio, candidatosi nelle liste di Area, il quale ricevendo 686 preferenze ha prevalso per 65 voti sul collega (e compagno anche di corrente) Mario Palazzi pm della Procura di Roma che ha ricevuto 621 voti , ed è quindi entrato dalla porta di servizio del Csm come primo dei terzi non eletti. Non a caso infatti lo stesso Carbone, si era candidato oltre che al Csm, anche per la guida della procura di Matera.
Un dato incredibile nel secondo collegio dei pm, è stato il numero di schede bianche, 461 e quelle delle schede annullate 104, per un totale di 565 magistrati che hanno così voluto manifestare il proprio disagio e la voglia di contestare e rompere con le logiche correntizie !
La commissione elettorale centrale procederà quindi all’assegnazione dei 5 posti rimanenti per i giudici di merito, con un meccanismo proporzionale su base nazionale, e del quinto pm attraverso il ripescaggio del miglior terzo. Al momento i cinque giudici di merito eletti sono Tullio Morello, giudice a Napoli (Area) artefice dell’esternazione “Palamara è un pezzo di merda…“, Domenica Miele giudice a Napoli (Magistratura Democratica), Maria Vittoria Marchiarò giudice a Crotone (Magistratura Indipendente), Michele Forziati giudice a Roma (Unicost) ed Andrea Mirenda giudice di sorveglianza a Verona (un ex esponente di MD) candidatosi come “indipendente” con Altra proposta, il quale per una strana coincidenza è stato sorteggiato per correre proprio grazie al meccanismo previsto dalla riforma Cartabia per assicurare la parità di genere.
Nei collegi binominali, che eleggevano 8 giudici, sono stati eletti Francesca Abenavoli (giudice del tribunale di Torino), Marcello Basilico (presidente della sezione lavoro al Tribunale di Genova), Genantonio Chiarelli (giudice del tribunale di Brindisi) di Area, Edoardo Cilenti (giudice presso la Corte d’Appello di Napoli) di Magistratura indipendente, Roberto D’Auria (giudice al Tribunale di Napoli) ed Antonino Laganà (giudice in corte d’Appello a Reggio Calabria) entrambi di Unicost, Maria Luisa Mazzola (gip/gup a Bergamo), Bernadette Nicotra (giudice al tribunale di Roma).
Nel parlamento dei togati del nuovo plenum del Csm, la sinistra perde eleggendo solo 6 consiglieri di Area e 2 di Magistratura Democratica per un totale di 8, mentre Magistratura Indipendente elegge 7 consiglieri ed Unicost ne elegge 4 per un totale di 11, oltre ad un indipendente per un totale di 20 consiglieri togati. Ora bisognerà solo aspettare la comunicazione ufficiale dell’ ufficio centrale della Cassazione al Csm che pubblicherà la comunicazione ufficiale. E dopodichè la “palla” passerà alle nuove camere parlamentari che dovranno eleggere i componenti “laici” del Csm, che passano da 8 a 10.
Grandi sconfitti i due “vecchi” (si fa per dire) Piercamillo Davigo e Cosimo Maria Ferri, che non hanno eletto nessun candidato a loro vicino .
Questi i risultati ufficiali pervenuti al Csm
COMPONENTI TOGATI ELETTI
COLLEGIO NAZIONALE
D’OVIDIO Paola COSENTINO Antonello
COLLEGIO 1 PM
PAOLINI Eligio FONTANA Roberto
COLLEGIO 2 PM
BISOGNI Marco SCALETTA Dario ULTERIORE PM ELETTO CARBONE Maurizio
COLLEGIO 1 GIUDICANTI
MAZZOLA Maria Luisa ABENAVOLI Maria Francesca
COLLEGIO 2 GIUDICANTI
NICOTRA Bernadette BASILICO Marcello
COLLEGIO 3 GIUDICANTI
CILENTI Edoardo D’AURIA Roberto
COLLEGIO 4 GIUDICANTI
CHIARELLI Genantonio LAGANA’ Antonio
COLLEGIO UNICO NAZIONALE DI MERITO
MARCHIANO’ Maria Vittoria
FORZIATI Michele
MORELLO Tullio
MIRENDA Andrea
MIELE Domenica
P.S. Permetteteci di ringraziare gli uffici stampa della Corte di Cassazione e del Consiglio Superiore della Magistratura per la preziosa collaborazione prestata per fornire ai lettori un’informazione completa ed autorevole
Redazione CdG 1947
Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 settembre 2022.
Alla fine nelle elezioni per la composizione del nuovo Consiglio superiore della magistratura hanno vinto le correnti, con in prima fila quella conservatrice di Magistratura indipendente. Correnti che si sono dimostrate più forti che mai e capaci di sbaragliare il tentativo velleitario di concorrere in autonomia dei numerosi indipendenti. Lo spoglio per i due magistrati con funzioni di legittimità (ovvero di ruolo in Cassazione) ha detto questo, lasciando interdetto chi dopo il terremoto conseguente all'incontro dell'hotel Champagne aveva sognato un cambiamento radicale.
Deluse anche le toghe rosse che si erano augurate la sparizione dei moderati, visto che la riunione nell'albergo romano per discutere di nomine aveva costretto alle dimissioni tre consiglieri di Mi e due di Unicost, tutti presenti all'incontro insieme con Luca Palamara e Cosimo Ferri.
All'epoca quel dopocena venne cavalcato dalla sinistra giudiziaria, convinta di conquistare la maggioranza in Consiglio da lì a chissà quanti anni. Un'operazione che venne benedetta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella che decise di non sciogliere il parlamentino dei giudici come se la cacciata di cinque consiglieri d'area di centro-destra, bollati come poche mele marce, avesse guarito con un colpo di bacchetta magica la cancrena del sistema correntizio.
In questo scrutinio (mancano i risultati delle toghe con funzioni giudicanti e requirenti) per la Cassazione la candidata di Mi, Paola D'Ovidio, ha ottenuto 1860 preferenze (più della collega Loredana Micciché nel 2018) mentre il candidato di Area Dg, Antonello Cosentino, secondo classificato, ha ottenuto 1226 preferenze. Entrambi i candidati sono entrati a Palazzo dei marescialli. Quello della Cassazione è un collegio unico nazionale e quindi i suoi risultati rappresentano meglio delle altre votazioni il peso delle correnti.
E le elezioni generali del Csm del 18 e del 19 settembre hanno confermato la tendenza degli ultimi anni con Mi davanti ad Area Dg. Le elezioni di mid term del resto avevano già delineato questo trend dei magistrati italiani che avevano tributato ampi consensi a Mi facendo eleggere due suoi iscritti: Antonio D'Amato e Tiziana Balduini.
Anche tenendo conto delle scissioni interne il risultato non cambia. Magistratura democratica, il gruppo più a sinistra, che alle precedenti elezioni del 2018 era una costola di Area, con il candidato Raffaello Magi si è, infatti, fermata a 696 voti. Sommando questi voti a quelli di Area si sopravanza di poco quelli ottenuti da Mi che, però, a sua volta, ha subito una spaccatura con la candidatura autonoma di un proprio esponente storico, il consigliere Stefano Guizzi. Quest' ultimo ha racimolato 244 voti che aggiunti a quelli della D'Ovidio superano quelli ottenuti dalla sinistra giudiziaria nel suo insieme.
Il risultato di Area ha comunque retto grazie all'apparente travaso di suffragi degli ex elettori di Autonomia & indipendenza che nel 2018 avevano proiettato Pier Camillo Davigo dentro al Csm sulla scorta di un risultato trionfale, 2522 voti, ben 800 in più della seconda classificata, la Micciché. Sabato e lunedì A&i è letteralmente sparita dai radar dopo essersi proposta come antidoto alle vecchie correnti.
Infine i centristi di Unicost, un tempo guidati da Palamara, sono passati dalle 1714 preferenze di Carmelo Celentano alle 816 di Milena Falaschi. Ottimo risultato per Stanislao De Matteis (780 voti) che si è presentato come indipendente, ma che, in realtà, sembra sia stato sostenuto soprattutto dagli iscritti siciliani e napoletani di Unicost.
De Matteis, nella presentazione della sua candidatura, aveva avuto il coraggio di svelare il segreto di Pulcinella, ovvero che la vicenda dello Champagne non ha scalfito il sistema: «La vicenda emersa è solo la punta di un iceberg di un'attività di spartizione correntizia. A mio avviso il Csm andava sciolto […] infatti non ha abbandonato le logiche che hanno condotto la magistratura al punto più basso; basta guardare all'attività della V commissione per capire come le correnti abbiano continuato a riproporre il solito schema: ogni gruppo si contraddistingue solo per proporre per il posto direttivo o semidirettivo l'appartenente alla propria fazione».
In conclusione la gestione portata avanti dalla sinistra giudiziaria principalmente attraverso le famose circolari dell'ex procuratore generale Giovanni Salvi (che si sono tradotte in una sorta di condono tombale per auto ed eteropromozioni dei magistrati per le nomine) ha avuto come unico effetto quello di polarizzare la contesa elettorale: destra contro sinistra. Quasi spariti tutti gli altri. I tre indipendenti capitanati da Giacomo Rocchi (sostenuto dal cosiddetto gruppo Articolo101) hanno totalizzato 1333 voti su 7911 schede totali (circa il 17 per cento del totale). Unico indizio della disaffezione di alcuni magistrati per questa competizione il gran numero di schede bianche, circa il 10 per cento.
Attenti al partito dei pm. Riformare lo Stato è impossibile, da 30 anni i siluri dei Pm sulla politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Settembre 2022
Se il prossimo Parlamento e la maggioranza che governerà il Paese dopo le elezioni pensano a una riforma costituzionale, specie se radicale come l’introduzione del presidenzialismo, facciano attenzione al partito dei pubblici ministeri. Non tanto se pensano di ricorrere a un’assemblea costituente, come ha proposto l’ex pm Carlo Nordio e come ha sempre e invano sollecitato nel passato il presidente Francesco Cossiga. Ma se hanno in mente una Commissione Bicamerale.
Perché in questo caso bisognerebbe non aver più paura dei pubblici ministeri, e per la politica non è facile, neppure nel momento in cui il gradimento dei cittadini nei confronti dell’amministrazione della giustizia è sotto lo zero. Certo, la storia delle Bicamerali e delle loro tristi fini non conforta. Il paradosso è che pare quasi irrilevante quel che di volta in volta le commissioni hanno proposto al Parlamento. Tanto che si ha poca memoria delle modifiche di 44 articoli della Costituzione proposte dai quaranta membri della prima Bicamerale, presieduta dal liberale Aldo Bozzi nel 1983. Perché quel che successe dopo, negli anni novanta, coincide con i giorni in cui il partito dei pm conquistò la propria Bastiglia. E allora cambiò tutto.
La seconda Commissione Bicamerale per la riforma della Costituzione era presieduta da un democristiano tosto, Ciriaco De Mita, uno che non abbandonerà più la politica fino ai suoi ultimi giorni, a 94 anni ancora sindaco della sua cittadina, Nusco. Siamo nel 1992, e non occorre aggiungere altro, per ricordare quel che stava succedendo al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, e a cascata nelle procure di tutta Italia. I “dipietrini” crescevano come i funghi dopo la pioggia e i principali partiti di governo erano già in rotta. La Bicamerale lavorava con i suoi sessanta membri. Arriverà a 60 sedute complessive e proporrà, alla fine, la modifica di 22 articoli della Costituzione. Ma a lavoro terminato la presidente si chiamerà Nilde Iotti. Che cosa era successo? Il primo tempo ha l’immagine delle manette, quelle con cui fu portato in carcere Michele, fratello del più noto Ciriaco, arrestato all’interno di un’inchiesta sulla ricostruzione post-terremoto in Irpinia. Ordinaria amministrazione, di quei tempi. Così come repentine furono le dimissioni di De Mita dalla presidenza della Bicamerale. Andava così, allora.
È istruttivo, oggi, a trent’anni da quei fatti, rileggere i verbali stenografici delle sedute della commissione, dopo quelle dimissioni e dopo che Mino Martinazzoli, segretario della Dc, propose che venissero respinte. L’ipocrisia si tagliava col coltello, in quella seduta del 3 marzo 1993. Tutti virtuosamente a dichiarare che se i figli non devono pagare le colpe dei padri, figuriamoci quelle dei fratelli. Però una vera difesa dell’innocentissimo Ciriaco che non era Michele, non ci fu, anche se alla fine le dimissioni furono respinte con grande maggioranza. Ma con l’assenza di Occhetto, La Malfa, Bossi, Segni, Pannella, Craxi. Cioè i principali leader. Ma il colpo di scena arriva alle otto di sera quando, con una telefonata al vicepresidente Augusto Barbera, De Mita confermerà le proprie dimissioni. “Irrevocabili”. Da quel momento su quella commissione che avrebbe dovuto traghettare verso la seconda repubblica, calerà un silenzio tombale.
Che cosa era successo in realtà in quei giorni lo racconterà De Mita stesso quattro anni dopo, rivelando di aver ricevuto un fax con le firme dei componenti il pool di Milano in cui il presidente veniva diffidato dal procedere alla separazione delle carriere dei magistrati, che in quei giorni si stava discutendo e che poi sparì dall’ordine del giorno insieme al presidente della commissione. Ricapitolando, dunque. Fase uno, arresto del fratello. Fase due, minaccia sulle riforme. Se non è ancora chiara la pericolosità delle Commissioni Bicamerali per la riforma della Costituzione, sarà bene ripassare il capitolo di quella che, pochi anni dopo, nel 1997 sarà presieduta da Massimo D’Alema. Provvederà il pubblico ministero del pool milanese Gherardo Colombo, con un’intervista al Corriere della sera, nella domenica 22 febbraio 1998, a lanciare il suo petardo: “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. La conclusione fu lapidaria: “La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto”.
Le inchieste di Mani Pulite erano teoricamente ormai alle spalle con la loro scia di suicidi. C’era il governo Prodi e il Pci-Pds era stato miracolato dalle procure. Ma penserà quell’intervista a ricordare “noi abbiamo appena inciso la superficie della crosta”, e che “La società del ricatto trova la sua forza, appunto, su ciò che non è stato scoperto”. Così finì che, dopo un iniziale sostegno anche da parte della stampa al guardasigilli Flick che iniziava l’azione disciplinare contro Colombo, alla fine sarà proprio il ministro la vittima sacrificale, il quinto su iniziativa degli uomini di Borrelli. E anche la terza Bicamerale perì, poco dopo. Attenzione, dunque. Non sarà un caso se da quel giorno di Bicamerali per la riforma costituzionale non si parlerà più fino ai giorni nostri.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Storie d’insostenibile illegalità nella Magistratura: il procuratore può legittimamente favorire la nomina di un presidente del tribunale di Crotone.
Sembra quasi che per il Csm la reputazione del giudice e l’indignazione dei cittadini siano perimetrati da insuperabili confini regionali. Rosario Russo su Il Dubbio il 7 settembre 2022.
Anno domini 2017, 24 novembre. Il dott. Alberto Liguori, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Terni, rappresentava, con numerose chat, al dott. L. Palamara, allora influente componente del Consiglio Superiore della Magistratura, la ferma “opposizione” alla nomina del dott. Salvatore Carpino quale Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza, preferito dalla competente Commissione del C. S. M. alla dott. sa Paola Lucente. In vista della decisione plenaria del Consiglio, il dott. Liguori protestava con il dott. Palamara intimandogli “così non va” e sottolineando che la sconfitta della dott. ssa Lucente (silente in tutte le chat) avrebbe comportato, per la loro corrente associativa (Unicost), una perdita di almeno 25 voti su 39 nel circondario di Cosenza. Inoltre coinvolgeva altri consiglieri del C. S. M. ( «Esigo, con te me lo posso permettere, Fanfani e la Balducci» ), quasi che avesse il potere di orientare anche i loro voti. Il dott. Liguori non mancava di indirizzare il proprio saluto a Renzi («Così mi piaci, salutami Renzi»).
La disputa si concludeva con una illecita mediazione. Infatti, il dott. Palamara proponeva al dott. Liguori un “accordo” con altra corrente dell’A. N. M., per cui, salva la nomina del dott. Carpino, la dott. ssa Lucente sarebbe stata poi proposta – con garantito successo – ad altro posto vacante di Presidente di sezione del Tribunale di Cosenza. E proprio così è in concreto avvenuto, con il “consenso” del dott. Liguori. Le chat in questione sono interamente leggibili anche sulla testata La Verità e su altri siti.
Di questa vicenda si occupava la Prima Commissione del C. S. M. per accertare se per «qualsiasi causa indipendente da sua colpa» il dott. Liguori non potesse, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità (art. 2 del Regio Decreto Legislativo 31 maggio 1946, n. 511). Si rileva subito che, essendo in ipotesi ravvisabile a colpo d’occhio (non la colpa, ma) il dolo dell’agente, restava precluso il procedimento amministrativo ex art. 2 citato. Comunque, chiamato a discolparsi davanti alla predetta Commissione, il dott. Liguori si difendeva assumendo che il pregresso servizio svolto per tanti anni in Calabria gli consentiva di conoscere personalmente i colleghi aspiranti al posto conteso; e quindi di essere consapevole del fatto che il profilo professionale del dott. Carpino era manchevole di un indicatore richiesto dal Testo unico sulla Dirigenza Giudiziaria. Dunque soltanto per tale ragione, squisitamente tecnica, egli si era indotto a “sollecitare” il dott. Palamara perché invitasse gli altri consiglieri a un ripensamento in Plenum a favore della dott. sa Lucente.
In 13 gennaio 2021 il Plenum del C. S. M. ha approvato, con un emendamento, la proposta di archiviazione della Prima Commissione, motivando infine che: «La propalazione di conversazioni provenienti da un magistrato che lavora in Umbria sulle proposte di nomina di un posto semi-direttivo in Calabria non appare determinare, anche in astratto, un appannamento al corretto esercizio della funzione di Procuratore della Repubblica di Terni. Ferma la rilevanza deontologica della condotta del dott. Liguori e impregiudicata ogni altra valutazione possibile in altre sedi consiliari, per quanto di competenza della Prima commissione essa non appare incidere in alcun modo sull’ufficio che dirige, non potendosi ritenere che tali conversazioni manifestino la velleità di stabilirne l’assetto, scegliendosi i colleghi a lui graditi, o di uffici con i quali si relaziona e, più in generale neppure attiene all’esercizio delle funzioni ricoperte. L’interessamento posto in essere per l’incarico semi-direttivo, d’altro canto, non è risultato in alcun modo legato ad aspirazioni professionali o a interessi privati del dott. Liguori, il quale non opera più nel territorio calabrese da oltre dieci anni e non ha presentato domande per posti direttivi in tale Regione».
La delibera di archiviazione, consultabile sul sito ufficiale del C. S. M., è stata approvata con 21 voti favorevoli (Ardita, Basile, Benedetti, Braggion, Cascini, Celentano, Chinaglia, Ciambellini, Curzio, D’Amato, Dal Moro, Di Matteo, Donati, Gigliotti, Grillo, Lanzi, Marra, Miccichè, Pepe, Suriano, Zaccaro) e 2 astensioni (Cavanna, Salvi), assente il cons. Cerabona. La discussione è stata trasmessa in diretta da Radio Radicale, nel cui sito è ancora udibile. In realtà, senza alcuna concreta motivazione, il Plenum conferisce rilievo liberatorio al fatto – meramente geografico – che, mentre la “raccomandazione” del dott. Liguori aveva per oggetto la copertura di un ufficio ubicato in Calabria, egli esercitava le proprie funzioni in Umbria, quasi che, secondo il C. S. M., la reputazione dei giudici e l’indignazione dei cittadini siano perimetrati da insuperabili confini regionali. Inoltre, per “assolvere” il dott. Liguori, il C. S. M. nega che egli avesse:
a) la velleità di stabilirne l’assetto personale dell’ufficio da lui diretto (la Procura di Terni)
ovvero b) di coltivare ambizioni carrieristiche in terra calabra. Ma si tratta di un duplice «argomento fantoccio» (tipica fallacia logica), perché il dato fattuale non consente minimamente d’ipotizzare tanto a) quanto b)!
È di tutta evidenza, piuttosto che, in primo luogo, il dott. Liguori, soltanto per tutelare e rafforzare comuni interessi elettorali di corrente (Unicost), ha favorito, con la servile complicità del dott. Palamara, la nomina da parte del Plenum della dott. ssa Lucente in danno del dott. Carpino ( già prescelto dalla competente Commissione), così infrangendo le norme che regolano il procedimento concorsuale a tutela dei candidati più meritevoli. Fallito tale tentativo, persistendo nel proprio disegno, il dott. Liguori ha ottenuto altresì che fosse “prenotata” e “riservata” alla dott. ssa Lucente la nomina ad un successivo posto vacante dell’ufficio ambito, con possibile pregiudizio di altri candidati più meritevoli. Tutto qui. Ma non è poco.
Ben vero, astrattamente una condotta come quella vagliata dal C. S. M. potrebbe integrare, innanzi tutto, la fattispecie penale di concorso in abuso d’ufficio, tentato e/ o consumato, ex artt. 110 e 323, 2° c. p., impossibile essendo immaginare una più devastante violazione dei limiti esterni della discrezionalità amministrativa (proprio, in questo senso, Cass. Pen. sent. n. 442 del 2021, pag. 5). Con la duplice conseguenza che: 1) acquisite le chat di Palamara, la Procura competente avrebbe dovuto esperire l’azione penale; 2) i componenti del C. S. M. avrebbero dovuto farne denuncia all’autorità penale competente ( artt. 331 c. p. p. e 361 c. p.).
La stessa condotta, in quanto reiterata e gravissima, astrattamente può rilevare anche come dolosa violazione disciplinare ( art. 2, 1° lett. d del D. lgs. n. 109 del 2006), sicché il P. G. presso la Suprema Corte (cui le chat sono state subito trasmesse) avrebbe dovuto esperire l’azione disciplinare, che preclude il procedimento ex art. 2 sopra citato caratterizzato da una condotta incolpevole. Forse è il caso di rilevare anche il duplice errore del C. S. M. Innanzitutto per avere avviato il meno grave procedimento d’incompatibilità incolpevole, pur in presenza di una così evidente fattispecie di dolosa violazione disciplinare, che (escludendo a priori l’incolpevole incompatibilità locale o funzionale) reclamava da subito soltanto l’attenzione del P. G. o del ministro della Giustizia (nonché della Procura competente in sede penale).
In secondo luogo, e comunque, non si ha notizia che il C. S. M. abbia provveduto a trasmettere, dopo l’archiviazione, gli atti ai titolari dell’azione disciplinare ( come espressamente imposto dalla circolare deliberata dal C. S. M. il 26 luglio 2017). Né emerge dagli atti che il P. G., dottor Giovanni Salvi, partecipando alla votazione come membro di diritto del C. S. M., abbia chiesto la trasmissione degli atti al proprio ufficio.
Per altro, trascorso un anno da quando (13 gennaio 2021) ha avuto circostanziata notizia della condotta sopra descritta, l’attuale P. G. neppure potrà agire in via disciplinare ( art. 15, 1° D. lgs. n. 109 del 2006). Infine, la vestitissima “raccomandazione” in questione rappresenta probabilmente grave violazione del codice etico dei magistrati, vincolante anche per coloro che non siano soci dell’A. N. M.; ma non risulta che il suo Collegio dei Probiviri si sia attivato per l’irrogazione della sanzione statutaria.
In definitiva, la condotta vagliata dal C. S. M. non ha provocato alcuna sanzione, lasciando indifesi tutti i magistrati meritevoli ma “pregiudicati” dalle c. d. “raccomandazioni” (i dottori “Nessuno”), mentre per analoghe condotte spartitorie i professori universitari sono penalmente perseguiti proprio dai magistrati.
L’Utente finale della Giustizia trema al pensiero che questa vicenda sia stata considerata «caso- pilota» dallo stesso Consiglio Superiore della Magistratura. Altro che «caso- pilota» ! Vengono alla mente i versi danteschi: «Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave senza nocchiere in gran tempesta…». (*Già sostituto procuratore generale presso la Suprema Corte)
Elezioni al Csm. “Serve un Csm nuovo, basta con le carriere decise solo dalle Lobby”, intervista al giudice Pupo. Viviana Lanza su Il Riformista il 31 Agosto 2022
«Le gravi difficoltà in cui versa la magistratura italiana sono sotto gli occhi di tutti. È indispensabile pertanto che le correnti ritornino ad essere solo espressione di diversità culturali tra i magistrati e non veri e propri centri di potere». Ne è convinta Maria Rosaria Pupo, attuale consigliere dell’ottava sezione civile della Corte d’Appello di Napoli, in passato pm a Sant’Angelo dei Lombardi, prima gip e poi giudice civile a Santa Maria Capua Vetere. È tra i candidati indipendenti al Csm scelti con il meccanismo del sorteggio dal Comitato Altra Proposta.
«Grazie ad un’esperienza così variegata ho potuto maturare una visione complessiva della giurisdizione e dell’ordine giudiziario. Al referendum indetto dall’Anm nella prospettiva della riforma del Csm, ho votato a favore del sistema del sorteggio “temperato” perché sono fermamente convinta che, allo stato, onde ridurre il potere delle correnti (ormai vere e proprie lobby) occorre da un lato consentire a tutti i magistrati di essere candidati (ponendo fine alle nomine correntizie) e dall’altro garantire agli elettori la possibilità di scegliere i candidati con cui hanno comunanza d’idee, di prospettive e di valori». Già, le lobby.
«Nel corso della mia carriera, con grande rammarico, ho assistito impotente allo scemare inesorabile del prestigio della magistratura, all’esaltazione del carrierismo a tutti i costi, favorito dal peso sempre più crescente ed ormai soffocante delle correnti – racconta il giudice Pupo – . Ho visto colleghi bravissimi e stimatissimi surclassati da altri che, ai vari concorsi per incarichi direttivi o semidirettivi avevano come unico titolo preferenziale l’appartenenza alla corrente più forte in quel momento. Ho raccolto la delusione ed il disincanto di colleghi che hanno rinunciato a partecipare al concorso per Presidente o Procuratore, pur di non perdere la propria dignità “questuando” al potente di turno. Ho spesso subito l’ostracismo ed il mobbing solo perché non ero né iscritta né simpatizzavo per la potente corrente di turno. Ma non per questo mi sono arresa. Non ho ceduto a ricatti, dispetti, ritorsioni, né ho lasciato correre, denunciando tutto alla Procura Generale presso la Cassazione ed al Csm e pagandone in prima persona le conseguenze».
Di qui la scelta di accettare la candidatura. «Sono consapevole di partecipare ad un’avventura difficilissima, ma non impossibile, perché la Giustizia è sempre stata uno dei capisaldi del mio credere civile e la speranza che ripongo in una sua rinascita è grande e dura a morire. Il caso Palamara, non ha sconfitto le logiche correntizie che anzi, a mio parere, sono andate consolidandosi sotto forme nuove e “più accorte”». «In questi ultimi anni abbiamo assistito a una deriva clientelare ed autoreferenziale della magistratura generata dalla riforma Mastella/Castelli la quale, ai fini della valutazione dei magistrati per il conferimento degli incarichi direttivi, semidirettivi e di legittimità, ha sostituito il criterio oggettivo dell’anzianità, con quelli “soggettivi” delle specifiche attitudini e del merito. A ben vedere, si tratta di scatole terminologiche vuote, idonee ad essere riempite di qualunque significato a secondo della convenienza. Si è così pervenuti alle “disgraziate” nomine a “pacchetto”, adottate dal Csm all’unanimità (si badi bene) per rispondere a logiche puramente spartitorie».
«Il “carrierismo” – aggiunge – ha infettato la magistratura producendo gli effetti nefasti che ormai a tutti noti. L’incarico al Csm spesso non è altro che il coronamento di una carriera politica iniziata con i Consigli giudiziari, proseguita con gli incarichi extragiudiziari o con le varie deleghe dei capi degli uffici (che in tal modo costruiscono “la carriera” del magistrato appartenente alla loro corrente, assegnandogli quelle che sono definite in gergo “medagliette”, utili ai fini della valutazione delle attitudini specifiche)». Per il giudice Pupo occorre puntare su criteri come l’anzianità, «criterio mai dismesso dalla giustizia amministrativa che infatti non ha vissuto gli scandali che hanno afflitto quella ordinaria». Posto, poi, che la soluzione dei problemi che attanagliano la magistratura passa anche attraverso la razionale distribuzione delle risorse tra Tribunali e Procure, uno dei punti programmatici riguarda gli incarichi extragiudiziari.
«Sottraggono capacità lavorativa ai Tribunali e alle Corti e creano, col sistema attuale del merito e delle specifiche attitudini (interpretati ad arte dalle correnti) corsie preferenziali per avanzamenti di carriera. Vanno drasticamente ridotti disponendo, quale criterio di legittimazione per partecipare a concorsi per posti direttivi, semidirettivi o di legittimità, che al termine dell’incarico extragiudiziario il magistrato debba necessariamente tornare ad esercitare, per un determinato periodo di tempo, le medesime funzioni giurisdizionali svolte in precedenza, onde evitare che detti incarichi costituiscano, come lo sono attualmente, trampolini di lancio per raggiungere in brevissimo tempo le più alte vette della carriera in magistratura».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Parla il senatore di Italia Viva. “Riformare il Csm, inaccettabile che le carriere dei magistrati sia determinata dalle correnti”, intervista a Bonifazi. Paolo Comi su Il Riformista il 31 Agosto 2022
“Non è accettabile che la carriera di un magistrato non sia determinata dal merito, ma dall’iscrizione a una corrente. E non è pensabile che la magistratura agisca guidata dalle convinzioni politiche e non dal diritto”, afferma il senatore di Italia viva Francesco Bonifazi.
Senatore, il ‘Palamaragate’ prima e poi gli impegni presi con Bruxelles per il Pnrr hanno rappresentato una occasione irripetibile per riformare la giustizia. È soddisfatto del risultato ottenuto o pensa si potesse fare di più?
No non sono soddisfatto. La riforma Cartabia è l’unica riforma del governo Draghi su cui ci siamo astenuti. La cosa sorprendente è che in un qualunque Paese democratico che si rispetti, di fronte allo scandalo esploso a seguito del ‘Palamaragate’, ci sarebbe stata una reazione fortissima della politica per fare una vera riforma di sistema: invece è stato approvato un pannicello caldo. La riforma Cartabia ha avuto il solo grande merito di superare l’orrore giuridico della riforma Bonafede, senza però toccare le correnti all’interno del Csm.
Cosa fare allora?
In Aula noi di Italia viva abbiamo condotto una dura battaglia perché si arrivasse al sorteggio dei componenti del Csm: l’unica strada per disarticolare il sistema correntizio.
La magistratura associata ritiene che i problemi di organici negli uffici giudiziari dipenda anche dalla decisione, presa all’epoca dal suo governo, di abbassare drasticamente da 75 a 70 l’età pensionabile delle toghe. Che risponde?
La decisione del governo Renzi fu e resta sacrosanta. Non si risolvono i problemi di organico allungando l’età pensionabile, ma implementandolo con magistrati giovani e appassionati, magari anche limitando il numero spropositato di magistrati collocati fuori ruolo nei ministeri. Sembra che i problemi di organico scompaiano quando c’è da occupare un posto come capo di gabinetto. Fra l’altro, quella riforma parificava semplicemente l’età pensionabile dei magistrati ad altre categorie come i medici e i professori universitari. Ricordo bene le polemiche di allora, come ricordo quando aveva provato ad allungarla Bonafede per salvare il suo amico e ideologo Piercamillo Davigo. Anche pochi mesi fa ci fu un nuovo tentativo di innalzarla a 72 anni a cui ci siamo opposti con durezza. Le regole che riguardano i magistrati devono essere in linea con quelle delle altre categorie, così anche la loro responsabilità nell’esercizio delle loro funzioni.
Il primo provvedimento che andrebbe approvato in tema di giustizia?
Se devo sceglierne uno, è la riforma del Csm, ma il mio faro è il referendum sulla giustizia dello scorso giugno. Sette milioni di italiani, di cittadini, pur sapendo che il quorum non sarebbe stato raggiunto, hanno deciso di recarsi alle urne per esercitare il loro diritto: un numero enorme. Quei SI non possono restare inascoltati. Sono un grido di denuncia forte e consapevole che abbiamo il dovere di fare nostro. Il programma del Terzo Polo sulla giustizia è molto netto e orientato al più assoluto garantismo, che in Italia sembra una posizione radicale, ma non rappresenta altro che il rispetto dei principi costituzionali.
Lei è un tributarista. Questo mese il Parlamento, anche con il voto di Iv, ha approvato la riforma della giustizia tributaria. Una riforma attesa che però contiene un enorme “conflitto d’interessi”, essendo il Mef, da cui dipendono i giudici tributari, anche parte nel processo con l’Agenzia delle entrate. Fd’I ha già fatto sapere che una volta al governo cambierà la legge.
Guardi, lei tocca un tema a me caro conoscendo in prima persona i problemi del processo tributario, quindi la mia visione può differire da alcune decisioni prese. Detto ciò, la sua osservazione è fondata: dovremo prima o poi arrivare a far diventare il giudice tributario un giudice di serie A, il compromesso raggiunto non lo ha consentito. Gli accertamenti tributari hanno un risvolto molto penetrante nella vita delle persone che li subiscono quindi lo Stato deve offrire il massimo della terzierà e della professionalità. Osservo però che Fd’I ha introdotto una modifica estendendo il concorso per i giudici tributari ai laureati in economia, persone degne e preparate, ma non giudici né giuristi, contribuendo a marcare ancora una volta la distinzione tra giudice ordinario e giudice tributario. Inoltre prima o poi dovrà essere introdotto come mezzo di prova la testimonianza orale.
Non posso non farle una domanda sul carcere. Siamo già a 57 suicidi dall’inizio dell’anno…
Il carcere è tutto da riformare, anche a livello infrastrutturale. Non possiamo avere tutti questi suicidi. Il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e soprattutto dovrebbe essere un ambiente di rieducazione, non disumano e degradante. Invece troppo spesso accade che si abusi della carcerazione preventiva anche per quei reati che non destano particolare allarme sociale e in casi in cui si potrebbero tranquillamente applicare misure non così profondamente restrittive della libertà personale, congestionando inutilmente le carceri. Attenzione poi al tema della mediaticità di alcuni arresti preventivi: si rovinano le vite delle persone per visibilità, trascurando – in alcuni casi – situazioni dove davvero è in ballo la sicurezza delle persone. Paolo Comi
Quanto potere nelle loro mani...Politica dominata dalla pubblica accusa, giudici assenti: sono i pm Antimafia le vere star. Gennaro De Falco su Il Riformista il 30 Agosto 2022
Da un’analisi anche superficiale dei contrassegni presentati al Ministero degli Interni per le elezioni politiche del 2022 balza all’occhio un dato che io ritengo assolutamente impressionante e sintomatico dello squilibrio dei poteri e nei poteri dello Stato determinatosi in Italia dagli anni ‘90 in poi. Ebbene, tra i simboli presentati ben due sono direttamente riferibili a Luigi de Magistris, ex pm di Catanzaro e già sindaco di Napoli, vale a dire Unione Popolare con de Magistris e Unione Popolare, insomma un ex pm per ben due liste.
Gli fa concorrenza un altro ex pm, Antonio Ingroia, con Azione Civile, anch’egli su posizioni di sinistra radicale, mentre a destra, almeno secondo quanto da lui dichiarato, ha tentato di collocarsi il celeberrimo ex pm Palamara con la sua lista Oltre il Sistema che però non è stata ammessa. Oltre ai partiti per così dire personali, spicca certamente la candidatura nei 5 Stelle dell’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho che segue in politica i suoi predecessori nella carica di procuratore nazionale antimafia. Non partecipa alla gara Catello Maresca, ex sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli, sfortunato concorrente con una lista personale appoggiata dal centrodestra alla carica di sindaco della città partenopea nelle ultime elezioni amministrative che ha spiegato le ragioni della sua mancata partecipazione alla competizione con una lettera diffusa in rete in cui afferma di non essersi candidato nonostante le sollecitazioni degli aderenti alla sua associazione.
Insomma, in queste elezioni non abbiamo il partito dei magistrati ma addirittura una serie di partiti ma dei pm. Orbene, la prima circostanza che balza agli occhi è che si tratta sempre di pubblici ministeri in ogni possibile articolazione della loro carriera e che non vi sono appartenenti alla magistratura giudicante che appare in netto svantaggio, ed inoltre, con l’eccezione di Luca Palamara che ha una storia del tutto particolare, sono tutti schierati a sinistra e sono tutti di origine meridionale. Inoltre, bene o male, per specificità degli incarichi ricoperti e per provenienza territoriale, si tratta di pm provenienti dall’Antimafia, e questo significa due cose: la prima è che non è affatto vero che al Sud la mafia controlla la politica e la seconda è che il ceto politico non viene ritenuto idoneo ad arginare il fenomeno criminale che, comunque, almeno in termini “organizzati”, attualmente è molto meno incisivo di quanto si dice o si vorrebbe far credere, almeno in ambito politico. Detto ciò, è evidente che quello politico è un “mercato” e come tale soggiace alle sue regole in cui, come in tutti i “mercati”, conta la pubblicità e la “spendibilità” del prodotto”.
In questo i pubblici ministeri sono assolutamente soverchianti anche rispetto ai loro stessi colleghi giudicanti, per non dire rispetto agli avvocati che sono per lo più ridotti al ruolo di mere onnipresenti comparse. Come può parlarsi di principio di parità delle parti del processo fra loro se l’accusa gode di tanto potere su tutto e tutti? Anche per poter solo pensare di organizzare una lista o per essere candidati da un partito occorre un seguito e dei mezzi, in altri termini occorre potere che si trasforma in consenso elettorale. Tutto ciò può sembrare ovvio ma spesso sono proprio le cose ovvie che sfuggono, e allora occorre chiedersi quale sia la fonte di questo potere che risale ad Antonio di Pietro, anche lui ex pm ed alla sua Italia del Valori. In questa sede io non intendo assolutamente contestare il diritto dei pm persone fisiche ad essere presenti in politica ma soltanto analizzare le ragioni della loro oggettiva appetibilità che a me pare evidentissima, cui si è sommata la geniale intuizione di Gianroberto Casaleggio che fu prima al fianco di Antonio di Pietro e che poi, conservandone ampiamente i contenuti insieme a Beppe Grillo, si è per così dire “messo in proprio” ponendo le basi del Movimento Cinque Stelle.
Insomma, anche la politica in Italia è dominata dalla pubblica accusa e, negli ultimi anni, il suo strumento è stata assai spesso la “rete”. Ma quali sono le ragioni della popolarità e, quindi, del potere dei pubblici ministeri? Io credo che la risposta a questo interrogativo sia molteplice. Penso che le masse siano cronicamente affette da una sorta di isteria neo-giacobina e che, per questa ragione, siano sempre alla ricerca di un angelo vendicatore che le difenda da ogni male supposto, reale o anche solo temuto, angelo vendicatore che nell’Italia di oggi ha finito con identificarsi con la pubblica accusa e non, come pure sarebbe naturale, o almeno come accadeva dai tempi della rivoluzione francese nell’avvocatura in cui gli ex pm saltano continuamente a piè pari. È come se nell’Italia degli ultimi decenni si fosse imposto un inedito modello politico di stampo neo-Trotzkista che definirei di rivoluzione giudiziaria permanente, il cui inaspettato strumento è stato il codice di procedura penale del 1989. Il Codice Vassalli, secondo la mia convinzione, con gli amplissimi poteri attribuiti alle Procure, è stato all’origine del radicale mutamento che ha destabilizzato la società sia tra i poteri dello stato che al loro stesso interno.
Basta vedere cosa accade quotidianamente nelle aule di giustizia dove i giudici attendono quietamente l’arrivo degli impegnatissimi pm per iniziare i processi e, per lo più, non considerano minimamente anche la sola presenza degli avvocati, difensori degli imputati o delle parti civili non rileva. Nel codice di procedura penale del 1989, inspiegabilmente tuttora adorato dall’avvocatura, la polizia giudiziaria, quindi il potere amministrativo diretta promanazione di quello politico, è stato messo sotto la direzione del pm, poi si è sommato un rito processuale assolutamente insostenibile per le difese per la sua farraginosità e per la scarsità di mezzi disponibili ed un’evidente rapporto preferenziale tra informazione e Procure. Tutti questi fattori sommati tra loro, unitamente a clamorosi fatti di cronaca che hanno colpito il nostro Paese, hanno determinato la forza e quindi il consenso raccolto dai pm. Insomma, è il “sistema” che ha generato questo stato di cose e non i singoli attori che vi compaiono. In ogni caso un fatto è certo, piaccia o non piaccia, le cose stanno in questo modo e certamente il ceto politico non sembra, almeno per ora, possedere la forza, il coraggio ed i mezzi anche culturali per riequilibrarlo. Gennaro De Falco
Lo strapotere della magistratura e la politica. Politici genuflessi ai magistrati, cosi riformare la giustizia è impossibile. Alberto Cisterna su Il Riformista il 28 Agosto 2022
La questione giustizia lambisce appena una campagna elettorale che, a tutta evidenza, ha grane decisamente più importanti di cui occuparsi di questi tempi. La sortita di Silvio Berlusconi sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm ha riacceso una polemica che covava sotto le ceneri da parecchi anni e ha riproposto un tema particolarmente avvertito dalle camere penali e dalla magistratura italiana, come ha dimostrato la pronta reazione dell’Anm all’incursione forzista.
Non c’è dubbio che il tema del più complessivo riposizionamento del potere giudiziario nella geometria costituzionale del paese sia una questione importante che non può essere certo risolta a colpi di polemiche o con micro-interventi per appagare le ansie garantiste di questa o quella forza politica. Riposizionamento, si badi bene, che non vuol dire un ridimensionamento della funzione giudiziaria, ma la ricerca di un più corretto riequilibrio tra le varie articolazioni del potere pubblico fra loro e, soprattutto, verso i cittadini.
In questa traiettoria non si deve dimenticare che la riforma più incisiva è venuta dal governo Conte, ossia da quello a trazione pentastellata, che ha praticamente abrogato il vituperato abuso d’ufficio (articolo 323 Cp). Così si è alleviata la posizione di tanti pubblici amministratori sotto processo che o sono stati assolti grazie a quella modifica o, comunque, non subiranno più indagini per quel reato che più di ogni altro costituiva il confine incerto e ondivago dei rapporti tra magistratura e politica. Il tema del controllo giudiziario, nella declinazione cara a molte toghe del cosiddetto controllo di legalità, sta ai margini della contesa elettorale, resta sottotraccia sebbene sia la madre di tutte le battaglie per le parti contrapposte di questa contesa.
Le ragioni che hanno favorito l’espansione di questo controllo in tutti i gangli della vita politica e sociale è questione che non può essere neppure lambita in questa sede. Quel che può farsi è segnalare e mettere sotto osservazione tutti i casi in cui questa preminenza del potere giudiziario sulla politica non è tanto affermata dal primo a colpi di avvisi di garanzia o di arresti, quanto è riconosciuta dalla stessa politica come atto di naturale sottomissione a fronte di una propria crisi cui non riesce a porre rimedio se non genuflettendosi alla pretesa superiorità delle toghe. Stefano Castiglione e Alberto Stancanelli. Due nomi che a tanti dicono poco o nulla. Due stimatissimi magistrati della Corte dei conti di alto livello professionale ed etico ben conosciuti tra gli addetti ai lavori.
Il primo nominato dalla sindaca Raggi capo di gabinetto del comune di Roma qualche tempo or sono, il secondo nominato dal sindaco Gualtieri capo di gabinetto del comune di Roma. Insomma, due magistrati nel posto più importante dell’amministrazione capitolina e in un comune delle dimensioni della Capitale. Un incarico capace di condizionare in modo decisivo la vita di migliaia e migliaia di dipendenti, di decine di società partecipate, di milioni di cittadini. Alberto Stancanelli è stato chiamato a coprire questo posto-chiave il 20 agosto scorso, dopo che la pubblicazione del video della violenta lite di Frosinone aveva costretto alle immediate dimissioni Albino Ruberti, capo di gabinetto del sindaco di Roma.
A fronte di una fibrillazione evidente del sistema amministrativo della Capitale, il sindaco Gualtieri non ha potuto, o saputo, far altro che aprire la cassetta del pronto soccorso politico e tirar fuori il nome di un prestigioso magistrato della Corte dei conti. Tra centinaia di dirigenti comunali e regionali o tra centinaia di funzionari apicali nei ministeri romani – primo tra tutti quello dell’Economia che il sindaco in carica ben conosce per averlo diretto con autorevolezza – la scelta è caduta su una toga. Che si tratti di un giudice contabile o di un giudice amministrativo o ordinario, la questione non cambia. Platealmente e senza alcun tentennamento la politica tutta – stante la risonanza mediatica del minacciato regolamento di conti frusinate («Se devono inginocchia’ e chiede scusa, io li ammazzo» avrebbe detto il reprobo) – ha optato ancora una volta per un giudice.
Il segnale è chiaro: badate bene, purtroppo, moralità e competenza non sono abituali commensali in questo paese e se occorre rassicurare i cittadini elettori in uno snodo così delicato e per un fatto così increscioso è bene appellarsi alla riserva strategica della nazione che sono o i generali o i magistrati. Con la differenza che, mentre i primi sono totalmente alle dipendenze del potere politico per la loro collocazione istituzionale, gli altri costituiscono un ordine autonomo e provvisto di un proprio carisma costituzionale. Accade, quindi, che mentre si schermaglia sulle briciole e sui lembi più marginali della questione giustizia, la politica con solerzia e senza alcuna incertezza proclami, per l’ennesima volta, la propria subalternità a un potere “altro” da sé e, per giunta, per farsi affiancare nell’esercizio di rilevanti prerogative che i cittadini le hanno affidato con il proprio voto.
David Lyon scrisse anni or sono un libro dal titolo struggente e suggestivo (“La società sorvegliata”, Feltrinelli, 2002) che evocava i rischi della diffusione delle tecnologie per il controllo della vita quotidiana dei cittadini, soprattutto dopo l’11 settembre. Esistono altre forme di sorveglianza ovviamente che, tuttavia, come quelle tecnologiche, devono essere contrastate o, almeno, arginate. Ma per farlo è necessario che i poteri sorvegliati non stiano a riconoscere, alla prima crisi, la superiorità etica e di competenza dei sorveglianti i quali – anche i migliori – avvertono la portata politica e istituzionale di queste investiture. E’ proprio di questa legittimazione, invero ulteriore, che profittano le componenti corporative e autoreferenziali del potere giudiziario (complessivamente inteso) per ergersi a una sorta di Camera stellata. Ossia a somiglianza di quella Corte che aveva sede presso il Palazzo di Westminster tra la fine del XV secolo e la metà del XVII secolo e che aveva il compito di giudicare i potenti del tempo. Alberto Cisterna
Quello che le “toghe rosse” non dicono sul Csm…. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Agosto 2022
Necessario far capire alle toghe impegnate nel "sistema" correntizio che i magistrati sono chiamati ad applicare e far rispettare le leggi, e non hanno alcun compito di legiferare o sindacare che è deputato a farla grazie al voto degli italiani. Tutti. Compresi quelli che con le loro tasse contribuiscono a far sì che lo Stato italiano rimborsi milioni e milioni di euro per detenzioni illegittime. O forse una certa magistratura si crede di essere al di sopra delle istituzioni?
La legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, recentemente approvata dal Parlamento, è sicuramente destinata a cambiare in profondità le modalità di attribuzione degli incarichi direttivi e semi-direttivi da parte del Consiglio superiore della magistratura ed è questo il vero motivo per cui esponenti e candidati di Area, la corrente sinistrorsa della magistratura, contestano le innovazioni apportate dalla guardasigilli Cartabia
L’obiettivo principale della riforma è quello di evitare che le nomine possano ancora essere condizionate da logiche di appartenenza “correntizia” dopo gli scandali degli ultimi anni, che è bene ricordare hanno coinvolto tutte le varie correnti della magistratura, da sinistra a destra, passando per il centro. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha più volte ricordato e ribadito che in futuro dovrà essere valorizzato il merito dei magistrati, garantendo trasparenza nelle scelte del Csm, e non lo schieramento correntizio.
Sacrosante a nostro parere le modifiche delle procedure propedeutiche alla valutazione della professionalità dei magistrati e della previsione di un fascicolo necessario non soltanto per valutare le capacità del singolo magistrato, ma fondamentali sopratutto quando è il momento dell’assegnazione a funzioni di direzione. E’ altresì fondamentale a nostro parere il coinvolgimento dell’avvocatura, con la possibilità per i componenti laici dei Consigli giudiziari di partecipare alla discussione finalizzata alla formulazione dei pareri necessari per la valutazione di professionalità dei magistrati.
Le modifiche introdotte dalla riforma Cartabia che interessano direttamente le toghe, riguardano in realtà soprattutto alla disciplina del termine di legittimazione per poter presentare domanda. Innovazione questa che ha immediatamente reso necessario dover cambiare i bandi concorsuali da parte del Csm, costretto a riaprire i termini per la presentazione delle domande.
L’effetto ricercato grazie alle modifiche introdotte è stato quello di arrivare ad un importante e necessaria riduzione del numero dei candidati alle funzioni dirigenziali più importanti nella magistratura.
La legge numero 71 del 2022 ha introdotto dei “passaggi” necessari a raggiungere una tendenziale stabilizzazione dei magistrati ai quali sia stato assegnato un incarico dirigenziale, prevedendo un periodo minimo di permanenza nell’ufficio da cui si proviene. Ad esempio per poter aspirare quindi all’incarico di procuratore generale o di procuratore generale aggiunto in Cassazione, sarà necessario aver già ricoperto almeno 4 anni nel precedente incarico e garantirne altri 4 prima della pensione.
Con queste nuove norme disposizioni, quindi, al Csm non avrebbero potuto nominare l’attuale pg di Milano e tanti altri magistrati che oggi ricoprono incarichi di vertice . “La mobilità dei dirigenti si giustifica non solo in un’ottica di salvaguardia della legittima aspirazione del magistrato alla progressione nella carriera ma anche, in un’ottica più complessiva, di salvaguardia della professionalità e delle capacità dei dirigenti degli uffici giudiziari” ha dichiarato al quotidiano Il Dubbio (di proprietà del Consiglio Nazionale Forense) il consigliere togato Antonio D’Amato attuale presidente della Commissione per gli incarichi direttivi del Csm. In poche parole, l’attitudine direttiva del magistrato è destinata ad arricchirsi notevolmente anche grazie alle pregresse esperienze direttive e semi-direttive.
Una riforma importante ed equilibrata quella del guardasigilli Cartabia la quale è bene ricordare, sopratutto a qualche sbadato o distratto… “compagnuccio sinistrorso” sotto le ingannevoli vesti di magistrato, che l’attuale Guardasigilli è stata dal 13 settembre 2011 al 13 settembre 2020 cioè per ben 9 anni giudice della Corte costituzionale, della qualedall’11 dicembre 2019 al 13 settembre 2020 ha ricoperto la carica di Presidente , diventando la prima donna della storia repubblicana a ricoprire tale carica.
