Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

QUARTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il mostro di Parma.

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

 L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

QUARTA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ucciso e torturato in cella: il leccese Simone Renda come Giulio Regeni

Le autorità messicane non collaborano: processo in fase di stallo. Gianfranco Lattante su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2022

Simone Renda come Giulio Regeni. Ci sono diverse analogie tra il caso del bancario leccese morto il 3 marzo 2007, a 34 anni, per le torture inflitte nel carcere messicano di Playa del Carmen dove stava trascorrendo un periodo di vacanza e quello del ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 da 007 egiziani. L’uno e l’altro sono stati vittima di tortura in terra straniera; in entrambi i casi, gli imputati sono agenti segreti, poliziotti e giudici; né l’Egitto né il Messico stanno collaborando con l’autorità giudiziaria italiana per processare i responsabili.

«Il problema, per quanto riguarda l’omicidio Renda, è sorto dopo la celebrazione del processo e l’emissione della sentenza. Ciò perché, essendo gli imputati contumaci, era (ed è) necessario che la sentenza sia loro notificata perché possano proporre appello - spiega il giudice Roberto Tanisi, presidente del Tribunale di Lecce, che ha presieduto la Corte d’Assise davanti alla quale si è celebrato il processo per la morte di Simone Renda - Purtroppo (e qui sta l’analogia col caso Regeni) le autorità messicane non ne hanno voluto sapere di collaborare con l’Autorità giudiziaria italiana, e tutte le richieste di notifica, avanzata per il tramite del Ministero della Giustizia, sono state sino ad oggi disattese, con le scuse più banali. Fra le altre, quella di non conoscere il domicilio degli imputati: circostanza assolutamente non credibile se solo si considera che imputati erano agenti della Polizia penitenziaria e Giudici qualificatori»...

Simone Renda, morì sotto tortura in carcere messicano: tribunale Lecce condanna sei imputati dai 21 ai 25 anni.  

I funzionari messicani sono stati ritenuti colpevoli di omicidio volontario e della violazione dell’articolo uno della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. "Non é stato facile andare contro uno Stato" ha detto la madre del turista di 34 anni ucciso nel 2007. Il Fatto Quotidiano il 15 dicembre 2016.

Dai 21 ai 25 anni di carcere. Sono queste le pene emesse dalla corte d’assise di Lecce, presieduta dal presidente Roberto Tanisi, nei confronti di sei degli otto imputati, di cui due assolti, nel processo per la morte di Simone Renda, il turista leccese di 34 anni morto il 3 marzo 2007 per le torture inflitte nel carcere messicano di Playa del Carmen. Gli imputati sono tutti funzionari dello Stato messicano, giudici qualificatori, poliziotti e dirigenti del carcere. I sei, sono stati condannati per concorso in omicidio volontario e per violazione dell’articolo 1 della Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

Le condanne più pesanti, a 25 anni, sono state inflitte dai giudici di Lecce al giudice qualificatore Hermilla Gonzales e al vice direttore del carcere Pedro May Balam. I giudici hanno imposto il risarcimento dei danni in favore delle parti civili da liquidarsi in separato giudizio e hanno assegnato una provvisionale di 150.000 euro per Cecilia Greco e di 100.000 euro per Gaetano Renda, rispettivamente madre e fratello della vittima.

“Sono stata determinata, dovevo andare fino in fondo, nonostante tutti mi dicessero di lasciare perdere. Hanno avuto coraggio anche la Procura di Lecce, i miei avvocati, a credere in me. Perché non è stato facile andare contro uno Stato”. Così Cecilia Greco ha commentato la sentenza di condanna. “E’ una grande vittoria – ha aggiunto la Greco – una grande soddisfazione. Sono contenta che giustizia sia stata fatta. Siamo in un Paese dove la giustizia può essere lenta, ma bisogna avere determinazione perché alla fine, come oggi, risulta essere efficace. Questa sentenza – ha concluso la madre di Renda – dimostra la piena responsabilità dello Stato messicano, ma quello che mi sento di dire in questo momento è che il mio pensiero va a tutte quelle madri che hanno visto i propri figli uccisi da persone in divisa“.

Simone Renda fu arrestato due giorni prima del decesso dalla polizia turistica messicana con l’accusa di ubriachezza molesta e disturbo della quiete pubblica, e rinchiuso in una cella di sicurezza. In realtà Simone doveva partire per l’Italia ma quella mattina non si svegliò e quindi non liberò la stanza all’ora prevista. Il personale dell’albergo entrò nella sua stanza con il passepartout e a quel punto Renda, consapevole di aver perso l’aereo, si alzò in forte stato di agitazione, uscendo in boxer nel corridoio dell’albergo, urlando. Spaventato, il personale dell’albergo chiamò la polizia. Simone venne arrestato in evidente stato confusionale e, al momento del fermo, il medico in servizio presso il carcere municipale gli aveva diagnosticato un grave stato clinico dovuto a ipertensione e un sospetto principio d’infarto, prescrivendo immediati accertamenti clinici in una struttura ospedaliera. Inspiegabilmente, però, le richieste del medico non furono ascoltate e il turista salentino fu trattenuto in stato di fermo senza ricevere assistenza sanitaria, abbandonato a se stesso. Senz’acqua e senza cibo, chiuso in una cella per 42 ore, morì disidratato.

·        Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Giulio Regeni, l'autogol di "Repubblica": ad archiviare il caso è stato il Pd. Massimo Costa su Libero Quotidiano il 09 novembre 2022

In campagna elettorale Giorgia Meloni era stata accusata dai suoi avversari politici di voler reintrodurre il fascismo in Italia, cancellare la legge sull'aborto, limitare i diritti degli omosessuali e altre assurdità. Poi è arrivato il trionfo delle urne. La festa, il giuramento del governo, i primi passi da presidente del Consiglio. E - indovina, indovinello - la sinistra ha ripreso ad accusare la leader di Fratelli d'Italia di ogni nefandezza. È la politica, bellezza. Tutto come da copione, per carità. La novità di ieri, lo scatto in avanti, è che Giorgia Meloni viene accusata anche per colpe esclusive dei suoi predecessori. Succede, infatti, che nella sua prima uscita internazionale al summit per il clima di Sharm El Sheikh, lunedì, il primo premier donna della storia d'Italia abbia incontrato il presidente egiziano Al-Sisi. E che, al termine del colloquio, Giorgia abbia diffuso una nota nella quale dice di aver «sottolineato la forte attenzione dell'Italia sui casi di Giulio Regeni e Patrik Zaki».

Giulio Regeni è il dottorando italiano rapito, torturato e ammazzato nel 2016 al Cairo; Patrick Zaki è lo studente egiziano dell'Università di Bologna accusato dall'Egitto di "diffusione di notizie false", arrestato il 7 febbraio 2020, liberato e attualmente sotto processo. Due casi spinosi, dove si intrecciano guerre diplomatiche e almeno nel caso Regeni - un muro di gomma alzato dal Cairo per proteggere e assolvere i 4 imputati egiziani.

LA BORDATA

Ebbene, ieri, incredibilmente, Repubblica ha titolato così la sua prima pagina: «Meloni archivia Regeni». La nota ufficiale del premier viene definita «striminzita», e nelle pagine interne si descrive come «una farsa» l'attenzione sul caso del connazionale ucciso nel 2016, lasciando intendere che il governo di centrodestra vuole solo fare affari con l'Egitto fregandosene del caso Regeni.

Poche ore dopo l'affondo di Repubblica, è arrivata- immancabile- la sparata della deputata dem Laura Boldrini: «Che fine ha fatto la tanto cara difesa della "dignità della nazione"? Si è forse dispersa in volo da Roma a Sharm el Sheikh? L'incontro con Al-Sisi è una resa all'Egitto sulla ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. Non c'è priorità che possa prevalere sulla richiesta di giustizia per un nostro concittadino ucciso all'estero. I diritti non si barattano mai con nulla». Poi è partita la raffica di attacchi dal Pd. Intervengono tra gli altri Simona Malpezzi («Il governo sia più netto!»), Alessandra Moretti («Gli interessi commerciali valgono più dei diritti umani!») e Walter Verini («Il governo abbassa la testa!»).

Che faccia di tolla. Il Pd- che ora strilla contro la Meloni - è stato partito di governo nel 2016, 2017, 2019 (da settembre a dicembre), 2020, 2021, e nove mesi del 2022. Il Pd ha sostenuto per anni Giuseppe Conte, il quale ammise di non aver cavato un ragno dal buco nonostante le telefonate ad Al-Sisi e i ripetuti proclami («Non sono stato capace di portare risultati» disse nel 2020 da leader del governo giallorosso).

FALLIMENTO DI MAIO

E cosa ha ottenuto il ministro degli esteri Luigi Di Maio, che rivendicava il «costante impegno per giungere alla verità»? Nulla. Zero assoluto. Dopo l'archiviazione della procura egiziana, il processo in Italia è fermo da due anni perché l'Egitto non collabora e non notifica gli atti agli imputati. I grandi sforzi di Di Maio? Inutili, se non fosse che proprio il Pd ha candidato in un collegio uninominale il ministro degli Esteri che ha ottenuto un pugno di mosche con l'Egitto. Ad archiviare il caso Regeni, semmai, è stato proprio il Pd, che ha inanellato un fallimento dopo l'altro. L'accusa più comica alla Meloni è quella di voler privilegiare gli accordi economici con l'Egitto alla verità su Giulio. Peccato che sia arrivata proprio durante il governo Draghi -con il Pd in maggioranza -la firma dell'Eni ad aprile di un nuovo contratto da 3 miliardi dimetri cubi di gas liquido. Letta si disse dubbioso, ma ovviamente non mosse un dito per evitare di incrinare le relazioni tra i due Paesi e la caccia di gas dell'Italia. Niente, il Pd insiste: tutta colpa della Meloni, anche se è arrivata a Palazzo Chigi sei anni dopo l'omicidio Regeni. Per ora l'unica cosa che la Meloni ha archiviato è il Pd...

Giovanni Bianconi per corriere.it

Nessun impegno, nessuna novità, nessuno spiraglio per riaprire un caso che l’Egitto considera archiviato. Lo stesso portavoce ufficiale di Al Sisi s’è limitato ad affermare che l’incontro tra il suo presidente e la premier Giorgia Meloni «ha toccato la questione della cooperazione per raggiungere la verità e ottenere giustizia», sul rapimento, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. Ma per l’Italia questo obiettivo coincide con la celebrazione del processo ai quattro imputati egiziani accusati del sequestro (e uno anche dell’omicidio) del ricercatore friulano. Per la Repubblica araba, invece, quei quattro non c’entrano con la fine di Giulio, come ha dichiarato l’autorità giudiziaria locale.

Due ricostruzioni opposte, che lasciano la situazione nello stallo in cui versa da oltre un anno, quando la Corte d’assise di Roma decise che senza l’avvenuta notifica agli imputati — dunque senza certezza che fossero a conoscenza del giudizio a loro carico — il processo non può cominciare. 

Proprio l’Egitto, da quasi tre anni, impedisce le notifiche non comunicando alle autorità italiane i recapiti del generale Tarik Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Uhsam Helmi, e del maggiore Magdi Abdelal Sharif. E la posizione del Cairo è stata ribadita l’8 ottobre scorso nella deposizione del capo Dipartimento del ministero della Giustizia Nicola Russo davanti al giudice che, con cadenza semestrale, continua a dichiarare sospeso il procedimento.

«Non abbiamo ricevuto alcuna risposta, l’ultima sollecitazione risale al 6 ottobre; non hanno risposto neanche alla richiesta di incontro della ministra Marta Cartabia nel gennaio scorso», ha spiegato Russo. 

Aggiungendo un particolare che, sul piano sembra davvero la pietra tombale egiziana: «La Procura generale egiziana ha ribadito che resta valido quanto contenuto nel decreto di archiviazione per i quattro imputati in Italia, firmato dai magistrati egiziani nel dicembre scorso. In Egitto non si potrà più aprire un procedimento per il caso Regeni nei loro confronti, per il principio del ne bis in idem». Il che significa che, avendo la Procura egiziana dichiarato non colpevoli gli imputati, nessun altro può processarli, né in Egitto né altrove

In sostanza, la magistratura della Repubblica araba ha accusato la Procura di Roma di aver travisato fatti e prove, dichiarando di «escludere ciò che è stato attribuito» ai militari accusati in Italia. La Procura generale del Cairo ha anche stabilito che «circa l’arresto illegale, la detenzione, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni, non c’è per il momento alcuna ragione di intraprendere procedure penali perché il responsabile resta sconosciuto», deliberando di «incaricare le parti cui è stata affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare i responsabili».

Forse è questo che intende ora l’Egitto: se e quando ci saranno nuovi elementi ci sarà anche cooperazione. Ma non è questo che chiede l’Italia. O almeno la magistratura italiana, che dopo l’ultimo ricorso bocciato alla Cassazione non dispone di altri mezzi per andare avanti col processo; nemmeno l’ipotesi di notifica nei luoghi di lavoro (ammesso di conoscere l’indirizzo attuale) è praticabile a causa del rinvio della riforma Cartabia. 

Sul versante politico invece, gli ultimi passi compiuti prima del colloquio Meloni-Al Sisi risalgono al governo Draghi e alla ministra Cartabia, che hanno avuti contatti con i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, e l’avvocata Alessandra Ballerini. Niente ancora, invece, con la neo-premier o il neo-ministro Carlo Nordio. Nè, al momento, la famiglia ha ritenuto di prendere una posizione su quanto accaduto a Sharm el-Sheikh

Ma una carta il governo italiano potrebbe ancora giocarla. L’8 ottobre, quando era ancora in carica l’esecutivo di Draghi per i soli «affari correnti», il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha chiesto al capo dipartimento del ministero della Giustizia se si fosse pensato ai rimedi previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, sottoscritta anche dall’Egitto; ad esempio gli arbitrati in caso di inadempienze sia interne che sotto il profilo della cooperazione. «È una scelta di ordine politico; si valuterà con il nuovo ministro della Giustizia», ha risposto Russo. Ora un nuovo ministro c’è, e a lui spetta la scelta.

Regeni, la Cassazione respinge il ricorso: il processo non si può fare. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.  

Vince l’ostruzionismo, manca la «prova certa» che gli imputati sapessero del dibattimento. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 

Niente da fare, l’ostruzionismo dell’Egitto ha vinto: il processo ai presunti responsabili del sequestro (uno anche delle torture e dell’omicidio) di Giulio Regeni non si può fare, manca la «prova certa» che gli imputati hanno saputo del dibattimento a loro carico. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso della Procura di Roma, della Procura generale e dei familiari di Giulio i quali hanno sostenuto — e almeno parzialmente dimostrato — che in realtà i quattro funzionai della National security erano dei «finti inconsapevoli», e che con la complicità delle autorità del Cairo hanno utilizzato la tecnica delle mancate risposte per boicottare e bloccare il giudizio.

«Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi ci saremo sempre, ma quella che viene presa oggi è una decisione che riguarda la dignità dell’Italia», aveva detto in mattinata l’avvocata Alessandra Ballerini, in rappresentanza dei genitori di Regeni, chiedendo che la Cassazione annullasse l’ordinanza di sospensione del processo del giudice, dopo che la Corte d’assise aveva rispedito indietro il fascicolo proprio per via delle mancate notifiche. Ma al di là della costante testimonianza della famiglia e di chi l’ha sempre sostenuta (come il presidente della Federazione della stampa Giuseppe Giulietti), della tenacia con cui il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha provato a dimostrare che gli egiziani sapevano fingendo di non sapere, affiancato nell’ultimo tratto anche dalla procura generale della Cassazione, ha vinto il «diritto tiranno» dell’imputato, come l’hanno definito i pubblici ministeri. Ha prevalso la regola di diritto che dev’esserci la «prova certa» che l’accusato sia informato del procedimento a suo carico, anche se in questo modo diventa una sorta di «prova diabolica», perché «per affermare che l’imputato si è sottratto alla conoscenza degli atti si deve provare che ne abbia avuto conoscenza».

Così aveva scritto il pm Colaiocco nel suo ricorso, definendo «abnorme» la sospensione sine die; la Procura generale aveva anche suggerito di rivolgersi alla Corte costituzionale per l’irragionevolezza della norma. Tutto «inammissibile» per i giudici «di legittimità», che sorvegliano sul rispetto delle regole e hanno ritenuto quella «prova certa» un ostacolo insuperabile. Poco conta, evidentemente, che l’Egitto abbia depistato e nascosto prove con l’obiettivo di intralciare le indagini e poi il processo. Fino alle mancate risposte alle reiterate rogatorie in cui si chiedevano i recapiti dei quattro imputati, negate proprio per «impedire le notifiche agli imputati».

A questo punto il giudizio a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e del maggiore Magdi Ibrahim Sharif cade in un limbo dal quale sarà pressoché impossibile recuperarlo. La sospensione diventa una sorta di tomba del processo. Il ricorso in Cassazione chiedeva di andare avanti anche col banco degli imputati vuoto, ed era l’ultima carta per poter arrivare a una sentenza; la sua bocciatura ha bruciato questa possibilità. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’avvocata Ballerini l’ha fatto capire nella sua memoria: con questa visione burocratica delle regole, torture e trattamenti inumani non sono perseguibili, la Corte di Strasburgo deve intervenire. Ma per adesso ha vinto l’impunità.

EDOARDO IZZO per la Stampa il 16 luglio 2022.

Si ferma, forse per sempre, il processo per la morte di Giulio Regeni. La prima sezione penale della Corte di Cassazione, ieri sera, ha dichiarato inammissibile il ricorso col quale la procura di Roma aveva chiesto l'annullamento dell'ordinanza del gup dell'11 aprile 2022 che aveva disposto la sospensione del procedimento nei confronti dei quattro 007 egiziani - il generale Tarik Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - accusati, a vario titolo, dei reati di sequestro di persona, lesioni personali e omicidio commessi nei confronti di Regeni dal 25 gennaio al 2 febbraio del 2016 a Il Cairo.

La Corte ha escluso che i «provvedimenti in questione possano essere impugnati con il ricorso per Cassazione, in quanto non abnormi». E dire che la giornata era iniziata con aspettative diverse al sit-in davanti alla Corte. «Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi qui ci saremo sempre, ma quella che viene presa oggi è una decisione che riguarda la dignità dell'Italia», aveva detto ai cronisti l'avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. 

Con lei c'erano Claudio Regeni e Paola Deffendi, genitori di Giulio, che avevano preferito rimanere in silenzio. Parlano a sera: «Attendiamo di leggere le motivazioni ma riteniamo questa decisione una ferita di Giustizia per tutti gli italiani. "Abnorme" è certamente tutto il male che è stato inferto e che stanno continuando a infliggere a Giulio. Come cittadini non possiamo accettare né consentire l'impunità per chi tortura e uccide». «Sappiamo che gli 007 sanno tutto di questo processo, ma fanno i furbi - aveva detto Ballerini -. La battaglia non è solo per Giulio, ma per tutti». 

Una battaglia combattuta dal pm Sergio Colaiocco, che il 10 dicembre 2020, tra molti ostacoli opposti dalle autorità egiziane, ha chiuso le indagini preliminari e a distanza di poco più di 5 mesi ha ottenuto il rinvio a giudizio dei quattro ufficiali. Loro, però, risultano irreperibili, dal momento che la magistratura egiziana non ha fornito i loro indirizzi di residenza, né ha concesso ai magistrati italiani di essere presenti agli interrogatori a cui sono stati sottoposti. 

Il processo viene cancellato: i giudici della III Corte d'Assise di Roma hanno deciso che il dibattimento non può avere inizio perché non esiste la prova che i quattro agenti sappiano del processo a loro carico. Gli atti dell'inchiesta erano tornati al gup che aveva disposto nuove ricerche e doveva tentare di notificare agli imputati il procedimento, per poterli poi rinviarli nuovamente a giudizio.

Protestano i genitori. Nessuna giustizia per Regeni, la Cassazione conferma lo stop al processo per gli 007 egiziani. Fabio Calcagni su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Le possibilità di processare in Italia i quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni nel febbraio del 2016 sono ormai ridotte al lumicino. 

Nella serata di venerdì 15 luglio i giudici della Corte di Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del gup che l’11 aprile scorso ha disposto, così come già fatto dalla Corte d’Assise nell’ottobre scorso, la sospensione del procedimento disponendo nuove ricerche degli imputati a cui notificare gli atti.

Una notizia ovviamente accolta con dolore dalla famiglia di Giulio, che da anni chiede giustizia per il figlio. “Attendiamo di leggere le motivazioni ma riteniamo questa decisione una ferita di giustizia per tutti gli italiani. “Abnorme” è certamente tutto il male che è stato inferto e che stanno continuando a infliggere a Giulio. Come cittadini non possiamo accettare né consentire l’impunità per chi tortura e uccide“, commentano i genitori di Regeni, Paola e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini.

Gli ermellini nel dichiarare inammissibile il ricorso della Procura sottolineano che i provvedimenti di Assise e Gup  non possono essere impugnati con il ricorso per Cassazione “in quanto non abnormi”.  

Sergio Colaiocco, procuratore aggiunto di Roma, aveva chiesto nel ricorso in Cassazione un intervento di “chiarezza” agli ermellini per superare quanto disposto dal gup, il giudice per le udienze preliminari, che rifacendosi a quanto deciso dalla III Corte d’Assise nell’ottobre scorso aveva sancito che il processo contro i quattro 007 egiziani non poteva  andare avanti in quanto mancavano le notifiche agli imputati.

In particolare i magistrati di piazzale Clodio chiedevano alla Cassazione di chiarire se risulta sufficiente, per la celebrazione del processo, il fatto che “vi è una ragionevole certezza – come scrive la corte d’Assise nel provvedimento con cui ha rinviato il procedimento all’attenzione del gup – che i quattro imputati egiziani hanno conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a loro carico avente ad oggetto gravi reati commessi in danno a Regeni”.

In mattinata si era anche svolto un sit-in davanti alla Suprema Corte a cui hanno partecipato anche i genitori di Giulio, Claudio e Paola. Nei mesi scorsi padre e madre del ricercatore universitario friulano avevano lanciato un appello via social per chiedere una mobilitazione al fine di individuare gli indirizzi dei quattro agenti egiziani, pubblicato in tre lingue (italiano, inglese ed arabo) con tanto di foto di tre dei quattro imputati individuati dal Ros.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Tagadà, Domenico Quirico furioso con Mario Draghi sul caso Regeni: inganna i genitori, vergogna.

Affari con l'Egitto di Al Sisi dopo l'omicidio di Regeni: rivolta contro le mosse di Draghi. Dalla Cina parte l'assalto all'Occidente: senza la Nato vivremmo in un mondo pacifico. Il Tempo il 14 aprile 2022.

L’Italia è a caccia di gas alternativo rispetto a quello della Russia e dopo aver bussato alla porta dell’Algeria adesso è il turno di un possibile accordo con l’Egitto. Nel corso della puntata del 14 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher in sostituzione di Tiziana Panella, è ospite il giornalista Domenico Quirico, che usa toni durissimi nei confronti del governo Draghi legando il tema dell’energia a quello dell’omicidio del giovane Giulio Regeni, assassinato in Egitto, un paese con cui ora l’Italia vuole fare affari dopo anni di depistaggi: “Trovo la vicenda Regeni assolutamente scandalosa. Due persone che hanno seguito il più tremendo degli urti che la vita e la morte gli può dare dal 2016 vengono ingannate sistematicamente, ma non dagli egiziani che lo fanno per principio loro, bensì da quelli che stanno in questo Paese, cioè i governo di questo Paese, che sono stati innumerevoli e tutti si sono occupati di questa vicenda. Ai genitori di Regeni gli si racconta che stiamo facendo tutto il possibile e anche un po’ di impossibile per ottenere la verità dall’Egitto, la condanna dei responsabili… Ma non è vero! Il problema doveva essere risolto all’inizio, andando a cercare il responsabile numero uno di questa storia, che è il presidente, dittatore, capo, boss di questo Paese e il ministro degli Interni. L’hanno preso, l’hanno torturato e ammazzato. È - martella il giornalista - inutile e ridicola questa cosa di farsi dare quattro indirizzi di manutengoli della violenza di Stato, pensando che quella sia la soluzione del problema. Non te li daranno mai, perché ovviamente li coprono. È stato lo Stato egiziano, non sono quattro tizi che hanno ammazzato uno per un altro”. 

Lo Stato egiziano è - prosegue Quirico - colui che lo rappresenta e lo guida, denunciate Al-Sisi ad un tribunale internazionale, come bisogna denunciare Vladimir Putin per i crimini commessi dai suoi soldati in Ucraina. Lui non li ha impediti o puniti. È una cosa elementare, dire che state facendo il possibile per condannare gli assassini di Regeni è una bufala, una bugia. Gli assassini bisogna cercarli nella scala gerarchica di coloro che hanno ucciso materialmente questo povero ragazzo e coloro che hanno coperto e consentito questo diletto. Se non fate questo ai due poveri genitori di Regeni date soltanto delle chiacchiere ed è una cosa vergognosa”.

Domenico Quirico, Alessandro Sallusti: "Ciò che dovrebbe ricordare sul suo rapimento", realpolitik meglio dell'etica. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

«Vogliamo la giustizia o i termosifoni?», ha scritto Domenico Quirico, firma di punta de La Stampa - indignato del fatto che il nostro governo si sia rivolto a quello egiziano per rimpiazzare almeno in parte il gas che vorremo non più comperare dalla Russia di Putin. Ma come, si chiede l'illustre collega, quel criminale di Abdel al-Sisi fa torturare e uccidere un nostro ragazzo, Giulio Regeni, ostacola le indagini della magistratura e noi, anziché punirlo, andiamo in Egitto con il cappello in mano e la valigetta piena di miliardi, implorandolo di aiutarci, dove è finito il senso di giustizia?

Detto che l'omicidio di Giulio Regeni e tutto quanto successo dopo ci fa orrore e ci indigna, il ragionamento di Quirico non fa una grinza in punta di etica, ma proprio lui dovrebbe sapere che ci sono casi in cui sull'etica assoluta si deve fare prevalere la ragione di Stato. Dovrebbe saperlo, perché lui fu al centro di un caso benedetto nella sostanza ma discutibile in quanto a etica. Nell'aprile del 2013 Quirico fu rapito in Siria da una delle bande di miliziani che si fronteggiavano sul campo. Fu liberato a settembre dietro il pagamento da parte del governo italiano di un riscatto di quattro milioni di euro (cosa ufficialmente negata ma accertata da inchieste indipendenti), soldi che i guerriglieri usarono in armi per compiere nuovi massacri. È evidente che in quella occasione abbiamo trattato col nemico (e pure pagato) ma non ho dubbi: tra la giustizia e la vita di Quirico il governo italiano ben fece a scegliere la seconda senza badare a questioni morali.

Oggi il compito del governo è salvare la vita economica di cittadini e aziende e liberare i nostri approvvigionamenti da chi - Putin - li tiene in ostaggio. Bisogna sporcarsi le mani e tapparsi il naso? Sì, anche perché - dove ti giri, ti giri - gas e petrolio sono in mano praticamente ovunque a banditi e tiranni. Ahimè non ci sono pozzi in Svizzera né in Liechtenstein. Del resto, già facciamo affari con Paesi, dalla Cina all'Algeria, che poco hanno a che fare con democrazia e rispetto dei diritti umani senza che Enrico Letta e compagnia si scandalizzino più di tanto. Lasciamo che Regeni riposi in pace; oggi in guerra - almeno in quella energetica - ci siamo noi e a salvarci non saranno retorica facile né moralismi buoni a riempire le bocche in tempi di pace e vacche grasse.

Carlo Bertini per “La Stampa” il 15 aprile 2022.  

Dopo l'annuncio di un accordo per la fornitura di gas con l'Egitto, Enrico Letta la mette giù senza mezzi termini: «Mi lascia moltissimi dubbi. La vicenda Regeni è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Quindi è netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani». 

E se Carlo Calenda gli chiede polemico «quali soluzioni» proponga e Antonio Tajani invece plaude al realismo, «perché sono un bene le forniture alternative alla Russia», il gelido silenzio di tutti i vertici istituzionali fa capire quanto il tema sia spinoso per il governo: a palazzo Chigi la critica del segretario dem viene vissuta con il disincanto di chi pensa che alla politica tocchi questo ruolo e all'esecutivo quello di mettere in sicurezza la dotazione energetica dell'Italia.

Ma nei vari dicasteri si registra notevole imbarazzo: c'è chi non apprezza il modo con cui la questione è stata gestita dalla Farnesina e chi addossa la croce a Palazzo Chigi, perché non si muove foglia che Draghi non voglia.

Dai piani alti del governo trapelano considerazioni di questo tenore: «Questo accordo - svela una fonte addentro al dossier - è stata gestita da Eni e ovviamente il premier ne è consapevole. Ma la differenza stringente tra questo caso e gli accordi con Algeria, Congo e Angola è che in questi tre Paesi si procede con intese istituzionali e politiche, mentre in Egitto no: c'è un contratto tra Eni e una società egiziana, come ce ne sono stati svariati in questi anni tra società italiane ed egiziane».

Ovvero, non c'è un ripristino di relazioni a livello istituzionale tra Egitto e Italia: questo il punto centrale. Anche se l'accordo riguarda uno dei maggiori giacimenti del mondo, quello di Zohr, la più grande scoperta di gas nel Mediterraneo, e 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto per il mercato Eni in Europa e Italia. 

Dunque, lo stop di Letta si inserisce in un contesto complicato ed è lui il primo a dire «chi meglio di Draghi può gestire una partita così, è il primo a essere consapevole di tutte le implicazioni». Ma al tempo stesso nel momento in cui si tratta una grande vendita di gas, «il contenzioso serissimo con il regime di Al Sisi rischia di passare in sordina».

Se nel medio termine, bisogna investire sulle rinnovabili e costruire l'unione energetica europea, nel breve «non bisogna legarsi mani e piedi all'Egitto. Punto». Ma c'è poi un piano più strategico, così sintetizzabile: il problema energetico di questi mesi si può trasformare in opportunità. «È possibile una nuova centralità dell'Italia - dicono gli strateghi di Letta - perché se la Germania non può prendere gas russo, gli servirà gas africano, che passa da due Paesi: Spagna e Italia. Così il nostro Paese diventerebbe un hub e questo apre a uno scenario nuovo: il che significa un nuovo sistema di relazioni, che deve soppiantare la logica neocoloniale, se vogliamo stabilità».

Enrico Borghi, che del Pd è responsabile sicurezza, fa notare che «il tempismo sul caso Egitto è sbagliato e si incrocia con la vicenda Regeni. Insomma, non possiamo immaginare che il gas sia usato come arma di scambio sui diritti umani violati». In ogni caso l'affondo sull'Egitto non è una minaccia alla stabilità del governo, come quelle della Lega: l'annuncio di una trattativa separata della destra con Draghi e Franco sulla delega fiscale è vissuto come un'escalation pericolosa e il numero due del Pd Peppe Provenzano, sbotta: «Da parte nostra c'è grande irritazione, non esiste che riscrivano loro la norma. Hanno dato vita a una sceneggiata e bisogna evitare di dargli occasioni di fare propaganda». Anche qui, il premier è avvisato: pari dignità nella maggioranza e nessun cedimento.

Gas, ci mancava Giulio Regeni: il "no" all'Egitto di Enrico Letta, il democratico del Cairo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Doverosa premessa. Certo andrebbe -metaforicamente- spalmato di napalm quell'Egitto che nega alla magistratura italiana e alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni gl'indirizzi degli indagati dell'omicidio del nostro ricercatore. E un sudario di ipocrisia copre questa penosa faccenda. E abbracciamo tutti Claudio e Paola Regeni sopravvissuti alla morte contronatura di un figlio; e faremmo ingoiare gli sgherri di Al Sisi dalla fiamme di centomila inferni.

Detto ciò, come facciamo col gas egiziano? Tenendo conto che le parole d'ordine del governo sarebbero «renderci autonomi dai russi» e «differenziare gli approvvigionamenti» (ma in modo capillare, onde evitare di sostituire al Cremlino un altro fornitore dominante, ché saremmo daccapo), come dovremmo comportarci, noi, col Cairo col quale Draghi tratta per 2/3 miliardi metricubi di forniture di gas?

L'ottimo Enrico Letta ha «moltissimi dubbi». «La vicenda Regeni va oltre la singola vicenda personale drammatica, è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani», dice. E a lui si accodano i suoi. O i renziani come Massimo Ungaro della Commissione Regeni il quale, giustamente inviperito ci chiede di rivolgersi per l'approvvigionamento energetico «all'Azerbaigian e all'Algeria». Ma l'abbiamo già fatto, in realtà. E con l'Algeria qualcuno a sinistra ha storto il muso sul costo eccessivo del rifornimento.

Mentre sul petrolio dall'Azerbaigian -il nostro primo fornitore- molti hanno sollevato le eccezioni di un paese «poco democratico che stringe accordi con l'Iran» già, peraltro, ufficialmente considerato poco democratico di suo. Insomma l'Eni, chez Draghi, firma col Cairo un accordo quadro che «consente di massimizzare il gas e le esportazioni di Gnl»; e il Pd, nella figura del suo capo, è per la linea dura con la Russia. Ma lo è anche un po' con l'Arabia Saudita, con la Libia, e con tutti quegli Stati che si macchiano di etica incerta. E siamo d'accordo, caro Enrico, anche sul fatto di interrompere il prima possibile la perversa dipendenza energetica con Mosca.

Però, appunto, gli Stati nordafricani non vanno bene. Ci siamo girati un attimo e la Turchia e la Russia stessa ci hanno fregato il controllo del petrolio libico. Potevamo ottenere il gas attraverso il pipeline Eastmed che partiva da Israele e Cipro; e qualcuno ha preferito esser dissuaso da Biden, il quale pretendeva di attivare il russo North Stream 2 (col senno di poi, gli avessimo dato del tutto ascolto, saremmo morti).

E, tra i partiti di governo ce ne fosse uno che insistesse davvero sul tetto al costo del gas e sulla richiesta di trasparenza nell'offerta; magari, lì, ci accorgeremmo che la civile Norvegia ci vende gas a 100 euro al megawattora ma lo produce a 10 euro, e nessuno capisce bene perché.

Per non dire degli anatemi contro chi soltanto si azzarda a discutere di riattivare le trivelle nel Mar Adriatico e nel Mar di Sicilia, un bacino di 350 miliardi metricubi di gas, e ora ne estraiamo solo 4 miliardi (il resto se lo fregano la Croazia e l'Albania). Inoltre c'è la faccenduola del nucleare, a cui si oppongono sinistra e 5 Stelle in blocco solo ad evocarlo, e noi certo qui non ci ripeteremo, pure se comprare l'energia dalla centrali francesi e svizzere ha un che di dadaista. Insomma caro Enrico, detto col cuore in mano: se il nostro fabbisogno dalla Russia è di 29 miliardi di metricubi di gas e se non va bene nulla, dove e come cavolo andiamo a differenziare? Forse, allora, ha ragione Carlo Calenda di Azione quando afferma: «Enrico Letta, vuoi lo stop immediato e totale al gas russo ma non vuoi il gas egiziano perché l'Egitto viola i diritti umani.

Però non vuoi neanche il carbone per sostituire il gas russo, perché inquina. Hai una soluzione o facciamo solo retorica?». E forse non ha torto -anzi senza forse- Stefano Fassina di Leu: «Russia, Egitto, Arabia Saudita, finché non arriviamo all'autosufficienza energetica è davvero complicato rimanere esclusivamente sul terreno etico. Siccome Regeni è italiano l'Egitto no, ma l'Arabia Saudita si' perché Khashoggi è saudita? Quando acquistiamo gas dall'Egitto, non siamo noi che facciamo un favore ad Al Sisi. È lui che lo fa a noi. Se noi non lo compriamo, ha la fila fuori la porta. Ai fini sacrosanti di avere giustizia per Regeni è assolutamente inutile. Dobbiamo trovare canali efficaci».

Canali efficaci, appunto. Quello della cocciuta opposizione a sinistra intesa come un riflesso pavloviano, be', caro Enrico, forse non è la migliore delle risposte...

Filippo Facci per "Libero Quotidiano" il 16 aprile 2022.

Giusto. Il noto criminale egiziano Abdel al-Sisi - condannato in giudicato dal web - fa torturare e uccidere Giulio Regeni e quindi non possiamo, ora, riempirlo di miliardi solo per avere quel gas che rifiutiamo dall'altro noto criminale a capo della Russia. È una questione di decenza, non c'entra la realpolitik. Dev' esserci un limite, e questo limite sono i diritti umani. È di questo, di diritti umani, che Mario Draghi è andato a discutere l'11 aprile scorso in Algeria: non di gas.