Leggere affermazioni ciclostilate, affidate ai soliti giornalisti ventriloqui come: “La riforma Cartabia delinea un modello di magistrato burocrate, timoroso, che tende ad uniformarsi agli indirizzi giurisprudenziali prevalenti, piuttosto che concorrere alla evoluzione del diritto vivente. Sarà compito del prossimo C.S.M. opporsi a questo modello e valorizzare la professionalità e la passione dei tanti magistrati italiani, respingendo il rischio di un approccio difensivo nell’esercizio di una giurisdizione sempre più schiacciata dai numeri e dal timore di sanzioni disciplinari” espresse da un magistrato, tale Maurizio Carbone che ha svolta la sua carriera unicamente presso la Procura di Taranto dove ha trascorso oltre 25 anni occupandosi più di attività corporativa e sindacale che di caccia alla criminalità organizzata ed ai colletti bianchi , e tutto ciò aiuta a capire che la riforma Cartabia è importante.
Sopratutto per far capire alle toghe impegnate nel “sistema” correntizio che i magistrati sono chiamati ad applicare e far rispettare le leggi, e sopratutto che non hanno alcun compito di legiferare o sindacare le leggi votate dalle rispettive Camere Parlamentari , attività che è un compito e potere delegato esclusivamente a chi viene eletto in Parlamento grazie al voto degli italiani. Tutti. Compresi quelli che con le loro tasse contribuiscono a far si che lo Stato italiano rimborsi per detenzione illegittima milioni e milioni di euro a cittadini mandati in carcere seppure innocenti dai soliti magistrati “manettari” e distratti. Un’interessante relazione della riforma, che ha messo a confronto i diversi ordinamenti europei sul tema dell’ingiusta detenzione.
Nella Relazione su “Equa riparazione per ingiusta detenzione ed errori giudiziari”, redatta a settembre 2021, i giudici contabili hanno rilevato, nel triennio 2017-2019, un progressivo aumento della spesa pubblica, in termini di impegni di competenza, nel 2019 la spesa complessiva per le voci legate alla giustizia sfiorava i 50 milioni di euro (48.799.858,00 euro), con un aumento del 27% rispetto a quella registrata nel 2017 (38.287.339,83 euro). La riparazione pecuniaria per ingiusta detenzione, da parte dello Stato, è prevista dagli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale. La disciplina si applica anche ai casi di errore giudiziario regolati dall’art. 643 del codice di procedura penale.
Dov’era questo magistrato napoletano quando un suo collega della Procura di Bari veniva mandato sotto processo disciplinare dal Csm per non aver iscritto per oltre 5 anni un politico barese nel registro degli indagati, e subito dopo si faceva eleggere dai suoi “compagnucci” al Consiglio Superiore della Magistratura, venendo archiviato dai suoi stessi compagni-colleghi di consiliatura ? E la chiamano persino anche “giustizia”… P.S. l’indagato veniva mandato invece a processo da quel magistrato, ma il Tribunale lo assolveva con formula piena.
O forse una “certa” magistratura si crede di essere intoccabile ed al di sopra delle istituzioni ?
L’anti sistema di Palamara ha vinto e vive: i suoi numerosi correi sono stati “graziati”. Per rifare la “verginità” al Consiglio bisogna tranciare la cinghia di trasmissione tra Anm, partiti e Csm. Rosario Russo, già Sostituto Procuratore generale presso la Suprema Corte, su Il Dubbio il 10 luglio 2022.
I cittadini, soprattutto per tramite dei partiti e dei media, dibattono democraticamente per l’affermazione dei propri ideali e interessi. Il risultato della dialettica parlamentare sono le leggi, che costituiscono il formante legislativo del Sistema. I magistrati sono obbligati a interpretare e applicare le leggi nel rispetto della Costituzione, oggettivamente, cioè in piena indipendenza dalle forze politiche e dalle ideologie che le hanno generate (ben altro sono le rationes legis, le diverse concezioni del diritto, i modelli interpretativi, etc.). Questo è quanto avviene – deve avvenire – in tutti gli uffici giudiziari. Nel giudicare in nome del Popolo Italiano, i magistrati non rappresentano – non possono rappresentare – alcuno schieramento politico, essendo la legge ormai oggettivizzata e incarnata nel suo testo. In una parola il formante giudiziario del Sistema – cioè il proprium dell’attività giudiziaria – è ubicato a valle del dibattito partitico-politico e in buona misura necessariamente ne astrae. Non a caso, a differenza di quanto avviene altrove, il magistrato italiano è nominato in funzione soltanto dei propri saperi tecnico-giuridici, rigorosamente accertati. Dunque egli non decide e non risponde politicamente, pur non essendo stato mai bouche de la loi (bocca della legge) né sordo alle esigenze della Giustizia e del divenire storico.
L’asetticità politica della magistratura, cioè la sua indipendenza, comporta che l’amministrazione dei magistrati e il controllo disciplinare sugli stessi non possa che spettare ad un organo costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, anch’esso necessariamente estraneo al dibattito politico e alla dialettica partitica. Se i magistrati sono tenuti ad applicare oggettivamente le leggi che governano i cittadini, analogo apolitico obbligo incombe sul Csm, con riferimento alle leggi che disciplinano la condotta e la carriera dei magistrati. Anche il formante amministrativo-giudiziario del Csm prescinde necessariamente dal formante politico. In sintesi, tanto l’attività decisoria dei magistrati quanto quella del Consiglio superiore della magistratura è per definizione apolitica, siccome indipendente. Non a caso il Capo dello Stato presiede il Csm e i suoi consiglieri non possono essere rieletti; circostanze entrambe che escludono di per sé la connotazione politica e la connessa tipica responsabilità.
Per conseguenza l’”elezione” dei membri del Csm (come chiamarla altrimenti?), lungi dal trasporre nel Consiglio le forze politiche con il meccanismo della rappresentanza politica o di interessi, seleziona soltanto i soggetti destinati a proteggere, con la propria indipendenza, anche quella dei Magistrati, nell’interesse esclusivo dell’Utente finale della Giustizia. Un compito regolatore tanto difensivo o neutro (di mera interdizione d’interferenze e di scorrettezze, si direbbe), quanto inconciliabile con una “elezione” propriamente politica. Del Csm si dovrebbe cioè parlare come del sommo custode dell’indipendenza giudiziaria, l’incrollabile pietra angolare della separazione dei Poteri. In sé e per sé la scelta di individuare nei magistrati la maggioranza dei componenti del Csm sembra saggia perché, in linea generale, essi sono professionalmente i più politicamente indipendenti (non possono neppure iscriversi ai partiti) e soprattutto hanno (o istituzionalmente avrebbero) precipuo interesse a restare indipendenti, essendo proprio l’indipendenza il “tesoro” loro affidato, la loro stessa ragion d’essere. Mentre la minoritaria componente laica del Consiglio costituisce il vigile «cane da guardia» (watchdog) e il ponte di collegamento alla comunità statale. Questo lucido quadro costituzionale è stato tradito allorché, attraverso le correnti dell’Anm, all’interno del Csm i magistrati si sono fatti invece espressione e complici del potere politico, con l’interessato compiacimento di taluni Partiti. Anche dal punto di vista scenografico, la notte dell’Hotel Champagne, cioè la «notte della magistratura», “fotografa”’ minuziosamente siffatta perversione istituzionale. Nel medesimo tavolo, accanto al Grande Mediatore Palamara, banchettavano e cospiravano consiglieri del Csm, magistrati fuori ruolo (il dott. C. Ferri, oggi parlamentare) e noti parlamentari (il dott. L. Lotti)! Da anni, invece, i membri togati del Csm non sono stati neppure “eletti”. Per lo più sono stati piuttosto “nominati” dalle correnti della magistratura, che agiscono all’interno dell’Anm e del Consiglio, secondo le logiche spartitorie tipiche dei Partiti, inidonee ad assicurare qualunque indipendenza di giudizio. Per rispettare il disegno costituzionale e ricreare la verginità del Csm, bisogna tranciare dunque la cinghia di trasmissione che collega Anm, partiti e Csm. Ma nessuno ha provato a farlo perché nessuno vuole perdere l’enorme potere incostituzionalmente conquistato; tranne il cittadino, che quel potere patisce e vuole soltanto una magistratura e un Csm indipendenti. A differenza dello scandalo di Mani Pulite (originato dalla c.d. corruzione ambientale), quello delle Toghe Sporche (originato dalla maniacale ambizione personale, che corrode l’indipendenza), invece di provocare la rinascita mediante la necessaria epurazione e “vaccinazione”, è stato fin qui sopito e assorbito. La colonna vertebrale dello Stato, cioè la Magistratura, è stata ritenuta troppo importante per soccombere alla propria domestica scelleratezza (too big to fail: troppo grande per crollare). Palamara è stato bandito dalla Magistratura e dalla Anm, ma – ahinoi – il suo Anti Sistema ha vinto e vive perché i suoi numerosi correi sono stati “graziati” (dall’Anm, dal Pg presso la Suprema Corte e dal Consiglio superiore della magistratura) e operano tuttora, nonostante i reiterati appelli del Capo dello Stato. La violazione della Costituzione è ormai conclamata, dando luogo ad un allarmante riassetto materiale dei Poteri e dell’Ordinamento.
Come avviene in tutte le pandemie, sospetto e diffidenza si sono proiettati non solo tra i cittadini, ma anche nei massimi vertici della Giurisdizione, coloro cioè che, come medici e sanitari, dovrebbero contribuire a debellare la diffusione del terribile morbo. È recente e allarmante la notizia per cui il dott. Luigi Riello, Procuratore generale di Napoli, ha impugnato davanti al Giudice amministrativo la nomina del dott. Luigi Salvato a Procuratore generale presso la Suprema Corte, cui concorreva. Il ricorrente ha infatti addotto non solo la mancata considerazione da parte del Consiglio superiore della magistratura del fatto che il dott. Luigi Salvato non ha mai esercitato funzioni penali presso la Suprema Corte, ma anche che egli sarebbe rimasto coinvolto nei «messaggi del dott. Luca Palamara riguardanti il dott. Luigi Salvato», che «sono – indubitabilmente – nella disponibilità del Csm». Non è inconsueto che l’assegnazione ad un’altissima carica giudiziaria sia contestata davanti al Tar. Ma è la prima volta – a quanto sembra – che il Sistema Palamara & Company – che è un Antisistema – proietti la sua mefitica ombra persino sul sommo vertice dei magistrati requirenti, quale che possa essere l’attesa decisione del giudice adito. Magistratura, Giudici e Csm non appaiono più indipendenti… e non lo sono più per fatto proprio! I Partiti, quelli compromessi, lo sanno e, non fidandosi più neppure di magistrati mestatori alla maniera di Palamara, hanno deciso soltanto di “governare” direttamente la loro rassegnata dipendenza. Possiamo ancora raddrizzare il «legno storto della Giustizia»? No, fino a quando molti, proprio tra i Giudici, continuano a volerne ignorarne le cause, addebitando la colpa di delegittimare la Magistratura proprio a coloro che piuttosto ne disvelano le responsabilità! Se – come sembra ai più – abbiano gravemente errato i Magistrati e la loro Associazione, proprio da essi, in primo luogo, dovrebbe provenire il ravvedimento operoso! Da chi altri? E se non ora, quando?
Hic Rhodus, hic salta!
La riforma giustizia. Da destra a sinistra tutti d’accordo: non toccare lo strapotere dei magistrati. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Luglio 2022.
La lotta contro la prepotenza del sistema giudiziario è affidata perlopiù a iniziative individuali anche meritorie, insomma al contributo pur lodevole di questo o quell’esponente – spesso non di prima fila, il che la dice lunga – che da destra o da sinistra si impegna sul fronte di questa causa dimenticata. Ma nessuna forza politica, né di destra né di sinistra, pone al centro della propria azione e sulla cima dei propri programmi non – si badi – la “riforma della giustizia”, che è un semplice modo di dire, ma appunto la necessità di contrastare quel potere usurpato, quel flusso di arbitrio e malversazione che si è immesso illegittimamente nel corso repubblicano facendolo sfociare nella palude cui è ridotto il nostro Stato di diritto.
Nessuna forza politica sente l’urto antidemocratico di quel potere, il quale non si produce per il moltiplicarsi di indagini sbagliate e sentenze discutibili, ma per la pretesa sovraordinata di sorvegliare l’indirizzo generale del Paese rieducandone le propensioni alla corruzione dal pulpito dell’azione penale obbligatoria, dell’infallibilità togata, delle mani pulite certificate via concorso pubblico. È una turbativa che non interferisce con questo o quel governo per il fatto che esso è colorato in un modo o nell’altro, ma con la stessa idea che un governo abbia ambizioni di autonomia da quella sorveglianza: e non sarà un caso se le più scomposte e aggressive reazioni della magistratura militante e corporata si sono registrate a contestazione di un governo partecipato pressoché da tutti.
Perché la cosiddetta “politicizzazione” della magistratura non risiede se non episodicamente nell’atteggiamento di favore verso alcuni o di pregiudizio verso altri, ma nel costituirsi del potere giudiziario in una specie di contro-governo perenne che si giustappone ai poteri legittimi e ne contesta l’esercizio non perché pendono a destra, non perché pendono a sinistra, ma se e perché si azzardano a reclamare il diritto di agire senza pagare il pizzo del benestare giudiziario. Sui motivi per cui nessuna forza politica ritiene di doversi opporre in modo convinto e sistematico a questo andazzo si potrebbe ragionare a lungo, ma non è azzardato osservare che le classi parlamentari e di governo che si sono avvicendate negli ultimi decenni, tutte nessuna esclusa, sono dopotutto il multiforme ma sostanzialmente omogeneo risultato di modellazione del sistema politico secondo lo stampo giudiziario.
Perché anche a destra, davvero non solo a sinistra, riscuoteva consenso la palingenesi repubblicana appaltata al potere della magistratura. Perché nemmeno a destra, esattamente come a sinistra, si comprendeva che nemico di quella magistratura non era il potere precario di uno o dell’altro ma, ben più forte e temibile, il diritto dell’ordinamento democratico. Iuri Maria Prado
La decisione del Csm. Chi è Luigi Salvato, il nuovo procuratore generale della Cassazione. Paolo Comi su Il Riformista il 24 Giugno 2022
Luigi Salvato è il nuovo procuratore generale della Corte di Cassazione, il primo “pm d’Italia”. Lo ha deciso ieri il Plenum del Consiglio superiore della magistratura. Salvato ha battuto lo sfidante Luigi Riello, procuratore generale a Napoli, per 17 voti a 8. Abbondantemente confermate, dunque, le previsioni della vigilia che vedevano in pole l’attuale procuratore generale aggiunto a Piazza Cavour. In Commissione per gli incarichi direttivi, Riello e Salvato avevano preso entrambi due voti: per il primo avevano espresso la preferenza il togato di Magistratura indipendente Antonio D’Amato, poi relatore della proposta di nomina, e il laico in quota Forza Italia Alessio Lanzi.
Per il secondo, invece, avevano votato Michele Ciambellini, togato di Unicost, e Alessandra Dal Moro, togata di Area, la corrente progressista, la stessa di Salvato.
Il dibattito in Plenum, svoltosi alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non è stato particolarmente entusiasmante, segno che i giochi erano già fatti da tempo. Per Salvato, comunque, ha votato compatto l’intero Comitato di presidenza del Csm: il vice presidente David Ermini, il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio ed il pg Giovanni Salvi. Il fatto che quest’ultimo non si sia astenuto ed abbia invece votato per il suo successore sarà certamente oggetto di polemiche.
A favore di Salvato, poi, tutti i togati progressisti, Giuseppe Cascini, Ciccio Zaccaro, Mario Suriano, Elisabetta Chinaglia e Alessandra Dal Moro, i togati ex davighiani Giuseppe Marra ed Ilaria Pepe, i laici pentastellati Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti.
Ha votato per Salvato anche il pm antimafia Sebastiano Ardita che, la scorsa volta, aveva votato per Salvi. Per Riello, invece, hanno votato tutti i togati di Magistratura indipendente, Tiziana Balduini, Paola Maria Braggion, Antonio D’Amato e Loredana Micciche, il pm Nino Di Matteo, i due laici forzisti Alessio Lanzi e Michele Cerabona e quello in quota Lega Emanuele Basile. Astenuto Stefano Cavanna, l’altro laico in quota Lega. Chi si aspettava un intervento di Di Matteo sarà rimasto deluso. Il nome di Salvato è nelle chat di Luca Palamara, non direttamente ma per interposta persona. In casi analoghi Di Matteo aveva sempre preso la parola chiedendo il ritorno in Commissione per esaminare con attenzione i messaggini. Questa volta ha preferito il silenzio.
Chi non ha preferito il silenzio è stato Giuseppe Cascini che, dopo avere ricordato l’operato di Salvi in un momento particolarmente difficile per la magistratura, stigmatizzando anche gli attacchi che sono stati rivolti al pg, “attacchi” che per onore di cronaca sono giunti anche dalle stesse toghe, come nel caso dei magistrati di Articolo 101 che hanno chiesto più volte le sue dimissioni se non avesse chiarito i rapporti con Palamara. Nel suo intervento Cascini ha poi durante criticato la decisione di candidare Riello. “Rammarico per l’incapacità della Commissione di fare una scelta unitaria”, ha detto Cascini, elogiando poi il cv professionale di Salvato, nettamente superiore sotto tutti i profili a quello di Riello. “Salvato è un giurista colto e apprezzato”, e Riello ha “limitate esperienze”.
Nominato Salvato si spera adesso che la Procura generale, se ancora in tempo, faccia chiarezza sui disciplinari aperti nei confronti delle toghe che chattavano con Palamara. Non si ha più notizia, infatti, dei procedimenti, pochi per la verità, che erano stati aperti ed annunciati in una conferenza stampa dallo stesso Salvi all’indomani dello scoppio del Palamaragate. Sarebbe una importante operazione verità per evitare che “passi il messaggio” che l’unico a pagare per il “Sistema” sia stato proprio Luca Palamara. Paolo Comi
Magistratura, mancano i cancellieri: giudici e pm vadano a fare le fotocopie. Iuri Maria Pirado su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.
Pare che in alcuni tribunali manchino i cancellieri, per capirsi quelli che tengono in ordine i fascicoli, aggiornano le agende delle udienze, rilasciano le copie degli atti, insomma fanno andare avanti l'ufficio. Nell'attesa che il problema di organico sia risolto, si potrebbe forse immaginare che il corpo giudiziario contribuisca autonomamente a prestare un po' di servizio supplementare.
Non sarà un dramma né rappresenterebbe una degradazione intollerabile dedicare un'oretta al giorno a fare fotocopie, a sistemare i faldoni e magari perché no, se occorre? - a spolverare le scrivanie e a svuotare i cestini. Al giovane magistrato, vincitore del concorso che gli attribuisce il potere di arrestare la gente, di sequestrare patrimoni e di confiscare i beni altrui, si potrà ben richiedere di fare ciò che in qualunque azienda fa del tutto normalmente persino il titolare, il quale senza tante storie si mette a spostare gli scatoloni quando il magazziniere è in malattia.
Nulla di punitivo, per carità. Il potere di accusare le persone e di scrivere le sentenze non lo toglie nessuno, però accanto a quello si potrebbe prevedere il dovere di rassettare le aule, un po' come al militare si consegna un fucile ma gli si chiede di farsi la branda. Dopotutto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura potranno anche realizzarsi nell'uso del toner e dello strofinaccio.
Gli esami di maturità. Altro che Promessi Sposi, per spiegare la giustizia andrebbe spiegato come un magistrato perseguita un uomo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Giugno 2022.
Nel suo dialogo con Liliana Segre, finito tra gli argomenti d’esame di Maturità e ripubblicato ieri dal Corriere della Sera, Gherardo Colombo dice: “Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi!”. Non c’è dubbio che dalla lettura di quel capolavoro i ragazzi possano ritrarre nobili motivi di meditazione “in tema di giustizia” (magari “tema” d’ora in poi lo aboliamo, che proprio non si può sentire): ma più e meglio si trasmetterebbe ai ragazzi illustrando loro le pagine meno romanzate della giustizia italiana, facendo loro conoscere le colonne infami recanti la lunga teoria dei nomi sconosciuti appartenenti alle vittime della giustizia.
Sarebbe lettura magari più noiosa, ma altrettanto istruttiva, quella che indugiasse sulle lapidi dei suicidi in carcere, i morti di galera imprigionati – spesso inutilmente, sempre ingiustamente – in nome del popolo italiano. Sarebbe conoscenza forse spiacevole, ma assai formativa, quella offerta da una ricognizione della vita negletta delle mogli, dei figli, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori di chi senza motivo, senza necessità, senza diritto è stato rinchiuso in una cella. I ragazzi potrebbero imparare da questa storia clandestina come nel loro Paese – non nel secolo decimo settimo, ma in questo – un magistrato possa arrestare la libertà di chiunque, sequestrargli ogni bene e innanzitutto il primo, la vita, e privarlo di tutto, del patrimonio, della casa, della famiglia, del lavoro, della reputazione, della salute, senza risponderne in nessun modo e nemmeno nel caso che quello scempio sia oltretutto avvenuto per trascuratezza, per errore, per abuso.
Imparerebbero, i ragazzi, che tra le disgrazie che possono capitare a un essere umano – proprio come una malattia maledetta che se lo mangia, come un rovescio professionale che lo manda sotto a un ponte, come un’auto impazzita che lo investe – c’è quella di trovarsi soggetto al potere di un magistrato che decide di perseguitarlo, e lo perseguita, prendendo il corso normale della sua vita e stravolgendolo, violentandolo, lo immette con i sigilli di Stato in un buco nero di sopraffazione, di degradazione, di disperazione, mentre nel mondo di fuori risuona il verbo del collega togato che spiega che tutto questo è fisiologico. I ragazzi sarebbero così proficuamente indotti a farsi della giustizia di questo Paese un’idea un po’ più aderente. E a esprimerla, magari, al prossimo esame di Maturità. Iuri Maria Prado
La riforma Cartabia è un’aspirina allo strapotere dei pm. Roberto Cota su Il Riformista il 19 Giugno 2022.
L’altro ieri il Senato ha approvato in via definitiva la cosiddetta riforma Cartabia. Nell’esatto testo già approvato dalla Camera, senza emendamenti. Non si può dire che questa riforma sia negativa. È comunque un miglioramento rispetto all’esistente. Nemmeno, però, si può definirla una rivoluzione, tale da riportare pienamente il nostro sistema nell’alveo dello stato di diritto. Rappresenta un piccolo passo avanti in quanto ci saranno dei cambiamenti in linea con le proposte di riforma che hanno dato la stura al movimento referendario.
Innanzitutto, con riferimento alla separazione delle funzioni tra pm e giudice, sarà possibile un solo passaggio tra funzione inquirente e giudicante, entro i primi 10 anni. Una novità positiva, certo, rispetto alla previsione attuale (che rende possibili quattro passaggi). Inoltre, chi decide di dedicarsi alla politica e viene eletto, non potrà più tornare a fare il giudice. Cosa buona e giusta. Altro aspetto, gli avvocati potranno portare la voce dei rispettivi ordini professionali all’interno dei consigli giudiziari e votare anche quando si tratta di valutare i magistrati. Bene. Inoltre, altro cambiamento positivo è quello relativo ad una maggiore trasparenza introdotta rispetto alla formazione e all’aggiornamento del fascicolo personale del magistrato, alla tempistica delle nomine ed alla valutazione dei curricula per l’assegnazione degli incarichi direttivi. Restano però irrisolte le grandi questioni. Prima di tutto, quello legata allo strapotere delle correnti all’interno del Csm che si manifesta in sede di elezione della componente togata che avviene oggi attraverso liste che si identificano in partiti/correnti.
La riforma Cartabia non ha avuto il coraggio di introdurre il sorteggio; si è preferito modificare il sistema elettorale attuale inserendo dei presunti correttivi. Si tratta di una toppa che oggettivamente è peggio del buco. Il sistema elettorale introdotto è farraginoso e comunque tutto sarà ancora in mano alle correnti, esattamente come prima. Inoltre, non viene affatto affrontato il tema della presunzione di non colpevolezza applicato alle cariche elettive (legge Severino) e nemmeno quello degli abusi di custodia cautelare. Men che meno si toccano gli aspetti legati allo strapotere dei pm nelle indagini prima che nel processo ed alla sistematica compressione dei diritti della difesa, caratteristica delle leggi approvate in questi ultimi anni. La riforma Cartabia rispetto ai mali che affliggono la giustizia è un’aspirina. In questo momento, di più non è possibile ottenere. È evidente che si aspettano tempi migliori. Speriamo arrivino. Roberto Cota
Cuno Tarfusser, l'ex toga: "I magistrati? Camerieri che si sentono re". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 21 giugno 2022.
«Sono tornato dall'Olanda, dopo quasi undici anni alla Corte Penale Internazionale, e mi è sembrato di ripiombare nel Medioevo giudiziario. Nulla era mutato. Immobilismo assoluto. Il cambiamento organizzativo e culturale che avevo avviato è stato fermato non appena coloro che lo avevano promosso e sostenuto erano stati rimossi. Ma mi raccomando, non approfitti di questa chiacchierata per farmi apparire quello che non sono. Io non sono contro i miei colleghi magistrati e non sono catalogabile politicamente. Io sono contro la magistratura associata dominata da quei patogeni chiamati "correnti". Sin da bambino mia mamma mi diceva di non stare nella corrente e io ho sempre seguito questa indicazione. Ecco, io sono estraneo a queste che chiamerei sette piuttosto che correnti, ed è sicuramente per questo che, da quando sono rientrato dall'estero, sono stato violentemente emarginato. Nonostante che io vanti un'esperienza ma soprattutto risultati gestionali come forse nessun altro, il Consiglio superiore della Magistratura non mi ha ritenuto degno nemmeno di un voto in ben nove concorsi per uffici direttivi cui ho partecipato. Troppo autonomo, troppo indipendente e quindi incontrollabile».
Emarginato o perseguitato?
«Entrambi, direi. Sono stato rivoltato come un calzino. Quello che ritenevo impossibile, ovvero la persecuzione giudiziaria, l'ho subita sulla mia pelle. In vista del mio rientro in Italia i miei colleghi hanno aperto un'indagine a mio carico, durata due anni e mezzo, fondata sul nulla che ha prodotto un dossier di undicimila pagine. Le lascio immaginare lo spreco di tempo, risorse e denari del contribuente.
L'unico risultato raggiunto, forse quello perseguito sin dall'inizio, è stato quello di emarginarmi».
I suoi colleghi non la amano perché fa il primo della classe?
«Ma io non ho mai fatto il primo della classe. Mal sopportano chi canta fuori dal coro, chi ha successo per avere capito che fare il magistrato, soprattutto il capo dell'ufficio, significa rendere un servizio più che esercitare un potere».
Sta demolendo il mito della superioritità del magistrato...
«I magistrati sono tendenzialmente convinti di essere una categoria superiore, di avere sempre ragione. Questo perché sono loro che decidono qualsiasi questione sottoposta al loro giudizio. I miei colleghi impazziscono quando io dico che noi siamo al servizio dei cittadini e che, mutuando l'esempio dalla ristorazione, sono questi a essere seduti al tavolo, mentre noi, operatori della giustizia, siamo cuochi, camerieri, lavapiatti e baristi. Quando divenni Procuratore della Repubblica a Bolzano, nel luglio 2001, con l'aiuto dei miei collaboratori applicai queste mie convinzioni, ripensando e riorganizzando i processi lavorativi dell'ufficio. Siamo così riusciti a ridurre le spese giudiziarie del 70% e a portare l'arretrato a un livello fisiologico».
Ma lei, autonomo e non legato ad alcuna corrente, come è riuscito a farsi nominare procuratore?
«Era il 2000, avevo 46 anni e nessuna speranza. Ho fatto domanda per capire come sarei stato giudicato. Poi, nel giro di poche settimane, accaddero fatti del tutto accidentali che hanno fatto pendere l'ago della bilancia dalla mia parte. L'episodio imbarazzante avvenne sulle piste di sci. Parlando con un collega che stava facendo una settimana bianca in Alto Adige e che avevo conosciuto quello stesso giorno, il discorso cadde sulla ormai prossima nomina del Procuratore di Bolzano. Mi interrogò in funivia e arrivati al rifugio fece una telefonata e disse all'interlocutore "Un nome solo: Tarfusser". Solo dopo ho saputo che questo collega aveva una precisa collocazione correntizia e il suo interlocutore era un Consigliere del CSM. Ma si può diventare procuratori così, paracadutati per caso, senza essere sottoposti a test attitudinali o colloqui tecnici? È la prova che il sistema era marcio e che nei successivi vent' anni è peggiorato».
Cuno Tarfusser da Merano, mentalità asburigica e loquacità mediterranea mischia pragmatismo lombardo-veneto e rigore puritano, è indubbiamente il magistrato che più ha provato a curare i mali della giustizia italiana, lavorando dal di dentro. Lo chiamò l'allora Guardasigilli Clemente Mastella per sistemare il carrozzone, impressionato dal suo lavoro a Bolzano. Ma poi ci fu l'inchiesta di De Magistris, gli indagarono la moglie e il ministro fu costretto a dimettersi. Allora fu il nuovo titolare di via Arenula, Angelino Alfano, a fargli squillare il telefono. «Su sua richiesta gli presentai una relazione dettagliata su come migliorare il sistema, però lui era lì per altre ragioni e non se ne fece nulla» racconta Tarfusser.
Quando gli parli, non si capisce se è più divertito o scandalizzato dalle contorsioni dei suoi colleghi, che si agitano perché nulla cambi e scomodano i sacri principi per difendere piccoli interessi personali. «Il nostro sistema» spiega «si basa tutto su Regi Decreti firmati dal Re e da Mussolini. Ma vi pare normale che in quasi ottant' anni di Repubblica questo Paese non sia riuscito a darsi un sistema giudiziario repubblicano?».
Deduco che lei non abbia una grande opinione della riforma Cartabia.
«Come i referendum appena abortiti, la riforma non serve quasi a nulla, se non a ottenere i fondi del PNRR. L'assurdità del dibattito è che ogni cosa viene sempre parametrata sull'eccezione, mai sulla regola. Come in un ospedale non ci sono solo trapianti di cuore, ma la maggior parte del lavoro è di ordinaria amministrazione, così nei tribunali i magistrati non si occupano solo di mafiosi e di politici corrotti come potrebbe sembrare sentendo i dibattiti. Il 95% del lavoro di ogni ufficio giudiziario è di quotidiana ordinarietà ed è su quella che, a mio parere, va perimetrato l'intervento normativo, ma soprattutto quello organizzativo per liberare risorse a favore del 5% di lavoro straordinario. In altre parole, magistratura associata e politica, la prima per spirito di conservazione, la seconda per ignoranza, discutono di improbabili e inutili riforme, quando la quotidianità negli uffici è fatta di riti spesso inutili che, se razionalizzati, costituirebbero di per sé una vera e utile riforma della giustizia».
È favorevole a separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri e alla riforma del Consiglio Superiore della Magistratura?
«Innanzitutto lo chiamo Consiglio della Magistratura perché di superiore non vedo nulla. I padri costituenti lo hanno denominato "superiore" perché lo collocavano al di sopra dell'agone politico. Sono sicuro che, se sapessero cosa è diventato, si rivolterebbero nella tomba».
Va bene, ma cosa pensa dei referendum, li ha votati?
«Dei referendum penso che i quesiti erano folli e inutili e che i cittadini, più intelligenti dei promotori e dei politici, hanno capito che li si voleva truffare e sono rimasti a casa. Io invece sono andato a votare ed ho votato No al quesito sulla custodia cautelare, non ho ritirato la scheda per l'abolizione della legge Severino e ho votato Sì alle altre tre domande. Non mi oppongo alla separazione delle carriere, anche perché di fatto c'è già, ma la soluzione di questo problema è un lusso rispetto al disastro attuale».
Parliamo di politica...
«Di quale politica? La situazione drammatica in cui versa la giustizia è la diretta conseguenza della debolezza e pochezza intellettuale della politica. Le pare possibile che il dibattito sulla giustizia ruoti sempre e solo intorno agli stessi argomenti: separazione delle carriere, azione penale discrezionale, divieto per il pm di fare appello, prescrizione, ritorno in ruolo dei magistrati imprestati alla politica. Segno evidente che la politica non conosce i problemi veri e le possibili soluzioni».
Come riformerebbe il Consiglio della Magistratura?
«Lo scrisse, da illuminato qual era, il professor Stefano Zan, nel 2009, sul Corriere della Sera che il Consiglio è composto per due terzi da magistrati relativamente giovani, tutti militarmente "correntizzati", che non hanno mai coperto incarichi direttivi e per l'altro terzo da avvocati, professori o politici disoccupati. Ebbene, questa armata che non ha alcuna competenza gestionale e manageriale - Zan li definiva dilettanti - è chiamata a decidere chi andrà a comandare tribunali e procure, a prendere provvedimenti disciplinari, a valutare la competenza e valutare l'operato di colleghi spesso più autorevoli».
Cosa si può fare per cambiare se la riforma Cartabia è solo un pannicello caldo?
«Il sistema si scardina solo togliendo ai magistrati la maggioranza nel Consiglio. Al topo va sottratta la marmellata. Le toghe devono conservare solo una quota di garanzia, un terzo dei componenti scelti tra magistrati con anzianità e comprovata esperienza. Il terzo rimasto vacante dovrebbe essere coperto da specialisti in materia di organizzazione, gestione di risorse umane e materiali dotati di autonomia, sia verso la politica che verso la magistratura. Tolta alla magistratura la maggioranza in Consiglio si depotenzia automaticamente l'autocrazia, e soprattutto le correnti che non saranno più determinanti».
Ma l'autonomia della magistratura dove la mette?
«Autonomia e indipendenza della magistratura sono sacre! Ma, come sostengo da anni, è la loro interpretazione ad essere distorta e ipertrofica, ad essere uno dei maggiori ostacoli allo sviluppo del sistema giudiziario verso una cultura dell'organizzazione e della qualità del servizio. Di questa interpretazione si nutrono i magistrati dimenticandosi, specie i dirigenti in gran parte inadeguati, che accanto al principio costituzionale dell'autonomia e indipendenza vi è quello della buona amministrazione. In altri e più chiari termini, l'autonomia e l'indipendenza del magistrato, di ogni magistrato, è sacra solo quando esercita la giurisdizione, ma non lo è affatto nell'ottica dell'appartenenza a un'organizzazione pubblica complessa».
Però i cittadini stanno con i giudici: al referendum non hanno premuto il grilletto...
«Tutt' altro. I cittadini, che non sono stupidi, hanno capito che si trattava del grilletto di una ridicola pistola giocattolo».
Giustizia, tutte le nuove regole della riforma Cartabia approvata in Senato. Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022. La riforma votata in Senato.
Separazione più rigida tra giudici e pm. Nuove regole per le elezioni al Consiglio superiore della magistratura che aumenta di 10 componenti. E valutazioni annuali per i magistrati in cui conterà di più il parere del capo dell’ufficio e spunterà anche quello degli avvocati. Tutte le novità della riforma Cartabia
Possibile un solo cambio da pm a giudice. È la parte più dibattuta della riforma Cartabia. La Costituzione prevede carriere uniche per giudici e pm. Nel testo si parla di separazione delle funzioni. Finora i passaggi consentiti dalla funzione requirente a quella giudicante nel penale erano 4. La riforma ne prevede solo uno entro i 10 anni dall’assegnazione della prima sede (escluso quindi il periodo di tirocinio di 18 mesi). Un limite che non è da tenere presente se si vuole passare dal settore penale a quello civile o da quello civile alle funzioni requirenti oppure per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. L’Anm lamenta una «separazione delle carriere di fatto» e «profili di dubbia costituzionalità».
Pagelle annuali ai togati, c’è il parere degli avvocati. Discreto, buono, ottimo: sono queste le valutazioni che ogni magistrato riceverà ai fini della carriera. Il fascicolo personale verrà aggiornato ogni anno, non più ogni quattro. Con analisi a campione e statistiche dell’attività svolta. Incideranno la «tempestività nell’adozione dei provvedimenti» e «significative anomalie all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi o gradi del procedimento e del giudizio»: se troppe richieste o condanne, ad esempio, si trasformano in assoluzioni nei gradi successivi. Conterà di più il giudizio del capo degli uffici. E si introduce il «parere» degli avvocati sulla professionalità dei magistrati: il «voto» solo su segnalazione dei consigli giudiziari.
I giudici eletti in politica non tornano indietro. I magistrati che hanno ricoperto cariche elettive per almeno un anno, al termine del mandato, non possono più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. I magistrati ordinari vengono collocati fuori ruolo presso il ministero di appartenenza o altri ministeri o presso l’Avvocatura dello Stato. I candidati non eletti tornano alle loro funzioni. Ma - solo per tre anni - non nella Regione dove erano candidati né dove lavoravano: non con incarichi direttivi; non come pm, gip o gup. Se hanno svolto per almeno un anno ruoli apicali (capi dipartimento o di gabinetto e segretari generali nei ministeri) devono restare fuori ruolo solo per un anno. Al rientro, per tre anni, non possono ricoprire incarichi direttivi.
Stop nomine a pacchetto, vige l’ordine cronologico. Le nomine si decideranno in base all’ordine cronologico delle «scoperture», per evitare la pratica di «nomine a pacchetto». Una scelta per scongiurare scambi di favori fra correnti, già fatta dall’attuale Csm. I membri della commissione nomine del Csm non potranno coincidere con quelli della Disciplinare per evitare una commistione tra nomine e valutazione di professionalità. Prima e dopo la funzione si dovrà frequentare un corso di formazione. Sul sito del Csm saranno pubblicati tutti i curriculum. Per ogni incarico c’è obbligo di audizione di almeno tre candidati. Si dà modo di partecipare alle scelte su incarichi direttivi e semidirettivi anche ai magistrati dell’ufficio del candidato. Il Csm sale a 33 membri: 10 laici e parità di genere Sale a da 27 a 33 il numero dei componenti del Csm. Passano da 8 a 10 i laici, da 16 a 20 i togati: 2 magistrati di legittimità, 5 pm e 13 giudici. Più i membri di diritto: il presidente della Repubblica, il primo presidente di Cassazione e il procuratore generale di Cassazione. Nessun sorteggio dei candidati. Per evitare lo strapotere delle correnti si è pensato a un sistema elettorale misto: binominale maggioritario, con quota proporzionale (per eleggere 5 dei 13 giudici di merito). Un sistema che secondo l’opposizione «peggiora la situazione». Le candidature saranno individuali, senza liste. Ogni collegio binominale avrà un minimo di 6 candidati, almeno la metà del genere meno rappresentato. Per l’accesso al concorso basterà avere la laurea Cambia l’accesso in magistratura. Al concorso si potrà accedere direttamente dopo la laurea in giurisprudenza. Senza più l’obbligo di aver frequentato le scuole di specializzazione. Il giudizio sarà basato su tre prove scritte e prove orali teoriche. Ci sarà una valorizzazione dei tirocini formativi e del lavoro svolto nell’ufficio per il processo. Si attribuisce alla Scuola superiore della magistratura il compito di organizzare corsi di preparazione al concorso per i tirocinanti e per chi abbia svolto funzioni nell’ufficio per il processo del Pnrr. Con i fondi la ministra Cartabia ha chiamato 8.200 «giuristi» ad affiancare il lavoro di 9 mila toghe. E annuncia l’arrivo di 5400 «figure tecniche».
Piccoli passi. Cosa non cambierà nella giustizia italiana con la riforma Cartabia. Cataldo Intrieri su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.
Purtroppo né la proposta referendaria appena bocciata, né la nuova legge appena approvata incidono veramente sulla madre di tutte le questioni: l’appartenenza di magistrati inquirenti e giudicanti allo stesso ordine. Ma ci sono alcuni cambiamenti positivi: come le misure per contenere la fuga di notizie dalla procura ai giornali.
Ha una sua forza simbolica il fatto che quattro giorni dopo il disastroso esito del referendum, il Parlamento abbia approvato la Riforma Cartabia: la legge che modifica alcune norme dell’ordinamento giudiziario, alcune delle quali erano stato oggetto proprio della consultazione popolare del 12 giugno.
In particolare la riforma introduce la separazione pressoché totale delle funzioni tra pubblici ministeri e giudici, definita impropriamente come “separazione delle carriere”. Per i magistrati sarà possibile solo una volta optare per un cambio di funzioni di pubblico ministero o di giudice. E nei primi dieci anni di carriera. Prima della riforma i magistrati potevano decidere di cambiare carriera per quattro volte.
Purtroppo né la proposta referendaria né la Riforma Cartabia incidono veramente sulla madre di tutte le questioni: l’appartenenza di magistrati inquirenti e giudicanti allo stesso ordine. E soprattutto la dipendenza dal medesimo Consiglio superiore della magistratura per l’assegnazione degli incarichi direttivi e delle misure disciplinari. Ovvero la condizione che ha portato finora agli intrecci e alle opache commistioni di interessi, mostrate all’opinione pubblica durante la vicenda Palamara.
Se il voto al Csm di un membro della corrente dove milita il procuratore che chiede una condanna. incide sulle legittime aspirazioni di carriera del giudice che deve decidere, questo rapporto ambiguo potrebbe limitare la libertà decisionale del giudice. È inutile negarlo, siamo esseri umani.
In attesa una modifica costituzionale risolva questo nodo principale, la nuova Riforma Cartabia servirà a evitare che la mentalità dei pubblici ministeri si trasferisca nelle sentenze. I magistrati si indignano di fronte a questa osservazione, e in effetti non parliamo di una regola generale, ma qualcuno potrebbe seriamente sostenere che due pm come Nino Di Matteo o Nicola Gratteri si lascerebbero dietro le spalle la loro visione del processo penale come mero strumento di accertamento e ratifica della verità colta nelle indagini? Sia lecito dubitare.
La seconda riforma ha anch’essa un forte valore simbolico perché consente agli avvocati di votare sulla progressione in carriera dei magistrati, su delega del proprio Ordine. Era una delle proposte dello sfortunato referendum ma lo ha realizzato prima la riforma voluta dal governo Draghi con un’ulteriore novità: verrà formato un apposito fascicolo del magistrato che raccoglierà i dati sull’attività precedente svolta dallo stesso.
Si tratta dell’innovazione che l’Associazione Nazionale Magistrati ha cercato di osteggiare in tutti i modi, arrivando a indire dopo 16 anni uno sciopero contro un governo fortemente voluto dal Presidente della Repubblica, lamentando una sorta di schedatura destinata a minare la serenità del magistrato.
Il terzo tema proposto dai referendari e realizzato dalla Riforma Cartabia riguarda la modifica del sistema elettorale e soprattutto della composizione del Csm.
Il quesito referendario si limitava a proporre una sorta di libera candidatura, mentre la nuova organizzazione voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia prevede un sistema proporzionale e un numero minimo di candidati per ogni collegio. Il cambiamento più importante tuttavia riguarda l’innalzamento del numero dei componenti, portato a 50. Di questi 50, venti sono togati, a loro volta suddivisi in 13 membri provenienti dall’ufficio giudicante e 7 dalle procure.
Lo scopo è quello di bilanciare le componenti laiche e quelle professionali, ma soprattutto di ridurre la prevalenza dei pm in un organismo così delicato. Il tempo dirà se i cambiamenti saranno efficaci.
Va sottolineato che questa è la prima riforma dell’ordinamento giudiziario in cui l’Associazione nazionale magistrati è stata messa da parte fino a provocarne la stizzita reazione e la proclamazione dello sciopero.
Nella riforma c’è anche la normativa sulla presunzione di innocenza, termine improprio ma che tende a sottolineare come lo scopo sia quello di limitare l’influsso delle procure sulla pubblica opinione tramite i rapporti privilegiati con la stampa. Solo i capi degli uffici inquirenti potranno dare informazioni ai giornalisti, e la violazione di tale prerogativa costituirà un illecito disciplinare.
Il malumore dei magistrati è fortissimo, forse appena attenuato dall’esito dei referendum. Ma altrettanto forti sono le ricadute nel campo dei movimenti e delle associazioni che si rifanno come ispirazione al garantismo.
La Riforma Cartabia è sicuramente ispirata da criteri di difesa e di tutela delle garanzie del cittadino e del corretto esercizio della giurisdizione, ma è stata voluta e realizzata dalla politica, sia pure a guida fortemente tecnocratica.
Una novità enorme che ha avuto fortissimi contraccolpi in due componenti fondamentali dello schieramento garantista: i radicali e gli avvocati.
Il presidente dell’Unione delle camere penali Gian Domenico Caiazza ha scatenato una dura polemica col segretario del Partito radicale a Maurizio Turco, promotore del referendum, rinfacciandogli la responsabilità della sconfitta di un’iniziativa giudicata improvvisata e avventurosa.
L’impressione è che l’indubbio successo del presidente del Consiglio Mario Draghi e di Marta Cartabia debba portare a un cambiamento dell’immagine della politica che ha saputo nell’occasione riguadagnarsi uno spazio di autonomia e a cui i movimenti espressione della società civile e della volontà popolare dovranno guardare con occhi diversi e con ben altra capacità di dialogo.
Il riformismo può funzionare in questo paese. Dunque anche il garantismo deve uscire dalle nebbie di confuse rivendicazioni populiste e diventare lo statuto politico di forze e movimenti che trovino i loro canali e riferimenti dentro le istituzioni.
La riforma Cartabia del Csm è legge: ecco cosa cambia, punto per punto. Simone Alliva su La Repubblica il 16 giugno 2022.
Dalla separazione delle carriere tra giudici e pm alla contestata presunzione di innocenza che frena i rapporti tra magistrati e giornalisti. Vi spieghiamo i cambiamenti che la norma apporta.
La pantomima di Lega con le mani sui fianchi – “o modificate o ce ne andiamo” - è durata meno di ventiquattro ore. “Noi votiamo la riforma, ma è anacronistica”, ha affermato la senatrice e responsabile Giustizia della Lega, Giulia Bongiorno. Forza Italia ha tenuto la barra governista, Italia Viva pure, attraverso l’astensione.
La riforma Cartabia è legge con 173 sì, 37 no. Dopo aver approvato le riforme del processo penale e civile, il Parlamento trasforma l’ordinamento giudiziario e il Consiglio Superiore della Magistratura. In tempo per luglio 2022, data in cui Palazzo Marescialli verrà rinnovato. Delle tre leggi la più tortuosa: il testo base adottato dalla Commissione era stato presentato dall’ex ministro Alfonso Bonafede nel settembre 2020. E la più urgente: invocata più volte dal capo dello Stato Sergio Mattarella, che le ha dedicato un lungo passaggio del suo discorso alle Camere durante la cerimonia di reinsediamento a febbraio 2022.
Dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri a un «fascicolo per la valutazione» dei magistrati, dall’assegnazione degli incarichi al sistema del Csm in Commissioni. E poi il divieto di parlare con i giornalisti, anche solo per smentire una notizia. Ecco come cambia l'ordinamento giudiziario italiano:
33 membri al Csm e quote rosa
Il futuro Consiglio superiore della magistratura sarà composto di 33 membri. Tre quelli di diritto: il Presidente della Repubblica; il Primo Presidente di Cassazione; il procuratore generale presso la Cassazione. Dieci i laici eletti dal Parlamento. Venti i togati: 2 in rappresentanza della Cassazione, 5 delle procure; 13 per la magistratura giudicante. I magistrati voteranno in 7 collegi (uno per la Cassazione, due per la magistratura inquirente; quattro per la giudicante). In ciascun collegio si eleggeranno due componenti. Si prevede inoltre per i giudicanti una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale e per i requirenti il recupero di 1 miglior terzo. Per candidarsi non sono previste le liste; ciascun candidato presenta liberamente la propria candidatura individuale. Devono esserci un minimo di 6 candidati. Se non arrivano candidature spontanee o non si garantisce la parità di genere, si integra con sorteggio.
Le pagelle degli avvocati e lo stop alle nomine pacchetto
Per gli incarichi direttivi e semidirettivi, si decide in base all’ordine cronologico delle scoperture. Si prevedono corsi di formazione per tutti, a cura della Scuola Superiore della Magistratura, sia prima di aver accesso alla funzione che dopo. Si rendono trasparenti le procedure di selezione, con pubblicazione sul sito Intranet del Csm di tutti i dati del procedimento e dei vari curricula, dando modo di partecipare alle scelte su direttivi e semidirettivi anche ai magistrati dell’ufficio del candidato. Si prevede l’obbligo di audizione di non meno di 3 candidati per quel posto. Nell’ambito del Csm, si dovrà individuare un contenuto minimo di criteri di valutazione, per verificare tra l’altro anche le capacità organizzative. Quanto alle valutazioni di professionalità, nei Consigli giudiziari locali ci sarà anche il voto degli avvocati, ma esclusivamente a seguito di un deliberato del consiglio dell’ordine degli avvocati.
Stop alle porte girevoli
Per quanto riguarda le sovrapposizioni tra mandato politico e funzioni giudiziarie, si prevede innanzitutto che non sarà più possibile esercitarli nello stesso tempo, nemmeno in distretti diversi (il caso più celebre è quello di Catello Maresca, giudice a Campobasso e insieme consigliere comunale a Napoli). Per assumere l’incarico, il magistrato dovrà quindi collocarsi in aspettativa. Al termine del mandato elettivo, i magistrati non possono più tornare a svolgere una funzione giurisdizionale. Se si sono candidati ma non sono stati eletti, per tre anni non possono tornare a lavorare nella regione dove si sono candidati né in quella dove lavoravano, né potranno avere incarichi direttivi. Se hanno avuto incarichi apicali in organismi di governo per oltre 12 mesi (tipico il caso di capi di gabinetto), restano per ancora un anno fuori ruolo – ma non in posizioni apicali – e poi rientrano nella funzione d’origine, ma per i tre anni successivi non possono ricoprire incarichi direttivi.
Valutazione annuale dei magistrati
Esiste già un fascicolo personale di ogni magistrato, previsto dal 2006. Attualmente, ad ogni valutazione di professionalità (cioè ogni 4 anni) il magistrato deve presentare al Consiglio giudiziario locale – e poi al Csm - provvedimenti a campione sulla propria attività svolta, e le statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell’ufficio di appartenenza. Il fascicolo andrà ora aggiornato annualmente, seguendo l’iter dei vari provvedimenti. Tra gli indicatori da tenere in considerazione da parte del Consiglio, gli eventuali segnali «di grave anomalia».
Limiti territoriali
Arrivano nuovi limiti territoriali per essere eletti: per le cariche elettive nazionali, regionali, province autonome di Trento e Bolzano, Parlamento Europeo, come anche per gli incarichi di assessore e sottosegretario regionale, si prevede che i magistrati non siano eleggibili nella regione in cui è compreso, in tutto o in parte, l’ufficio giudiziario in cui hanno prestato servizio nei precedenti tre anni. Anche per le cariche di sindaco, consigliere o assessore comunale, il magistrato non potrà più candidarsi se presta servizio o ha prestato servizio nei tre anni precedenti la data di accettazione della candidatura presso sedi o uffici giudiziari con competenza ricadente in tutto o in parte nel territorio della provincia in cui è compreso il comune o nelle province limitrofe. Il principio è che non dev’esserci alcun sospetto di un retroscena politico nell’azione del magistrato sul territorio.
Separazione tra le funzioni
Nel settore penale, sarà possibile un solo passaggio tra la funzione requirente e quella giudicante. Attualmente sono possibili fino a 4 passaggi di funzione. La scelta andrà fatta entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Non ci sarà alcun limite, invece, per il passaggio al settore civile e viceversa, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione. La possibilità di un solo passaggio tra le due funzioni rasenta la separazione delle carriere, che prevederebbe appunto l’impossibilità di passare da un ramo all’altro della magistratura penale. L’Associazione nazionale magistrati ha parlato di «elusione» dei precetti costituzionali, che prevedono una sola giurisdizione. Secondo i parlamentari di maggioranza, è invece giusto che il magistrato abbia la possibilità di approfondire l’esperienza nel settore dove è capitato con la prima nomina, e che possa però cambiare almeno una volta.
Vietato parlare con la stampa
È una delle norme più contestate della riforma dai giornalisti. L’articolo 11 estende il rilievo disciplinare delle dichiarazioni agli organi di stampa introducendo un nuovo illecito disciplinare per quei magistrati che informano la stampa dei risultati dell'attività di indagine, anche solo per smentire una notizia sbagliata. Gli unici autorizzati a parlare con i giornalisti saranno i Procuratori della Repubblica, ma solo in conferenza stampa ed esclusivamente in casi di rilevanza pubblica. Una norma figlia della 'presunzione di innocenza', entrata in vigore a dicembre scorso con la firma della Guardasigilli e voluta dal deputato di Azione Enrico Costa, su spinta della direttiva europea.
Riforma della giustizia, appena approvata è già corsa a cambiarla. Ecco cosa non va. Dario Martini su Il Tempo il 17 giugno 2022.
Quattro giorni dopo il fallimento del referendum, per mancato raggiungimento del quorum, il Senato approva la legge sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. La ministra Cartabia e il governo Draghi nel suo complesso possono tirare un sospiro di sollievo dopo mesi e mesi di scontri e una valanga di emendamenti. Alla fine la maggioranza tiene, nonostante Italia viva e cinque leghisti scelgano di astenersi (Calderoli, Ostellari, Pillon, Doria e Bagnai). I sì sono 173, i no 37. A spiegare la posizione di Iv è lo stesso Matteo Renzi nel suo intervento in aula a Palazzo Madama. Poco più di dieci minuti in cui non risparmia critiche a una riforma definita «più inutile che dannosa».
Insomma, secondo il senatore fiorentino questa legge non scioglie i veri nodi che affliggono la giustizia italiana da decenni. «Signora ministra Cartabia noi non voteremo la sua riforma - esordisce Renzi - Una riforma della giustizia e dell’ordinamento giudiziario serve, la sua serve meno di quello che noi speravamo. Non tocca il potere delle correnti, non tocca la responsabilità dei magistrati, e soprattutto lascia un po’ di amaro in bocca per la modalità con cui è arrivata al traguardo. Non voteremo contro, ci asteniamo perché la riforma non fa danni, a differenza di altre scelte del passato. Non è quel passo in avanti che serviva». Il leader di Italia viva ricorda che negli ultimi trent’anni sono finiti in carcere in media tre innocenti al giorno. E i magistrati non pagano mai per i loro errori, se è vero che «ogni anno lo Stato paga danni per 25-30 milioni di euro». Un altro punto su cui non si mette mano, sempre secondo il senatore, è «la presenza massiccia di magistrati negli uffici tecnici dei ministeri che fanno e disfano le leggi». Sarebbero circa duecento secondo le ultime stime. In realtà, il testo approvato ieri al Senato prevede una loro riduzione, ma si tratta solo di un principio contenuto nella delega si stabilirà nei decreti attuativi il nuovo numero limite. Inoltre, i magistrati potranno essere collocati fuori ruolo non prima di 10 anni.
Problemi e sprechi su cui la riforma Cartabia, secondo Renzi, non incide minimamente. Però, almeno, non peggiora la situazione. È all’incirca la stessa valutazione che dà la senatrice leghista Giulia Bongiorno, secondo la quale «questa riforma ha dei profili positivi, una serie di novità positive», come «il miglioramento nella valutazione dei magistrati, insomma ci sono dei piccoli passi avanti. Il problema è un altro: è soltanto un piccolo ritocco e non una trasformazione radicale del sistema». Durante il suo intervento in aula, la senatrice ricorda anche che «questa è una riforma che avviene nel 2022, dopo lo scandalo Palamara. Di fronte a rivelazioni sconvolgenti ci vuole un cambiamento sconvolgente, non ritocchi. Noi della Lega, ma credo che su questo posso dire noi del centrodestra, non crediamo più al fatto che improvvisamente la magistratura si autoriformerà. Noi crediamo fortemente nel fatto che una riforma efficace sia dovere del legislatore, e noi faremo una riforma coraggiosa che cambierà finalmente qualcosa nell’interesse di tutti». Una promessa che guarda al futuro, alle prossime elezioni politiche. Quando la Lega conta di cambiare veramente la giustizia italiana. Non è un caso che il relatore della legge, il leghista Andrea Ostellari, si sia astenuto.
Le dichiarazioni degli esponenti del Carroccio e di Italia viva stridono con quelle di Partito democratico e Cinque stelle, nonostante facciano parte della stessa maggioranza che sostiene Draghi. L’unica cosa che li unisce è la volontà di non far cadere il governo in questo momento. Non bisogna scordare che Enrico Letta nelle settimane scorse ha chiesto esplicitamente ai suoi elettori di disertare le urne per il referendum. Per la capogruppo Dem al Senato, Debora Serracchiani, il Parlamento «ha scritto una buona pagina, che assicura un funzionamento della giustizia sempre più efficace e giusto». Mentre Alessandra Maiorino, che guida i pentastellati in commissione Giustizia a Palazzo Madama, ritiene che «il testo» divenuto legge» sia «di gran lunga migliore di quello che sarebbe uscito dai referendum».
È abbastanza scontato invece il commento a caldo dell’Associazione nazionale magistrati, che a maggio ha pure scioperato un giorno per impedire l’approvazione della legge. «La riforma approvata in via definitiva dal Parlamento in materia di Csm e ordinamento giudiziario «contiene profili di dubbia conformità al disegno costituzionale», afferma il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. «Si tratta di una legge delega, chiederemo che i principi vengano attuati in modo meno impattante, vedremo come sia possibile smussare i profili di maggior attrito costituzionale. Chiederemo al governo di darci l’attenzione finora non dimostrata». Il fatto che il risultato finale non sia ottimale emerge anche dalla valutazione del Consiglio nazionale forense. La presidente dell’organismo che rappresenta gli avvocati italiani, Maria Masi, parla di «passo avanti verso un maggiore equilibrio tra funzioni e poteri degli operatori del diritto», ma ammette: «Non è la riforma migliore possibile». Più critica l’Associazione italiana giovani avvocati: «Considerare quanto legiferato oggi un traguardo sarebbe uno sbaglio, occorre ancora fare molta strada per correggere le tante storture del sistema»
Il via libera alla Riforma Cartabia. Riforma giustizia, anche Morra si sveglia: “I libri di Palamara e Renzi e il trojan spento prima della cena: è normale?” Angela Stella su Il Riformista il 16 Giugno 2022.
Oggi la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario verrà approvata al Senato alla presenza della Ministra Cartabia. Ieri l’Aula ha approvato tutti i 43 articoli della riforma. Ma vi si è arrivati non senza difficoltà. Dopo che la Commissione Giustizia, dopo diversi giorni di tensione, l’altra notte ha approvato il testo nell’identica forma di quello licenziato dalla Camera, ieri pomeriggio è iniziata la discussione generale in Aula, seguita dal voto sugli emendamenti.
La giornata si era aperta con una dichiarazione del segretario del Pd Enrico Letta: «La Lega ha perso il referendum. Sulla riforma della giustizia c’è un accordo di maggioranza e lo ha già votato anche la Lega. Si approvi quindi la riforma ma se l’ostruzionismo della Lega va avanti, allora il governo metta la fiducia al Senato. Far saltare la riforma significa minare le basi della convivenza stessa di governo. E un atteggiamento insostenibile». La Lega comunque in Aula ha fatto il suo gioco. Il relatore del Carroccio Andrea Ostellari avrebbe dovuto illustrare tecnicamente il provvedimento, invece si è lasciato andare a considerazioni di carattere generale: «C’è un gravissimo deficit dei rapporti tra i poteri democratici, la Lega non ce l’ha con i giudici né con il governo, il Pd la smetta di piantare bandierine. Qui si è chiesto di lavorare in Commissione, garantendo lo spazio a beneficio del provvedimento. Il Csm – ha spiegato – è un presidio fondamentale a garanzia dell’indipendenza e dell’autonomia dell’ordine giudiziario, non per favorire la condizione dei magistrati ma per garantire che non subisca condizionamento, ma il Csm purtroppo è stato travolto dagli scandali». Rispetto a «una giustizia che rappresenta il livello di civiltà di uno Stato, non c’è solo il rischio per una platea di persone di finire in inchieste che portano magari solo all’omicidio politico per chi le subisce. Sia dato – ha concluso – ora ampio spazio al dibattito» in Aula.
È intervenuto poi il capogruppo di Iv in Commissione Giustizia, Giuseppe Cucca: «La nostra responsabilità l’abbiamo confermata ritirando gli emendamenti, anche per il rispetto che dobbiamo al presidente Draghi, per quello che sta facendo e continuerà a fare, e anche per ossequio al presidente Mattarella che aveva sollecitato l’approvazione di questa riforma. Però è doveroso dire una cosa, perché un domani possiamo dire “ve lo avevamo detto”. Ho difficoltà a chiamare questa “riforma Cartabia”, perché è la riscrittura con qualche modifica della riforma Bonafede». Visione paradossalmente diversa invece quella del senatore M5S Marco Pellegrini, capogruppo in commissione Antimafia: «Questa non è la nostra riforma, perché il testo che giunge oggi (ieri, ndr) nell’Aula del Senato segna passi indietro rispetto al più incisivo e coraggioso testo Bonafede. Ma grazie alla caparbietà del M5S, sono presenti aspetti importanti, come lo stop alle cosiddette porte girevoli tra magistratura e politica».
Cauta soddisfazione da parte del senatore Franco Mirabelli, capogruppo Pd in commissione Giustizia: «La Giustizia non funziona e di questo abbiamo provato a farci carico in questa Legislatura. Voglio sottolineare che abbiamo fatto cose concrete: riforme che aggrediscono i nodi veri della giustizia, non chiacchiere. La legge di cui stiamo discutendo è frutto del lavoro del Governo e della maggioranza. Il testo è stato approvato alla Camera dei Deputati con i voti di tutta la maggioranza e l’astensione di Italia Viva. Questa legge non soddisfa tutti, ma è un punto di equilibrio: un punto positivo di equilibrio, che interviene e fa fare un passo avanti, accrescendo le responsabilità della magistratura, riformando il sistema elettorale del CSM, intervenendo sul passaggio di funzioni riducendolo a uno solo, introducendo nuovi criteri di valutazione. È oggettivamente meglio dell’esistente. Sui referendum, alla fine non mi interessa dire chi ha vinto e chi ha perso. Mi interessa il fatto che dal referendum emerge un messaggio chiaro: i cittadini chiedono al Parlamento di fare le riforme».
Intervento accalorato quello del senatore Nicola Morra, ex 5Stelle ora al Misto: «Questo dibattito è segnato da una sostanziale ipocrisia. Chi ha letto il libro di Palamara e sta leggendo quello di Matteo Renzi scopre le tante nefandezze che hanno investito anche il mondo della politica e constata che tanto nulla cambia. E allora vi pare normale che i trojan per quanto siano programmati per rimanere accesi fino alla mezzanotte, vengano a spegnersi prima di una importante cena tra il dottor Palamara e l’allora Procuratore capo della Repubblica di Roma, dottor Pignatone? Vi pare normale?”. Arriva il richiamo della presidente di seduta, la senatrice dem Rossomando: «senatore le ricordo che si assume la responsabilità delle sue affermazioni». Morra: «io ho domandato se è normale che si spenga all’improvviso il trojan. Se per questo devo essere perseguito, perseguitemi».
Dopo la discussione è iniziato il voto sugli emendamenti. Il governo ha dato parere contrario a tutti gli emendamenti. Il relatore, invece, si è rimesso all’aula. Tutti gli emendamenti sono stati bocciati. La presidenza del Senato aveva ammesso anche un emendamento della Lega su cui il partito di Salvini ha chiesto il voto segreto. Non è passato: 136 contrari, 70 favorevoli, 9 astenuti. Si trattava del 6.01 che non riguardava l’ordinamento giudiziario e il Csm bensì la custodia cautelare. Come ha spiegato la senatrice Giulia Bongiorno: «Ripresentiamo il testo che era quello del quesito referendario. Durante la campagna referendaria ho ascoltato affermazioni false. Questo emendamento non riguarda affatto la violenza sulle donne, né lo stalking e – rivolgendosi alla collega del Pd Valente che era intervenuta prima ha aggiunto – è vergognoso dire cose campate in aria». Mentre il senatore di Fratelli d’Italia Ignazio La Russa aveva detto: «Il nostro no viene ribadito con trasparenza», ma «non vogliamo dividere il centrodestra su questo tema. E allora pur essendo assolutamente contrari al testo referendario non partecipiamo al voto». Angela Stella
La sentenza Cavallo ignorata in tanti processi. Intercettazioni a strascico, ecco il metodo Woodcock: il pm le usa o ignora a piacimento. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Giugno 2022.
La notizia dell’archiviazione dell’inchiesta sulle Universiadi a Napoli dell’estate 2019 solleva una riflessione. I motivi sono due: il primo è legato al fatto che l’inchiesta è stata archiviata, su richiesta degli stessi pubblici ministeri, per una questione relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico e il secondo è legato al fatto che tra i pm che hanno firmato la richiesta di archiviazione c’è il pm Henry John Woodcock. Andiamo al nodo della vicenda. Il pm Woodcock è in vari processi un sostenitore della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico.
Dicesi a strascico quelle intercettazioni autorizzate nell’ambito di un procedimento e utilizzate poi come una sorta di esca per agganciare altre persone in relazione a fatti reato diversi. La Corte di Cassazione, con la sentenza Cavallo emessa dalle Sezioni unite a novembre 2019, ha messo dei paletti all’uso di questo metodo di captazione ritenendo di limitarlo a quei reati oggetto di procedimenti diversi ma uniti da una forte connessione, a reati per cui si prevede l’arresto in flagranza, per cui la pena non può essere inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Il tema della utilizzabilità o meno delle intercettazioni, anche prima della sentenza Cavallo, è comunque stato sempre molto dibattuto e oggetto di confronti tra accusa e difesa.
Ebbene, il pm Woodcock ne ha sempre sostenuto l’utilizzabilità, tanto che per definire il suo metodo investigativo si è fatto riferimento all’uso del trojan come base di ogni inchiesta, indagini spesso accompagnate tra l’altro da un certo clamore mediatico che trasformava ogni minimo sospetto in una prova, ogni ipotesi di reato in una condanna prima ancora che si arrivasse in tribunale, sicché quando poi il tribunale, quello vero, quello della giustizia reale e non mediatica, si pronunciava, la sentenza, anche se di assoluzione, riscuoteva meno attenzione da parte dei media, tra le macerie di vite e carriere nel frattempo già fatte a pezzi. Colpisce, quindi, che proprio il pm Woodcock, autore di inchieste nate e portate avanti sulla scia di intercettazioni anche a strascico, abbia firmato una richiesta di archiviazione in cui per giustificare la chiusura del caso si fa riferimento indovinate a cosa? All’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico. E in che modo? «Nel caso di specie – scrivono i pm nella richiesta di archiviazione – si pone in primo luogo una questione di ordine processuale che appare decisiva…».
La questione riguarda appunto le intercettazioni. «Ebbene – scrivono ancora – si tratta di una questione che si pone, almeno allo stato (nel senso che altrettanto evidentemente la questione non si poneva al momento in cui tali intercettazioni sono state acquisite e al momento in cui furono delegati i primi approfondimenti investigativi) a seguito della sentenza pronunciata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione il 28 novembre 2019». Praticamente, dicono che siccome l’inchiesta è nata sulla base di intercettazioni autorizzate in un altro procedimento prima della sentenza Cavallo e siccome per effetto di questa sentenza tali intercettazioni sono da ritenersi inutilizzabili, l’inchiesta non ha più fondamenta ed è dunque da archiviare. E solo in calce alla richiesta, in poche righe, si fa riferimento al fatto che «in relazione a nessuna delle vicende sopra illustrate risulta esaustivamente comprovata la sussistenza di quella relazione sinallagmatica e corrispettiva che caratterizza in particolare qualsivoglia rapporto di natura corruttiva…».
A questo punto viene da pensare: non è che la chiusura del caso sia da attribuire più al fatto che si è indagato a vuoto per tre anni, tenendo per tutto questo tempo professionisti e imprenditori sulla graticola con tutti i danni che ciò comporta? E non è che la questione della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico in questo caso sia un altro modo per utilizzarle comunque quelle intercettazioni? Nel senso che nell’archiviazione si usano per chiudere anni di indagini che non hanno prodotto alcuna prova contro nessuno, mentre in tutti gli altri processi le si usano per provare accuse contro qualcuno? Domandare è lecito.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Per il gip era solo una bolla di sapone. Gogna, dimissioni ed ennesimo flop: archiviata inchiesta su Nocera ma Woodcock salva se stesso. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Il nostro articolo sull’incredibile caso del pm John Woodcock che ha indagato chi lo indagava ha creato un po’ di scompiglio. E per fortuna. Abbiamo dato conto dell’esposto presentato dal magistrato Andrea Nocera: da Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia aveva fatto aprire – non sua sponte, ma come procedimento di funzione – una verifica amministrativa sugli uffici di Woodcock. Mal gliene incolse.
Il 13 settembre 2019 viene iscritto nel registro degli indagati proprio dal pm su cui indagava. Le valutazioni dell’Ispettore Capo Nocera sul ricorso proposto da Woodcock contro sentenza di condanna alla sanzione della censura – per uno solo degli illeciti contestati – sono state formulate nel luglio del 2019, si chiudevano con l’indicazione di sollecitare la costituzione nel giudizio di legittimità, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, con deposito di controricorso per chiedere la condanna disciplinare sulle altre contestazioni graziate dal CSM (che aveva deciso dopo il rinvio del Consiglio precedente per via del caso Legnini-Pomicino-Palamara). Con sentenza depositata il 27/11/2019 le Sezioni Unite civili hanno deciso il ricorso annullando con rinvio la decisione impugnata che quindi tornava in prime cure. L’Ispettore Capo Nocera viene costretto a dimettersi guarda caso il 29 novembre 2019, dopo l’apposita visita e richiesta del Procuratore Capo e Generale del 28 Novembre 2019.
Sbarazzatosi di Nocera, il ministero e per l’effetto l’Avvocatura si disinteressato della vicenda. E l’ormai ex Ispettore capo si è trovato tra capo e collo una indagine penale avviata sotto le luci dei fuochi d’artificio: con la convocazione solenne nel novembre 2019 nell’ufficio dell’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che appena informato dalla Procura di Napoli a proposito dell’indagine aperta – e ancora mancante del capo di imputazione – non ha esitato un attimo a prendere posizione e giubilato su due piedi Nocera. Stimatissimo giurista e gran lavoratore, ma pazienza. Che ci volete fare? L’avviso di garanzia è sovrano, nel contesto giustizialista tanto caro ai grillini doc. Così Nocera è dovuto rincasare nei ruoli ordinari della magistratura, mentre le sue verifiche su Woodcock venivano interrotte. Quello che non abbiamo ancora avuto modo di dirvi è che c’è un seguito. Le indagini si indirizzarono su una presunta corruzione e concussione.
Il magistrato venne accusato di avere usato la sua posizione per ottenere i biglietti della partita del Napoli a Torino con la Juventus, disputata il 19 settembre 2018, e la riparazione, sempre gratis, di una barca non di sua proprietà utilizzata per delle gite nel Golfo. Sospetti nati a Woodcock per aver ascoltato e interpretato il captatore (trojan) fatto installare sul telefono dell’armatore Salvatore Di Leva, anche lui indagato insieme all’ex senatore Salvatore Lauro e al giudice Vincenzo D’Onofrio. Un fuoco di fila notevole, quello messo su da Woodcock: un impianto accusatorio importante, quattro indagati nel complesso tra cui due magistrati, un armatore, un ex parlamentare. Eh già. Ma sapete come è finita? Il Gip di Roma, che ha assunto la guida delle verifiche preliminari, riascoltando i nastri e interrogando gli interessati, ha concluso che si è trattato dell’ennesima bolla di sapone.
Di reati, neanche l’ombra. E ha archiviato tutto, un anno dopo: a metà ottobre 2020 l’indagine di Woodcock era già finita idealmente, con il suo mare di carta e di sospetti, nel bidone della spazzatura. Con tante scuse per Nocera e gli altri? Neanche per scherzo. Il danno subìto dalla carriera di Andrea Nocera, letteralmente silurato per una questione di manutenzione alla barca insussistente, è da affondamento. Tiene a precisare il suo ruolo anche Dario Del Porto, l’inviato di Repubblica Napoli che nella nostra ricostruzione ha incontrato Nocera sul treno, rivelandogli di essere stato da tempo a conoscenza dei fatti. “Non ho mai ‘svelato i dettagli dell’inchiesta, con tutti i particolari’, né al dottor Nocera, né a nessun altro. Mi occupo di cronaca giudiziaria da trent’anni. Quello che so lo verifico e poi lo scrivo sul giornale, così ho fatto anche negli articoli che hanno riguardato questa vicenda. Non ho “avuto accesso ai brogliacci delle intercettazioni”, ho lavorato esclusivamente su atti depositati e conoscibili, dunque non coperti da segreto”, precisa il giornalista. “Ho incontrato casualmente in treno il dottor Nocera diversi giorni dopo le sue dimissioni e soprattutto quando i fatti al centro del suo coinvolgimento nelle indagini erano stati già abbondantemente pubblicati sulla stampa, da Repubblica come da altre testate. È sicuramente vero che, ascoltando lo sfogo del dottor Nocera, gli ho espresso la mia vicinanza umana e la convinzione che sarebbe riuscito a superare quel momento per lui così amaro”. Così in effetti è stato: in questo caso la giustizia – come accade quando riguarda i magistrati – è stata veloce e ha accertato l’estraneità dei fatti di Andrea Nocera e degli altri indagati.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Il caso dell'ex ispettore capo di via Arenula. L’incredibile caso di Andrea Nocera: indaga Woodcock che per difendersi lo indaga e lo porta a dimissioni. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Giugno 2022.
Se mi indaghi, ti cancello. Questo potrebbe essere il titolo dell’incredibile vicenda vissuta dall’ex Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia, il giudice Andrea Nocera. Era stato lui, nel 2019, a rilevare delle anomalie a carico degli uffici del pm Henry John Woodcock. E per pura coincidenza sarà proprio Woodcock, insieme con il pm Giuseppe Cimmarotta, a indagare a sua volta Nocera nel dicembre di quello stesso anno. Costringendolo, seduta stante, alle dimissioni. Un testacoda giudiziario che non ha precedenti e che merita di essere conosciuto; anche perché pende ricorso davanti al Csm: il conflitto di attribuzione è evidentissimo. La lenta aporia con cui si è resa irrespirabile l’atmosfera intorno al procedimento parla anche dell’urgenza di riformare i criteri di nomina nell’autogoverno della magistratura, altrimenti condannato alla reiterazione del danno.
Questa storia nasce con il governo Conte I, negli indimenticabili anni in cui è guardasigilli Alfonso Bonafede. Il ministro sceglie Nocera come capo dei suoi ispettori interni, chiamati a vigilare sull’operato dei colleghi. Nocera prende l’incarico sul serio. Forse troppo, a giudicare dalle reazioni. In poco meno di un anno e mezzo istruisce un centinaio di azioni disciplinari e 42 accertamenti preliminari. I malumori sono inevitabili, qualche mal di pancia arriva ai piani alti. In particolare, sarà uno dei procedimenti ispettivi a fare rumore: riguarda l’attività di Nocera nell’occuparsi della procedura disciplinare relativa a Woodcock. Nei confronti del P.m. all’epoca era in corso il giudizio alla Sezione Disciplinare del Csm, definito in maggio con sentenza di condanna alla sanzione della censura per uno degli illeciti contestati a Woodcock. Un procedimento del quale non si ha accesso ai dettagli ma che riguarderebbe “una iniziativa disciplinare assunta dal Ministero della Giustizia”, non meglio conoscibile. Quale che sia, suona come un casus belli. È dopo quella procedura che ai piani alti del Ministero qualcuno fa esplodere una bomba. Metaforica, si intende. Ma non troppo: Andrea Nocera – con la massima urgenza – viene convocato dal Ministro. È la sera del 28 novembre 2019. Si trova a Firenze dove tiene una relazione al corso del Csm, e risponde che andrà l’indomani. La notte trascorre agitata: il tono del Ministro inusuale, la convocazione urgente e perentoria lasciavano presagire brutte sorprese. Il mattino dopo a via Arenula lo attendono, come un plotone di esecuzione, Alfonso Bonafede e il suo Capo di Gabinetto, Fulvio Baldi.
Danno conto di aver ricevuto nelle loro stanze il Procuratore capo di Napoli, Giovanni Melillo e il Procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Il Procuratore di Napoli aveva consegnato al Ministro una nota con la quale si informava di aver iscritto Nocera nel registro degli indagati. Come ormai ci ha abituato la giustizia, la comunicazione non conteneva alcuna indicazione sul reato per il quale risultava indagato. Solo un numero di procedimento, ma tanto bastava. È un attimo, un gioco di sguardi. Forse – noi non c’eravamo – un susseguirsi di sospiri. Si verbalizza: “Ministro e Capo di Gabinetto procedevano, nei termini richiesti dall’Autorità Giudiziaria, all’adempimento della notifica. Andrea Nocera nell’immediatezza ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di Capo dell’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia, chiedendo l’immediato rientro in ruolo”. Accordato dal Csm la settimana successiva, sì. Ma un rientro nei ranghi non privo di amare sorprese.
In quel frangente a Nocera viene notificata la fattispecie contestatagli da Woodcock, che per l’occasione si tramuta da indagato a indagatore: corruzione in concorso con l’armatore Salvatore Lauro e l’imprenditore marittimo Salvatore Di Leva, amministratore della società Alilauro Gruson. Parte, prima ancora che il giudice Nocera possa confrontarsi con i suoi legali, la requisitoria del processo mediatico: Il Fatto Quotidiano, Corriere della Sera (in particolare con l’edizione del Mezzogiorno, da Napoli) e Repubblica avrebbero già una mezza idea sulla sentenza: “Accuse pesanti. Fino a oggi il magistrato era sempre stato considerato una persona al di sopra di ogni sospetto dai colleghi”, sintetizza Il Fatto. Nello specifico, Woodcock ha acceso i fari su un presunto incontro che sarebbe avvenuto agli inizi di aprile. Guarda caso, proprio mentre il procedimento disciplinare a suo carico, a via Arenula, veniva istruito da Nocera. All’incontro incriminato avrebbero preso parte, oltre a Nocera, Di Leva, Lauro e il commercialista Alessandro Gelormini. Al magistrato sarebbe stato chiesto di procurarsi “notizie e informazioni” su un’inchiesta per reati societari in cui era coinvolto l’armatore. In cambio a Nocera, che ha una casa a Capri, sarebbero stati forniti “numerosi biglietti e tessere” per gli aliscafi diretti nell’isola e “servizi di manutenzione e rimessaggio” di un gommone nel cantiere di Di Leva.
Non entriamo nel merito dell’inchiesta. Parliamo del metodo, in punta di piedi, con le informazioni che abbiamo. Nocera ha protestato, a dire il vero, l’anomalia gigantesca della coincidente trattazione del procedimento disciplinare e messo in evidenza, in un esposto al Csm, il singolare dato temporale lungo il quale si dipanano i fatti. “La forma dell’esposto – precisa Nocera nella premessa – è l’unica possibile attesa la sostanziale assenza di contraddittorio nel procedimento, definito con una richiesta ed un decreto di archiviazione senza possibilità di interlocuzione difensiva sugli elementi di indagine – salvo l’interrogatorio reso su richiesta della difesa a distanza di circa due anni dall’inizio dell’indagine, senza alcuna formulazione anche sintetica delle ipotesi di accusa – nonostante i temi siano stati oggetto di una lunga ed affannosa “requisitoria” del pubblico ministero, inutilmente sviluppata in oltre 130 cartelle”. Centotrenta cartelle che si alimentano anche di intercettazioni telefoniche, naturalmente distribuite ad un pugno di giornalisti amici mentre l’indagine era strettamente riservata. Al punto che quando, ancora scosso per l’avviso di garanzia ricevuto, Nocera prende il treno per tornare a Napoli, sarà il caporedattore di Repubblica Del Porto – incontrato per caso – a svelargli i dettagli dell’inchiesta, con tutti i particolari.
Aveva avuto accesso ai brogliacci delle intercettazioni già il 4 dicembre, per una inchiesta della massima riservatezza non c’è male. Confidandosi con l’amico Nocera gli assicurerà, peraltro, di non credere alla storia del gommone. Tenuto accuratamente al buio l’interessato, le sue conversazioni erano state misteriosamente – ma meticolosamente – ben distribuite alla stampa, incoraggiata a scrivere. Sono agli atti le strettoie che hanno complicato l’esercizio del diritto di difesa dell’indagato Nocera: dalla notizia della indagine (5/12/2019) alla data dell’interrogatorio (20 settembre 2021), benché sollecitato ripetutamente dagli avvocati dell’Ispettore dimissionato, e ampliamente scaduti tutti i termini di indagine, la Procura di Napoli non ha emesso alcun atto utile a consentire una potenziale ricostruzione dei fatti. “Ciò ha impedito di fatto ogni possibile spazio di dialettica sugli elementi acquisiti – al di là dell’interrogatorio reso su richiesta della difesa – e ogni possibile interlocuzione difensiva anche in relazione alla determinazione raggiunta dall’Ufficio di Procura di definire il procedimento con richiesta di archiviazione”, si legge ancora nell’esposto di Nocera. Un clima di veleni cui il Ministero di Bonafede ha assistito senza colpo ferire, lasciando ancora una volta che il sistema giudiziario cannibalizzasse se stesso.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Toghe e informazione, il bavaglio non esiste. Armando Spataro su Il Corriere del Giorno il 4 Giugno 2022.
Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i "racconti" a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri cui si fonda la credibilità dell’amministrazione della giustizia, mentre a comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il CSM ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi.
Alcuni a partire da Paolo Colonnello su La Stampa hanno parlato un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedure penali. Non si può ovviamente alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. E’ innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte.
Ma l’allarme-bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezionali motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentano la creazione di magistrati icone, non caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici, ed i giornalisti. e’ virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato.
Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comune appartenenza partitica o per parentela ed amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge ! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazione inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo ? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo e diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili.
Infine un’ultima domanda: si continua a denunciare il rischio di bavaglio all’informazione sulla giustizia, ma non rilevo affatto che, dall’entrata in vigore del decreto sulla presunzione d’innocenza, tale informazione abbia patito penalizzazioni di qualsiasi tipo ! O sbaglio ? Riflettiamo tutti insieme, dunque, su informazione e giustizia, tra magistrati, avvocati e giornalisti, cercando di risolvere ogni criticità, ma si eviti per favore di denunciare un’inesistente bavaglio all’informazione come se vivessimo fuori da una democrazia.
Quello che le toghe non vedono. Luca Fazzo il 3 Giugno 2022 su Il Giornale.
Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio.
Piccola scommessa, vinta in partenza: neanche adesso che glielo dice un organismo europeo al disopra di ogni sospetto, i magistrati italiani si rassegneranno a quel che all'Europa pare ovvio. E cioè che non può funzionare un sistema dove un giudice passa in politica, si schiera con un partito contro altri partiti, se ne sta per un po' in Parlamento o a fare il sindaco, e poi come se nulla fosse torna a indossare la toga e ad amministrare la giustizia in nome del popolo. Un sistema del genere - ovvero quello che regna in Italia - fa sì che la giustizia appaia amministrata in nome non del popolo ma del partito, della fazione, della corrente ideologica di cui - gettando la maschera dell'imparzialità - quel magistrato ha rivelato di fare parte. È un sistema che riverbera l'ombra del dubbio non solo sulle decisioni prese dal magistrato dopo il ritorno in toga, ma anche su tutto il suo lavoro passato, che viene inevitabilmente riletto alla luce delle sue disvelate opinioni politiche. Di casi simili sono pieni gli annali, e coinvolgono indistintamente magistrati di destra, di centro e di sinistra: cosicché le correnti della magistratura sono risultate compatte nel fare barriera (nei fatti, se non a parole) contro qualunque tentativo di riforma. L'esempio più vistoso delle grottesche conseguenze dell'andirivieni tra toga e politica è di appena tre giorni fa, e ne ha ben parlato il consigliere del Csm Nino Di Matteo: la storia di Donatella Ferranti, magistrato, che viene eletto nelle liste del Pd, diventa presidente della commissione Giustizia della Camera, e in questa veste attraverso Luca Palamara cerca di orientare l'esito di due nomine importanti; poi torna come se niente fosse a fare il magistrato in Cassazione ma continua a trattare con l'amico Palamara nomine delicate, mettendo a frutto i contatti acquisiti quando faceva il deputato, salvo poi trincerarsi dietro l'immunità quando saltano fuori le sue chat. Che questo sia il sintomo di un sistema malato è sotto gli occhi di tutti. E ancora più sintomatico è l'ostruzionismo della magistratura organizzata ai tentativi di porre un freno all'andazzo. Appena un mese fa, il 30 aprile, il segretario dell'Anm Salvatore Casciaro accusa la riforma Cartabia - che cerca di bloccare le «porte girevoli» - di «eccesso di irragionevole rigore», ipotizzandone addirittura la incostituzionalità. Mettere un alt all'andirivieni per l'Anm violerebbe i diritti politici dei magistrati, che essendo cittadini come tutti dovrebbero poter fare politica senza venire penalizzati. Ma i magistrati non sono cittadini come tutti, qui sta il problema. Lo erano fin quando non hanno vinto il concorso, che ha dato loro accesso a una carriera di agi, di intangibilità, di avanzamenti automatici di carriera impensabili per chiunque altro. Privilegi che hanno come unico senso liberarli dai condizionamenti che il bisogno reca con sè, consentire loro di esercitare la giustizia seguendo solo la legge. Ma quale condizionamento peggiore c'è della obbedienza di partito, dei lacci che i magistrati si scelgono da soli quando si tolgono la toga, se la rimettono, se la ritolgono? Vogliono essere liberi, ma solo fin quando gli fa comodo.
La Caporetto di tribunali e toghe: due italiani su tre non si fidano del sistema giustizia. Stefano Zurlo il 27 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il rapporto Eurispes evidenzia un quadro impietoso: il 65,9% non crede nell’apparato e tra i giovani si supera il 70%. La conseguenza è che un italiano su 4 non denuncia neppure il reato subìto a causa dei processi-lumaca.
Un italiano su quattro non denuncia il reato appena subito. E due su tre non hanno fiducia nella giustizia. Se non è una Caporetto, poco ci manca. L'Italia si avvicina con passo stanco e distratto all'appuntamento con i referendum, ma sotto la crosta dell'apparente indifferenza covano altri sentimenti: forse la rassegnazione e la disillusione, ma certo i nostri connazionali hanno le idee chiare. Il sistema non funziona e i primi a misurarne e percepirne i limiti sono i giovani che pure dovrebbero essere battezzati nel fonte dell'ottimismo.
Non è così, in ogni caso la diagnosi mette al primo posto la malattia delle malattie: l'esasperante lentezza dei processi, antico e mai risolto male del nostro Paese. Abbiamo perso il conteggio dei proclami di chi prometteva di accorciare sul calendario i rituali e le tappe dei procedimenti, oggi siamo ancora qua, più o meno allo stesso punto, con la foto scattata dal trentaquattresimo Rapporto Italia dell'Eurispes.
Le cifre sono davvero mortificanti e mostrano tutta la distanza che c'è fra i convegni e le interviste delle toghe e la realtà che viene vissuta quotidianamente nei palazzi di giustizia della penisola. Dunque, più di un cittadino su quattro - per la precisione il 27,3 per cento - preferisce non denunciare i gli illeciti. Un dato sconfortante che, fra l'altro, falsa tutte le classifiche e le statistiche sui reati e sul loro andamento. Le ragioni di questo comportamento? Purtroppo non c'è una sola causa: l'11% pensa che i fastidi nell'affrontare un percorso giudiziario siano superiori ai vantaggi; dieci potenziali utenti su 100 non si avventurano perché hanno paura di essere inghiottiti da meccanismi farraginosi che non promettono certezze ma solo spese su spese; un altro 6.2 per cento del campione si trincera dietro uno scudo formato da una sola parola: sfiducia.
Gira e rigira, si torna sempre alla stessa casella: il 65,9 per cento degli intervistati da Eurispes afferma di non fidarsi dell'apparato giudiziario. Naturalmente con diverse gradazioni: il 45,3 per cento concede un piccolo credito ai giudici, contro un 20,6 per cento che ha perso ogni speranza.
E le persone mettono in fila i motivi di questa presa di distanza. Al primo posto c'è, come prevedibile, l'esasperante lentezza dei processi, che viene impietosamente indicata dal 34,1 per cento delle persone ascoltate, mentre in seconda posizione il 19,8 per cento muove una critica più sottile, in qualche modo politica: non tutti sono uguali davanti alla legge e poi un importante 13,6 per cento sottolinea con amarezza che nel nostro Paese non c'è la certezza della pena. Insomma, il catalogo delle criticità è lungo e dovrebbe costringere i poteri dello Stato a una riflessione urgente per sbloccare finalmente le riforme che restano sepolte nell'armadio stracolmo degli annunci.
C'è il testo che porta il nome del Guardasigilli Marta Cartabia, per carità, e si spera che un qualche risultato possa arrivare attraverso la spinta dei referendum, ma il rischio di non raggiungere il quorum del 50 per cento è purtroppo molto alto.
Un altro elemento colpisce e mina drammaticamente la credibilità della magistratura: il 57,8 per cento degli italiani che si sono confessati con Eurispes ritiene che l'azione dei giudici sia condizionata dall'appartenenza politica, dunque dal pensarla in un modo piuttosto che in un altro, mentre il 31,1 per cento è convinto che le cose non stiano così. Se si scorporano i risultati del sondaggio si scopre, forse a sorpresa, che i primi a non scommettere sul buon andamento della macchina giudiziaria, giudicata inaffidabile, sono gli elettori che non si sentono rappresentati (73,4 per cento) e soprattutto quelli Cinque stelle ( 69,7 per cento).
Ma le differenze, rispetto agli altri spicchi dell'emiciclo, sono modeste e nessuno pare più inseguire il sogno di un ordine giudiziario come modello e punto di riferimento per la società.
L'ultima puntura di spillo è quella anagrafica: l'entusiasmo non va a braccetto con l'età, anzi. Sono proprio i ragazzi fra i 18 e i 24 anni ad avere poca (50,9 per cento) o nessuna (22,4 per cento) fiducia nella giustizia. Il 73,3 per cento degli under 24 entra nel mondo adulto osservando con preoccupazione, o peggio con scetticismo, quel che avviene nei tribunali.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 26 maggio 2022.
Al professor Sabino Cassese, eminente giurista ed ex giudice costituzionale, si addice il ruolo del fustigatore. Il suo ultimo libro «Il governo dei giudici» (Laterza) segnala che la grave crisi della giustizia è innanzitutto una divaricazione fortissima tra domanda e risposta del sistema. E i magistrati italiani, secondo lui, non sono affatto esenti da errori. Perciò Cassese è pronto a rovesciare ogni tavolo. «Il referendum - dice - è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione».
Intanto, professore, i tempi del processo civile si sono allungati ancor di più. Eppure la pandemia c'è stata per tutti. Come se lo spiega?
«I motivi sono numerosi. Innanzitutto, c'è una legislazione che non considera i tempi della giustizia e ignora che una giustizia in ritardo non è giusta. In secondo luogo, vi è un numero di eccessivo di avvocati: l'Italia ha 20 milioni di abitanti in meno della Germania e 100 mila avvocati in più. In terzo luogo, vi è l'organizzazione rudimentale del processo, a cui si sta ponendo mano con il cosiddetto ufficio del processo. Infine, c'è la completa disattenzione, da parte della magistratura, dei tempi della giustizia».
Lei scrive che, anche in Italia, la giustizia acquista sempre maggior peso, solo che da noi il sistema non riesce a stare al passo con questo ruolo crescente. Colpa dei magistrati o colpa del sistema?
«La macchina della giustizia è così complessa e le disfunzioni sono tante, che stabilire imputazioni e attribuire colpe è molto difficile. Vi è un insieme di concause che producono l'attuale situazione, a partire dalla antiquata distribuzione dei tribunali sul territorio fino alla irrazionale assegnazione dei magistrati ai tribunali, passando per la quasi completa assenza di attenzione per gli aspetti che riguardano i tempi e gli impatti delle decisioni sulla domanda di giustizia».
Ritiene che le riforme Cartabia del penale e del civile riusciranno a farci invertire la china?
«Non credo che risolveranno i problemi, ma credo che vadano nella direzione giusta.
L'idea di fondo che la giustizia sia un organismo della cui organizzazione, della cui efficienza, delle cui performance ci si deve interessare, costituisce il punto d'avvio di ogni possibile riforma della giustizia. Purtroppo, tra i magistrati è diffusa un'idea diversa della giustizia, atemporale, incapace di misurare se stessa e i propri effetti, non correlata con la domanda sociale».
Lo sciopero dei magistrati non è andato bene.
«Ho già detto, prima dello svolgimento dello sciopero, che si trattava di un atto suicida. I risultati hanno confermato il giudizio. La motivazione ufficiale era: vogliamo essere sentiti. Di fatto, la motivazione era un'altra: vogliamo decidere noi».
Lei denuncia una «continuità» tra alcune procure, una parte dell'informazione, e pezzi della politica. Ciò creerebbe un vulnus quantomeno culturale nel corpo stesso della magistratura. Se questa è la diagnosi, che cosa pensa del quesito referendario per la separazione assoluta delle funzioni tra inquirente e giudicante?
«Ritengo che sia un dovere di tutti i cittadini partecipare ai referendum ed esprimersi. Ritengo, in secondo luogo, che bisognerà votare a favore di quei quesiti che affrontano problemi che non saranno stati risolti dal Senato nell'ultimo passaggio della riforma Cartabia.
Il referendum è uno strumento poco adatto alla riforma della giustizia, ma può diventare un mezzo di sollecitazione di un Parlamento che non riesce a decidere.
Non credo che la separazione delle carriere sia risolutiva, ma ha acquisito sia nella percezione pubblica, sia nel modo in cui viene considerata dal corpo della magistratura, un significato tale per cui può servire da stimolo per i magistrati assegnati alle funzioni requirenti e inquirenti al rispetto di quell'articolo della Costituzione che prescrive la riservatezza dell'accusa. Detto questo, ritengo che si tratta di due mestieri diversi e che sarà bene reclutare le persone chiamate svolgerli con criteri diversi».
Sugli altri quesiti: quale la sua posizione sul quesito che limita la carcerazione preventiva? E sull'abrogazione della legge Severino, nella parte che colpisce gli amministratori in presenza di sentenze non definitive? Sulla valutazione estesa agli avvocati e professori universitari nei giudizi di professionalità per i magistrati (idea recepita parzialmente anche questa nella riforma in itinere)? «Ripeto: se il Parlamento non decide per tempo, sarà giocoforza rispondere positivamente ai quesiti referendari».
Il tema del Csm è ovviamente centrale in ogni disegno di riforma. Il quesito referendario elimina la raccolta di firme per una candidatura. Il problema è affrontato in maniera simile dal ddl in discussione, ma si intende cambiare anche la legge elettorale dei giudici. Lei pensa che si arriverebbe sul serio a limitare le degenerazioni del correntismo, oppure auspica un intervento più radicale?
«Certamente il problema non sarà risolto. Tuttavia ci si sarà avviati verso una soluzione, da tanto tempo attesa. Per questo motivo, anche i primi passi vanno salutati con favore. Il Csm vedrà la soluzione dei suoi problemi quando la smetterà di ritenersi organo di autogoverno e comincerà a svolgere davvero le funzioni che ad esso assegna la Costituzione. Ben due volte, all'articolo 87 e all'articolo 104, la Costituzione dispone che il presidente della Repubblica presiede il Consiglio superiore della magistratura.
L'articolo 105 definisce chiaramente i compiti del Consiglio: «Spettano al Consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti nei riguardi dei magistrati». Solo queste sono le funzioni e vanno svolte secondo i criteri dettati dalla legge».
Mattarella alle toghe: per essere utili al Paese dovete studiare di più. Sabrina Cottone il 12 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il capo dello Stato sferza i magistrati: sempre maggiore l'esigenza di continuo aggiornamento.
Bastano tre minuti di un discorso pacato, asciutto e apparentemente di circostanza perché Sergio Mattarella ricordi ai magistrati come sia avvertita la sempre maggiore «esigenza di formazione, aggiornamento», di avere «un punto di riferimento», per i «tanti eventi, esigenze e novità che richiedono approfondimento e ampliamento».
Il capo dello Stato e presidente del Consiglio superiore della magistratura non cita nessun fatto in particolare all'inaugurazione romana della Scuola superiore della magistratura, ma il pensiero corre alla riforma della giustizia, ai referendum, agli scandali del sistema Palamara. Sullo sfondo la morte drammatica del magistrato Mario Amato, cui è intitolata la Scuola, nel medesimo anno in cui veniva assassinato anche il fratello del presidente, Piersanti Mattarella.
Il capo dello Stato parla in un lussuoso attico con vista sulla fontana di Trevi, nuova sede della Scuola. Un immobile sottratto alla criminalità organizzata, luogo passato «da ostentazione dell'illegalità a sede dell'organismo che cura la formazione dei magistrati». Schiaffo non solo simbolico.
Mario Amato, che dà il nome alla scuola, sostituto procuratore della Repubblica di Roma, fu assassinato nel giugno 1980, a quarantacinque anni, dall'organizzazione eversiva neofascista dei Nar, sulle cui attività indagava. Una figura modello. «L'operato e l'impegno di Mario Amato, così come quello di tanti magistrati assassinati, costituiscono una lezione di comportamento e di interpretazione del ruolo del magistrato che la Scuola fa proprio e trasmette» dice Mattarella.
Pochi mesi prima della morte di Amato, nel gennaio dello stesso anno, il sanguinoso 1980, era stato assassinato il fratello del futuro presidente della Repubblica, quel Piersanti Mattarella che da presidente della Regione Siciliana aveva combattuto la mafia con i fatti, cercando anche di fare pulizia tra gli appalti e che per questo fu ucciso. La moglie di Piersanti assicurò di aver visto dalla finestra un noto esponente dei Nar ma ciò non bastò perché l'organizzazione eversiva neofascista fosse coinvolta nelle condanne, che si sono limitate a soli esponenti della mafia. La dinamica esatta dell'omicidio rimane una delle pagine inquietanti della storia repubblicana.
Resta da attendere il prossimo discorso di Mattarella, che sarà a Sorrento tra i presenti al meeting «Verso Sud», voluto dal ministro per la Coesione territoriale Mara Carfagna e realizzato da The European House-Ambrosetti, i medesimi organizzatori del forum di Cernobbio.
Riforma giustizia tributaria: cose dell’altro potere (costituzionale o meno). Angelo Lucarella, Giurista e saggista, su Il Riformista il 16 Aprile 2022.
È un mondo, quello della giustizia tributaria, che per riformarlo occorre viverlo. Primo per vestire i panni del difensore dei contribuenti con tutte le implicazioni che ciò comporta. Secondo, non meno importante del primo, per vestire i panni del giudicante con tutte le sue contraddizioni. Terzo, non meno importante del primo e del secondo, per vestire i panni del contribuente con tutte le sue preoccupazioni. Manca un ultimo motivo, certamente, meno importante di tutti gli altri elencati. Tuttavia è, quasi paradossalmente, il più essenziale a rendere l’idea di quale sia lo stato dell’arte (in termini politici e non): vestire i panni del c.d. “visitatore occasionale di cantiere”. Quest’ultimo è, come può immaginarsi, il “chiunque” pieno di indifferenza rispetto a quanto accade in questo mondo. Mondo la cui cornice normativa va adattata ed orientata al costituzionale stando ai tempi ed alla maggior consapevolezza giuridico-sociale maturata sulla problematica.
Un ordine alfabetico minimo di riforma si può ipotizzare. Partiamo dalla lettera A (e per ragioni intuibili non si potrà arrivare alla Z per elencare tutti i problemi da fronteggiare per la giustizia tributaria senza, però, rinunciare a farlo successivamente). “A” come abrogazione: occorre cancellare la norma entrata in vigore a dicembre 2021 che porta il nome di “Emendamento Pittella” (di cui forse quest’ultimo, non essendo un giurista o fiscalista, ha colpe ma non meno importanti dell’intero Parlamento che nulla ha opinato in merito). Per intenderci, detta norma vieta (disorientativamente e discutibilmente) l’ammissibilità dei c.d. “ricorsi al buio” per difendere i contribuenti. La Cassazione guardingamente, poche settimane fa, ha sottolineato come si tratti di una norma non solo di dubbia costituzionalità, ma che espone lo Stato italiano alla violazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. Come anche un corsista di giurisprudenza al primo anno può facilmente decifrare, quanti contribuenti finiranno sul lastrico finché la Consulta non dichiarerà l’incostituzionalità?
“B” come buona fede (non “Bonafede”) perché è l’idea di riforma che serve per tornare a far maturare la fiducia nella giustizia da parte dei cittadini e da parte dello Stato nei cittadini stessi. Cosa che latita nella mente del legislatore, soprattutto, tenuto conto dell’audizione parlamentare del 7 aprile scorso di Ernesto Maria Ruffini, direttore di Agenzia delle Entrate nonché dell’Agenzia della riscossione nazionale (ex Equitalia per intenderci), che nel rappresentare i dati di affidamento in carico esattoriale ha manifestato, altresì, la preoccupazione in termini di ingolfamento ed intasamento del magazzino fiscale. Dato l’andazzo, chiediamoci francamente, quante occasioni perde lo Stato in ordine al mancato recupero delle persone al lavoro (specie partita iva medio-piccole) se non stabilizza rottamazioni e altri strumenti di pace fiscale anche alla luce della crisi pandemica?
“C” come “contenziosmosi”: conio che in quest’analisi (si spera funzionalmente) serve a rappresentare come il contenzioso influenzi lo sviluppo del Paese. Per questo in relazione al fine della lettera B è necessario recuperare al lavoro quanta più gente possibile (in primis facendo uscire unità anche dal reddito di cittadinanza facendoli tronare contribuenti). Ebbene, utile è anche focalizzarsi su un dato di fatto: metà dei giudizi tributari in Cassazione viene ribaltato a favore dei contribuenti. Delle due l’una: o sbagliano i giudicanti (nei primi due gradi di causa) o sbagliano gli uffici accertatori e/o riscossori (a monte).