Dalla nazione più grande del Nordafrica, pare, potrà passare una fornitura di miliardi di metri cubi l'anno di metano, e pazienza se il nostro premier non ha potuto discutere anche con Faleh Hannoudi, che è proprio il presidente della sezione locale della Lega per i diritti umani: gli algerini infatti l'hanno arrestato il 20 febbraio e condannato a tre annidi carcere per un reato gravissimo, cioè un'intervista che aveva rilasciato al canale televisivo Al Maghibiya. È un peccato che lui non sia divenuto un'icona come Giulio Regeni, o che semplicemente non sia italiano. Mario Draghi però non sa che cosa rischia, comportandosi così: è probabile che l'inverno prossimo, il gas algerino, gli italiani non lo vorranno. 

Gli italiani, a loro volta, non sanno che la mancata qualificazione della nazionale al Mondiali di calcio, in realtà, è dovuta al mancato rispetto del Qatar per i diritti umani.

E' una nazione in cui i diritti dei lavoratori migranti, impegnati proprio nella costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, sono stati orribilmente vilipesi con violenze e sfruttamento. 

È una nazione che da anni sostiene ufficiosamente anche i gruppi islamici radicali in tutto il mondo (anche se il loro governo non lo ammette) e insomma, lo sanno tutti che il Qatar sostiene gruppi islamisti anche in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, quindi mica potevamo andarci, anche perché peraltro ci saremmo trovati a giocare il campionato del Mondo con la nazionale dell'Iran, altro stato che di recente, per dire, ha tenuto le sue donne tifose fuori dallo stadio e ha usato lo spray urticante. Si era addirittura letto che la Fifa voleva prendere dei provvedimenti, e che la nazionale iraniana avrebbe potuto essere squalificata e la nostra nazionale di conseguenza ripescata, ma è una cosa che non va fraintesa: le residue speranze dei tifosi italiani erano votate solo al rispetto dei diritti umani in Iran, erano tutti indignati, cioè, per i 2.000 biglietti messi a disposizione delle donne iraniane alle quali è stato impedito di entrare allo stadio. Non c'entra lo sport, così come in generale, parlando di Egitto, non c'entra il gas per alimentare i termosifoni o banalità del genere.

L'ETICA PRIMA DI TUTTO Allo stesso modo non si può credere che il premier Mario Draghi sia passato e passerà dalla Repubblica del Congo e dall'Angola se non per mettere pressione sul rispetto dei citati diritti umani, che in quest' ultime nazioni, a loro volta, è vagamente inesistente. Non si può crederlo, perché sarebbe come pensare che l'indignazione per le violazioni dei diritti umani di Vladimir Putin riesca meglio rimanendo al caldo piuttosto che al freddo, e che allora si passi, banalmente, dall'appoggiare alcune violazioni al posto di altre.

Sarebbe puerile.

Ci sono dei limiti che non possono essere superati: l'Arabia, per esempio, di recente ha scoperto nuovi giacimenti di gas naturale al centro del Paese e nella parte orientale (l'ha riferito la Saudi Press citando il ministro dell'Energia) ma all'Occidente questo non interessa, così come - è noto anche questo - non è mai interessato a nessuno il petrolio arabo: in Occidente sono tutti troppo indignati per l'assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello che era entrato nel consolato dell'Arabia Saudita di Istanbul - ricorderete - e che da allora risulta scomparso.

È accaduto in un contesto dove il governo saudita (chiamiamolo governo) continua a reprimere il dissenso con arresti e processi iniqui che spesso terminano con lunghe condanne o con la pena di morte: per questo a nessuno ha mai acquistato il loro petrolio, e tantomeno, ora, potrebbe interessare il loro gas. Il pensiero fisso degli europei e degli italiani non è il gelo invernale: è Jamal Khashoggi. Esiste un'etica, a questo mondo. Non si tratta con l'Egitto del caso Regeni. Sarebbe come, per dirne un'altra, lasciare che il dittatore Recep Erdogan funga da mediatore dell'Occidente con Putin, e che si utilizzi un suo canale di dialogo con Mosca e con l'Ucraina: è impensabile. Non potrebbe mai accadere, e se vi hanno detto che sia avvenuto non dovete crederci.

Non è vero che la mediazione turca abbia portato i ministri degli Esteri di Russia e Ucraina a incontrarsi ad Antalya lo scorso 10 marzo: perché la Turchia non rispetta i diritti umani, e l'Occidente (e Amnesty International, il Pd, e tantissimi italiani) non sono disposti a passarci sopra, pensano a questo e non altro. Pensano al fatto che Erdogan ha incarcerato politici dell'opposizione, giornalisti e difensori dei diritti, pensano alle sue discriminazioni degli omosessuali, alle accuse di tortura e maltrattamenti. Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha notificato alla Turchia l'intenzione di avviare un procedimento per gravi infrazioni: come potrebbe, il presidente-sultano di uno Stato del genere, fungere da mediatore tra Ucraina e Russia?

Suvvia. Sarebbe come ospitare al centro di Roma una monarchia assoluta guidata da soli uomini, uno staterello in cui la nostra vita apparterrebbe a un dio o allo Stato, come nelle teocrazie islamiche o come nella vecchia Unione Sovietica. Non si scherza sui diritti umani. Per questo non commerciamo con la Cina o le lasciamo organizzare, chessò, le Olimpiadi. Sono i diritti umani a governare il mondo, la gente non pensa ad altro. 

Alessandro Barbera per “La Stampa” il 16 aprile 2022.  

«Il decreto firmato da Vladimir Putin sulle modalità di pagamento in rubli porterà a una violazione delle sanzioni adottate dall'Unione europea». Il gioco delle parti fra Bruxelles e Mosca sulle forniture di gas russo sta assumendo i contorni di una tragica farsa. Ieri i servizi giuridici della Commissione hanno formalizzato una decisione annunciata più volte. A meno di una retromarcia da parte dello Zar, la prossima riunione dei capi di Stato europei - a fine maggio - dovrebbe sancire lo stop all'importazione del metano russo. Non è però chiaro se la scadenza fissata ai primi del mese da parte del Cremlino verrà rispettata. Sempre ieri, nelle ore in cui la Commissione faceva filtrare il proprio orientamento, il portavoce di Putin Dimitri Peskov rilasciava una dichiarazione criptica. 

«Per l'ampliamento dei pagamenti in rubli al momento non ci sono scadenze», senza chiarire se si riferisse a petrolio e carbone, o anche al gas. Una cosa è certa: a meno di uno stop improvviso alla guerra, con il passare dei giorni le probabilità che lo stop si realizzi davvero aumentano.

Il mandato di Mario Draghi al ministro Roberto Cingolani è di prepararsi entro l'autunno, ma in un settore come quello energetico significa domani. Per capirlo basta un dettaglio: dal primo aprile sono iniziate le aste dei nuovi stoccaggi, e due sono andate deserte. I prezzi sono troppo alti, dunque chi avrebbe interesse ad acquistare teme di farlo a prezzi molto più alti di quelli futuri. Per metterci una pezza, il governo ha dovuto introdurre incentivi, ma il livello delle nuove scorte è ancora al sette per cento. 

Sostituire un terzo del fabbisogno di gas - circa trenta miliardi di metri cubi l'anno - non è semplice. L'accordo firmato da Draghi ad Algeri a inizio settimana vale un terzo di quel fabbisogno, ma nessun altro singolo fornitore sarà in grado di offrire altrettanto. Occorrono una somma di forniture minori, dall'Azerbaijan all'Africa. Alcuni di questi possono però essere forieri di problemi politici per la maggioranza. L'aumento delle importazioni dall'Egitto, ad esempio, oggetto delle proteste del Pd per via del caso Regeni.

O la necessità di derogare agli impegni del Green deal europeo. Durante l'ultima riunione a Palazzo Chigi, presenti Cingolani, il capo dei servizi segreti Franco Gabrielli e il numero uno di Enel Francesco Starace si è discusso della possibilità di far ripartire singole unità di centrali a carbone dismesse più o meno di recente. L'Enel ne ha a Brindisi, Venezia, nel Sulcis e a Civitavecchia. Secondo le stime di Nomisma Energia, entro il prossimo inverno la produzione di energia elettrica da carbone potrebbe essere raddoppiata, e così rinunciare a tre miliardi di metri cubi di gas, un decimo delle forniture russe.

Starace ha dato la sua disponibilità a procedere, Cingolani non ne vuole sapere. «Finché non sarà necessario, non sarò io a farmi carico di una decisione che ci metterebbe contro tutto il mondo ambientalista», ha detto il ministro durante la riunione. Stessa cosa dicasi per il vecchio investimento - mai decollato - di un rigassificatore a Porto Empedocle, in Sicilia, grazie al quale ritrasformare il prodotto liquefatto in arrivo via nave da Angola e Congo, dove Draghi andrà in visita dopo Pasqua proprio con l'obiettivo di aumentare l'importazione.

Pochi giorni fa - era il 5 aprile - Starace ha detto di essere pronto a investire un miliardo di euro. Il progetto è bloccato da sette anni per via di lungaggini amministrative e l'opposizione feroce dei comitati ambientalisti. Anche su quest' ultimo progetto Cingolani ha espresso dubbi. «I tempi sono lunghi e i rischi alti. Meglio puntare sui rigassificatori galleggianti». Cingolani ha dato mandato a Snam di acquistarne due, e quello per lui resta l'obiettivo prioritario.

Marcello Sorgi per "La Stampa" il 16 aprile 2022.

Il caso Egitto - o meglio l'incrocio dell'accordo per l'aumento delle forniture di gas con il Paese con cui siamo il conflitto per l'ostruzionismo al processo Regeni - ha rivelato solo in parte le difficoltà di mettere a punto un nuovo piano di approvvigionamento energetico alternativo a quello basato fin qui sulla Russia. Ci sono infatti difficoltà diplomatiche, legate al fatto che i regimi a cui si va a chiedere aiuto (Algeria, Azerbaigian, eccetera) non sono proprio democratici. 

Ci sono difficoltà logistiche, legate ad esempio alla collocazione di nuovi rigassificatori che servono per la trasformazione del gas liquido, ma che naturalmente non verrebbero accettati a braccia aperte dagli abitanti dei luoghi destinati agli impianti. Per non dire della riapertura delle centrali elettriche a carbone, la cui chiusura era stata salutata come un passo avanti, oltre che per la riduzione dell'inquinamento atmosferico, sulla strada della civiltà. Esiste insomma il rischio di una moltiplicazione in serie di problemi come l'Ilva di Taranto. 

C'è poi un problema di adattamento della gente al dilemma posto efficacemente da Draghi, «pace o condizionatori», nel senso che già dalla prossima estate l'uso contingentato dell'aria condizionata e dal prossimo inverno quello del riscaldamento potrebbero creare reazioni inaspettate, anche se i primi sondaggi dicono che emerge una certa disponibilità dei cittadini. E c'è una questione ambientale che va montando, con una vittima, politicamente parlando, designata: il ministro della Transizione ecologica Cingolani, che si trova a gestire un percorso opposto a quello per cui era stato nominato.

Politicamente, a giudicare dalle prime reazioni, l'ambiente rischia di trasformarsi per il Pd e la sinistra e i 5 Stelle ciò che il fisco è stato per il centrodestra. Non è solo il caso Regeni che preme al portone del Nazareno: per Letta (ma anche per Conte) è inaccettabile che un tema a cui gli elettori di centrosinistra e grillini sono ultrasensibili venga sacrificato sull'altare di uno stato di necessità.

Cara Boldrini, il gas di Putin non è più etico di quello di al-Sisi. Se non prendiamo gas dall'Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca. E non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. Davide Varì su Il Dubbio il 15 aprile 2022.

La nuova campagna della sinistra anti-atlantista, putinista, antioccidentale, pacifista, papista, (ognuno scelga la sua), ora muove contro la scelta italiana di prendere il gas dall’Egitto. «È come passare dalla padella alla brace», ha detto Boldrini, ricordando che Al Sisi è lo stesso che protegge gli agenti accusati dell’omicidio di Giulio Regeni.

In effetti non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. E sì perché una cosa deve essere chiara: se non prendiamo gas dall’Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca finanziando la sua guerra. Ma evidentemente, per Boldrini e gli altri, il gas russo deve avere qualcosa di decisamente più etico. La verità è che gran parte dei paesi che controllano le fonti di energie sono dittature – e non è certo un caso. Ma cara onorevole Boldrini, continuare a prendere il gas di Putin non ci assolve di certo…

Gas, un ginepraio tra dittatori e rinnovabili. Obiettivo: fare presto. Quello dell'energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà a uscire dalla crisi attuale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Si fa presto a dire che del gas russo potremo fare a meno in tempi se non proprio rapidissimi quanto meno non biblici. La corsa al gas è appena cominciata e già si avvertono chiari i segnali di quali e quanti problemi si creeranno senza il pur minimo dubbio. Va detto che l’Eni non poteva scegliere giorno peggiore per bussare alle porte egiziane di casa al- Sisi proprio mentre l’Egitto chiariva per l’ennesima volta di non voler chiarire in alcun modo le circostanze e le responsabilità nell’assassinio di Giulio Regeni. Ma anche senza quell’inconcepibile coincidenza le cosa sarebbero cambiate di poco. Per uscire dalla dipendenza energetica di un dittatore di cui si denunciano con strepiti indignati le nefandezze antidemocratiche bisogna rivolgersi a figuri della stessa risma, altrettanto alieni da ingombranti pastoie democratiche, non meno pronti del russo a far valere la propria vantaggiosa posizione per ricattare e tacitare eventuali proteste.

Con l’Algeria, Paese dal quale già riceviamo una quota decisiva del gas non russo che alimenta non solo i condizionatori ma anche le italiche aziende, il problema è diverso ma non meno spinoso. Proprio perché già eroga in copiosa dose, l’Algeria fatica a pompare dosi ancora maggiori di gas senza ledere gli interessi fraterni degli altri Paesi Ue che da quella fonte si abbeverano, la Spagna e il Portogallo. Una soluzione per la verità ci sarebbe ma non se ne vedono i vantaggi. L’Algeria può sempre rifornirsi dalla solita Russia e poi rivendere. Non sarebbe salva neppure la faccia, ma il portafogli starebbe messo peggio perché con un passaggio in più inevitabilmente pagheremmo lo stesso gas russo a prezzi maggiorati. Sulla Libia meglio glissare. Grazie alla guerra contro Gheddafi, ma anche contro l’Italia, alla quale l’Italia stessa ha partecipato seguendo una logica puramente autolesionista, quel Paese è in mano a signori della guerra al confronto dei quali i dittatori figurano come modelli di affidabilità.

Lo zio Sam ci dà una mano col suo gas liquido. Però non ce la dà gratis e il prezzo, anzi lievita. Però a quel prezzo bisogna aggiungere quelli, non tutti quantificabili in moneta, dei rigassificatori: costano molto, inquinano anche di più e tutto per una qualità di gas tra le peggiori. L’autarchia ha il suo fascino ma anche qui, oltre alle ovvie difficoltà, il conto è salato. È vero che negli ultimi anni l’Italia ha fatto sempre meno ricorso alle proprie peraltro esigue fonti ma lo ha fatto perché contro le trivellazioni si è mobilitato, non senza ottimi argomenti, un combattivo e nutrito fronte ecologista. Tanto che neppure nelle drammatiche circostanze attuali è parso opportuno ricominciare a trivellare acque salate a destra e a manca. Qualcosina si potrà fare rispolverando il carbone, sempre che gli impianti fermi da un bel pezzo non si rivelino catorci inutilizzabili. Però insistere, come è giusto e inevitabile fare, sulla riduzione drastica delle emissioni e allo stesso tempo annerirsi di nuovo le mani col carbone appare un bel po’ contraddittorio.

La parola magica, che in effetti Draghi non manca di adoperare in ogni dove, è “rinnovabili”: pulite, indipendenti, eticamente adamantine. Però riconvertire in tempi brevi non è difficile bensì impossibile e anche solo accelerare drasticamente non sarà affatto una corsa in discesa. Per centrare l’obiettivo sarebbe necessaria una vera rivoluzione nelle abitudini e negli stili di vita, e su quanto il popolo sia pronto e disponibile a rivedere tutta la propria way of life ogni dubbio è lecito. Peraltro si tratterà di un grosso affare e il bivio già si profila nitido: per evitare che a gestirlo e ingrassarcisi sia la criminalità ci vorrebbero controlli stringenti, che però rallenterebbero tutto proprio quando la parola d’ordine è invece fare presto.

Va da sé che come sempre nei dilemmi ognuna di queste contrastanti e tutte fondate esigenze diventa o può diventare bandiera di qualche forza politica, a maggior ragione con l’avvicinarsi delle elezioni. Quello dell’energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà. Come non aiuta le accuse che sono risuonate nell’ultimo mese contro i “colpevoli” di aver troppo puntato sul gas russo. Come se a motivare quella scelta fosse stata una sorta di miope pigrizia e non, invece, il semplice fatto che il gas russo era effettivamente di estrema utilità.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. 

Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d'America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro. 

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files , nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l'indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d'Egitto, con l'obiettivo di ottenere l'assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario».

Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. 

È ormai impensabile; l'ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti. 

Ma il giudice dell'udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia.

L'informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. 

L'eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell'Arma sarebbe in teoria percorribile. 

Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. 

E lì che l'Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l'ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell'Interno, con l'incarico di un progetto relativo alle carte d'indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l'indirizzo di questo ufficio: c'è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. 

Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l'ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l'Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un'altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - l'unico accusato anche delle torture e dell'omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani - «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. 

Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell'Interno, di cui è indicato l'indirizzo a Nuova Cairo 1. 

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. 

Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro - il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel - sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram.

In attesa di capire se sarà possibile imboccare l'impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l'Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

Giulio Regeni, nuovo stop del Cairo al processo: per l’Egitto gli 007 sono innocenti. Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Impossibile notificare gli atti agli imputati individuati dalla Procura di Roma quali responsabili dell’omicidio. La famiglia di Giulio Regeni: «Una presa in giro, intervenga Draghi».

Per l’Egitto il procedimento contro i quattro ufficiali della National Security accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni è già in archivio, e non si può riaprire. Caso chiuso. Per questo le autorità del Cairo non hanno risposto (e non risponderanno) alle richieste italiane di conoscere i loro indirizzi, necessari per notificare gli atti e poterli processare davanti alla Corte d’Assise di Roma. La Procura generale della Repubblica araba ha già valutato le imputazioni e le prove a loro carico, e li considera innocenti. Dunque l’assistenza giudiziaria sollecitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronta a un incontro con il suo omologo egiziano, non ha avuto (e non avrà) alcun esito.

La lettera

A questa amara conclusione è giunto l’ultimo tentativo del giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi, dopo la lettera ricevuta dal capo del Dipartimento degli affari di giustizia del ministero di via Arenula, Nicola Russo: cinque pagine di risposta alla richiesta di farsi parte attiva con il governo del Cairo per cercare di sbloccare la situazione a livello politico, e capire se ci siano possibilità di cooperazione. Il risultato è che, al momento, non ce ne sono. Il giudice ha rinviato l’udienza di altri 6 mesi, al 10 ottobre, mentre la famiglia di Giulio chiede che la pressione politica salga di livello.

L’indignazione della famiglia

«Siamo indignati dalla risposta della Procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocata Alessandra Ballerini, che assiste i genitori e la sorella di Giulio. «Chiediamo che il presidente Draghi, condividendo la nostra indignazione, pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Il capo del Governo valuterà il da farsi, ma la replica egiziana alle mosse della ministra della Giustizia non lascia presagire nulla di costruttivo. «La condizione fermamente posta dalla ministra Cartabia per recarsi al Cairo e interloquire con il suo omologo Omar Marwan — scrive Russo — è che nel corso dell’incontro si affronti il caso Regeni. Ad oggi, nonostante i ripetuti passi svolti dal nostro ambasciatore al Cairo, il ministro della Giustizia egiziano non ha ancora fornito un riscontro alla lettera della ministra Cartabia».

La competenza

La missiva era partita da Roma il 20 gennaio. Difficile quindi che sul piano politico possano esserci passi avanti. A livello tecnico, invece, un dialogo c’è stato. Una delegazione guidata proprio da Russo è andata al Cairo un mese fa, ma s’è sentita dire che in assenza di accordi bilaterali tra i governi, la cooperazione giudiziaria internazionale è competenza esclusiva della Procura generale. I carabinieri del Ros hanno recuperato i recapiti di lavoro degli imputati e l’Avvocatura dello Stato, parte civile per conto del governo, propone di notificare lì gli atti. Ma sarebbe una forzatura del codice italiano. E proprio dalla Procura generale egiziana arriva la novità che potrebbe rappresentare lo sbarramento definitivo alla possibilità di andare avanti con il processo.

Le prove raccolte dalla Procura di Roma

L’ufficio giudiziario del Cairo ha infatti esaminato le prove raccolte dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco (con la collaborazione del Ros e del Servizio centrale operativo della polizia) a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, e del maggiore Magdi Ibrahim Sherif (accusato anche delle torture e dell’omicidio). Arrivando a un loro sostanziale proscioglimento.

Il memorandum

In un memorandum consegnato all’Italia il 26 dicembre 2020, è scritto che «il quadro probatorio avanzato dalle autorità italiane è poco solido e contrario ai meccanismi della cooperazione giudiziaria internazionale, il che spinge la Procura generale a ritenere che le autorità italiane si siano sviate dalla verità, ed esclude tutti i sospetti nei confronti degli indagati». Quel provvedimento, comunica il ministero italiano al giudice Ranazzi, secondo l’Egitto «ha natura decisoria irrevocabile, non più suscettibile di impugnazione e preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti». Di conseguenza, «l’assistenza giudiziaria sarebbe preclusa dal principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ndr) sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali». In pratica un’assoluzione definitiva senza che si sia celebrato il processo. Utilizzata dall’Egitto per impedire lo svolgimento di un regolare giudizio in Italia. Che resta sospeso, in attesa di una soluzione che non si trova.

Caso Regeni, caccia agli 007 egiziani che torturarono il ricercatore: «Rogatoria negli Usa sui profili social per rintracciarli». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.  

La pista suggerita dal Ros per risalire al domicilio. Grazie agli accertamenti telematici ora hanno un volto.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d’America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro.

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files, nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l’indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d’Egitto, con l’obiettivo di ottenere l’assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario». Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. È ormai impensabile; l’ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti.

Ma il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia. L’informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. L’eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell’Arma sarebbe in teoria percorribile. Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. E lì che l’Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l’ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell’Interno, con l’incarico di un progetto relativo alle carte d’indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l’indirizzo di questo ufficio: c’è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l’ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l’Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un’altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — l’unico accusato anche delle torture e dell’omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani — «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell’Interno, di cui è indicato l’indirizzo a Nuova Cairo 1.

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro — il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel — sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram. In attesa di capire se sarà possibile imboccare l’impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l’Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

NUOVA UDIENZA IL 10 OTTOBRE. Carte mancanti, affari e nessuna collaborazione. Il caso Regeni resta fermo. LAURA CAPPON su Il Domani l'11 aprile 2022

È stata fissata al 10 ottobre la nuova udienza del gup sull’omicidio di Giulio Regeni. Il giudice ha sospeso il procedimento perché mancano ancora gli indirizzi dei quattro agenti della National Security accusati del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore.

La ministra Marta Cartabia aveva promesso ai genitori di Giulio Regeni che si sarebbe recata al Cairo per ottenere gli indirizzi dei quattro agenti. Ma la richiesta, inoltrata il 20 gennaio alle autorità egiziane, non ha mai ricevuto risposta.

Il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la la procura generale considera chiuso il caso.

LAURA CAPPON. Giornalista, nel 2011 si trasferisce in Egitto per seguire gli anni del post rivoluzione egiziano. Ha lavorato per Rai 3, Skytg 24, Il Fatto Quotidiano, Al Jazeera English, The New Arab e Radio Popolare. Nel 2013 ha vinto il premio l'Isola che c'è per la copertura del colpo di stato egiziano e nel 2017 il premio "Inviata di Pace "del Forum delle giornaliste del Mediterraneo per i suoi articoli sulla morte di Giulio Regeni. È inviata per Mezz'ora in più, su Rai 3.

Caso Regeni, il gup dispone la sospensione del processo. L’Egitto non collabora. Il Domani l'11 aprile 2022.

Mancano ancora gli indirizzi degli imputati, e non è possibile notificare loro gli atti. I carabinieri del Ros dovranno fare nuove ricerche. La prossima udienza è stata fissata per il 10 ottobre. Il legale dei genitori ha chiesto che Draghi intervenga

Il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Roberto Ranazzi, ha disposto la sospensione del procedimento a carico dei quattro agenti dei Servizi segreti egiziani, accusati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Mancano gli indirizzi di domicilio degli imputati, e senza i recapiti non è possibile dar luogo alla notifica degli atti giudiziari. L’Egitto non collabora. Ora proseguiranno le indagini del Ros, mentre la nuova udienza, per valutare eventuali sviluppi, è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. 

SOSPENSIONE DEL PROCESSO

La decisione del gup è arrivata  dopo le comunicazioni del ministero di Giustizia e dei carabinieri del Ros, che hanno confermato la già nota indisponibilità dell’Egitto a qualsiasi forma di collaborazione con l’Italia in merito al caso Regeni.

A gennaio, il giudice aveva chiesto al governo di verificare la possibilità di una effettiva collaborazione con le autorità egiziane. Ma il ministero ha ribadito «il rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti», cui si è aggiunto il rifiuto da parte del Cairo a un incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il suo omologo egiziano.

Il direttore della cooperazione giudiziaria italiana ha fatto sapere che le autorità egiziane, che ha incontrato al Cairo, hanno evidenziato come, sul caso Regeni, la competenza sia della procura generale, per la quale comunque l'indagine è chiusa perché non sarebbe possibile effettuare ulteriori verifiche sui quattro indagati.

All’indisponibilità egiziana non hanno fatto da contrappeso i risultati delle indagini, condotte nel frattempo dai carabinieri del Ros. Le loro ricerche hanno portato solo all’indirizzo dei luoghi di lavoro, non anche a quello dei domicili. E, secondo il codice di procedura internazionale, l’indirizzo lavorativo non può essere utilizzato per le notifiche in sede processuale. 

Il rifiuto di collaborare da parte dell'Egitto, ha detto il gup, «è un dato di fatto» e «sono del tutto pretestuose le argomentazioni proposte delle autorità egiziane». Alla prossima udienza del 10 ottobre sarà sentito il direttore generale del ministero della Giustizia, Nicola Russo, sugli eventuali sviluppi.

IL SIT-IN AL TRIBUNALE

In mattinata, davanti al tribunale di Roma, dove stava per svolgersi l’udienza preliminare, i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, con la legale Alessandra Ballerini, hanno mostrato lo striscione giallo con la scritta «Verità per Giulio Regeni», dando luogo a un sit-in. Al presidio hanno partecipato anche il presidente della Federazione della stampa italiana (Fnsi) e degli attivisti, anche egiziani. i.

«Siamo qui per dire che non smetteremo mai di reclamare verità e giustizia», ha detto Giuseppe Giulietti, presidente Fnsi che ha partecipato al presidio. «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l'Egitto, qualora dovesse perseguire una politica di omissione e di cancellazione delle prove».

Anche il presentatore tv Flavio Insinna ha preso parte al sit-in, e alla domanda dei giornalisti sul perché fosse lì ha risposto: «Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo paese. Voglio vivere in un paese, come dice il papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l'alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità».

IL PROCESSO

L’udienza preliminare che si è svolta oggi, davanti al gup, è la seconda dopo quella dello scorso gennaio. A  ottobre del 2021, il processo contro i quattro 007 era stato sospeso al termine della prima udienza, nell’aula bunker di Rebibbia, per decisione dei giudici della Corte d’Assise, che avevano stabilito che il gup si pronunciasse sulla questione della notifica delle accuse agli imputati. I legali della difesa avevano sollevato la questione della non conoscenza, da parte dei quattro imputati, di quanto veniva loro imputato a Roma.

 A gennaio poi il gup aveva stabilito che i carabinieri del Ros disponessero di altro tempo per verificare i luoghi di residenza e di lavoro dei quattro agenti presunti torturatori e omicidi in modo tale da notificare loro l’avvio del processo e sollecitato un intervento da parte del ministero di Giustizia. 

L’OMICIDIO

Giulio Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. La procura di Roma, in seguito a quanto raccolto finora, ritine che il ricercatore dell’Università di Cambridge sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.

Gli agenti egiziani coinvolti nel procedimento sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio.

Caso Regeni, processo sospeso: «L’Egitto non collabora». Il gup di Roma dispone nuove ricerche e rinvia il processo a carico degli 007 egiziani al 10 ottobre dopo la nota di Via Arenula che riferisce di una chiusura netta da parte del Cairo. La legale della famiglia Regeni: «L'Egitto si beffa di noi, intervenga Draghi». Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Sospensione del procedimento a carico di quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni. È quanto disposto dal gup di Roma dopo le comunicazioni arrivate sia dal ministero della Giustizia, sia dai carabinieri del Ros, in merito al rifiuto delle autorità egiziane ad una collaborazione con l’Italia.

Secondo il giudice è un dato di fatto il rifiuto dell’Egitto di collaborare e sono pretestuose le argomentazioni della Procura generale del Cairo. Il giudice ha disposto nuove ricerche degli imputati affidate al Ros e ha rinviato il processo al prossimo 10 ottobre: in quell’occasione verrà sentito anche il capo dipartimento Affari di giustizia del ministero Nicola Russo sugli eventuali sviluppi dopo la nota inviata alle autorità egiziane in seguito all’incontro del 15 marzo scorso.

La nota di Via Arenula

Dopo l’annullamento del processo a ottobre 2021, lo scorso gennaio il giudice aveva chiesto al governo italiano di verificare la possibilità di una «interlocuzione» con le autorità del Cairo. E nella nota inviata al gup di Roma in occasione della nuova udienza preliminare, il ministero della Giustizia ha sottolineato il «rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» con l’Italia così come il no ad un incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. Lo scorso 15 marzo il direttore della cooperazione giudiziaria italiana si è recato in Egitto per un incontro e in quell’occasione gli è stato comunicato che la competenza è della Procura Generale che considera chiuso il caso Regeni e che non è possibile andare avanti con ulteriori indagini sui quattro indagati in Italia. I carabinieri del Ros inoltre, ai quali erano state affidate nuove ricerche sul domicilio degli indagati, hanno fatto sapere di essere riusciti ad acquisire solo l’indirizzo del luogo di lavoro dei quattro 007 egiziani e non il domicilio, necessario per il codice di procedura internazionale.

La legale della famiglia Regeni: «Il Cairo si beffa di noi»

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, al termine dell’udienza.

«Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati dal presidente Al Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio», prosegue la legale. «La lesione della tutela della vita, della libertà e dell’integrità dei cittadini all’estero, come la presidenza del Consiglio Ricorda nel suo atto di costituzione di parte civile, costituisce grave pregiudizio dell’immagine e del prestigio dello Stato Italiano nella sua funzione di protezione dei propri cittadini – aggiunge -. Quindi, visto il conclamato ostruzionismo, egiziano pretendiamo da parte del nostro governo la necessaria, tempestiva e proporzionata reazione. Stare inermi ora, permettere al regime di Al Sisi di bloccare questo processo faticosamente istruito, consentirebbe l’impunità degli assassini di Giulio ed equivarrebbe ad essere loro complici. Il nostro governo ha il dovere invece di esigere energicamente giustizia».

Regeni, i silenzi e il caos boicottaggi. Giannino della Frattina il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tournée in Egitto, la rivolta dell'orchestra, il giusto orgoglio dei genitori di Giulio Regeni, la smentita della Scala per bocca del sovrintendente Dominique Meyer. Di certo sipario calato, ma comunque sia andata non è stato un trionfo. Perché la nostra serva Italia continua a essere nave sanza nocchiere in gran tempesta. E soprattutto non donna di provincie, ma bordello! E bordello ancor più sconcio se a essere coinvolto in questo pantano sono un ragazzo rapito e torturato a morte in quell'Egitto che si rifiuta di collaborare alle indagini per chiarire la tragedia e punire i colpevoli e soprattutto i suoi genitori che hanno saputo trasformare l'indicibile dolore in una campagna per trovare la verità e rendere giustizia a quello sventurato figliolo. Perché qui hanno ragione un po' tutti: gli orchestrali che protestano, i giornalisti che raccontano e scoprono l'affaire, papà e mamma che ringraziano, il sovrintendente che nega. Tutti fuorché purtroppo ancora una volta il governo italiano, quello Stato che avrebbe il dovere di ergersi granitico a difendere un proprio figlio a cui servitori forse non troppo infedeli di un'altra nazione hanno tolto la vita. E, invece, non è così. Perché al di là di generiche dichiarazioni d'intenti che non costano nulla e servono ad ancor meno, striscioni gialli esposti un po' qui e un po' là da sindaci volonterosi e chiacchiere da bar o da campagna elettorale dei politici, null'altro è stato fatto per mettere in piedi una seria iniziativa diplomatica e contemporaneamente appoggiare il lavoro dei magistrati italiani che vedono i loro tentativi infrangersi sul muro di gomma eretto dall'omertà di quei governanti d'Egitto mai abbastanza disprezzati per questo. In filigrana, ma senza mai il coraggio di dirlo chiaramente, una malintesa e mal gestita ragion di Stato da chi uno Stato che si rispetti (e si faccia rispettare) nemmeno sa dove metta le fondamenta. Ragioni di economia e di geopolitica male interpretate da analfabeti della politica atte solo a scatenare multicolori iniziative individuali che nascono dal basso. E altro non fanno che alimentare la confusione, non certo la giustizia per Giulio. Giannino della Frattina

·        Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Per non dimenticare………

Angelo Vassallo è stato lasciato solo; il sindaco di Pollica (Salerno) si sentiva abbandonato dalle forze dell'ordine nella sua lotta alla criminalità, scrive "Sky Tg 24".

Il 7 settembre 2010, il giorno dopo la brutale esecuzione del primo cittadino del paesino del salernitano, sono queste le parole che da più parti si sentono ripetere. Il primo a formulare queste accuse è proprio il fratello della vittima, Claudio Vassallo, che ai microfoni di SkyTG24 apre nuovi scenari sulla morte del sindaco.

"Mio fratello, prima di essere ammazzato, mi aveva detto che personaggi delle forze dell’ordine erano in combutta con personaggi poco raccomandabili. Ci sono delle lettere scritte sia al comando provinciale, sia al comando centrale a Roma senza alcuna risposta" dichiara. E aggiunge: "Mio fratello è stato lasciato solo, abbandonato. Le piste da seguire secondo me sono o gli interessi sul porto o i problemi che ci sono stati questa estate con la droga ad Acciaroli. Lui ha chiesto aiuto alle forze dell’ordine e non glielo hanno dato".

Claudio Vassallo non è l'unico a sostenere questa tesi. Il consigliere comunale e amico del sindaco, Domenico Palladino, sostiene infatti che poche settimane prima, dopo ferragosto, Angelo Vassallo si era esposto in prima persona in un'azione di contrasto nei confronti di alcuni spacciatori di droga che stavano cercando di conquistare la piazza di Acciaroli per lo spaccio di cocaina e hashish. E ricorda anche come il sindaco si sentisse lasciato solo dalle forze dell'ordine.

"Aveva minacciato di denunciarli - ricorda Palladino - se li avesse rivisti all'opera e intimò loro di lasciare il paese e tornarsene da dove erano venuti. Si tratta di personaggi che vengono da fuori ed è impensabile che i carabinieri di qua non li abbiano mai fermati. E' ora - conclude Palladino - che ci sia un ricambio ai vertici del locale comando dei Carabinieri come dallo stesso Vassallo richiesto per anni".

E il paese, sotto choc, si mobilita. Subito dopo aver appreso la notizia, i negozianti del posto avevano dato vita ad una spontanea serrata in segno di lutto per la morte del loro amato sindaco. E la rabbia dei cittadini di Pollica, ma non solo, si scatena anche sul web. Non appena appresa la notizia della morte del loro sindaco, numerose persone hanno deciso di aprire su Facebook pagine e gruppi di solidarietà.

Tantissimi i messaggi, come questo di Anna: “Grazie sindaco per quello che hai fatto per Acciaroli e per il Cilento...ora spero che le tue idee di legalità e di rispetto del bene comune possano viaggiare sulle gambe di qualcun altro. Come diceva Falcone "Ognuno deve fare la sua parte,... per grande o piccola che sia": la tua morte testimonia che hai saputo tenere fede a questo impegno fino in fondo”.  Un sindaco, Angelo Vassallo, amato dalla sua comunità, come testimonia un altro messaggio: “Splendida persona che faceva gli interessi della comunità la sinistra sempre più povera la politica sempre più sporca”.

Petronilla Carillo per ilmattino.it il 29 luglio 2022.

«Oggi non è affatto un giorno felice. Soprattutto se consideriamo che tra gli indagati ci sono degli esponenti dell'Arma dei carabinieri. Ma io sono tranquillo, sta uscendo fuori quella verità negata di cui noi della Fondazione Angelo Vassallo ci siamo sempre resi paladini. Verità che io stesso ho sempre denunciato, l'ultima volta qualche anno fa e le mie dichiarazioni sono contenute in un verbale secretato ora nelle mani degli organi inquirenti. 

Ma noi siamo gente di mare e come i pescatori sappiamo aspettare anche se facciamo un altro lavoro». Dario Vassallo, fratello del sindaco, è sempre stato il portabandiera della ricerca della verità su quanto accaduto ad Angelo. 

Quindi lei ritiene che ci sono altre cose interessanti che dovranno venir fuori?

«Io credo che siamo sulla strada giusta... finalmente, dopo dodici anni. Abbiamo però dovuto aspettare dodici anni... Io credo che avrete tutti modo di conoscere una Acciaroli diversa, peggiore. Io credo che al di là della pista della droga e della criminalità organizzata i veri responsabili della morte di mio fratello siano proprio sul territorio. Non si deve andare troppo lontano». 

I suoi riferimenti sembrano essere molto precisi...

«Basta vedere gli indagati. C'è Domenico Palladino, un imprenditore del posto che quando Angelo era sindaco era un consigliere comunale. Nel corso degli anni la sua attività è cresciuta. Credo che se è indagato gli inquirenti abbiano qualcosa di concreto tra le mani. Cose, magari, che a Pollica tutti sanno e nessuno dice». 

Quello che dice fa supporre che possano uscire fuori altri nomi.

«Io quello che so, le ripeto, l'ho detto agli inquirenti già qualche anno fa. Non posso parlare, è tutto secretato ma, se leggete tutti bene tra le righe del mio libro, quei nomi ci sono. A me è sempre stato tutto molto chiaro». 

Tra le accuse mosse, in particolare agli esponenti dell'Arma dei carabinieri, vi è quella di aver indirizzato le indagini su altri personaggi che poi si sono rivelati del tutto estranei ai fatti. Un nome su tutti, quello di Bruno Humberto Damiani.

«Sicuramente. Questa è una delle cose che fa rabbia. Io da subito ho detto anche al procuratore di allora, Franco Roberti, che quel ragazzo non c'entrava nulla con Angelo. Ho sempre detto che era stato tirato in ballo per sviare le indagini. Ho anche detto all'allora procuratore capo di Salerno che non si doveva necessariamente mettere qualcuno in croce per dare risposte al delitto. 

Noi abbiamo sempre cercato la verità, quella che è sotto gli occhi di tutti ma sembra difficile da vedere. Eppure è palpabile: nessuno mai in politica si è speso per onorare la memoria di mio fratello. Dopo dodici anni non gli è mai stata intitolata una strada, una piazza, un vicolo. Ho scritto in passato una lettera al segretario Letta del Pd per ricordargli di Angelo ma lui, come anche il Pd campano, non hanno prestato molta attenzione a mio fratello (ricordiamo che Dario Vassallo è in odore di candidatura sul fronte opposto al Partito democratico, si parla di un seggio per lui con il Movimento Cinquestelle di Conte, ndr)».

Quando ha incontrato la prima volta il procuratore capo Giuseppe Borrelli che ha fatto dell'indagine sull'omicidio Vassallo uno dei capisaldi della sua governance giudiziaria?

«Credo di averlo incontrato subito dopo il suo arrivo, nel 2020. E devo dire che mi ha sempre ascoltato con grande interesse. Come il sostituto Marco Colamonici che da sette anni segue il caso di mio fratello senza alcuna battuta d'arresto. Devo dire che sono due magistrati in gamba e coraggiosi. Perché ci vuole coraggio a mettere sotto indagine tre carabinieri tra cui un colonnello, fratello di un colonnello e figlio di un generale dell'Arma. Vuol dire avere le spalle forti, essere fuori dal circuito della politica, portare avanti le proprie idee e il proprio lavoro senza alcuna paura ma con grande professionalità». 

Dopo dodici anni, sentir parlare di «svolta nelle indagini» deve essere molto pesante per chi, come lei e gli altri familiari, oltre al dolore si è visto anche negare la verità. Uno stillicidio emozionale.

«Sì, sicuramente. Ma, ripeto, siamo gente di mare e sappiamo aspettare sicuri che quello che sta venendo fuori è soltanto una parte della verità che finora ci hanno negato».

Caso Vassallo, quegli affari fra il carabiniere e il camorrista. Dario del Porto su La Repubblica l'1 Agosto 2022. 

Le indagini sull'omicidio del sindaco di Pollica, il pm: l'ex sottufficiale Cioffi affidò la gestione di una pompa di benzina a Ridosso. Verifiche anche su una "società di fatto" tra l'ex militare e gli albergatori Palladino. Il figlio del sindaco ucciso: "Ora capiamo quegli errori nelle indagini"

 Il carabiniere e il camorrista facevano affari insieme. Tra il 2007 e il 2010, l'allora sottufficiale dell'Arma Lazzaro Cioffi aveva affidato a Romolo Ridosso, oggi collaboratore di giustizia, all'epoca dei fatti esponente della criminalità organizzata salernitana, la gestione di una pompa di benzina a Scafati formalmente intestata alla moglie del militare.

Angelo Vassallo, dieci anni dopo: la morte senza colpevoli del sindaco pescatore. Pubblicato venerdì, 04 settembre 2020  Da Dario Del Porto su La Repubblica.it. Angelo Vassallo, dieci anni dopo: la morte senza colpevoli del sindaco pescatore. Il 5 settembre del 2010 veniva ucciso il primo cittadino di Pollica. Ma il delitto resta ancora avvolto nel mistero. Acciaroli, le nove della sera del 5 settembre 2010. Un’Audi A 4 è ferma nel buio. Il finestrino del lato guidatore è abbassato. Sul sedile c’è il corpo senza vita di un uomo che ha ancora il telefono cellulare in pugno. E’ Angelo Vassallo, da quindici anni sindaco di Pollica, la piccola località del Cilento trasformata, proprio sotto la sua amministrazione, in un paradiso delle vacanze per il suo mare “bandiera blu”. Gli hanno sparato nove volte. L’assassino ha usato una pistola baby Tanfoglio calibro 9 ed era a una distanza di circa quaranta centimetri . Forse era seduto in sella a un motorino. E’ una calda serata di fine estate. Eppure nessuno sente gli spari. Comincia così, un giallo che si trascina da dieci anni, accompagnato da interrogativi rimasti tutti senza risposta. A cominciare dal più importante: chi ha ucciso il sindaco pescatore, come tutti chiamavano Vassallo? Pochi giorni prima di essere ammazzato, Angelo si era confidato con un amico: “Ho scoperto una cosa che non avrei mai voluto scoprire”, gli dice. Ma non aveva aggiunto altro. Che cosa aveva scoperto? E’ uno dei nodi centrali di questa storia. Si capisce subito che non si tratta di un delitto di paese. Il sindaco pescatore, durante l’ultima estate della sua vita, era fortemente preoccupato per lo spaccio e il consumo di droga che aveva invaso Acciaroli, allarmandolo come amministratore ma anche come padre per il coinvolgimento dell’allora fidanzato della figlia. Vassallo temeva che gli spacciatori potessero godere di coperture e per questo una sera, sul porto di Acciaroli, li aveva affrontati di persona, accompagnato solo da due vigilesse. In questo contesto, sin dal primo giorno, si muovono le indagini trasmesse dopo un paio di giorni dalla Procura di Vallo della Lucania a quella di Salerno, nell’ipotesi di una matrice o un metodo camorristico. Ma il cammino appare subito pieno di ostacoli. Sulla scena del delitto, nelle ore immediatamente successive, si muovono un sacco di persone. Troppe per garantire che non ci siano stati inquinamenti. I primi sospetti della Procura, in quel momento diretta dal futuro procuratore nazionale (oggi europarlamentare del Pd) Franco Roberti, si concentrano su Bruno Humberto Damiani, italobrasiliano che frequenta gli ambienti dello spaccio e della movida cilentana. Resterà a lungo sotto inchiesta ma alla fine verrà scagionato con l’archiviazione del fascicolo. L’esame dello stube esclude che abbia sparato nelle ore precedenti l’omicidio. Ad attirare l’attenzione degli investigatori c’è anche la scelta di un ufficiale del carabinieri, il colonnello Fabio Cagnazzo, in quei giorni in vacanza ad Acciaroli, di rimuovere le telecamere di videosorveglianza di un negozio affacciato sul porto. L’ufficiale, a lungo in servizio a Castello di Cisterna e in prima linea nelle indagini contro la camorra, spiega di essersi mosso con l’intenzione di preservare possibili prove. Il colonnello (che nei mesi successivi ricostruirà in un’informativa la rete dello spaccio in Cilento) finisce indagato insieme al suo attendente, Luigi Molaro, ma anche questo fascicolo viene archiviato per insussistenza di gravi indizi. Lo scorso dicembre, la trasmissione televisiva "Le Iene" dedica uno speciale al caso e si occupa anche di Cagnazzo. L’ufficiale respinge ancora una volta qualsiasi coinvolgimento nel caso e agirà in giudizio contro chi lo ha tirato nuovamente in ballo. Le indagini prendono in considerazione anche la storia della vigilessa Ausonia Pisani, figlia di un ex generale dei carabinieri originario del Cilento, coinvolta insieme al suo ex compagno, Sante Fragalà, in un duplice omicidio avvenuto a maggio del 2011 a Cecchina, nel Lazio, e maturato proprio negli ambienti della droga. L’interessamento del generale in pensione per il rilascio a due imprenditori napoletani di una concessione per un lido balneare, sempre negata dal sindaco Vassallo fa immaginare un possibile legame con il delitto di Acciaroli, ma le perizie balistiche escludono una compatibilità fra l'arma del delitto e la pistola di Ausonia Pisani. L’inchiesta va avanti e nel registro degli indagati, a seguito di una segnalazione anonima inviata alla Procura di Napoli, viene iscritto il nome di un altro carabiniere, il sottufficiale Lazzaro Cioffi, per anni in servizio a Castello di Cisterna,  citato già in uno dei primi capitoli investigativi, quando gli accertamenti non avevano trovato conferme all’ipotesi di una sua presenza ad Acciaroli il giorno dell’omicidio. Ora Cioffi, che nel frattempo ha lasciato l’Arma, è detenuto perché imputato con l'accusa di collusioni con il boss della droga del Parco Verde di Caivano, Pasquale Fucito ma è libero per l’omicidio Vassallo. Due anni fa il sottufficiale è stato raggiunto da un invito a rendere interrogatorio, ma si è avvalso della facoltà di non rispondere. Questo filone non risulta ancora definito. Il nuovo procuratore di Salerno, Giuseppe Borrelli, che coordina il lavoro del pm Marco Colamonici, (titolare del fascicolo ereditato dalla pm Rosa Volpe, oggi procuratore aggiunto a Napoli) ha deciso di ripercorrere a ritroso le piste percorse in questi dieci anni di lavoro per poi rileggere il quadro complessivo di quanto raccolto. I buchi sono tanti. A cominciare dalla pistola, che non è mai stata ritrovata. Non ci sono testimoni oculari, nessuno ha sentito gli spari. Non ha consentito di fare passi in avanti neppure l’esame del Dna disposto su 154 persone. Molte dichiarazioni raccolte in questi anni sono apparse incomplete se non contraddittorie o addirittura reticenti. Tanti dubbi, ma una certezza: è stato un omicidio eccellente, non un delitto di paese.

Le cosche tornano a colpire: ucciso il sindaco anti-camorra. Questo è l'articolo scritto da Roberto Saviano dieci anni fa dopo il delitto del sindaco di Pollica Angelo Vassallo. Le cosche tornano a colpire: ucciso il sindaco anti-camorra. Pubblicato venerdì, 04 settembre 2020 da La Repubblica.it. Due pistole che sparano, le pallottole che colpiscono al petto, un agguato che sembra essere anche un messaggio. Così uccidono i clan. Così hanno ucciso Angelo Vassallo, sindaco di Pollica, in provincia di Salerno. Si muore quando si è soli, e lui - alla guida di una lista civica - si opponeva alle licenze edilizie, al cemento che in Cilento dilaga a scapito di una magnifica bellezza. Ma Angelo Vassallo rischia di morire per un giorno soltanto e di essere subito dimenticato. Come  se fosse normale, fisiologico per un sindaco del meridione essere vittima dei clan. E invece è uno scandalo della democrazia. Del resto - si dice - è così che va nel sud, accade da decenni. «Veniamo messi sulla cartina geografica solo quando sparano. O quando si deve scegliere dove andare in vacanza», mi dice un vecchio amico cilentano. In questo caso le cose coincidono. Terra di vacanze, terra di costruzioni, terra di business edilizio che «il sindaco-pescatore» voleva evitare a tutti i costi. Questa estate è iniziata all' insegna degli slogan del governo sui risultati ottenuti nella lotta contro le mafie. Risultati sbandierati, urlati, commettendo il grave errore di contrapporre l' antimafia delle parole a quella dei fatti. Ma ci si deve rendere conto che non è possibile delegare tutto alle sole manette o al buio delle celle. Senza racconto dei fatti non c' è possibilità di mutare i fatti. E anche questa storia meritava di essere raccontata assai prima del sangue. Forse il finale sarebbe stato diverso. Ma lo spazio e la luce dati alla terra dei clan sono sempre troppo pochi. I magistrati fanno quello che possono. I clan dell' agro-nocerino in questo momenti sono tutti sotto osservazione: quelli di Scafati capeggiati da Franchino Matrone detto «la belva», o gli uomini di Salvatore Di Paolo detto «il deserto», quelli di Pagani capeggiati da Gioacchino Petrosino detto «spara spara», il clan di Aniello Serino detto «il pope», il clan Viviano di Giffoni, i Mariniello di Nocera inferiore e Prudente di Nocera superiore, i Maiale di Eboli. Il fatto è che il Cilento, terra magnifica, ha su di sé gli occhi e le mani delle organizzazioni criminali che, quasi fossero la nemesi della nostra classe politica, eternamente in lotta, si scambiano favori, si spartiscono competenze pur di trarre il massimo profitto da una terra che ha tutte le caratteristiche per poter essere definita terra di nessunoe quindi terra loro.I Casalesi sono da sempre interessati all' area portuale, così come i Fabbrocino dell' area vesuviana hanno molti interessi in zona. Giovanni Fabbrocino, nipote del boss Mario Fabbrocino, gestisce a Montecorvino Rovella, un paesino alle soglie del Cilento, la concessionaria della Algida nella provincia più estesa d' Italia, il Salernitano appunto. Il clan Fabbrocino è uno dei più potenti gruppi camorristici attualmente noti e intrattiene legami con i calabresi. Oggi le 'ndrine nel Salernitano contano molto di più e hanno interessi che vanno oltre lo scambio di favori. Il porto di Salerno, su autorizzazione dei clan di camorra, è sempre stato usato dalle ' ndrine per il traffico di coca, soprattutto da quando il porto di Gioia Tauro è divenuto troppo pericoloso. Il potentissimo boss di Platì Giuseppe Barbaro, per esempio, è stato catturato a dicembre 2008 mentre faceva compere natalizie a Salerno. In tutto questo, il cordone ombelicale che ha legato camorra e ' ndrangheta porta un nome fin troppo evidente: A3, ovvero autostrada Salerno-Reggio Calabria. Nel Salernitano sono impegnate diverse ditte dalla reputazione tutt' altro che specchiata. La "Campania Appalti srl" di Casal di Principe avrebbe dovuto costruire le strade intorno al futuro termovalorizzatore di Cupa Siglia. L' impresa delle famiglie Bianco e Apicella è stata raggiunta da un' interdittiva antimafia dopo le indagini della sezione salernitana della Direzione Investigativa Antimafia. Secondo gli investigatori, l' impresa rientra nel giro economico del clan dei Casalesi ed è nelle mani di uomini vicini a Francesco Schiavone. È così diverso oggi dagli anni ' 80 e ' 90? Di che territorio stiamo raccontando? Di una Regione dove per la gare d' appalto per la raccolta rifiuti bisogna chiamare una impresa ligure perché in Campania non se ne trova una che non abbia legami con la camorra. Nemmeno una. Se da un lato si arresta dall' altro lato non c' è affatto una politica che tenda a interrompere il rapporto con le organizzazioni criminali. L'attuale presidente della provincia di Napoli Luigi Cesaro, soprannominato «Gigino a' purpetta» (Luigino la polpetta), fu arrestato nel 1984 in un' operazione contro la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Nel 1985 il Tribunale di Napoli condannò Cesaro a 5 anni di reclusione «per avere avuto rapporti di affari e amicizia con tutti i dirigenti della camorra napoletana fornendo mezzi, abitazioni per favorire la latitanza di alcuni membri, e dazioni di danaro». Nel 1986 in appello il verdetto fu ribaltato e Cesaro venne assolto per insufficienza di prove. La decisione fu poi confermata dalla Corte di Cassazione presieduta dal noto giudice ammazza sentenze Corrado Carnevale. Ma, come ha raccontato L' Espresso, nonostante Cesaro sia stato scagionato dalle accuse, gli stessi giudici che lo hanno assolto hanno stigmatizzato il preoccupante quadro probatorio a suo carico. Durante il processo, in aula, furono infatti confermati gli stretti rapporti che l' attuale presidente della provincia di Napoli intratteneva con i vertici della Nco (incluso don Raffaele Cutolo). Si parlava di una «raccomandazione» chiesta a Rosetta Cutolo, sorella di Raffaele, per far cessare le richieste estorsive di Pasquale Scotti, personaggio tuttora ricercato ed inserito nell' elenco dei trenta latitanti più pericolosi d' Italia. (Consiglio caldamente di fare una piccola ricerca su youtube per «Luigi Cesaro esilarante», ascolterete un monologo del presidente della provincia che sarà più eloquente delle mie parole). Tutto questo non si può tacere. E chi lo tace è complice. Mi viene da chiedere a chi in questo momento sta leggendo queste righe se ha mai sentito parlare di Federico Del Prete, sindacalista ucciso nel 2002 a Casal di Principe. Se ha mai sentito parlare di Marcello Torre, sindaco di Pagani ucciso nel 1980 perché cercava di resistere a concedere alla camorra gli appalti per la ricostruzione post terremoto. E di Mimmo Beneventano vi ricordate? Consigliere comunale del Pci, trentadue anni, medico, fu ucciso nel 1980 a Ottaviano per ordine di Raffaele Cutolo perché ostacolava il suo dominio sulla città. E di Pasquale Cappuccio? È stato consigliere comunale del Psi, avvocato, ucciso nel 1978 sempre a Ottaviano. E Simonetta Lamberti, uccisa a Cava dei Tirreni nel 1982. Aveva dieci anni e la sua colpa era essere la figlia del giudice che andava punito. Le scariche del killer raggiunsero lei al posto del loro obiettivo. Qualcuno di questi nomi vi è noto? Temo solo ad addetti ai lavori o militanti di qualche organizzazione antimafia. Questi nomi sono dimenticati. Colpevolmente dimenticati. Come, temo, lo sarà presto quello di Angelo Vassallo. Ai funerali di Antonio Cangiano, vicesindaco di Casal di Principe gambizzato dalla camorra nel giugno 1988 e da allora costretto sulla sedia a rotelle, non c' era nessun dirigente della sinistra. Tutto sembra immobile in territori dove non riusciamo nemmeno a ottenere il minimo, l' anagrafe pubblica degli eletti per sapere esattamente chi ci governa. Le indagini sull' omicidio di Angelo Vassallo vanno in tutte le direzioni, si sta scavando nel passato e nel presente del sindaco. Perché, come mi è capitato di dire altrove, in queste terre quando si muore si è sottoposti a una legge eterna: si è colpevoli sino a prova contraria. I criteri del diritto sono ribaltati. E quindi già iniziano a sentirsi voci di ogni genere, ma nulla tralascerà la Dda. L' aveva scritto Bruno Arpaia (non a caso nato a Ottaviano) nel suo bel libro Il passato davanti a noi, che mentre i militanti delle varie organizzazioni della sinistra extraparlamentare sognavano Parigi o Pechino per far la rivoluzione e scappavano a Milano a occupare università o fabbriche, non si accorgevano che al loro paese si moriva per un no dato ad un appalto, per aver impedito a un' impresa di camorra di fare strada. È in quei posti invisibili, apparentemente marginali che si costruisce il percorso di un Paese. Tutto questo non si è visto in tempo e oggi si continua a ignorarlo. La scelta del sindaco in un comune del Sud determina l' equilibrio del nostro Paese più che un Consiglio dei ministri. Al Sud governare è difficile, complicato, rischioso. Amministratori perbene e imprenditori sani ci sono, ma sono pochi e vivono nel pericolo. In queste ore a Venezia verrà proiettato sul grande schermo «Noi credevamo» di Mario Martone, una storia risorgimentale che parte proprio dal Cilento, dal sud Italia. Forse in queste ore di sgomento che seguono la tragedia del sindaco Angelo Vassallo vale la pena soffermarsi sull' unico risorgimento ancora possibile che è quello contro le organizzazioni criminali. Un risorgimento che non deve declinarsi come una conquista dei sani poteri del Nord verso i barbari meridionali: del resto è una storia che già abbiamo vissuto e che ancora non abbiamo metabolizzato. Ma al contrario deve investire sul Mezzogiorno capace di innovazione, ricerca, pulizia, che forse è nascosto ma esiste. Deve scommettere sulla possibilità che il Paese sappia imporre un cambiamento. E che da qui parta qualcosa che mostri all' intera Italia il percorso da prendere. È la nostra ultima speranza, la nostra sola risorsa. Noi ci crediamo.

"L’Italia ha bisogno di tante persone con le qualità di Angelo Vassallo per dare forza e speranza ai territori". Pubblicato venerdì, 04 settembre 2020 da Ermete Realacci su La Repubblica.it". L’Italia ha bisogno di tante persone con le qualità di Angelo Vassallo per dare forza e speranza ai territori". Angelo era un mio amico. Ogni 5 settembre è una ricorrenza triste e per me doppiamente triste: nell’estate del 2010 ero a Pollica e spesso trascorrevo i pomeriggi di vacanza con Angelo. Ci piaceva molto scherzare, a me piaceva punzecchiarlo su alcune questioni e lui stava allo scherzo. Pochi giorni prima di quella tragica notte ero con lui e di quel momento conservo una fotografia che custodirò gelosamente per sempre. Accanto a me c’è un Angelo sorridente, quel suo sorriso contagioso, sereno e rassicurante. Il sorriso tipico di uomo del Sud. Nel rivederla ricordo le risate, gli interminabili discorsi su Ernest Hemingway e su Ancel Keys, sul mare, sul pescato, sul futuro, sui progetti da portare avanti insieme, come quello di valorizzare l'identità italiana e i piccoli comuni. Angelo non può essere ricordato con una lacrima ma con un sorriso. Sono trascorsi molti anni ma non abbiamo ancora il nome dell’assassino. E questo fa molto male. Fa male al corpo e allo spirito di tutti noi. Fa male all’Italia, alla parte buona di questo Paese. Fa male a chi non si arrende, a chi crede in un ideale e fa male alla memoria di chi per un ideale ha perso la vita. Non entro nel merito della vicenda giudiziaria ma pretendo, da cittadino italiano, che si faccia chiarezza. Angelo, il “sindaco pescatore”, amava profondamente la sua terra, è stato un grande ambientalista, un visionario capace di trasformare i suoi sogni in realtà, un uomo coraggioso. L’Italia ha bisogno di tante persone con le qualità di Angelo Vassallo per dare forza e speranza ai territori e per affrontare le sfide difficili che ha davanti. A 10 anni di distanza dal 5 settembre 2010, in questo triste anniversario, il mio affettuoso saluto va alla famiglia e in particolare alla moglie Angelina, donna dolce e forte. Ad oggi le indagini sull’omicidio di Vassallo non sono ancora concluse. Un’assenza di risposte che è una sconfitta per la credibilità dello Stato e nella battaglia per la legalità”.

Omicidio Vassallo, la rabbia del fratello: "In un libro racconto la verità negata". Pubblicato venerdì, 04 settembre 2020 da Dario Del Porto su La Repubblica.it. Omicidio Vassallo, la rabbia del fratello: "In un libro racconto la verità negata". Dario non ha mai smesso di battersi per conoscere i nomi dei mandanti e degli assassini: "Sono ancora tra noi e vivono nelle istituzioni". “Il tempo delle schermaglie è finito. Adesso abbiamo il dovere di dare un nome all’assassino. E’ ancora tra di noi e vive nelle istituzioni”. Dieci anni sono passati e Dario Vassallo è ancora qua, sul porto di Acciaroli, a battersi per conoscere la verità sull’omicidio del fratello Angelo, il sindaco pescatore di Pollica ucciso il 5 settembre 2010 con nove colpi di pistola. Un delitto irrisolto sul quale Dario, medico da anni trasferito a Roma insieme all’altro fratello Massimo, ha scritto due libri. L’ultimo, redatto a quattro mani con il giornalista Vincenzo Iurillo, si intitola La verità negata. “Per chi sa leggere, in quelle pagine si può capire chiaramente chi ha ucciso Angelo", afferma Dario Vassallo.

Secondo lei chi è stato?

“Non una persona sola. Erano almeno in tre. Spero che la magistratura italiana legga questo libro, perché lì viene evidenziato come un gruppo di appartenenti allo Stato abbia tenuto in questi anni comportamenti non idonei al ruolo. All'autorità giudiziaria chiedo di accertare anche un’altra cosa”.

Quale?

“Voglio sapere se questi uomini delle istituzioni hanno agito da soli, oppure insieme. Io penso che un sistema abbia depistato le indagini. Ma è una mia idea, tocca a giudici e pm accertarlo".

Nelle indagini sono stati coinvolti più appartenenti all’Arma dei carabinieri. Alcuni sono stati ascoltati come testi, altri sono stati indagati e poi la loro posizione è stata archiviata. Un ex sottufficiale, Lazzaro Cioffi, è stato l’ultimo in ordine di tempo ad essere messo sotto inchiesta e l’esito di questo filone non è ancora conosciuto. Che cosa le ha detto il comandante generale Giovanni Nistri quando l’ha incontrata assieme a suo fratello Massimo?

“Ci ha ricevuto cordialmente, abbiamo parlato a lungo. Quanto accaduto in questi anni non incrina assolutamente la nostra fiducia nell’Arma che è al nostro fianco. Se altri con la divisa hanno tenuto comportamenti sbagliati, dovrà accertarlo la magistratura".

Pensa anche lei che la chiave dell’omicidio vada ricercata nel tentativo di suo fratello di opporsi allo spaccio di droga ad Acciaroli?

“Quello è il punto di partenza. Con la droga si fanno soldi facili. E tanti. Questo porta con sé investimenti, speculazioni. Basta guardarsi intorno. Acciaroli oggi non è quella che voleva mio fratello. Ma noi, come fondazione, restiamo vigili e faremo di tutto per difendere quello che Angelo aveva creato, evitando ad esempio che i beni comuni finiscano nelle mani dei privati”.

Da quando suo fratello è stato ucciso, lei non ha mai smesso di esporsi in prima persona. Ha mai avuto paura di ritorsioni o di azioni legali?

“Gesù è morto in croce, non di freddo. E io non voglio portare questa croce sulle spalle per altri dieci anni. Per cercare la verità ho sacrificato la famiglia, ma non ci sto a passare per un vigliacco. Le minacce non mi hanno mai spaventato. E non mi riferisco alle querele”.

Che intende?

“Una notte sono entrati in casa mia, hanno rovistato fra le mie cose senza prendere nulla. Ho dovuto depositare davanti a un notaio il resoconto di una conversazione che ho avuto con un magistrato, perché ne restasse traccia se dovesse capitarmi qualcosa. Ma non mi fermo. Nessuno può comprare la mia dignità. Finché avrò voce, continuerò a chiedere giustizia per l’omicidio di mio fratello”.

Estratto dell’articolo di Petronilla Carillo per “il Mattino” il 29 luglio 2022.

Angelo Vassallo era sotto ricatto: il gruppo di napoletani legati al defunto boss Raffaele Maurelli aveva intenzione di trasformare Pollica, o meglio un lido di Acciaroli che intendevano rilevare (quindi un intero tratto di spiaggia), come punto di sbarco di enormi quantitativi di stupefacenti provenienti dall'area napoletana e che il clan D'Aquino-Annunziata aveva deciso di stoccare in un non meglio identificato deposito di Pollica. 

I napoletani avevano anche saputo che la figlia del sindaco pescatore gravitava nel mondo dello spaccio, facendo lei stessa uso di droga, e per questo motivo lo stavano ricattando psicologicamente. Vassallo voleva denunciare tutto alla procura ma, non fidandosi dei carabinieri di Pollica, sarebbe dovuto andare dai carabinieri di Agropoli a «raccontare» tutto.

L'appuntamento, in effetti, era stato fissato nella settimana precedente la sua morte, ma il comandante glielo aveva spostato, per esigenze sue di servizio, a lunedì 5 agosto. Poco dopo la mezzanotte di domenica 4 agosto, il sindaco fu ucciso. 

È questo lo scenario ricostruito dalla procura Antimafia di Salerno che ha emesso un decreto di perquisizione […] a carico di nove persone sospettate dei reati di omicidio ed associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. A loro sono stati anche sequestrati telefoni e disposizioni elettronici. 

Tra questi ci sono anche tre militari dell'Arma dei carabinieri. Si tratta del colonnello Fabio Cagnazzo, del suo «attendente» Luigi Molaro e di Lazzaro Cioffi […] già arrestato per collusioni con il clan che gestisce il traffico di droga al Parco Verde di Caivano, in provincia di Napoli. 

Quindi di Giuseppe Cipriano […] imprenditore di Scafati che ad Acciaroli in quegli anni gestiva il cinema ma che è ritenuto dalla Dda di Salerno il trait d'union tra i Ridosso, il boss Romolo e il figlio Salvatore […], ed i fratelli Domenico, Giovanni e Federico Palladino, […] imprenditori di Pollica e proprietari di diverse strutture alberghiere, b&b e locali sul territorio.

Estratto dell’articolo di Petronilla Carillo per “il Mattino” il 29 luglio 2022.

«È stato Lello o nero (all'anagrafe Raffaele Mauriello, oggi deceduto quindi non indagato) a decretare la morte di Angelo Vassallo». La pista della droga trova dunque conferma nelle carte dell'inchiesta. 

È scritto lì, nero su bianco, anche riportando alcuni frammenti di una conversazione avuta da Salvatore Ridosso, figlio del boss di Scafati, con i carabinieri. Il giovane aveva saputo di essere stato tirato in gioco nella vicenda dell'omicidio ed è stato lui a voler parlare con gli investigatori per raccontare la sua verità. 

È stato lui a parlare del coinvolgimento dei militari dell'Arma nella vicenda Vassallo. È Salvatore Ridosso a parlare di una relazione tra l'ufficiale, Fabio Cagnazzo, e la figlia del sindaco; del coinvolgimento di un altro carabiniere di Castello di Cisterna (Lazzaro Cioffi, ndr) che avrebbe presentato a lui e al padre il colonnello perché potessero fornirgli informazioni di natura investigativa, sempre lui li avrebbe «caricati» entrambi in auto per fare un sopralluogo investigativo. […]

“Provammo inutilmente a corrompere il sindaco Vassallo perché tacesse sulla droga”. Dario del Porto su La Repubblica il 29 Luglio 2022.

I verbali dell'inchiesta sul delitto. In un’intercettazione la moglie di Cioffi dice: “È venuto fuori solo il nome di mio marito. Cagnazzo teneva la casa là. Li faccio io i nomi, parlo io...”

È l’inchiesta sull’omicidio del sindaco pescatore di Pollica Angelo Vassallo, ma sembra la trama di una puntata di Narcos. Eppure non siamo in Messico né in Colombia. Qui non è Juarez, né Medellin. Siamo in Cilento, ad Acciaroli.

I gommoni carichi di droga. Proprio in riva al mare bandiera blu famosa in tutto il mondo che il sindaco Vassallo amava e cercava di difendere, arrivavano enormi quantitativi di stupefacenti.

Dario Del Porto per “la Repubblica” il 29 luglio 2022.

Un sindaco tradito da chi doveva difenderlo. Ucciso con 9 colpi di pistola calibro 9.21 perché voleva denunciare un traffico di stupefacenti nel quale non erano coinvolti solo camorristi, ma anche imprenditori e uomini delle forze dell'ordine. 

Sembra la trama di una puntata di Narcos . Ma qui non siamo in Messico né in Colombia. Siamo in Cilento, ad Acciaroli, davanti al mare bandiera blu famoso in tutto il mondo, e questa è la ricostruzione che ha spinto la Procura di Salerno diretta da Giuseppe Borrelli a far ripartire con nove perquisizioni l'inchiesta sull'assassinio di Angelo Vassallo, il sindaco pescatore di Pollica, ammazzato la sera del 5 settembre 2010. 

Con l'accusa di concorso in omicidio sono indagati tre carabinieri: il colonnello Fabio Cagnazzo, già investigatore di punta a Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, ed ex comandante provinciale di Frosinone, il suo ex attendente Luigi Molaro e Lazzaro Cioffi, che ha lasciato l'Arma ed è stato condannato a 15 anni per collusioni con i narcotrafficanti del Parco Verde di Caivano.

Poche ore dopo che il sindaco era stato ammazzato, Cagnazzo e Molaro, in quel momento ad Acciaroli come semplici turisti, avrebbero messo in piedi un depistaggio allo scopo di «indirizzare le attività investigative » su persone innocenti, a cominciare dallo spacciatore italo-brasiliano Bruno Humberto Damiani, acquisendo senza alcuna delega le telecamere della videosorveglianza. 

Per il delitto sono indagati anche l'ex boss della camorra, oggi collaboratore di giustizia, Romolo Ridosso, il figlio Salvatore e l'ex titolare di cinema in Cilento Giuseppe Cipriano: avrebbero effettuato un sopralluogo due giorni prima del delitto. 

Secondo la Procura, il colonnello Cagnazzo e Cioffi erano «attivamente coinvolti» con una famiglia di imprenditori cilentani, Domenico, Giovanni e Federico Palladino, rispettivamente 53, 51 e 44 anni, nel traffico di droga che Vassallo aveva scoperto e che era deciso a denunciare: gommoni carichi di droga che il cartello camorrista degli Scissionisti di Secondigliano inviava da Castellammare al porto di Acciaroli, dove lo stupefacente veniva scaricato e smistato verso la Calabria.

Quell'affare aveva sconvolto il sindaco, che ne era stato colpito sia come amministratore, in prima linea per la difesa del suo territorio, sia sul piano personale, quando aveva capito che l'allora fidanzato della figlia era finito nel giro dello spaccio. 

Ma Vassallo si era trovato davanti a un muro di gomma, tanto da chiedere a un paio di vigili urbani, «evidentemente non fidandosi del locale presidio dei carabinieri», di accompagnarlo sul posto per mandare via gli spacciatori.

Quattro anni dopo il delitto, l'ex boss Ridosso renderà alcune confidenze a due investigatori per allontanare da sé i sospetti di aver recitato un ruolo nell'omicidio. Timori determinati dalle voci sul coinvolgimento nel caso di Cioffi, indagato formalmente solo anni dopo. Ridosso racconterà della droga che partiva da Secondigliano.

Aggiungerà che il sindaco voleva denunciare tutto ed era stato avvicinato da Raffaele Maurelli, esponente dei clan di Secondigliano indicato come il regista del narcotraffico, poi deceduto. Vassallo non aveva «ceduto a un tentativo di corruzione per tacere sulla vicenda » e per questo sarebbe stato ammazzato. 

Sulle confidenze di Ridosso i pm sono cauti, soprattutto perché prova a tirarsi fuori. Ma hanno «fondate ragioni di ritenere» che Vassallo sia stato ucciso «per impedirgli di rivelare » ciò che sapeva sul traffico di droga. Cagnazzo, che conosceva personalmente il sindaco ed era amico della figlia, era già stato indagato per il delitto con Molaro, ma il fascicolo era stato poi archiviato su richiesta della Procura. «Chiariremo l'assoluta estraneità del mio assistito », dice la sua avvocata Ilaria Criscuolo. 