“D” come diritto di difesa che deve essere la genesi nonché il fine stesso di una idea di giustizia che si basi su due direttrici insuperabili: parità di trattamento tra pubblico e privato e giusto processo. Due principi, quest’ultimi, che nella Costituzione si legano sinfonicamente come note trine: 3, 24, 111. Allora è qui che occorre pensare, anzitutto, a chi deve fare il giudice tributario spostandoci, ancora una volta, su una domanda sacrosanta. Possibile che l’Italia, culla del diritto, ha un impianto normativo in cui si prevede che un giudice requirente-indagatore (c.d. Procuratore della Repubblica presso l’ufficio di Pubblico Ministero) possa, al contempo, fare il giudicante in sede tributaria? Al netto del fatto che una persona (un giudice requirente) possa essere terza e imparziale nell’animo (e perciò a prescindere dal ruolo lavorativo e di incardinamento nell’amministrazione giudiziaria), si giunge ad una riflessione conclusiva sulla questione.
Quanto esposto in questo passaggio non rappresentata una stortura genetica del nostro diritto che non altro si traduce in una incostituzionalità stessa (non dichiarata sino ad oggi ovviamente) di un impianto giudiziario-tributario pensato male e generato negli anni novanta in un momento storico, aprioristicamente iper-manettaro, di tendenziale considerazione colpevolista del contribuente? Se tentassimo di spiegare ad un piccolo commerciante queste cose ci risponderebbe che si tratta di “cose dell’alto mondo”. Come dargli torto, ma forse meglio dire “cose dell’altro potere”. Quello dell’indifferenza. Un po’ come quel visitatore occasionale di cantiere che si ferma, guarda e passa. Tanto non tocca a lui (pensa).
Politica e magistratura quell'equilibrio precario (e oggi c'è lo sciopero). Più che di una vera e propria riforma dell’ordinamento giudiziario, come enfaticamente qualificata, si tratta di una serie di interventi mirati tesi a risolvere alcune problematiche – e alcune criticità – nell’organizzazione della giustizia italiana e, dunque, nel suo funzionamento. Sergio Lorusso su la Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Maggio 2022.
Era dai tempi di Silvio Berlusconi premier che la magistratura non «scioperava». Il clima politico e sociale è profondamente mutato, perché allora si temeva l’assoggettamento all’esecutivo, in un contesto di profondo scontro tra poteri, mentre oggi si punta l’indice su alcuni contenuti della riforma dell’ordinamento giudiziario ritenuti lesivi del proprio status da parte di una magistratura fortemente delegittimata da vicende come quella dello scandalo Palamara.
Più che di una vera e propria riforma dell’ordinamento giudiziario, come enfaticamente qualificata, si tratta di una serie di interventi mirati tesi a risolvere alcune problematiche – e alcune criticità – nell’organizzazione della giustizia italiana e, dunque, nel suo funzionamento.
In particolare, si è riportato a 30 il numero dei membri elettivi del CSM, introducendo un nuovo sistema elettorale per la componente togata – a dire il vero piuttosto farraginoso – che ridisegna i collegi nella speranza di eliminare (o quanto meno di attenuare) il peso delle correnti. Se la speranza si trasformerà in illusione sarà la prova sul campo a dirlo. Resta il fatto che il fenomeno correntizio resta culturalmente scolpito. Nato nel 1965 a Gardone con tutt’altri fini – rappresentare il dibattito interno alla magistratura e i vari orientamenti in grado di incidere nell’interpretazione della legge in linea con l’attuazione della Costituzione – si è trasformato in uno strumento di potere decisivo nell’assegnazione degli incarichi.
Un altro punto caldo è costituito dal fascicolo per la valutazione del magistrato, che dovrà contenere dati statistici e documentazione necessari per soppesare l’attività svolta annualmente nell’ambito delle periodiche valutazioni di professionalità da parte del CSM. Vissuto come “punitivo” dai futuri destinatari della novella legislativa e come foriero di carrierismi, burocratizzazione e gerarchizzazione, costituisce il tentativo di superare le distorsioni dell’attuale assetto che, spesso traducendosi in automatismi, riduce lo spazio per il merito. L’ottica è quella di ridare efficienza – che è altra cosa dall’efficientismo – a un sistema giudiziario asfittico. La stessa che ispira la riforma Cartabia del processo penale, attualmente in dirittura d’arrivo. Obiettivo imprescindibile in un Paese come il nostro che costituisce il regno della “giustizia lumaca”. L’importante è non trasformare i magistrati in numeri, guardare alla qualità e non soltanto alla quantità (come del resto le norme fanno).
Ragioni concettuali e sistematiche imporrebbero – che piaccia o no – la separazione delle carriere (previa riforma costituzionale). Se è vero che il nostro è un processo di stampo (moderatamente) accusatorio, se abbraccia la logica del «processo di parti», appare improprio invocare la «cultura della giurisdizione» a difesa dell’unicità delle carriere, come ai tempi del codice 1930, quando – in uno scenario assai lontano dall’attuale, a vocazione tendenzialmente inquisitoria e figlio del regime fascista – il pubblico ministero veniva definito con l’ossimoro «parte imparziale» da Giovanni Leone, il quale giustificò la soluzione poi adottata dall’Assemblea costituente con la natura «anfibia» di tale organo. E questo nonostante posizioni radicali come quella di Giuseppe Bettiol, ad avviso del quale le funzioni del pubblico ministero non dovevano essere «incapsulate» in quelle del giudice ma da queste distinte, ritenendo propria dei regimi totalitari la visione del primo quale «organo di giustizia».
Aver adottato forme tipiche degli ordinamenti processuali di common law, ove tale separazione è netta, non deve far apparire come scandaloso lo scindere – anche sotto il profilo delle carriere – la funzione inquirente da quella giudicante. Un tale approccio, anzi, rappresenterebbe il naturale completamento della riforma del 1988, per molti versi incompiuta. Riservando la massima attenzione, ça va sans dire, a meccanismi che tutelino da interferenze esterne la pubblica accusa nell’esercizio della sua attività.
Non si può negare che la magistratura attraversi un periodo di crisi profonda, dovuta non soltanto a scandali e dossier che hanno ferito il CSM, compromettendo il suo ruolo istituzionale, e alla cui base vi è il pernicioso fenomeno delle correnti, ma anche i guasti e la scarsa efficienza complessiva della macchina della giustizia.
La conseguenza?
Una perdita di credibilità crescente e inarrestabile, tanto che gli indici di gradimento della magistratura da parte dell’opinione pubblica sono ormai in caduta verticale ed equiparati a quelli della negletta politica. In questo contesto, più che alimentare sterili contrapposizioni, occorrerebbe potenziare quel precario equilibrio tra funzioni dello Stato.
Sciopero magistrati, l’Anm: “Adesione nazionale al 48%”. La Stampa il 16 maggio 2022.
E' del 48% l'adesione nazionale allo sciopero proclamato dall'Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm e dell'ordinamento giudiziario. Il dato finale è fornito dalla stessa Anm. Adesioni diverse di regione in regione: a Milano la percentuale sale rispetto alla media al 51%, nelle Marche sfiora addirittura il 67%. L'adesione più alta a Bologna, con il 73%. «In un contesto generale non facile, c'è stato un livello di adesione all'astensione intorno al 50%, comunque importante», ha dichiarato il segretario dell'Anm Salvatore Casciaro. «Il che dimostra come l'Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati. Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi». Gli avvocati«Oggi e' stato solo un giorno triste, l'ennesimo per la giustizia». E' quanto afferma la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, sottolineando che «non poche perplessità e molto sconcerto ha suscitato nell'avvocatura la decisione dell'Associazione nazionale magistrati di scioperare contro la riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario. Fino all'ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c'e' stato. Un'occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell'ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione».
Giustizia, l'Anm sciopera contro la riforma: "Meno di un magistrato su due". L'adesione al 48%. Il Tempo il 16 maggio 2022.
Dal Palazzo di Giustizia di Milano, simbolo della lotta alla corruzione e di Mani Pulite, l'Associazione nazionale magistrati incrocia le braccia per protestare contro la riforma dell'ordinamento giudiziario voluta dalla ministra Marta Cartabia. Riforma che per le toghe è stata "peggiorata" dai tanti emendamenti proposti e venerdì verrà discussa e votata in Senato dopo aver incassato il via libera della Camera.
Era dal 2010, quando a Palazzo Chigi c'era Silvio Berlusconi, che le toghe non si astenevano dal lavoro per un giorno. La protesta, ha spiegato il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia - nelle intenzioni dei 9mila magistrati che in assemblea l'hanno votata - aveva come obiettivo quello di chiedere alla politica di "correggere" alcuni passaggi delle norme al vaglio del Parlamento, che non sono destinate a migliorare il sistema Giustizia. Al contrario, per Santalucia, rischiano di renderlo più rigido e lento, allontanando ancora di più gli obiettivi richiesti dal Pnrr. Questa riforma, chiarisce Santalucia, "forse risulta compatibile" con il dettato della Costituzione, ma certamente è "poco conforme allo spirito" a cui è ispirata. Tra i nodi più contestati dalle toghe, c'è la separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudice e l'introduzione del fascicolo del magistrato. Nella riforma "ci sono dei condizionamenti - chiarisce Santalucia - : si pensa di irrigidire l'organizzazione della magistratura per controllare i magistrati" che "devono essere responsabili" ma "il sistema disciplinare non deve essere una gabbia".
Tutte ragioni che hanno convinto solo in parte i magistrati a scioperare. A livello nazionale l'adesione è stata del 48%. A Milano, ad esempio, ha partecipato il 51% dei magistrati. A Roma, invece, il 38% e tra i magistrati della Cassazione appena il 23%. Maggiore successo ha riscosso l'iniziativa a Palermo, dove ad astenersi dal lavoro è stato il 58% delle toghe. A Napoli ha incrociato le braccia il 53% dei magistrati, mentre a Salerno il 54%. Fanalino di coda Trento, con appena il 25% di adesioni.
"In un contesto generale non facile, c'è stato un livello di adesione all'astensione intorno al 50%, comunque importante", ha fatto notare il segretario generale dell'Anm Salvatore Casciaro. E questo "dimostra come l'Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati. È una protesta di contenuti - aggiunge - motivata e capillare, che viene dal basso, intendo dire dai piccoli uffici giudiziari, quelli più esposti sul piano dei carichi di lavoro, e, elemento da sottolineare, dai giovani magistrati che intravedono nelle linee di riforma una mortificazione della loro funzione, e soprattutto un cuneo in grado di incrinare, in prospettiva futura, l'assetto costituzionale della giurisdizione e la qualità del loro lavoro giudiziario.
Il buon senso, soprattutto in una fase in cui si chiede uno sforzo corale al mondo della giustizia per corrispondere ai target del Pnrr, dovrebbe orientare le forze politiche all'ascolto delle ragioni profonde di questa protesta - conclude - . Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi".
Molto critica, invece, è la voce dell'avvocatura. "Fino all'ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c'è stato - ha fatto sapere la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi - . Un'occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell'ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione". Per la presidente del Cnf "oggi è stato solo un giorno triste, l'ennesimo per la giustizia".
Addio toghe militanti. Lo sciopero fa flop: un magistrato su due non ha seguito l'Anm. Luca Fazzo il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
In Cassazione si astengono appena 2 su 10, a Torino solo 3 su 10, a Milano lavorano 6 su 10. L'agitazione del 2002 fu un plebiscito: 80%. E il sindacato ammette: "È andata male".
Una botta epocale, il segno che qualcosa si è rotto nel corpo profondo della magistratura italiana.
Lo sciopero indetto dall'Associazione nazionale magistrati contro la riforma della giustizia portata in Parlamento dal ministro Marta Cartabia sta tutta nel messaggio che ieri sera, a conti fatti, un esponente di spicco dell'Anm manda sulla chat interna: «È andata male». Anche se il leader delle toghe, Giuseppe Santalucia, parla di adesioni «sopra il 60» per cento, la sostanza è che lo sciopero è fallito. Le parole d'ordine catastrofiste di Santalucia e dei suoi colleghi, che in queste settimane hanno dipinto la timida riforma Cartabia come un attentato alla Costituzione, non hanno fatto breccia. Migliaia di magistrati hanno lavorato senza seguire le indicazioni del sindacato unico delle toghe. Anche se il dato complessivo fornito dall'Anm risultasse corretto (ma una tara storicamente va fatta) il problema è che lo sciopero è fallito platealmente in uffici cruciali del paese. In Cassazione su cinquecento magistrati sciopera solo il 23 per cento. Nel tribunale di Milano lavora più del 60 per cento. Nella procura della stessa Milano, quella che fu la roccaforte del «resistere, resistere, resistere» su 76 magistrati aderiscono in quaranta.
Napoli, che era stata la sede che più fortemente aveva chiamato alla lotta, si ferma al 55 per cento. Disastro a Roma e nel Lazio, dove per la stessa Anm l'adesione si ferma al 38 per cento. Ancora peggio a Torino, col 33 per cento.
Sono dati che rendono impietoso il confronto con l'ultimo sciopero della magistratura, indetto nel 2002 contro la riforma del ministro leghista Roberto Castelli e arrivato a adesioni oltre l'ottanta per cento. E che costringono a interrogarsi su quanto l'Anm, o almeno la sua attuale dirigenza, rappresentino davvero i magistrati italiani. Perché se l'Anm non rappresenta i magistrati allora le sue periodiche incursioni nel dibattito politico andrebbero soppesate diversamente.
Si è trattato d'altronde di uno sciopero deciso in modo singolare, dove non era chiaro se l'obiettivo fosse fermare la riforma presentata dalla Cartabia o un ostruzionismo preventivo agli emendamenti annunciati dal centrodestra. Dubbi sulla sensatezza dello sciopero erano venuti anche dai «duri» di Magistratura democratica, e giudizi pesanti erano piovuti anche da numi tutelari dell'Anm come Edmondo Bruti Liberati. Ma i vertici dell'Associazione hanno voluto andare avanti per la loro strada. E sono andati a sbattere. Il risultato è quasi surreale: per osteggiare una riforma che non riformava nulla, Anm va incontro a una sconfitta che rischia di essere epocale. E che porta a ipotizzare che l'epoca della «magistratura militante» sia ormai da considerare archiviata.
La débâcle è così netta che Eugenio Albamonte, uno dei leader della corrente di sinistra Area, se la deve prendere con una immaginaria campagna di stampa che avrebbe condizionato l'esito dello sciopero: «Tutto sommato, in considerazione anche della grande campagna che è stata fatta contro lo sciopero dei magistrati, che ovviamente colpisce anche gli stessi magistrati, nel senso che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, e così via, direi che è un dato comunque significativo».
Significativo sì, ma di cosa? Ieri, quando ancora le dimensioni della sconfitta non erano chiare, il presidente di Anm Santalucia arrivava a definire lo sciopero un «atto di generosità» dei giudici verso i cittadini, ma ammetteva che è arrivato nel pieno del «periodo di maggiore crisi della immagine della magistratura e della capacità di comunicazione all'esterno». Ma non spiega cosa Anm abbia fatto per migliorare la disastrata immagine della categoria, se non presentare il caso Palamara come un incidente di percorso e il suo protagonista come una pecora nera e continuare a avallare imperterrita la spartizione correntizia delle cariche e il rifiuto di ogni seria valutazione della produttività dei magistrati.
Poi si stupiscono se lo sciopero va male.
Adesione al 48%. Sciopero dei magistrati è un flop, adesione bassa: le toghe scaricano l’Anm. Paolo Comi su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Flop. Percentuali di adesione deprimenti, la media è del 48 percento, per lo sciopero indetto dall’Associazione nazionale magistrati per protestare contro la riforma della giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia. Un dato fra tutti: a Milano, ufficio giudiziario da sempre in prima linea contro i provvedimenti dell’esecutivo non graditi, vedasi il decreto Biondi nel primo governo Berlusconi, la percentuale delle toghe che ieri ha incrociato le braccia non ha raggiunto il 40 percento. Nel 2010, tanto per fare un confronto, la percentuale era stata più del doppio, il 92 percento.
Tra i 57 magistrati tirocinanti presenti al palazzo di giustizia di Milano, in particolare, hanno aderito allo sciopero appena in nove, pari a poco meno del 16 percento.
Tracollo in Cassazione, ufficio dove prestano servizio i vertici dell’Anm: il presidente Giuseppe Santalucia ed il segretario generale Salvatore Casciaro. A piazza Cavour, dove la percentuale degli scioperanti ha superato di poco il 22 percento, si è già iniziato a discutere delle loro dimissioni. In quasi tutti i grandi distretti la percentuale, comunque, è rimasta sotto il 50 percento: a Firenze il 39, a Venezia il 47 a Genova il 49. Solo a Napoli l’adesione ha raggiunto il 53. La soglia minima per il successo dello sciopero era stata fissata al 65 percento. Adesione più convinta solo nei piccoli tribunali, come quello di Busto Arsizio, dove prestano servizio 30 giudici, con il 90 percento. Fra le toghe contrarie alla protesta, il gup di Milano Guido Salvini secondo il quale quello di ieri è stato uno «sciopero ‘inventato’ che mirava a distrarre dai problemi veri che negli ultimi tempi hanno portato ai minimi storici la credibilità della magistratura: vi sarebbero stati altri temi su cui sollecitare il governo, ma questo è uno sciopero politico che tende ad uno scontro e ad influire, in modo pretestuoso, sull’indirizzo legislativo del Parlamento».
Per Salvini, che ha anche affisso un cartello davanti alla porta dell’ufficio per avvertire che non aderiva, «non possono essere usate come pretesto per lo sciopero le nuove ‘valutazioni’, ancora tutte da sperimentare». Valutazioni, è bene ricordarlo, che si riferiscono a ‘gravi anomalie’ e non al semplice annullamento di un provvedimento. «In realtà potrebbero evitare che gravi disastri processuali, alcuni dei quali, anche a Milano, tutti conosciamo, entrino, come spesso accade, addirittura quale nota di merito nel curriculum di un magistrato», ha puntualizzato Salvini, sottolineando che saranno sempre «altri magistrati, i Consigli giudiziari e il Csm, a redigere le valutazioni e non il ministro o il governo». Il giudice del processo sulla strage di piazza Fontana ha avuto una parola anche per i colleghi che invece hanno aderito allo sciopero: «l’hanno fatto perché è conveniente mostrarsi zelanti per assicurarsi qualche vantaggio futuro e conformisti nei confronti dei capi della magistratura».
Ed a proposito delle riforma e delle tanto temute valutazioni di professionalità, sempre ieri si è tenuta alla Camera una conferenza stampa con Enrico Costa di Azione e Riccardo Magi di +Europa durante la quale è stato distribuito un opuscolo con le 10 ragioni per cui il testo Cartabia è perfettamente in regola. «Dicono che è una riforma contro i magistrati. Ma non è vero. La riforma è per i cittadini, perché limita l’influenza delle correnti, responsabilizza i magistrati, riduce il fenomeno dei fuori ruolo, blocca le porte girevoli tra politica e giustizia, non limita in nessun modo l’indipendenza della magistratura, perché le decisioni sulle carriere dei magistrati e sulle sanzioni disciplinari sono riservate sempre al Csm», hanno sottolineato Costa e Magi.
«Lo sciopero – hanno aggiunto – è motivato soprattutto dall’avversione per l’adozione nella valutazione professionale dei magistrati di criteri oggettivi, per promuovere e valorizzare i bravi magistrati rispetto a quelli meno bravi, un obiettivo che dovrebbe essere condiviso da tutti». «L’Anm invece vuole tutelare un sistema basato su criteri vaghi dove le valutazioni sono ridotte a quasi delle formalità, come se il sistema giudiziario di oggi fosse perfetto e senza difetti. Ma non lo è», hanno quindi concluso i due parlamentari. La giornata di ieri, infine, è stata caratterizzata da diverse assemblee, aperte ai cittadini, agli esponenti politici e anche agli avvocati, per spiegare le ragioni dell’astensione.
Sciopero dei magistrati, Santalucia ammette la debacle: «C’è una spaccatura generazionale». Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Il commento del presidente dell'Anm dopo la giornata di astensione dalle udienze e dai provvedimenti giudiziari: «Direi che la magistratura, specie i colleghi più anziani, sono un corpo disilluso. Molti tra loro pensano che poco può cambiare e che sopravvivremo anche a questa»
«Dobbiamo riconoscere che c’è una spaccatura generazionale. I giovani colleghi sono preoccupati. Quelli più anziani mostrano forse un eccesso di disincanto». Lo afferma, in un’intervista a “La Stampa“, il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia sui dati che dicono che appena il 48% dei magistrati ha aderito allo sciopero proclamato dall’Associazione nazionale magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario.
«Scioperiamo – sottolinea – perché si pensa di controllare e irrigidire l’organizzazione della magistratura, per controllare i magistrati, che devono essere certamente responsabili e devono essere chiamati disciplinarmente a rispondere delle loro responsabilità, ma non con queste modalità. Il sistema disciplinare non deve essere una gabbia». Sulla rottura che si è consumata sul fatto di scioperare o no, Santalucia osserva: «Non so se queste cifre informali saranno confermate. Se così fosse, a titolo personale, mi sento di dire che c’è indubbiamente un momento di grande stanchezza della magistratura. Un forte disincanto. Direi che la magistratura, specie i colleghi più anziani, sono un corpo disilluso. Molti tra loro pensano che poco può cambiare e che sopravvivremo anche a questa. Invece i più giovani sono davvero preoccupati. In molti piccoli tribunali di frontiera c’è stato il 100% di adesioni. E guardi, tra noi potremo anche essere divisi sulle forme di reazione da adottare, ma nella sostanza non troverete quasi nessuno che pensa che questa sia una buona riforma».
Il fronte garantista esulta: "Un boomerang per i giudici". Anna Maria Greco il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
Azione e Più Europa: "Loro temono il cambiamento". Sisto (Fi): "Uno sciopero ingiustificabile nel merito".
Sbagliato, pretestuoso, intempestivo». Ma soprattutto lo sciopero dei magistrati è «senza argomenti», per Enrico Costa (nel tondo). Il vicesegretario di Azione dice che la clamorosa contestazione della riforma Cartabia «rischia di trasformarsi in un boomerang» per le toghe.
Meglio, per l'Anm, visto che l'adesione sembra così bassa da apparire un flop. «Si vuole lo sciopero per compattare i magistrati contro un nemico comune: il legislatore. Ma così dimostra che la magistratura non si fida di sé stessa, ha paura del cambiamento».
Non è solo Costa a dirlo, perché alla conferenza stampa a Montecitorio si schiera il fronte garantista di Azione e Più Europa, favorevole all'accordo raggiunto alla Camera ora all'esame del Senato e pronto alla mobilitazione per i referendum del 12 giugno, con gazebi in tutt' Italia. «Siamo pochi in Parlamento- dicono-, ma abbiamo ottenuto molte vittorie». In particolare, quella sull'emendamento Costa per il fascicolo per la valutazione professionale del magistrato, basato su successi e insuccessi in inchieste, processi, carcerazioni, che è una delle novità più indigeste per le toghe.
Per il presidente di Più Europa Riccardo Magi lo sciopero è «un atto corporativo e irresponsabile, in cui i cittadini non si riconoscono». Perché la riforma Cartabia vuol fare « passi avanti e con i referendum se ne faranno altri. «Non ci nascondiamo la difficoltà di raggiungere il quorum. Pesa la scarsa informazione, in particolare della Rai che, con dolo, relega in orari di basso ascolto i confronti sui quesiti. Poi ci sono le responsabilità dei radicali, che hanno "appaltato" tutto alla Lega, e il sostegno altalenante di questa, forse nel timore di vedersi attribuire un possibile insuccesso. Poi, la Consulta ha cancellato 3 quesiti di richiamo per la popolazione». La riforma, sottolinea il vicesegretario di Azione Andrea Mazziotti, «non è contro i magistrati, ma per i cittadini, ma si vuole imporre lo schema del "noi contro di loro", con il governo e la politica cattivi».
Per il governo parla il sottosegretario alla Giustizia di Fi Francesco Paolo Sisto: «Lo sciopero è una mobilitazione legittima dal punto di vista sindacale, ma del tutto ingiustificabile dal punto di vista del merito. Sono state raccolte istanze importanti dell'Anm. Ed escludo che la riforma sia incostituzionale».
Per Azione, il testo limita l'influenza delle correnti, responsabilizza i magistrati, riduce i fuori ruolo, blocca le porte girevoli, non limita l'indipendenza della magistratura perché su carriere e sanzioni disciplinari decide il Csm. Sono 10 le ragioni per cambiare la giustizia. 1: Le valutazioni di professionalità delle toghe sono positive al 99,2% e tutte le scelte le fanno le correnti. 2: i processi di piazza si fermano con la legge sulla presunzione di innocenza e l'illecito disciplinare connesso. 3:1000 ingiuste detenzioni l'anno costano 900 milioni per indennizzi. 4: Per responsabilità disciplinare l'1,4% di condanne, archiviato il 90% delle denunce, ma ora ci sarebbero sanzioni per pm e giudici responsabili di ingiuste detenzioni. 5: tra il 2015 e il 2021 pagati 644 milioni per irragionevole durata dei processi. 6: 8 condanne di magistrati per responsabilità civile in 12 anni, l'1,2% delle cause. 7: 200 magistrati fuori ruolo ma la riforma li riduce. 8: 4.613.477 processi pendenti, assoluzioni al 50% in primo grado. 9: Il 40% delle prescrizioni nelle indagini preliminari, non per colpa della difesa. 10: 130mila intercettazioni l'anno. Nel 2019 spesi 191 milioni di euro.
Toghe, sciopero flop: si astiene solo il 48% dei magistrati. Un boomerang per l’Anm che parla di «campagna mediatica». Il Cnf: «Ragioni incomprensibili, ha creato solo disagio». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Una vera debacle, lo sciopero indetto dall’Anm per la giornata di ieri: neanche la metà dei magistrati ha incrociato le braccia. Secondo i dati ufficiali delle 19.30, la percentuale di adesione è del 48,45 per cento, ossia 4.285 magistrati su 8.844. Il risultato più “raggelante” arriva forse da Roma, che si ferma al 38%. «Il dato statistico non ci accontenta: dobbiamo lavorare per riportare i colleghi negli spazi comuni – ha spiegato il segretario della giunta Anm del Lazio, Emanuela Attura –. A conferma di ciò il fatto che la tavola rotonda aperta che si è svolta oggi (ieri, ndr) è riuscita molto bene, un momento di confronto costruttivo e utile». Vi ha partecipato anche Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma, che ha ribadito: «Il metodo del confronto con gli avvocati, che in altri casi è stato attuato e che si è rivelato proficuo, in questa riforma avrebbe contribuito a individuare un percorso più rapido per l’approvazione e per marcare l’effettivo superamento di una crisi della magistratura nell’interesse di tutti i cittadini».
Sciopero dei magistrati, parla Casciaro
Se nel distretto di Milano ha scioperato il 51% delle toghe, a Milano città si è astenuto dall’attività appena il 39% dei magistrati. Pure in quello di Napoli si arriva pelo pelo al 53%. Mentre in Cassazione ha scioperato solo il 23% dei consiglieri. Non c’è dubbio, insomma, che quella di ieri sia stata una giornata nera per l’Anm: si è voluta confrontare con una sfida politica nazionale che è chiaramente andata persa. E qualche magistrato già si interroga sul futuro del presidente Giuseppe Santalucia e sulle sue possibili dimissioni. Eppure il segretario generale dell’associazione, Salvatore Casciaro, prova a ridimensionare la sconfitta: «In un contesto generale non facile c’è stato un livello di adesione all’astensione intorno al 50%, comunque importante. Il che dimostra come l’Anm si sia fatta interprete autorevole del disagio e della preoccupazione reale di tanti magistrati». E infine auspica: «Ci sono ancora i tempi e gli spazi per modifiche migliorative del testo sul Csm, e spero ci sia anche la volontà delle forze politiche di confrontarsi per apportare i dovuti correttivi».
Sciopero dei magistrati, il commento di Albamonte
Ma con questi numeri viene chiaramente spazzata via ogni ipotesi di fare pressione sul Senato. La magistratura ne viene fuori divisa e debole, con una Anm incapace di aggregare i magistrati intorno a una iniziativa che aveva l’ambizione di dare una scossa al Parlamento, di evitare l’approvazione di una riforma definita «punitiva» e che ridurrebbe il magistrato a burocrate. Tuttavia non parla di flop neanche Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg. Sollecitato dall’AdnKronos, punta il dito su una campagna mediatica ostile: «Tutto sommato, in considerazione anche della grande campagna che è stata fatta contro lo sciopero dei magistrati, che ovviamente colpisce anche gli stessi magistrati, nel senso che leggiamo i giornali, guardiamo la televisione, seguiamo le agenzie e così via, direi che è un dato comunque significativo». «Sono convinto – osserva infine il pm di Roma – che il dato da tenere in considerazione siano le quasi 50 iniziative organizzate in giro per l’Italia in altrettanti tribunali, per aprire il dibattito all’opinione pubblica, alla stampa, alla società civile, agli avvocati e agli altri professionisti che lavorano con noi».
Sciopero dei magistrati, le dichiarazioni di Musolino
Chi invece prova a fare autocritica è il segretario di Magistratura democratica, Stefano Musolino, che così commenta al Dubbio: «La stragrande maggioranza della magistratura giudica questa riforma pessima, anche la maggior parte di quelli che non hanno scioperato. L’esito della giornata di astensione è quello di una magistratura apparentemente divisa, ma, in realtà, è anche l’effetto di una proclamazione eccessivamente affrettata. Proprio per questo avevamo richiesto un tempo più lungo per spiegare meglio le ragioni dello sciopero dentro e fuori la magistratura. Non abbiamo avuto la possibilità di costruire una sintonia collettiva interna, né la capacità di trovare interlocutori solidali all’esterno. I nodi nevralgici della crisi pretendono una seria volontà di auto- riforma, capace di coinvolgere tutti gli attori della giurisdizione. Come Anm, sino ad oggi, non siamo stati capaci di farci carico di questo sforzo, e questo ci ha fatto perdere autorevolezza nelle interlocuzioni con il riformatore, ci ha isolato da accademia, avvocatura, sindacati del personale amministrativo e società civile. Restano ferme le buone ragioni dello sciopero ed è necessario partire dai confronti avviati in questi ultimi giorni in tutte le sedi distrettuali, per recuperare un dialogo, finalizzato a migliorare la riforma».
Sciopero dei magistrati, l’intervento del presidente del Cnf
Ha parlato di «giorno triste, l’ennesimo per la giustizia» la presidente del Cnf Maria Masi: «Non poche perplessità e molto sconcerto ha suscitato nell’avvocatura la decisione dell’Anm di scioperare contro la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario. Fino all’ultimo momento abbiamo confidato in un ripensamento che non c’è stato. Un’occasione sprecata per dimostrare che, anche di fronte a ipotesi di riforma non del tutto condivisibili, la magistratura italiana, a cui la Costituzione affida il potere e il dovere di applicare la legge e alla quale i giudici sono soggetti, avrebbe potuto scegliere di far prevalere il senso di responsabilità nei confronti dei cittadini e dell’ordinamento e il rispetto nei confronti della sua stessa essenziale funzione. Ancor meno si comprendono le dichiarazioni del presidente Anm Santalucia, soprattutto quando si è riferito al “pericolo di un mutamento del modello di magistratura” che avrebbe convinto i giovani magistrati ad aderire allo sciopero. Esiste già il riferimento a una magistratura ‘ modello” ed è a quella che i giovani magistrati dovrebbero guardare, perpetuandone il coraggio e la generosità».
Così finisce l’egemonia dei magistrati. Che rimarrà dello sciopero indetto dall'Anm contro la riforma Cartabia? Questo flop, si spera, ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica...Davide Varì su Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Che rimarrà di questo sciopero? Prima di tutto rimarrà la hybris di un piccolo gruppo di magistrati che si è scontrata col buon senso e la ragionevolezza della gran parte delle toghe. E rimarrà la cenere di un sindacato, l’Associazione nazionale magistrati, che di fatto è stato sfiduciato dai propri iscritti, trascinati in uno sciopero che non hanno capito e che non volevano.
Intendiamoci, nessuno in questo giornale ha mai negato il diritto all’agibilità politica dei magistrati, né ha mai messo in dubbio la loro legittima soggettività politica, ma è indubbio che in questi mesi abbiamo assistito a un salto di qualità delle loro rivendicazioni che ha sfiorato la legittimità costituzionale. C’è infatti stata una vera e propria discesa in campo, una “chiamata alla battaglia” contro una riforma votata dal Parlamento democraticamente eletto, che ha corroso ancora una volta il fragile equilibrio tra poteri.
Come ha infatti spiegato sul Dubbio il professor Giovanni Guzzetta, le toghe hanno rilanciano la mobilitazione non per tutelare “ le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione politica”. Il che li ha posti in contrasto diretto col nostro parlamento, col potere legislativo che ha il diritto e il dovere di riformare (anche) la nostra giustizia. Ma non v’è dubbio che questo flop ridisegnerà e cambierà i rapporti di forza tra giustizia e politica, e chiuderà, speriamo per sempre, la stagione dell’egemonia dei magistrati che in questi 30 anni ha destabilizzato l’equilibrio istituzionale.
Stop alle porte girevoli e “pagelle” alle toghe: ecco la riforma del Csm. GIULIA MERLO su Il Domani il 14 aprile 2022
L’esame del testo si è concluso in commissione dopo giorni di scontri e un lavoro proceduto a rilento, ma la maggioranza è riuscita a rispettare la scadenza di calendario fissata per il 19 aprile.
Dopo un iter di approvazione lungo e farraginoso e un ritardo di quattro mesi dalle previsioni del Pnrr, la riforma dell’ordinamento giudiziario arriverà in aula alla Camera.
L’esame del testo si è concluso in commissione dopo giorni di scontri e un lavoro proceduto a rilento, ma la maggioranza è riuscita a rispettare la scadenza di calendario fissata per il 19 aprile.
La riforma, per come è ora formulata, ha trovato il difficile accordo tra tutti i partiti della maggioranza ad eccezione di Italia Viva, che ha annunciato l’astensione. Salvo sorpresa, dunque, non ci dovrebbe essere il rischio di tranelli nel voto d’aula.
La magistratura associata, invece, si sta opponendo fermamente e ormai lo sciopero è quasi certo: era stato così anche nel 2005, alla viglia della precedente riforma dell’ordinamento giudiziario poi approvata nel 2006 dal ministro della Giustizia Roberto Castelli, durante il governo Berlusconi.
Il ddl sull’ordinamento giudiziario contiene una parte di legge delega al governo e un’altra di norme immediatamente applicative.
IL FASCICOLO DEL MAGISTRATO
La riforma ha dato il via libera all’introduzione del fascicolo per la valutazione del magistrato, che contiene “per ogni anno di attività i dati statistici e la documentazione necessaria per valutare il complesso dell'attività svolta, inclusa quella cautelare, sotto il profilo sia quantitativo che qualitativo, la tempestività nell'adozione dei provvedimenti, la sussistenza di caratteri di grave anomalia in relazione all'esito degli atti e dei provvedimenti nelle successive fasi di giudizio".
Sulla base di questo fascicolo diventerà uno strumento essenziale sia «ai fini delle valutazioni di professionalità» e quindi gli aumenti progressivi di stipendio, ma anche per «il conferimento degli incarichi» direttivi e semidirettivi da parte del Consiglio superiore della magistratura, ovvero gli scatti di carriera.
LE PORTE GIREVOLI
La riforma prevede il collocamento fuori ruolo di tutti i magistrati che vengono eletti in parlamento o che assumono incarichi di governo, una volta cessati dalla carica.
I magistrati che si candidano ma non vengono eletti non possono esercitare nelle regioni dove si sono candidati.
I magistrati che invece assumono ruoli apicali ma tecnici dentro i ministeri, come i capi di gabinetto, devono rimanere fuori ruolo un anno prima di rientrare in funzione attiva e non potranno avere incarichi direttivi o semidirettivi per i successivi tre anni.
LA SEPARAZIONE DELLE FUNZIONI
Il magistrato potrà passare una sola volta da una funzione all’altra, requirente o giudicante, e la richiesta va fatta entro il termine di 6 anni. Dopo, potrà solo passare da civile a penale e viceversa.
Questa norma è immediatamente applicativa e modifica la norma sottoposta a referendum abrogativo il prossimo 12 giugno.
LA LEGGE ELETTORALE DEL CSM
La legge elettorale sarà di tipo proporzionale con un correttivo maggioritario. Il sorteggio temperato dei candidati è stato escluso, sostituito con il sorteggio invece dei collegi.
Verranno infatti sorteggiate le corti d’appello per formare i collegi in cui i magistrati voteranno per eleggere i togati. In questo modo si dovrebbe disincentivare l’accordo tra i gruppi associativi.
I NUOVI ILLECITI DISCIPLINARI
E’ stato approvato anche l’inserimento di nuovi illeciti disciplinari per i magistrati. Uno riguarda la previsione sul mancato rispetto delle recenti norme approvate nel decreto legislativo sulla presunzione di innocenza.
Un altro, invece, sembra scritto per il caso Palamara: sarà illecito disciplinare "l'adoperarsi per condizionare indebitamente l'esercizio delle funzioni del Csm, al fine di ottenere un ingiusto vantaggio per sè o per altri o di arrecare un danno ingiusto ad altri"; è altresì un illecito disciplinare "l'omissione, da parte di un componente del Csm, della comunicazione agli organi competenti di fatti a lui noti che possono costituire illecito disciplinare".
AVVOCATI NEI CONSIGLI GIUDIZIARI
E’ passato anche l’emendamento che prevede la presenza degli avvocati con diritto di voto sulle carriere dei magistrati nei consigli giudiziari. Il voto, però, sarà unitario “sulla base delle segnalazioni di fatti specifici, positivi o negativi, incidenti sulla professionalità del magistrato in valutazione nel caso in cui il Consiglio dell'ordine degli avvocati abbia effettuato le predette segnalazioni sul magistrato in valutazione".
LE NOMINE
Quanto alle nomine, vengono fissate alcune regole: la pubblicità delle procedure di assegnazione degli incarichi, lo stop alle nomine a pacchetto nel Csm, la procedura comparativa con l'audizione di tutti i candidati da parte della Commissione del Csm.
Inoltre è prevista all’interno del Csm la incompatibilità di sedere sia nella commissione Incarichi direttivi che discute le nomine che nella sezione disciplinare.
GIULIA MERLO
Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Dal fascicolo sui flop alla fine delle porte girevoli: il ddl in pillole. Tra i punti forti della riforma, il voto del Foro nei Consigli giudiziari e l’ingresso di avvocati e professori nell’Ufficio studi del Csm. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 27 aprile 2022.
Dopo mesi di discussioni estenuanti, prima in sede “politica” coi vertici tra ministra e partiti, poi anche in commissione, la Camera ha dato dunque ieri il via libera, senza fiducia, alla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Si tratta di un provvedimento, a detta di tutti, frutto di un compromesso nella maggioranza. Ma considerate le diverse sensibilità sul tema, è il massimo che si potesse ottenere. Vediamo in sintesi i punti principali e le novità maggiormente significative.
Sistema elettorale del Csm
Archiviato il collegio unico nazionale, si tenta di articolare il voto, almeno per la quota dei magistrati giudicanti, su basi territoriali più ristrette, con 4 collegi che eleggeranno 2 togati ciascuno (con parità di genere). Gli altri 5 consiglieri giudici saranno eletti con recupero proporzionale, per garantire rappresentanza ai gruppi minori. A questi primi 13 togati, si aggiungono i 5 scelti tra i pm e i 2 consiglieri eletti tra i magistrati di legittimità. In tutto i componenti magistrati da eleggere passano dunque da 16 a 20, ai quali si aggiungono non più 8 ma 10 laici, per un totale di 30 consiglieri, Completano il plenum, come sempre, i vertici della Suprema corte.
Nomine
L’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi sarà decisa in base all’ordine cronologico delle scoperture degli uffici, per evitare le famigerate “nomine a pacchetto”, quindi i preventivi accordi tra le varie correnti. Le procedure di selezione saranno improntate alla massima trasparenza, con pubblicazione sul sito del Csm di tutti i dati del procedimento e i curricula degli aspiranti. Diventerà obbligatoria la preventiva audizione del candidato. Una volta deliberato nell’incarico, il neo dirigente dovrà frequentare un apposito corso di formazione. Grande attenzione è riposta nelle capacità organizzative dell’ufficio da parte del magistrato.
Voto del Foro nei Consigli giudiziari
Nei Consigli giudiziari, i “mini Csm locali”, è introdotta la facoltà per gli avvocati ed i professori universitari che ne fanno parte di partecipare alle discussioni sulle valutazioni di professionalità delle toghe. I soli componenti avvocati potranno anche esprimere un voto, unitario, se c’è stata una preventiva segnalazione (anche positiva) sul magistrato deliberata da parte del locale Consiglio dell’ordine. Nel caso in cui i rappresentanti del Foro intendano discostarsi dalla segnalazione, sarà necessaria una nuova determinazione del Coa.
“Porte girevoli”
È introdotto il divieto di esercitare in contemporanea funzioni giurisdizionali e ricoprire incarichi elettivi e governativi. Il divieto vale per le cariche elettive nazionali e locali e per gli incarichi di governo nazionali, regionali e locali. Viene previsto l’obbligo di collocarsi in aspettativa (senza assegni in caso di incarichi locali) prima di assumere l’incarico. Attualmente c’è la possibilità di cumulo di indennità con lo stipendio del magistrato. Non è più possibile essere candidati nella regione in cui è compreso in tutto o in parte l’ufficio giudiziario in cui il magistrato ha prestato servizio negli ultimi tre anni. Terminato il mandato, il magistrato che ha ricoperto una carica elettiva di qualunque tipo non potrà più tornare a svolgere alcuna funzione giurisdizionale. Verrà collocato fuori ruolo presso il ministero della Giustizia, conservando comunque lo stipendio percepito al momento della candidatura a prescindere dalla funzione che andrà a svolgere. Il magistrato che si è candidato e non è stato eletto, per i tre anni successivi non potrà tornare a lavorare nella regione che ricomprendeva la circoscrizione elettorale, né potrà assumere incarichi direttivi e svolgere le funzioni penali più delicate (pm e gip/gup). Se proveniva da un ufficio con competenza nazionale (ad esempio la Cassazione), non potrà svolgere funzioni giurisdizionali per tre anni.
Ricollocamento al termine di incarichi non elettivi
Particolarmente articolata la disciplina per il “rientro” di quelle toghe che assumono incarichi di governo, anche locale (dai ministri e sottosegretari agli assessori regionali) o incarichi “apicali” (dai capi di gabinetto in un dicastero ai capi dipartimento in una giunta locale). Nel primo caso si potrà scegliere tra il “cuscinetto” di un anno da fuori ruolo (al ministero di appartenenza o a Palazzo Chigi) e la definitiva rinuncia a funzioni direttamente giurisdizionali. Nel secondo caso, l’opzione per l’anno fuori ruolo prevede una “decantazione” di ulteriori tre anni in cui il rientro nella giurisdizione avverrà senza che si possano assumere incarichi direttivi o semidirettivi. Il tutto vale solo per le nomine successive all’entrata in vigore della legge, ma in prospettiva limiterà molto l’appetibilità degli incarichi apicali di cui oggi fanno incetta, ad esempio, i presidenti di sezione del Consiglio di Stato.
“Fuori ruolo”
Si prevede di ridurre il numero massimo dei magistrati fuori ruolo, attualmente fissato in 200 unità. La disposizione sarà precisata con i decreti attuativi. Dopo un mandato di almeno un anno, i magistrati resteranno per ancora un anno fuori ruolo, ma non in posizioni apicali, poi rientreranno; per i successivi 3 anni non potranno ricoprire incarichi direttivi.
“Chi giudica non nomina”
I componenti della sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli non potranno far parte anche delle commissioni che decidono su incarichi direttivi, trasferimenti d’ufficio e valutazioni di professionalità delle toghe.
Avvocati e professori nella “stanza dei bottoni” del Csm
Nella segreteria e nell’Ufficio Studi e documentazione del Csm, semaforo verde per gli “esterni alla magistratura” (avvocati, professori universitari, dirigenti amministrativi) previo superamento di un concorso. Ai laici sarà riservata una quota minima garantita, seppur non maggioritaria. Al momento i due uffici sono composti solo da magistrati, spesso con logiche di spartizione correntizia.
Accesso in magistratura
Si torna al passato, con la possibilità di partecipare al concorso direttamente dopo la laurea in Giurisprudenza. Finisce l’obbligo di frequentare le scuole di specializzazione o di aver già conseguito l’abilitazione alla professione forense. Vengono valorizzati, ai fini dei titoli per il concorso, i tirocini formativi e l’aver prestato servizio presso il nuovo Ufficio per il processo. L’esame sarà incentrato sulle prove scritte, tre, con la conseguente riduzione delle materie orali.
Passaggi di funzione. Sarà possibile un solo passaggio tra le funzioni requirente e giudicante penale entro 10 anni dall’assegnazione della prima sede. Tale limite non varrà per il passaggio al settore civile o dal settore civile alle funzioni requirenti, nonché per il passaggio alla Procura generale presso la Cassazione.
Fascicolo di valutazione del magistrato
Si tratta della novità che sembra suscitare i maggiori allarmi nell’Anm. Dovrà raccogliere ogni anno le statistiche relative agli esiti delle decisioni (per i giudici, inclusi i civili) e delle richieste, di rinvio a giudizio o di misure cautelari (per i pm), nelle fasi successive del procedimento, con particolare riguardo a “eventuali gravi anomalie”. Via Arenula ricorda che non saranno inserite valutazioni di merito, dunque giudizi sui singoli provvedimenti, ma solo dati statici aggiornati, e che non si tratterà dunque di “pagelle”. In ogni caso, tali riscontri su eventuali troppo frequenti “insuccessi processuali” degli atti del singolo magistrato peseranno sia sulle valutazioni di professionalità quadriennali che nella corsa a incarichi direttivi o semidirettivi.
La riforma Cartabia. Perché il sorteggio per il Csm è stato cancellato, cosa c’è dietro. Roberto Cota su Il Riformista il 28 Aprile 2022.
La Camera dei Deputati ha approvato il testo della cosiddetta riforma Cartabia che adesso passerà al Senato. Si tratta di un mini intervento che incide principalmente sul sistema di elezione del CSM, oltreché sulla valutazione dei magistrati in vista dell’avanzamento di carriera, sulla impossibilità di ritornare ad avere funzioni giudicanti dopo aver ricoperto incarichi elettivi e sulla limitazione del passaggio tra la funzione inquirente e funzione giudicante e viceversa. Una risposta, certamente, alla spinta di cambiamento che arriva dai referendum dopo quanto emerso con la vicenda Palamara, ma debole, in quanto non incide sull’aspetto correnti /logiche spartitorie legate all’assegnazione degli incarichi direttivi.
La questione è piuttosto semplice: se i capi degli uffici vengono decisi dal CSM ed i componenti togati del CSM vengono eletti come fossero politici con tanto di campagna elettorale, è ovvio che le loro decisioni saranno sempre condizionate da correnti e logiche politiche. L’unico modo per estirpare il correntismo è il sorteggio nella scelta dei rappresentanti dei magistrati al CSM. Francamente, non è comprensibile perché i vertici della magistratura organizzata (molto meno il popolo dei magistrati) siano contro il sorteggio. I potenziali sorteggiati sarebbero magistrati, cioè persone ritenute idonee ad amministrare giustizia, a decidere della vita delle persone. Va da sé che abbiano i requisiti per poter fare le nomine all’interno del CSM! È evidente che c’è dell’altro, cioè una brama di potere, sicuramente patologica in un sistema democratico.
Ugualmente patologico è il tentativo di innalzare l’età pensionabile dei magistrati. Guarda caso, in concomitanza con il prossimo pensionamento di alcune figure apicali molto importanti. Così come patologico è il fatto che l’associazione di categoria, sempre pronta a protestare contro le ipotesi di riforma che arrivano dalla politica, sia stata piuttosto tiepida, per non dire silente, di fronte a questa idea. Di solito i lavoratori cercano di andare in pensione prima e una persona a settant’anni, nel pubblico impiego avrebbe diritto di godersi il meritato riposo… Sullo sfondo, evidentemente, c’è uno scontro di potere. Quello scontro di potere che avvelena da anni la nostra vita democratica. Roberto Cota
Quel vecchio vizio dell’Anm: apparire vittima dei politici per avere consenso. L'Anm dice no al fascicolo di valutazione: eppure nel 2004 la protesta delle toghe ignorò una norma simile. Errico Novi su Il Dubbio l'1 maggio 2022.
Del precedente tentativo di istituire un monitoraggio sui “flop” ( se troppo ricorrenti) dei magistrati, vi abbiamo detto sul Dubbio di martedì scorso. Ci provò Roberto Castelli, il guardasigilli della Lega che dà il nome alla riforma sulla magistratura del 2006. Vi abbiamo raccontato della stroncatura inflitta da Carlo Azeglio Ciampi a quel tentativo: nella lettera alle Camere con cui, il 18 dicembre 2004, il presidente della Repubblica chiese una nuova deliberazione sulla riforma, quell’“Ufficio per il monitoraggio sull’esito dei procedimenti” era il secondo dei punti ritenuti dal Colle manifestamente incostituzionali. Ve ne abbiamo parlato per mostrare quanto rischi di essere sottovalutata la riforma del Csm appena approvata alla Camera: il ddl ripropone appunto un monitoraggio sulla tenuta dei provvedimenti, il “fascicolo di valutazione”. Un atto di coraggio, che in ogni caso indebolisce la tesi di chi liquida il testo Cartabia come inconsistente. Resta, certo, la feroce opposizione dell’Anm, ostile innanzitutto all’istituzione del “fascicolo”.
Tutte le correnti e componenti della magistratura ( tutte o quasi, tra le eccezioni va annoverato il gip Guido Salvini, che ne ha parlato due giorni fa in un’intervista al Dubbio) ritengono il nuovo strumento “lesivo della libertà del magistrato”, perché lo incoraggerebbe ad appiattirsi sulla giurisprudenza dominante e a muoversi in modo da non essere smentito nelle fasi successive o dai gradi superiori di giudizio, con un effetto di “gerarchizzazione verticale” della magistratura.
Quasi esclusivamente di questo si è parlato nell’assemblea generale dell’Anm. Non solo perché il “fascicolo” è lo spauracchio più evocato dalle toghe, tra i presunti disastri della riforma Cartabia, ma anche perché nella riunione plenaria che ha proclamato lo sciopero, erano presenti anche alcuni politici: Giulia Bongiorno ( Lega), Catello Vitiello (Italia Viva), Giulia Sarti (Movimento 5 stelle) e ancora di Enrico Costa (Azione) e Anna Rossomando (Pd). Gli ultimi due sono figure chiave: il primo ha proposto l’emendamento sul fascicolo; la seconda, dopo l’iniziale perplessità dei dem in commissione Giustizia a Montecitorio, ha stabilito con i suoi di approvare la modifica, alla luce della riformulazione suggerita da via Arenula e delle rassicurazioni offerte sempre dal ministero.
Ora, sulla praticabilità dello screening, che dovrà essere informatico, pure abbiamo già scritto ( sul Dubbio del 21 aprile scorso). Giovedì ne ha scritto anche il Corriere della Sera. C’è poco da essere ottimisti: implementare lo strumento telematico sarà un’impresa. Ma non è solo questo il punto. Qui vogliamo segnalarvi un’altra cosa, a proposito del precedente citato all’inizio, la riforma Castelli. Oltre alle obiezioni formali di Ciampi, che costrinse il guardasigilli leghista a seppellire il “monitoraggio dei provvedimenti”, precursore del nuovo “fascicolo”, il ddl aveva suscitato prima di tutto la reazione durissima dell’Anm. Basterà leggere il “comunicato sindacale” con cui il parlamentino delle toghe annunciò lo sciopero il 5 maggio 2004.