Agli atti c'è anche un'intercettazione del 2018 in cui la moglie di Cioffi, poco dopo il coinvolgimento del marito nell'inchiesta, minaccia di «tirare dentro tutta la squadra». E si lamenta: «È venuto fuori solo il nome suo... Cagnazzo teneva la casa là.

Glieli vado a fare io i nomi. Se è così, io parlo. Non me ne fotto proprio. Solo mio marito?».

Titti Beneduce per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 28 luglio 2022.

Potrebbero essere a una svolta dopo 12 anni le indagini sull’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, ucciso in circostanze misteriose nel settembre del 2010. Questa mattina i carabinieri del Ros hanno infatti eseguito un decreto di perquisizione emesso dalla Procura di Salerno, guidata da Giuseppe Borrelli. 

Tra gli indagati c’è il colonnello dei carabinieri Fabio Cagnazzo, che all’epoca dell’omicidio trascorreva le vacanze a Pollica ed ebbe una breve relazione con la figlia di Vassallo, Giusy. Perquisita la sua abitazione a Frosinone, dove ora vive. Nove persone sono indagate a vario titolo, come si legge in una nota a firma dello stesso procuratore. 

I reati ipotizzati sono omicidio e associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Trova conferma dunque l’ipotesi che si era fatta strada fin da subito: Vassallo fu assassinato perché si opponeva allo spaccio di droga nel suo Comune.

Si indaga anche sui depistaggi

Le indagini, si legge ancora nella nota, vertono anche sui clamorosi depistaggi che per tutto questo tempo hanno impedito di fare luce sul delitto. In passato era stato iscritto nel registro degli indagati il brigadiere dei carabinieri Lazzaro Cioffi, per molti anni in servizio al nucleo investigativo di Castello di Cisterna e arrestato poi per traffico di droga, che è tra le persone che sono state perquisite. Era stato stretto collaboratore di Cagnazzo. 

La collaborazione con la Dda di Napoli

Il decreto di perquisizione, ha spiegato Borrelli, si basa su «una parte degli elementi raccolti in più di un decennio di attività investigative svolte dalla procura di Salerno fin dall’indomani del delitto. Indagini che hanno beneficiato, peraltro, di un proficuo collegamento investigativo con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli». 

Un collegamento che ha consentito di utilizzare i risultati di attività tecniche svolte dalla Dda napoletana nell’ambito di altre inchieste. 

Il brigadiere genero del boss

Tra le persone indagate e perquisite figura anche l’imprenditore Giuseppe Cipriano, imprenditore che ha gestito il cinema di Pollica e già interrogato in passato. Il colonnello Fabio Cagnazzo e il brigadiere Lazzaro Cioffi hanno lavorato assieme per molti anni quando l’ufficiale comandava il nucleo operativo del gruppo di Castello di Cisterna.

Un ufficio delicato, cuore delle più importanti indagini sulla criminalità organizzata e non: eppure della squadra faceva parte Cioffi, il cui suocero, Domenico D’Albenzio, referente del clan Belforte per il territorio di Maddaloni, ha scontato 23 anni di carcere per omicidio aggravato dalle finalità mafiose. 

Cioffi, che nel 2006 aveva avuto un encomio solenne per aver contribuito all’arresto di 19 spacciatori tra Caivano, Acerra, Casalnuovo e Carinaro, era stato arrestato nell’aprile del 2018 per traffico di stupefacenti aggravato dalle finalità mafiose: secondo l’accusa aveva un ruolo importante nel sodalizio guidato da Pasquale Fucito, personaggio che ha una posizione dominante nella vendita di cocaina (guardacaso) a Caivano e in altri centri della provincia di Napoli.

Delitto Vassallo, la svolta 12 anni dopo: «Voleva denunciare il traffico di droga». Titti Beneduce su Il Corriere della Sera il 28 luglio 2022. 

Fra gli indagati anche due carabinieri e un colonnello che aveva una relazione con la figlia della vittima

Dopo dodici anni di misteri e depistaggi si squarcia finalmente il velo che ha coperto l’omicidio del sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, «il sindaco pescatore» che nella fiction era interpretato da Sergio Castellitto. Per la Procura di Salerno, Vassallo è stato assassinato perché aveva scoperto che in paese arrivava droga via mare, aveva capito che il traffico era gestito anche da carabinieri infedeli e si preparava a denunciare tutto; una pista esplorata fin dal primo momento, oggetto di libri e inchieste giornalistiche, ma che solo ora viene battuta in maniera ufficiale. Nove decreti di perquisizione sono stati eseguiti giovedì dai carabinieri del Ros. Tra gli indagati c’è un nome eccellente: quello del colonnello dei carabinieri Fabio Cagnazzo, investigatore brillante e stimato che ha comandato a lungo il nucleo operativo dei carabinieri di Castello di Cisterna, in provincia di Napoli, un ufficio strategico, cui vengono delegate delicatissime inchieste di criminalità organizzata.

Camorra

Il procuratore Giuseppe Borrelli e l’aggiunto Marco Colamonici gli contestano l’omicidio e l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Gli stessi reati contestati ad altri due carabinieri suoi fedelissimi, entrambi già condannati nell’ambito di altri procedimenti giudiziari: Luigi Molaro e Lazzaro Cioffi. Quest’ultimo fu arrestato nel 2018 per traffico di stupefacenti aggravato dalle finalità mafiose, ma ciò che sconcerta è che abbia prestato servizio per circa 20 anni a Castello di Cisterna nonostante fosse il genero di Domenico D’Albenzio, esponente di spicco del clan camorristico Belforte. Tanto Cagnazzo quanto Cioffi e Molaro erano in vacanza ad Acciaroli (frazione di Pollica) quel 5 settembre del 2010, quando il sindaco fu ucciso.

Traffico di droga

Lo scenario tratteggiato dalla Procura di Salerno è pauroso: i carabinieri erano tra gli organizzatori di un traffico di droga che, acquistata nel quartiere napoletano di Secondigliano, arrivava poi al porto di Castellammare di Stabia; qui, a bordo di gommoni veniva spedita ad Acciaroli, da dove, ancora, una parte invadeva il Cilento e la Calabria. Un affare redditizio, che Vassallo aveva scoperto e non era disposto a tollerare: infatti, spiega la Dda, Vassallo, non fidandosi più dei carabinieri, «aveva affidato ad alcune unità della polizia municipale servizi di appostamento sul porticciolo». «Temeva per la sua incolumità» e aveva deciso di denunciare, prendendo appuntamento con un ufficiale della compagnia di Agropoli per il 6 settembre, ma la sera prima venne ucciso.

I depistaggi

A rendere la notizia del coinvolgimento dei carabinieri ancora più bruciante per Vassallo, il fatto che Cagnazzo avesse a quell’epoca una relazione con sua figlia Giusy. Ma l’aspetto più odioso della vicenda è quello dei depistaggi con cui, secondo la ricostruzione delle Procura che emerge dalle carte, i carabinieri (e Cagnazzo in particolare) hanno cercato di sviare le indagini: all’inizio il colonnello provò ad accreditare la pista passionale, poi redasse un’informativa in cui puntava l’indice contro un pregiudicato italo-brasiliano, Bruno Humberto Damiani, noto trafficante di droga che è stato indagato e poi archiviato per due volte.

I video manipolati

Nelle ore successive all’omicidio del sindaco i carabinieri di Castello di Cisterna, che erano in ferie, si trovavano in vacanza ad Acciaroli e non avevano alcuna delega da parte dell’autorità giudiziaria, prelevarono arbitrariamente le immagini delle telecamere di videosorveglianza di un negozio della piazza con la scusa di preservarle. Poi le manipolarono e sulla base di quella manipolazione l’ufficiale redasse l’informativa in cui segnalava Damiani. Nel decreto di fermo c’è la dedica che Cagnazzo fece a Cioffi pochi mesi dopo il delitto su una propria fotografia: «A Lazzaro, custode della mia serenità e della mia forza! Generale delle truppe esemplare e leale fino alla morte! Con infinita riconoscenza!». E i pm avvertono: «L’Ufficio si riserva la completa ed esaustiva discovery degli elementi di prova acquisiti». Come a dire, in mano abbiamo molto di più.

Uno spiraglio

«Finalmente dopo dodici anni si apre uno spiraglio di luce. Come avvocato dei fratelli di Vassallo non posso che esprimere speranza e soddisfazione perché stavamo perdendo la speranza»: questo il commento dell’avvocato Antonio Ingroia, che assiste i fratelli del sindaco ucciso.

Quella breve telefonata senza risposta, per i giudici “inquietante”: i dettagli dell’inchiesta Vassallo. Antonio Emanuele Piedimonte su La Stampa il 29 luglio 2022.

Una brevissima telefonata senza risposta, una circostanza apparentemente marginale, che però i magistrati dell’Antimafia di Salerno definiscono «inquietante». Il giorno dopo il terremoto giudiziario che ha riportato sotto i riflettori la tragica morte del “sindaco-pescatore”, emergono dettagli da brividi e lo scenario che va dipanandosi appare sempre più sconcertante. È la notte del 5 settembre 2010, esattamente due minuti dopo l’assassinio di Angelo Vassallo dal cellulare del carabiniere Luigi Molaro parte una chiamata diretta al tenente colonnello Fabio Cagnazzo. I due si conoscono molto bene, lavorano insieme, sono amici e sono entrambi in vacanza nel paesino cilentano, dove l’ufficiale è piuttosto noto anche per una relazione sentimentale con la figlia del sindaco. Perché quei due squilli in quel preciso momento? Casualità? Gli inquirenti pensano piuttosto a un “segnale”. Pur essendo in villeggiatura, dopo l’agguato i due militari si danno un gran daffare. A loro dire per aiutare i colleghi in servizio, a giudizio degli investigatori solo per sviare le indagini, sino al punto di prelevare e manipolare dei video. Il motivo? L’ha spiegato il procuratore capo di Salerno Giuseppe Borrelli: «...indirizzare le investigazioni nei confronti di soggetti risultati poi del tutto estranei all’omicidio». Un depistaggio in piena regola, anzi, senza regole visto che i due si sono attivati motu proprio e hanno operato senza alcuna autorizzazione. Chi volevano proteggere? Da quello che sinora è venuto fuori, sembra che in quella stagione buia la sino ad allora tranquilla località balneare campana fosse diventata una base strategica per il narcotraffico. Partiti da Napoli, i gommoni carichi di droga facevano tappa in un luogo insospettabile prima di ripartire per la Calabria. Pare anche grazie alle “competenze” di un altro militare infedele, il brigadiere Lazzaro Cioffi, recentemente condannato a 15 anni proprio per fatti di droga nel Napoletano. Sono di Scafati, invece, i due camorristi finiti nell’inchiesta: Romolo e Salvatore Ridosso. A completare la squadra, tre imprenditori autoctoni che, secondo l’accusa, erano perfettamente inseriti nel business, i fratelli Domenico, Giovanni e Federico Palladino. Scenari più volte evocati dalla famiglia di Angelo Vassallo e in particolare dal fratello Dario, che ieri, al termine delle visite ai suoi pazienti, ha raccontato alla Stampa le sue prime impressioni dopo la clamorosa svolta nelle indagini. Dottore, un giorno importante. «È un giorno importante, ma non è un giorno felice». Perché? «Perché quando s’indaga un’istituzione come l’Arma dei carabinieri non può mai esserlo. E tuttavia in questo caso andava fatto e ci volevano dei magistrati in grado di farlo. Mi riferisco al procuratore capo Giuseppe Borrelli e al sostituto Marco Colamonici, entrambi coraggiosi e liberi da legami, legacci o altri possibili freni istituzionali». In linea con quanto scritto nei suoi libri, lei sposa in pieno l’ipotesi che suo fratello sia stato ucciso perché voleva fermare il malaffare a Pollica. «Sì, io non ho alcun dubbio. Anche se, va detto con chiarezza, questo è solo il punto di partenza, non quello di arrivo». In che senso? «Ci sono ancora tante cose su cui far luce». Per esempio? «È normale che un imprenditore coinvolto in fatti di droga faccia il consigliere comunale? E perché per tanti anni non si è guardato anche in altre direzioni?». Cioè? «Dovrei parlare del “Sistema Cilento” ma ho detto tutto ai magistrati e per adesso è materiale ancora secretato. A chiarire ogni cosa, sono sicuro, saranno gli esiti delle indagini, io posso solo dirle che stiamo parlando di milioni di euro». Un business notevole, posso chiederle dove l’ha estrapolato? «Guardi, le do un’indicazione che può aiutare a capire: solo nel 2021 e solo nel mio paese sono stati spesi 6 milioni di euro con i giochi d’azzardo online, le slot-machine e simili. Dati ufficiali facilmente verificabili». Torniamo all’indagine. Una svolta che arriva dopo 12 anni, qual è la sua impressione? Hanno imboccato la strada giusta? È la volta buona?». «Credo sia la volta buona, si. Ma, ripeto, comunque è solo l’inizio».

Omicidio Vassallo, svolta 12 anni dopo: due militari tra gli indagati. Nove persone coinvolte nell'inchiesta coordinata dalla Dda di Salerno. Il sindaco di Pollica ucciso per aver scoperto un traffico di droga nel porto di Acciaroli. Il Dubbio il 29 luglio 2022.

Il sindaco di Pollica (Salerno) Angelo Vassallo sarebbe stato ucciso nel 2010 per impedire che denunciasse un traffico di sostanze stupefacenti di cui era giunto a conoscenza e che avveniva nel porto di Acciaroli, frazione del comune di Pollica. Questa l’ipotesi alla base delle indagini della Dda di Salerno culminate ieri con l’esecuzione di un decreto di perquisizione nei confronti di 9 persone, indagate a vario titolo per i reati di omicidio e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti.

Omicidio Vassallo, chi sono gli indagati

Tra queste anche il colonnello Fabio Cagnazzo e l’ex carabiniere Lazzaro Cioffi, che era già indagato per il delitto ed è stato di recente condannato a 15 anni di carcere per concorso esterno in traffico internazionale di droga e altri reati. Secondo la Procura di Salerno la prima fase delle indagini fu caratterizzata da depistaggi, in particolare per quanto riguarda i video delle telecamere di videosorveglianza del porto di Acciaroli, acquisiti da Cagnazzo, di sua iniziativa, poche ore dopo il delitto. In un primo momento, le piste più battute furono quella camorristica, soprattutto per le modalità dell’esecuzione, quella di interessi sullo sviluppo edilizio del territorio, e quella della droga.

Nel luglio 2018, il pm Leonardo Colamonici ha notificato un avviso di garanzia per rendere interrogatorio da indagato a Cioffi, che dal 1991 fino a pochi mesi prima di essere arrestato ha lavorato nel nucleo investigativo di Castello di Cisterna, lo stesso di cui era a capo il colonnello Cagnazzo, che ha avuto una breve relazione con Giusy, una dei due figli di Vassallo, e che la sera dell’omicidio era ad Acciaroli. Cagnazzo venne indagato e poi prosciolto dai pm salernitani. Una lettera anonima alla redazione della trasmissione di Mediaset “Le Iene” nel 2019 tirò di nuovo in ballo il suo nome insieme a quello di Cioffi. Nel frattempo la famiglia di Vassallo non ha mai smesso di chiedere che si trovassero i responsabili dell’omicidio. 

Nove indagati dopo 12 anni: il giallo delle telecamere.

Omicidio Angelo Vassallo, indagati i carabinieri per la morte del sindaco: nel mirino depistaggi, droga e telecamere. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2022.  

Angelo Vassallo, il “sindaco pescatore“, ucciso perché era venuto a conoscenza di un traffico di droga che gravitava attorno al porto di Acciaroli. E’ questa l’ipotesi investigativa che ha portato, a 12 anni dall’omicidio, la Procura di Salerno a indagare nove persone per omicidio e associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Nelle scorse ore i carabinieri del Ros di Roma e quelli di Salerno hanno eseguito un decreto di perquisizione nei confronti degli indagati ritenuti coinvolti nell’omicidio del sindaco di Pollica, comune cilentano in provincia di Salerno.

Vassallo venne ucciso a colpi d’arma da fuoco la notte del 5 settembre 2010, ad Acciaroli, mentre tornava a casa a bordo della sua auto. Poche settimane dopo avrebbe compiuto 57 anni. Le nuove indagini, spiega il procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli in una nota, riguardano anche “lo svolgimento e le reali finalità” di una serie di attività investigative messe in atto subito dopo il delitto, e senza delega da parte della competente Procura salernitana, “che ebbero quale effetto quello di indirizzare le investigazioni nei confronti di soggetti risultati poi del tutto estranei all’omicidio”.

Il decreto di perquisizione si basa su “una parte degli elementi raccolti in più di un decennio di attività investigative svolte dalla procura di Salerno fin dall’indomani del delitto. Indagini che hanno beneficiato, peraltro, di un proficuo collegamento investigativo con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli”. Il procuratore della Repubblica di Salerno precisa che le ultime ipotesi investigative sono “suscettibili di ulteriore verifica nel corso del procedimento, anche alla luce delle complessive acquisizioni probatorie, tuttora coperte da segreto investigativo”.

Tra gli indagati – così come riporta l’agenzia Agi – il colonnello dei carabinieri, Fabio Cagnazzo, all’epoca dei fatti in servizio a Castello di Cisterna e in vacanza ad Acciaroli. La sua abitazione a Frosinone è stata perquisita. Il militare era stato già indagato in passato prima dell’archiviazione chiesta dagli stessi pm di Salerno. Tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto, Cagnazzo aveva acquisito le immagini di videosorveglianza presenti nel porto cilentano giustificando l’iniziativa con l’esigenza di salvaguardare i filmati.

Anche un ex brigadiere dei carabinieri risulta tra i nove indagati: si tratta di Lazzaro Cioffi, condannato in primo grado a 15 anni per concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con i trafficanti di droga del Parco Verde di Caivano (clan Sautto-Ciccarelli). Era a capo della speciale squadra alle dirette dipendenze del comandante del nucleo investigativo di Castello di Cisterna, Cagnazzo. Per l’omicidio del sindaco pescatore alcuni carabinieri agli ordini di Cagnazzo acquisirono in maniera del tutto irrituale alcune immagini di una telecamera di sicurezza. Il dubbio dei pm salernitani è che Cioffi fosse ad Acciaroli così come Cagnazzo.

Tra gli indagati – riporta invece Il Mattino – ci sarebbe anche Giuseppe Cipriano, un imprenditore di Scafati che all’epoca dei fatti gestiva il cinema di Acciaroli.

Nove indagati dopo 12 anni: il giallo delle telecamere. Omicidio Angelo Vassallo, indagati i carabinieri per la morte del sindaco: nel mirino depistaggi, droga e telecamere. Redazione su Il Riformista il 28 Luglio 2022. 

Angelo Vassallo, il “sindaco pescatore“, ucciso perché era venuto a conoscenza di un traffico di droga che gravitava attorno al porto di Acciaroli. E’ questa l’ipotesi investigativa che ha portato, a 12 anni dall’omicidio, la Procura di Salerno a indagare nove persone per omicidio e associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Nelle scorse ore i carabinieri del Ros di Roma e quelli di Salerno hanno eseguito un decreto di perquisizione nei confronti degli indagati ritenuti coinvolti nell’omicidio del sindaco di Pollica, comune cilentano in provincia di Salerno.

Vassallo venne ucciso a colpi d’arma da fuoco la notte del 5 settembre 2010, ad Acciaroli, mentre tornava a casa a bordo della sua auto. Poche settimane dopo avrebbe compiuto 57 anni. Le nuove indagini, spiega il procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli in una nota, riguardano anche “lo svolgimento e le reali finalità” di una serie di attività investigative messe in atto subito dopo il delitto, e senza delega da parte della competente Procura salernitana, “che ebbero quale effetto quello di indirizzare le investigazioni nei confronti di soggetti risultati poi del tutto estranei all’omicidio”.

Il decreto di perquisizione si basa su “una parte degli elementi raccolti in più di un decennio di attività investigative svolte dalla procura di Salerno fin dall’indomani del delitto. Indagini che hanno beneficiato, peraltro, di un proficuo collegamento investigativo con la Direzione distrettuale antimafia di Napoli”. Il procuratore della Repubblica di Salerno precisa che le ultime ipotesi investigative sono “suscettibili di ulteriore verifica nel corso del procedimento, anche alla luce delle complessive acquisizioni probatorie, tuttora coperte da segreto investigativo”.

Tra gli indagati – così come riporta l’agenzia Agi – il colonnello dei carabinieri, Fabio Cagnazzo, all’epoca dei fatti in servizio a Castello di Cisterna e in vacanza ad Acciaroli. La sua abitazione a Frosinone è stata perquisita. Il militare era stato già indagato in passato prima dell’archiviazione chiesta dagli stessi pm di Salerno. Tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto, Cagnazzo aveva acquisito le immagini di videosorveglianza presenti nel porto cilentano giustificando l’iniziativa con l’esigenza di salvaguardare i filmati.

Anche un ex brigadiere dei carabinieri risulta tra i nove indagati: si tratta di Lazzaro Cioffi, condannato in primo grado a 15 anni per concorso esterno in associazione mafiosa per i suoi rapporti con i trafficanti di droga del Parco Verde di Caivano (clan Sautto-Ciccarelli). Era a capo della speciale squadra alle dirette dipendenze del comandante del nucleo investigativo di Castello di Cisterna, Cagnazzo. Per l’omicidio del sindaco pescatore alcuni carabinieri agli ordini di Cagnazzo acquisirono in maniera del tutto irrituale alcune immagini di una telecamera di sicurezza. Il dubbio dei pm salernitani è che Cioffi fosse ad Acciaroli così come Cagnazzo.

Tra gli indagati – riporta invece Il Mattino – ci sarebbe anche Giuseppe Cipriano, un imprenditore di Scafati che all’epoca dei fatti gestiva il cinema di Acciaroli.

Riaperta l’inchiesta per far luce sull'uccisione del sindaco pescatore. Il giallo sull’omicidio di Angelo Vassallo, la Procura si sveglia dopo 12 anni: camorra, carabinieri e imprenditori coinvolti. Francesca Sabella su Il Riformista il 29 Luglio 2022.

Sono passati dodici anni, dodici lunghi anni dalla brutale uccisione di Angelo Vassallo conosciuto dai più come il “sindaco pescatore”. Il suo amato mare, la sua Pollica, la voglia di legalità più forte della paura, tutti elementi che tornano prepotenti dopo dodici anni, ora che la Procura di Salerno ha deciso di riaprire le indagini sulla sua morte. Troppi depistaggi, movimenti dei Carabinieri ritenuti “irrituali” e che hanno portato a indagare su persone del tutto estranee alla vicenda.

Una storia tanto triste quanto opaca. Il sindaco pescatore sarebbe stato ucciso per impedire che denunciasse un traffico di sostanze stupefacenti di cui era giunto a conoscenza e che avveniva nel porto di Acciaroli, frazione del comune di Pollica e rinomata località turistica del Cilento. Questa l’ipotesi alla base delle indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Salerno culminate oggi con l’esecuzione di un decreto di perquisizione nei confronti di nove persone indagate a vario titolo per i reati di omicidio e di associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Le nuove indagini, spiega il procuratore della Repubblica di Salerno Giuseppe Borrelli, riguardano anche “lo svolgimento e le reali finalità” di una serie di attività investigative messe in atto subito dopo il delitto, e senza delega da parte della competente Procura salernitana, “che ebbero quale effetto quello di indirizzare le investigazioni nei confronti di soggetti risultati poi del tutto estranei all’omicidio”.

Il procuratore si riferisce all’acquisizione di video nei minuti subito dopo la sparatoria e l’uccisione del sindaco Vassallo. In particolare, è stata perquisita l’abitazione a Frosinone del colonnello dei carabinieri Fabio Cagnazzo, già indagato in passato ma poi la sua posizione era stata archiviata come richiesto dagli stessi pm salernitani. L’ufficiale avrebbe acquisito dei video delle telecamere di sorveglianza del porto cilentano poche ore dopo il delitto, circostanza che l’allora comandante del Nucleo investigativo di Castello di Cisterna ha sempre giustificato con l’esigenza di salvaguardare le immagini, ma che in questa fase viene considerata come un elemento nei suoi confronti.

Proprio Cagnazzo era stato tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto. Indagato anche l’ex carabiniere Lazzaro Cioffi, di recente condannato in primo grado per i suoi rapporti con i trafficanti di droga del Parco Verde di Caivano, il cui nome era già trapelato come legato all’indagine salernitana. Cioffi, invece, era a capo della speciale squadra alle dirette dipendenze di Cagnazzo, impegnato nelle più importanti indagini di camorra in provincia di Napoli. Il dubbio dei pm salernitani è che Cioffi fosse ad Acciaroli così come Cagnazzo. Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quel lontano 5 settembre 2010. In un primo momento, le indagini furono della procura di Vallo della Lucania, e sul luogo del delitto arrivò il pm Alfredo Greco; dopo 48 ore a proseguire fu la procura di Salerno diretta allora da Franco Roberti. Le piste più battute furono quella camorristica, soprattutto per le modalità dell’esecuzione, quella di interessi sullo sviluppo edilizio del territorio e quella della droga. A marzo 2015 Bruno Humberto Damiani, 32 anni, detto il brasiliano, è l’unico indagato per l’omicidio di Vassallo a causa dei suoi contatti con trafficanti di droga del quartiere napoletano di Secondigliano.

La sera del delitto, Bruno Damiani era con due persone che ad Acciaroli, e a rivelarlo è Luigi Molaro, un altro carabiniere finito sotto inchiesta insieme al colonnello Cagnazzo per aver prelevato la cassetta di una telecamera puntata sul porto, proprio dove il ‘brasiliano’ e i due sconosciuti avrebbero a lungo osservato Vassallo. L’uomo venne poi scagionato anni dopo. Nel luglio 2018, il Pm Leonardo Colamonici ha notificato un avviso di garanzia per rendere interrogatorio da indagato per l’omicidio a Lazzaro Cioffi, il carabiniere colluso con il clan Caivano per averne protetto le attività di narcotraffico. Mentre la procura indaga, sbaglia, chiude e riapre le indagini, c’è una famiglia che da dodici anni aspetta di sapere chi e perché ha ucciso il sindaco Vassallo. È una vicenda dolorosa per i familiari e i cittadini di Pollica, ma lo è altrettanto per tutti i cittadini che con questa giustizia che spesso scricchiola devono averci a che fare. Come pure si deve avere a che fare con tempi lunghissimi, biblici che lasciano cadere nell’oblio quel concetto alto di giustizia, della legge, del “giusto” a servizio del popolo.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

·        Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Mario Paciolla. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Mario Paciolla, nato Mario Carmine Paciolla (Napoli, 28 marzo 1987 – San Vicente del Caguán, 15 luglio 2020), è stato un giornalista, attivista e volontario italiano, assassinato durante l'esercizio delle sue funzioni di volontario delle Nazioni Unite.

Biografia. Laureato in scienze politiche presso l'Università degli Studi di Napoli "L'Orientale" nel 2014, si trasferisce in Colombia nel 2016. Per due anni opera come volontario nella Peace Brigades International, organizzazione non governativa canadese a tutela dei diritti umani. Nel 2018 inizia la collaborazione con le Nazioni Unite come volontario per la verifica del corretto svolgimento degli accordi di pace tra il Governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Il 15 luglio 2020 viene trovato senza vita nella sua casa di San Vicente del Caguán.

Sin dall'inizio la causa della morte di Mario Paciolla è risultata essere poco chiara. Ritrovato impiccato con un lenzuolo, il decesso è stato inizialmente classificato come suicidio. A seguito di una mobilitazione generale e di nuovi elementi, le autorità colombiane iniziano le indagini su quattro poliziotti, accusati di aver consentito a funzionari delle Nazioni Unite di prelevare oggetti personali della vittima. Anche la procura di Roma apre un fascicolo per chiarire la causa della morte del giovane attivista napoletano. Il caso Paciolla viene seguito dal legale Alessandra Ballerini, stesso avvocato dell'omicidio di Giulio Regeni.

DOPO DUE ANNI DI INDAGINI. La procura vuole archiviare il caso Paciolla come suicidio. La famiglia si oppone: «Siamo sconcertati». FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 19 ottobre 2022

Dopo più di due anni di silenzi sulla morte di Mario Paciolla la giustizia italiana ora intende chiudere il caso. La procura di Roma chiede di archiviarlo. La reazione della famiglia: «Siamo sconcertati, ci opporremo». Paciolla era operatore Onu e dopo uno scontro coi capi aveva paura, voleva tornare in Italia. Ma non ha fatto in tempo

«Siamo sconcertati», è il commento che arriva dalla famiglia di Mario Paciolla, il 33enne napoletano che era in Colombia come operatore delle Nazioni unite in missione di pace e che è stato trovato morto il 15 luglio 2020 nel suo appartamento a San Vicente del Caguan.

Dopo oltre due anni di silenzi, resi ancor più impenetrabili dalla scarsa collaborazione dell’Onu e dalla debole azione del governo italiano, ora la procura di Roma conclude le sue indagini nel modo più indigeribile per Anna Motta e Giuseppe Paciolla: chiede l’archiviazione del caso ed emette un responso che accredita la versione del suicidio. Versione alla quale chi era vicino a Paciolla non ha creduto sin dall’inizio, e che appare seriamente delegittimata dalle operazioni di depistaggio emerse dopo la morte dell’operatore Onu.

La famiglia Paciolla annuncia battaglia.

COSA DICE LA PROCURA

Questo mercoledì è stata notificata la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla morte di Paciolla. I magistrati romani avevano aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti, e sono state effettuate anche rogatorie per raccogliere informazioni sia dalla Colombia che dall’Onu. Ma con la richiesta di chiusura del fascicolo la procura conclude che «le verifiche svolte in questi anni non hanno portato ad elementi concreti su questa ipotesi». Per gli inquirenti la strada più accreditata resta quella del «gesto volontario». 

LA REAZIONE DELLA FAMIGLIA

Questo il commento della famiglia Paciolla: «Siamo sconcertati nell’apprendere la notizia della richiesta di archiviazione depositata dalla procura di Roma per l’omicidio di nostro figlio Mario. Noi siamo certi, anche per le indagini che abbiamo svolto, che Mario non si è tolto la vita. Ci opporremo a questa richiesta di archiviazione e ad ogni altro tentativo di inibire o intralciare la nostra pretesa di verità e giustizia».

CONTRO L’IPOTESI DEL SUICIDIO

La famiglia ha respinto da subito l’ipotesi del suicidio. «Non ci crediamo, Mario era un amante della vita», ha sempre ribadito il papà Giuseppe. «Ma la cosa più importante è che mio figlio aveva un biglietto in tasca di ritorno in Italia per il giorno 20 da Bogotà. Il volo era un volo umanitario vista la pandemia e solo l'Onu poteva preparargli i documenti per la partenza».

Il corpo di Mario viene trovato senza vita poco prima del rientro a casa dalla famiglia, dove Paciolla voleva tornare per paura. Prima di morire, aveva riferito ai genitori di essersi scontrato coi capi missione. Durante una telefonata con la famiglia, Paciolla raccontava di aver sbottato con alcuni suoi capi; riferiva di aver parlato chiaro e di essersi «ficcato in un guaio». «Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio». Da qui il volo prenotato per tornare a Napoli.

Ma la morte arriva prima. «Non erano passate 24 ore dalla consegna a New York dell’ultimo rapporto della missione di verifica delle Nazioni Unite in Colombia quando uno dei tuoi colleghi ti ha trovato morto, mio amico poeta», scriveva l’amica e giornalista colombiana Claudia Julieta Duque due anni fa. La paura che Mario Paciolla prova nei giorni che precedono la sua morte è legata a quello che succede all’interno della sua missione Onu.

«Mio figlio era terrorizzato», riferisce la madre, Anna Motta, dall’estate 2020. L’inquietudine di Mario era legata a «qualcosa che aveva visto, capito, intuito».

Luglio 2020 è tempo di pandemia, e per poter volare fino in Italia bisogna appoggiarsi a un volo umanitario, servono i documenti per la partenza «e solo l’Onu poteva prepararli a mio figlio», come ha raccontato Giuseppe Paciolla. Questo significa anche che «solo l’Onu sapeva che Mario aveva un biglietto in tasca per tornare in Italia il 20 da Bogotà».

DOPO LA MORTE

L’Onu ha inquadrato subito, anche nei suoi registri, la morte di Paciolla come un suicidio.

All’epoca il colonnello colombiano Oscar Lamprea riferisce che «la morte è avvenuta in circostanze poco chiare», parla di lacerazioni sui polsi. Sui media locali rimbalza l’ipotesi del suicidio per impiccagione, ma ci sono molte incongruenze. «Le autorità continuano a non fornirci informazioni ufficiali su questa morte», scrivono all’epoca i cronisti colombiani sul posto.

Due anni fa è l’Onu a comunicare alla famiglia che il ragazzo «si è suicidato», chiede l’autorizzazione per l’autopsia, dice che all’esame prenderà parte un certo Jaime Hernan Pedraza: ai familiari viene riferito soltanto che è un medico legale autorizzato, ma non che è il capo del dipartimento medico della missione Onu. A fine luglio 2020 anche la Farnesina dice a Domani che «all’esame ha partecipato un medico di fiducia della missione».

C’è quindi una prima autopsia, in Colombia, la pratica un medico colombiano ma assiste anche il medico Onu. L’autunno seguente l’esito filtra sulla stampa colombiana: «La morte è compatibile con il suicidio», si parla di soffocamento.

Il corpo di Paciolla arriva in Italia il 24 luglio 2020, e l’autorità giudiziaria a Roma dispone un’altra autopsia. Ma in Colombia il corpo è partito ricomposto, ricucito, svuotato degli organi e riempito.

Il verbale dell’autopsia colombiana arriva in Italia con insolito ritardo; passano settimane prima che a Roma si possano leggere le note di chi ha effettuato la prima analisi.

IL «DEPISTAGGIO»

Uno degli ultimi contatti avuti da Paciolla è stato con il responsabile sicurezza della missione, Christian Thompson, di cui Mario non si fidava più. Dopo la morte comincia «il depistaggio dell’Onu», come lo chiama la famiglia.

«Violazione di domicilio, usurpazione di funzioni pubbliche, occultamento, alterazione e distruzione di prove» sono i termini della denuncia presentata dai genitori Paciolla nel luglio 2022 alle autorità colombiane. La denuncia coinvolge anche quattro poliziotti colombiani, per quel che a Thompson lasciano fare, e un altro funzionario Onu, Juan Vásquez García, anche lui sul posto.

Il posto è l’appartamento di Paciolla, dove il corpo senza vita viene ritrovato. Non è un appartamento dato in dotazione dall’Onu, sottolineano i genitori, il che rende ancor più anomala la mossa di Thompson che, nei momenti cruciali per l’accertamento della verità, «tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo», recita la denuncia.

Il gesto più eclatante di depistaggio da parte di Thompson è quello di ripulire con candeggina la scena, la casa di Paciolla. Ma le anomalie sono numerose, e vanno dalle tracce cancellate ai documenti sottratti. Elementi cruciali per un’indagine non vengono acquisiti nel modo appropriato dai poliziotti sul posto.

La denuncia dei genitori ricostruisce che «il materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto».

Risultano tuttora scomparsi l’agenda e i quaderni dove Paciolla annotava pensieri e fatti, magari anche ciò che «aveva visto, capito, intuito» e che lo aveva sconvolto.

Sono rimasti almeno i dispositivi informatici? «Per quel che sappiamo – ha detto la mamma di Paciolla – il pc e il cellulare personali li ha la procura colombiana, ma quelli di servizio li ha l’Onu». Il mouse è stato rinvenuto, insanguinato, nella sede della missione Onu, stando alla giornalista Duque.

IL RUOLO DELL’ONU

Le Nazioni unite, che a Domani avevano detto di garantire «piena collaborazione», a chi è dentro il caso non sono parse affatto collaborative.

Quest’estate l’avvocata dei Paciolla lo ha detto pubblicamente, mentre la Farnesina lo ha fatto intendere nelle sue risposte a Domani: è stato necessario «sollecitare i competenti organismi delle Nazioni unite a una maggiore collaborazione da parte della missione in Colombia».

Nel 2021 Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, e da qui ha assunto ancor più margine di azione, anche in relazione a una vicenda che Duque ritiene cruciale. Nell’autunno 2019 l’allora ministro della Difesa colombiano si è dimesso dopo che un senatore ha mostrato le prove di un bombardamento che ha colpito anche bambini. Dalla ricostruzione di Duque, Paciolla avrebbe lavorato ai report che lo documentavano, e «per decisione di Raul Rosende, direttore della missione in cui era impegnato Mario, alcune sezioni del report sono finite nelle mani del senatore».