Critiche pesantissime sulla «separazione delle carriere», sulla «impostazione eccessivamente gerarchica dell’organizzazione complessiva degli Uffici del pubblico ministero» e persino sulla dialettica tra Castelli e il Csm. Ma non una parola, non una, sull’“Ufficio per il monitoraggio dei provvedimenti”.
Leggere per credere: non è difficile reperire il comunicato Anm in rete.
Possibile che una norma così incisiva, di lì a poco meritevole dell’attenzione e della censura del Quirinale, non suscitò nell’Anm neppure un breve commento? Nulla di nulla. D’altronde si potrebbe ricordare che un principio analogo è già previsto dall’ordinamento giudiziario. Nella romanzesca disciplina delle valutazioni sulla professionalità dei magistrati. Si tratta della circolare 20691 del 2007, che incoraggia ( ma non obbliga a farlo) a monitorare il lavoro delle toghe anche rispetto all’eventuale «significativo rapporto tra i provvedimenti adottati e quelli non confermati». E allora come si spiega il tanto esasperato allarme da parte dell’Anm, che ha criticato questo e altri aspetti della riforma persino con una pagina acquistata a pagamento su alcuni quotidiani? Com’è possibile che un’ipotesi sulla quale nel 2004 non si spese un rigo di comunicato sindacale ora viene rilanciata come l’armageddon che burocratizzerà la giurisdizione? Noi un sospetto ce l’abbiamo: serve a esasperare la “vittimizzazione presuntiva” della magistratura. A rappresentare come carnefici la politica, la ministra Marta Cartabia, il Parlamento, il povero Costa che oggi affronterà la fossa dei leoni dall’assemblea Anm. Ma insinuare intenzioni vendicative nei confronti della magistratura, non è che serve a riproporre un po’ lo schema conflittuale dell’era Berlusconi, e a far uscire, così, le toghe dall’angolo del caso Palamara?
Il sospetto di una strategia politica è difficile da allontanare. Tanto più che sarebbe una strategia funzionale e utile anche per le singole correnti, che hanno tutte un chiaro interesse a ritrovare la fiducia dei colleghi in vista del voto per il nuovo Csm.
Non che si voglia snobbare le critiche avanzate dalla magistratura. Ma forse è giusto pure tentare di osservarle con uno sguardo più disincantato. O altrimenti si rischia di assecondare una rappresentazione un po’ esasperata della riforma Cartabia, che riproporrebbe in modo paradossale un conflitto sulla giustizia già pagato a prezzo troppo caro dal nostro Paese.
Magistrati in sciopero, un comunicato spaventoso: le parole eversive delle toghe. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano l'1 maggio 2022.
Il comunicato con cui l'Anm (Associazione nazionale magistrati) accusa il governo e il parlamento di aver scritto una legge «per intimidire i magistrati», cioè pressappoco di aver confezionato una comminazione mafiosa, snocciola le ragioni per cui la riforma della giustizia sarà dannosa per i cittadini e illustra quelle per cui sarebbe necessaria una riforma diversa: ancora una volta, e naturalmente, nell'interesse di cittadini. Il quale, par di capire, è meritevole di protezione a patto che coincida con quello della magistratura, e può essere invece accantonato se per caso se ne discosta.
Con questo comunicato, pubblicato da importanti quotidiani e scritto in un italiano imperdonabile anche alle elementari, l’Anm imputa al legislatore di aver messo in campo «una riforma sbagliata» e perfino anticostituzionale. Che, per carità, può anche essere: ma fino a prova contraria non è un’associazione di magistrati a deciderlo: e il potere che fa le leggi è pur sempre quello votato dai cittadini, mentre i magistrati non li elegge nessuno (cioè si eleggono tra di loro, nella trasparenza del sistema che abbiamo avuto modo di conoscere).
Scrive l’Anm che i cittadini non meritano una riforma “contro” la magistratura. Ma ciò che meritano i cittadini dovrebbero dirlo i cittadini e quelli che bene o male li rappresentano (che non sono i magistrati): e chissà che non pensino di meritare una magistratura diversa da quella che scrive questi comunicati.
"Siamo uno dei poteri dello Stato. La protesta è quasi eversiva". Stefano Zurlo il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il pg di Milano non aderirà: "Non possiamo metterci di traverso a scelte dell'esecutivo e del Parlamento".
Nel merito e nel metodo. No allo sciopero. Cuno Tarfusser, oggi sostituto procuratore generale a Milano ma in passato giudice della corte penale internazionale all'Aia, non ha paura di andare controcorrente: «Noi non possiamo restare a casa e incrociare le braccia».
E perché, dottor Tarfusser?
«Noi siamo un potere dello Stato. L'ho scritto e lo ripeto: siamo uno dei tre poteri e non possiamo metterci di traverso alle scelte dell'esecutivo e del parlamento. In questo modo si altera un delicato equilibrio».
Ma si contano almeno cinque scioperi negli ultimi vent'anni.
«Lo so, ma per quanto mi riguarda questo è un atteggiamento ai limiti dell'eversivo».
Addirittura?
«Si, noi non siamo come i benzinai, i camionisti o i piloti d'aereo che bloccano il Paese e in questo modo fanno pressione su Palazzo Chigi e le Camere. Noi non possiamo permettercelo perché, mi pare evidente, in questo modo si compromette la grammatica istituzionale. Non possiamo avanzare rivendicazioni come le altre categorie e dobbiamo tenere conto dei contraccolpi delle nostre azioni».
L'Anm la pensa in un altro modo, ma sui contenuti almeno condivide le loro preoccupazioni?
«Mi spiace deluderla, ma c'è una drammatizzazione che non corrisponde alla realtà».
A che cosa si riferisce?
«L'80, forse 90 per cento dell'attività è normale amministrazione. Per rimanere al penale, che conosco meglio, il furto, lo scippo, la piccola rapina, il sequestro di un grammo di droga leggera. Non siamo sempre dentro un'emergenza, ma dobbiamo fronteggiare l'assalto continuo della piccola criminalità cui occorre rispondere con professionalità e celerità».
I giudici ingigantiscono i problemi?
«Per carità, quelli ci sono e sono drammatici ma non sono la routine. Per quella non servono alibi ma solo impegno e dedizione».
A proposito di impegno, si contesta il fascicolo delle performance.
«Noi siamo valutati sette volte nel corso della nostra carriera, ma si tratta di esami all'acqua di rose. Ben vengano pagelle più stringenti, ancorate ai fatti, come capita a tutte le altre professioni».
Csm, “insorgono” i penalisti campani: «La protesta delle toghe ai limiti dell’eversione». Lunedì 16 maggio, in concomitanza con l'astensione proclamata dall'Anm, a Torre Annunziata ci sarà la contromanifestazione organizzata dalle Camere penali campane. Contraria allo sciopero anche l'Associazione nazionale forense. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 maggio 2022.
Lunedì 16 maggio le varie giunte esecutive territoriali dell’Anm, in concomitanza con la giornata di astensione dall’attività giudiziaria individuata dall’assemblea straordinaria del 30 aprile per protestare contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in discussione al Senato, organizzano delle assemblee pubbliche per dibattere insieme alla cittadinanza, al mondo universitario e all’avvocatura le criticità della nuova norma: dalla gerarchizzazione degli uffici giudiziari alla separazione delle funzioni, dal fascicolo di valutazione al conformismo giudiziario.
Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia aprirà i lavori nell’Aula Magna del Palazzo di Giustizia di Milano, la vice presidente Alessandra Maddalena invece sarà al Tribunale di Napoli dove prenderà la parola anche il presidente dei penalisti napoletani Marco Campora. Mentre a Roma, a partire dalle 11 nell’Aula Europa della Corte di Appello, si alterneranno, tra gli altri, alla tavola rotonda il segretario di AreaDg Eugenio Albamonte e il presidente della Camera Penale di Roma Vincenzo Comi.
Ma è a Torre Annunziata invece che ci sarà la contromanifestazione dei penalisti, organizzata dalle Camere penali di Benevento, Irpina, Napoli Nord, Nocera Inferiore, Nola, Salerno, Santa Maria Capua Vetere, Vallo della Lucania. L’evento inizierà alle 15 e avrà il titolo “La riforma dell’ordinamento giudiziario – Riflessioni sul rapporto tra potere legislativo e ordine giudiziario”. «Abbiamo organizzato questo evento – ci spiega l’avvocato Enrica Paesano – per controbilanciare lo sciopero dell’Anm che a mio parere è illegittimo, forse ai limiti dell’eversione. Per decenni la politica è stata inerte nei confronti della magistratura. Ora che il Parlamento si appresta a varare una riforma, che noi come Ucpi riteniamo comunque blanda e non rispondente alle reali criticità che affliggono l’ordinamento giudiziario, la magistratura associata indice una giornata di astensione dimostrando tutta la propria indisponibilità a qualsivoglia ipotesi di cambiamento».
Interverranno: l’avvocato Renato D’Antuono, presidente della camera penale organizzatrice, il decano degli avvocati campani Nicolas Balzano, il deputato di Azione Enrico Costa, l’avvocato Gaetano Sassanelli, responsabile osservatorio ordinamento giudiziario, Ernesto Aghina, Presidente del Tribunale di Torre Annunziata, Giorgio Varano, responsabile comunicazione Ucpi. Concluderà i lavori il leader dei penalisti italiani, Gian Domenico Caiazza, che dopo il suo intervento all’assemblea dell’Anm, dove non ha lesinato pesanti critiche, sembrerebbe non aver ricevuto inviti a partecipare alle assemblee organizzate dalla magistratura associata.
A prendere posizioni con lo sciopero Anm, anche l’Associazione nazionale forense: «Non uno sciopero illegittimo, ma semplicemente sbagliato. Non una forma di protesta contro la riforma della giustizia, ma un tentativo di difendere posizioni anacronistiche e in generale lo status quo – ha dichiarato il segretario generale Giampaolo Di Marco -. Questa è la realtà dello sciopero proclamato dall’Anm, e l’opinione pubblica ne è consapevole. Dispiace che la rappresentanza della magistratura ritenga che le prerogative di Governo e Parlamento confliggano con i propri desiderata, e che ritenga lesa maestà le valutazioni sul loro operato da parte degli avvocati nei consigli che si occupano di valutare la professionalità dei giudici», ha concluso.
Va in scena la rivolta dei magistrati. Il pm è sacro e intoccabile: per questo le toghe scioperano. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Maggio 2022.
Dunque lo sciopero dei magistrati ci sarà, fra due giorni, in un bel lunedì che si appoggia con facilità al weekend (visto che è improvvisamente scoppiata l’estate) , secondo una certa tradizione dei sindacati quando non si sentono sicuri dell’adesione. Anche se in genere questi preferiscono il venerdì, come del resto anche gli studenti. Vedremo se davvero ci sarà la stessa massiccia adesione dei bei tempi in cui si protestava contro il nemico numero uno, Silvio Berlusconi. Incomprensibile, questa chiamata alle armi da parte del sindacato delle toghe, nei confronti di una riforma, voluta dalla ministra Cartabia, che prima di tutto non esiste, perché è stata approvata da un solo ramo del Parlamento. E poi perché introduce solo piccoli e timidissimi cambiamenti, sia sul Csm che sull’ordinamento giudiziario.
Sembra quasi una questione di principio, quindi politica, quella agitata in queste ultime settimane dai vertici dell’Anm, ma anche dal Csm e da una serie di magistrati molto ascoltati dai quotidiani che vivono in simbiosi con le Procure. Già, proprio l’intoccabile Partito delle procure, proprio la difesa di quel pm battagliero, così potente e irresponsabile nel nostro ordinamento come non è in nessun altro Paese al mondo, è al centro della protesta. Non certo per l’ingarbugliata riforma del sistema elettorale del Csm, i magistrati scendono in piazza, visto che l’unica vera svolta sarebbe stata determinata da quel sorteggio che non hanno voluto neanche il Governo e la gran parte dei partiti. Ma due sono i punti fondamentali di lamentela. Il primo riguarda la riduzione a uno dei passaggi tra la funzione requirente e quella giudicante.
L’ altro è il fascicolo delle performance, che finalmente dovrebbe mettere in luce non solo la produttività, cioè la quantità di provvedimenti adottati da ogni magistrato, ma soprattutto la qualità dell’attività giurisdizionale. Non tanto per dare una bocciatura a chi ha condannato in primo grado imputati che poi sono stati assolti in appello. Ma soprattutto per mettere in luce quel che ormai si sta disvelando quasi ogni giorno, con la grancassa su iniziative che paiono da subito come Grandi: grande blitz, grande inchiesta, grande nomignolo, grande numero di imputati e arrestati, grande dispendio di forze e denaro per intercettazioni. E poi finiscono in nulla, magari dopo anni e anni, con imprese e famiglie andate all’aria, beni confiscati di società ormai fallite, persone distrutte dal carcere e dalla pubblica gogna.
Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, da Milano fino alla Calabria e alla Sicilia, passando per Roma e la vana ricerca di “Mafia Capitale” piuttosto che “ ’Ndrangheta Capitale”. E nessuno ne risponde mai, visto che ogni anno lo Stato deve risarcire le ingiuste detenzioni. Ma la pervicacia pare cucita addosso alle toghe, qualunque ruolo svolgano, perché la casta prevale sempre. Non demorde l’ex procuratore di Palermo Giancarlo Caselli, pensionato molto vivace, che quando non è intervistato scrive direttamente su diversi quotidiani. È molto sicuro di sé un altro ex procuratore “antimafia”, Nino Di Matteo, oggi membro del Csm di prossima scadenza, che in una lunga e interessante chiacchierata con il sociologo Luigi Manconi su Repubblica, non cede un millimetro di territorio conquistato negli ultimi trent’anni. Anche se su almeno due punti finisce per confermare quanto meno la necessità di un’analisi precisa sui metodi di indagine e di costruzione dei processi, in particolare nelle Regioni del sud e in nome dell’Antimafia militante.
La prima questione è quella di un pm combattente che si presenta armi in pugno sotto l’ombrello del principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale (in contrasto palese con il sistema processuale di tipo accusatorio), che finisce con il privilegiare il fenomeno e il contesto rispetto al singolo fatto criminoso. È in questo tipo di cultura che nasce anche la giurisprudenza sul “concorso esterno in associazione mafiosa”. Di Matteo tiene il punto: “È indubbio che lo scopo dell’azione penale debba essere quello di provare i reati. Ma è altrettanto indubbio che alcuni delitti sono espressione di sistemi criminali più complessi”. Ma insomma, resta il fatto che tutto il castello accusatorio, costruito nel corso di anni e anni, che ha portato al processo “Trattativa tra Stato e mafia” è crollato miseramente. E anche se il consigliere Di Matteo, che fu accanito accusatore in quel processo, dice di non sentirsi sconfitto, crediamo sia diritto dei cittadini, nel cui nome si dovrebbe fare giustizia, guardare nel suo fascicolo per sapere come e perché siano stati sperperati tanti soldi e accusati tanti innocenti.
Anche perché, e veniamo al secondo punto inquietante dell’intervista, ci pare che l’ex procuratore, quasi con noncuranza, quasi fosse normale, dice che “la mancata condanna di alcuni imputati non significa che gli alti gradi dei Ros dei carabinieri non siano stati autori di condotte anomale…”. Quindi, se non abbiamo capito male, le “condotte anomale” dei vertici dei carabinieri avrebbero giustificato anni di indagini, carcere e carriere distrutte anche se non erano reati, come ha stabilito una sentenza definitiva? Dottor Di Matteo, le dice niente il nome di Calogero Mannino? Qualcuno gli ha almeno chiesto scusa? L’altra bestia nera della riforma Cartabia è quella di una parziale separazione delle funzioni tra pm e giudici. Un altro affronto che le toghe vogliono cancellare con la manifestazione di lunedi prossimo. Il loro ritornello di sempre è quello della “cultura della giurisdizione”, quella dell’imparzialità che è imposta ai giudici e che apparterrebbe, secondo la vulgata dell’Anm, anche ai pubblici ministeri.
A parte il fatto che nessuno è in grado di citare casi in cui il pm abbia raccolto anche le prove in favore dell’accusato, vogliamo citare qualche esempio? Vogliamo parlare del processo Enel o di Mafia Capitale, piuttosto che del già citato “Trattativa”? Proprio in quest’ultimo, visto che lo stesso pm Di Matteo parla di “condotte anomale” dei dirigenti del Ros, non sarebbe stato suo divere cercare anche qualche indizio della loro innocenza, qualche spiegazione, invece di andare diritto sull’ipotesi che quei comportamenti fossero reati? Non possiamo pensare che separando le carriere, o almeno le funzioni come previsto dal referendum che andremo a votare il 12 giugno, o in subordine almeno quanto previsto dalla piccola riforma Cartabia, la situazione potrebbe essere peggiore di così.
Ve lo immaginate un procuratore “antimafia” che va alla ricerca di indizi o prove che possano scagionare Marcello Dell’Utri dal suo impegno “esterno” a sostegno di Cosa Nostra? O un sostituto dell’ufficio del procuratore Gratteri che si dia da fare in favore di Giancarlo Pittelli? Chiamata alle armi, dunque. Anche un po’ traballante, però, se il Presidente Giuseppe Santalucia e il direttivo del sindacato hanno sentito il bisogno di fare un appello all’unità della categoria nell’astensione dal lavoro. Cosa che in politica – e qui siamo in un contesto politico – significa debolezza e poca sicurezza sul risultato dell’iniziativa. Lunedi vedremo, qualche mormorio di dissenso si è già fatto sentire.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La riforma Cartabia. Lo sciopero dell’Anm è legittimo, ma il controllo sul lavoro dei magistrati non ci sarà mai. Alberto Cisterna su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
E che sciopero sia. La decisione dell’Anm di invitare i magistrati ad astenersi dall’attività processuale per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera dei deputati non può essere liquidata dall’alto delle contrapposte barricate come eversiva e in contrasto con il principio della separazione dei poteri. Alcune semplici considerazioni escludono che si possa impedire a un’organizzazione di categoria professionale di proclamare uno “sciopero”. L’astensione rientra nello statuto del rapporto di pubblico impiego che, per quanto peculiare, lega ciascun magistrato all’organizzazione giudiziaria cui appartiene. Discutere della legittimità di questo diritto vorrebbe dire collocare i giudici in una sorta di imprecisato e nebuloso empireo che ne dovrebbe mantenere intatta la purezza e renderli “diversi” da ogni altro impiegato dello Stato.
Non è cosi. L’intera magistratura costituisce certamente «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (articolo 104 Costituzione), ma questo non toglie che la funzione giurisdizionale sia esercitata dai «magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario» (articolo 102). Un conto è la magistratura, intesa come complesso delle attribuzioni giurisdizionali, altro sono i singoli giudici il cui status è regolato da quell’ordinamento giudiziario che, ora, si vuole modificare in parti non marginali. Quindi proclamare un’astensione è del tutto legittimo e non c’è alcuna necessità di gridare allo sbrego costituzionale. Trattandosi, tuttavia, di una decisione “sindacale” i margini di discussione per i magistrati, anziché dilatarsi, si restringono e di molto. Uno sciopero che voglia contrastare questa o quella riforma processuale, questo o quel correttivo in tema di garanzie e di poteri delle parti nel processo non può, effettivamente, ritenersi conforme alle prerogative “sindacali” delle toghe. Non incidendo sul loro status professionale, ma sulle attribuzioni della giurisdizione nel suo complesso, è lecito dubitare che si possa scioperare contro il Parlamento o contro il Governo per iniziative legislative che intendessero assumere sull’assetto del potere giurisdizionale.
Quando, invece, le norme vengono intese come deteriori per le guarentigie e le prerogative professionali dei magistrati, ecco che il diritto di “sciopero” resta pienamente tutelato e si riespande. La distinzione, è chiaro, non ha alcun elemento di novità e trova fondamento – a esempio – nell’antica bipartizione tra scioperi politici e scioperi contrattuali, a secondo che la mobilitazione dei lavoratori contesti scelte generali di ampio respiro, con mere ricadute sulla condizione dei dipendenti, o abbia di mira puntuali rivendicazioni inerenti al rapporto di lavoro. Nel caso del prossimo 16 maggio al centro della contestazione delle toghe vi sono profili che sarebbe ingiusto non considerare come “contrattuali”. Il fascicolo di valutazione immagina di poter giungere a una sorta di controllo minuto e fine sull’attività, praticamente quotidiana, dei magistrati per poterne, poi, trarre giudizi con grande incidenza sulla carriera e sulla stessa progressione economica. Ha ragione chi sostiene che non esiste alcuna organizzazione pubblica o privata che pretenda di giungere a questo livello microscopico di controllo sui propri dipendenti e, quindi, l’Anm ha ben ragione di lamentarsene.
Certo difetta nel dibattito, come spesso accade, un confronto davvero leale e sincero. La magistratura – un plesso di poco più grande di un piccolo comune con qualche migliaio di abitanti – conosce perfettamente al proprio interno chi sono i neghittosi, gli incauti, gli sfaccendati e gli incapaci. Se le disposizioni esistenti in materia di valutazione di professionalità fossero applicate con sufficiente rigore e qualche dirigente di troppo non preferisse il quieto vivere piuttosto che esercitare il dovere di segnalare anomalie e disfunzioni, la bonifica della magistratura italiana dai danni che la affliggono sotto questo versante sarebbe immediata o quasi. Ma prevalgono logiche diverse. La temporaneità degli incarichi di dirigenza in senso lato (4 anni + 4 anni), la prospettiva, quindi, di un ritorno a essere collega tra colleghi, la necessità di evitare che nelle conventicole correntizie si parli male di questo o quel presidente, di questo o quel procuratore per la sua eccessiva severità (sabotando le prospettive di un ulteriore incarico) induce tanti, e non tutti ovvio, a un approccio flow verso queste delicate questioni.
Il punto vero è che in ogni struttura, si pensi a tutta la pubblica amministrazione civile e militare, la dirigenza non condivide con tutti i dipendenti uno statuto di regole comuni. Non esiste lì, come in magistratura, un semplice primus inter pares che attende provvisoriamente alla direzione e al controllo, ma la linea di demarcazione tra un dirigente o un ufficiale e la restante parte del personale è invalicabile ed irreversibile. Tra le toghe, per fortuna, non è così. La Costituzione, per fortuna, vieta gerarchie (articolo 107) perché esse avrebbero una pesante incidenza e influenza sulle decisioni giudiziarie. E, in questo campo vitale, i giudici devono essere soggetti soltanto alla legge (articolo 101). Le norme in approvazione, consapevoli di un certa omertà di casta, prevedono sanzioni e punizioni per i dirigenti che ometteranno, ancora, di segnalare disfunzioni e disservizi. Il nuovo fascicolo professionale dovrebbe, addirittura, bypassare questo intermittente e insufficiente controllo offrendo la possibilità di attingere all’opera omnia dei singoli magistrati che qualche errore e qualche pasticcio lo combinano sempre, spesso per carichi di lavoro insopportabili. E qui la questione si complica.
È lecito avere perplessità sul fatto che una corporazione che – di fatto – ha fallito nel controllo orizzontale rimesso alla dirigenza, possa praticare un esame imparziale e distaccato dell’enorme quantità di dati che si dovrebbero raccogliere ogni anno su ciascuna toga. A parte che non è chiaro chi dovrebbe controllare cosa e con quale autorevolezza e competenza dovrebbe segnalare le devianze nei provvedimenti adottati. A meno di voler presidiare ogni giudice con un poliziotto professionale, si profila il rischio del solito doppio binario di Sistemica memoria per cui si perdona agli amici e ai protetti e si puniscono i nemici e i deboli; e dal calderone dei dati si prende quel che serve o si scarta ciò che nuoce. Alberto Cisterna
Con lo sciopero tutto “politico” l’Anm fa un bel “salto di qualità”. La Consulta ha già “promosso” le norme più criticate dai giudici; che dunque non sono mobilitati per la Costituzione. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 10 maggio 2022.
I magistrati che scioperano dunque non lo fanno per tutelare le loro posizioni nell’ambito del rapporto di lavoro, ma per rappresentare la loro visione “politica” di ciò che sia meglio per regolare il funzionamento della giurisdizione. E lo fanno altresì in posizione apertamente oppositiva alle scelte che in questi giorni sta facendo il Parlamento: “Proponiamo, pertanto, all’assemblea di proclamare una giornata di astensione, delegando la G. e. c. (Giunta esecutiva centrale, ndr) ad individuare tempestivamente la data (…), tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”.
Lo sciopero, dunque, strettamente collegato all’attività in corso delle Camere, potrà essere replicato qualora ve ne sia ancora la necessità: “ Deleghiamo il Cdc (Comitato direttivo centrale, ndr), qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”, cioè altri scioperi.
Se lo sciopero sia o meno legittimo in base alla lettera e allo spirito della Costituzione è questione certamente importante. Ma, nella circostanza, distrarrebbe rispetto al nodo più profondo della questione. La incanalerebbe sul piano della legittimità, scatenando, com’è prevedibile, le reazioni di chi invocherebbe la presunta minaccia ai diritti costituzionali dei cittadini- magistrati. E il tema della “minaccia” (alla magistratura) è già sufficientemente presente nelle motivazioni utilizzate per sorreggere le giustificazioni dell’iniziativa. Molto più interessante è muoversi nella logica della rivendicazione e condurla fino alle sue estreme e coerenti conseguenze.
L’Anm giunge allo sciopero attraverso due passaggi. Il primo è che la riforma “minaccia” la magistratura (“ cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”). Il secondo è che lo sciopero non intende essere solo oppositivo, ma si propone anche finalità costruttive, cioè di favorire un dibattito “ per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”.
Il combinato disposto delle due affermazioni (difesa della Costituzione e proposte alternative) rende palese che il fine dello sciopero non risiede esclusivamente nella pretesa di dire ciò che è costituzionalmente illegittimo, ma anche di indicare quale tra le possibili applicazioni ( legittime) della Costituzione è preferibile dal punto di vista della magistratura, quale interprete dei “bisogni veri del paese”.
Il punto è centrale. I magistrati associati non si fanno solo interpreti della Costituzione, ma si propongono di andare oltre “suggerendo” le riforme migliori. Suggerimenti che la Costituzione lascia alla discrezionalità politica, perché l’attuazione delle sue norme e dei suoi principi non è (sempre) “obbligata”. Insomma, non c’è una sola applicazione possibile di quelle norme e di quei principi. E questo lo dice qualcuno che di interpretazione costituzionale se ne intende: la Corte costituzionale.
Come certamente i magistrati sanno, infatti, nel giudicare l’ammissibilità dei referendum, quindi anche dei referendum sulla giustizia che andranno al voto il 12 giugno, la Corte accerta che i quesiti proposti non riguardino leggi “a contenuto costituzionalmente vincolato”, leggi cioè che costituiscano applicazione “obbligata” della Costituzione.
E proprio a proposito di questi referendum in materia di giustizia, la Consulta, nel dichiararne l’ammissibilità, ha escluso, tra l’altro, che vi sia un impedimento costituzionale alla separazione delle funzioni, che vi sia un ( implicito) divieto costituzionale di far partecipare avvocati e professori alla valutazione dei magistrati, che sia precluso ai singoli magistrati di candidarsi da soli al Consiglio superiore della magistratura.
Su questi punti, almeno su questi punti, abbiamo la certezza, asseverata dall’organo supremo di legalità costituzionale, che le proposte dell’Anm (notoriamente critiche su separazione delle funzioni e partecipazione di avvocati e professori alle valutazioni dei Consigli giudiziari) non si giustificano perché imposte dalla Costituzione, ma siano solo una delle possibili scelte politiche che possono essere fatte sul punto. Del resto interpretare ciò di cui “il paese ha veramente bisogno” cos’è se non il cuore dell’attività politica?
Da quanto detto si possono trarre due conclusioni.
La prima è che, per quanto nobili possano essere le ragioni, almeno sui punti aperti a più soluzioni legislative, lo sciopero dell’Anm è un atto politico che non trova alcuna ragione nella difesa della Costituzione, ma esprime l’opinione di chi ritiene di essere in una posizione (privilegiata?) per interpretare i bisogni del paese. Tanto da interrompere il proprio servizio allo Stato e ai cittadini.
Ciò costituisce un salto di qualità nei rapporti tra magistratura e sovranità popolare, di cui il Parlamento, ci piaccia o no, è rappresentante (a differenza dei magistrati: art. 101 Cost.). Almeno nella Costituzione liberal- democratica vigente.
È un salto di qualità perché “la Magistratura tutta, che si riconosce nell’A. n. m.” (così la mozione sullo sciopero) non si limita ad esprimere opinioni e pareri, ma sceglie uno strumento di lotta politica che, per sua natura, e per espressa dichiarazione dell’Anm stessa, mira a cambiare l’indirizzo legislativo della maggioranza politica.
Cos’altro significa, malgrado l’edulcorazione quasi esoterica del linguaggio, affermare che “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma” si dovranno prevedere “tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione”? La prefigurazione di altri scioperi cos’è se non la conferma che si è entrati deliberatamente sul terreno della lotta politica reiterata nei confronti del Parlamento?
La seconda conclusione è che, in questa cornice, esiste un convitato di pietra: i referendum sulla giustizia, che la delibera sullo sciopero nemmeno menziona benché in esso vi siano soluzioni più radicali, su alcuni aspetti, di quelle che vengono contestate alla riforma Cartabia.
La domanda, che si è implicitamente fatta in altra occasione, rimane la stessa: lo sciopero è anche contro la possibile decisione del popolo nel referendum? Oppure la circostanza che i referendum rischino di non raggiungere il quorum è, per l’Anm, un motivo utile perché la sua interpretazione dei “bisogni veri del paese” venga, in questo caso, tatticamente e, qualcuno potrebbe dire, opportunisticamente taciuta? Domande che non richiedono di scomodare i grandi principi costituzionali. E attendono risposta.
La casta delle toghe. La casta delle toghe dai ricchi stipendi: tenetevi il denaro ma mollate un po’ di potere…Iuri Maria Prado su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
Non c’è niente di male nel puro fatto che i magistrati ricevano un ricco stipendio. Certo, chi reclamasse che nel nostro Paese ci vorrebbe un po’ di giustizia sociale, un po’ di redistribuzione, inevitabilmente darebbe un’occhiata alla busta paga del funzionario in toga, che è la più sontuosa d’Europa e supera di due, di tre, di quattro, di cinque volte quella di qualsiasi pubblico dipendente. Ma lasciamo pur perdere i paragoni, e accantoniamo pure la sperequazione che favorisce in quella misura i nostri magistrati rispetto a tutti i loro colleghi stranieri e ai lavoratori della pubblica amministrazione estranei alla cerchia giudiziaria.
E invece domandiamo: ma un simile privilegio, che qualcuno potrebbe ritenere già in linea di principio ingiustificabile, non dovrebbe almeno essere impetrato e concesso sulla scorta di qualche controllo di professionalità? Non dovrebbe, cioè, almeno escludersi che tanto salario sia riconosciuto solo per appartenenza castale, e cioè solo perché uno è impancato ad arrestare la gente e a giudicarla, senza nessuno scrutinio su come quel lavoro è condotto? Né ancora basta. Perché questa ricchezza è intestata a una categoria che vede associato al proprio privilegio economico un potere incomparabile: due cose che in democrazia, al contrario, non dovrebbero andare di conserva.
E non perché chi ha tanto potere dovrebbe esercitarlo gratis, ma perché prevalere sugli altri in potere e in danaro, per l’esercizio di un ruolo che simultaneamente assicura l’uno e l’altro, produce un rapporto di doppia subordinazione: pressappoco quello che c’è tra il nobilastro che impone al villano non solo la tassa ma anche il rispetto di rango, due cose funzionalmente collegate in reciproca giustificazione. Ci opporremmo con forza, se qualcuno proponesse di ricondurre a giustizia lo stipendio dei magistrati. Piacerebbe tuttavia che essi mostrassero meno resistenza all’idea che la società, lasciandoli ricchi, pretenda però di limitare almeno un pizzico del loro potere. Un po’ come in democrazia si fa appunto coi nobili, cui si lasciano i possedimenti ma non il potere di fare il bello e il cattivo tempo sulla vita degli altri. Iuri Maria Prado
Il dibattito sulla riforma. I magistrati vogliono il potere politico: Mattarella perché resti in silenzio? Riccardo Polidoro su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
La struttura democratica del nostro Paese si basa su tre poteri: il legislativo, che compete al Parlamento; l’esecutivo che compete al Governo; quello giudiziario, che spetta alla Magistratura. La loro separazione è elemento essenziale. Ciò garantisce che essi non si concentrino in unica categoria o persona, al fine di scongiurare il pericolo di una dittatura. Tale premessa è di fondamentale importanza nel momento in cui si voglia esaminare quanto sta accadendo in questi giorni in merito alla riforma dell’ordinamento giudiziario, cioè all’introduzione di nuove norme in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura.
I partiti politici hanno assunto varie posizioni e il dibattito ha ridotto di gran lunga le aspettative di un concreto cambiamento e di un’effettiva svolta che potessero effettivamente apportare quelle modifiche di sistema per far riemergere il mondo giudiziario da un abisso mai prima d’ora toccato. Nonostante si prospettino, quindi, piccoli e poco significativi passi in avanti di quel necessario percorso di civiltà giuridica, l’Associazione nazionale magistrati ha ritenuto di annunciare una giornata di sciopero per denunciare all’opinione pubblica che la prospettata riforma non è altro che una legge per intimidire la magistratura. L’Associazione, a cui aderisce circa il 96% dei magistrati e che ha il fine di tutelare i valori costituzionali, l’indipendenza e l’autonomia della magistratura, ha, nei giorni scorsi, acquistato un’intera pagina dei più importanti quotidiani nazionali per illustrare le ragioni della protesta.
“Una riforma sbagliata” è il titolo che campeggia in alto e subito dopo una serie di affermazioni dell’Anm, che si concludono con il riferimento al rispetto del principio della separazione dei poteri e ricordando che i magistrati sono soggetti soltanto alla legge. Appunto! verrebbe da dire. C’è il potere legislativo che, unitamente a quello esecutivo, sta elaborando una riforma e, proprio nel rispetto della separazione dei poteri, quello giudiziario – che ha tutt’altre prerogative non meno importanti – non dovrebbe entrare a gamba tesa, addirittura minacciando di fermare la propria attività, incrociando le braccia per un giorno. La Costituzione prevede che i magistrati siano soggetti soltanto alla legge, non che debbano scriverle. Tale principio di palmare evidenza, e che non può trovare diversa interpretazione, nel corso degli anni si è del tutto affievolito fino a far dimenticare i limiti delle competenze della magistratura che, pur avendo il delicato ruolo di indagare e giudicare, decidendo quindi delle sorti della vita altrui, non è chiamata a legiferare. Ma la storia, soprattutto recente, ci dice purtroppo che non è così. Con buona pace della separazione dei poteri.
L’attuale presidente dell’Associazione nazionale magistrati è stato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia dall’ottobre 2015 al febbraio 2018 ed in precedenza, dall’agosto 2013, ha svolto le funzioni di vice capo con compiti di coordinamento del settore penale. Cinque anni presso l’Ufficio legislativo. Del resto è prassi che il capo di Gabinetto del ministro della Giustizia sia un magistrato, mentre possono essere fino a duecento quelli fuori ruolo, la maggior parte dei quali distaccati proprio al ministero della Giustizia che, dunque, è gestito in gran parte dal potere giudiziario. Tale inconcepibile ed innaturale innesto – di cui si auspica la fine al più presto – ha avuto l’effetto di trasformare la cultura dei magistrati, i quali, invece di gestire il loro immenso potere giudiziario, cercando di esercitarlo nel migliore dei modi, vogliono un potere politico non di loro competenza. Nella predetta pagina a pagamento si legge, tra l’altro, che «avremmo voluto una riforma del Csm che riducesse il peso delle correnti..».
Ma le correnti non nascono in seno all’Anm? E non sarebbe opportuno che proprio l’Anm si ponesse finalmente il problema di ridimensionarne il potere, soprattutto alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni? Ed ancora si legge: «Quella che si sta materializzando è una riforma che non ha come scopo quello di preservare la qualità delle decisioni dei magistrati…». Affermazione che mette in luce, ancora una volta, che chi giudica gli altri non vuole essere giudicato nemmeno dai propri colleghi – come del resto prevede la riforma – e la volontà di lasciare immutata la situazione attuale, nella quale non esiste alcuna concreta penalità per il magistrato incapace. Al più – e raramente – un trasferimento per fare danni in altri luoghi. Un incomprensibile e deleterio sciopero, dunque, di uno dei tre poteri dello Stato contro gli altri due poteri, nel silenzio – almeno fino ad ora – del Capo dello Stato che è anche capo del Consiglio superiore della magistratura. Riccardo Polidoro
Grazia Longo per “la Stampa” l'1 maggio 2022.
Un giorno di sciopero. Così i magistrati si oppongono alla riforma Cartabia dell'ordinamento giudiziario, approvata alla Camera e ora all'esame del Senato. Lo ha deciso l'assemblea nazionale dell'Anm con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti. La data verrà fissata dalla giunta esecutiva ma è probabile che cada entro il 20 maggio, a ridosso della votazione in Senato.
«Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati - dicono i magistrati nella mozione unitaria e collettiva - non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno. Per questa idea della magistratura, che non è solo nostra, ma è quella contenuta nella nostra splendida Costituzione». L'Anm ribadisce, inoltre, di non voler ritornare al conflitto tra politica e magistratura «come nella stagione di Mani pulite».
E c'è anche la richiesta di un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per comunicargli «le profonde inquietudini dei magistrati italiani sul pericolo che la riforma in esame pone al modello costituzionale di ordinamento giudiziario».
Tra le novità della riforma Cartabia più avversate dall'Anm c'è il fascicolo del magistrato bollato come una «pagellina che spegne il suo coraggio». In realtà esiste già un fascicolo personale di ogni magistrato, introdotto nel 2006, che prevede che ad ogni valutazione di professionalità (ogni 4 anni) il magistrato deve presentare al Consiglio giudiziario locale - e poi al Csm - provvedimenti a campione sulla propria attività svolta, e le statistiche relative alle attività proprie e comparate a quelle dell'ufficio di appartenenza.
Con la riforma invece il fascicolo andrà ora aggiornato annualmente, seguendo l'iter dei vari provvedimenti. Tra gli indicatori da tenere in considerazione da parte del Consiglio, gli eventuali segnali «di grave anomalia». Il segretario generale Anm Salvatore Casciaro dichiara: «Si istituisce un fascicolo delle performance che raccoglie lo sviluppo processuale delle pratiche, quasi uno screening periodico.
La logica di fondo, è che il processo sia una "gara" da vincere, che ogni riforma di sentenza, o il rigetto dell'istanza cautelare del pm, valga come una sconfitta, un punto in meno per il magistrato 'sconfessato». Ma il deputato Enrico Costa, di Azione, promotore dell'emendamento sul fascicolo personale replica: «Si potrà distinguere chi è più bravo da chi lo è meno. L'Anm sta drammatizzando una situazione che era prevista già dal 2006, a meno che in realtà non ci siano mai state valutazioni. Non credo che lo sciopero, secondo me sbagliato, inciderà sulla votazione in Senato. Lo sciopero dei magistrati incrina la fiducia dei cittadini nei loro confronti».
Il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, auspica invece che «la ministra Cartabia ascolti il nostro dissenso. Noi siamo contro una riforma che non migliora il servizio giudiziario, contro un modello organizzativo che renderà farraginosa la nostra attività di magistrati soggetti a una gerarchia miope. Ipotizziamo, inoltre, ulteriori forme di protesta se non ci saranno aperture».
Salvini: “Sciopero Anm? Ma andassero a lavorare”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Maggio 2022.
Una giornata di sciopero dei magistrati italiani contro la riforma del Csm., che si terrà molto probabilmente a ridosso del voto sulla legge a palazzo Madama. Voto che dovrebbe cadere entro il 20 maggio in modo da poter applicare le nuove disposizioni alle elezioni per il rinnovo della componente togata del prossimo Consiglio che scade a luglio.
Un giudizio sullo sciopero dell’Anm? “Pessimo, lavorassero invece di scioperare” dice il segretario leghista Matteo Salvini, ai microfoni di Isoradio. “Ci sono sei milioni di processi arretrati, milioni di italiani che attendono giustizia… Scioperano per che cosa, perché non vogliono le riforme?”, si chiede Salvini.
Incredibilmente sulle stesse posizioni del leader leghista, l’ altro Matteo. Cioè Renzi, leader di Italia Viva: “Lo sciopero dell’Anm dimostra una volta di più che questi magistrati, o meglio, che l’associazione che li guida è sempre più corporativa e casta. È uno sciopero assurdo e inspiegabile, e lo dice chi quella riforma non la vota, immaginiamoci gli altri” intervistato da Radio Radicale. “La riforma – ha aggiunto – è semplicemente inutile. Non tocca i veri problemi: lo strapotere delle correnti e la mancanza di responsabilità”.
“Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati” si legge nel documento sottoscritto da tutti i gruppi, in cui si annunciano anche giornate di studio ad hoc sui futuri effetti della legge. E c’è anche la richiesta di un incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per manifestargli “le profonde inquietudini dei magistrati italiani sul pericolo che la riforma in esame pone al modello costituzionale di ordinamento giudiziario”. Nonché un ulteriore astensione se le risposte del governo non dovessero arrivare in alcun modo.
A votare “sì” allo sciopero dei magistrati, è stata una folta rappresentanza di giudici che si sono ritrovati a Roma, nel complesso di Largo Angelico, dopo una lunga assemblea durata oltre otto ore e moltissimi interventi,. Molti dei quali depositari delle deleghe consegnate dai colleghi durante le assemblee distrettuali che si sono svolte nei giorni scorsi. Complessivamente, circa duemila toghe che hanno espresso la loro volontà non solo di fare sciopero, ma anche di tenere una serie di assemblee per valutare soprattutto gli effetti che potrà avere la legge. Alla fine i voti sono stati 1.081 a favore, 169 contrari e 13 astenuti, su un totale di 1.423 iscritti.
Una vera e propria “casta” che dimentica di non avere alcun potere di rappresentanza popolare ed elettorale, che cerca da decenni di condizionare la politica esercitando “politicamente” il potere giudiziario. Una dei “cancri” della nostra democrazia.
La riforma Cartabia. Sciopero dei magistrati, la rivolta illegittima che calpesta la Costituzione. Salvatore Curreri su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Ma lo sciopero dei magistrati contro la riforma Cartabia di Csm e ordinamento giudiziario è legittimo? La domanda non è affatto oziosa o inutile, almeno per chi non crede che ci troviamo di fronte a una prassi irreversibile (im)posta da un potere dello Stato che non conviene contraddire o inimicarsi. Non solo, infatti, non esiste nessuna disposizione legislativa che attribuisca espressamente ai magistrati il diritto di sciopero ma dalla ricostruzione del quadro istituzionale e costituzionale emergono fondate ragioni per negarlo.
Già oggi vi sono alcune categorie di lavoratori pubblici cui, sebbene svolgano funzioni pubbliche di minor rilievo rispetto a quelle dei magistrati, è vietato scioperare: i militari (art. 1475.4 d.lgs. 66/2010); il personale della polizia di Stato se lo sciopero può pregiudicare “le esigenze di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o le attività di polizia giudiziaria” (art. 84 l. 121/1981); il personale della polizia penitenziaria durante “il servizio di sicurezza degli istituti penitenziari” (art. 19.13 l. 395/1990). Tutti soggetti la cui libertà di associazione sindacale, correlata – anche storicamente – al diritto di sciopero, è parimenti limitata (è già andrebbe discusso sulla natura di fatto sindacale dell’Associazione nazionale magistrati). “Ebbene, si può dire forse che la Magistratura si trovi in una posizione diversa da quella dei menzionati pubblici funzionari?”
Lo sciopero dei magistrati non è espressamente vietato, ma nemmeno, come detto, espressamente previsto. L’unica fonte che l’ammette è il Codice di autoregolamentazione che l’Associazione nazionale magistrati ha (ovviamente) approvato il 5 maggio 2004, le cui modalità di esercizio sono state valutate “idonee” dalla Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali ai fini della garanzia delle prestazioni essenziali durante lo sciopero (delibera n. 04/566 del 21 ottobre 2004). Si tratta quindi di un giudizio formulato da un’autorità amministrativa di garanzia in relazione solo alle modalità di esercizio ma non certo alla legittimità di chi lo esercita. Di contro l’unica legge che regolamenta il diritto di sciopero – quella nei servizi pubblici essenziali (l. 146/1990) – espressamente include l’amministrazione della giustizia tra i servizi e le prestazioni indispensabili che devono essere garantiti per consentire il godimento dei diritti della persona costituzionalmente tutelati, specie ovviamente quando si tratti di provvedimenti cautelari ed urgenti.
In tale quadro d’incertezza normativa, è ai principi costituzionali che bisogna ricorrere. Principi da cui traggo “l’avviso che uno sciopero dei magistrati è giuridicamente inammissibile”. “Lo sciopero è senza dubbio un diritto riconosciuto dalla Costituzione” ma “non è un diritto illimitato” perché, secondo l’art. 40 Cost. “si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”. “È vero che questi limiti – la cui precisazione il precetto costituzionale demanda e riserva al legislatore ordinario – non sono stati ancora da quest’ultimo individuati e sanciti, come pur sarebbe stato auspicabile; ma non è men vero che alcuni di essi già esistono, in quanto derivano direttamente e immediatamente da altri principi e precetti della Costituzione, e si devono pertanto considerare operanti anche se non si è ancora avuta la precisazione legislativa di cui poc’anzi ho fatto cenno”. Tali limiti, nel caso dei magistrati, derivano “dalla necessità di contemperare le esigenze dell’autotutela di categoria con le altre discendenti da interessi generali, che trovano diretta protezione in principi consacrati nella stessa Costituzione”.
Da questo punto di vista non c’è dubbio che i magistrati esercitano una funzione essenziale in quanto sono “investiti di una funzione sovrana” “Ed è proprio in considerazione del carattere sovrano della funzione esercitata che la Costituzione assicura ai magistrati speciali guarentigie e uno status particolarissimo, che sarebbe superfluo qui ricordare. Ma a queste guarentigie e a questo status non possono non corrispondere speciali responsabilità, obblighi e doveri, tra i quali quello di assicurare la continuità di una funzione essenziale, sovrana, insuscettibile di interruzione”. Diverse sono le disposizioni costituzionali “da cui chiaramente risulta quella che si potrebbe definire necessaria continuità della funzione”. La Costituzione, infatti, afferma che tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi (articolo 24); impone l’obbligo al pubblico ministero di esercitare l’azione penale (articolo 112); pone la polizia giudiziaria – alla quale, come si è visto, non può riconoscersi il diritto di sciopero – a disposizione dell’autorità giudiziaria (articolo 109); infine postula quelle leggi che impongono al magistrato di adottare, entro termini perentori, provvedimenti che riguardano la libertà e gli altri diritti fondamentali dei cittadini.
Si potrebbe obiettare che, al pari di tutti gli altri pubblici impiegati, anche i magistrati potrebbero scioperare per motivi retributivi, ma tale obiezione “non tiene conto che nello stesso rapporto di prestazione d’opera retribuita vi sono anche altre categorie, come si è visto, rispetto alle quali il divieto di sciopero non è contestato. La verità è che nell’ambito del pubblico impiego possono darsi limitazioni di certi diritti fondamentali, in vista dei fini supremi cui tendono i compiti assegnati a certe categorie di pubblici funzionari. Ne è prova la disposizione contenuta nell’articolo 98 della Costituzione, là dove si individuano alcune di queste categorie [tra cui i magistrati], rispetto alle quali può essere stabilito per legge il divieto di iscrizione a partiti politici, che pur è un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione”. Lo sciopero dei magistrati dovrebbe essere dunque una “manifestazione non consona con la posizione costituzionale e con il prestigio della Magistratura” (così il CSM, seduta del 20 dicembre 1963), anziché un diritto che costoro hanno potuto esercitare di fatto, senza subire alcuna sanzione grazie al fatto di essere giudici “in causa propria”.
Per di più quello appena proclamato non è uno sciopero indetto da cittadini-magistrati per finalità economico-retributive. È, piuttosto, uno sciopero indetto da magistrati-cittadini, riuniti in un’associazione di categoria, di natura politica perché diretto a contestare la legge delega di riforma dell’ordinamento giudiziario approvata dalla Camera. Esso ha quindi come fine la tutela di “interessi che possono essere soddisfatti solo con atti di governo o da atti legislativi”. Così l’ha definito (e ammesso) la Corte costituzionale (sentenza n. 290/1974) nel contempo però vietandolo quando “per il suo modo di essere, oltrepassando i limiti di una legittima forma di pressione, si converta in uno strumento diretto ad impedire od ostacolare il libero esercizio di quei diritti e poteri nei quali si esprime direttamente o indirettamente la sovranità popolare”.
Ebbene, siamo di fronte ad uno sciopero di un potere dello Stato (giudiziario) contro un altro potere dello Stato (legislativo) con il quale il primo “per farsi ascoltare” usa uno strumento politico per contrastare una scelta di politica giudiziaria che per Costituzione compete solo al Parlamento, quale sede della rappresentanza politica della sovranità popolare. Se le riforme approvate sono illegittime, perché lesive dell’autonomia e indipendenza della magistratura, sarà la Corte costituzionale a stabilirlo. La scelta dei magistrati di contrastarle non secondo i rimedi previsti dal nostro ordinamento ma sul piano politico è l’ennesima riprova della tendenza dell’ordine giudiziario ad ergersi a potere che vuole condizionare, dal di dentro e dal di fuori, il legislativo e l’esecutivo, in chiara violazione del principio della separazione dei poteri che dai tempi di Locke e Montesquieu fonda le moderne democrazie costituzionali.
P.S. L’attento lettore si sarà chiesto da dove sono tratti i virgolettati riportati nell’articolo. Si tratta del discorso tenuto dal Presidente della Repubblica Saragat al Consiglio superiore della magistratura il 21 febbraio 1967 sullo sciopero dei magistrati, poi ripreso e condiviso dal Presidente Leone il 28 gennaio 1974. Ma questa è una precisazione utile solo per chi fa dipendere la validità degli argomenti dall’autorità di chi li sostiene oppure la ritiene inficiata dal tempo trascorso. Salvatore Curreri
In un appello decine di toghe attaccano l’Anm. Resa dei conti tra toghe, insorgono i dissidenti: “Nè con Cartabia, né con questa Anm”. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
“Né con la Cartabia, né con questa Anm”, è il titolo di un appello che sta girando da ieri pomeriggio sulle mailing list dell’Associazione nazionale magistrati. “Ci siamo illusi! Quando il ‘Sistema Palamara’ è venuto alla luce attraverso la pubblicazione delle famose chat, disvelando, per l’ennesima volta, come negli ultimi trent’anni, ciò che molti sapevano ma che pochi avevano avuto il coraggio di denunciare pubblicamente, nessuno in magistratura ha potuto continuare ad ignorare e a voltare la faccia dall’altra parte”, esordisce il documento che già dopo poche ore era stato sottoscritto da decine di toghe di diversi uffici giudiziari.