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Mario Paciolla, "fu omicidio": il dossier di "El Espectator" sulla sua morte. Il quotidiano colombiano rivela che il giovane cooperante napoletano aveva indagato su un bombardamento compiuto dai militari contro un villaggio di dissidenti Farc. La Repubblica il 3 settembre 2020.

Mario Paciolla, il cooperante Onu napoletano di 33 anni trovato impiccato in Colombia, a San Vicente de Caguàn, il 15 luglio scorso, aveva indagato su un bombardamento compiuto dai militari contro un villaggio di dissidenti Farc, in cui erano morti anche 7 adolescenti. Il materiale era stato fatto avere a un senatore dell'opposizione, Roy Barreras, presidente della Commissione per la pace con le Farc, che lo aveva utilizzato per mettere alla berlina il governo, e costringere alle dimissioni il ministro della Difesa, Guillermo Botero. 

Sarebbe in questo complicato dossier il movente della morte del giovane napoletano, una morte inizialmente considerata un suicidio, al quale però i genitori di lui non hanno mai creduto. È stato “El Espectador”, autorevole giornale colombiano, a pubblicare lo speciale della giornalista investigativa Claudia Julieta Duque. 

"Mario Paciolla: el costo de la caìda de un ministro?", è il titolo dell'articolo in cui si racconta del bombardamento del 29 agosto nel villaggio di Aguas Claras, nel comune di San Vicente del Caguàn, in cui morirono 7 ragazzini tra i 12 e i 17 anni; delle indagini della Missione Onu (e di Paciolla) sulle circostanze di quel bombardamento, della fuga di notizie su quel materiale e delle successive dimissioni dell'allora ministro della Difesa, Guillermo Botero. "Non mi sento più sicuro in Colombia", scriveva il giovane pochi giorni prima di morire. 

Il giovane non si sentiva più sicuro, tanto che, nel novembre 2019, durante una vacanza a Napoli, cancellò le sue foto personali e della sua famiglia dai social network, rese privato il suo account Facebook, cambiò la password e, anche se lasciò aperto il suo account Twitter, soppresse i suoi tweet; chiese a un amico di eseguire il backup dei dati del suo personal computer e al suo padre, Giuseppe Paciolla, di separare la connessione Internet del suo appartamento da quella della casa di famiglia". 

Tra il 19 e il 21 novembre, sempre in Colombia, Mario Paciolla raccontò a diverse persone vicine che lui e alcuni suoi colleghi della Missione di verifica delle Nazioni Unite assegnata all'ufficio di San Vicente del Caguàn avevano subito cyber-attacchi dopo lo scandalo che due settimane prima avevano provocato le dimissioni del ministro della Difesa, Guillermo Botero. 

"Insieme ai suoi colleghi della Missione, il volontario delle Nazioni Unite ha documentato i dettagli dell'attentato del 29 agosto nel villaggio di Aguas Claras, nel comune di San Vicente del Caguàn, contro il campo di Rogelio Bolìvar Còrdova, alias Gildardo el Cucho, in cui morirono sette minori di età compresa tra 12 e 17 anni. Attraverso denunce giornalistiche si è poi appurato che molti altri rimasero a terra". 

"Con il rigore che lo caratterizzava, Mario Paciolla era stato tra quelli incaricati di verificare le circostanze del bombardamento, in particolare la morte degli adolescenti reclutati da Cucho, comandante dei dissidenti dei fronti Farc 7, 40 e 62; e anche il successivo spostamento forzato delle loro famiglie e le minacce al funzionario portoricano, Herner Evelio Carreno, che in precedenza aveva informato l'esercito che nella zona si reclutavano minori". 

Paciolla - trovato morto nel suo appartamento il 15 luglio - si sentiva "in pericolo, tradito ed era irritato con i suoi superiori" e aveva informato anche la sua cerchia ristretta di aver chiesto il suo trasferimento in un'altra sede della Missione dopo aver appreso che, per decisione di Raùl Rosende, direttore dell'area di verifica dell'agenzia, parti dei rapporti da lui compilati erano arrivati a Roy Barreras, il senatore che con la sua denuncia e la mozione di censura contro Botero, il 5 novembre, aveva assicurato un duro colpo ai vertici militari e costretto alle dimissioni il ministro. 

Durante la sua permanenza al ministero, Botero fece pressione affinché il mandato della Missione, che si rinnova ogni settembre, non fosse approvato per il 2019. Secondo le fonti, in più di un'occasione Botero rifiutò di ricevere la Missione, e nel primo incontro ufficiale con il messicano Carlos Ruiz Massieu, capo dell'organizzazione, li ringraziò per il loro lavoro e alla fine concluse: "Continuiamo noi", espressione interpretata come il benservito". 

La decisione di far filtrare le informazioni sul bombardamento, "materiale di natura sensibile e riservata, fu presa nelle ultime settimane di ottobre da funzionari che, coordinati da Rosende, selezionarono la documentazione che sarebbe stata consegnata per il dibattito sulla mozione di censura del senatore Barreras". 

Del fatto che fosse stato consegnato materiale al senatore Barreras - il che comunque era una violazione delle norme che governano la Missione - non fu informato, Carlos Ruiz Massieu, rappresentante speciale del segretario generale Onu per la Colombia, perchè c'erano riserve su di lui (all'interno della Missione; ndr) "per la sua presunta vicinanza al governo di Ivàn Duque e all"uribismò". 

 "Non era la prima volta che Rosende nascondeva informazioni a Ruiz Massieu: in qualità di capo delle delegazioni regionali e locali della Missione, l'uruguaiano bloccava l'accesso dei rapporti al suo capo. 'Le informazioni sono oro nella polvere e chi le gestisce a piacimento è Raùl Rosendè, ha raccontato una fonte. Il fatto che la fuga di notizie fosse stata taciuta a Ruiz Massieu e che questa avesse messo in pericolo i funzionari Onu che avevano raccolto il materiale - tra i quali Mario Paciolla - spaccarono la Missione nelle settimane successive al dibattito: ci fu chi celebrò la caduta del ministro e chi, prevedendo ritorsioni da parte delle Forze Armate, denunciò la fuga di notizie e l'interruzione dei canali ufficiali di comunicazione con il governo". 

Roy Barreras, presidente della Commissione per la pace del Senato, è stato consultato da Claudia Julieta Duque a proposito di questa ricostruzione dei fatti e ha smentito di aver ricevuto alcun materiale dalla Missione di verifica delle Nazioni Unite sull'attentato a Caguàn, sostenendo che le sue fonti sono stati ufficiali dell'esercito, stanchi delle azioni militari e degli abusi da loro compiuti contro i diritti umani.

Cooperante napoletano morto in Colombia, l'ultima telefonata: "Mamma, mi sono messo in un guaio". IRENE DE ARCANGELIS La Repubblica il 18 luglio 2020.  

Mario Paciolla, il 33enne trovato senza vita nella sua casa, aveva chiamato la madre pochi giorni prima. I parenti: "Diteci come è stato ucciso". Petizione on line, raccolte 5700 firme.

"Mamma, sono molto preoccupato. Non mi piace come vanno qui le cose. Devo andarmene al più presto, c'è qualcosa di strano. Mi sono messo in un guaio. Spero di trovare al più presto un biglietto per rientrare". Sono queste le ultime parole che il napoletano trentatreenne Carmine Mario Paciolla "Marettiello", aveva detto alla madre in una telefonata intercontinentale lo scorso 11 luglio. Quindi il silenzio. 

La mattina del 15 luglio in Colombia (mezzanotte in Italia), il cooperante Onu viene trovato morto nell'appartamento di San Vincente dove viveva da solo. Tutto il resto è un mistero, per la famiglia - papà pensionato, mamma fisioterapista - del giovane residente al Rione Alto. Ma è comunque abbastanza per far dire a sua madre Anna Motta. A più di ventiquattro ore dalla notizia della morte di Mario sono molte le domande cui tutta la famiglia cerca di dare risposte logiche in attesa di conferma. Con una premessa. Una certezza: così come Mario aveva fatto capire alla madre che era successo qualcosa di molto grave, così aveva informato nei dettagli i suoi referenti dell'organizzazione che fa capo all'Onu. Dunque il movente di un omicidio sarebbe già noto ma sconosciuto ai familiari. 

Un giallo da svelare a migliaia di chilometri di distanza e solo grazie alla disponibilità di sconosciuti dall'altra parte del filo. Si tenta così di ricostruire le ultime ore del giovane dalla vita irreprensibile e, soprattutto, dedicata agli altri. Laureato in Scienze politiche, ex studente del liceo scientifico "Elio Vittorini", Mario era già da molti anni lontano dall'Italia. India, Giordania, Argentina. Poi collaboratore delle Nazioni Unite nel dipartimento colombiano di Caquetà da oramai due anni. Seguiva gli accordi di pace - in realtà trattative ad altissima tensione - tra il governo colombiano e le Farc, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia. 

Il racconto prosegue nelle parole di sua cugina Emanuela, avvocato che sta ora seguendo il suo caso. "Mario era tornato a Napoli lo scorso dicembre per la morte della nonna - dice Emanuela quindi era ripartito per la Colombia. Non parlava molto del suo lavoro, sono questioni estremamente delicate " . Poi, improvvisamente, la telefonata dell'11 luglio scorso. 

"Mi sento sporco", aveva detto alla madre Anna. " La mattina del 15 è arrivata a casa sua a San Vincente la macchina dell'Onu. Avrebbe dovuto accompagnarlo a Florencia per poi raggiungere Bogotà e partire per l'Italia. Ma lo hanno trovato morto e non sappiamo neanche come - continua Emanuela - Siamo riusciti a parlare con l'ambasciatore della Colombia e siamo certi che se è successo qualcosa certo non ha commesso lui qualche errore. Mario era una persona estremamente ligia al dovere, non sopportava alcun tipo di ingiustizia. E poi lavorava in un team, sappiamo che qualche giorno fa aveva accompagnato alcune autorità locali in una zona rurale, ma non sappiamo cosa stava seguendo esattamente. Certo è però che con il Covid stava lavorando in smart working, quindi stava quasi sempre a casa". 

Vicenda che conduce inevitabilmente ai guerriglieri delle Farc, mentre una petizione su change. org per chiarire le cause della morte di Mario ha già raccolto 7.500 firme. Intanto la famiglia aspetta notizie, ha saputo che è in corso l'autopsia, dovrà organizzarsi per il rientro della salma in Italia. La Procura della Repubblica di Napoli potrebbe nelle prossime ore aprire un fascicolo sulla morte di Mario. Interviene anche il sindaco Luigi de Magistris: " Ho preso contatti con la famiglia - attraverso una loro portavoce - per esprimere loro innanzitutto il dolore, lo sgomento della città e la profonda solidarietà non solo alla famiglia Paciolla ma anche ai suoi amici, a quelli che accanto a Mario hanno sempre lottato strenuamente per la difesa dei più deboli e per l'affermazione delle libertà dei popoli". "Ce lo hanno ammazzato - dice mamma Anna, circondata dall'affetto del marito Giuseppe, delle due sorelle maggiori di Mario e dai parenti arrivati a Napoli da diverse città d'Italia - Vogliamo la verità".

Senato della Repubblica Legislatura 18 Atto di Sindacato Ispettivo n° 3-01819 Atto n. 3-01819 

Pubblicato il 22 luglio 2020, nella seduta n. 243

Svolto nella seduta n. 244 dell'Assemblea (23/07/2020) 

RUOTOLO , DE PETRIS , ERRANI - Al Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale. - Premesso che:

il 15 luglio 2020, una settimana fa, Mario Carmine Paciolla, 33 anni, napoletano, è stato ritrovato privo di vita presso la propria abitazione a San Vicente del Caguan, località a 650 chilometri da Bogotà nel dipartimento colombiano del Caqueta Colombia. Il connazionale era cooperante ONU ed era impegnato da due anni con le Nazioni Unite, in un progetto che mirava a riconvertire gli ex combattenti al lavoro nei campi e svolgeva il monitoraggio per il rispetto degli accordi di pace tra il Governo colombiano e le FARC, le Forze armate rivoluzionarie della Colombia;

a quanto si apprende dalla stampa locale, le autorità colombiane non escludono che Paciolla si sia suicidato per impiccagione, circostanza che non trova riscontro ed è smentita dalle testimonianze delle organizzazioni cooperanti in Colombia e dalla stessa famiglia del giovane, che pochi giorni fa su iniziativa della missione ONU ha preso parte a una videoconferenza con il viceprocuratore generale Martha Janeth Mancera e l'ambasciatore italiano Gherado Amatuzzi;

stando a quanto sta emergendo da notizie di stampa, in queste ore convulse, sono completamente diversi le ricostruzioni e i dettagli, che escludono categoricamente il suicidio. Sul cadavere di Mario Carmine Paciolla, come riportano gli organi e agenzie di stampa, ci sarebbero evidenti segni di violenza, in particolare, "tagli provocati da coltelli o da lame acuminate che non sono state trovate in casa. Vene squarciate, non tagliate in modo chirurgico, un segno che rimanda a coltelli con denti spessi o qualcosa di simile, che non è stato refertato dagli organi di polizia giudiziaria intervenuti sul luogo del delitto";

l'11 luglio, nel corso di una telefonata intercorsa tra Mario Carmine Paciolla e la madre, egli aveva manifestato una certa preoccupazione per "alcune cose accadute", "un qualcosa di strano" e per "un guaio" non meglio specificato.

il 33enne aveva evidenziato, inoltre, di aver acquistato i biglietti per rientrare presto, il 20 luglio, in Italia, esprimendo il desiderio, una volta giunto a Napoli, di fare il bagno a Marechiaro;

Paciolla, laureato all'università "Orientale" di Napoli, era un operatore qualificato ed esperto. Conosceva il territorio, aveva solide relazioni e sapeva districarsi nei quartieri difficili, come la periferia di San Vicente, barrio Villa Ferro dove era alle prese anche con problemi umanitari, come quello legato allo sfruttamento della popolazione in un regime di narcoeconomia. Si tratta di un contesto difficile e da decifrare e da Napoli, città natale di Paciolla, è subito partita una forte mobilitazione per chiedere verità e giustizia. In pochi giorni sulla piattaforma "Change" sono state raccolte oltre 50.000 firme;

appare dunque impellente procedere, come la magistratura italiana sta già facendo, alla raccolta di quante più possibili prove testimoniali, e di seguire passo passo le indagini in Colombia,

si chiede di sapere, visti la gravità dei fatti e il turbamento e lo sconcerto nell'opinione pubblica italiana, quali siano gli intendimenti attuali del Ministro in indirizzo, nei confronti del Governo colombiano, e le iniziative che intende adottare affinché si svolgano le opportune indagini per giungere a risposte convincenti, per la ricerca della verità e della giustizia per la morte del nostro connazionale Mario Carmine Paciolla.

Interrogazione parlamentare - P-004338/2020 Parlamento Europeo

Morte del funzionario delle Nazioni Unite Mario Paciolla in Colombia 22.7.2020

Risposta scritta

Interrogazione prioritaria con richiesta di risposta scritta P-004338/2020

al vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza

Articolo 138 del regolamento

Massimiliano Smeriglio (S&D), Pietro Bartolo (S&D), Brando Benifei (S&D), Andrea Cozzolino (S&D), Elisabetta Gualmini (S&D), Pierfrancesco Majorino (S&D), Pina Picierno (S&D), Giuliano Pisapia (S&D), Franco Roberti (S&D), Patrizia Toia (S&D), Giuseppe Ferrandino (S&D), Irene Tinagli (S&D)

Abbiamo recentemente appreso dalla stampa della tragica morte di Mario Paciolla, giovane cittadino italiano trovato morto il 15 luglio 2020 nella sua abitazione a San Vicente di Caguán. Mario Paciolla era in Colombia in qualità di funzionario sul campo nell'ambito della seconda missione di verifica delle Nazioni Unite nel dipartimento di Caquetá ed era impegnato in un progetto di pace interno tra il governo locale e le FARC.

Dopo aver inizialmente trattato la sia morte come un caso di suicidio, l'ufficio del procuratore distrettuale ha aperto un'indagine per omicidio. Le informazioni finora ottenute sono state confermate dal governo italiano, il quale ha anche annunciato di essere in contatto con la squadra responsabile della missione delle Nazioni Unite.

1.È il VP/AR a conoscenza di questo grave caso e dei suoi sviluppi?

2.Intende sollevare con urgenza il caso presso le autorità colombiane e chiedere lo svolgimento delle indagini necessarie a tutti i livelli per stabilire la verità dietro a questa morte inaspettata?

Chi era Mario Paciolla e perché un anno dopo la sua morte nessuno si ricorda di lui. Il cooperante napoletano era stato trovato senza vita nella sua casa in Colombia, dove si trovava per un progetto Onu; la tesi del suicidio non ha mai convinto. A un anno dalla morte la famiglia chiede verità. Elio Tedone su Agi il 26 luglio 2021

Sono trascorsi 376 giorni dalla morte di Mario Paciolla, il cooperante delle Nazioni unite che ha perso la vita nella sua casa di San Vicente del Caguàn, dove era impegnato come osservatore per il rispetto degli accordi di pace in Colombia.

Dopo oltre un anno la vicenda è ancora avvolta da un grande mistero. La polizia colombiana e l'Onu hanno parlato di un suicidio, ma questa prima versione non ha mai convinto, soprattutto i genitori del 33enne napoletano, che si dicono certi dell'uccisione del figlio, che conosceva bene quel territorio, come dimostrano gli articoli scritti per alcune riviste di geopolitica, sotto lo pseudonimo di Astolfo Bergman. 

"La procura mantiene il più stretto riserbo sulle indagini, quindi non sappiamo nulla su quanto è accaduto", dice la mamma, Anna Motta, che con il marito Giuseppe continua a chiedere verità e giustizia, anche in occasione dell'iniziativa organizzata per il primo anniversario dalla morte. Anche i legali della famiglia preferiscono il silenzio, in attesa che si faccia chiarezza sulla vicenda. Nel frattempo, in questi mesi, le istituzioni, diverse associazioni e molti esponenti della cultura e dello spettacolo hanno mostrato concretamente la propria vicinanza alla famiglia.

Tra questi c'è anche Roberto Saviano, che in un messaggio inviato ai genitori definisce Mario Paciolla "un creatore di futuro" e chiede che Anna e Giuseppe non vengano lasciati soli. "Capire ciò che è accaduto a Mario - scrive Saviano - ci aiuta a capire ciò che è accaduto e accade qui da noi, nei territori in cui l’unico welfare è quello criminale". 

Le tante testimonianze di affetto hanno commosso papà Giuseppe, che si dice determinato a lottare affinché si faccia luce sull'accaduto. "La gioia di Mario e il suo impegno sopravvivono nella vicinanza e nella testimonianza di tante persone - sottolinea - molte di queste quali non le conoscevamo, ce le siamo ritrovate accanto, come se fossero una marea di figli". A fine maggio, intanto, nel corso dell'audizione del Comitato per i diritti umani nel mondo, che affrontava la situazione della Colombia, è stato chiesto di depositare un'interrogazione parlamentare per spingere il Governo a prendere posizione sul caso.

Il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha sollecitato la collaborazione delle autorità colombiane e ha assicurato l'attenzione dell'Esecutivo sulla vicenda. Così come Roberto Fico, che ha ribadito l'impegno dello Stato. "Non ci fermeremo, arriveremo fin dove le cose non saranno scoperte", aveva detto il presidente della Camera in occasione di un evento organizzato a Napoli da un gruppo di cittadini a fine luglio dello scorso anno. 

Fulvio Bufi e Alessandra Coppola per corriere.it il 3 settembre 2020.

Mario Paciolla, il trentatreenne italiano trovato morto il 15 luglio scorso nel suo appartamento di San Vicente de Caguan, in Colombia, dove lavorava in una missione Onu, fu uno degli autori del report redatto dalle Nazioni Unite sul bombardamento, nell’agosto 2019, di un campo di irriducibili delle Farc in cui morirono anche sette adolescenti. 

Lo scrive il quotidiano colombiano «el Espectador» in un articolo a firma di Claudia Julieta Duque, la giornalista che sul caso Paciolla sta portando avanti un’inchiesta parallela a quella delle autorità locali e che sin dal primo giorno è convinta che Mario non si sia suicidato (fu trovato impiccato e con segni di ferite ai polsi) ma sia stato ammazzato da qualcuno che poi ha organizzato una messinscena per depistare le indagini.

 La partecipazione di Paciolla (che in Colombia lavorava proprio al processo di pacificazione tra le ex Farc e il governo) alla redazione del report potrebbe essere collegata, secondo la ricostruzione della giornalista colombiana, al suo stato d’animo nei mesi successivi, quando cominciò a sentirsi particolarmente inquieto e a desiderare con sempre maggiore determinazione di lasciare la missione.

Nemmeno tre mesi dopo il bombardamento del campo dei dissidenti Farc guidati da Rogelio Bolivar Cordova, noto con il soprannome di Gilardo el Cucho, il potentissimo ministro della Difesa Guillermo Botero fu costretto alle dimissioni dalle accuse mossegli dal senatore del partito U Roy Barreras con una mozione di censura che conteneva anche parti del rapporto stilato da Paciolla e dagli altri della missione Onu.

Un rapporto che invece non avrebbe dovuto avere nessun utilizzo per scopi politici, e che soprattutto sarebbe dovuto rimanere coperto a tutela sia delle informazioni sensibili contenute sia di chi lo aveva redatto.

La fuga di notizie

Questa fuga di notizie avrebbe colpito moltissimo l’operatore italiano, che quando, a cavallo tra il novembre e il dicembre dell’anno scorso, tornò dai suoi genitori a Napoli, passò molto tempo a cancellare tutto quanto di personale vi fosse in Rete: dalle foto sui social alle poesie pubblicate su alcuni siti culturali italiani e francesi.

Cambiò le impostazioni del suo profilo Facebook, alzando al massimo il livello di privacy, cancellò tutto ciò che aveva scritto su Twitter e fece fare il backup del suo pc. Un comportamento che si spiegherebbe con il timore di subire un attacco informatico, se non di averlo già subito. Secondo l’articolo del quotidiano colombiano, Mario Paciolla avrebbe anche confidato a qualche amico di sentire di essere stato «tradito e usato», e addirittura di sentirsi «sporco». 

L’inchiesta giornalistica

L’articolo di Claudia Julieta Duque riporta anche una frase attribuita a Paciolla, una confidenza che pure avrebbe fatto a qualche persona fidata: «Voglio dimenticare per sempre la Colombia, non è più sicura per me. Non voglio più mettere piede in questo paese o all’Onu. Ho chiesto un cambiamento qualche tempo fa e non me l’hanno dato. Voglio una vita nuova, lontano da tutto». 

E che fosse ansioso di lasciare San Vicente lo ha confermato più volte anche la famiglia, che ha raccontato anche di come Mario stesse studiando il francese per poter prendere, una volta rientrato in Italia, l’abilitazione all’insegnamento. Certo lui era pronto per andarsene. Aveva già acquistato un biglietto per Parigi e si sarebbe dovuto imbarcare su un volo in partenza il 20 luglio. 

Invece non è mai tornato. E non sono rientrati a Napoli nemmeno molti suoi oggetti personali. Come, tra gli altri, il mouse sporco di sangue del suo pc. Che dopo essere stato ripulito sarebbe finito, non si sa come, nella sede Onu di Bogotà.

TROVATO SENZA VITA IN COLOMBIA. Due anni senza giustizia per Mario Paciolla, morto mentre lavorava per l’Onu. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 13 luglio 2022

L’indagine è in corso, manca ancora qualche pezzo, dice la procura di Roma. Un anno fa, veniva data praticamente per fatta. Gli anni passano e i misteri non diminuiscono, anzi. Il 15 luglio 2020 Mario Paciolla, il 33enne napoletano che si trovava in Colombia come operatore delle Nazioni unite in missione di pace, è stato trovato morto.

L’Onu ha subito derubricato il caso come suicidio, l’apparenza era quella di un corpo impiccato. Ma c’erano anche i tagli, tanto sangue, e soprattutto: quanto contano le apparenze quando la scena della morte viene subito ripulita? Ad aver coordinato l’operazione candeggina è stato l’allora responsabile sicurezza della missione Onu, Christian Leonardo Thompson. Dopo la morte di Mario, la sua carriera è progredita. Quanto è davvero trasparente il palazzo di vetro delle Nazioni unite? 

«Non crediamo alla tesi del suicidio», ribadisce il papà di Mario. La storia, le incongruenze, il punto sulle indagini e sui misteri del caso Paciolla. 

Il governo italiano e la promessa tradita della “verità rapida” sulla morte di Mario Paciolla. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 15 luglio 2022

«Tempi brevi» per la verità. È la promessa formulata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio a luglio di due anni fa, quando Mario Paciolla, il 33enne napoletano che si trovava in Colombia come operatore Onu, è stato trovato morto.

Due anni dopo, la verità ancora latita. Cosa ha fatto il governo finora? Stando alle risposte che Domani ha ottenuto dalla Farnesina, l’ultima occasione nella quale Di Maio si espone risale a ben nove mesi fa.

Il ruolo dell’Onu nel caso Paciolla è dirimente, ma la trasparenza non è altrettanta, come conferma la necessità di solleciti da parte del nostro governo. Che comunque, per quel che riguarda Di Maio, si fermano all’autunno, come pure i riferimenti a Mario durante i bilaterali col governo colombiano, col quale l’Italia ha rapporti stretti nonostante le violazioni dei diritti.

SCOMPARSA ANCHE L’AGENDA. Giustizia per Mario Paciolla. I genitori denunciano i depistaggi dell’Onu. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 16 luglio 2022

L’agenda di Mario Paciolla è stata trafugata. Perché farla sparire, assieme ai quaderni? Quali fatti e pensieri hanno voluto sottrarre alla nostra attenzione, i funzionari delle Nazioni unite? Si tratta di quella stessa organizzazione che quando il 33enne napoletano, operatore della missione Onu in Colombia, è stato trovato morto, si è affrettata ad appuntare nei suoi registri quella fine come «suicidio».

E perché gettare gli oggetti che portavano tracce di sangue, perché ripulire con ostinazione la scena della morte? Due anni dopo il ritrovamento del cadavere di Paciolla, l’indagine della procura di Roma non si è ancora conclusa, «la procura colombiana collabora ma dell’Onu non si può dire lo stesso», dice l’avvocato della famiglia. Che si muove con una denuncia.

Riguarda quattro poliziotti ma anche i due funzionari Onu Juan Vásquez García e Christian Leonardo Thompson. Quest’ultimo ha disposto dell’appartamento anche se non avrebbe potuto. Lo ha pure ripulito. Una vettura Onu ha trasferito alcuni oggetti dalla casa di Mario a una discarica per farli scomparire. La mamma di Mario parla di «depistaggio».

Morte del cooperante italiano in Colombia. L’autopsia esclude il suicidio: “Mario Paciolla fu torturato”. La Stampa il 18 luglio 2022.

Il quotidiano colombiano El Espectador ha pubblicato oggi un articolo firmato dalla giornalista Claudia Julieta Duque dal titolo ‘Mario Paciolla: due autopsie contraddittorie e il timbro dell'impunità’, in cui rilancia l'ipotesi di un suo possibile omicidio e di una volontà di insabbiamento dell'inchiesta in Colombia sulle reali cause della morte di Mario Paciolla, cooperante napoletano dell'Onu, trovato morto a 33 anni nella sua casa di Bogotà il 15 luglio 2020. Duque, che conosceva Paciolla e ha seguito l'evoluzione del caso fin dal primo momento, scrive nell'incipit del suo articolo che la verità di quanto accaduto “è stata coperta dal marchio dell'impunità che accompagna gli omicidi politici in Colombia: due indagini giudiziarie, due autopsie, due anni e nessun risultato concreto”. E questo, "nonostante gli elementi che mostrano la distruzione delle prove, l'alterazione della scena degli eventi, la simulazione di un suicidio, e molteplici testimonianze che contestano la versione secondo cui il poeta e giornalista napoletano si sarebbe tolto la vita a causa di depressione”. Nell'articolo si ricorda che parti del rapporto della seconda autopsia fatta in Italia dal medico legale Vittorio Fineschi e dalla tossicologa Donata Favretto, consegnata alla Procura di Roma nell'autunno 2020, certificano che “alcune prove non trovano nessuna spiegazione alternativa nel contesto dell'ipotesi del suicidio, (mentre) supportano prevalentemente l'ipotesi di strangolamento con successiva sospensione del corpo”. A questo si aggiunge che “gli esperti dell'Istituto di medicina legale italiano hanno criticato la cattiva gestione del cadavere, la descrizione imprecisa del solco (il segno che produce la pressione estrema sul collo e che permette di differenziare una impiccagione suicida da uno strangolamento omicida) e del modo in cui era disposto il lenzuolo che lo ha provocato, l'insufficiente documentazione fotografica, così come la mancanza di dettagli su, per esempio, i rilievi delle ferite che presentava il corpo”. Tutto questo ha reso impossibile, si dice ancora, “stabilire con assoluta certezza la causa della morte del giovane di 33 anni". Da uno dei documenti che Duque ha potuto consultare emergono altri particolari: "Sebbene le coltellate sul cadavere potrebbero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato di esse ha permesso ai medici legali di appurare che mentre le ferite del polso destro presentano 'chiari segni di reazione vitale', nella mano sinistra mostravano 'caratteristiche sfumate di vitalità', o 'vitalità diffusa', suggerendo che alcune delle ferite potrebbero essere state inflitte 'in limine vitae o anche post-mortem', cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto”.

Mario Paciolla è stato torturato e assassinato, anche l’autopsia italiana lo chiarisce. FRANCESCA DE BENEDETTI Il Domani il 18 luglio 2022.

Ferite inflitte quando Mario Paciolla era agonizzante, se non già morto. Sono i dettagli che fanno escludere, se mai ci fosse stato ancora il dubbio, l’ipotesi del suicidio

Ferite inflitte quando Mario Paciolla era agonizzante, se non già morto. Sono i dettagli che fanno escludere, se mai ci fosse stato ancora il dubbio, l’ipotesi del suicidio. Emergono a due anni dalla morte del 33enne napoletano che operava per le Nazioni Unite nella missione di pace in Colombia.

Quando il 15 luglio 2020 il suo cadavere è stato ritrovato nel suo appartamento a San Vicente del Caguan, con l’apparenza di un corpo impiccato, ma anche tagli, e sangue, l’Onu ha affidato la prima autopsia al medico della sua missione, per poi derubricare il caso come suicidio.

Ma a Roma è stata disposta una seconda autopsia, ed è tuttora in corso l’indagine della procura, dunque gli esiti non sono pubblici. Filtrano in parte, dall’indagine dell’amica di Mario, e giornalista colombiana, Claudia Julieta Duque, che riporta alcuni dettagli i quali corroborano l’ipotesi di tortura e assassinio.  

I DETTAGLI SULL’AUTOPSIA

«Alcune prove che non trovano alcuna spiegazione alternativa nel contesto dell'ipotesi del suicidio  supportano prevalentemente l'ipotesi di strangolamento con successiva sospensione del corpo», è l’esito dell’esame svolto dal medico legale Vittorio Fineschi e dalla tossicologa forense Donata Favretto, i cui risultati sono stati consegnati alla procura già nell’autunno 2020; ma le autorità italiane, oltre che colombiane, hanno preservato il totale riserbo. 

Da uno dei documenti filtrati si apprendono ulteriori dettagli, riformulati così da Duque: «Sebbene le coltellate sul cadavere potessero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato delle lesioni ha permesso ai medici legali di determinare che mentre le ferite del polso destro presentavano "chiari segni di reazione vitale", nella mano sinistra mostravano "caratteristiche sfumate di vitalità", o "vitalità diffusa",a suggerire che alcune delle ferite potessero essere inflitte "in limine vitae o anche post-mortem", cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto».

Come se non bastasse, questa seconda autopsia italiana che accerta tutte le ambiguità è stata svolta in condizioni estremamente difficili, perché prima che il corpo arrivasse a Roma, in Colombia il materiale era stato gestito male, mancavano documentazione fotografica, dettagli, e il solco sul collo era stato descritto in modo impreciso; la precisione è rilevante, perché dal tipo di pressione sul collo è possibile ricostruire se c’è stata impiccagione suicida oppure strangolamento omicida. Dunque in queste condizioni così controverse, l’opera degli scienziati italiani è stata minata alle basi, rendendo più complesso divulgare un esito assolutamente certo.

IL DEPISTAGGIO

Il motivo per cui all’inizio è stata divulgata la versione del suicidio, alla quale la famiglia Paciolla non ha mai creduto, è che la scena della morte è stata camuffata in modo da accreditare questa versione; e la scena è stata alterata dai funzionari Onu. Il responsabile sicurezza della missione, Christian Leonardo Thompson, uno degli ultimi contatti telefonici di Paciolla prima di morire, ha operato un repulisti della scena della morte, e proprio per questa opera di depistaggio figura – assieme al collega Onu Juan Vásquez García, e ai quattro poliziotti presenti sul posto – nella denuncia depositata in Colombia dai genitori di Mario in occasione del secondo anniversario della morte del ragazzo.  

Quando il corpo di Paciolla viene ritrovato, nell’appartamento che «mio figlio pagava a sue spese, non era in dotazione dell’Onu», succede che Thompson – dice la denuncia – «tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo». Lì ci sono oggetti con campioni biologici che Thompson fotografa, ma che non vengono acquisiti nel modo appropriato dai quattro poliziotti sul posto. Poi «materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto». Oltre alle sparizioni, Thompson ha candeggiato la casa di Mario. Sono scomparse le agende, i quaderni, di Mario, serbatoio prezioso di fatti e pensieri.

LA CHIAVE DELLA STORIA

«Non crediamo alla tesi del suicidio, perché Mario era un amante della vita», racconta Giuseppe Paciolla. «Ma la cosa più importante è che mio figlio aveva un biglietto in tasca di ritorno in Italia per il giorno 20 da Bogotà. Il volo era un volo umanitario vista la pandemia e solo l'Onu poteva preparargli i documenti per la partenza». Ed era l’Onu a sapere dell’imminente ritorno in patria del ragazzo. Il corpo di Mario viene trovato senza vita poco prima del rientro in Italia, dove voleva tornare per paura. Prima di morire, aveva riferito ai genitori di essersi scontrato coi capi missione. «Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio». Da qui il volo prenotato, il desiderio di Napoli. Ma la morte arriva prima. Dall’ultima comunicazione coi suoi cari su WhatsApp, con le spunte blu, al silenzio, passa solo una manciata di ore: sono le ore del mistero da chiarire. Uno degli ultimi contatti telefonici prima della morte, alle 22, è proprio il responsabile sicurezza della missione, Christian Thompson; di cui Mario non si fidava più, stando alle ricostruzioni. «Abbiamo la certezza che nella squadra di Mario all’Onu ci siano persone che sanno la verità, e assistiamo a comportamenti omertosi», aveva detto a Domani quest’autunno la mamma di Mario.

Paciolla aveva lavorato ai report che documentavano l’uccisione di bambini durante un bombardamento. Nell’autunno 2019 il senatore Roy Barreras scatena lo scandalo sul bombardamento, costringendo il ministro della Difesa Guillermo Botero a dimettersi. Dalle ricostruzioni di Duque, è per decisione di Raul Rosende, direttore della missione di Mario, che alcune sezioni del report sono finite in mano al senatore. «La fuga di notizie è stata decisa con una manciata di funzionari internazionali da Raúl Rosende, a quel tempo direttore della missione di verifica, e possibile successore di Carlos Ruiz Massieu, capo dell'agenzia in Colombia, recentemente criticato per una vicinanza impropria con il governo colombiano di Iván Duque».

IL RUOLO DELL’ONU E DEI GOVERNI

Thompson un anno dopo la morte di Mario si è ritrovato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, ruolo dal quale ha ancor più margine di azione: riceve i report di tutte le missioni e registra gli incidenti di sicurezza che possono verificarsi, e diventa anche la figura che riferisce al procuratore i viaggi e i report svolti da Mario in relazione alla vicenda del bombardamento.

«Tempi brevi» per la verità. È la promessa formulata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio a luglio di due anni fa, quando Mario Paciolla, il 33enne napoletano che si trovava in Colombia come operatore Onu, è stato trovato morto. Due anni dopo, la verità ancora latita. Cosa ha fatto il governo finora? Stando alle risposte che Domani ha ottenuto dalla Farnesina, l’ultima occasione nella quale Di Maio si espone risale a ben nove mesi fa. Il ruolo dell’Onu nel caso Paciolla è dirimente, ma la trasparenza non è altrettanta, come conferma la necessità di solleciti da parte del nostro governo. Che comunque, per quel che riguarda Di Maio, si fermano all’autunno, come pure i riferimenti a Mario durante i bilaterali col governo colombiano, col quale l’Italia ha rapporti stretti nonostante le violazioni dei diritti. 