Allo scoppio del ‘Palamaragate’, prosegue “sono seguite dichiarazioni di aperta condanna: sconcertate ed indignate, da parte della “base” più o meno consapevole che si diceva ferita e amareggiata per il discredito che aveva colpito la categoria; altisonanti ed ipocrite, da parte di chi avrebbe dovuto astenersi dal porre in essere certe condotte e invece, dopo aver partecipato alle pratiche spartitorie, aveva approfittato della situazione per marcare differenze e operare distinguo”. “Si era detto con toni ultimativi e perentori – prosegue – che bisognava voltare pagina e che certi comportamenti non sarebbero stati più tollerati, perché altrimenti la politica ci avrebbe “riformato”, e lo avrebbe fatto con spirito di rivalsa e intenti punitivi che avrebbero finito per limitare l’autonomia l’indipendenza che sono riconosciute alla magistratura non come privilegio, ma nell’interesse esclusivo della collettività”.
Cacciato Palamara dalla magistratura, fanno intendere le toghe che hanno aderito all’appello, “l’indignazione generale ha lasciato il posto ad una critica di maniera, fatta di mere affermazioni di principio e di formule vuote, e, dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri – complice anche una circolare auto-assolutoria della Procura generale presso la Corte di Cassazione, titolare dell’azione disciplinare -, il “Sistema” ha ripreso a funzionare esattamente come prima”. Il risultato è stato che “i tanti colleghi silenti che dopo lungo tempo si erano finalmente fatti sentire per rivendicare la propria estraneità a certe logiche e la propria voglia di cambiamento, sono tornati nuovamente a ripiegarsi su se stessi”. Per fare un confronto, “la primavera araba” dei magistrati “è finita ben presto”. Se è questo è il quadro “desolante”, l’Anm allora cosa ha fatto?
“Non ha detto una parola per stigmatizzare la circolare della Procura generale in tema di autopromozione, ha professato una fiducia preconcetta nelle capacità taumaturgiche della ministra Cartabia di riformare con la bacchetta magica il processo civile e quello penale, accettando supinamente soluzioni scellerate e rifiutando di indicare rimedi di buon senso che avrebbero potuto accelerare la definizione dei processi, si è guardata dal promuovere il sorteggio temperato per la scelta dei candidati al Csm e la rotazione negli incarichi direttivi e semidirettivi, e una disciplina che ponesse fine ai privilegi (anche economici) dei magistrati fuori ruolo”. In pratica nessuna “seria “autoriforma” che smantellasse realmente il “Sistema” e tutelasse finalmente l’autonomia interna di tutti i magistrati”.
L’Anm si è allora “preoccupata unicamente di “patteggiare” con la politica una legge elettorale per il rinnovo del Csm che consentisse alle correnti di continuare a designare i propri eletti, in modo da poter gestire – con affidamento in house – il governo autonomo della magistratura” e “per salvarsi la faccia con la base elettorale, in vista della imminente campagna elettorale per il rinnovo del Csm, ha inscenato una protesta di maniera, tardiva e disorganizzata, contro una pessima riforma dell’ordinamento giudiziario, concepita in chiave meramente punitiva”. “La magistratura ha il dovere di recuperare l’onore e la credibilitá e, per farlo, deve avere il coraggio di dire la veritá innanzitutto a se stessa”, concludono i firmatari, ricordando il giuramento di fedeltà al Regime imposto nel 1931 ai professori universitari. “Giurarono tutti, meno dodici. Come ricordava Umberto Eco, “quei dodici hanno salvato l’onore dell’Università italiana””. Paolo Comi
L'intervento all'assemblea dell'Anm. “Perché i magistrati hanno paura di loro stessi?”, la riflessione di Gian Domenico Caiazza. Redazione su Il Riformista il 6 Maggio 2022.
Pubblichiamo di seguito l’intervento del presidente dell’Unione camere penali italiane all’Assemblea dell’Associazione nazionale magistrati del 30 aprile scorso.
Ringrazio il Presidente Santalucia e tutti voi per questo invito. Il metodo del confronto è nel nostro DNA. Voglio ricordare, in proposito, quando il Ministro Bonafede ci chiama, ci dice “Voglio ridurre i tempi del processo”. Chiama ANM e UCPI, partivamo dalle posizioni più inconciliabili: voi avevate licenziato quel documento del novembre 2018, se non sbaglio, che prevedeva abolizione del divieto di “reformatio in peius”, letture demolitorie dell’oralità del dibattimento, noi dalle nostre posizioni che vi sono note. Ci siamo guardati in faccia a un tavolo, abbiamo lavorato, abbiamo offerto a quel Ministro un’occasione irripetibile, cioè una proposta comune dopo due mesi di lavoro. Abbiamo detto insieme: volete i tempi rapidi?
Questa è la strada: riti speciali potenziati, tanto abbreviato condizionato, patteggiamento senza limiti di ostatività soggettive e oggettive, potenziamento dell’udienza preliminare, depenalizzazione (con una vostra proposta molto interessante sui reati contravvenzionali). Poi la politica – e devo dire che il Ministro mi è parso il meno colpevole- ha dato prova di tutta la sua mediocrità, e si è persa quella grande occasione. Ma voglio ricordare questo per dire che invece qui, sull’ordinamento giudiziario, si è commesso l’errore contrario. Noi siamo stati totalmente esclusi dalla Commissione ministeriale. Non così era stato per la riforma del processo penale, dove la nostra presenza credo che abbia prodotto un testo non divisivo, con buoni risultati qualitativi. Non dico “avete”, non so chi ha voluto che questa legge fosse scritta senza il confronto con i penalisti italiani. Penso che una legge che si occupa di questi temi senza di noi sarà per forza una legge più debole – scusate la presunzione – ma perché io credo che dal dialogo e dal confronto nascano le soluzioni.
Non sono qui per “captatio benevolentiae”. Noi abbiamo un’idea comunque critica di questa riforma, la consideriamo ancora blanda, lacunosa, ma con dei passi avanti che sono stati importanti e che abbiamo apprezzato. Questo giudizio sicuramente muove da punti di vista diversi, se non opposti ai vostri. Però non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento qui più diffusamente proposte sui temi caldi, e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni della vostra protesta siano altre. Io non posso sentire un magistrato – oltre che un amico – della qualità intellettuale e professionale di Eugenio Albamonte, portarmi come esempio della possibile distorsione delle nuove valutazioni di professionalità, l’esito del processo di “mafia capitale” per dirne una. O la sezione di Genova di ANM che scrive un documento ricordando le sentenze sul danno biologico della fine degli anni ‘70, sulle quali per di più ho fatto la tesi di laurea con Stefano Rodotà, sentenze che sono state confermate pochi anni dopo dalla Corte di Cassazione, diventando giurisprudenza costante.
Perché pretestuosità? Perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste, come ha ricordato bene l’on. Costa, con quegli stessi criteri (“valutazione degli esiti” significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi) oggi lo costituite con le cause a campione, o addirittura con quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative (una, cinque, venti) non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare – ci chiediamo con franchezza, con amicizia – perché dovete fare questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? Dobbiamo immaginare – ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere – che si vogliono delle norme che esistono formalmente ma che non trovano applicazione nel concreto, come quella direttiva CSM del 2007 che prevede le valutazioni ma che, di fatto, consente che non si facciano.
Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, provvedimenti, ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate. Io vorrei capire una cosa: noi parliamo qui con l’Associazione nazionale dei magistrati o dobbiamo pensare che parliamo con una parte della magistratura, che ne teme un’altra? Perché i giudizi sul fascicolo, di cui a questo famigerato emendamento che vi ho detto quello che aggiunge – cioè poco, importante ma poco – lo valutate voi. Quando si parla di direttive, state parlando tra di voi, non è che veniamo io e Costa a dare direttive, o a giudicare il vostro fascicolo. Siete voi che ve lo giudicate. Allora qual è il senso? Qual è il senso di questa polemica?
Ed ancora: come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? Io vi chiedo: come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo? Cioè una unicità mondiale, non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un Governo di qualsiasi colore e duecento magistrati vengono messi fuori ruolo e distaccati presso l’esecutivo. Un’abnormità costituzionale, che difendete con le unghie e con i denti, ma lo fate silenziosamente. Allora prendete la parola e scioperate perché volete continuare a che il capo di Gabinetto del Ministro e il capo del legislativo appartengano alla Magistratura e non al funzionariato di carriera – perché non è che ci voglio andare io.
Questa crisi della giurisdizione è una crisi della democrazia in questo Paese. Di che stiamo parlando qui? Non ci perdiamo dietro la riforma, dietro questo o quell’emendamento. Dopo la crisi della politica, la crisi delle istituzioni principali di questo Paese, oggi ci misuriamo con la crisi della giurisdizione.
È un problema che ci tocca come cittadini, come qualità della nostra vita democratica. Non potete chiudervi in un ragionamento come se qualunque modifica si voglia apportare sia un assalto al fortino che voi difendete. Dobbiamo ragionare insieme. Noi vi ascoltiamo sulle vostre critiche alla separazione delle carriere, alcune delle vostre obiezioni meritano attenzione. Sulla responsabilità civile del magistrato mi avete addirittura convinto (perciò vogliamo piuttosto una vera responsabilità professionale del magistrato). Ma non potete affrontare sempre i nostri punti di vista con il pregiudizio che gli avvocati vogliano indebolire la magistratura. Al contrario! Noi vogliamo un giudice forte! Noi vogliamo entrare in aula temendo la qualità, la severità, l’intransigenza del giudice. Ma come me lo deve temere il Pubblico Ministero. Dobbiamo essere nella stessa misura intimoriti dall’autorevolezza del giudice. Questa è l’idea che noi abbiamo del processo penale.
Vogliamo un Pubblico Ministero indipendente dal potere politico, vogliamo un giudice indipendente dal Pubblico Ministero e dalle Procure. Vogliamo un giudice forte. Questo dovrebbe essere un motivo della vostra riflessione maggioritaria, perché siete l’80% di giudici rispetto al 20% di Pubblici Ministeri. In questo Paese, delle sentenze non importa nulla a nessuno; del vostro giudizio non importa niente a nessuno. Il giudizio della pubblica opinione sulla responsabilità penale si esaurisce nell’incriminazione, nell’indagine, nel rinvio a giudizio. È un problema nostro? Io penso che sia un problema vostro e un problema di tutto il Paese.
L’intervista. Sciopero delle toghe, si spezza il fronte dell’Anm: “Ecco perché non aderisco”. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Maggio 2022.
L’Associazione nazionale magistrati ha scelto il 16 maggio come giorno per lo sciopero (“astensione totale dalle funzioni” hanno deliberato) contro la riforma Cartabia, quindi contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura. Una riformina, dopotutto. Che agita fortemente gli animi delle toghe al punto da spingere loro, espressione di un potere dello Stato, a protestare contro un altro potere dello Stato. Agita le toghe, dicevamo, soprattutto quelle legate alle correnti. Per fortuna non tutte.
Fabio Lombardo è giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Napoli, iscritto all’Anm, non iscritto ad alcuna corrente. Prima di entrare in magistratura ha fatto per dieci anni l’avvocato penalista: il mondo della giustizia, dunque, ha potuto osservarlo dalle due angolazioni opposte. Il 16 maggio sarà regolarmente a lavoro.
«Non sciopererò – spiega – . Un giorno di astensione dalle udienze non serve a niente e non sarebbe compreso dalla collettività che già, a torto o a ragione, ci accusa di essere “lenti” e di lavorare poco. La contrarietà a questa pessima riforma doveva essere espressa in altro modo, magari di sabato o di domenica, senza rinviare neanche un’udienza».
Questa magistratura vive una fase di crisi di fiducia e di credibilità che ha radici profonde nello scandalo Palamara e in vicende interne alla Anm stessa. Ci si aspettava un cambiamento radicale, invece la categoria continua a non voler affrontare alcun concreto cambiamento, a non volersi mettere in discussione. Perché secondo lei?
«Palamara non ha fatto tutto da solo, ma è stato il capro espiatorio che ha pagato per tutti. Quando il “Sistema” è venuto alla luce, molti, giustamente, si sono detti indignati, ma quella che è mancata è stata una seria autocritica, a cominciare da chi aveva partecipato alle pratiche spartitorie. C’è stata una “caccia alle streghe” che, nel silenzio colpevole dell’Anm, ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri. È stata un’occasione persa».
Secondo lei come sarebbe stato più opportuno reagire?
«Avremmo dovuto farci promotori di una serie di proposte concrete che smantellassero realmente il “Sistema” e tutelassero finalmente l’autonomia interna di tutti i magistrati. Il sorteggio temperato per l’elezione dei membri del Csm, a mio avviso, poteva essere una soluzione praticabile, perché avrebbe impedito alle correnti di continuare a designare i propri eletti nel Consiglio Superiore. In alternativa, si sarebbe potuto introdurre primarie vere e obbligatorie tra i candidati, prevedere il voto plurimo e il cosiddetto panachage (che avrebbe consentito all’elettore di scegliere i migliori nelle diverse liste, invece di esprimere un voto di mera appartenenza correntizia). Avremmo dovuto pretendere una disciplina che introducesse delle incompatibilità tra gli incarichi ricoperti nell’Anm e nel Csm, che prevedesse (se non la rotazione, quanto meno) criteri meno arbitrari nel conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi e che ponesse fine ai privilegi (anche economici) dei magistrati fuori ruolo. Come categoria, non abbiamo fatto alcuna proposta concreta. Qui sta la nostra colpa più grande».
E poi c’è la posizione assunta sul tema delle valutazioni professionali. I magistrati hanno paura del proprio lavoro, temono il giudizio dei loro stessi colleghi…
«Il sistema delle valutazioni professionali poteva certamente essere migliorato, ma è assurdo pensare che un gip debba essere valutato non tanto per le ordinanze cautelari che ha emesso e che vengono confermate o annullate dal Tribunale del riesame, ma per il fatto che – a distanza magari di anni e sulla scorta delle prove fornite dalla difesa – l’imputato sarà stato assolto o condannato. Inoltre, sono anni che chiediamo, invano, di poter essere messi in condizione di conoscere gli esiti, in appello, dei nostri processi (senza dover chiedere notizie all’avvocato di turno), ma il sistema – che adesso vuole far dipendere le nostre valutazioni proprio da quegli esiti – non lo consente».
Lungaggini processuali, errori giudiziari, innocenti in carcere: la giustizia è piena di criticità. Come si può migliorare?
«Nel mese di giugno 2021, con alcuni colleghi, avevamo scritto una lettera aperta alla ministra Cartabia per indicare dieci riforme a costo zero che avrebbero ridotto i tempi dei processi penali e contribuito a risolvere alcuni dei problemi endemici della nostra giustizia, ivi compreso il sovraffollamento carcerario. In quella lettera, chiedevamo tra l’altro di introdurre la domiciliazione ex lege dell’imputato presso il difensore di fiducia, come nel processo civile (in modo da non dover più rinviare un processo soltanto per un’omessa notifica); di prevedere il giudizio abbreviato come forma di giudizio ordinario (e il dibattimento a richiesta dell’interessato); di consentire all’imputato di patteggiare senza limiti di pena e di tempo (anche durante il dibattimento); di rivedere il sistema delle pene, consentendo al giudice della cognizione di condannare l’imputato ad eseguire lavori di pubblica utilità o alla detenzione domiciliare (senza dover aspettare il magistrato di Sorveglianza); di abolire il divieto di reformatio in peius che costituisce un incentivo alle impugnazioni meramente dilatorie; di operare una seria depenalizzazione. Niente di tutto questo: per ridurre i tempi dei processi, si è introdotta soltanto l’improcedibilità dell’azione penale in appello».
A breve ci saranno i referendum sulla giustizia. Contengono quesiti di ispirazione garantista e quasi non se ne parla, snobbati dalla politica, eppure toccano temi che sono di grande interesse per tutti. Per quanto riguarda la categoria delle toghe, in particolare, uno dei quesiti riguarda la separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti. Cosa ne pensa?
«Non sono pregiudizialmente contrario alla separazione delle carriere, purché si faccia con legge costituzionale, prevedendo due Csm diversi. Ma dubito che il vero problema sia l’unicità delle carriere dei magistrati o la possibilità di passaggio da una funzione all’altra. Ho fatto l’avvocato per quasi dieci anni e penso che essere stato “parte” (pm o difensore) mi aiuti ad essere un giudice super partes».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
«Io non sciopero!», la fronda nell’Anm. All’interno della magistratura cresce il no all’astensione. Lo pronunciano figure di spicco come l’ex presidente Anm Grasso e schiere di giudici che diffondono documenti. Come quello che alcuni propongono di affiggere alla porta del proprio ufficio e dove c’è scritto “io non sciopero”. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 5 maggio 2022.
Scioperare «turandosi il naso». Una frase che riporta subito la memoria alla vigilia delle elezioni politiche 1976, quando il Partito comunista sembrava essere in procinto di sorpassare la Dc e conquistare il potere. “Turatevi il naso ma votate Dc”, scrisse allora Indro Montanelli, invitando così gli italiani a dare la preferenza alla tanto vituperata ‘balena bianca’ piuttosto che al partito di Enrico Berlinguer, in quel momento un potenziale pericolo per la giovane Repubblica italiana.
A distanza di quasi cinquanta anni, sembra essere questo lo stato d’animo maggiormente diffuso fra le toghe in vista della giornata di astensione dalle udienze del prossimo 16 maggio, proclamata da parte dell’Associazione nazionale magistrati per protestare contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia. «Dovremmo scioperare per una riforma tutto sommato di bandiera» che «non sconquasserà la magistratura» e «quando siamo ai minimi storici di credibilità? Non sono d’accordo», afferma a tal proposito l’ex presidente Anm Pasquale Grasso in una intervista all’AdnKronos.
Si tratta di uno sciopero, prosegue Grasso, «indetto fuori tempo massimo» e che «lascia l’impressione amara di una volontà di mera rappresentazione. Proprio per questo motivo, molti magistrati, aggiunge l’ex capo Anm, sciopereranno «turandosi il naso», avendo «paura di un boomerang da scarsa partecipazione” e perché “non possiamo apparire divisi all’esterno». Grasso, infine, ricorda che lo sciopero si fonda su un casus belli debole. «Scioperiamo perché? Scioperiamo per gli avvocati nelle nostre valutazioni di professionalità? Mi pare ipotesi residualissima e congegnata in maniera che non pare lesiva delle giuste prerogative dei magistrati», puntualizza. Sul punto Grasso ricorda l’approccio dei colleghi progressisti: «La corrente di Area che sciopera per questo motivo mi fa sorridere, visto che la partecipazione degli avvocati alle valutazioni di professionalità è una risalente e reiterata richiesta di quella corrente».
«Mi pare una protesta di mera facciata. Il sistema correntizio è ancora in piedi e si rafforzerà con questa riforma», afferma al Dubbio il giudice di Ragusa Andrea Reale, esponente di Articolo 101, il gruppo “anticorrenti”, che ha già fatto sapere di non aderire allo sciopero. «Ritengo sia una grande ipocrisia protestare soltanto con una giornata di astensione, quando si è rimasti inerti per mesi davanti a modifiche normative che snaturano la giurisdizione oltre che i principi costituzionali che ne costituiscono l’ossatura», aggiunge Reale.
«Condivido l’analisi del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia sulle criticità della riforma ma ho molte perplessità per una iniziativa, lo sciopero, che non verrà certamente compresa dall’opinione pubblica», è il commento rilanciato al Dubbio del consigliere di Cassazione Roberto Conti, direttore editoriale di Giustizia Insieme, la piattaforma online nata come luogo di confronto fra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile. Se quindi non si possono fare previsioni sulla partecipazione delle toghe allo sciopero, diversi magistrati, non etichettabili in alcun gruppo associativo, hanno iniziato a diffondere un volantino da apporre sulla porta del proprio ufficio per segnalare alle parti, avvocati e cittadini, che non vi aderiranno. «A tre anni dal disvelamento del “sistema Palamara” nessuna proposta concreta per risolvere i problemi della magistratura è stata avanzata dall’Anm», esordisce il documento. «La vera minaccia all’indipendenza della magistratura – prosegue – è costituita dallo strapotere delle correnti, che hanno condizionato e continuano a condizionare la vita del magistrato, giudicante e requirente. Siamo fermamente contrari a una riforma che NON risolve il nodo centrale del sistema elettorale del Csm, che continuerà ad essere dominato dalle correnti».
Per le toghe promotrici del documento si tratta di «una riforma che, nel complesso, tradisce il suo stesso proposito, finendo, in una sorta di eterogenesi dei fini, per aumentare il potere dei gruppi». «Tuttavia – conclude il volantino – NON possiamo unirci a una forma di protesta che riteniamo solo di facciata, perché indetta da quella stessa Anm che nulla ha fatto per combattere le degenerazioni correntizie e che trarrà solo vantaggi dalla riforma. Chiediamo che si metta mano, una volta per tutte, ai veri problemi della magistratura».
L’iniziativa del volantino segue l’appello “Né con l’Anm, né con la Cartabia” che era stato firmato nei giorni scorsi da una cinquantina di magistrati di diversi uffici giudiziari del Paese. Anche in questo caso si accusavano i vertici dell’Anm di non aver fatto nulla per risolvere il problema del correntismo dopo il Palamaragate. «Dopo una “caccia alle streghe” che ha colpito alcuni e risparmiato tanti altri, complice anche una circolare auto-assolutoria della Procura generale presso la Corte di cassazione, titolare dell’azione disciplinare, il ‘Sistema’ ha ripreso a funzionare esattamente come prima», affermavano i magistrati, auspicando un recupero di credibilità, ormai ai minimi termini.
La riforma giustizia. “Ma quale sciopero, l’Anm deve ringraziare”. intervista al giudice di sorveglianza Andrea Mirenda. Paolo Comi su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
«Ho già preparato il cartello da mettere davanti alla porta del mio ufficio. C’è scritto: ‘Questo giudice non sciopera’. Voglio chi sia ben chiaro a tutti, avvocati e cittadini, che non condivido minimamente la protesta dell’Anm». A dirlo è il giudice Andrea Mirenda, magistrato di sorveglianza presso il tribunale di Verona.
Dottor Mirenda, allora non sciopera?
Ma no, ci mancherebbe altro.
L’Anm è preoccupata dei possibili effetti della riforma Cartabia.
Guardi, l’Anm, a cui non sono più iscritto, dovrebbe fare solo una cosa: ringraziare il governo per lo scampato pericolo.
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A cosa si riferisce?
È sparito il sorteggio ‘temperato’ per l’elezione dei componenti togati del Csm. Era l’unica riforma che andava fatta e che avrebbe tolto una volta per tutte il potere alle correnti della magistratura.
I politici hanno avuto paura di mettersi contro i magistrati?
Non so se abbiamo avuto paura o se ci sia stato un accordo. Il risultato finale è il che il solito asse politica-magistratura, quello che spadroneggia nelle procure ‘calde’, ha avuto la meglio e la proposta del sorteggio è stata ritirata.
Torniamo allo sciopero.
Per il sottoscritto si tratta di uno sciopero ‘pro forma’. Non ci sono minacce esterne. Io non vedo tutti questi ‘pericoli’.
I suoi colleghi, invece, dicono che con questa riforma trionferà il ‘conformismo’ giudiziario. I giudici, in altre parole, saranno terrorizzati dallo scrivere una sentenza che possa andare contro l’orientamento prevalente della Cassazione, rischiando così una sanzione perché potrà essere ribaltata nei successivi gradi di giudizio.
Ma quando mai. Voglio vedere chi avrà il coraggio di aprire un procedimento disciplinare ad un giudice che ha redatto una sentenza ben motivata e ben scritta. Anche se va contro quello che dice la Cassazione. Siamo seri, per favore.
Non ha paura delle pagelle?
Altra norma ridicola.
Abbiamo capito che lei non si sente minacciato ed in pericolo.
No, la minaccia al lavoro del magistrato esiste ed è quella delle correnti. Sono loro che gli creano problemi sotto il profilo dell’autonomia e dell’indipendenza.
Lei aveva firmato per i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega.
Si, e lo rivendico. Firmai perché fin da subito avevo capito che la riforma voluta dalla ministra Marta Cartabia, e che doveva essere ‘epocale’, era invece il nulla assoluto. Una riforma che non avrebbe cambiato di una virgola la situazione attuale, continuando a lasciare il potere alle correnti all’interno del Csm per le nomine e gli incarichi. Ed infatti così è successo.
Perché da magistrato ha condiviso il quesito sulla separazione delle funzioni?
La realtà italiana non esiste in nessun altro Paese europeo. Siamo un caso unico. Ritengo che sia necessario un processo riformatore che ci avvicini agli altri Stati, da realizzarsi con una modifica alla Costituzione che preveda un pm soggetto soltanto alle legge e pienamente indipendente.
All’assemblea dell’Anm dello scorso fine settimana, invece, hanno rivendicato la comune “cultura giurisdizionale” fra pm e giudici.
Io dico da sempre che è un alibi, un inganno. Se i pm saranno indipendenti e soggetti solo alla legge non vedo quali problemi ci possano essere se si ‘staccano’ dai giudici.
I pm sono stati quelli che hanno spinto di più per lo sciopero.
I pm da sempre hanno un ruolo di primo piano nella vita associativa della magistratura.
Non è un caso che il presidente dell’Anm sia quasi sempre un pm e non un giudice. E questo anche se numericamente i pm sono molto meno rispetto ai giudici.
Oltre alle correnti, sotto il profilo normativo, che problemi ha la magistratura?
La ‘gerarchizzazione’. I magistrati secondo la Costituzione si distinguono solo per funzioni. Ma oggi non è cosi. Nelle procure c’è il procuratore che ‘comanda’ e i pm che sono sotto di lui. La gerarchizzazione è stata peraltro portata avanti dalla sinistra giudiziaria che per anni ne ha beneficiato. Il rimedio antigerachico è la rotazione degli incarichi direttivi e semi direttivi. E un rimedio rispettoso della dignità dei colleghi. E lo dice uno che è stato iscritto a Magistratura democratica e ha sempre avuto un approccio progressista e riformista. Paolo Comi
Dietro la protesta la paura di essere “normali”. Rivolta delle toghe contro la ‘riformina’ Cartabia: “Solo noi diamo le pagelle”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Il primo maggio dei lavoratori in toga, le braccia incrociate a scioperare contro la Piccola Riforma del governo Draghi e della ministra Cartabia hanno un solo sapore, quello della paura di diventare “normali”. Di essere finalmente impiegati laici vincitori di un concorso, tramite il quale hanno avuto accesso alla gestione di una delle tre funzioni fondamentali dello Stato, quella giudiziaria, separata e complementare dei poteri legislativo e esecutivo. Non tollerano, soprattutto, che qualcuno (che poi sarebbero i loro stessi colleghi del Csm) possa dare la pagella al loro lavoro. La pagella, loro vogliono continuare a darla agli altri, non riceverla.
Niente fascicolo di valutazione dell’attività del magistrato. Non parliamo di separazione delle funzioni tra requirente e giudicante. A quel punto mettono sul tavolo la P38. Un comportamento che ricorda qualcosa e qualcuno, ma con atteggiamento opposto. Qualcuno che ha pagato un prezzo ben più alto. Le premesse però c’erano tutte, la necessità di correggere qualcosa che non andava. Ieri nella Casta dei politici, oggi in quella dei magistrati. Senza rancori né vendette. Quando nel 1993 un Parlamento di politici sconfitti abolì l’immunità, cioè l’unico contrappeso rispetto all’indipendenza della magistratura posto dai Padri Costituenti, grande fu il gaudio generale. Nessuno alzò la voce a ricordare che la separazione dei poteri necessita che ciascuno di essi sia forte nel proprio alveo.
Nessuno imprecò contro quelle toghe sempre più sfacciatamente invadenti nel dare le pagelle alla politica. Era pur vero che, troppe volte, nelle giunte di Camera e Senato, si era invocato il fumus persecutionis con percentuali altissime di parlamentari che venivano “assolti” dai loro colleghi e sottratti all’amministrazione della giustizia anche se avevano picchiato la moglie o rubato al supermercato. Ma era ancor più vero che le pagelle della giustizia, distribuite da soggetti che si facevano chiamare “Mani Pulite”, quasi fossero vindicatores di un mondo politico fatto solo da malfattori, si chiamavano manette. Senza di quelle non possiamo giudicare, dissero, né dare i voti ai politici. Ecco perché i parlamentari devono presentarsi a noi privi di ogni tutela. Devono essere cittadini come gli altri, dissero. Ma gli eletti dal popolo non sono, non possono e soprattutto non devono essere cittadini come gli altri. Proprio come i magistrati. E come gli uomini di governo. Hanno più doveri, ma la loro indipendenza, la loro autonomia e la loro imparzialità (che le toghe non citano mai) sono sacre.
Per trent’anni, da quel Parlamento di sconfitti fino a oggi, la politica è rimasta in balia non solo di una casta ben protetta nella sua cittadella, ma di un sistema giudiziario e mediatico che ne ha messo in ginocchio la reputazione e ne ha impoverito sempre di più la capacità di rigenerazione professionale e culturale. L’incapacità delle Camere ad avere una vita propria, indipendente dal Governo e soprattutto dalle incursioni dei pubblici ministeri ne è la riprova. Qualunque tentativo di riformare la giustizia, di avvicinarsi alla civiltà dell’occidente e dell’Europa è stato preso a pistolettate da una Casta perennemente in armi, sempre pronta ad abbattere il “cinghialone” piuttosto che il “cavaliere nero”. Parlamento ammutolito e Ministri della giustizia caduti come birilli, da Conso a Martelli a Biondi e Mancuso fino a Mastella. Bicamerali annientate, fossero presiedute dal democristiano De Mita piuttosto che dal comunista D’Alema.
Seduti quasi sacralmente sullo scranno più alto, questi uomini del Potere Dominante hanno giudicato e sfornato pagelle per tre decenni. Solo nei confronti di se stessi, dei propri comportamenti, del proprio modo di indagare e poi di valutare, la severità ha lasciato il posto all’indulgenza, le manette ai buffettini sulle guance. Così è che ogni anno il Csm “assolve” il 99% delle toghe “indagate” e ne condanna, spesso alla pena più lieve, il restante uno per cento. Vi ricorda niente, questo comportamento di generale autoassoluzione? Non è un po’ simile a quel che accadeva in Parlamento fino al 1993? Eppure, se vogliamo restare all’interno del paragone, di motivi per un po’ di autoanalisi anche tra le toghe ce ne sarebbero parecchi. Non sono sempre stati i magistrati a dire al mondo della politica che, se non si ha nulla da nascondere, se si è innocenti e puri come agnellini, non si devono temere le intercettazioni, le perquisizioni, le indagini? Le pagelle, in definitiva. Per quale motivo l’attività di un pubblico ministero e di un gip per esempio non possono essere esaminate nel metodo con cui hanno chiesto e deciso la privazione della libertà personale di un cittadino?
Se il Parlamento ha deciso con la votazione della Camera (e in seguito del Senato), di recuperare, sia pur con una Piccola Riforma, un po’ di autonomia perduta nel proprio ruolo di legislatore, è anche perché nel mondo del potere giudiziario si era sbriciolato qualcosa e molti nodi erano venuti al pettine. Accanimento nell’applicazione delle norme processuali sulla custodia cautelare che determinano un affollamento carcerario che non ha paragone in altri Paesi, violazione delle norme sulla competenza territoriale, applicazione “creativa” dell’obbligatorietà dell’azione penale. Sono alcune delle anomalie che un Csm (speriamo) rinnovato e più attento sarà chiamato e verificare. Se non avete nulla da nascondere, di che cosa vi preoccupate?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
L’Anm e quello sciopero sconcertante proclamato solo dal 9 per cento dei magistrati. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Francesco Damato su il dubbio il 3 maggio 2022.
Ciò che più mi sconcerta dello sciopero dei magistrati deliberato dall’assemblea generale del loro sindacato non è il solito dubbio di costituzionalità, sollevato in qualche sede anche in questa circostanza. E neppure la doppia circostanza scelta per deciderlo: alla vigilia della festa del lavoro, quasi per onorarla con uno sciopero sia pure differito, e in vista del passaggio della contestata riforma della giustizia al Senato, come per diffidarlo dall’approvarla nello stesso testo uscito dalla Camera, intromettendosi così gravemente nell’esercizio della sovranità parlamentare derivante da quella del popolo. “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, dice il primo articolo della Costituzione dopo avere definito l’Italia “una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Neppure mi sconcerta maggiormente, dello sciopero nei tribunali, la bugia con la quale è stato motivato: il mancato “ascolto” dei magistrati da parte del governo proponente la riforma, prima nella versione del guardasigilli grillino Alfonso Bonafede e poi in quella della ministra e già presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia, e della Camera che l’ha approvata non certo in pochi giorni, cioè in fretta e furia. Il che ha permesso alla stessa Camera, in varie sedi e in vari modi, di sentire i rappresentanti dei magistrati sette volte. Che si aggiungono alle quattro ricordate dal ministero della Giustizia a proposito degli incontri avuti dalla guardasigilli più o meno in contemporanea con i rappresentanti dei partiti della vasta maggioranza di governo.
Neppure mi sconcerta, infine, l’indifferenza opposta dai dirigenti della rappresentanza sindacale, associativa o comunque vogliamo chiamarla delle toghe alla prudenza consigliata da esponenti assai autorevoli della categoria, in servizio o in pensione, come Nino Di Matteo e Armando Spataro. Che avevano sconsigliato il ricorso allo sciopero, pur dissentendo fortemente nel caso di Di Matteo dalla riforma, perché consapevoli del rischio di fare apparire la difesa di certe posizioni, o semplici abitudini, colpite dalle nuove norme come difesa di privilegi di “casta” avvolti nei principi costituzionali dell’autonomia e indipendenza della magistratura. Cui è delegato un organo apposito di garanzia costituito dal Consiglio Superiore della Magistratura, per non parlare della Corte costituzionale e dello stesso capo dello Stato, che presiede il già ricordato Consiglio Superiore.
Ciò che mi sconcerta maggiormente di questo sciopero ancora da fissare per “almeno” una giornata, se non ho capito male, è la scarsa rappresentatività di chi lo ha deciso, autorizzato, proclamato, come preferite. E non dalla mattina alla sera, con una fretta che potrebbe giustificare o far comprendere certe cose, ma con tutta la calma sufficiente a organizzare le modalità dell’assemblea generale dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, con tutte le maiuscole dovute, svoltasi all’Angelicum. Almeno di nome.
A quest’assemblea – che si è espressa a favore dello sciopero con 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti hanno partecipato 1.400 dei 9.149 iscritti all’Associazione, sempre con la maiuscola, pari quindi al 15 per cento. È come se un Parlamento – l’assemblea generale appunto – fosse stato eletto con l’85 per cento di astensionismo. E a votare a favore dello sciopero è stata una maggioranza pari a meno del 9 per cento della categoria.
Non mi sembra che siano numeri consolanti per i magistrati che dovrebbero sentirsi rappresentati nel loro luogo di lavoro, e comunque nell’esercizio delle loro funzioni, da chi parla, grida, batte i pugni e sciopera a nome loro. Se i magistrati sono una casta, come tante volte gli ultimi presidenti della Repubblica hanno ammonito a non sentirsi e tanto meno a essere, i loro rappresentanti sindacali o associativi sono una casta al quadrato, o al cubo. Una castissima, se si potesse dire.
Il manifesto di attacco alla riforma. Anm contro la riforma Cartabia con un ‘manifesto’ su Repubblica: i giornali inquisiti in aiuto delle toghe. Paolo Comi su Il Riformista il 1 Maggio 2022.
“Una riforma sbagliata”. È il titolo dell’annuncio che l’Associazione nazionale magistrati ha deciso di far pubblicare, a pagamento, questa settimana su alcuni quotidiani.
Lo scopo dell’iniziativa del sindacato delle toghe è quello di sensibilizzare l’opinione pubblica sui “pericoli” della riforma della giustizia, approvata l’altro giorno alla Camera, per l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati. I giornali prescelti, da quanto si è potuto apprendere leggendo il resoconto dell’assemblea sezionale straordinaria di Roma del 27 aprile, sono in prima battuta quelli del gruppo Gedi. Ieri, infatti, l’annuncio prendeva l’intera pagina 15 della Stampa.
La scelta dei quotidiani su cui pubblicare l’annuncio da parte dell’Anm ha destato molta sorpresa per un duplice motivo. Da un lato il “tradimento” nei confronti del Fatto Quotidiano, giornale notoriamente vicino alle Procure e sui cui scrivono molti magistrati; e dall’altro perché la Procura di Roma ha messo da tempo nel mirino proprio i vertici di Gedi. I due pm romani ipotizzano una maxi truffa, circa 40 milioni di euro, nei confronti delle disastrate casse dell’Inps. Il reato sarebbe stato commesso tramite “fittizzi demansionamenti di dirigenti a quadro”, “illeciti riscatti di annualità pregresse”, “utilizzo come collaboratori esterni di dipendenti già posti in prepensionamento”. Le persone iscritte nel registro degli indagati sarebbero un centinaio, ad iniziare dall’ex amministratrice delegata del gruppo Monica Mondarini, ora transitata alla Cir di Carlo De Benedetti.
La Procura di Roma non ha dubbi sulla solidità del quadro accusatorio e nei mesi scorsi ha chiesto ed ottenuto dal gip Andrea Fanelli, in base alla legge 231 del 2001 che disciplina la responsabilità amministrativa delle società, un sequestro preventivo per 30 milioni di euro nei confronti di Gedi. Il rischio concreto è che i giornalisti che hanno beneficiato di trattamenti agevolati siano ora costretti a restituire le somme percepite. Va precisato che l’attuale proprietà di Gedi, la holding Exor di cui è presidente e amministratore delegato John Elkann, è estranea alle contestazioni, trattandosi di fatti avvenuti nella precedente gestione. Exor, comunque, è anche la controllante della società Juventus Football Club, anche lei sotto il tiro dei magistrati. Ad indagare, questa volta, sono i pm torinesi Marco Gianoglio, Mario Bendoni e Ciro Santoriello.
L’inchiesta, denominata “Prisma”, ipotizza per i manager della società sportiva il reato di falso in bilancio, in particolare per gli stipendi percepiti dai calciatori dopo l’accordo post-Covid. Al momento l’Anm non ha comunicato a quale prezzo gli siano state vendute le pagine da Gedi e se siano stati praticati sconti sul listino.
Sconti che potrebbero far sospettare che il trattamento di favore sia dovuto alla complessa situazione penale. La campagna mediatica dell’Anm, definita da molti commentatori, “surreale”, avrà un momento clou questa mattina con l’Assemblea nazionale dell’Anm aperta ai responsabili giustizia dei partiti per coinvolgerli nella discussione sulla riforma.
All’iniziava avevano dato ieri l’adesione la Lega, che parteciperà con Giulia Bongiorno, il Pd con Anna Rossomando, Azione con Enrico Costa. Non parteciperà, invece, Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera. Il quale ha dichiarato: “Giudico i contenuti del documento pubblicato sulla Stampa lunari. Le critiche ai principi meritocratici e aziendalisti, che con tanta fatica stiamo tentando di introdurre nel settore giustizia, denotano una insopportabile arretratezza culturale della magistratura organizzata”. Paolo Comi
La mozione decisa dall'assemblea generale. Anm insorge, è sciopero contro la Riforma Cartabia: “Non migliora servizio e non velocizza i tempi della Giustizia”. Angela Stella su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Dopo tanta attesa l’Assemblea Generale dell’Anm ha deliberato oggi, sabato 30 aprile, di indire uno sciopero contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La data sarà decisa il prima possibile dalla Giunta Esecutiva Centrale ma si punta ad astenersi dai processi il giorno in cui il testo arriverà nell’Aula di Palazzo Madama. Nella mozione unitaria (Area, Mi, Unicost, Md) approvata con 1081 voti favorevoli, 169 contrari, 13 astenuti si specifica che “non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati, non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno”.
Non è passata invece la mozione dei 101 che immaginava “almeno tre giorni di astensione periodica fino alla modifica delle disposizioni che attentano all’indipendenza interna ed esterna della Magistratura”, così come è stato respinto l’emendamento di Stefano Celli che chiedeva di prevedere “la possibilità di revoca [dello sciopero] in caso di positivi riscontri” dall’interlocuzione con le forze politiche. Da rilevare una affluenza bassa: 121 delegati, oltre 50 singoli, per un totale di 1423 votanti. Un segno che la base ancora non si è ricompattata al vertice.
La lunga giornata di lavori si era aperta con la relazione del Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che era terminata con una standing ovation da parte della platea. “Siamo consapevoli dell’importanza della riforma della giustizia ma vogliamo un’altra riforma” ha esordito Santalucia per poi passare ad elencare gli aspetti più critici della stessa: separazione delle funzioni, disciplinare, valutazioni professionali. “Come ho detto agli amici avvocati, non capisco perché il pm non dovrebbe sperimentare la funzione giudicante. Si va verso un pm isolato, sempre più vicino alle forze di polizia”. E poi: “Non siamo eredi dello scontro politico giudiziario di Mani pulite. Ma vogliamo contribuire al dibattito pubblico e farci ascoltare dalla politica”. E in sala ad ascoltarlo in prima fila c’erano i responsabili giustizia dei partiti: la dem Anna Rossomando, Giulia Sarti del M5S, Enrico Costa di Azione, Catello Vitiello di Italia Viva, Giulia Bongiorno della Lega, ai quali Santalucia si è spesso rivolto direttamente per sottolineare le distorsioni della riforma dal punto di vista delle toghe. Da Forza Italia hanno fatto sapere di non essere stati invitati.
Riforma della Giustizia, primo via libera alla Camera: Italia Viva si astiene
La Ministra Marta Cartabia era stata invitata ma come ha spiegato Santalucia “non sarà presente non per disattenzione né per disinteresse ma per rispetto”, considerato quello che è stata chiamata a decidere l’assemblea, “ma è fortissima la sua disponibilità al dialogo”. “Questa riforma non migliora il servizio e non velocizza i tempi della giustizia. Crea ulteriori adempimenti che saranno inevitabilmente burocratizzati” ha proseguito Santalucia. Si tratta, ha spiegato, di una scelta “inutile e credo anche dannosa. Noi dobbiamo avere coraggio nelle decisioni e con questa riforma si spegne il coraggio”, riferendosi al fatto che nel fascicolo di valutazione verranno inseriti anche gli esiti degli affari. “Vogliamo resistere a un ingabbiamento nelle paure. State attenti, dico alla politica, perché un magistrato impaurito non sarà un miglior giudice. Così si sta solleticando il sentimento impiegatizio dei magistrati“, ha aggiunto Santalucia, tra gli applausi.
Tra gli ospiti anche Gian Domenico Caiazza, Presidente delle Camere Penali italiane, che ha fatto un intervento molto duro: ” Come mai questo silenzio sul tema dei fuori ruolo? Io vi chiedo come mai questo vostro silenzio ostinato sul tema dei fuori ruolo, cioè un’unicità mondiale. Non esiste nessun altro Paese al mondo nel quale si formi un governo di qualsiasi colore e 200 magistrati vanno nell’Esecutivo”. E poi il punto criticato dalla sala: “Non posso non rappresentarvi la sensazione della pretestuosità di alcune delle argomentazioni che sento più diffusamente proposte sui temi caldi e che quindi ci fanno sospettare che le ragioni siano altre. Ma perché pretestuosità? Perché la riforma del fascicolo – ha aggiunto Caiazza -, che per il resto esiste, come ha ricordato bene Costa, con quegli stessi criteri, valutazione degli esiti, significa valutazione di che cosa è successo nei gradi successivi, oggi lo fate con le cause a campione o quelle proposte da voi, e nella riforma si intende acquisire l’intera attività del giudice. Se si acquisisce l’intera attività del magistrato, la sentenza creativa, le sentenze creative, le 20 sentenze creative, ovviamente, non vengono nemmeno rilevate dalla statistica. Non è possibile rilevarle. Perché dovete fare, ci chiediamo con franchezza e con amicizia, questi discorsi pretestuosi? Perché bisogna dire qualcosa che non è? O dobbiamo immaginare, ma questo sarebbe l’ultimo dei consessi dove questo può accadere, che si vogliano delle norme che esistono formalmente ma che non funzionano nel concreto, cioè quella direttiva del 2007 che prevede le valutazioni ma che non le fa”. E ha chiuso: “Come potete avere paura del vostro lavoro? Se noi pensiamo a un fascicolo con tutte le vostre sentenze, i provvedimenti, le ordinanze, come potete avere paura di voi stessi? Perché siete voi che vi giudicate”.
Molto attesi erano gli interventi dei politici per capire se c’era un margine di apertura al dialogo per modificare il testo al Senato, scongiurando così lo sciopero. Il primo parlamentare ad intervenire è stato Catello Vitiello: “Non ho mai demonizzato le correnti e la politica giudiziaria. Ma le riforme non vanno fatte sull’onda della patologia. La magistratura ha un ruolo fondamentale, io credo nella sua indipendenza, ma non nella sua autoreferenzialità. Deve contare il merito, e non l’appartenenza”.
Verso la senatrice Giulia Bongiorno sono arrivati dei buu dalla sala quando ha detto che i suoi clienti le chiedono “se il giudice che mi andrà a giudicare è di destra o di sinistra” per poi aggiungere “questa riforma è blanda, non è incisiva, va migliorata al Senato perché adesso il tema politico è tra chi vuole cambiare la riforma e chi dice di no” e ha concluso: “Mi piacerebbe ricevere da voi idee costruttive. E se ci sono spunti utili sono pronta a portarli nelle sedi opportune”. Le ha risposto il leader di Area Eugenio Albamonte: “qui il tema non è se riaprire o meno il dibattito in vista del Senato, ma chiedersi perché farlo? Per rincarare la dose? Per girare ancora il coltello nella ferita? Questa riforma per evitare l’appiattimento professionale rischia quello culturale”. E ha aggiunto “su di noi ci sono dei cannoni puntati”.
Il vice segretario di Azione Enrico Costa ha preso di petto il tema tanto criticato dai magistrati e che è frutto della sua battaglia parlamentare, ossia il fascicolo di valutazione: “qualcuno sostiene che esso c’era già ma non è vero, c’era la regola ma mancava lo strumento. Mi sarei aspettato la protesta sulle regole. Comunque non si tratta affatto di una schedatura”. E poi “le ingiuste detenzioni non sono fisiologiche, sono una patologia del sistema. Però lo Stato paga gli indennizzi ma non si volta indietro per capirne le cause”. Infine: “Dal 2010 ad oggi, su 644 azioni intraprese per responsabilità indiretta dei magistrati, ci sono state solo 8 condanne in dodici anni. Vi invito dunque a riflettere sulla drammatizzazione degli effetti rispetto alle riforme in campo“. Dopo il voto dell’Anm a favore dell’astensione ha rilasciato la seguente dichiarazione: “Lo sciopero dei magistrati contro le valutazioni di professionalità è sbagliato e, se possibile, incrina ulteriormente la fiducia dei cittadini nei loro confronti. Era un finale già scritto, evidente di fronte ad una immotivata drammatizzazione quotidiana dei toni. Il Parlamento non si farà condizionare”.
Mentre Anna Rossomando, senatrice e responsabile giustizia del Pd, precisando che “a noi piaceva il testo Cartabia così come approvato in Cdm” , ha assicurato: “Non vedo il pericolo che voi state partecipando ma faremo molta attenzione e vigileremo su decreti attuativi. Chiaro che non si può mantenere l’esistente. Ma un conto è lo scontro, un altro il confronto”. Su una linea molto simile Giulia Sarti, responsabile Giustizia del M5S: “Noi saremmo molto disponibili a riaprire il dibattito ma per i numeri che ci sono lì, ci sarà il tentativo di introdurre la responsabilità diretta dei magistrati e altre misure che finora siamo riusciti a evitare. Qualcuno punterebbe ad annullare qualsiasi passaggio di funzioni”. Si è poi presa l’applauso della sala quando ha detto: “Sull’hotel Champagne la magistratura ha dato le sue risposte, Palamara è fuori dalla magistratura e i consiglieri del Csm si sono dimessi. Ma Cosimo Maria Ferri invece resta al suo posto e il Parlamento ha respinto l’autorizzazione all’uso delle intercettazioni”.
La protesta contro Cartabia. Magistratura screditata da 30 anni di disastri, con che credibilità indice uno sciopero? Astolfo Di Amato su Il Riformista il 4 Maggio 2022.
L’Anm ha deliberato, a larghissima maggioranza, lo sciopero. Intende, così, contrastare una riforma, che attenterebbe all’autonomia ed all’indipendenza della magistratura, essendo mossa da una visione meramente aziendalistica ed efficientista della giustizia. Sulla inadeguatezza della riforma Cartabia e, in particolare, sulla inadeguatezza delle previsioni in essa contenute a ripristinare un corretto equilibrio tra i poteri dello Stato, si è già scritto molto su questo giornale. Così come si è scritto sulla illegittimità di uno sciopero contro gli altri poteri dello stato proclamato per difendere la propria preminenza.
Vi è, peraltro, un aspetto ulteriore, che, in questa vicenda, merita di essere esaminato: quello della legittimazione della magistratura ad opporsi alla riforma alla luce di quelli che sono stati i risultati della sua attività. In altri termini, ha la magistratura associata l’autorevolezza morale per opporsi alle scelte del Parlamento? Si tratta di un bilancio, che deve necessariamente partire da una valutazione di quello che è accaduto negli ultimi trenta anni. È innegabile, difatti, che la vicenda di Mani Pulite ha costituito un momento di svolta negli equilibri istituzionali di questo Paese ed ha segnato l’acquisizione, da parte del potere giudiziario, di un ruolo preminente su quello di tutti gli altri poteri. Si tratta di un bilancio che può appunto muovere dai risultati di Mani Pulite.
Il cui effetto è stato quello di seppellire la prima Repubblica nel rancore, annichilendo con furore giustizialista una intera classe dirigente, salvo quella del Pci, per avere in cambio: Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank (così Guido Rossi commentò nel 1999 la benedizione data dall’allora premier Massimo D’Alema alla scalata a Telecom, cui il gruppo guidato da Roberto Colaninno stava per dare corso), le inadeguatezze del berlusconismo, il celodurismo di Bossi, il Papeete di Salvini, i vaffa del grillismo. Emblematica è la valutazione espressa da Saverio Borrelli, che, come procuratore capo di Milano, guidò quella rivoluzione. Quando era già da tempo in pensione, intervenendo dalla platea durante la presentazione di un libro, chiese “scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. Era il 2011. Se si lascia, poi, l’orizzonte generale degli assetti istituzionali e politici del paese e si passa a considerare in modo più diretto il bilancio specifico del settore della giustizia, i risultati sono ancora più fallimentari. Sotto tutti gli aspetti.
Da anni Confindustria denuncia che l’inefficienza del sistema giudiziario si traduce in una perdita del prodotto interno lordo. Del resto che la giustizia italiana si contenda l’ultimo posto, in termini di efficienza, con Grecia e Malta è confermato dalle analisi delle istituzioni europee e, in particolare, dai dati della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej). Alla inefficienza si accompagna, tuttavia, una “incontrollata discrezionalità processuale” (così in modo assolutamente esplicito la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, 23 febbraio 2017, De Tommaso). La giustizia italiana, dunque, non solo è lenta, ma anche imprevedibile. In questo senso, del resto, va anche interpretato il numero altissimo di ingiuste detenzioni e di assoluzioni in secondo grado o in cassazione, che si deve registrare nell’ambito della giustizia penale.