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

La messa in scena del suicidio di Mario Paciolla e il ruolo dell’Onu. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 22 luglio 2022

L’indagine della procura di Roma su Mario Paciolla non è ancora conclusa, e il silenzio è tombale, ma nonostante questo ci sono due certezze sulla morte del 33enne napoletano che operava per le Nazioni unite nella missione di pace in Colombia.

Una riguarda il ruolo opaco dell’Onu. Paciolla era terrorizzato per qualcosa che aveva scoperto e che lo aveva portato a scontrarsi con la sua missione. Non ha fatto in tempo a tornare a Napoli, è stato trovato morto. Da allora per mano dell’Onu la sua casa è stata ripulita, le tracce eliminate, e molti oggetti, comprese le memorie di Mario, sono scomparsi. Il funzionario che ha operato il repulisti è stato pure promosso. Nelle indagini l’Onu, al di là delle dichiarazioni, non ha dato piena collaborazione. 

L’altro punto, legato al primo ed emerso con più chiarezza proprio in questi giorni, è quello della messa in scena del suicidio. Il caso è etichettato subito come suicidio dall’Onu, che partecipa con un medico della sua missione alla prima autopsia. Il corpo di Paciolla arriva in Italia ricomposto, e le autorità italiane ricevono il verbale colombiano con ritardo inusuale. Secondo le notizie che filtrano oggi, dalle analisi nostrane emerge lo scenario della simulazione del suicidio. Alcuni parlamentari sono pronti a scrivere all’Onu e Amnesty sollecita una mobilitazione della società civile. 

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Anticipazione da “Oggi” il 27 luglio 2022.

OGGI, in edicola da domani, pubblica un’intervista ai genitori di Mario Paciolla, 33 anni, trovato impiccato a un lenzuolo, secondo la versione ufficiale, il 20 luglio 2020 nella sua abitazione di San Vicente, 500 chilometri a sud di Bogotà, in Colombia, dove lavorava per le Nazioni Unite. Suicidio? Niente affatto, affermano Anna e Pino Paciolla, che con le due sorelle e l’assistenza dell’avvocatessa Alessandra Ballerini, legale anche della famiglia di Giulio Regeni, hanno denunciato le Nazioni Unite che continuano a non rispondere a ogni richiesta di verità. 

Loro non erano informati del lavoro delicatissimo che Mario conduceva, del rapporto sul bombardamento dell’esercito colombiano costato la vita a sette ragazzi, che aveva poi costretto alle dimissioni il ministro della Difesa: «Era riservatissimo per ciò che concerneva il lavoro. Sapevamo che correva dei rischi, ma mai ci saremmo aspettati che andassero dentro casa sua per ucciderlo».

I Paciolla raccontano le clamorose manomissioni della scena di quello che è stato finora fatto passare per suicidio: «Quello che ci sconcerta è il muro di gomma da parte dell’Onu… È inverosimile che il capo della sicurezza dell’Onu Christian Thompson e il suo superiore Juan Vasquez non fossero a conoscenza dei protocolli in caso di morte di un loro dipendente. 

Il primo si è introdotto da solo per trenta minuti in casa di Mario prima dell’arrivo degli agenti, inquinando la scena del crimine e prelevando oggetti appartenuti a nostro figlio. E dopo due giorni, Thompson si è nuovamente recato nell’abitazione per ripulirla con la candeggina, gettando in una discarica tutto ciò che era parte della scena del crimine, facendo sparire ogni traccia utile per l’indagine sull’omicidio di Mario. Di conseguenza, oltre a loro due, abbiamo denunciato anche i quattro agenti di polizia che hanno consentito questo gravissimo atto ritenendoli tutti e sei coinvolti nell’occultamento delle prove».

E aggiungono: «Nostro figlio amava la vita, aveva progetti a brevissima scadenza e nessun motivo per uccidersi con un biglietto aereo in tasca e la valigia pronta a poche ore dalla partenza per Napoli, la sua città».

·        Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Da mowmag.com il 17 luglio 2022.

“Sto correndo. Sono le sei del mattino, il paese dorme ancora. Il termometro segna meno tredici gradi. Quando avrò finito dovrò farmi una doccia e filare a scuola. Poi andare al palaghiaccio per l’allenamento di hockey”. Comincia così Dopo il traguardo, libro autobiografico di Alex Schwazer. 

Un racconto che, senza retorica o giri di parole, affronta in pieno lo scandalo di doping che lo ha travolto nel 2012, ricordandoci però che l'uomo non è un episodio. Guardi la copertina e vedi un uomo in bilico tra l'esultanza e la crocifissione. Leggi il libro e pensi che non sei nato per fare l’atleta o, quantomeno, ti è chiaro in un attimo che lui poteva fare solo quello. Schwazer racconta lo sport come un qualcosa tra ossessione e necessità, l’unico modo di esistere: allenarsi, guardare avanti, migliorare. Al punto che la vita, quella fuori dalle competizioni, ha cominciato a viverla soltanto dopo lo scandalo di Londra. Lo abbiamo intervistato mentre, in macchina, stava raggiungendo il Passaggi Festival di Fano. È rilassato, dice di non avere fretta.

Ciao Alex. Com’è raccontarsi in un libro?

“Non mi fa grande effetto. La mia storia è stata raccontata già piuttosto ampiamente, nel bene e nel male, dai media. Qui ho deciso di dire tutto, anche le cose brutte. A me ha fatto piacere dire qualcosa di inedito, anche i miei inizi. Perché sai, dietro a qualsiasi sportivo c’è una storia, non si parte dal successo e non ci si limita al fallimento”. 

In mezzo c’è il cammino.

“Si, e l’equilibrio. Nel bene o nel male uno dà sempre il massimo. Poi non è sempre una tragedia o il trionfo, come viene raccontato. Io credo di aver detto le cose in maniera reale”. 

Che commenti hai ricevuto da chi l’ha letto?

“Sai cosa? Molti riscontri mi arrivano da atleti giovani. Venivo da un periodo in cui stavo quasi per smettere e in qualche maniera ho tenuto duro, sono anche stato fortunato. Ma ci sono tantissimi atleti che quando arrivano a 17, 18 anni devono decidere che fare della propria vita. In molti pensano che gli atleti più bravi queste domande non se le facciano, ma non è così. Sono passaggi obbligati, devi pensarci molto. E tanti ragazzi giovani mi hanno detto di essersi identificati molto in quel periodo della mia vita”.

Quando ti hanno mandato a fare il ciclista?

“Esatto. E molti ragazzi mi dicono di aver trovato nuova forza per andare avanti. Questo, ovviamente, mi fa molto piacere”. 

Parlando di momenti, quand’è che hai capito che potevi andare forte? Non forte come gli altri, più di loro. C’è stata una scintilla, una gara, in cui hai superato la soglia del dubbio?

“Quando sono diventato professionista mi sono subito cimentato nella distanza più lunga, i 50 chilometri. È stata una scelta inusuale, gli atleti giovani magari partono dai 20 chilometri e quando si sentono pronti salgono di categoria. Quasi tutti i miei avversari avevano 10 anni in più, perché tutti sono convinti che sia una distanza in cui si migliora con l’allenamento e l’esperienza. Lì è successo: ho pensato che avevo vent’anni, qualcosa come trentamila chilometri in meno di loro e che stavo lottando. Guardandomi intorno capivo di essere l’unico della mia età, con dieci anni in meno. E ho capito che potevo andare lontano”.

Però nel libro racconti anche di aver vissuto il professionismo da troppo giovane. Per l’intensità degli allenamenti, i ritiri con la squadra e anche il successo...

“Ero troppo giovane a livello personale. Nel mio sport mi sono sempre trovato bene, però non ero pronto a tutto quello che ti trovi attorno quando vinci. Poi sai, quando vinci, il giorno dopo non è lo stesso. Devi farti delle domande”. 

A complicarti la vita è stata più la vittoria - pensiamo ad esempio a Pechino 2008 - o il successo? È la medaglia a pesare o la gente che la vuole vederla?

“Probabilmente stavo meglio prima di aver vinto le olimpiadi. Sono sempre stato abituato a stare nel mio piccolo, le persone che lavorano con me sono sempre state poche. Ci sono atleti che cercano la popolarità, io ho sempre amato lo sport e l’allenamento, ma anche lo stare da solo. A vent’anni fai tanti chilometri in solitudine e poi ti trovi a vincere circondato da persone che non sanno nemmeno quello che fai. Ho sofferto tanto i media”.

Qual è stato il momento più duro? Londra, Rio, Tokyo… anche se a dirla così sembra una puntata della Casa de Papel.

“Sicuramente prima di Londra. Ero entrato in uno stato depressivo che poi si è manifestato con la positività al doping, ma non stavo più bene, non ero io. Ero depresso però non lo sapevo. 

E chi soffre di depressione lo sa, ogni giorno è una sofferenza. A livello personale tutti i mesi prima di Londra sono stati molto tosti. Poi mi sono ripreso a livello umano, dovevo affrontare i miei problemi e non ho più pensato al passato. Avevo sbagliato e dovevo pagare accettando le conseguenze delle mie azioni. Da Rio è stata dura, forse però meno: dovevo combattere contro un’ingiustizia e, invece di correre e raccogliere quello che meritavo, sono finito a lottare contro una cosa più grande di me. Tante volte finisce per logorarti, ti chiedi 'perché è successo a me'”.

La positività al doping ti ha salvato dalla depressione?

“A livello umano sicuramente. Sono stato costretto a capire le mie scelte dopo Pechino. Non mi facevo domande, pensavo solo ad allenarmi. Uno sportivo di alto livello deve convivere con una certa stanchezza, con periodi molto duri, così quando ho cominciato a stare male ho pensato che fosse colpa degli allenamenti. Ma dopo Londra questi ragionamenti non potevo più farli”. 

Fai uno sport di resistenza. Ti ha aiutato mentalmente, a livello umano, quando la tua maratona è diventata legale?

“Sicuramente si, ma in generale gli sportivi sono avvantaggiati: Per raggiungere un obiettivo c’è da sudare tanto e spesso le cose non vanno come volevi. Affronti percorsi lunghi, anche di anni, e sei abituato a pensare a lungo termine. Questo a livello giudiziario mi ha aiutato. E sono stati cinque anni, che non sono pochi”.

Sei superstizioso?

“Poco, quasi per niente. Sono convinto che se dai sempre il massimo la ruota gira. Però non cerco sempre spiegazioni, a volte semplicemente non ci sono. Ho fatto gare per le quali mi ero allenato benissimo, perdendole. Altre le ho vinte mentre stavo male. Certe cose succedono, non abbiamo in mano sempre tutto”. 

Credi in Dio?

“Sono religioso, ma non credente. Non chiedo a Dio di aiutarmi, secondo me ti devi aiutare da solo e avere le persone giuste attorno. Non puoi stare immobile e sperare nel miracolo”. 

Hai seguito la vicenda di Andrea Iannone?

“Si, conosco il pilota e il suo caso, ma non i dettagli”. 

L’impressione è che abbia pagato una leggerezza in maniera esagerata: una squalifica di quattro anni per un pilota della MotoGP spesso e volentieri significa la fide della carriera

“Il sistema dei controlli anti-doping non è fatto per colpire chi si dopa. Spesso gli atleti vengono fermati senza che le sostanze assunte influiscano sulla prestazione. Ma ogni anno devono giustificare la loro presenza, i soldi che prendono. Nel caso di Andrea Iannone penso che gli abbiano trovato una sostanza (il drostanolone, ndr.) che non influisce minimamente sul rendimento del pilota. E devi sempre spiegare tu come è finita nel tuo fisico, non sono loro a doverlo dimostrare. Cosa che, spesso, è impossibile. A livello penale non funziona così, è il contrario. E se sono dopato devi dimostrarmi anche che ne ho ricavato un vantaggio. Se il sistema sportivo ragionasse come quello penale avrebbero pochissimi casi di doping reali. A volte trovano uno che si è fatto una canna con gli amici e gli danno sei mesi. Ma non parliamo di doping per aumentare la performance”. 

Quale potrebbe essere la soluzione?

È molto semplice. La WADA viene finanziata dai governi, l’Italia è al quarto o quinto posto a livello mondiale. Ogni anno diamo un milione di dollari alla WADA. I governi dovrebbero incominciare a fare domande: perché un atleta lo controlli una volta e un altro cinque? Perché in alcuni paesi fai mille controlli e in altri zero? Dovrebbero essere più attenti, non limitarsi a pagare”. 

Alex Schwazer ha partecipato, insieme a Bruno Fabbri, all'edizione 2022 di Pechino Express per Sky

Pensi mai a Parigi 2024?

“No, la mia squalifica finisce ai primi di luglio e non ho tempo per qualificarmi. Ho altre priorità nella mia vita, il mio lavoro non è più come quello che avevo a venticinque anni, quando facevo l’atleta. Ho una famiglia, ho un lavoro. Mi alleno perché mi piace, ma va bene così”. 

Proverai mai a qualificarti ancora? Nel libro lo spieghi bene: vincevi quando correvi per te stesso e le difficoltà sono arrivate correndo per gli altri, per il risultato. 

“Se corri esclusivamente per te stesso non hai bisogno delle gare. Dico la verità, se penso al 2008 i miei ricordi più belli non sono alle Olimpiadi. Sono prima, quando magari facevo un allenamento bello, da solo, sotto la pioggia”. 

Come vorresti che fosse ricordata dalla gente la tua storia? 

“È una domanda che non mi sono mai fatto. Ormai con i social uno può dire di tutto, per me sono importanti le persone vicine, sarei contento se mi ricordassero come una persona che nel bene e nel male ha sempre dato tutto. Tutto. Io non ho mai fatto niente in vita mia senza dare tutto quello che ho. Sai come si dice, no? Chi non fa non sbaglia. (fa una lunga pausa, ndr.) Ma non può neanche avere successo”.

Uno sportivo qualunque - vivo o meno - con cui andresti a cena? 

“Non è uno sportivo, però mi piacerebbe parlare con Nelson Mandela. Non so se va bene come risposta, spero di sì. Io alla fine ho lottato per me e per le persone che mi sono vicine. Lui l’ha fatto per un popolo, per una nazione, per la libertà. Ed è stato in prigione, io sono libero. Anche se non posso fare le gare. E c’è una bella differenza.

Schwazer doping, la Wada risponde al giudice di Bolzano: «Manipolazione non plausibile». Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

L’agenzia antidoping mondiale respinge duramente la tesi del magistrato: «Lo scenario della manipolazione è estremamente implausibile, la concentrazione di Dna nelle urine del “caso” è alta ma non è assolutamente anormale». 

È passato oltre un anno dall’ormai celebre sentenza di Walter Pelino, Gip del Tribunale di Bolzano, che, decidendo di non rinviare a giudizio penale Alex Schwazer per la positività al testosterone del gennaio 2016 ha rivolto pesanti accuse alla federazione internazionale di atletica leggera (prima Iaaf ora World Athletics) e all’Agenzia Mondiale Antidoping (Wada). Giovedì la Wada ha pubblicato una durissima e documentata risposta alle tesi del magistrato, frutto di un anno di lavori scientifici affidati a due equipe universitarie. I due documenti che (secondo la Wada) demolirebbero completamente il «teorema Pelino» sono una relazione del professor Martial Saugy — direttore del Centro di Ricerca del Laboratorio Antidoping di Losanna e ricercatore tra i più noti al mondo — e di uno studio sul Dna di 100 campioni di urina commissionato al Centro Universitario di Medicina Legale dell’Università di Losanna in comparazione con quello ordinato da Pelino ai Ris di Parma durante le indagini.

Secondo il professor Saugy (cui è stato chiesto formalmente un «parere sullo scenario di manipolazione del Gip del Tribunale di Bolzano») lo scenario di manipolazione sarebbe «viziato e non plausibile in quanto (i) si basa su un’errata concezione di fondo del funzionamento del relativo metodo analitico e (ii) sarebbe estremamente difficile (per non dire impossibile) da realizzare senza lasciare tracce nelle analisi». «Lo scenario di manipolazione — spiega l’esperto svizzero — prefigurato dal giudice è estremamente implausibile ed è estremamente improbabile che si sia verificato. In primo luogo, la premessa stessa dello scenario della manipolazione (ossia la concentrazione per aumentare la rilevabilità) è errata. In secondo luogo, la mancanza di qualsiasi indicazione di manipolazione e la compatibilità del campione positivo con il profilo steroideo dell’atleta sono un’indicazione piuttosto evidente che non si è verificata alcuna manipolazione. Mi colpisce soprattutto il fatto che un esperto così abile da poter realizzare il protocollo della manipolazione senza stravolgere il profilo steroideo dell’atleta non si sia reso conto che la concentrazione del campione sarebbe stata un esercizio inutile».

«Studi del Dna totalmente errati»

Il report del Centro di Medicina Legale, dal canto suo, è lapidario. «Il campione di urine di Schwazer — spiegano i genetisti forensi Castella e Gehrig — non mostrano affatto i segni di decadimento indicati da Pelino nel suo studio. I calcoli fatti sono quindi totalmente fallaci ed errati. I nostri studi dimostrano che la concentrazione di Dna nelle urine del “caso” è alta ma non è assolutamente anormale o innaturale come scritto nella sentenza».

Wada e Ita assieme

In una dichiarazione congiunta, Wada e Athletics Integrity Unit (la nuova agenzia indipendente che gestisce i controlli nell’atletica, nel ciclismo e in molti altri sport) spiegano che «i risultati del test dimostrano inconfutabilmente che la concentrazione di Dna nel campione (di Schwazer, ndr) è ben all’interno dell’intervallo fisiologico. Infatti sono stati ottenuti valori molto più elevati anche dopo anni di conservazione e circa il 20% dei campioni aveva concentrazioni di Dna superiori alla concentrazione più elevata rilevata nel campione (di Schwazer, ndr). Pertanto, l’intera base dello scenario di manipolazione (ovvero la presunta concentrazione non fisiologica di Dna) è errata. In totale, cinque campioni avevano una concentrazione di DNA superiore a 10.000 pg/μL (quattro volte superiore alla concentrazione più alta rilevata nel campione del signor Schwazer). Due di questi campioni erano stati raccolti tre anni prima dell’analisi del Dna, due sono stati raccolti più di 18 mesi prima dell’analisi del Dna l’ultimo è stato raccolto 5 mesi prima dell’analisi del Dna». Il direttore generale della Wada, Olivier Niggli, ha dichiarato: «La Wada ha sempre creduto che la teoria della manipolazione del giudice non fosse sostenuta da fatti. I risultati dello studio del Dna e il riesame delle prove da parte del Professor Saugy confermano la nostra posizione e confutano pienamente la teoria del Giudice Pelino, fondata su una serie di presupposti errati». Infine è arrivato anche il comunicato di World Athletics, la federazione mondiale di atletica leggera: «Vorremmo ringraziare l’Agenzia mondiale antidoping (Wada) e l’Unità di Integrità dell’Atletica (AIU) per il lavoro che hanno svolto e commissionato collettivamente per spiegare in modo conclusivo perché il campione di urine di Alex Schwazer raccolto da World Athletics il 1° gennaio 2016 non è stato manipolato come invece aveva concluso il giudice Pelino di Bolzano nel febbraio 2021. World Athletics ha applicato e continuerà ad applicare la decisione finale e vincolante della Corte Arbitrale dello Sport nel caso del signor Schwazer».

La lezione di Alex Schwazer che piacerebbe a Clint Eastwood e quella condanna senza eguali. Susanna Tamaro su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

La storia di un uomo retto, che sbaglia una volta, lo ammette, ma viene comunque condannato per sempre.

Essendo una grande appassionata di sport i mesi di agosto olimpici sono sempre stati per me un periodo di grande fibrillazione; fibrillazione che quest’anno, per il numero delle medaglie vinte, ha rischiato più volte di trasformarsi in infarto. 

Oltre ad assistere a tutte le gare possibili, amo molto anche leggere le biografie degli sportivi, a partire dal mitico Open di Andre Agassi, passando per lo splendido Ricordati di dimenticare la paura di Niccolò Campriani, il grande campione di tiro con la pistola. 

Adesso ho appena terminato Dopo il traguardo , di Alex Schwazer , (Feltrinelli) un libro che si legge con grande passione ma anche con infinito struggimento perché racconta la storia di un uomo retto che sbaglia una volta, ammette di aver sbagliato, ma viene comunque condannato per sempre. 

In settembre, sbollita l’ebbrezza olimpica, avevo letto I signori del doping di Sandro Donati (Rizzoli), una lettura più avvincente di molti romanzi. In America ne avrebbero già comprato i diritti per fare un film perché, oltre ad essere un perfetto thriller legale, è un tuffo nei meandri più profondi dell’essere umano. Impegnato da anni nella lotta contro il doping nello sport, Sandro Donati, infatti, è stato il primo ad aver intuito che Schwazer si era fatto sedurre dalle lusinghe del doping, diventando il suo primo accusatore per poi trasformarsi, nel corso della storia, nel suo principale alleato. 

Ai tempi di Rio 2016, quando Alex era stato brutalmente e maldestramente estromesso dalle Olimpiadi, avevo già scritto su questo giornale un appassionato articolo in sua difesa. Già allora era più che evidente che tanto la prima colpevolezza era provata — e ammessa dalle lacrime disperate di Alex davanti alle telecamere — altrettanto non lo era stata la seconda. Quante volte, nel corso degli anni, abbiamo visto campioni indagati per doping comparire dopo una breve squalifica alle Olimpiadi seguenti con un sorriso trionfante sulle labbra? Nessuno di loro ha subito la feroce squalifica inflitta a Schwazer. 

Perché mi appassionano tanto le storie degli atleti? Perché un atleta è una persona posseduta in qualche modo da un demone, un po’ come un artista: intuisce di avere un dono speciale e lavora alacremente su sé stesso per essere degno di questo dono. Alex Schwazer è nato e cresciuto in una frazione di poche case in una valle dell’Alto Adige, ha iniziato a correre perché amava correre e poi marciare, non pensava al successo, agli sponsor, pensava soprattutto a battere i suoi stessi limiti. E ci è riuscito. Nel 2008, a soli 23 anni, era sul podio olimpico di Pechino. Molti sono saliti sul suo carro in quell’occasione, salvo poi, dopo le foto di rito, scendere e abbandonarlo al peso di dover restare per sempre all’altezza di quel podio. L’allenatore che l’ha accompagnato fino all’appuntamento olimpico, Sandro Damilano, lo abbandona, accettando un ingaggio dalla squadra cinese. 

Alex entra così in una spirale di fragilità, di paura e di insicurezze, sa che gran parte dei suoi colleghi usa con astuzia e disinvoltura sostanze dopanti e si sente inerme. Così, per timore di non essere all’altezza delle aspettative del mondo, lo fa anche lui, ma lo fa da incauto pasticcione, cerca i prodotti sulla rete, vola da solo in Turchia come un turista, si compra l’Epo e, senza nessun controllo, inizia a usarlo, senza peraltro che questo migliori le sue prestazioni. Anzi. 

A questo punto Alex Schwazer non è più il grande campione capace di macinare centinaia di chilometri ma una persona divorata dall’ansia e dalla depressione. Fa parte del gruppo dei Carabinieri, ma nell’Arma nessuno sembra accorgersi di questo suo grave smarrimento. 

Alex vuole solo correre e vincere, non regge il peso della notorietà, degli sponsor, di una fidanzata altrettanto famosa e si perde. Quando viene scoperto, è evidente che per lui sia una liberazione perché barare, imbrogliare, far finta di niente non appartiene alla sua natura di uomo profondamente onesto. 

Così perde tutto: i soldi degli sponsor, la fidanzata, il lavoro — gli viene chiesto infatti di congedarsi dall’Arma dei Carabinieri — in più deve anche affrontare importanti spese legali per il processo. 

E qui comincia la storia che i media ci hanno tenuta nascosta ma che Alex ci racconta con generosità e senza filtri nel bellissimo suo libro. Liberatosi dal demone che l’aveva posseduto, ha una sola idea in mente: recuperare l’onore, dimostrando di essere davvero un campione. Ed è questo che rende importante il libro, perché Alex, invece di accampare scuse, di lamentarsi di questo e di quello, decide di iniziare una lunga e silenziosa battaglia per tornare ad essere quello che sapeva di essere sempre stato e, per farlo, non sceglie scorciatoie, vie di comodo, non fa le cose a metà. Contatta proprio quel Sandro Donati che era stato il suo primo accusatore. 

Accusato e accusatore si mettono così a lavorare insieme, vincendo diffidenze e timori reciproci. Che magnifico film per Clint Eastwood! Schwazer si trasferisce a Roma e inizia a sottoporsi ai massacranti allenamenti di Donati che lo segue implacabile in bicicletta per le strade della capitale con il cronometro in mano. Con umiltà, testardaggine, giorno dopo giorno Alex recupera la sua forma fisica e la fiducia in sé stesso. I risultati sono straordinari, i tempi in breve tornano a livello mondiale. Nel maggio del 2016 vince infatti la 50 km a squadre di Roma, qualificandosi dunque per le Olimpiadi di Rio, l’obiettivo finale del suo riscatto. Ma l’happy end non si realizzerà perché a un controllo delle urine fatto nel gennaio del 2016 — e reso noto misteriosamente soltanto il 21 di giugno — Schwazer viene trovato di nuovo positivo al doping e quindi squalificato.

È il crollo totale. O meglio, lo sarebbe per chiunque ma non per Donati e Schwazer, legati ormai da una reciproca stima e amicizia. È solo l’inizio di un’altra diversa battaglia, quella per dimostrare la macchinazione intentata ad arte contro di loro. E ci riescono. 

Nel febbraio del 2021 il Tribunale di Bolzano infatti riconosce la totale estraneità ai fatti del maratoneta, ma il mondo dell’atletica internazionale non accetta l’ordinanza del tribunale italiano e la squalifica viene confermata fino al 2024 anno in cui Alex avrà quarant’anni. Addio Tokyo dunque. La carriera di Schwazer è troncata per sempre. 

A questo punto della vicenda viene normale domandarsi, perché tanto accanimento? Forse perché a questa società che riconosce un prezzo per ogni cosa e un valore a nessuna, una storia così provoca un’irritazione profonda. Il mondo dell’atletica non è più quello relativamente semplice degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso — in cui il doping, quando c’era, era di Stato — è ormai un mondo dove girano molti soldi e dove girano molti soldi, fisiologicamente, si insinua la corruzione. Questa realtà fatta di relazioni ambigue, coperta spesso dalla nube dell’omertà, non può permettersi che due persone osino ribellarsi e dire: «Il re è nudo». 

Nel chiudere il libro sono stata colta da un senso di gratitudine malgrado l’amarezza della vicenda perché, in questo tempo in cui l’asticella dell’umano è stata abbassata a livelli di mediocrità etica inimmaginabili, la storia di Schwazer e Donati e quella dei giudici di Bolzano che hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo ci ricordano che esiste la libertà interiore, e proprio da questa libertà nasce la grandezza d’animo che permette di affrontare le più terribili prove del destino uscendone sempre e comunque umanamente vincitori.

·        Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Inchiesta "Why not", Gioacchino Genchi dovrà risarcire Clemente Mastella. Redazione Tgcom24 il 19 Marzo 2022.  

La Corte d'Appello di Roma ha condannato Gioacchino Genchi, nella sua qualità di consulente tecnico di Luigi de Magistris quale pm titolare dell'indagine "Why not", a pagare 70mila euro (oltre lucro cessante e spese legali) a Clemente Mastella. L'attuale sindaco di Benevento all'epoca dei fatti era segretario dell'Udeur, senatore e ministro della Giustizia. Lo rende noto il collegio difensivo di Mastella.

© ansa Inchiesta "Why not", Gioacchino Genchi dovrà risarcire Clemente Mastella

L'iter giudiziario A Genchi era stato contestato in sede penale di aver acquisito, elaborato e trattato illecitamente i tabulati telefonici relativi a utenze riconducibili a vari parlamentari o ex-parlamentari. Mentre il tribunale penale di Roma aveva condannato i due imputati, la corte d'Appello li aveva assolti e la Cassazione aveva a sua volta riformato la decisione. Essendosi il reato prescritto, il procedimento veniva rimesso alla Corte d'Appello di Roma per il suo accertamento a fini civili e nel giudizio di rinvio si costituivano anche Francesco Rutelli e Sandro Gozi, nei confronti dei quali è stato statuito il diritto al risarcimento.

Il commento dei legali di Mastella "Dopo l'annullamento da parte della Corte di Cassazione della sentenza d'assoluzione, il giudice d'appello civile ha stabilito la responsabilità risarcitoria a carico di Gioacchino Genchi, valorizzando quanto emerso in sede penale in ordine al reato d'abuso d'ufficio, realizzatosi attraverso l'intrusione nelle conversazioni telefoniche di parlamentari, senza richiedere - e anzi premettendo - ogni autorizzazione imposta dalla legge", spiegano l'avvocato Pellegrino Mastella e il prof. Bruno Tassone, legali di Mastella.

"Desta perplessità la declaratoria di inammissibilità dell'azione interposta nei confronti di De Magistris, motivata sulla base di una interpretazione assai restrittiva della normativa sulla responsabilità dei magistrati. Su tale profilo ci si riserva di valutare ricorso per cassazione o l'azione contro lo Stato. Resta la soddisfazione per una pronuncia che anche in sede civile, riconosce tutte le ragioni che avevano indotto l'onorevole Mastella ad agire a difesa di diritti pesantemente lesi da condotte illecite. Va peraltro ricordato che quella indagine si concluse con la totale archiviazione degli indagati", concludono i legali.

Mastella: "Alla fine la giustizia giusta arriva" "Posso solo dire che tranne la lunghezza dei tempi, alla fine la giustizia giusta spesso arriva - commenta Clemente Mastella -. Deciderò con gli avvocati il prosieguo giudiziario nei confronti dell'ex sindaco di Napoli, candidato alle Europee e al Comune, pur avendo svolto la sua attività in queste realtà. La cosa l'ho sempre considerata ingiusta e incostituzionale". 

Paga il tecnico e il pm se la cava. Luca Fazzo il 21 Marzo 2022 su Il Giornale.

Se c'erano dei dubbi sulla necessità di mettere mano alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati, a fugarli dovrebbe bastare la singolare, amara sorte toccata a Gioacchino Genchi.

Se c'erano dei dubbi sulla necessità di mettere mano alla legge sulla responsabilità civile dei magistrati, come chiedeva il referendum respinto venti giorni fa dalla Corte Costituzionale, a fugarli dovrebbe bastare la singolare, amara sorte toccata a Gioacchino Genchi, ex funzionario di polizia, ed ex consulente informatico di numerose procure. Il povero Genchi viene condannato dalla Corte d'appello di Roma a risarcire tre ex indagati di cui aveva intercettato, esplorato, meticolosamente analizzato le conversazioni, benché fossero parlamentari della Repubblica, e come tali protetti dalla Costituzione. Dopo una serie di andirivieni processuali i tre politici intercettati abusivamente si sono visti dare ragione. Si tratta di Clemente Mastella, già ministro della Giustizia, dell'europarlamentare Sandro Gozi e dell'ex sindaco di Roma Francesco Rutelli, che erano finiti anche loro nel tritacarne dell'indagine «Why Not» della Procura di Potenza, condotta dal pm Luigi de Magistris, appoggiata in ampia parte sulle consulenze informatiche di Genchi e alla fine afflosciatasi in una assoluzione generale. Il reato commesso da Genchi è ormai prescritto, ma restano le conseguenze più pesanti e concrete: i risarcimenti che l'ex poliziotto dovrà pagare di tasca sua. Ma il suo mandante, il pm che gli aveva commissionato le consulenze, e che non poteva non conoscerne i metodi, non risponderà di nulla: la richiesta di danni a de Magistris, spiegano i legali degli intercettati, è stata dichiarata inammissibile in base «a una applicazione assai restrittiva della normativa sulla responsabilità civile dei magistrati». Esito surreale: paga il braccio, la mente se la cava. Ma il referendum non si farà.

·        Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Erika, Omar e le 97 coltellate. Quando l'assassino non si ferma. Assassini che continuano a colpire la propria vittima anche dopo la morte: è il fenomeno dell'overkilling. La psicologa Ilaria Cabula a ilGiornale.it: "Nervosismo, mancanza di controllo e desiderio di vendetta possono causare questo comportamento". Francesca Bernasconi il 23 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Centinaia di coltellate uccisero Elisa e Patrizio, i fidanzatini di Cori. E quasi cento fendenti diedero la morte alla mamma e al fratellino di Erika, a Novi Ligure. È il fenomeno dell'overkilling, che porta l'omicida a infierire sul corpo della propria vittima, anche quando questa ha già smesso di vivere. Ma in cosa consiste e cosa può scatenare questo comportamento? A spiegarlo, in un'intervista a ilGiornale.it, è la dottoressa Ilaria Cabula, psicologa formata in psicologia clinica e in psicologia forense.

Diamo una definizione di overkilling. Cosa si intende con questo termine?

"Il termine ha avuto origine, in ambito militare, intorno agli anni ’50 con riferimento alle armi nucleari, capaci di distruggere più volte il bersaglio. Col tempo ha però acquisito un significato differente. Attualmente la parola 'overkilling' viene utilizzata per indicare l’utilizzo di una forza eccessiva o un’azione che risulti essere di gran lunga maggiore rispetto a quanto sia necessario per uccidere la vittima. Proprio per tale ragione è, spesso, un’azione che si protrae post-mortem, ovvero dopo l’uccisione della persona".

Quando si può parlare di overkilling?

"Uno studio recente [Martins T.:2019] ha evidenziato come si possa identificare un punto di cut-off, ossia il punto in cui si può parlare di un eccesso di violenza per commettere un omicidio. Tale cut-off è rappresentato da 3 ferite da arma da fuoco, 17 coltellate e 6 ferite da colpo contundente".

Quale potrebbe essere stato un caso italiano di overkilling?

"Un caso tipico di overkilling in Italia si può, per esempio, ritrovare nel delitto di Novi Ligure, in cui i due autori di reato – Erika de Nardo e Mauro Favaro (detto Omar) – avevano inflitto sulle vittime 97 coltellate, ossia un numero di coltellate maggiore e spropositato rispetto a quelle 'necessarie' per commettere l’omicidio".

"Ma tu quante gliene hai date?" Due coltelli e il piano criminale

Cosa può scatenare questo comportamento in un assassino?

"Ci sono varie teorie che possono spiegare il perché venga messo in atto un simile comportamento. In primo luogo, ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che si tratti di un comportamento incontrollato, in cui l’offender ripete gli stessi atti violenti in modo quasi meccanico, a causa di un’eventuale reazione da parte della vittima e del procedere degli eventi. In secondo luogo l’eccesso di violenza potrebbe essere spiegato anche dal nervosismo da parte dell’autore del reato e dalla paura di poter essere riconosciuto dalla vittima o che la vittima stessa possa sopravvivere e, quindi, denunciare l’accaduto. Una teoria differente riguarda invece gli omicidi a stampo o comunque effettuati dalla criminalità organizzata, in cui l’overkilling può essere scatenato dal desiderio di vendetta e dal desiderio di mutilare la vittima a scopo dimostrativo".

Ci sono tipologie di delitti nelle quali è più probabile l’overkilling?

"Generalmente l’overkilling si ritrova nei delitti disorganizzati, ossia quegli omicidi non pianificati, in cui la scena del crimine appare caotica e disordinata, e il corpo della vittima non viene occultato o spostato. Qui sono tipiche delle azioni incontrollate, come possono essere quelle legate all’overkilling. A livello statistico la letteratura scientifica evidenzia come vi siano tipologie di delitti in cui può essere maggiormente riscontrato l’overkilling: omicidi a sfondo sessuale, omicidi nei confronti della comunità Lgbt+, omicidi in cui vi è un legame tra l’offender e la vittima, omicidi a stampo mafioso".

L’overkilling è sinonimo di un’azione impulsiva o potrebbe caratterizzare anche i delitti premeditati?

"Nella maggior parte dei casi, per sua natura, l’overkilling risulta essere un’azione impulsiva. A riguardo, per esempio, è stato coniato il termine 'overkill syndrome' per indicare 'attacchi frenetici caratterizzati dall’assenza di controllo' da parte dell’autore del reato".

Questo fenomeno è legato all’utilizzo di un particolare tipo di arma?