Dai dati raccolti dal deputato di Azione Enrico Costa, grazie anche al lavoro dell’associazione errori giudiziari, emerge un quadro drammatico relativo all’ingiusta detenzione: circa 46 milioni di euro pagati nel 2020, circa 30.000 innocenti finiti in carcere negli ultimi 30 anni, con oltre 800 milioni di euro pagati dallo Stato italiano. Sono dati semplicemente drammatici, i quali dànno conto di una giustizia che spesso, per i singoli, si traduce in una ingiustificata devastazione della vita familiare, professionale, affettiva. Si aggiunga che sono dati errati per difetto, in quanto non danno conto dell’altissimo numero di richieste di risarcimento respinte con argomenti spesso speciosi (ad esempio essersi avvalsi, nella fase iniziale e cioè quando i contorni altro segnale del pessimo funzionamento della giustizia è offerto dall’altissima percentuale di detenuti in attesa di giudizio, esistente nelle carceri italiane: nel febbraio 2020, secondo le statistiche del Ministero di Grazia e Giustizia, erano circa ventimila su di un totale di sessantamila reclusi e, perciò, circa un terzo.
Il tutto in barba al principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Del resto, sono numeri espressivi di un andamento, che trova conferma nel diciottesimo rapporto di Antigone: gli ergastolani sono passati da 408 nel 1992 a 1810 oggi, nonostante il costante calo dei reati, calo che rispetto agli omicidi è stato addirittura dell’80%, A questo quadro, già di per sé desolante, si aggiungono, poi, episodi che sembrano offrire uno spaccato “dal di dentro”, di quali siano i criteri con cui viene amministrata la giustizia. Essi sono tanto più significativi in quanto vengono dagli uffici giudiziari, che, per varie ragioni, hanno assunto un ruolo emblematico. Se fosse vero quanto scritto dal Tribunale di Milano, la Procura della Repubblica presso il capoluogo lombardo avrebbe tenuto per sé prove rilevantissime a favore degli imputati nel processo a carico dei manager Eni in un processo per pretesi fatti di corruzione commessi in Nigeria.
Ancora, sempre con riferimento alla procura di Milano, il principio della obbligatorietà dell’azione penale sarebbe oggetto di una interpretazione quanto meno discutibile se fosse vero l’insabbiamento denunciato dal sostituto Storari in ordine ai verbali di Amara circa la cd. Loggia Ungheria. A sua volta, a Palermo, lo scandalo Sagunto ha dato conto del modo totalmente illecito con cui venivano gestiti i patrimoni sequestrati per ragioni di mafia. Scandalo a cui fa da contrappunto, sottolineandone la assoluta gravità, l’assenza di adeguate garanzie con cui quei sequestri avvengono in virtù di quanto previsto dalla legislazione di prevenzione. Sempre in Sicilia, poi, va registrata la vicenda gravissima del pentito Scarantino, costretto, sembra, da una violenza di Stato a false chiamate in correità rispetto al tragico omicidio di Paolo Borsellino, totalmente e palesemente infondate. La gravità di questa vicenda è pari solo al silenzio assordante, che su di essa mantengono i professionisti dell’antimafia e molti di quegli inquirenti che dell’antimafia hanno fatto la loro ragione di vita.
Si tratta di vicende, tutte, che per la loro rilevanza, per il numero di persone coinvolte, per il livello di omertà che è stato spesso necessario scardinare, non possono essere seriamente archiviate come espressione di singole devianze. Lo sconforto, che può venire dalla considerazione di tutti questi aspetti, è stato da ultimo aggravato dalla vicenda Palamara. Non solo e non tanto per la vicenda in sé, ma ancora di più per come è stata trattata. È emersa l’esistenza di un vero e proprio sistema, capace di inquinare istituzioni ed amministrazione della giustizia. La reazione quale è stata? Chiudere, sopire, dimenticare, tacere. Il Csm e la Anm hanno cacciato Palamara in un battibaleno, impedendo lo svolgimento di qualsiasi attività istruttoria idonea ad individuare ampiezza e profondità del fenomeno. La grande stampa, dal canto suo, ha sostanzialmente ignorato l’argomento.
Ebbene, di fronte a tutto questo diventa davvero difficile capire da dove l’Anm tragga la propria legittimazione, già sul piano morale, a proclamare uno sciopero contro una riforma, che danneggerebbe i cittadini. Una magistratura che non ha avuto l’orgoglio e la dignità di risolvere i gravissimi problemi che le vicende descritte sottendono, pur avendone il potere, appare davvero assai poco credibile quando pretende di ergersi a difensore degli interessi della collettività. Né può invocare, per legittimarsi, il sangue versato dai magistrati caduti per mano dei terroristi o dei mafiosi: quei magistrati erano espressione di un modo totalmente diverso di intendere la funzione giudiziaria. Astolfo Di Amato
Riforma della Giustizia, i magistrati proclamano lo sciopero: “Siamo costretti per essere ascoltati”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Aprile 2022.
Il Presidente dell’Anm (Associazione Nazionale Magistrati) Giuseppe Santalucia ha spiegato che “non siamo contrari alle riforme ma vogliamo una buona legge”. E perciò contro la Riforma della Giustizia della ministra Marta Cartabia i magistrati sciopereranno per un giorno. Il Sì alla giornata di protesta è arrivato oggi dopo il voto dell’assemblea generale dell’Associazione a Roma. I magistrati ci tengono però a precisare che “non scioperiamo per protestare ma per essere ascoltati”. La mozione unitaria è stata approvata a maggioranza da 1.423 votanti. In tutto i magistrati sono poco meno di 10mila, il 96% dei quali iscritti all’ANM.
La riforma dell’ordinamento giudiziario è passata alla Camera e sarà all’esame del Senato. La data dello sciopero sarà decisa dalla giunta esecutiva centrale dell’ANM. L’assemblea è durata otto ore. La mozione unitaria è stata votata da 1.081 voti favorevoli, 169 contrari e 13 astenuti. Non sono escluse ulteriori forme di protesta se non ci saranno aperture alla categoria. L’assemblea delega la Giunta dell’Anm a “individuare tempestivamente la data e le concrete modalità organizzative, tenendo conto dello sviluppo dei lavori parlamentari in corso”. Assente la Guardasigilli Cartabia, presente il suo cabo gabinetto Raffaele Piccirillo.
La mozione
“La Magistratura tutta, che si riconosce nell’Anm vuole denunciare pubblicamente che la riforma in discussione al Parlamento non accorcerà di un giorno la durata dei processi, ma cambierà radicalmente la figura del magistrato, in contrasto con quello che prevede la Costituzione”, si legge nella mozione. Il Paese “ha bisogno di recuperare fiducia nella magistratura, ma per ottenere ciò serve una riforma che attui veramente l’articolo 107 della Costituzione, secondo il quale i magistrati si distinguono fra loro soltanto per le funzioni e che affermi chiaramente che non devono esistere carriere in magistratura. Invece questa riforma, continuando l’opera intrapresa dalla riforma Castelli-Mastella, rende gerarchicamente ordinati anche gli uffici giudicanti, crea una magistratura alta e una bassa, e aumenterà quell’ansia di carriera che tanto danno ha già fatto, e continuerà a fare“. Inoltre, aggiunge l’Anm, “il Paese ha bisogno di magistrati che vengano valutati per la qualità del loro lavoro, e non soltanto per la quantità, di magistrati che si concentrino solo sulle decisioni che devono prendere, non sugli adempimenti burocratici e nemmeno sulle loro carriere, di magistrati liberi di giudicare serenamente, seguendo solo la loro coscienza, non di giudici impauriti delle ripercussioni personali delle loro decisioni”. Quanto ai pm il Paese, si legge nella mozione, “non ha bisogno di avvocati dell’accusa. Non ha bisogno di pubblici ministeri che sentono una condanna come una vittoria e un’assoluzione come una sconfitta, ma di pubblici ministeri che cercano la verità con fatica e umiltà, insieme a tutti gli altri protagonisti del processo”.
Il comitato direttivo centrale viene delegato, “qualora non vi fossero modifiche idonee ad elidere le criticità del progetto di riforma, a prevedere tempestivamente nuove forme di protesta, non esclusa l’astensione“. Durante la giornata di sciopero si terranno “assemblee aperte” a rappresentanti delle istituzioni e ai cittadini. La dichiarazione-manifesto della mobilitazione: “Non scioperiamo per protestare, ma per essere ascoltati, non scioperiamo contro le riforme, ma per far comprendere, dal nostro punto di vista, di quali riforme della magistratura il Paese ha veramente bisogno“. E ancora: “Per questa idea di Paese ci troviamo costretti a scioperare, per questa idea della Magistratura, che non è solo nostra, ma è quella contenuta nella nostra splendida Costituzione”.
Il Presidente Santalucia
Per il Presidente Santalucia lo sciopero “sarà un modo per comunicare le ragioni del dissenso, non un modo per protestare contro una legge in fieri – ha dichiarato a Lapresse – Noi non possiamo pensare che la discussione si sia chiusa. Vogliamo la riforma, si tratta solo di correggere alcune strutture. Lavoreremo per questo e chiediamo al Senato di riflettere su alcuni aspetti. Speriamo ci sia ancora tempo e per questo ci stiamo impegnando”.
“Una riforma permeata da logiche aziendalistiche, che mira all’efficienza e pensa ai tribunali come a catene di montaggio, che forniscono, possibilmente in tempi rapidi, un prodotto, poco importa se sia o meno di qualità”, aveva lamentato nel suo intervento durante l’assemblea il segretario generale Salvatore Casciaro. “Una riforma che altera profondamente il modello costituzionale di giudice. Si istituisce un fascicolo delle performance che raccoglie lo sviluppo processuale delle pratiche, quasi uno screening periodico. La logica di fondo, ben illustrata dal Comitato direttivo centrale del 19 aprile scorso, è che il processo sia una ‘gara’ da vincere, che ogni riforma di sentenza, o il rigetto dell’istanza cautelare del pm, valga come una sconfitta, un punto in meno per il magistrato ‘sconfessato’ che sarà d’ora in poi plausibilmente meno sereno, propenso magari a conformarsi alle decisioni dei giudici dei gradi superiori e maggiormente incline al conformismo giudiziario se non addirittura orientato a ripiegare verso pratiche di giurisprudenza difensiva. Si disegna una rigida separazione delle funzioni che camuffa, a ben vedere, una separazione delle carriere”.
La riforma
Il via libera a Montecitorio era arrivato lo scorso martedì 26 aprile: 328 voti a favore, 41 contrari e 25 astensioni. Astenuti i deputati di Italia Viva. Hanno votato a favore Pd, M5s, Leu, Lega, Forza Italia, Coraggio Italia, Azione-Più Europa e NcI. Hanno votato contro FdI e Alternativa. Astenuta anche Europa verde. La riforma – che contiene le norme per la riorganizzazione, l’eleggibilità, il ricollocamento in ruolo dei magistrati e per il funzionamento del Csm – ora passerà a Palazzo Madama.
Il ddl delega prevede l’aumento a 30 consiglieri (20 togati e 10 laici) con un meccanismo fondamentalmente maggioritario con collegi binominali e un recupero proporzionale che per i giudici prevede una distribuzione proporzionale di 5 seggi a livello nazionale per i pubblici ministeri il recupero di un miglior terzo. I collegi saranno determinati con decreto del ministero della Giustizia.
Non sono ammesse liste: ciascun candidato può presentarsi liberamente anche nel suo distretto. In ogni collegio binominale devono esserci minimo sei candidati, tre del genere meno rappresentato. Se questi requisiti non sono rispettati si può procedere per sorteggio. Per gli incarichi direttivi e semidiretti del Consiglio Superiore si procederà per ordine cronologico. Obbligatorie le audizioni dei candidati per favorire un confronto migliore dei rispettivi profili.
Al debutto un fascicolo personale per valutare l’attività svolta dal magistrato. Introdotto inoltre il divieto di svolgere nello stesso tempo funzioni di giudice o pm e ricoprire cariche elettive, sia locali sia nazionali. E poi lo stop alle porte girevoli. I magistrati che hanno coperto cariche elettive di qualsiasi tipo al termine del mandato non possono più tornare in magistratura: verranno collocati fuori ruolo nelle amministrazioni pubbliche. I magistrati candidati ma non eletti non potranno, per tre anni, tornare a lavorare nella Regione che comprende la circoscrizione elettorale dove si sono presentati né in quella dove si trova il distretto dove prima lavoravano. E in più non possono assumere incarichi direttivi e svolgere le funzioni penali più delicate.
La riforma ha anche anticipato un tema dei referendum in programma a giugno: si ammette solo un passaggio da giudice a pubblico ministero e viceversa, da effettuare entro i dieci anni dall’assegnazione della prima sede. Il limite non è attivo per il passaggio al settore civile e dal settore civile alle funzioni di pubblica accusa. Prevista la riduzione del numero attuale dei magistrati fuori ruolo, attualmente sono 200. Oltre all’obbligo di avere svolto per almeno 10 anni le funzioni giurisdizionali prima di chiedere il collocamento esterno alla magistratura, una durata dell’incarico extra di non più di 7 anni.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Angela Stella
L'ultima anomalia in toga: l'Anm compra una pagina per dire no alla riforma. Luca Fazzo il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il testo pubblicato solo su due quotidiani per problemi di budget. E piovono le critiche.
L'obiettivo era portare la protesta dei magistrati sulle pagine di tutti i giornali, ma alla fine le esigenze di budget hanno costretto a scegliere i due quotidiani (appartenenti allo stesso gruppo editoriale) che hanno fatto il prezzo migliore. L'impatto è stato comunque forte, anche se forse non è stato quello che l'Associazione nazionale magistrati si proponeva. Perché sulla pubblicità a pagamento in cui ieri l'Anm annuncia battaglia contro la riforma della giustizia (nella foto) voluta dal ministro Marta Cartabia piovono pochi consensi e molte critiche. L'Anm è un sindacato, ma è il sindacato di un potere dello Stato. E che inviti alla lotta contro quello che altri poteri - prima il governo, poi il Parlamento - stanno decidendo è parso ai più quantomeno anomalo.
I toni sono, come nelle settimane scorse, catastrofisti. Le norme proposte dalla Cartabia alle Camere vengono definite, nel tazebao dell'Anm, «una legge per intimidire i magistrati». Non si salva niente: i criteri di valutazione dell'operato delle toghe per l'Anm rispondono a «logiche di tipo aziendalistico, basate esclusivamente sui numeri e sulla produttività», mentre le timide modifiche al sistema delle nomine «lasciano immutati gli ampi spazi di discrezionalità», mentre i limiti ai cambi di casacca tra pm e giudice aggirerebbero addirittura «le previsioni della Costituzione». Morale: «la Magistratura intende promuovere ogni iniziativa necessaria a sensibilizzare l'opinione pubblica».
La parola «sciopero» non compare. Ma che l'approdo finale possa essere quello lo ha detto apertamente il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia. Da nomi importanti della storia del sindacato delle toghe - come Edmondo Bruti Liberati e Armando Spataro - sono venuti nei giorni scorsi giudizi assai più pacati sulla riforma Cartabia, e inviti alla cautela (Bruti ha definito «senza senso» l'idea dello sciopero). Ma ormai l'Anm sembra decisa a cavalcare il malcontento che serpeggia tra le file dei suoi militanti, soprattutto a sud. Anche se tra i tanti magistrati sgobboni l'idea che finalmente si inizi a distinguere chi lavora tanto e bene da chi produce solo disastri parrebbe non essere tanto impopolare.
L'assemblea nazionale dell'Anm che si tiene oggi a Roma dovrebbe segnare l'apertura ufficiale delle ostilità contro il governo. Per questo la Cartabia si è ben guardata dall'accettare l'invito, accolto invece dai rappresentanti dei partiti: ma il manifesto anti-riforma diffuso ieri rischia di far naufragare in partenza ogni possibilità di trattativa. Enrico Costa di Azione! parla di «una reazione incredibile del potere giudiziario, un attacco al legislatore a mezzo spot"». «Ho accettato l'invito all'assemblea - aggiunge Costa - perché nella lettera spiccavano le parole confronto" e approfondimento": non mi sottraggo, ma è evidente che questa forma di protesta è un'unilaterale chiusura al dialogo». E Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia definisce «la protesta dell'Anm e la minaccia di uno sciopero surreali e fuori dal tempo. La politica non deve accettare veti, né farsi condizionare».
A difendere l'Anm, solo i grilllini.
"Riforma modesta, errore lo sciopero. E il testo Bonafede era sgangherato". Luca Fazzo il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'ex procuratore capo di Milano boccia la protesta delle toghe. E sul referendum in un solo giorno: "Se i quesiti sono chiari la gente vota".
Già procuratore della Repubblica a Milano, già leader indiscusso delle «toghe rosse» di Magistratura democratica, Edmondo Bruti Liberati è stato anche presidente dell'Associazione nazionale magistrati: quella Anm che ora prepara lo sciopero contro la riforma della giustizia firmata dal ministro Marta Cartabia. Tanto rumore per nulla, dice Bruti. La riforma è semplicemente «modesta» e lo sciopero dell'Anm «non ha senso».
Cos'è davvero la riforma Cartabia? Un topolino partorito dalla montagna? O un attentato all'autonomia dei giudici, devastante e punitiva come dice Md, la sua vecchia corrente?
«Si partiva dallo sgangherato disegno di legge Bonafede. È stato riscritto dalla Commissione Luciani, ma poi in Commissione giustizia vi sono stati emendamenti ispirati ad un spirito di vendetta e di umiliazione della magistratura. Le punte estreme sono state abbandonate: il risultato è una riforma modesta, ma nulla a che vedere con la riforma Castelli che, quella sì, stravolgeva l'impianto costituzionale. Per questo come presidente dell'Anm ho promosso allora il primo vero sciopero della storia della magistratura. Oggi uno sciopero non ha senso».
I sostenitori dello sciopero sostengono che il fascicolo sulle performance del magistrato bloccherà le sentenze innovative e avanzate. Ma davvero i magistrati sono così pavidi da adeguarsi a sentenze che non condividono per paura di un brutto voto in pagella?
«La giustizia si regge sul presupposto che si può sbagliare e che si possono avere diverse interpretazioni. L'attività dei magistrati, giudici e pm, va valutata nel complesso. Vi è il sistema delle impugnazioni perché le valutazioni possono essere diverse. Se poi un pm avesse il 100% dei successi si direbbe non che quel pm è un genio, ma che i giudici successivi si sono appiattiti sulla prospettazione dell'accusa. Allora stabiliamo un numero diverso? 75%, 80% o 60%? Se andiamo ai numeri entriamo nell'assurdo, che tale rimane anche se si pretende di nobilitarlo con l'inutile anglismo delle performance. Bisogna dire che nel testo poi approvato è stata abbandonata la pretesa di parametri numerici».
Lei ha portato il suo saluto al nuovo procuratore di Milano di cui Magistratura democratica aveva cercato di bloccare la nomina citando l'hotel Champagne. Ritiene che sia arrivato il momento di girare pagina e archiviare il caso Palamara?
«La vicenda dell'hotel Champagne è penosa, ma la magistratura ha dato il segno di voltare pagina: i magistrati a vario titolo coinvolti si sono subito dimessi dal Csm, prima e indipendentemente da procedimenti disciplinari. Questo in un Paese in cui non si dimette mai nessuno».
Il 12 giugno si voterà per i referendum sulla giustizia. Potrebbero smuovere le cose?
«Sì, ma largamente in peggio. Della legge Severino non si abroga solo la sospensione, anche a seguito di una condanna non definitiva (che può essere ragionevole), ma anche tutte le disposizioni sulla incandidabilità di condannati definitivi per reati gravi. Con la limitazione delle misure cautelari capiterà che l'imputato arrestato in flagranza, magari con in tasca un appunto con la programmazione degli obbiettivi successivi, sarà condannato per direttissima e immediatamente scarcerato. Facile immaginare gli attacchi al lassismo della magistratura magari da parte di taluno dei promotori del referendum».
Fissare un solo giorno per il voto non significa puntare al mancato raggiungimento del quorum? Non è interesse anche dei magistrati che il numero più alto possibile di italiani possa dire finalmente come la pensa su questo argomento cruciale?
«La storia del referendum ci insegna che quando le scelte proposte dai quesiti erano chiare e toccavano problemi sentiti gli italiani sono andati a votare».
Se fosse ancora presidente dell'Anm inviterebbe a boicottare il referendum?
«Darei le mie valutazioni sul contenuto dei referendum ma mi guarderei bene dal dare indicazioni ulteriori. Ciascun cittadino magistrato valuterà con la sua testa».
Magistratura morale. Il referendum ha risvegliato il manipulitismo manicheo dei giudici. Iuri Maria Prado Linkiesta il 3 Maggio 2022.
Per opporsi ai quesiti, l’opposizione togata ha scelto di puntare sulla diserzione delle urne.
La magistratura che senza nessuna perplessità, e anzi compiacendosene, assisteva all’accreditarsi della dicitura “Mani Pulite”, evidentemente non avvertiva la portata usurpatrice e gravemente incivile di quel modo di dire. Non comprendeva che il magistrato amministra la giustizia, ma non “è” giustizia, né personalmente la rappresenta. Non comprendeva che quella è una categoria sociologica e moraleggiante, già solo per questo discutibile, che non è nemmeno inopportuno ma proprio sbagliatissimo associare all’immagine e al lavoro di un’amministrazione pubblica. Non comprendeva niente di tutto questo e continua a non comprenderlo, tanto che non solo nel dibattito pubblico ma ormai persino negli atti giudiziari capita di trovare riferimento al “Pool”, o a “Mani Pulite”, appunto, come se si trattasse di realtà con dignità istituzionale.
Ma non è successo, e continua a non succedere, per caso. È successo e continua a succedere perché la cultura che si ispira a quel contrassegno si fonda sul presupposto per cui compito del magistrato è di liberare la società dalla sporcizia (può chiamarsi corruzione, evasione, mafia, malapolitica), mentre in uno Stato di diritto il magistrato non ha per nulla quel compito, che spetta al discorso civile, all’azione collettiva, alle forze dell’ordine, alla scuola. Ed è in forza di quel fraintendimento che un magistrato eminente può lasciarsi andare allo sproposito per cui il suo ruolo è di “far rispettare la legge”, ruolo cui ha più titolo il vigile urbano e persino il controllore del bus: perché il magistrato, della legge, deve fare applicazione, che è cosa completamente diversa.
Ebbene, l’opposizione togata ai prossimi referendum, inqualificabile per il modo intimidatorio che ha assunto e per gli obiettivi impropri che si prefigge (non veder prevalere i “no”, ma veder saltare l’esperimento per diserzione delle urne), condivide la tempra usurpatrice del manipulitismo istituzionalizzato, con la parte di società cattiva (i cittadini che chiedono di poter votare, e le forze referendarie che li istigano a tanto) opposta a quella che avrebbe il compito di sorvegliarne le malefatte, vale a dire quella magistratura moralizzatrice.
Neppure un invito all’astensione...Referendum sulla giustizia, il silenzio dei giornali trucca la partita. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Ricordo una campagna referendaria della fine del secolo scorso (credo fosse il 1997) che si concluse, come tante altre, con il triste nulla di fatto dovuto alla mancanza di quorum. E ricordo il mio disappunto del giorno dopo nel leggere un articolo di Piero Sansonetti il quale, sull’Unità, rivendicò quel risultato come una vittoria. Disappunto perché il sistema dell’informazione, complessivamente avverso ai referendum (anche quella volta c’erano quesiti in materia di giustizia), non lavorò per convincere i cittadini a votare contro, né ancora per indurli a non votare, ma per far sì che essi nemmeno sapessero su cosa si votasse: e persino che si votasse.
In quell’articolo, il direttore di questo giornale fu generoso e anche delicato con Marco Pannella, che aveva promosso quell’iniziativa referendaria, e gli riconobbe il merito di aver condotto una battaglia importante per quanto, a giudizio di Sansonetti, sbagliata. Ma allora come oggi, purtroppo, la battaglia per l’affermazione del diritto al referendum non si combatte neppure sulle ragioni contrapposte dei “no” e dei “sì”, ma sulla stessa possibilità che i referendum si tengano in condizioni minime di accettabilità democratica: e cioè con i cittadini decentemente informati del fatto che possono esprimersi in un modo o nell’altro. Su questi referendum in materia di giustizia, a proposito dei quali i cittadini sono chiamati (sarebbero chiamati, se qualcuno glielo facesse sapere) a esprimersi tra qualche settimana, si sta consumando la pratica tradizionalmente prescelta dagli anti-riformatori, e di cui si avvale il potere esposto a pericolo (questo potere è oggi rappresentato dalla magistratura), per mandarli in vacca: vale a dire la diserzione delle urne.
Un obiettivo cui questa volta non si tende neppure in forza di un invito all’astensione, come quello fatto da Silvio Berlusconi quando sollecitò il suo popolo a non votare per i “referendum comunisti” (anche in quel caso c’erano quesiti in materia di giustizia), ma confidando nel silenzio dell’informazione e nella inevitabile trascuratezza che esso determina presso i cittadini. Ha ragione chi dice che questi referendum sono contro la magistratura. Sono contro la magistratura com’è, e in favore di come dovrebbe essere. E una magistratura diversa non accetterebbe di “vincere” una partita truccata: col popolo italiano – in nome del quale giudica e imprigiona – privato del diritto di conoscere i propri diritti. Iuri Maria Prado
Avanti coi referendum. Riforma della giustizia, il Parlamento si piega alle correnti: resta tutto come prima. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Aprile 2022.
La riforma della giustizia – diciamo così: la riforma della giustizia – è stata approvata dalla Camera dei deputati con il voto di tutta la maggioranza, salvo i renziani che si sono astenuti. Ora dovrà votare il Senato, ma l’esito è scontato. Cosa cambia da oggi nella macchina della giustizia? Niente. I magistrati si fingono molto arrabbiati, perché dicono che questa riforma è un attacco all’indipendenza della magistratura. I politici si dicono molto soddisfatti, perché dicono che dopo tanti anni sono riusciti finalmente a toccare la macchina della giustizia.
Gli uni e gli altri sanno benissimo che non sono vere nessuna delle due cose. La riforma lascia tutto immutato. Il potere delle Procure resta supremo e intatto. Nulla lo limiterà. L’indipendenza della magistratura non è neppure sfiorata. Il partito dei Pm, che minaccia lo sciopero, considera l’indipendenza della magistratura un meccanismo speciale che rende il potere della magistratura, e del singolo magistrato, assoluto e incontrollabile. In teoria non dovrebbe essere così. La Costituzione prevede l’equilibrio dei poteri e non dice che esiste un potere che dispone di tutti gli altri e che dispone anche, senza doverne rendere conto a nessuno, della vita e della libertà dei cittadini. E dunque, senza sfiorare nemmeno i principi della Costituzione, sarebbe possibile ridurre moltissimo l’attuale grado di incontrollabilità del potere giudiziario. E i magistrati non avrebbero nulla da protestare.
Comunque questa riforma non fa nulla di tutto ciò. Non tocca nessuno degli strumenti che sono nella mani dei magistrati (controllo totale della polizia giudiziaria, uso e abuso a volontà della carcerazione preventiva, non separazione delle carriere e dunque contiguità tra Pm e Gip, impunità, assenza di responsabilità civile, strapotere delle correnti). Il meccanismo di elezione del Csm, che in una prima bozza era stato appena appena modificato di qualche grammo, è tornato quello ben oliato che aveva organizzato Palamara. Le famose pagelle, che dovrebbero in qualche modo rendere valutabile il lavoro dei Pm, sono ampiamente aggirabili. Per il resto, zero assoluto.
I magistrati minacciano di scendere in sciopero per una ragione semplicissima: per dare l’impressione di essere arrabbiati e sostenere in questo modo che ormai una riforma radicale della giustizia è stata realizzata, che il potere della magistratura è azzerato e, quindi, da ora in poi non si tocca più niente. I magistrati sono terrorizzati dall’ipotesi che prima o poi passi una vera riforma della giustizia che ristabilisca i punti fermi dello Stato di diritto.
I politici invece fingono di avere fatto una riforma significativa per la semplice ragione che sanno di non poter andare oltre. Il motivo per il quale non possono andare oltre è oscuro, ma è così da diversi decenni. Probabilmente la ragione del tremebondo atteggiamento della politica è da ricercare nella potenza del gruppo, quasi militarizzato, che protegge le Procure: cioè il gruppo formato dall’alleanza ormai trentennale tra Procure e giornali. È questa l’alleanza che all’inizio dei novanta del secolo scorso spianò la prima repubblica in pochi mesi, mettendo in fuga i suoi massimi rappresentanti e mettendo in mora la democrazia. E ancora oggi è potentissima ed è in grado di sottomettere la grande parte dello schieramento politico. In particolare la sinistra, che da diverso tempo conta molto sulla magistratura.
E quindi? Le possibilità sono due. O ci rassegniamo. Cioè prendiamo atto di vivere in un sistema a democrazia e libertà molto diffusa, ma che accetta un limite invalicabile: lo strapotere di una piccola casta, di poche migliaia di persone, alle quali è assegnato un potere di sopraffazione. E di conseguenza la battaglia per la giustizia diventa la battaglia per ottenere che questa piccola casta sia il più possibile giusta e indulgente. Come quando gli avvocati si appellano alla clemenza della corte. Oppure troviamo vie di battaglia politica che aggirino le maglie strette delle reti del sistema politico. Per ora è stata trovata una sola via di battaglia: i referendum.
La Lega e i radicali sono riusciti a imporre cinque referendum il cui risultato può avere un valore straordinario. Se si ottiene il quorum e se vince il sì l’effetto di scassamento del fortino delle Procure sarà straordinario. E a quel punto, probabilmente, anche una parte della magistratura passerà sul versante dei riformatori. E la politica, inguattata, magari riprenderà coraggio e uscirà a guardar le stelle. È la madre di tutte le battaglie per la giustizia. Abbiamo un mese e tempo per vincerla. Magari non la vinceremo perché il nemico è fortissimo. Almeno combattiamola.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Come curare i mali del sistema. “Senza una volontà riformatrice ci saranno solo riformucole”, parla l’ex pm Carlo Nordio. Viviana Lanza su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
«Se non cominciamo a mettere mano seriamente a una volontà riformatrice, avremo sempre riformucole», afferma l’ex pm Carlo Nordio intervenendo a Napoli al convegno organizzata dalla Camera penale pretendo spunto anche dal suo libro “Giustizia ultimo atto, da Tangentopoli al crollo della magistratura”. La riforma è al centro del grande e più attuale dibattito sulla giustizia. «In questa riforma – aggiunge Nordio a proposito della proposta della ministra Marta Cartabia – ci sono anche alcune cose positive, ma finché si approvano riforme che sono pannicelli caldi rispetto alle grandi questioni della giustizia queste non saranno risolte».
Nordio a Napoli cita l’antico filosofo greco Zaleuco per dire che sarebbe il momento di limitare e semplificare le leggi. Zaleuco proponeva che chiunque proponesse una nuova legge lo facesse con una corda intorno al collo in modo che se la legge non fosse stata approvata sarebbe stato impiccato seduta stante. «La ragione era semplice – spiega l’ex pm – Più si corrompe, più si sfornano leggi e più queste leggi sono complicate e contraddittorie e consegnano al pubblico ufficiale una tale discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. La produzione normativa andrebbe diminuita, questo avrebbe un impatto sia sull’accelerazione dei processi, ma anche sulle indagini penali, sul problema relativo a discrezionalità e obbligatorietà dell’azione penale». Già, l’azione penale che spesso finisce per diventare arbitraria.
«Non per colpa dei pm – sostiene Nordio – ma perché c’è una tale sproporzione tra i mezzi che abbiamo e i fini che ci proponiamo che alla fine qualcosa resta nel cassetto, qualcosa va in prescrizione, qualcosa no. Depenalizzazione, decriminalizzazione o eliminazione dei reati bagatellari come dir si voglia, sono interventi minimi. La Costituzione deve essere toccata ma da un’altra parte. Ideologicamente, da liberale non amo l’articolo 1 della Costituzione, preferirei che l’Italia fosse una repubblica fondata sulle libertà». L’ex pm affronta quindi le differenze tra la cultura anglosassone e quella italiana in relazione al ruolo e ai poteri del pubblico ministero. «Noi la dobbiamo risolvere questa dicotomia perché non esiste Paese al mondo in cui un pm ha potere sulla polizia giudiziaria e stesse garanzie del giudice. Personalmente sarei per l’esempio britannico: le indagini le fa la polizia e il pm valuta senza avere potere gerarchico e di iniziativa, potere che spesso si risolve in indagini costose, dolorose, infondate, delle quali nessuno rende conto».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Riforma della giustizia: fanno finta di cambiarla? Guido Igliori su culturaidentita.it il 21 Aprile 2022.
Noi di CulturaIdentità ci siamo sempre occupati di Giustizia, dedicandovi un numero del nostro mensile e seguendo best seller editoriali come Il Sistema e Lobby e logge di Alessandro Sallusti e Luca Palamara, da cui è stata realizzata la versione teatrale in tour per l’Italia, da Edoardo Sylos Labini.
A giorni (il 12 giugno, insieme alle elezioni amministrative) noi cittadini saremo chiamati a rispondere ai cinque quesiti referendari sulla giustizia (ci siamo occupati anche di questi), mentre in queste ultime 24 ore veniamo a sapere che la proposta di legge di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in discussione alla Camera è andata di nuovo incontro a un cambiamento: un nuovo vertice dei responsabili Giustizia di maggioranza con la ministra Marta Cartabia ha deciso di sopprimere le norme che introducevano il sorteggio dei distretti di Corte d’Appello per formare i collegi per l’elezione dei membri togati del Consiglio. A riguardo, citiamo un lancio d’agenzia (Adnkronos) in cui Luca Palamara, ex membro del Consiglio superiore della magistratura ed ex capo dell’Anm, commenta
l’accordo della maggioranza alla Camera per eliminare dalla riforma il sorteggio dei collegi per l’elezione del Csm: “Non conosco le reali motivazioni. Penso che abbia prevalso la linea di evitare una riforma che sarebbe stata totalmente inutile, anzi, in contrasto con la premessa riformatrice del Ministro Cartabia”. Per Palamara, “il sorteggio dei collegi, più che un’assurdità, era una riforma inutile che in nulla avrebbe modificato il sistema attuale dominato dalle correnti, ma anzi lo avrebbe rafforzato come correttamente è stato evidenziato”. “Non parlerei né di un passo avanti né di un passo indietro – sottolinea Palamara -, ma semplicemente di una mossa gattopardesca. L’ho detto e lo ripeto. Il sistema delle correnti teme una sola riforma: mandare al Csm magistrati eletti con il meccanismo del sorteggio. Alla luce di quello che sta maturando è indubbio invece che il prossimo Csm verrà eletto con i soliti meccanismi e cioè: candidature decise dalle correnti che favoriranno ancor di più scambi elettorali concordati tra i maggiorenti delle correnti, soprattutto quando si tratterà di votare candidati non conosciuti nel territorio ove si svolgono le votazioni”.
Parla l'ex leader dell'Anm. “Questa riforma è finta, peggio di quando c’ero io”, parla Luca Palamara. Paolo Comi su Il Riformista il 22 Aprile 2022.
«È la classica riforma “Gattopardo”: a parole grandi cambiamenti, nei fatti invece resterà tutto come prima». Luca Palamara, ex zar delle nomine al Consiglio superiore della magistratura, commenta così la riforma della giustizia in via di approvazione questa settimana alla Camera. Una riforma dalla gestazione quanto mai travagliata. È sufficiente ricordare che il testo adesso in discussione era stato presentato nel luglio del 2019 dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede (M5s), all’indomani della pubblicazione sui giornali dei colloqui registrati all’hotel Champagne fra Palamara, i parlamentari Luca Lotti e Cosimo Ferri, e cinque componenti del Csm, aventi ad oggetto la nomina del nuovo procuratore di Roma.
Tale riforma, anche su sollecitazione del presidente della Repubblica, avrebbe dovuto restituire credibilità alla magistratura, ponendo così fine allo strapotere delle correnti nelle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Sergio Mattarella per descrivere questo nominificio correntizio parlò senza mezzi termini di “modestia etica”. A distanza di quasi tre anni, e con il rinnovo del Csm alle porte, la riforma che verrà approvata non sposterà però una virgola, con i gruppi associativi dell’Anm che continueranno a dettare legge indisturbati a Palazzo dei Marescialli.
Dottor Palamara, lei ha certamente un osservatorio privilegiato: ha fatto campagne elettorali sia in prima persona che per i colleghi. Cosa pensa di questa riforma?
Che non ci saranno cambiamenti rispetto a quando c’ero io. Le candidature per le prossime elezioni del Csm saranno decise, come è sempre stato fatto, dai capi delle correnti con i soliti e ben collaudati scambi concordati.
Veramente un bel risultato, si potrebbe dire.
Le prossime elezioni (in programma il prossimo mese di luglio, ndr) saranno il trionfo del voto correntizio. Ed una volta che il ministero della Giustizia avrà stabilito il modo in cui saranno suddivisi i collegi elettorali le saprò dire anche come finirà il voto.
Non pensa proprio che ci potranno essere sorprese?
Assolutamente no. Il sistema previsto, un Mattarellum con correttivo proporzionale, non lascia spazio ad alcuna “alea”, con le correnti che si spenderanno per far votare candidati che non sono conosciuti nei territori dove si svolgono le elezioni. Un film già visto.
Che cosa serviva?
In questo momento?
Sì.
Il sorteggio dei candidati.
Va ricordato, a tal proposito, che si sarebbe trattato di un sorteggio “temperato”. Se i candidati da eleggere sono 20, prima veniva sorteggiato un paniere di circa 200 magistrati e poi si procedeva con il voto.
Esatto. Avrebbe messo fuori gioco le correnti.
La ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha voluto sentire ragioni sul punto, facendo intendere ai partiti della maggioranza, ad iniziare da Forza Italia che l’aveva proposto, che fosse incostituzionale e che ci sarebbero stati problemi in sede di promulgazione da parte del capo dello Stato.
Se fosse stato incostituzionale perché l’Anm nelle scorse settimane ha indetto un referendum consultivo sul sorteggio? Parliamo di magistrati, di giuristi, se veramente era incostituzionale avrebbero avallato una consultazione? Non credo. Il sistema delle correnti, lo dico da tempo, ha il terrore del sorteggio che consente di mandare al Csm magistrati che non sono legati ad un gruppo associativo.
Lei è stato per tanti anni esponente di punta di un gruppo associativo. Le sue chat hanno svelato i legami con centinaia di colleghi che si rivolgevano a lei, direttamente o indirettamente, per “autopromuoversi’. Ora questi magistrati sono a capo di procure e di tribunali. Si è pentito?
Il discorso sarebbe lungo. Posso dire comunque che la magistratura ha necessità di una classe dirigente che sia svincolata dalle correnti.
Lo sa cosa ha dichiarato l’altro giorno il giudice Andrea Reale, componente del Comitato direttivo dell’Anm per Articolo 101 (il gruppo ‘anti correnti’, ndr)?
No.
Considerato che questa riforma segna il successo delle correnti, ha proposto a tutti i rappresentanti dell’Anm di andare a fare un brindisi all’hotel Champagne o presso il bar Ungheria. Brindisi da fare nella prossima ‘notte dei legalità’ (evento indetto dall’Anm nei prossimi giorni per protestare contro la riforma, ndr)?
(Ride)
Paolo Comi
Tutto come prima. Trattativa Stato-toghe, vincono i magistrati: la riforma sulla giustizia non c’è più, torna il Sistema Palamara. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Aprile 2022.
La riforma della giustizia slitta. Anche lo sciopero dei magistrati contro la riforma della giustizia slitta. Forse sarà sostituito da una notte bianca durante la quale – si suppone – chi aderirà dovrà stare sveglio fino alle ore piccole. La riforma slitta solo di pochi giorni, ma in questi giorni sarà cassata la norma che prevedeva un minisorteggio tra i meccanismi che avrebbero dovuto regolare l’elezione del Csm. Il minisorteggio è stato valutato, evidentemente come un danno, seppur minuscolo, per le correnti, e le toghe hanno chiesto allo Stato di eliminarlo.
Torna il sistema-Palamara. Lo Stato ha accettato. E così la trattativa Stato-Toghe si è conclusa rapidamente, con la capitolazione dello Stato e la vittoria delle toghe. Ora staremo a vedere se qualcuno vorrà aprire una inchiesta su questa trattativa. Ingroia non può occuparsene perché è diventato avvocato. Di Matteo neppure perché fa parte del Csm. Può darsi che l’inchiesta non ci sarà…
Comunque il risultato è quello. Come in tutte le precedenti occasioni, nelle quali qualche governo tentò di realizzare piccole riforme della giustizia, compresi i governi di Berlusconi e di Prodi, alla fine salta tutto. Le Procure si mettono di traverso, minacciano fuoco e fiamme (e, eventualmente, avvisi di garanzia) e i politici, buoni buoni, si arrendono. Pensate un po’, la riforma partiva dall’idea che siccome in questi 25 anni la magistratura aveva invaso molti campi non suoi e aveva assunto un potere debordante e una capacità devastante di sopraffazione sulla vita delle persone, occorreva correre ai ripari per riportare in funzione lo stato di diritto.
Come? Per esempio con la separazione delle carriere, con la responsabilità civile, con la riforma del Csm, con la riduzione ai minimi termini della detenzione preventiva, con l’autonomia della polizia giudiziaria (che oggi è agli ordini del Pm) e altre cose simili.
Nessuna di queste questioni è stata presa in esame. La riforma è rimasta un fantasma. Nei prossimi giorni andrà ai voti un fantasma e proprio perché è un fantasma riceverà un sacco di voti. L’ultima volta che si provò a riformare la giustizia (il ministro era Mastella) il ministro si beccò un avviso di garanzia e gli arrestarono la moglie. Stavolta lo stop alla riforma è stato meno cruento.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La riforma che non c'è. Riforma della giustizia, perché le toghe hanno stravinto. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Cominciamo a scriverla tra virgolette, questa “riforma” Cartabia. Altrimenti si dovrebbe chiamarla controriforma. Anche se non piace alle toghe, e non capiamo il perché. Sono tonti o vogliono stravincere? Quel che è certo è che siamo di fronte a un obiettivo mancato. Non la rivalsa, la vendetta per le ferite violente che il Partito dei pm aveva inferto al Parlamento e alla classe politica. Ma l’occasione per ritrovare quella verginità perduta, l’identità e la dignità di una democrazia liberale diventata repubblica giudiziaria. Quindi illiberale e reazionaria, come se improvvisamente avessero assaltato il Palazzo d’inverno uomini in divisa oltre che in toga.
Sarebbe bastata un po’ più di grinta da parte del Parlamento, senza pretendere il coraggio da partiti costretti dal giogo di accordi di governo che tengono insieme le mele con le pere, i Cinque Stelle con Forza Italia e il Pd con la Lega. Ma sta scritto sulle sacre tavole che Enrico Letta debba prendere ordini da Conte e Casalino, dopo aver detto signorsì per trent’anni ai pubblici ministeri, e che Forza Italia non sappia più ritrovare il proprio orizzonte garantista se non per i processi di Berlusconi? Quanto alla Lega, che pure ha fatto il proprio salto di qualità facendosi promotrice dei referendum, sulla giustizia non ha mai avuto le idee molto chiare, fin da quando, nel primo governo Berlusconi, il ministro Maroni non fece il famoso “disconoscimento di paternità” sul decreto Biondi da lui promosso insieme al guardasigilli.
Così, si affida a un piccolo partito corsaro come Italia Viva e al suo spregiudicato segretario il compito di disvelare tutti i passaggi in cui il re è nudo e nessuno glielo dice tranne un birichino coraggioso che -paradosso dei tempi- ha le sembianze di due deputati, Cosimo Ferri e Giusi Bartolozzi, che fino a ieri indossavano la toga da magistrati. A proposito dei quali, i loro ex colleghi, visto che la riforma non c’è, e se c’è è una controriforma, non si capisce se, quanto meno nelle persone dei loro vertici sindacali, siano semplicemente un po’ tonti o se invece vogliano stravincere. Fanno i virtuosi dichiarando, con qualche ragione, che la “riforma” non supera lo scandalo correntizio denunciato da Palamara, anzi rafforza le cricche politiche. Però i vertici della Anm non volevano neanche il sorteggio (anche se duemila magistrati di base avevano detto di sì in un sondaggio interno), pur se temperato, cioè aggiustato in modo da non essere incostituzionale. E in realtà non volevano cambiare proprio niente. Non hanno capito che sono stati accontentati, perché non cambia niente, e che la ministra Cartabia ha solo offerto ai politici lo zuccherino proposto dal deputato più attivo e creativo del Parlamento, Enrico Costa: il fascicolo delle performance.
In verità se ogni sondaggio vede la fiducia dei cittadini nella giustizia sempre a livelli più bassi, uno dei motivi è proprio lo sbilanciamento tra il numero di persone inquisite o addirittura arrestate e proscioglimenti e assoluzioni. E c’è sempre quello scandalo del 90% di toghe che ogni anno passano indenni dal “tribunale” del Csm che, più che assolvere, pare sempre perdonare il magistrato che commette errori o addirittura si accanisce nei confronti di qualche indagato, specie se politico. Ecco perché non di vendetta si tratta, se anche giudici e pubblici ministeri lavoreranno in una vera casa di vetro, in cui la loro attività, il rendimento, la produttività saranno sotto gli occhi di tutti, come è per i parlamentari o per chiunque lavori in azienda. La minaccia di sciopero, che ha al centro proprio l’insofferenza a rendere manifeste le capacità da una parte e la pigrizia dall’altra, ma anche e soprattutto l’osservanza delle regole e le procedure, ha reso palese anche un fatto singolare. E cioè quel che le toghe pensano di se stesse e della categoria. È stupefacente sentir dire che nella prospettiva di esser giudicato nel proprio lavoro, ogni magistrato sarà indotto a fare il minimo, a compiacere il proprio capo, ad abbandonare la “giustizia creativa”.
Ecco, magari questa è una buona notizia. A noi piace di più l’osservanza del codice che non la fantasia di certi pm e giudici che non leggono le carte, che si appiattiscono sulla prima relazione della polizia giudiziaria, che poi capiscono roma per toma nelle trascrizioni delle intercettazioni e “creativamente” infilano manette ai polsi di persone che poi, spesso molto poi, saranno riconosciute estranee ai reati contestati. Diciamo la verità, lo zuccherino del fascicolo delle performance è l’unico risultato della “riforma”. E, se le cose stanno così, se davvero i riformatori del Parlamento portano a casa solo questo, può sembrare una rivalsa della politica sulla magistratura. Perché non si è assolutamente risolto per esempio l’affollamento di toghe in tutte le istituzioni. Possibile che ci siano sempre questi duecento magistrati che non sanno star fermi nel banco e nel loro ruolo di inquirenti o giudicanti? Se la ministra Cartabia continua a muoversi con un codazzo di gente in toga, come potrà assumere provvedimenti senza subirne qualche, pur indiretto condizionamento? E tutti questi capi e capetti, più che gli eletti alle camere, che sono ormai pochi, potranno tornare poi indisturbati a inquisire e giudicare? Non c’è una vera “riforma” su questo andirivieni.
E dovremo aspettare il referendum, e contare non soltanto i partecipanti al voto, ma anche il numero dei “si”, per avvicinarci non alla separazione delle carriere, ma almeno a quella delle funzioni. Che rilevanza ha il fatto che si consenta al pm di diventare giudice (o viceversa) una o due o tre volte nella carriera? Il vero cambiamento sarebbe lo zero assoluto. Quella sarebbe una riforma. E piantiamola con la favoletta della cultura della giurisdizione, per favore! Meglio un pm pistolero piuttosto che un imbroglione, che va a sciacquare i panni in Arno e torna più accanito di prima. Buono sciopero dunque, signori magistrati, dopo l’assemblea sindacale del prossimo 19, quando la “riforma” sbarcherà in Parlamento e voi dichiarerete di aver perso una guerra che avete stravinto.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Le nuove norme dell'ordinamento e del Csm. Riforma Cartabia arriva in aula, i magistrati si ribellano: “La giustizia è cosa nostra”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Aprile 2022.
Oggi è il grande giorno. La riforma Cartabia su Csm e Ordinamento giudiziario approda in aula, dopo un travagliato lavoro in Commissione Giustizia. Ma sono anche le stesse ore in cui i furbini del sindacato delle toghe, la Anm, ha fissato un incontro per decidere lo sciopero e concentrare su di sé l’attenzione dei media. Una dichiarazione di guerra. Un po’ come se, mentre la miss viene incoronata reginetta, una sua concorrente si spogliasse nuda davanti alle telecamere. La giornata è stata preceduta da commenti e interviste da parte dei magistrati più esposti e più esibizionisti, e anche da un vero grido di vittoria. Ci siamo ricompattati, finalmente di nuovo tutti insieme, hanno detto in coro Nino Di Matteo, Sebastiano Ardita, membri del Csm, e lo stesso Giuseppe Santalucia, il capo del sindacato.
Pare non esser successo niente: la riunione dell’hotel Champagne tra toghe ed esponenti politici, il trojan nel telefonino di Luca Palamara, lo scandalo di inchieste penali e le dimissioni a catena dal Csm. E poi punizioni di incolpevoli come il pg Marcello Viola cui fu bloccato l’accesso alla Procura di Roma (e qualcuno voleva impedirgli anche a quello di Milano). E infine il libro “scandaloso” di Sallusti e Palamara, che diventerà subito una sorta di best-seller con il dito puntato contro le toghe, a loro disdoro e vergogna. Così il 19 aprile rischia di diventare una data simbolica, quella in cui il premier Draghi indossa l’abito di Berlusconi e la ministra Cartabia quello del suo ex collega Castelli, ambedue presi di mira da una minaccia di sciopero delle toghe del tutto senza senso. Il consigliere Di Matteo non teme di avanzare il paragone tra i due momenti storici, spiegando che quel governo di centro-destra era più sincero, più esplicito nel proprio progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario e della separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri. Questi qui invece, dice ancora Di Matteo, mi hanno deluso: “È incredibile che quel disegno si stia realizzando in un momento in cui al governo non c’è solo il centro-destra ma una coalizione che arriva fino al Pd e ai Cinquestelle, partiti e movimenti che avevano fatto del contrasto a questo tipo di riforme un loro cavallo di battaglia politica”.
Eccovi ben sistemati cari esponenti del Pd! Arruolati dal pubblico ministero preferito dal Fatto quotidiano (che lo intervista) nello splendido mondo del grillismo contro-riformatore e amico delle forche. In questo mondo vive prima di tutto il disprezzo per il Parlamento, quello strano organismo pieno di furfanti e parassiti che rubano lo stipendio e che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, essere aperto come una scatola di tonno. In questo mondo non esiste la divisione dei poteri. E sulla giustizia non c’è libertà per l’esecutivo né per il legislativo, esiste solo la spavalderia di una Casta in toga priva del pudore dei propri limiti e dei propri errori. Il “Sistema” denunciato da Luca Palamara è ormai alle spalle. E in questo clima di guerra, anche le toghe hanno dichiarato guerra al mondo della Politica. Ai partiti, al governo, al Parlamento. Hanno l’atomica -le manette- e la sanno usare. Paiono andare ai matti all’idea che il mondo politico stia “osando” presentare norme, sia pur piccole piccole, che non abbiano ricevuto il loro imprimatur, il loro bollino blu. E, se la riforma Cartabia andrà in porto, se questo pur debolissimo Parlamento troverà in sé la forza, tra mille compromessi e contentini a ogni partito o frazione di esso, di guardare a un futuro in cui non saranno più i Di Matteo e i Santalucia a comandare nelle aule di Montecitorio e Palazzo Madama, allora diremo anche noi “viva la riforma Cartabia”. Anche se riteniamo che le varie norme e deleghe in essa contenute non cambieranno molto. Perché liberarsi, finalmente e dopo trent’anni, dal giogo dei pm è forse oggi la cosa più importante.