"Generalmente l’overkilling viene messo in atto mediante armi da fuoco, armi da taglio e oggetti contundenti. Le armi da fuoco risultano essere l’arma maggiormente utilizzata nei casi di omicidio, grazie alla facilità – in alcuni Paesi – dell’accesso allo strumento, alla distanza che l’offender può tenere tra sé e la vittima e alla capacità di assicurarsi di raggiungere il proprio obiettivo, ovvero l’uccisione della vittima. L’utilizzo di armi da taglio, quindi coltelli e qualsiasi oggetto appuntito, si riscontra specialmente nei casi di omicidio a sfondo sessuale o in cui vi era un legame tra l’autore del reato e la vittima. Gli oggetti contundenti vengono, invece, trovati spesso all’interno delle scene del crimine di tipo disorganizzato e indicano come l’omicidio sia stato impulsivo e non pianificato".

Morto Carlesi, il magistrato che indagò Erika e Omar per la strage di Novi Ligure. La Repubblica il 25 febbraio 2001

Il pm aveva 92 anni e nel 2001 fu tra i primi ad arrivare nella villetta della tragedia

E' morto nelle ultime ore ad Ovada, nell'alessandrino, Carlo Carlesi, l'ex magistrato il cui nome è rimasto indissolubilmente legato al delitto di Novi Ligure.

Era il 2001 quando Erika De Nardo e Omar Favaro uccisero Susanna Cassini e Gianluca, rispettivamente madre e fratello minore della ragazza. Carlesi che aveva 92 anni, all'epoca dei fatti era procuratore della Repubblica ad Alessandria: fu tra i primi ad arrivare nella villetta dove si era consumata la tragedia.

Le cronache dell'epoca riportano dello sconcerto del magistrato, con una lunga attività alle spalle, di fronte a uno scenario senza precedenti per efferatezza. Fu il primo a comprendere a pieno il ruolo dei due minori nella vicenda. Carlesi lascia la moglie Teresa. Il funerale sarà celebrato domani

Intervista a Carlo Carlesi, procuratore di Alessandria, il magistrato che ha risolto il caso. MEO PONTE su La Repubblica il 2 Agosto 2022.

"L'ho vista mimare la coltellata e dire: quante gliene hai date?"

Mauro: "Tu continua a dire che sono stati gli albenesi"

Erika: "Stai tranquillo che in galera non ci vai"

"Il caso è chiuso ma non sono contento. Ho la sensazione di aver tradito il padre di quella sventurata ragazza. La sera in cui abbiamo scoperto il massacro nella sua villetta, io, davanti ai corpi maciullati dalle coltellate di sua moglie e suo figlio, gli ho promesso che avrei fatto di tutto per trovare i responsabili di quello scempio. E' vero, ho ricostruito la verità  e identificato gli assassini ma a quell'uomo ho spalancato un nuovo inferno", dice con tono amaro Carlo Carlesi, procuratore capo di Alessandria. Settant'anni, di cui quarantatrè passati in magistratura, Carlesi ieri ha trascorso la giornata a casa sua, nel centro di Ovada, riflettendo sull'inchiesta appena conclusa. 

Procuratore, lei non sembra soddisfatto, nonostante la rapida conclusione dell'indagine.

"Conclusione choccante però, tanto da sconvolgere anche me nonostante tutti gli anni passati nella magistratura. Ora non riesco a dimenticare quel padre che ha avuto la vita completamente distrutta". 

Lei ha sempre ammesso di essere stato colpito dall'efferatezza del massacro di Lodolino.

"Sin da quando messo piede in quella villetta ho avuto l'impressione di camminare in un incubo. Come potrà scordare il cadavere del piccolo Gianluca, sommerso nell'acqua della vasca da bagno rossa per il sangue. Quel bimbo ha lottato sino allo stremo per sopravvivere, lo confermano le ferite sul corpo, le nocche sbucciate per aver tentato di reagire con i suoi piccoli pugni. E sua madre, sbudellata come un animale nella cucina al piano di sotto. L'ho giurato in quel momento che avrei trovato i colpevoli di quel massacro". 

Alla fine però il colpevole lo ha trovato dentro a quella stessa casa.

"Ed è stato uno choc. Perchè all'inizio io a Erika ho creduto. Piangeva, si disperava, mostrava i disegni del fratellino, ripeteva che in casa erano entrati due uomini, spiegava l'accaduto con motivazione logiche. Ricordo che diceva: "Sono venuti e si sono trovati di fronte a tre persone che non pensavano di trovare in casa. Per questo si sono scatenati". Era un racconto perfettamente credibile". 

E allora perchè non le ha creduto?

"Perchè non mi convinceva proprio la sua precisione. Oltre alle altre incongruenze della storia: l'orario del tutto inadatto a un furto in casa, la ferocia con cui le vittime erano state uccise. Sa che il medico legale, che pure di uccisioni ne ha viste tante e che lavora per me da dieci anni, dopo aver visto quei due corpi straziati, mi ha detto: Dottore qui siamo di fronte a uno come Diabolik". 

Invece i mostri erano ragazzini...

"Erika è un'adolescente ma ha la maturità di una trentenne. Ed è fredda come il ghiaccio. In caserma avevano cominciato a chiamarla proprio così, Ghiaccio. Sua madre e suo fratello erano appena stati massacrati e lei era in grado di descrivere nei minimi particolari gli assassini. Ne disegnava lei stessa il volto. Mi avrà fatto venti ritratti di quello che lei diceva essere un albanese con la barba bianca e sui quarant'anni. Gli aveva anche messo un orecchino al lobo sinistro. Però io, vedendola così precisa e poi scoppiare improvvisamente in lacrime dicendo che la mamma e il fratellino erano angeli volati in cielo, ho cominciato a dubitare. Ho voluto leggere i suoi temi, le poesie che raccoglieva in fogli sparsi, il suo diario. Ci ho trovato strane frasi, una poesia parlava dell'irresistibile richiamo della morte. Anche se era davvero difficile sospettare di quella bimba che si lasciava stringere dal padre che le ripeteva che le era rimasta solo lei e sussurrava: Papà non piangere, la nostra mamma è volata in cielo". 

E' per incrinare la sua freddezza che l'ha riportata a Lodolino venerdì mattina?

"Sì, e con lei ho voluto portare anche il suo ragazzo, Mauro-Omar. A lui ho detto che sarebbe stato di conforto a Erika, invece li volevo riportare in quella casa per fargli ricordare quello che avevano fatto". 

Li ha interrogati dopo?

"No, li ho portati in caserma e li ho lasciati da soli per quattro ore, dalle 13 alle 17, in un stanza al primo piano dove avevamo sistemato una telecamera e un microfono. Loro erano seduti uno accanto all'altro e si abbracciavano sussurrando. Io e i carabinieri eravamo nella stanza accanto a guardarli ed ad ascoltarli". 

E cosa li ha sentiti dire?

"Lei sembrava quella con i nervi più saldi, lui mi pareva succube. L'ho sentita mormorare: "Non ti preoccupare, stai tranquillo che in galera non ci vai. Se ti accusano ci penso io, sono l'unica testimone che hanno e dico che tu quella sera non c'eri a casa mia". Lui invece sussurrava: "Tu continua a dire che sono stati gli albanesi". Era lei che cercava di fargli coraggio dicendo: "Stai tranquillo, ci credono, sono l'unica testimone, l'unica che ha visto". Ogni tanto entravo nella stanza fingendo di chiedere se avevano bisogno di qualcosa, loro si staccavano e si sedevano ai lati del tavolo. Ritornavo nella stanza accanto e riascoltavo i loro orribili sussurri. Poi a un tratto lei ha mimato una coltellata, ha fatto il gesto di chi colpisce con un coltello. E ha detto a lui: "Ma quante gliene hai date?". Ho capito che avevo risolto il caso". 

Ma non è contento.

"No perchè penso a quel povero padre. Non ho avuto la forza di dirgli che l'assassino lo avevo trovato ma che si trattava di sua figlia. Credo che lui lo abbia capito solo all'ultimo momento e posso immaginare quello che sta passando. Vorrei dirgli che mi dispiace che sia finita così ma io dovevo fare il mio dovere, trovare la verità". La Repubblica (25 febbraio 2001)

Niccolò Zancan per "La Stampa" il 20 febbraio 2022.

Fra i vitigni del Groppello e le brume tiepide del lago. Qui si può ricominciare un'altra vita. Anche dopo un massacro. Erika De Nardo non è più la ragazzina di 16 anni, il cui nome veniva pronunciato sempre in coppia con quello del fidanzato Omar Favaro. 

Oggi è una donna di 37 anni, lavora in un'azienda agricola di un piccolo paese, coordina una squadra di viticoltori. Ha un ufficio che guarda la collina, e sulla parete alle sue spalle c'è la cartina del mondo. 

Sono vini da spedire, ordini da evadere. Certo, molti conoscono il suo passato, ma qui conta il presente. Quello che fai ogni giorno. Conta il vino che verrà. Alle 12: pausa pranzo. I trattori ritornano indietro. Arrivano i cestini con il cibo, e su ogni pacco c'è scritto il nome del lavoratore. Nomi italiani e stranieri, religioni diverse. «De Nardo Erika», quindi.

«Sto bene, grazie. Ma non voglio parlare, preferisco così». Tutti hanno parlato del delitto di Novi Ligure, sono stati anni di dibattiti e sociologie nel tentativo di decifrare l'incomprensibile. 

Era la sera del 21 febbraio 2001. Una sera identica a queste. «Una famiglia modello», ripetevano i vicini in quella terra di confine fra Piemonte e Liguria. Il padre era andato a giocare a calcetto.

Francesco De Nardo, dirigente della Pernigotti, fabbrica di cioccolatini, non era in casa quando la moglie Susy Cassini fu trovata uccisa con quaranta coltellate: colpita prima alle spalle e poi di fronte, con il tavolo della cucina spezzato a metà e lo stereo al massimo volume per coprire le grida, mentre implorava salvezza per il figlio.

Gianluca De Nardo, 12 anni, era al piano di sopra. Nell'ultimo tema in classe aveva scritto: «Il mio miglior amico è mia sorella Erika». Era nella vasca da bagno, dopo una partita di basket. 

E si fidava di sua sorella al punto da riconsegnarle il coltello che era riuscito a strapparle di mano: morì dopo 57 coltellate, dibattendosi per non affogare. «Eh, minchia, aveva solo dieci anni vissuti, mio fratello. Poi ha urlato», fu una delle frasi intercettate la prima volta che Erika De Nardo venne portata in caserma.

Insomma, si capì in fretta che non erano stati «due albanesi». Non erano stati «gli immigrati clandestini» contro cui la Lega Nord già sfilava nelle strade. Erano stati loro, «i fidanzatini». Erano stati Erika e Omar. 

Forse avrebbero voluto uccidere anche il padre al ritorno dal calcetto, ma Omar Favaro si era ferito a una mano e si era sentito stanco, così a un certo punto decise di andarsene. Il padre tornò, si rese conto e accolse quella tragedia, tutta intera, fra le sue braccia.

Nessun movente è mai stato trovato per spiegare, almeno in qualche modo, il massacro di Novi Ligure. Francesco De Nardo è stata accanto a sua figlia nel processo e nei dieci anni di carcere, durante i quali lei si è laureata in Filosofia. 

Anni in cui in televisione si commentavano le lettere d'amore che lei riceveva, da aspiranti o presunti fidanzati. Scarcerata definitivamente il 5 dicembre 2011 mentre era nella comunità Exodus di Don Mazzi a Lonato, Erika De Nardo aveva già incominciato a tessere la trama della sua nuova vita. 

Perché è stato proprio in quel tempo, in attesa della libertà, che Erika De Nardo ha incontrato l'uomo con cui è fidanzata da molti anni. È un musicista di 47 anni che abita nella zona del lago di Garda.

L'aveva incontrato per la prima volta all'ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere, dove lui andava a aiutare come volontario. Sono rimasti legati. Così alla fine non è partita per il Madagascar, come qualcuno aveva annunciato. 

No, Erika De Nardo è rimasta fra la Lombardia e il Veneto, intorno al lago di Garda. All'inizio aiutava il suo fidanzato nel negozio di strumenti musicali, mentre lui faceva lezioni di chitarra. 

«Non è stato facile per i genitori di quell'uomo», racconta oggi una vicina di casa. «Li ho sentiti ripetere frasi che ben pochi genitori hanno nel cuore. "Speriamo che non facciano figli", dicevano così dopo che avevano saputo la storia di lei.

Ma poi Erika si è fatta ben volere. Devo dire la verità: lei qui si sempre comportata in maniera esemplare, educata, gentile con tutti. Nessuno le chiede del suo passato, e nemmeno le ho mai sentito fare dei riferimenti. Sono cose molto delicate». 

Passano in bicicletta quattro turiste tedesche. Sono stradine e discese. Sono vigne geometriche, agriturismi. Punti da cui lo sguardo arriva fino all'altra sponda. Frazioni minuscole, di piccoli paesi. 

«Ci conosciamo tutti, e tutti purtroppo conosciamo l'orrore di vent'anni fa in quella casa di Novi Ligure», dice una signora che lavora nella zona. «Ammetto che certe volte mi domando come faccia quella ragazza a venire a patti con i suoi ricordi, ma non tocca a me giudicare. Ha scontato la pena, qui si è inserita bene, ha trovato una nuova famiglia e un lavoro, le hanno affidato anche un ruolo di responsabilità».

Dopo un'intervista in prima serata, Omar Favaro è scomparso di scena. Anche Erika De Nardo ha fatto perdere le sue tracce: non usa i social e sul web non si trova una sola parola che riguardi la sua nuova vita. 

Ogni febbraio torna in mente il mistero di quel delitto, che nessuno probabilmente riuscirà mai a capire. «Una cosa del genere per fortuna accade al massimo ogni secolo», disse la presidente del Tribunale dei minori di Torino Graziana Calcagno. Il padre di Erika De Nardo vive sempre a Novi Ligure, in quella casa.

Nell'unica intervista rilasciata in questi vent'anni, ha cercato di spiegare il suo stato d'animo a un giornalista del Corriere della Sera: «La mia vita è stata spazzata via da un tornado, ma non è vero che sono solo e disperato. Voi vi ostinate a non capire che io ho ancora lei, ho Erika. E farò di tutto per proteggerla finché rimarrò al mondo».

Adesso che anche il turno pomeridiano di lavoro è finito, Erika De Nardo si incammina verso casa. Ci vogliono pochi minuti. È stato il padre a comprare quell'appartamento per lei e il suo fidanzato, il padre che non l'ha mai abbandonata.

·        Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Il delitto di Garlasco. "Forse hanno paura...". Quelle perizie che possono riaprire il caso di Garlasco. Nel 2016 nel caso di Garlasco si registra una svolta inattesa: a seguito di indagini difensive private svolte dalla difesa di Stasi, un ragazzo finisce nell'occhio del ciclone. Secondo i legali, c'è il suo Dna sotto le unghie di Chiara Poggi. Gianluca Zanella su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.

 La mossa della difesa di Alberto Stasi

 Di chi è il Dna sotto le unghie di Chiara Poggi?

 Quegli strani post su Facebook

 "Una persona estremamente intelligente"

Quando, nel 2015, la sentenza della corte di Cassazione decreta la colpevolezza di Alberto Stasi, bollandolo come l’assassino della sua fidanzata Chiara Poggi, uccisa nella sua casa di Garlasco il 13 agosto del 2007, sulla triste vicenda sembra destinato a calare il sipario. Un colpevole dietro le sbarre, una vittima cui è stata resa giustizia, due famiglie irrimediabilmente distrutte.

Una pia illusione. Come poter considerare chiuso un caso su cui si addensano così tante e tali ombre? Nel corso di precedenti articoli ci siamo soffermati solo su una piccolissima parte di punti oscuri, incongruenze, domande senza risposta. Il dramma è che potremmo continuare a scrivere ancora a lungo.

Il sipario di certo non cala per i legali di Stasi, che partendo da quei punti oscuri ricominciano a impostare il proprio lavoro. Una fatica di Sisifo, si direbbe, ma loro non la pensano così. Pensano che davvero sia possibile dimostrare l’innocenza del loro assistito.

La mossa della difesa di Alberto Stasi

È per questo che il 29 settembre 2016, l’allora legale di Stasi, Angelo Giarda, in accordo con il suo team di avvocati e in vista di una possibile revisione del processo, conferisce un incarico di investigazioni difensive alla società Skp Investigazioni & Servizi di Sicurezza srl. L’oggetto dell’incarico era “indagini difensive nell’interesse di Alberto Stasi, attualmente condannato in via definitiva in forza della sentenza n° 55/14 emessa in data 12.12.2015, con i più ampi poteri”. Sappiamo che Stasi inizialmente non era convinto di questa iniziativa. La considerava una sorta di inutile colpo di coda per rimandare un finale che ormai da troppo tempo appariva scontato. Nonostante questo, i suoi avvocati vanno avanti e la Skp comincia il suo lavoro.

Gli investigatori – dopo un attento studio degli atti - decidono di partire con una scrupolosa verifica dei soggetti gravitanti intorno alla vittima che non avevano un alibi confermato per il giorno dell’omicidio. Ne risulta una rosa di nomi che, verifica dopo verifica, si restringe sempre di più, fin quando a finire sotto la lente d’ingrandimento è una singola persona. Un uomo, o meglio, all’epoca un ragazzo. Ci riserviamo di tornare su questa persona in separata sede, basti ora dire che l’attività della Skp si tradusse in un risultato clamoroso e sconvolgente, un qualcosa che – per un attimo – sembrò poter riscrivere il caso del delitto di Garlasco con esiti imprevedibili.

Perché solo per un attimo? Ve lo spieghiamo. Per dare avvio a questa attività particolarmente delicata, la società di investigazioni parte dai documenti presenti nel fascicolo processuale: si comincia con un’attenta analisi delle dichiarazioni rese, un’analisi approfondita dei tabulati telefonici e del traffico di cella, uno studio delle consulenze e delle perizie; contemporaneamente inizia un’attività di sopralluogo, pedinamento e monitoraggio dei social media.

Il soggetto sembra effettivamente d’interesse, dunque si punta su uno dei pochi dati rimasti inesplorati: la perizia genetica svolta nel 2014 sulle unghie della vittima, che aveva evidenziato la presenza di un profilo di Dna maschile, risultato incompatibile (dopo apposito confronto) con quello di Alberto Stasi.

Prima di compiere qualunque altro passo, gli avvocati di Alberto Stasi studiano attentamente la normativa sulla privacy. Oltre al Codice della privacy e a quello di procedura penale, esce fuori che nel 2016 esisteva anche un’autorizzazione generale del garante della privacy – rinnovabile anno per anno – in cui si consentiva di poter prelevare (a certe condizioni) il Dna nell’ambito d’indagini investigative penali. Nonostante questo, tutto il lavoro svolto si ritorce contro, uno tsunami alimentato dal tamburo mediatico che trova rinnovata forza per tornare su un caso che sembrava irrimediabilmente improduttivo, e una procura – quella di Pavia – che definisce l’attività un “maldestro tentativo di trovare ancora una volta un colpevole alternativo”.

Il lavoro della Skp – che insieme agli avvocati e ai consulenti viene denunciata per violazione della privacy, falso e calunnia – viene smontato pezzo per pezzo. Il giovane finito per un attimo dentro l’occhio del ciclone scivola via dalla vicenda con un’archiviazione. Quello che nessuno ricorda, però, è che anche gli avvocati di Stasi e la Skp ottengono l’archiviazione per l’assoluta infondatezza della notizia di reato, essendo il tutto stato fatto “nel pieno rispetto delle norme”. Dopo il 2016, pare che il garante della privacy non abbia più emesso un’autorizzazione simile.

A dispetto degli anni precedenti, questo spin-off nel caso di Garlasco occupò solo per un limitato spazio temporale i palinsesti televisivi o le pagine dei giornali. Il caso ormai non faceva più notizia come prima e questo violento e inaspettato exploit non ha lasciato nell’immaginario comune molte tracce, se non la certezza che gli avvocati di Stasi abbiano provato in tutti i modi, disperatamente, goffamente, sbagliando tutto, di dimostrare l’indimostrabile.

Non è esattamente così e ne parleremo diffusamente in un altro articolo. In questo caso, però, ilGiornale.it ha ottenuto un’intervista esclusiva, in cui - per la prima volta - parla uno dei soci della Skp, la società di investigazioni private che ha condotto le indagini su mandato degli avvocati di Stasi e che, da questa vicenda, è uscita con le ossa non rotte, ma sicuramente contuse.

Di chi è il Dna sotto le unghie di Chiara Poggi?

Il nostro interlocutore – di cui non sveliamo il nome per questioni di riservatezza – è un ex poliziotto di lungo corso. Una carriera incredibile, la sua, una vita pericolosa e a contatto con la criminalità organizzata poi, dopo la pensione, la scelta di non indossare le pantofole, ma di continuare a fare ciò in cui è sempre stato bravo.

Come chiunque abbia approcciato il caso di Garlasco, anche lui inizialmente era molto scettico. Non che si fosse mai chiesto se Stasi fosse colpevole o innocente, ma a pelle propendeva certamente per la prima opzione. La sua opinione cambia radicalmente dopo il primo colloquio con gli avvocati e dopo oltre un mese passato a studiare con i suoi collaboratori tutta la documentazione all’epoca disponibile.

Di qui, la convinzione che qualcosa non andava, che un assassino poteva ancora essere e piede libero mentre un innocente era dietro le sbarre. E dopo una prima fase di studio e di selezione, tutto converge su quell’unica persona. Quando lo abbiamo incontrato, la prima cosa che gli abbiamo chiesto è se lui o qualcuno dei suoi avessero ricevuto dagli avvocati di Stasi una qualche indicazione, se - insomma - qualcuno avesse suggerito di concentrarsi su quella persona: "Assolutamente no", ci ha risposto, "a quel punto gli avvocati dovevano giocare l’ultima carta: quella di rivolgersi a soggetti terzi per cogliere negli atti qualcosa che a loro era sfuggito. Per questo si sono rivolti a noi. Quando cominciammo a concentrarci sul soggetto – era passato circa un mese dall’assunzione dell’incarico - chiamai uno degli avvocati di Stasi per chiederle se lo conoscesse. Restò interdetta, aveva sicuramente letto quel nome negli atti, ma non ne sapeva nulla. A quel punto proseguimmo il nostro lavoro, senza mai interagire, almeno in questa fase iniziale, con la difesa di Stasi".

Un lavoro dunque svolto in autonomia e nella massima riservatezza possibile. C'era infatti l'assoluta necessità di non mettere in allarme nessuno. Ma prima di arrivare a scavare nella vita di questo ragazzo, dev'essersci stato un innesco. Da dove nasce l'interesse per questa persona? È la domanda che abbiamo fatto all'investigatore della Skp: "Nasce dall’analisi di tutta la corposa documentazione che avevamo a disposizione. La prima volta che ha catturato la nostra attenzione è stato quando – come abbiamo fatto per tutti i soggetti privi di alibi per il 13 agosto 2007 – abbiamo visitato il suo profilo Facebook. Ricordo che ci venne la pelle d’oca. C’era qualcosa d’inquietante, contenuti che venivano postati in corrispondenza di date chiave nella vicenda processuale che vedeva coinvolto Alberto Stasi".

Quegli strani post su Facebook

Dunque l'attenzione scatta per dei post su Facebook. Alla domanda se non si potesse trattare di una mera coincidenza, l'investigatore scuote energicamente il capo, come se si aspettasse questa obiezione e, quasi sussurrando, ci risponde: "No, il soggetto non ha mai mancato una ricorrenza per pubblicare certi contenuti. Mai".

Pur prestando fede alle parole dell'ex poliziotto, non possiamo non dirgli che ci sembra una ragione un po' debole per decidere di cominciare a monitorare la vita di una persona fino a quel punto rimasta estranea alla vicenda. Lui capisce le nostre perplessità e aggiunge un particolare non da poco: "Non è stato solo questo ad attirare il nostro interesse investigativo. Questo è stato solo un primo elemento. Da questo momento in poi ci siamo concentrati maggiormente su di lui, pur continuando a valutare la posizione di altre persone. Decidiamo di focalizzarci solo su di lui quando scoviamo tra gli atti una sit del 4 ottobre 2008. Il soggetto siede a distanza di oltre un anno di fronte ai carabinieri. È solo in questa occasione che rende una dettagliata spiegazione di come avesse impiegato la mattinata del 13 agosto 2007. Alla fine del suo racconto, con un colpo di teatro peraltro non richiesto, estrae una prova per puntellare le sue dichiarazioni".

La domanda s'impone obbligatoria: quale prova? "Uno scontrino chimico. Uno di quelli che si cancella anche solo tenendolo in tasca per mezza giornata o lasciandolo sotto il sole sul cruscotto della macchina". Anche in questa occasione, cerchiamo di cogliere l'importanza di quanto ci è stato appena detto. In nostro soccorso l'investigatore aggiunge qualcosa: "Ripeto, si trattava di uno scontrino chimico risalente alla mattina del 13 agosto 2007, esattamente un anno e due mesi dopo l’omicidio di Chiara Poggi. Il soggetto lo consegna ai carabinieri intonso, come se fosse stato conservato con la massima cautela. Per quale ragione conservare in quel modo uno scontrino? È da questa domanda che ci siamo insospettiti".

Quindi prima un monitoraggio sui social network attira l'attenzione, poi esce fuori la storia dello scontrino. È in questo momento che si decide di passare all'azione. Gli investigatori della Skp cominciano a monitorare da vicino le attività quotidiane di questa persona, riuscendo a ricostruire il contesto sociale in cui si muoveva: "Per quello che abbiamo visto noi, era una persona estremamente sola. Faceva solo casa e lavoro, non incontrava nessuno. Nessuno. Nessun amico. Nessun tipo di interazione". Decisamente strano, dal momento che leggendo gli atti si evince che il ragazzo, almeno fino al 2007 (prima volta in cui viene sentito dai carabinieri, ndr), era inserito in una fitta rete amicale: "Sì, così doveva essere, ed è risultato strano anche per noi, ma per quelli che sono stati i nostri accertamenti si è visto tutt’altro, almeno in quel momento. Tieni conto che la nostra attività è andata avanti per un po'. Non è stata una cosa di pochi giorni, né di poche settimane. È andata avanti per un tempo importante, da fine ottobre 2016 ai primi di dicembre dello stesso anno, mi pare. L’abbiamo monitorato a mezzo servizi mirati".

"Una persona estremamente intelligente"

L'ex poliziotto e oggi investigatore ci dice di aver avuto l'impressione di aver a che fare con una persona estremamente intelligente e, soprattutto, molto attenta. Non è stato facile monitorarlo senza essere scoperti: "Ma siamo stati bravi noi. Ci siamo dovuti impegnare perché, come detto, non era uno sprovveduto".

Al netto di tutte le attività svolte, al netto anche del Dna prelevato che doveva essere la prova regina per scagionare Stasi e individuare un altro responsabile dell'omicidio di Chiara Poggi, nel decreto di archiviazione che tira nuovamente fuori il ragazzo da questa storia sembra quasi che gli investigatori abbiano scherzato. Mediaticamente è passato come se avessero tentato un’operazione tanto disperata quanto sporca ai danni di un povero disgraziato. Possibile che tutto questo lavoro sia andato sprecato?

"È stato tutto archiviato", puntualizza l'ex poliziotto, "sia la posizione del soggetto, sia la nostra. Ma a noi è costato un bel 25mila euro di avvocati. Non proprio una passeggiata di salute. Comunque la domanda che mi fai, se è andato tutto sprecato, potrebbe avere un migliaio di risposte differenti. L’una il contrario dell’altra. Posso dirti che, secondo me, non sarà un lavoro perso. Ne sono intimamente sicuro".

E sulla validità delle indagini svolte? Anche su questo punto l'uomo non ha esitazioni e difende fermamente il lavoro fatto dalla Skp: "Non sono soltanto io a dirlo. Chi avesse la curiosità di studiare le carte, si renderà conto della serietà del nostro lavoro e del tenore degli elementi raccolti. Che poi mediaticamente sia passato altro non mi stupisce. Nessuno vuole che qualcun altro passi ciò che ha passato Alberto Stasi, però è bene ricordarsi che le analisi sul Dna che abbiamo fatto noi sono replicabili all’infinito. Il Dna del soggetto è sempre possibile prenderlo e i tracciati sulle unghie di Chiara Poggi sono cristallizzati in una perizia che ci sarà da qui a per sempre e quindi, se mai qualcuno in futuro avrà la curiosità di riverificare il tutto, magari con una consulenza tecnica, sarà sempre possibile farlo. Perchè mi pare che la Procura di Pavia abbia archiviato senza farla, ritenendo quel Dna degradato. Però non voglio entrare in dettagli tecnici perchè non sono la mia materia".

Prima di lasciarci, resta una domanda impellente. Chiediamo all'investigatore se, dal suo punto di vista, esiste qualcuno, oltre al soggetto individuato, che ha qualcosa da perdere nell'accertare una verità diversa da quella stabilita nel 2015 dalla Cassazione. L'uomo ci guarda in silenzio, sembra non avere intenzione di risponderci. Ma inaspettatamente lo fa. E noi sentiamo un brivido correrci lungo la schiena: "Ma certo. Secondo me ci sono almeno altre due persone che temono che questa cosa possa avere altri risvolti diversi da quelli attuali. Le sentenze dicono diversamente, ma la mia opinione personale è che abbiamo una persona in galera che non ci dovrebbe stare. Non si può parlare di solide prove. Ci sono degli indizi, ma ci sono anche tante cose che ancora oggi lasciano perplessi".

Il delitto di Garlasco. 23 minuti per un massacro: tutti i punti bui del delitto di Garlasco. Nel corso della vicenda giudiziaria che ha visto sotto i riflettori Alberto Stasi, l'orario della morte di Chiara Poggi è sempre stato un elemento fondamentale che, a un certo punto, è stato plasmato alla bisogna. Gianluca Zanella il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

A che ora è stata uccisa Chiara Poggi?

Delitto di Garlasco, gli errori nella perizia del Ris

Delitto di Garlasco, 23 minuti per un omicidio

La seconda puntata di un'inchiesta sul delitto di Garlasco. Alberto Stasi è stato condannato in maniera definitiva per l'omicidio della sua fidanzata. Il nostro giornalista d'inchiesta, Gianluca Zanella, ripercorre, carte alla mano, le indagini e il processo mettendo in evidenza luci e ombre di uno dei primi casi mediatici di omicidio in Italia.

Alberto Stasi ha ucciso Chiara Poggi ed è stato condannato nel 2014 a 16 anni di reclusione. Facendo il conto della serva, tra un paio di anni potrebbe uscire. Non definitivamente, certo, ma al più tardi tra un decennio si sarà lasciato questa esperienza alle spalle. Come se fosse possibile lasciarsi alle spalle una condanna per omicidio. L’omicidio della propria fidanzata.

Sì, perché ad aver sfondato il cranio di una ragazza di 26 anni con un arnese certamente metallico e mai ritrovato, è stato Alberto Stasi. Lo dice la Cassazione dopo un processo schizofrenico, dove prima il biondino dagli occhi di ghiaccio sembrava innocente. Certo non puro come un agnellino, ma innocente. E poi cos’è successo?

Poi la giustizia terrena, quella degli uomini, delle donne, dei talk show televisivi e dei mass media in generale, ribalta tutto. Stasi è l’assassino di Chiara Poggi e a confermarlo sono – in particolare - sette evidenze indiziarie individuate dalla Corte d’Appello di Milano in sentenza di condanna e caratterizzate dall’essere gravi, precise e concordanti. Nell’ordinamento giuridico italiano, infatti, l’esistenza di un fatto (in questo caso la colpevolezza di Alberto Stasi) non può essere dedotta da indizi che non abbiano queste tre caratteristiche.

Tutto si deve reggere in piedi, tutto deve tenersi sul filo sottilissimo dell’equilibrio come le terzine di Dante nella Divina Commedia. Altrimenti non vale. Se uno solo dei tre aggettivi viene meno, crolla tutto. Allora serve la cosiddetta pistola fumante o si aprono le porte dell’irrisolto. E un cold case – per dirlo all’americana – non è una voce di cui andar fieri sul proprio curriculum. Soprattutto se il tuo mestiere è avere a che fare con la Legge.

È basandoci proprio su questo, sulla gravità, precisione e concordanza degli indizi, che nascono le nostre prime perplessità. E non sono perplessità di poco conto. Siamo partiti da una domanda, abbiamo cercato di darci una risposta e ci siamo accorti che molte, troppe cose non si incastrano tra loro come ci si aspetterebbe. Iniziamo proprio con quel processo che abbiamo definito "schizofrenico", affrontando di petto un dettaglio fondamentale in questa vicenda: l’orario dell’aggressione che ha portato all’uccisione di Chiara Poggi.

A che ora è stata uccisa Chiara Poggi?

Determinare esattamente l’ora di un qualunque delitto – in mancanza di altre evidenze come testimonianze, prove documentali, ecc. - non è cosa banale e una precisione assoluta è pressoché impossibile. Troppe sono le variabili. Senza entrare in tecnicismi, a contare per l’individuazione di una fascia di tempo entro cui collocare un omicidio ci sono l’umidità e la temperatura ambientale, quella corporea della vittima, il suo peso, l’inizio del rigor mortis, la presenza di macchie ipostatiche e tutta una serie di altri elementi che, variando, impongono una conseguente variazione di orario che, spesso (come in questo caso), indirizzano l’andamento di un processo.

Nell’omicidio di Garlasco, le prime operazioni medico-legali sono effettuate dal dottor Ballardini, il medico incaricato dal pubblico ministero, (già intervenuto sulla scena del crimine scattando foto, praticamente insieme ai medici del 118, ndr) a partire dal 13 agosto 2007, poche ore dopo l’assassinio. Da questi esami, emerge un primo punto fermo: all’intervento del 118, che giunge sul luogo del delitto alle 14.11, il corpo di Chiara Poggi non presenta né rigor mortis né ipostasi (ristagni di sangue dovuti alla gravità e determinati dalla posizione della vittima). Questo a indicare che l’aggressione (un’azione omicidiaria ritenuta “piuttosto veloce”, ndr) e la morte, molto probabilmente, non risalivano troppo indietro nel tempo. In sede di prima autopsia, infatti, il medico fissa l’orario presunto della morte tra le 10.30 e le 12. Vale la pena ricordare che Ballardini, fino al 2009, tutte le volte in cui è stato chiamato a fare controdeduzioni alle memorie della difesa (che, con il professor Avato (avvocato di Alberto Stasi), ha sempre collocato l’ora della morte tra le 9 e le 10) ha sempre confermato la sua posizione.

Passano circa due anni. Il 17 marzo 2009, nell’ambito del primo grado di giudizio di fronte al Gup di Vigevano – e prima che Stasi chiedesse il rito abbreviato – per l’imputato si mette male: il pubblico ministero, dottoressa Muscio, sostiene che Alberto abbia mentito sul suo alibi. A differenza di quanto da lui sostenuto, infatti, il pm dice che dopo le 10.17 del 13 agosto 2007 non ci sono tracce di una sua attività sul suo pc, dove aveva detto di aver passato la mattinata a scrivere la tesi di laurea. Considerando il fatto che in questa fase l’ipotesi ritenuta più solida è che Chiara Poggi sia morta attorno alle 11 di mattina, non serve un giurista per comprendere la gravità della posizione di Stasi. Per avvalorare la bontà della ricostruzione fatta in sede autoptica dal medico Ballardini, il pm dice testualmente: "La morte di Chiara deve collocarsi alle ore 11 circa e sicuramente non prima delle 10.30, poiché una lettura diversa renderebbe incongruo il risultato di almeno uno dei parametri rispetto agli altri dati”. Di più, per fugare ogni dubbio il pm esclude l’ipotesi di una morte tra le 9 e le 10 del mattino perché “palesemente contraddittoria con i parametri ed il comportamento dei fenomeni abiotici”, cioè delle evidenze scientifiche.

Nulla di particolarmente eccezionale, fin qui il processo segue una sua linea coerente, appunto scientifica, che nulla lascia presagire riguardo quella “schizofrenia” di cui abbiamo già accennato. In questo contesto, quello dell’alibi di Alberto (definito “falso e smentito”, ndr) viene considerato dal pm – comprensibilmente - come uno degli elementi indiziari a suo carico più gravi. Il Ris dei carabinieri (all’epoca guidato dal ben noto Luciano Garofano, generale e volto televisivo divenuto celebre grazie al programma Quarto Grado, ndr), infatti, eseguono una consulenza tecnica sul portatile di Alberto Stasi e lo incastrano.

Ecco cosa c’è scritto nella loro relazione: “Il computer è stato acceso alle 9.36, l’utente Alberto viene accreditato al sistema alle ore 9.37. Tra le 9.37 e le 9.57 vengono aperti file relativi a fotografie digitali (materiale pornografico, ndr). Alle 10.05 Stasi vede un filmato della durata di circa 4 minuti dai contenuti esplicitamente pornografici (...). alle 10.17 viene registrata sulla cronologia di Internet Explorer un evento relativo al file della tesi (...). Dalle 10.17 non sono presenti tracce informatiche che comportino la presenza attiva di un utente che interagisce con il pc (....). Quindi, un primo dato indubitabile oggettivo è che Stasi, nel racconto di quanto ha fatto la mattina del 13 agosto, ha mentito”.