Del resto dovrebbe essere sufficiente esaminare punto per punto il modo di ragionare dei capofila della protesta che sfocerà quasi sicuramente nello sciopero delle toghe. Premettiamo che Nino Di Matteo è contrario all’astensione dal lavoro, ma solo perché è uno molto attento alla comunicazione e teme che “lo sciopero sarebbe scambiato per un tentativo per tutelare interessi di casta”. Invece? Risulta per caso a qualcuno, o qualcuno si accorto del fatto che dopo lo scandalo denunciato nel “Sistema” sia stata avviata all’interno della magistratura, del loro sindacato dello stesso Csm una qualche forma di discussione, di autocritica, di progettualità per un futuro diverso? Non risulta. Viene in mente quel detto siciliano che suona più o meno così: calati giunco, che passa la piena. Lasciamo perdere la legge elettorale del Csm, come se bastasse una modifica dei sistemi di votazione per riformare la magistratura. Per lo meno la proposta di sorteggio, che in tempi normali sembrerebbe assurda, avrebbe potuto evitare il trionfo delle correnti e i loro comportamenti a volte peggiori di quelli dei peggiori politici. E magari avremmo avuto nel Csm invece dei vari Davigo e Ardita, qualche signor Rossi o Bianchi, sconosciuti.
Non male, eh? Ma non possiamo lasciar perdere la scandalosa cultura politica che appartiene a certe toghe. Sentiamo ancora Di Matteo, che è uno importante, uno che dovrebbe essere d’esempio per i giovani magistrati che si affacciano alla carriera. Le norme della riforma Cartabia secondo lui manifestano “una voglia di vendetta nei confronti di quella parte della magistratura che è stata capace di portare a processo la politica, la grande finanza, le grandi deviazioni dello Stato”. C’è da sentirsi agghiacciati. Dunque il compito del pubblico ministero non è quello di cercare i responsabili dei reati, ma quello di dare l’assalto al mondo della politica e della finanza? Un dubbio: è quello che il dottor Di Matteo ha tentato nel fallimentare e costoso processo “Trattativa”? Ma lasciamogli rispondere chi ne sa più di noi, il professor Sabino Cassese, intervistato dal Foglio.
“In quella frase ci sono tre errori”, dice Cassese. “Quello di ritenere che una parte della società, la magistratura, possa portare a processo un’altra parte della società, la politica. Quello di pensare che un governo presieduto da Draghi, con Cartabia ministra della giustizia, possa esser animato da un desiderio di ‘vendetta’. Quello di ritenere che un magistrato possa esprimersi in tal modo sugli organi costituzionali della Repubblica”. Il punto è che non solo si permettono. Ma si consentono questo tono e questo linguaggio perché sono abituati a tenere il mondo istituzionale sotto il proprio giogo. Per dire No persino a una riforma piccola piccola che osa affacciarsi all’orizzonte, con una timida separazione delle funzioni (neppure totale), con un assaggio di valutazioni di qualità (e magari produttività) del lavoro di chi è chiamato a giudicare gli altri. Se si chiede di non fare di ogni processo qualcosa di simile a quello della “Trattativa”, è proprio per pensare a una giustizia che sia il contrario di quel che intendono i magistrati alla Di Matteo. Che cosa vuol dire infatti, quando afferma che con la riforma, allora il magistrato “si limiterà a esercitare l’azione penale nei casi di assoluta evidenza della prova”? Non dovrebbe essere sempre così? O facciamo a ripetizione il circo Barnum del processo “Trattativa”? Oggi è il 19 aprile, data simbolica per la giustizia.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana
Le minacce della magistratura. Riforma Cartabia: resistere agli assalti delle toghe, poi farà giustizia il referendum. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Coraggio, che sono tornate le lucciole. Quel che ci vuole ora è l’ardire da parte del Parlamento a tener duro con la sua piccola riforma di giustizia che manda un segnale al Partito dei pm: le leggi sulla giustizia le facciamo noi. Punto. Anche la piccola riforma Cartabia è una lucciola nel buio della Repubblica giudiziaria. E ci vorrà poi, il prossimo 12 giugno, il coraggio dei cittadini ad andare alle urne e mettere una bella croce sul SÌ ai referendum sulla giustizia. E allora le lucciole saranno tante.
Certo, non è e non sarà facile. I bastoni tra le ruote dello Stato di diritto e della stessa democrazia sono molti, e sono in gran parte nelle mani degli uomini in toga, del loro sindacato e dei loro rappresentanti più significativi. Ma non solo.
Che dire del governo che ha fissato in una sola giornata, la domenica, le elezioni amministrative e i referendum sulla giustizia, pur sapendo che in quella data le scuole sono chiuse e per molti sono già cominciate le vacanze? Certo, bisognerebbe esser tutti militanti e appassionati e affamati di diritti civili, per dare la priorità, rispetto ad altre esigenze di tipo familiare, al diritto-dovere di voto. Sappiamo che non è così, e anche che il mondo della politica negli ultimi anni non ha certo dato di sé un’immagine tale da incoraggiare alte percentuali di cittadini a correre festanti alle urne. Possiamo aggiungere che la Corte costituzionale e in particolare il presidente Giuliano Amato, nella decisione dello scorso 15 febbraio, con un’abile operazione di chirurgia politica, hanno disincentivato la corsa al voto, decapitando i quesiti più popolari, quelli non solo di più facile comprensione, ma anche maggiormente oggetto di discussione. Ci si sarebbe divisi tra i SÌ e i NO sull’eutanasia e sulla legalizzazione della cannabis, e persino sulla responsabilità civile dei magistrati che sbagliano, ma ci si sarebbe accaniti dentro alle urne, non fuori, magari su una spiaggia.
Aveva promesso che non avrebbe cercato il pelo nell’uovo nella sua decisione, il presidente Amato. È stato così, infatti l’uovo lo ha buttato via tutto intero. Parliamo dell’omaggio alla Chiesa e al mondo del proibizionismo. Ma soprattutto della responsabilità dei magistrati, esclusa con una motivazione di lana caprina, senza che si sia tenuto conto di quei numeri di ingiustizia da brivido. Soltanto per l’ingiusta detenzione, ogni anno lo Stato risarcisce mille persone con 27 milioni di euro. E, se consideriamo la tirchieria e la pretestuosità con cui tanti che avevano subito ingiustamente la tortura della custodia cautelare in carcere sono stati esclusi dal risarcimento (magari perché nel primo interrogatorio non avevano risposto al giudice), possiamo tranquillamente raddoppiare il numero delle ingiustizie. Ma ancora una volta quelli che indossano la toga dalla parte “giusta”, quelli che troppo spesso hanno l’unico merito di aver vinto un concorso, saranno quelli che non pagano mai per i propri errori. Ammesso che siano sempre e solo errori. Eppure sono gli stessi che si lamentano in continuazione. Non saranno chiamati a rispondere dei propri atti in sede di voto referendario, ma non tollerano neppure di essere giudicati per il loro lavoro.
Così il famoso fascicolo del magistrato previsto dalla riforma Cartabia, quello che darà trasparenza all’attività quotidiana di ogni giudice e pubblico ministero, è visto dalle toghe (e anche da prestigiosi ex procuratori come Giancarlo Caselli) come un insulto, un affronto alla loro dignità. O addirittura una schedatura di polizia, un assalto della Gestapo. Un’offesa è considerato poi anche il solo nominare la possibilità di separare le carriere tra chi accusa e chi giudica. Come se nella gran parte dei Paesi liberali dell’Occidente non fosse già così. Ma neppure la timidissima distinzione tra le funzioni, pur all’interno dello stesso percorso di carriera, va bene. Né quello previsto dalla piccola riforma Cartabia, in discussione in queste ore alla Camera, che consente un solo salto della quaglia nel corso della carriera, né men che meno l’oggetto del referendum, che impone una scelta definitiva di ruolo.
Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che vuole portare le toghe a scioperare (e magari, perché no, a marciare su Montecitorio in segno di protesta) contro questa minaccia, è arrivato a dire che il giudice più garantista è quello che prima ha fatto il pm. Forse perché è saturo di ingiustizie e nefandezze, dopo averne viste, e magari fatte, così tante. Non manca certo il coraggio, e anche un ben po’ di faccia tosta, dopo lo scandalo del “Sistema”, alle toghe militanti. Anche per questo, adesso il coraggio tocca a noi. A noi che in certi articoli della Costituzione, come quello sul giusto processo, crediamo davvero. E anche nella politica dei piccoli passi, a patto però che abbia dentro di sé le qualità per diventare poi una vera svolta, una rivoluzione. Sarà vero che sono tornate le lucciole?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
La conferenza stampa sulle ragioni del No. L’Anm contro la riforma Cartabia, ma ora lo scontro è interno. Angela Stella su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Per ora niente sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati contro la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. La questione è tutta rimandata: mentre andiamo in stampa il Comitato Direttivo Centrale è ancora in corso ma, da quanto apprendiamo, molto probabilmente rimanderà la decisione all’Assemblea generale del 30 aprile. Ieri però i giornalisti sono stati convocati proprio dall’Anm perché, come ha detto il Presidente Giuseppe Santalucia, «abbiamo bisogno di comunicare e far comprendere all’esterno quali sono le ragioni del disagio della magistratura su alcuni punti della riforma.
Non vogliamo apparire una casta che si chiude al suo interno, che protesta e si oppone alla riforme ma vogliamo che questa conferenza segni una tappa all’interno di un percorso di confronto e di dialogo che abbiamo già iniziato da tempo prima con il Ministro della Giustizia Cartabia, poi con la Commissione giustizia che ci ha sentiti in sede di audizione». L’impressione che abbiamo avuto è che si voglia scongiurare lo strappo tra il potere giudiziario e quello legislativo, in tempi già difficili per il nostro Paese, come emerge ancora dalle parole del Consigliere Santalucia: «Lo sciopero è una delle forme di protesta, una drammatizzazione forte del dissenso ma noi oggi (ieri, ndr) stiamo cercando di comunicare le buone ragioni della nostra protesta. Auspico che non si debba arrivare a questa forma di protesta, ma non sono qui a fare il profeta. Non sono in grado di dire se la decisione arriverà oggi (ieri, ndr) o all’assemblea generale dei soci convocata per il 30 aprile».
Se non si arriverà allo sciopero è perché evidentemente la politica cederà su qualche punto ma tuttavia il timing si presenta sfavorevole a reali possibilità di poter cambiare qualche aspetto della riforma: domani il testo, infatti, dovrebbe essere approvato alla Camera e la partita al Senato si preannuncia abbastanza in discesa. Convocare una conferenza stampa proprio mentre la riforma approda a Montecitorio è sembrata una forma di pressione delle toghe sul Parlamento: «Nessuna pressione, la nostra è una richiesta di ascolto – ha chiarito Santalucia – La nostra linea è e resta quella di sfruttare ogni possibile margine di confronto. Siamo consapevoli della necessità di una riforma, degli ambiziosissimi piani del Pnrr, ma ne serve una diversa rispetto a quella all’esame del Parlamento, questa guarda al passato, crea una struttura sempre più gerarchica, accentra poteri e utilizza l’aspetto disciplinare per controllare i magistrati, impaurirli nel loro delicatissimo compito, relegandoli a un ruolo impiegatizio».
L’aspetto che viene più fortemente criticato è quello relativo al fascicolo personale del magistrato: la riforma prevede l’implementazione annuale – non più quindi ogni 4 anni, in corrispondenza delle valutazioni – con la storia complessiva delle attività svolte.
Esso dovrà contenere dati statistici e documentazione sull’attività svolta (inclusa l’attività cautelare); dati sulla tempestività nell’adozione dei provvedimenti; eventuali anomalie relative all’esito degli affari trattati nelle fasi successive. Per il Segretario dell’Anm Salvatore Casciaro «è la logica di fondo di questa riforma che noi riteniamo sbagliata. Il giudice è soggetto solo alla legge. Questa riforma è incentrata esclusivamente sulle statistiche e questo non va bene. Istituire un fascicolo delle performance è sbagliato, la verità processuale non è precostituita ma si forma faticosamente nella dialettica delle parti». Proprio alle valutazioni di professionalità è dedicato un paragrafo di una dura lettera che Magistratura Democratica ha inviato ieri al Presidente Santalucia proprio mentre era in corso la conferenza: se è vero che da un lato «l’idea di enfatizzare nella valutazione di professionalità il tasso di conferme ottenute dalla decisione nei successivi gradi di giudizio alimenterà il conformismo giudiziario e disegnerà l’immagine di una magistratura piramidale» dall’altro lato, enfatizza il gruppo associativo guidato da Stefano Musolino. «L’azione dell’ANM, nel contesto della riforma, ci è apparsa intempestiva, timida ed incapace di proposte idonee a dimostrare l’assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell’esistente, senza alcuna apertura al nuovo […] Sulle valutazioni di professionalità, poi, le proposte sono state tutte orientate ad una chiusura corporativa, incapace di una sana autocritica, ma anche di spiegare le ragioni di senso del sistema di valutazione dei magistrati». Insomma l’Anm non sembra uscita dalla crisi tra riforma considerata punitiva, divisioni interne e base, soprattutto tra i giovani magistrati, insoddisfatta della mediazione. Angela Stella
Le minacce dell'Anm. La riforma Cartabia è acqua fresca: non cambia nulla e non tocca i privilegi dei magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Aprile 2022.
Lo sciopero dei magistrati forse si farà. Forse no. Ieri l’Anm, cioè il partito dei Pm, ha convocato una conferenza stampa per annunciare lo sciopero poi in conferenza stampa ha detto che non si è deciso ancora niente. La verità è che anche l’Anm sa che se lo sciopero verrà proclamato saranno pochini i magistrati che aderiranno. E perché mai dovrebbero aderire ad uno sciopero che forse è anche illegale e comunque è del tutto inutile? Inutile per due ragioni. la prima è che la riformatta Cartabia in ogni caso andrà in porto e sarà approvata, almeno alla Camera, prima dello sciopero. Si tratterebbe di uno sciopero postumo. Sconosciuto nella storia sindacale.
E poi per un’altra ragione: la riforma Cartabia non riforma praticamente nulla e non tocca nessuno dei privilegi dei magistrati. Lascia intatto il loro potere. Non modifica niente nello sciagurato castello fatiscente della nostra giustizia. I magistrati restano intoccabili. Le famose pagelle, per le quali le toghe si lamentano, non ci saranno, o saranno uguali a quelle di prima. Se un Pm si accorge che il suo processo sta andando male, e vuole evitare il giudizio negativo, sa come fare: lo lascia andare in prescrizione (oggi si dice improcedibilità).
E allora perché la protesta? Proprio perché questa riforma piccola piccola piace ai magistrati, e con lo sciopero si vuole certificare l’opposizione a sua maestà. Dire: a noi non piaceva questa riforma, quindi è giusta, quindi ora è fatta e basta riforme. L’obiettivo dello sciopero o del non sciopero è esattamente questo: evitare riforme vere. La vicepresidente del Senato Anna Rossomando ha dichiarato che ora finalmente si avvia l’autoriforma della magistratura. Autoriforma? E che sarebbe? Sarebbe il nulla. Una volta era Breznev che parlava di autoriforme del socialismo. Ecco: con la magistratura siamo a quel punto lì.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 aprile 2022.
Il pragmatismo non -politico di Mario Draghi ricorda le inesperienze e ingenuità dei primi governi Berlusconi, quando pensavano davvero che per cambiare una legge bastasse cambiare la legge.
L'apparente soddisfazione di Marta Cartabia, invece, ricorda una certa auto -convinzione piddina di poter davvero «concertare» una riforma con una controparte chiamata Magistratura, trattata come se fosse una parte sociale: l'obiettivo era non farla scendere in piazza.
Ma per dirla male: solo nel giorno in cui la corporazione scendesse davvero in strada ci sarebbe l'indizio (ma non ancora la prova) che qualcosa starebbe cambiando davvero. Questo per anticipare che no, questa riforma della giustizia non pare credibile. Non basta cambiare delle leggi: soprattutto se sono dirette a chi, le stesse leggi, dovrà interpretare e dovrà trasformare in prassi giurisprudenziale.
I magistrati rappresentano i decreti attuativi viventi di ciò che li riguarda: è così che sono state annullate tutte le velleità di riforma tentate negli ultimi decenni. Già il Codice di procedura penale (1989) in teoria conteneva gli anticorpi che dovevano difendere dalle patologie degenerate in seguito: lo strapotere dei pm, la mancata terzietà del giudice, il segreto istruttorio divenuto inesistente, la centralità del processo rispetto alle indagini preliminari e molto altro. È tutto scritto: chi l'ha ribaltato, poi? Non delle leggi, ma delle sentenze. Non delle riforme, ma delle Corti e delle consuetudini.
È impossibile riformare assieme ai magistrati, oggi: in questa fase storica si può solo riformare contro di loro. Alcuni esponenti di Italia Viva hanno detto già molto: che non si può mediare con chi non voleva cambiare assolutamente niente, perché ogni esito ne uscirà annacquato; e non si può cedere posizioni alle ali giustizialiste del Pd o addirittura dei grillini.
Nel frattempo, persino l'Associazione magistrati tutto sommato se n'è restata buona, avendo capito che si conserverà l'esistente; persino la corrente di Magistratura democratica ha capito che la stessa Amn è stata «incapace di proposte idonee a dimostrare l'assunzione di responsabilità per la crisi».
Non vogliamo dire che la commissione Cartabia non abbia lavorato: vogliamo dire che l'ha fatto per niente. Restando alla parte che riguarda il Csm, si è lasciato che il Csm autogovernasse persino la propria riforma. Le doppie indennità per i magistrati dei Ministeri sono ancora lì, il carrierismo pure.
Non si è chiarita neppure la differenza con la riforma dell'ordinamento giudiziario voluta nel 2006 dal guardasigilli leghista Roberto Castelli, che voleva introdurre elementi di meritocrazia in una corporazione dove ogni carriera è soggetta a scatti automatici: ma nei fatti le normative non fecero che accrescere i poteri dei dirigenti degli uffici e sottodimensionare i requisiti dell'anzianità di servizio, il che spianò il terreno ancora di più ai carrierismi, alle spartizioni interne alle correnti, ai privilegi e alle pratiche lottizzatorie poi esplose col caso di Luca Palamara.
Le varie degenerazioni in seno al Csm si sono consolidate a partire da lì, mentre i pochi principi innovativi introdotti ora sulle cosiddette «porte girevoli» (i magistrati fuori ruolo che vanno e vengono) sono poche macchie maculate su una pelliccia spessa come la precedente.
Il presidente dell'Anm Giuseppe Santalucia ha detto che «si sta cambiando l'assetto della Costituzione», il che naturalmente non è vero, ma perlomeno Santalucia ha fatto capire che il cuore del problema è quello, l'assetto della Costituzione. Senza cambiarlo, non cambi niente: puoi solo diversificare le gerarchie, accentrare poteri, far controllare meglio i magistrati da altri magistrati, renderli degli impiegati ai servizio della Corporazione: ma resta una partita di giro.
Il Csm è un meccanismo para-parlamentare che attribuisce i vertici degli uffici sulla base di criteri politici o correntizi, consente incarichi extra-giudiziari e permetterà che molti giudici svolgano compiti da «fuori ruolo» al Ministero e nelle ambasciate, che pure fanno parte dell'esecutivo. Domanda: nella riforma c'è traccia di un qualche cambiamento in questa direzione? Il Csm resterà proprietario della funzione giudiziaria e non riuscirà a valutare i magistrati se non quando avranno fatto i peggiori danni.
Il Csm continuerà a non eccepire circa l'affollamento nelle carceri di cittadini in attesa di giudizio. Il Csm resterà dominato dalle correnti e questo non cambierà, paradossalmente, perché le correnti non sono d'accordo su come farlo. Il Csm da organo che difendeva l'indipendenza della magistratura è divenuto il vertice organizzativo della magistratura, l'ente esponenziale della medesima: sul rischio che potesse diventarlo potete trovare discussioni risalenti ad ancor prima dell'insediamento del primo Consiglio, nel 1956.
Domanda: ora, nella riforma, pensate che vi sia un qualche serio cambiamento in questa direzione? L'articolo 104 della Costituzione dispone che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere», e nella discussione all'Assemblea Costituente fu osservato che riconoscere un autogoverno del genere avrebbe significato creare uno Stato nello Stato, una casta chiusa e intangibile: non è forse quello che è successo?
E potete credere che la riforma Cartabia, ora, possa invertire la degenerazione che ne è conseguita, e che peraltro è sotto gli occhi di tutti? Ancora, e infine: l'articolo 105 della Costituzione dispone che «spettano al Csm le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati». Questo era, e questo è. E questo sarà, sinché la Costituzione non verrà cambiata.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 20 aprile 2022.
La riforma del Consiglio superiore della magistratura cammina, anzi vola. Dopo settimane defatiganti, di colpo la strada sembra spalancata.
La maggioranza regge. E oggi la Camera prevede lavori a tappe forzate, notte compresa, per arrivare domani al voto finale. Poi toccherà al Senato. E lì potrebbero esserci sorprese, perché le maggioranze sono variabili.
Se però ci fossero sorprese, saranno nel senso più indigesto per la magistratura, perché si potrebbe coagulare una maggioranza trasversale - tra Lega, Forza Italia, FdI e Italia Viva - a favore della separazione delle carriere.
Tutto questo, però, alla magistratura associata interessa poco, perché è già sulle barricate contro questa riforma. E alcune correnti ipotizzano uno sciopero, su cui dovrà pronunciarsi l'assemblea generale degli iscritti il 30 aprile.
L'Anm però non è compatta. Si cominciano a sentire le prime voci dubbiose su una scelta radicale come lo sciopero, arma particolarmente seria, usata dai magistrati solo nel 2005, contro una riforma dell'ordinamento giudiziario di marca berlusconiana.
«C’è stata una contrazione dei tempi alla Camera - dice intanto il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia - e speriamo sia funzionale a dare al Senato la possibilità di una discussione più ampia».
La sua speranza, che suona di appello accorato, è che il passaggio al Senato sia «l'occasione perché alcune delle nostre osservazioni critiche siano prese in considerazione. Cerchiamo un dialogo prima di arrivare a forme di proteste radicali. Non intendiamo fare pressione su nessuno, ma trovare il modo perché le nostre critiche siano comprese».
Quali le criticità maggiori? A parte un sistema elettorale che sembra aiutare solo le due correnti maggiori, «abbiamo bisogno - dice Santalucia - di una riforma che non releghi ad un ruolo impiegatizio la magistratura». «L'aspetto legato a una gerarchizzazione forte degli ufficio è molto sentito», sottolinea anche il segretario generale Salvatore Casciaro.
A giudicare da come vanno le cose in Parlamento, però, la loro sembra una speranza irrealizzabile. Anche i partiti che finora erano molto sensibili alla voce dell'Anm, stavolta non stanno cambiando idea.
A parte l'astensione annunciata del M5S sul semi-bocco delle funzioni, e alcuni emendamenti della Lega che ricalcheranno i quesiti dei referendum di giugno («Non possiamo tradire le nostre battaglie», la spiegazione di Giulia Bongiorno), l'esito sembra scritto.
«La scommessa è quella di un sistema giudiziario più rispettoso dei principi costituzionali e di aiutare la Magistratura a rinnovarsi ritrovando credibilità e autorevolezza. Anche per questo, pur se c'è stato e c'è in giro chi avrebbe voglia di assestare colpi all'indipendenza della Magistratura, non condividiamo il dissenso così radicale dell'Anm», dice Walter Verini, Pd. Di fronte a una politica che per una volta non si divide, è l'Anm che traballa.
Il presidente Santalucia è finito sul banco degli accusati per non essere riuscito a indirizzare le cose in un senso più gradito ai magistrati. La sconfessione più forte, a sorpresa, arriva dalla corrente progressista Md. «L'azione dell'Anm - scrivono - nel contesto della riforma ci è apparsa intempestiva, timida ed incapace di proposte idonee a dimostrare l'assunzione di responsabilità per la crisi, avendo privilegiato la conservazione dell'esistente, senza alcuna apertura al nuovo».
La riforma giustizia. Trattativa Stato-magistratura, vincono sempre i Pm. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Aprile 2022.
Non serviva essere lungimiranti per capire che fine avrebbe fatto la “epocale” riforma della giustizia di cui si vagheggiava qualche mese fa: bastava esaminarne il contenuto, che non era epocale manco per niente, e poi assistere a come la classe politica e di governo – salve le solite eccezioni che però ottengono quel che possono, e cioè poco o nulla – rinculava davanti all’offensiva della piovra giudiziaria che mascariava i piccoli tentativi riformatori spiegando che erano regali alla mafia e alla corruzione e, ovviamente, intollerabili attentati all’autonomia e all’indipendenza della magistratura.
Ancora una volta, i destinatari di questa agitazione sostanzialmente eversiva, a cominciare dalla ministra guardasigilli, hanno creduto per buona pace di riproporre il solito atteggiamento abdicatario per cui le riforme possibili sono quelle che ricevono il benestare giudiziario: come se già questo non denunciasse il problema capitale, e cioè il fatto che la magistratura si è costituita in una centrale di usurpazione che ha imposto con la violenza dell’intimidazione, del ricatto, quando non direttamente dell’aggressione penale, il proprio potere intromissivo, assolta da qualsiasi controllo di legalità.
Ma mentre non giova alle riforme, che infatti fan questa fine, l’idea che si debba legiferare in argomento di giustizia per il tramite di una trattativa Stato-Magistratura perpetua i segni della malattia italiana: la quale sta, in primo luogo, nell’incapacità di riconoscerla. Nell’incapacità di riconoscere che una riforma libera dal gradimento preventivo della magistratura non è necessariamente buona, ma è certamente cattiva quella che vi soggiace o, peggio, lo richiede. Iuri Maria Prado
La riforma giustizia e le proteste. Riforma Cartabia, difendiamo lo Stato di diritto contro lo strapotere delle toghe. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 16 Aprile 2022.
Il testo della riforma dell’ordinamento giudiziario ha subito nel tempo numerose modifiche, come è anche naturale attendersi in un percorso così accidentato e con una maggioranza così irrimediabilmente divisa proprio sulle idee di fondo della organizzazione e della amministrazione della giustizia. Al centro della riforma, come sappiamo, il sistema elettorale del Csm. Per noi penalisti si tratta di un vizio originario, bastevole a farci dire dal primo giorno che il percorso di questa riforma era anni luce lontano dalle questioni davvero cruciali che occorre invece affrontare. È pura illusione pensare che un sistema elettorale piuttosto che un altro possa restituire credibilità e forza alla magistratura italiana, considerata la gravità della sua crisi, che è crisi di credibilità della funzione agli occhi del cittadino.
E perciò dal primo giorno indicavamo gli ambiti di intervento invece indispensabili: rafforzamento della terzietà del giudice; responsabilizzazione professionale del magistrato, attraverso giudizi di professionalità finalmente rigorosi e legati innanzitutto a ciò che il singolo magistrato ha fatto nella sua quotidiana attività; eliminazione di ogni assurda commistione tra potere giudiziario e potere esecutivo, ponendo fine allo spostamento di magistrati in ruoli amministrativi nel Governo, che dovrebbero essere naturalmente riservati a funzionari di carriera. Anche il tema delle porte girevoli non ci ha mai scaldato il cuore, non fosse che per la marginale sua rilevanza in termini di numeri.
Dobbiamo pur riconoscere che la nostra forte (ed assolutamente isolata) insistenza, politica e mediatica, su questi tre temi ha in qualche modo fatto breccia nelle attenzioni del Governo e del Parlamento. E così sono comparse successive versioni della legge delega che hanno progressivamente incluso interventi sui fuori ruolo, poi sui criteri delle valutazioni professionali quadriennali, ed anche sulla accentuazione della separazione delle funzioni. Queste novità sono a nostro avviso ancora lontane dalle migliori e più efficaci capacità di incidere in modo risolutivo su quelle questioni, ma almeno quei tre temi sono finalmente presenti nel corpo della legge delega. E non è certo un caso che siano esattamente quelli i temi che hanno scatenato la furibonda reazione della magistratura associata, che aveva mantenuto un atteggiamento molto più controllato, fino a quando la riforma si risolveva grossomodo in alchimie elettoralistiche del Csm. Ora, credetemi: quelle novità, prese in sé sono assai poco rivoluzionarie. Siamo ancora ben al di sotto del minimo necessario per una reale riforma della magistratura italiana, che le restituisca forza, credibilità, affidabilità, autorevolezza.
Eppure è bastato sfiorare quei temi, per scatenare una reazione che non andava in scena da molti lustri, cioè dai tempi dei governi Berlusconi. Ecco allora che bisogna chiedersi perché. Quale può essere la ragione di una reazione così sopra le righe, che fa per esempio gridare alla “schedatura” sol perché il fascicolo personale del magistrato, che già esiste da sempre, verrebbe implementato con i provvedimenti che egli ha adottato nel corso del quadriennio; o fa gridare alla separazione delle carriere (magari!) sol perché si riducono da quattro a due le già ridotte possibilità, in carriera, di passare dalla requirente alla giudicante. Questa è roba che costituisce certo un primo passo avanti verso un ragionamento riformatore di qualche sensatezza, ma è ancora lontanissima dal diventarlo sul serio, e nessuno lo sa meglio di lor signori magistrati.
La cosa che invece li sta facendo impazzire è che Parlamento e Governo, per la prima volta, seppur timidamente e tra mille distinguo, sembrano voler recuperare spazio e prerogative che la Costituzione gli assegna, e che il potere giudiziario ha loro espropriato da trent’anni a questa parte. L’idea che li fa impazzire è che il legislatore pretenda di legiferare ed il Governo di governare sulla organizzazione della macchina giudiziaria e della magistratura, senza il previo consenso della magistratura stessa. L’idea che Governo e Parlamento pensino di potersi assumere la responsabilità politica di disegnare un ordinamento giudiziario nella pienezza della propria autonomia costituzionale, e non sotto dettatura delle toghe, è vissuto dalla magistratura italiana come un sacrilegio, un atto di insubordinazione inconcepibile, una sovversione dell’assetto squilibrato (in favore del giudiziario) dei poteri dello Stato come avveratosi in questi ultimi trent’anni.
Questa è la vera partita in gioco oggi. Io non so come andrà a finire, visto che il percorso parlamentare è tutt’altro che concluso. Ma se davvero lo scontro sarà portato, come sembra, ai suoi estremi, occorre che i liberali di questo Paese e tutti coloro che abbiano a cuore il ripristino della divisione e del rigoroso equilibrio tra poteri dello Stato comprendano con lucidità da che parte stare. Non facciamoci distrarre dalla modestia dei contenuti di quella riforma, che pure ribadiamo con forza. Ora la partita che si è aperta con la minaccia dello sciopero dei magistrati è un’altra, molto ma molto più importante, ed occorre giocarla e vincerla.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione Camere Penali Italiane
Di Matteo boccia la riforma Cartabia: «Ora le toghe saranno attente al gradimento degli avvocati». Il Dubbio il 15 aprile 2022.
Secondo il consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura, la riforma del ministro della Giustizia è «inutile e dannosa». E sulla legge elettorale dice: «I capi corrente continueranno a designare chi si candiderà».
«I magistrati saranno più attenti ai numeri, alle statistiche, al gradimento degli avvocati piuttosto che a rendere giustizia. E dunque non affronteranno inchieste complesse, diventeranno sempre più impauriti e più soggetti a interferenze esterne». Così Nino Di Matteo, consigliere del Csm, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano parlando della riforma Cartabia come appena approvata dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e della norma sul “fascicolo del rendimento del magistrato”.
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Secondo Di Matteo «è gattopardesca» la riforma «sul sistema elettorale del Csm» perché «si dice di voler combattere la patologia dello strapotere delle correnti e invece non si combatte nulla. Anzi da un certo punto di vista si potenzia il sistema delle correnti, che evidentemente fa comodo a tutti, anche alla politica» con «un sistema elettivo in cui continueranno a essere i capi delle correnti a designare chi si candiderà al consiglio. Continueranno a sapere quattro anni prima chi sarà candidato alle elezioni».
Costa: «Finalmente i pm e giudici saranno monitorati per le inchieste flop». Il Dubbio il 14 aprile 2022.
Nella notte è passato un emendamento del deputato di Azione che istituisce il "fascicolo per la valutazione del magistrato".
«Ieri notte è stato approvato in commissione Giustizia il mio emendamento che istituisce il “fascicolo per la valutazione del magistrato”. Un’innovazione di portata storica«. Così Enrico Costa, deputato e vicesegretario di Azione. «Un documento che permetterà finalmente di monitorare le attività del singolo giudice o Pm, le loro performance e i loro meriti, ma anche gli errori, le inchieste flop, le sentenze ribaltate e gli arresti ingiusti. Nessuna schedatura, ma una vera e propria fotografia della carriera di ciascuno. Un’innovazione storica che consentirà a chi è più bravo, a chi lavora silenziosamente senza essere organico alle correnti, di poter fare carriera«, aggiunge Costa.
«La levata di scudi delle correnti, che da giorni minacciano lo sciopero, dimostra chiaramente come temano di perdere il controllo che detengono grazie a quel 99% di valutazioni di professionalità “automaticamente” positive. Con il fascicolo tutta l’attività del magistrato sarà sotto gli occhi di chi deve fare la valutazione, non come oggi che gli atti vengono scelti “a campione”: così si potrà distinguere chi lavora bene e chi lavora meno bene, premiando chi lo merita, anche se non è organico alle correnti», conclude.
Pecorella: «Giusto chiedere alle toghe la responsabilità dei propri errori». Intervista a Gaetano Pecorella: per l’ex capo dei penalisti la riforma è il minimo sindacale per contenere il potere dei magistrati. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 15 aprile 2022.
«Avevamo approvato in Commissione una norma che prevedeva l’esecuzione dei test psicoattitudinali per i magistrati. Poi arrivò Clemente Mastella e decise di cancellare tutto». L’avvocato Gaetano Pecorella è stato presidente della Commissione giustizia della Camera dal 2001 al 2006, gli anni dei governi Berlusconi e dello scontro violentissimo fra toghe e politica. Anche allora si discuteva di riforme della giustizia e l’Associazione nazionale magistrati decise di indire nel 2002, come adesso, uno sciopero per contestare l’operato del governo.
Presidente Pecorella, nulla di nuovo viene da dire?
Da parte dei magistrati no, appena si toccano i loro privilegi partono subito violente reazioni.
Ai suoi tempi l’accusa delle toghe era quella di voler salvare Silvio Berlusconi dai suoi processi. E adesso?
Il premier è un signore che si chiama Mario Draghi e la ministra della Giustizia è Marta Cartabia, ex presidente della Corte Costituzionale, che non ha mai esercitato la professione forense. Una persona di grande sensibilità che non penso possa essere accusata di conflitti d’interesse.
Quindi come si spiega la reazione dei magistrati?
Semplice: i magistrati non vogliono essere considerati dei pubblici funzionari e pertanto soggetti a delle valutazioni.
Si riferisce alle “pagelle”?
Esatto. Non è pensabile che tutti i magistrati italiani abbiano oggi una valutazione altissima e che facciano carriera per logiche di appartenenza correntizia. Abbiamo avuto magistrati eletti in Parlamento che continuavano a progredire in carriera pur non svolgendo alcuna attività giurisdizionale. E’ un sistema che non funziona. Purtroppo da sempre vige questo malinteso secondo il quale è sufficiente aver vinto un concorso per non dover più essere valutati seriamente. Il pilota di un aereo se sbaglia fa al più 200 vittime. Quante vittime, invece, in termini di carriere rovinate, famiglie distrutte, o anche di persone che decidono di togliersi la vita, ha sulla coscienza un magistrato che sbaglia e non viene mai fermato? Un pm che vede sempre archiviati i propri procedimenti, deve per forza continuare a svolgere quella funzione? L’avvocato che sbaglia i processi viene punito dal mercato.
I magistrati affermano che le pagelle saranno fonte di “conformismo” nelle decisioni.
Già adesso ci sono principi sulla certezza del diritto. L’orientamento costante delle sezioni uniti della Cassazione tende ad evitare sobbalzi improvvisi nella giurisprudenza. Il magistrato che sa motivare in maniera intelligente un orientamento diverso sarà sempre molto apprezzato. Non certo quello che si discosta dalla Cassazione solo perché è prevenuto o ha per le mani un imputato eccellente.
Esiste una legge con il suo nome, la numero 46 del 20 febbraio 2006, che prevede l’inappellabilità da parte del pubblico ministero delle sentenze di proscioglimento, introducendo il principio che la sentenza vada pronunciata solo “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Ebbe un iter alquanto travagliato. La legge venne prima rimandata alla Camera dall’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, e, una volta approvata, fu poi bocciata dalla Corte Costituzionale che ne evidenziò il carattere incostituzionale in varie parti.
Guardi, ricordo benissimo. Era il tentativo di tagliare le unghie ai pm che oggi, come ieri, possono tenerti sotto processo una vita. La decisione della Corte della Costituzione sul principio di parità di accusa e difesa è uno scherzo. La ministra Cartabia non ha avuto coraggio di riproporla. Sarebbe stata una battaglia di civiltà.
Torniamo al governo Berlusconi. I magistrati le fecero una opposizione ferocissima.
Tutto, come è stato spesso ricordato, iniziò con Mani pulite. Il Pci fu l’unico partito ad essere risparmiato e con il segretario Achille Occhetto era pronto ad andare al governo. Berlusconi fece saltare i piani. La saldatura fra il Pci e Magistratura democratica, la corrente di sinistra delle toghe, ha fatto il resto. La separazione dei poteri non esiste più da allora.
Cosa possono fare i mezzi di informazione?
Devono far capire che serve migliorare la giustizia. Ci sono delle regolale. Autonomia e indipendenza non significa che il magistrato possa fare quello che vuole.
Per concludere, che giudizio si sente di dare sulla riforma Cartabia?
Una riforma che cambia ben poco. Serviva la separazione fra pm e giudici se si voleva cambiare qualcosa. Ed è la Costituzione a dirlo, prevedendo il giudice terzo, che non ha nulla a che vedere con il pm che è parte del processo come l’avvocato. Un giudice che deve anche essere imparziale, quindi senza pregiudizi.
La riforma del Csm. Toghe e sistema, perché l’immunità del Csm è da abolire. Paolo Itri su Il Riformista il 15 Aprile 2022.
Finché c’è morte c’è speranza, scrisse nel lontano 1958 Tomasi di Lampedusa nella sua famosa opera Il Gattopardo. Ma qui, in Italia, quando si parla di giustizia, la speranza sembra ormai un concetto relegato al mondo dell’iperuranio, bandito oltre i confini della Terra, espulso oltre le invalicabili barriere dell’Ade. Perdete ogni speranza o voi ch’entrate nel magico mondo della Riforma Cartabia.
La Commissione di studio Luciani, istituita con d.m. 26 marzo 2021, ha partorito le sue proposte di intervento per le riforme dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio Superiore della Magistratura. E se c’è una cosa di cui gli autori del lavoro possono andare fieri è quella di essere riusciti nella – invero non facile – opera di non toccare nemmeno uno dei punti nodali del Sistema collaterale di potere così ben descritto dall’ineffabile Palamara. Ma vediamo le cose da vicino. Le norme che regolano le nomine dei direttivi e le progressioni di carriera dei magistrati restano sostanzialmente invariate, tranne qualche piccolo accorgimento più apparente che reale, come ad esempio quello che prevede che, nei procedimenti per la copertura dei posti direttivi, il Csm proceda ad accertare l’avviso dei rappresentanti dell’avvocatura, nonché dei magistrati e dei dirigenti amministrativi assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati (una norma invero alquanto demagogica e di difficile applicazione, se solo si pensa che coloro che sono chiamati ad esprimere la loro opinione sono soggetti a loro volta tutti potenzialmente esposti al giudizio e agli strali del futuro dirigente dell’Ufficio).
Ma soprattutto, restano praticamente immutati la sostanziale insindacabilità dei criteri delle nomine e il bizantinismo di fondo che ispira il sistema di pseudo-controlli che già informa l’attuale impianto normativo e regolamentare sulla dirigenza giudiziaria: in una parola, il quadro normativo di riferimento che ha consentito (e che continuerà presumibilmente a consentire) la perpetrazione degli innumerevoli abusi del Sistema di potere correntizio in danno dei magistrati “non allineati” e dei poveri cittadini che avranno la sventura di andare a sbattervi contro. Resta per contro (e non a caso) irrisolto il vero nodo della questione: chi controlla i controllori? Come si fa, a prescindere dal contenuto della riforma – che, si sottolinea, dovrà pur sempre essere interpretata e applicata da magistrati e componenti laici del Csm -, ad evitare che i nuovi eletti al prossimo Consiglio Superiore possano ricadere negli stessi “vizietti” di quelli che lo hanno preceduto?
La risposta è una sola: occorre recidere definitivamente il cordone ombelicale che lega i magistrati designati al Csm alle correnti, che sono il vero e proprio cancro da cui sono poi partite le metastasi delle nomine “eccellenti” pilotate dai vari Palamara e, per il loro tramite, dalla stessa politica. Il nuovo sistema elettorale del Csm, se vorrà realmente incidere su tale situazione, non potrà che basarsi sul sorteggio (seppure “temperato”) dei candidati, che dovranno poi essere eletti dai loro colleghi in maniera indipendente da ogni appartenenza correntizia. Ma vi è un secondo punto di straordinaria importanza, che, stranamente, non è stato nemmeno preso in considerazione né dal progetto di riforma e nemmeno dai quesiti referendari. Ed è quello – verosimilmente poco conosciuto ai più – della immunità (prevista peraltro da una legge ordinaria e non da una norma costituzionale) introdotta nel 1981 dall’art. 32 bis della l. 24 marzo 1958 n. 195, che manda esenti da conseguenze civili e penali i consiglieri del Csm, disponendo che «i componenti del Consiglio superiore non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni, e concernenti l’oggetto della discussione».
Un’anacronistica immunità che riguarda ogni tipo di responsabilità, sia essa civile, penale o disciplinare, in base alla quale, si badi, a differenza del lodo Alfano, gli illeciti resteranno impuniti anche dopo la scadenza del mandato di consigliere del Csm. Non sono necessari grandi progetti di riforma. L’abolizione della immunità del Csm, unitamente alla introduzione del sorteggio temperato metterebbero la parola fine a un Sistema di potere che ha negli ultimi decenni condizionato non solo la Magistratura ma anche probabilmente la stessa fisiologia delle dinamiche politiche del nostro Paese. Paolo Itri
Cartabia finisce nel mirino delle toghe che si ribellano: “Nessuno ci può giudicare!” Paolo Comi su Il Riformista il 14 Aprile 2022.
È partito l’assalto al Parlamento da parte dei gruppi della magistratura associata contro la riforma della giustizia voluta dalla Guardasigilli Marta Cartabia. I primi ad indossare l’elmetto sono stati i magistrati progressisti di Area. “La riforma dell’ordinamento giudiziario che il governo ha presentato al Parlamento contiene profili devastanti per l’indipendenza e l’autonomia della magistratura”, esordiscono le ex toghe rosse, sottolineando che quello che le spinge ad intervenire “è la consapevolezza dei danni che questa riforma provocherà ai cittadini che chiedono giustizia”.
Nel mirino le famigerate schede di valutazione professionale, le pagelle, con cui si valuteranno le performance dei pm che arrestano gli innocenti. “Non è vero – proseguono le toghe di Area – che la riforma restituirà efficienza alla giustizia: al contrario, prevedendo la valutazione con imbarazzanti pagelline e l’utilizzazione di standard individuali di produttività determinati dal capo dell’ufficio per ciascun magistrato, indurrà i magistrati ad assumere decisioni frettolose e tendenzialmente uniformi, riproduttive dei precedenti”. Il motivo di questo appiattimento sarebbe dovuto al fatto che “nessun magistrato potrà più dedicarsi a decidere con attenzione le questioni più complesse e, per rispettare la produttività che gli è stata imposta, sarà costretto a prendere la decisione più facile anziché quella più giusta”. E poi: “Non è accettabile che la professionalità del magistrato sia valutata dalla tenuta dei suoi provvedimenti nei gradi successivi di giudizio, perché non c’è alcuna garanzia che la pronuncia successiva sia più giusta di quella precedente”.
L’invito, dunque, è rivolto al vertice dell’Anm affinché indichi “ogni possibile forma di protesta e convochi un’assemblea straordinaria, da tenere contemporaneamente ad una giornata di sciopero, in cui spiegare ai cittadini le plurime aggressioni che questa riforma porta ai loro diritti”. Non poteva mancare una frecciata alla ministra Cartabia: “Abbiamo lealmente offerto il nostro contributo in ogni sede ed abbiamo partecipato a ogni convocazione, ma dobbiamo constatare che chi ci riceveva voleva solo adempiere ad un obbligo formale, senza alcuna reale intenzione di ascoltarci”. “Non è una difesa di corporazione perché non cambierebbe nulla, per noi: ci basterebbe adeguarci al volere dei superiori, con buona pace di chi ci chiede giustizia”, concludono allora le toghe di Area. Oltre alle pagelle lo scontro ha interessato ieri l’ipotesi, a cui stanno lavorando gli uffici di via Arenula, di innalzare l’età pensionabile dei magistrati da 70 a 72 anni, con la motivazione di portate a compimento il Pnrr.
La modifica, sondata dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto (FI) e però bocciata da tutti i partiti di centro destra, avrebbe come immediata conseguenza quella di trattenere in servizio i vertici della Corte di Cassazione, il primo presidente Pietro Curzio ed il pg Giovanni Salvi. Quest’ultimo, in particolare, in pensione per raggiunti limiti di età dal prossimo 9 luglio. A salire sulle barricare questa volta le toghe di destra di Magistratura indipendente. “L’età di pensionamento dei magistrati viene utilizzata come una fisarmonica, innalzandola e abbassandola a seconda delle convenienze del caso concreto”, ha affermato il segretario nazionale di Magistratura indipendente, il giudice della Corte d’Appello di Palermo Angelo Piraino.
“Trattenendo in servizio i magistrati più anziani non si risolve il problema dei vuoti di organico della magistratura, perché questi vuoti affliggono soprattutto gli uffici di primo grado e di frontiera, dove sono disposti a lavorare solo magistrati con minore anzianità”. Piraino ha poi fatto un esempio di strategia militare: “Per vincere le battaglie c’è bisogno di più soldati, non di più generali”. Sentendosi tirato in ballo, Salvi, toga progressista, ha preso ieri la parola durante il Plenum del Csm per chiarire la propria posizione. “Non avevo alcuna conoscenza e non ho avuto alcuna interlocuzione, ho saputo da mezzi di stampa. Non ne sapevo nulla e devo dire che non sono nemmeno interessato”, il commento di Salvi, che poi ha aggiunto: “Mi rammarico per il fatto che il dibattito pubblico sulla giustizia sia così povero e rancoroso”. Paolo Comi
Magistrati tra faccia tosta e barbarie. Matilde Siracusano su Il Riformista il 13 Aprile 2022.
Stiamo assistendo a quello che viene comunemente definito paradosso. E cioè, nonostante la tanto attesa riforma del CSM, necessaria come il pane, risulti estremamente moderata a causa dei difficilissimi, quasi impossibili, equilibri di questa maggioranza, che si traducono inevitabilmente in compromessi al ribasso, le toghe si permettono pure di minacciare lo sciopero. C’è da rimanere davvero esterrefatti, mentre ci si rende conto che i magistrati proprio non riescono ad accettare che qualcuno fuori dalla loro ristrettissima cerchia possa mettere il becco sui loro affari.
Quindi, o non hanno compreso quello che è successo nel Paese negli ultimi decenni, vivendo in una realtà parallela, o l’unico loro interesse manifestato ormai senza alcun pudore rimane quello di preservare i privilegi, ma quelli veri e propri delle caste. Evidentemente la prassi di questi ultimi decenni ha generato un po’ di confusione mentale, tanto da far ritenere ai magistrati di essere titolari non solo del potere giudiziario ma anche di quello legislativo, e perché no anche esecutivo, tanto da mostrarsi naturalmente sconvolti nell’assistere all’approvazione di leggi che intaccano, anche se minimamente, il loro sistema. Toccherebbe, invece, organizzare rivoluzioni del buon senso per riaffermare un sacrosanto principio sancito dalla Costituzione e proprio di tutte le democrazie, secondo il quale il potere legislativo è tassativamente separato da quello giudiziario, da cui non può essere condizionato, come invece è accaduto in Italia praticamente di continuo dal ‘92 ad oggi. Per l’appunto, è davvero sconvolgente che l’Anm si ribelli per l’applicazione di qualche criteriuccio anche piuttosto elementare sulle valutazioni di professionalità dei magistrati.
Ci vuole un coraggio barbaro per rivendicare palesemente la pretesa di non essere mai giudicati per i propri errori, anche dopo aver collezionato una serie di insuccessi che hanno determinato la rovina della vita di centinaia di migliaia di persone. Finalmente, oggi qualcuno si è reso conto che le pagelle, sempre e comunque eccellenti (il 99,6%) siano state praticamente una farsa e che l’inserimento di qualche criterio per una valutazione oggettiva sia nell’interesse dei cittadini, ma anche degli stessi magistrati. È vero, le riforme del ministro Cartabia potevano e dovevano forse essere più coraggiose, ma il paradosso al quale stiamo assistendo dimostra che almeno questo governo ha avviato la chiusura della stagione dei veti della magistratura sulle altre istituzioni, veti che hanno causato disastri su disastri, spesso purtroppo irreparabili. Matilde Siracusano
Sabino Cassese per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu, scrisse il suo famoso libro nel 1748. Era nato nel 1689 e morì nel 1755. Visse, quindi, per 26 anni sotto il regno del Roi Soleil, Luigi XIV, che durò 72 anni.
In quel tempo si rese conto che chi ha il potere è portato ad abusarne. Nel capitolo 6 del libro XI della sua opera illustrò la separazione dei poteri perché «il potere potesse limitare il potere».
Influenzato da Montesquieu, il costituente americano Alexander Hamilton scrisse che il potere giudiziario è il meno pericoloso perché non controlla le forze armate e il bilancio. Quella separazione dei poteri è ora tradita, come è stato osservato, dall'espansione del potere giudiziario in Italia, «una società amministrata dalla giustizia penale», che ha «l'ambizione alla popolarità» ed è circondata da un «alone mediatico».
Di qui una «crisi di effettività e di autorevolezza della giurisdizione», alimentata anche dal «dato inconfutabile della irragionevole durata del processo italiano», nonché «da deprecabili episodi di illegittima diffusione di dati lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona».
Dinanzi a questo fenomeno, gli italiani si sono divisi tra i cosiddetti giustizialisti e i cosiddetti ga