Sempre il 17 marzo del 2009, nelle sue conclusioni il pm, confortata dalla perizia del RIS, dichiara: “Nell’arco di tempo in cui è stato consumato l’omicidio, cioè tra le 10.30 e le 12, più verosimilmente tra le 11 e le 11.30, Alberto Stasi non ha scritto la propria tesi di laurea, come invece ha sostenuto di aver fatto”. E ancora: “Tenuto infatti conto dell’ora della morte, così come sopra dettagliatamente indicata; tenuto conto che non vi è traccia informatica sul suo computer portatile della presenza di un operatore che interagisce con la macchina dopo le 10.17, Stasi ha avuto tutto il tempo per commettere l’omicidio, per cancellare ogni traccia direttamente a lui riconducibile e per costruire il ritrovamento casuale del cadavere. Non esiste un’ipotesi ricostruttiva dei fatti compatibile con tutte le emergenze probatorie diversa da questa”.

Delitto di Garlasco, gli errori nella perizia del Ris

Per Stasi sembra finita. Ma non è così. Nell’agosto dello stesso anno (il 2009, dopo che Stasi ha chiesto il rito abbreviato, ndr) una perizia informatica disposta dal Gup Stefano Vitelli rimescola, o meglio, sistema le carte in tavola. Stando alle risultanze, e in parole povere, i Ris avrebbero fatto diversi errori. Errori decisamente gravi. Citiamo testualmente parte del contenuto della perizia: “Con riferimento alle alterazioni esposte nella tabella B2.2, i Periti d’Ufficio sono concordi nell’affermare che a seguito degli interventi operati dagli inquirenti a partire dalla data del 14.08.07 sino alla data del 29.08.07, le alterazioni apportate in termini di sottrazione di contenuto informativo appaiono di significativa entità e per certo hanno imposto limitazioni concrete alle analisi svolte dal Collegio Peritale”. E ancora: “I Periti d’Ufficio sono concordi nel riscontro delle discordanze rilevate tra il verbale redatto dagli Ufficiali di Polizia Giudiziaria (...) e l’entità degli accessi effettivamente riscontrati sulle periferiche in esame. La conseguenza è che la ricostruzione temporale dell’operato di Alberto Stasi sul portatile è irrimediabilmente compromessa”. Per fortuna non è così. Nonostante le gravi manomissioni sui dispositivi di Stasi, i periti del Gup riescono a fare ciò che fino a quel momento sembrava impossibile. Ci arriviamo.

Per smentire l’alibi di Stasi, i Ris avevano posto l’accento, tra le altre cose, sulla mancanza dei file temporanei di Word che, se il ragazzo avesse realmente utilizzato per scrivere la tesi, sarebbero dovuti essere presenti. Ciò che accende il dubbio dei periti incaricati dal Gup, però, è l’assenza di file temporanei anche in riferimento alla sera precedente l’omicidio, il 12 agosto 2007, quando si aveva l’assoluta certezza che Stasi avesse lavorato alla sua tesi di laurea. Questo dettaglio fa emergere – come scritto nella perizia – “l’illogicità dell’assenza dei riferimenti” (cioè dei file temporanei, ndr).

A fronte di un’assenza di questi file temporanei riscontrata dal Ris, i periti trovano 400 riferimenti tra la sera del 12 agosto e la mattina del 13. Riferimenti puntualmente elencati in una tabella, dove emerge chiaro che Alberto Stasi, il giorno del delitto, abbia lavorato alla sua tesi dalle ore 10.20 fino alle 12.20 (ricordiamo che precedentemente, dalle 9.35 fino alle 10.20, aveva guardato materiale pornografico, ndr).

È una bomba. Stasi non ha mentito. Il suo alibi è confermato e granitico. I Ris hanno sbagliato, ma, cosa più grave, qualcuno ha mentito. I periti ci vanno giù pesante: “Gli scriventi sottolineano la particolare gravità in merito alla superficialità con la quale risulta redatto il verbale di Polizia Giudiziaria in quanto, se ammissibile, in ipotesi, la mancata consapevolezza nell’apporto di alterazioni ai supporti informatici, configurabile come un’azione condotta nella non consapevolezza degli effetti producibili, non appare invece ammissibile la mancanza di dettaglio nella verbalizzazione delle attività tecniche espletate”. Quando si fa riferimento al verbale di Polizia Giudiziaria, non ci si sta riferendo alla consulenza del Ris ma, appunto, al verbale dei carabinieri di Vigevano, i quali scrivono – in contrasto con la realtà dei fatti appurata dai periti – di aver solo visionato il pc di Stasi senza mai aver aperto il file della tesi. Il perché di questo atteggiamento non è spiegato né, forse, spiegabile.

Le cronache dell’epoca riportano il comprensibile scorno della pm Muscio, in particolare una sfuriata telefonica avvenuta tra il magistrato e un interlocutore del Ris. Improvvisamente, il pilastro principale dell’accusa crolla come un castello di carte, la teoria secondo cui Stasi avrebbe mentito viene meno.

Poi, improvvisamente, la magia. Dopo la tempesta agostana, bisogna trovare una soluzione. Non solo la procura, ma da due anni anche la stragrande maggioranza dei media si è scagliata contro Alberto Stasi in quanto colpevole di aver assassinato Chiara Poggi. Una marcia indietro è impensabile sotto tanti punti di vista, ormai le tessere del domino hanno iniziato a cadere una dopo l’altra e fermarle è impossibile, salvo ammettere di aver preso un abbaglio.

Nel settembre 2009, ecco ricomparire il medico legale Ballardini che – dopo aver sostenuto fermamente, come già accennato, i risultati dei suoi esami – arriva a mettere una pezza per trarre d’imbarazzo la procura, praticamente facendo marcia indietro rispetto a quelle che, fino a poco tempo prima, erano le sue granitiche convinzioni. In poche parole, il medico a settembre fa un’integrazione della sua consulenza e cambia l’orario della morte di Chiara, estendendo la forbice oraria a tutta la mattinata.

Delitto di Garlasco, 23 minuti per un omicidio

Quello che accade da adesso in poi lo vediamo più nel dettaglio tra un attimo. Intanto – ai fini di una maggiore comprensione da parte di un pubblico che non necessariamente conosce la storia nel dettaglio e che, comprensibilmente, potrebbe perdersi per strada – possiamo anticipare che se fino a questo punto la discussione intorno alla morte di Chiara Poggi si è mossa su macro-orari, da ora in poi si arriva a parlare di minuti precisi. Esattamente i minuti in cui Alberto Stasi non ha un alibi. In buona sostanza, è l’orario della morte ad adattarsi all’alibi e non, come sarebbe giusto, viceversa. Vi chiederete come sia possibile. Ve lo raccontiamo.

Durante la requisitoria finale del 10 dicembre 2009 succede qualcosa. La pm Muscio, superato lo sconforto provocato dal pasticcio del Ris e confortata dall’integrazione di Ballardini, torna a parlare della forbice temporale, sostenendo che Chiara è morta o tra le 9.12 e le 9.35 oppure dopo le 12.20. Il giudice Stefano Vitelli interrompe l’arringa del pm, dicendo di non aver capito, e chiede alla dottoressa Muscio di essere più precisa: Chiara Poggi è morta nella prima o nella seconda fascia oraria? Dalle trascrizioni è piuttosto evidente un attimo di incertezza del pm, che alla fine dichiara che Chiara è morta dopo le 12.20.

Nel contempo, il legale della famiglia Poggi, Gian Luigi Tizzoni, porta all’attenzione dell’uditorio una contro-perizia medico-legale che, stando a quanto sosterrà nel corso di una lunga e articolata arringa, mette in discussione quella effettuata dal primo medico legale, Ballardini.

Ricordate cosa aveva sostenuto il pm nell’udienza del 17 marzo 2009? “Stasi ha avuto tutto il tempo per commettere l’omicidio, per cancellare ogni traccia direttamente a lui riconducibile e per costruire il ritrovamento casuale del cadavere”. Bene, stando alla perizia effettuata su mandato della famiglia Poggi da un altro medico legale, quel “tutto il tempo” si traduce in una manciata di minuti. 23, per l’esattezza. L’omicidio di Chiara Poggi avrebbe avuto la durata di 23 minuti.

Tizzoni è ancora più preciso, indicando la forbice temporale – che prima andava dalle 9 alle 14.30 – tra le 9.12 e le 9.35, l’unica finestra di tempo in cui Stasi non ha un alibi comprovato.

Se all’inizio di questo articolo avevamo sostenuto che determinare esattamente l’ora di un qualunque delitto non è cosa banale e una precisione assoluta è pressoché impossibile, di fronte a una valutazione tanto millimetrica ci sorge il dubbio: dobbiamo ricrederci? È possibile stabilire con tanta precisione l’orario di un delitto? Ed è un caso che questa forbice oraria termini giusto nel minuto in cui Stasi risulta di fronte al suo computer?

L’integrazione di Ballardini, le ricostruzioni della dottoressa Muscio e dell’avvocato Tizzoni non sembrano incidere poi molto sull’esito del processo. Alberto Stasi, infatti, in questa fase viene assolto. Quello che veramente conta, però, è che da questo momento in avanti – sia mediaticamente, sia a livello di indagini successive – a contare non sarà la finestra oraria indicata dalle perizie del medico legale Ballardini, né la perizia disposta d’ufficio dal Gup (che sostanzialmente concordava con quella di Ballardini, indicando l’ora della morte “nel corso della mattinata”), ma l’orario di infinitesimale precisione indicato dall’avvocato della famiglia Poggi.

Non è pedanteria, ma alla fine di questo articolo è comprensibile avere in testa un po’ di confusione. Schematizzando, dunque, ripercorriamo le fasi cruciali di questo incredibile slittamento nell’orario della morte di Chiara Poggi.

1) Sospettato di essere l’assassino, Stasi sostiene di aver passato la mattinata a lavorare alla sua tesi. Il suo alibi non è confermato dai Ris, che non trovano i file temporanei sul suo pc. Ritenendo la procura che l’omicidio si sia svolto verso le 11/11.30, Stasi avrebbe avuto tutto il tempo per uccidere Chiara, nascondere l’arma del delitto e pulirsi. È principalmente la certezza che abbia mentito sull’alibi che lo porta a processo.

2) I periti incaricati dal Gup trovano i file temporanei che il Ris non aveva visto. L’alibi di Stasi è confermato: il ragazzo quella mattina ha lavorato alla sua tesi.

3) L’unica soluzione per dimostrare la colpevolezza di Stasi sarebbe quella di collocare l’omicidio in due fasce orarie precise: la prima (9.12 – 9.35) va dal momento in cui Chiara disattiva l’allarme di casa a quando Alberto accende il suo pc; la seconda (dopo le 12.20) è quando Alberto smette di lavorare alla tesi. Per una serie di ragioni che non staremo qui ad elencare, la seconda ipotesi viene scartata.

4) Da questo momento in poi, si sposa la prima ipotesi: Alberto Stasi ha ucciso Chiara Poggi in un arco di tempo che va dalle 9.12 alle 9.35.

Il resto è storia. Giustizia è fatta, il mostro è in carcere. O forse no?

Garlasco, Alberto e la scelta di Rita. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

Quindici anni dopo l’omicidio della figlia Chiara, Rita Poggi continua a non alzare mai la voce, a usare solo parole civili perfino mentre ne ascoltava di irrispettose per la memoria di sua figlia

Il 13 agosto del 2007 è un giorno vuoto di gente e pieno di silenzio, a Garlasco. C’è un ragazzo, davanti a una villetta, che chiama il 118 per chiedere un’ambulanza: «Credo che abbiano ucciso una persona, non son sicuro, forse è viva».

Quel ragazzo era Alberto Stasi, all’epoca aveva 24 anni ed era uno studente di Economia alla Bocconi. La «persona» era la sua fidanzata, si chiamava Chiara Poggi e quella fu l’ultima mattina di cui vide la luce. Aveva 26 anni, laurea in Economia e lavoro nello studio di un commercialista. Sono passati 15 anni – già 15, verrebbe da dire – e la sentenza definitiva dice che l’assassino fu proprio lui, Alberto. Che però nega tutto da sempre e dal carcere prova – finora con risultato zero – a riprendersi il titolo di innocente. Premesso tutto questo, non è di Alberto né dei «colpi di scena» di questa storia che vorremmo parlare: lo fanno già in troppi. E invece vale la pena concentrarsi su un dettaglio che in questi anni ha sempre brillato come una pietra preziosa, e cioè l’equilibrio dei Poggi, la famiglia di Chiara.

La sobrietà, il criterio, la pacatezza e il buon senso di tutti, ma in particolare di sua madre Rita, alla quale è toccato il più delle volte raccontare della figlia e commentare qualche passaggio giuridico o mediatico. In un mondo che urla e pesta i pugni sul tavolo, nell’arena dei social spesso perfetti per fare a brandelli il senso della misura, nello scontro quotidiano di fazioni schierate come soldati in guerra su qualsiasi argomento – dal colore dei calzini ai vaccini – Rita è un esempio di valore inestimabile, con la sua gentilezza e il suo modo di affrontare il dolore indicibile per la figlia che non c’è più. Mai una parola fuori posto, mai una sbavatura. Prudenza, all’inizio, per non rischiare di accusare un possibile innocente. Risolutezza, dopo, senza perdere mai di vista il senso della giustizia.

Davanti a una figlia uccisa una madre ha il diritto di essere Rita o il contrario di Rita, e ci mancherebbe altro... Lei ha scelto di non alzare la voce nemmeno quando ne avrebbe avuto motivo. Ha scelto parole civili perfino mentre ne ascoltava di irrispettose per la memoria di sua figlia. Ha scelto l’equilibrio anche nei commenti di un anno fa, quando ha saputo che Alberto avrebbe potuto uscire dal carcere (di giorno) per lavorare. Ce ne vorrebbero a milioni, di Rite, per rendere migliore questo mondo.

Delitto di Garlasco: 15 anni dall’omicidio di Chiara Poggi. Marco Della Corte il 13/08/2022 su Notizie.it.

Sono passati 15 anni dal delitto di Garlasco: la famiglia di Chiara Poggi contro Alberto Stasi. 

Sono passati quindici anni dal delitto di Garlasco, un omicidio che sconvolse l’Italia e che ebbe come vittima Chiara Poggi. Il delitto avvenne il 13 agosto 2007, per la giustizia l’assassino della giovane Chiara fu il fidanzato Alberto Stasi (39 anni oggi).

Quest’ultimo tornerà in tv con un’intervista speciale dal carcere di Bollate (Milano) dove è attualmente recluso. In tale occasione Alberto griderà la sua innocenza.

I famigliari della vittima non hanno dimenticato l’efferato omicidio da parte di Alberto Stasi e sono contrari all’intervista poiché, come dichiarato alla Provincia di Pavia: “In questo modo si continua a mistificare la realtà senza contraddittorio”. La famiglia di Chiara Poggi crede fermamente nella colpevolezza di Alberto.

Delitto di Garlasco: Chiara trovata in una pozza di sangue

Il giorno dell’omicidio Chiara Poggi, una studentessa di 27 anni residente a Garlasco (Pavia), venne trovata senza vita in una pozza di sangue. L’unico indagato per l’omicidio della ragazza fu Alberto Stasi. L’uomo si trova recluso nel carcere di Bollate da sette anni. Nell’intervista televisiva, il 39enne ricostruirà la vicenda secondo la sua versione.

Perché Alberto Stasi venne condannato?

Alberto Stasi venne condannato in Appello a sedici anni di reclusione in seguito a un percorso processuale problematico e non privo di colpi di scena. A incastrarlo in maniera definitiva il fatto che le scarpe fossero del tutto pulite. Un qualcosa di improbabile, se non impossibile, al momento del ritrovamento di Chiara Poggi cadavere, con tutto il sangue che c’era in casa.

Altro elemento importante i pedali intonsi della bici con cui era andato a casa della fidanzata.

Da non dimenticare, inoltre, il Dna di Alberto Stasi trovato sul portasapone del bagno in casa Poggi. Secondo la i giudici, questo particolare dimostra come l’uomo si fosse lavato per ripulirsi dal sangue di Chiara Poggi dopo l’omicidio.

(ANSA l'11 agosto 2022) - Il ritorno in tv di Alberto Stasi, condannato in via definitiva a 16 anni per l'omicidio della fidanzata Chiara Poggi a Garlasco (Pavia), in occasione del quindicesimo anniversario del delitto, amareggia la famiglia della vittima e il suo legale. L'intervista andrà in onda in uno speciale del 'Le Iene' mercoledì 24 agosto e, come riferisce 'La Provincia pavese', per l'avvocato della famiglia Poggi, Gianluigi Tizzoni, in questo modo "si continua a mistificare la realtà senza contraddittorio".

 "E il contraddittorio, ci terrei a sottolineare, non è la famiglia Poggi, ma è lo Stato italiano che con sentenze di Cassazione e delle Corti di appello ha accertato al di là di ogni ragionevole dubbio la responsabilità di Stasi per l'uccisione di Chiara Poggi - continua il legale -. L'unica cosa che non è stata approfondita della vicenda sono le circostanze di cui si è avvantaggiato Stasi per essere assolto finché la Cassazione nel 2013 ha finalmente disposto che venisse svolto un processo rispettando le regole del codice di procedura penale".

Nella sentenza d'appello bis, per i legale "i giudici scrivono testualmente delle molte criticità di alcuni degli accertamenti svolti, riconducibili a errori e negligenze anche gravi, e non solo all'inesperienza, degli inquirenti. Non si può negare che in molte occasioni sia stato proprio Stasi, personalmente e non solo, a indirizzare e ritardare le indagini in modo determinante e a sé favorevole». 

Il delitto era stato commesso la mattina del 13 agosto del 2007 e, a, al termine del processo di primo grado, a Vigevano, Stasi fu assolto. Così nel processo d'appello a Milano. Il 18 aprile 2013 però la Cassazione annullò l'assoluzione e dispose il processo d'appello bis, chiuso con la condanna di Stasi a 16 anni, confermata due anni dopo. Stasi sta scontando la pena nel carcere milanese di Bollate.

"Quando ho saputo di Chiara... Stasi mente, qualcosa non quadrava". Quindici anni fa l'omicidio di Chiara Poggi. Il cugino, l'ingegner Paolo Reale, a ilGiornale.it: "Eravamo increduli ma nel racconto di Alberto Stasi c'era qualcosa che non quadrava". Rosa Scognamiglio il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Il 13 agosto del 2007, in una villetta al civico 29 di via Giovanni Pascoli, a Garlasco in provincia di Pavia, fu uccisa Chiara Poggi. Per l'omicidio venne condannato, con sentenza definitiva della Cassazione nel 2015, il fidanzato della vittima Alberto Stasi, al tempo studente 24enne di Economia.

A maggio 2022 Stasi ha rilasciato al programma televisivo "Le Iene" un'intervista esclusiva, in cui ha parlato di molti aspetti del processo continuando a sostenere la propria estraneità ai fatti. "Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando. Nell’immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi", ha dichiarato.

"Non abbiamo mai avuto dubbi sulla colpevolezza di Stasi. Nel suo racconto c'era qualcosa che non tornava sin da subito", dice alla nostra redazione l'ingegner Paolo Reale, cugino di Chiara Poggi, nonché consulente di parte nel processo per il delitto di Garlasco.

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Dottor Reale, in una recente intervista televisiva Alberto Stasi ha dichiarato avere di "la coscienza leggera" e di essere vittima del "sistema" giudiziario. Cosa ne pensa?

"Credo che le sentenze si possano contestare ma nel modo e nei luoghi opportuni, altrimenti diventa solo una campagna di tipo mediatico. Il signor Stasi ha fornito la sua versione dei fatti, che però è totalmente disancorata dagli atti processuali. Peraltro non c'è stato un minimo di contraddittorio. Sta di fatto che lo Stato si è espresso: c'è una sentenza definitiva della Cassazione che lo ha condannato a 16 anni di reclusione".

Quindici anni fa si accendevano i riflettori della cronaca nera su Garlasco. Cosa ricorda di quel giorno?

"Ricordo tutto. Ero al mare con i miei genitori, in Liguria, quando gli zii (i genitori di Chiara, ndr) ci hanno telefonato per dirci che Chiara era morta. Non riuscivamo a capire cosa potesse esserle accaduto, abbiamo pensato a un malore o a un incidente domestico. L'avevamo sentita il giorno prima al telefono, eravamo increduli".

'Così abbiamo incastrato Stasi' Parla l'ex comandante dei Ris

Come avete saputo che Chiara era stata uccisa?

"Dai media. Verso sera i telegiornali hanno trasmesso le immagini di Garlasco diffondendo anche la foto di Chiara: è stato traumatico. Non avremmo mai neanche lontanamente immaginato che fosse stata uccisa. Non sembrava reale, come se fossimo stati catapultati in un incubo. Era tutto surreale".

Quando lei e la sua famiglia avete saputo che per l'omicidio era stato fermato Alberto Stasi, cosa avete pensato?

"In realtà la notizia non ci ha sorpresi. Leggendo i verbali degli interrogatori del signor Stasi ci siamo resi conto che qualcosa non tornava nel suo racconto". 

Ricorda qualche dettaglio in particolare?

"Era una descrizione surreale: dalla scoperta del cadavere alla telefonata ai soccorsi".

"Non è Stasi l'assassino di Chiara": luci e ombre di un delitto

Oltre a essere il cugino di Chiara, lei è stato anche consulente di parte.

"Sì, ho lavorato al caso come perito informatico. Fu l'avvocato Gianluigi Tizzoni (legale della famiglia Poggi, ndr) a coinvolgermi e devo dire, nonostante all'inizio sia sto un po' titubante, che abbiamo raccolto una serie di elementi che poi si sono rivelati importanti ai fini processuali".

A cosa si riferisce nello specifico?

"Dall'analisi dei dati sul pc alla scoperta della bicicletta che montava i pedali su cui c'erano tracce del Dna di Chiara".

Secondo lei, sono stati commessi degli errori durante le indagini?

"Sì. Mi verrebbe da dire quasi 'per fortuna'. Perché gli errori sono serviti, una volta riconosciuti, a stabilire la verità ribaltando la sentenza di primo e secondo grado di giudizio".

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Si riferisce all'assoluzione di Alberto Stasi?

"Dico sempre una cosa: bisognerebbe domandarsi il motivo per cui il signor Stasi è stato assolto nel primo grado di giudizio. Perché sulla sentenza del processo bis direi che ci sono ben pochi margini di errore".

Anche il movente è stato molto dibattuto. Perché Chiara è stata uccisa?

"Il movente c'è ed è agli atti della sentenza emessa della Cassazione. C'erano delle criticità interne alla coppia. Poi cosa sia accaduto la sera precedente, se ad esempio ci sia stata una lite tra i due fidanzati, può dirlo solo l'assassino. Certo è che ci sono elementi a suffragio di questa ipotesi".

Quali?

"Ad esempio è abbastanza anomalo che Chiara abbia inserito e disattivato l'allarme più volte la notte antecedente del delitto. Lo ha fatto davvero, come si è detto, per far uscire il gatto?"

Lei e la sua famiglia avete mai pensato che Stasi potesse non essere l'assassino?

"No, mai".

Sono passati 15 anni dal delitto. Come stanno i genitori di Chiara?

"La morte di un figlio credo sia un dolore insuperabile ma hanno imparato a conviverci. Del resto, non possono fare altro".

Lei, invece, che ricordo conserva di Chiara?

"Ricordo il suo sorriso e la sua voce, soprattutto la 'erre moscia'. Era una ragazza dolce, simpatica e molto tranquilla. Ho una sua foto sulla scrivania del mio ufficio: è come se non se ne fosse mai andata".

Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 25 maggio 2022. 

Cesare Lombroso finirebbe disoccupato e additato al ludibrio in questa Italia dove tutti gli assassini sono innocenti, soprattutto dopo condanna definitiva, e in particolar modo se il caso è stato clamoroso e ha scosso timori e coscienze collettive. 

Gli assassini stanno al passo con i tempi, si rifanno il trucco, predicano la loro candida illibatezza mostrandosi suadenti, in un crescendo di narciso autocompatimento per togliere loro da braciere della verità e portare all'agonia la nostra già malconcia giustizia. E così dopo aver provato ogni grado di giudizio, perso ogni ricorso e aver visto respinta ogni istanza di revisione, si affidano alla pancia del Paese, sperando di suscitare qualche dubbio, qualche venticello innocentista, che renda meno insopportabile la noia della detenzione. 

Fa effetto sì, vedere Alberto Stasi, l'assassino Alberto Stasi, parlare per la prima volta a sette anni dall'arresto per omicidio e pontificare sulla congruità degli esami compiuti dai Ris di Parma, genetisti, biologi in uniforme che l'hanno inchiodato alle sue responsabilità ma che, a suo dire, non «distinguevano il sangue da una barbabietola». 

E si sono accaniti solo per «salvare la propria carriera» dopo il (presunto) granchio preso. Le Iene hanno costruito una puntata monografica su questa intervista, anche se non ha aggiunto niente a quanto disse a Matrix in studio nel 2010. Un'innocenza sartoriale che suscita persino indulgenza quando, dopo aver ammazzato la fidanzata Chiara e aver distrutto la vita dei suoi parenti, assicura di dormire sonni tranquilli dietro le sbarre.

«La mia coscienza è leggera non ho nulla da rimproverarmi». Beato lui. 

Rimane comunque spiazzante questo argomentare perché se l'assassino incuriosisce e il male provoca sempre interesse per capire, l'anemica figura di Stasi non trasmette empatia, non provoca empatia. «Chi mi chiede se sono l'assassino di Chiara non sa di cosa sta parlando». Lui, invece, lo sa bene cos' è accaduto e come prova a discarico asserisce che in quella casa c'erano più impronte dei carabinieri che dei parenti della fidanzata assassinata. Come dire: regnava la confusione e da qui la prova raccolta diventa incerta. Poco, niente. 

Gli assassini saranno tutti innocenti ma certo non sono i legittimi garantismi del popolo e le lacrime secche dei colpevoli a riscrivere le sentenze. Gli assassini saranno tutti innocenti ma non prendiamo ad esempio Stasi che si è visto respingere persino in Cassazione la richiesta di revisione del processo per elementi che davanti ai giudici sono evaporati rendendosi evanescenti, leggeri come il magnesio e il titanio. 

In realtà gli assassini definitivi più sono colpevoli più ci sollecitano, tutti tesi a capire come potrà mai divincolarsi dagli «indizi convergenti», da prove e sentenze. Riuscirà a ribaltare un destino segnato? Tempo fa ci avevano provato pubblicamente anche Rosa e Olindo e, credo, siano ancora in carcere. L'elenco è davvero sterminato di quanti gridano al complotto o all'errore. I più lo fanno per trattenere a sé almeno i parenti, dopo aver perso dignità e, soprattutto, libertà.

La riflessione è semplice: meglio un parente in cella per un errore giudiziario che per aver ammazzato qualcuno. È quello che devono pensare i figli di Roberta Ragusa che ancora scrivono e amano il loro papà Antonio Logli, anche dopo la condanna definitiva per aver ammazzato la loro mamma. Ed è lo stesso pensiero che anima i parenti di Massimo Bossetti, il muratore all'ergastolo dopo aver tolto la vita all'adolescente Yara Gambirasio. Tutti questi assassini li ricordiamo e cerchiamo di decifrarli per quell'illusione rassicurante che ci porta a cercare logicità negli istinti più primordiali dell'uomo. 

È sempre una lotta impari perché il male è un sole nero che irradia tenebre e non luce. Chi uccide può benissimo andare a un Mc Donald's come appunto Rosa e Olindo, dopo aver tagliato la gola al povero Youssef di soli due anni e poi indossare i panni del dotto giurista che evidenzia incongruità di una sentenza ad oggi inattaccabile.

Chi uccide può fare il verso a carabinieri laureati che raccolgono al microscopio micro tasselli di un mosaico con lenti e strumenti fino al secolo scorso impensabili. È proprio grazie ai continui sviluppi delle scienze forensi e investigative che possiamo mandare in carcere persone che nel secolo scorso l'avrebbero fatta franca. In fondo, quindi, dobbiamo rincuorarci, la nostra democrazia è tale che questi omicidi trovano microfoni accesi e possibilità di dire la loro, com' è giusto che sia ma per scardinare un processo ci vuole ben altro. Ci vuole l'innocenza ed è un bene non negoziabile. 

Alberto Stasi e il diritto di proclamarsi innocente: l’omicidio di Garlasco, le Iene e la reazione di Nuzzi. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 29 Maggio 2022. 

Una lunga e approfondita puntata che la trasmissione “Le Iene” ha dedicato al delitto di Garlasco, dando ascolto al definitivamente condannato Alberto Stasi ed alla sua ferma, dignitosa e soprattutto legittima proclamazione di innocenza, ha scatenato la reazione furibonda del giornalista Gianluigi Nuzzi. La veemenza di quell’articolo (La Stampa, 25 maggio 2022), i toni sdegnati e sarcastici, l’ostentato compiacimento nel riferirsi “all’assassino” Stasi, mi ha lasciato senza fiato. Ignoro se Nuzzi abbia qualche personale ragione di animosità in relazione a questo caso (ho rinvenuto in rete un articolo non meno furibondo, in occasione dell’annuncio del ricorso per revisione da parte dei difensori di Stasi qualche anno fa).

Quel che è chiaro è che egli non tollera l’idea, che a suo dire sarebbe un diffuso malcostume, per la quale chi sia stato definitivamente giudicato responsabile di un delitto, vedendosi per di più respingere – come nel caso dell’omicidio di Garlasco – l’istanza di revisione, possa continuare a proclamarsi innocente. La cosa lo indigna, e gli fa scrivere parole di fuoco. Questo – di proclamarsi vittime di un drammatico errore giudiziario – sarebbe la indecente paraculata di “assassini” (adora il termine) che “più sono colpevoli, più sollecitano… la pancia del Paese” contro le legittime sentenze. E così, “gridano al complotto ed all’errore” nella speranza di sottrarsi – sentite questo terrificante sproposito – “al braciere della verità”. E dopo averci sinistramente ricordato che “il male è un sole nero”, che non può riscaldare sentimenti di pietà o anche solo di considerazione verso chi ne è artefice, conclude tronfio: “Per scardinare un processo ci vuole l’innocenza, ed è un bene non negoziabile”.

Io guardo sempre con stupore, ma soprattutto con diffidenza e con profondo disagio, a chi ama manifestare in modo così scomposto, iattante ed assertivo una idea che si vorrebbe ispirata a rigoroso civismo, ma che è invece semplicemente becera e sinistramente ottusa. L’idea cioè che una sentenza definitiva di condanna sia la verità non più discutibile; e che discuterla equivalga a contravvenire alle regole fondative dell’ordinato vivere civile, per di più oltraggiando la pietas verso le vittime. Le sentenze definitive si eseguono, e le condanne da esse irrogate si scontano; questa è l’unica regola civile che, a cominciare da Alberto Stasi, nessuno mette in discussione. Ma la pretesa che un imputato che si è dichiarato non colpevole dal primo minuto, per sovrappiù assistito da ben due pronunce assolutorie (!!), debba rassegnarsi alla propria colpevolezza, la dice lunga sui disastri incommensurabili che il populismo giustizialista ha prodotto in questo Paese.

Se poi ci riflettete, questa furiosa difesa della intangibilità delle sentenze emerge sempre, come acqua putrida dai tombini, solo riguardo a quelle di condanna. L’assolto no, è sempre sospettato “di averla fatta franca” (espressione davighiana ben nota, non a caso saccheggiata da Nuzzi); in tal caso coltivare il dubbio è un dovere civico, perché il delitto impunito turba i sonni, mentre il rischio dell’innocente in galera ci lascia dormire sereni come i pupi. Come osa, dunque, questo Stasi, insistere sulla propria innocenza? Non c’è limite alla decenza. Si dichiari colpevole, nel rispetto del giudicato penale, e taccia per sempre.

D’altronde, non meraviglia che a scatenarsi in questa incontrollabile indignazione sia un protagonista indiscusso dei processi mediatici, cioè del più velenoso veicolo di corruzione della idea stessa di giustizia penale nella pubblica opinione. Processi mediatici che egli – e non è certo il solo, purtroppo- celebra settimanalmente in uno studio televisivo, in parallelo con il processo in Aula, ma anche e soprattutto prima del processo in aula. Processi che, come si sa, affollano il set di consulenti paralleli, criminologi paralleli, testimoni paralleli, avvocati in cerca di gloria, psicologi che decrittano colpevolezze dalla postura dell’imputato. Processi mediatici nella quasi totalità colpevolisti, ovviamente (l’innocenza non fa audience, salvo clamorose ed imprevedibili eccezioni).

Io farei già fatica a trovare una buona ragione per rivolgermi ad un assassino confesso, dandogli dell’assassino. Ma davvero non so come si faccia a compiacersi nel dare dell’assassino a chi si è sempre proclamato innocente, come tale giudicato in ben due sentenze pronunciate sul medesimo materiale probatorio che lo ha poi voluto definitivamente colpevole. Non capisco quale sia il gusto intellettuale, di quali letture e di quali frequentazioni sia il frutto, quale sia il senso di infierire su chi la pena la sta già ordinatamente scontando. Ma che questa lezione di indignazione un tanto al chilo debba provenire da chi usa celebrare processi in tv, ravanando nelle tragedie umane a caccia di ascolti e seminando il terreno più infido e velenoso, quello del giudizio penale popolare, beh mi è parso davvero troppo. “Il braciere della verità”?! Come direbbe Totò: ma mi faccia il piacere! Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

Alberto Stasi parla dal carcere. «Io innocente, quando vado a letto ho la coscienza leggera». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2022.

Intervistato da «Le Iene» nel carcere di Bollate. Per il delitto della fidanzata Chiara Poggi è stato condannato e sta scontando sedici anni. 

«Ho deciso di parlare per dare un senso a questa esperienza, perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, se il sistema che c’è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa». Dal carcere di Bollate, dov’è detenuto, per la prima volta Alberto Stasi rilascia un’intervista televisiva. Lo fa a distanza di sette anni dal suo arresto per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, ai microfoni de «Le Iene», che dedica un’intera punta al delitto di Garlasco.

«Sono innocente»

Chiara, 26 anni, venne trovata morta proprio dal fidanzato nell’agosto del 2007 nella villa della famiglia nel paesino in provincia di Pavia. Per quel delitto Stasi venne subito iscritto nel registro degli indagati e, dopo essere stato giudicato innocente per due volte, venne condannato a sedici anni di carcere. Nell’intervista a «Le Iene» che andrà in onda martedì sera Stasi parla di molti aspetti del processo e della condanna e si sofferma anche su Chiara e la sua famiglia. E si dichiara ancora una volta innocente. «Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando» afferma. «Nell’immaginario comune — prosegue — un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua».

Le accuse al Ris

Parla poi delle indagini: «Sono passati 15 anni ma in quegli anni i Ris di Parma erano un po’ mitizzati — attacca—. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze, di inerzie, di incapacità di tornare indietro. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il Pm non è mai andato a dire “Questo provvedimento era prematuro”, perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo».

Il lavoro dei giudici

Parla poi del suo futuro. «Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente — afferma—. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia». E alla domanda di cosa vorrebbe dire ai giudici che lo hanno condannato risponde: «Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria. Ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì. Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l’ambizione, il posto in un’altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia».

L'omicidio di Chiara Poggi. Delitto di Garlasco, Alberto Stasi parla dal carcere: “Mia coscienza è leggera, non c’era desiderio di cercare la verità”. Redazione su Il Riformista il 23 Maggio 2022. 

“Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara, penso che non sanno di cosa stanno parlando”. Parla così Alberto Stasi, l’uomo che rinchiuso nel carcere milanese di Bollate sta scontando una condanna a 16 anni per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi, uccisa a 26 anni, il 13 agosto 2007, nella sua villetta di Garlasco, in provincia di Pavia.

Stasi è stato intervistato nel penitenziario da ‘Le Iene’, per una puntata speciale che andrà in onda martedì e ripercorrerà le tappe dell’omicidio, dell’indagine e dei processi che hanno portato l’uomo in carcere. Una condanna, quella di Stasi, arrivata dopo un lungo e tortuoso iter processuale: nei primi due gradi di giudizio Alberto verrà assolto, quindi il primo intervento della Cassazione che annulla la sentenza d’Appello rimandando ad un processo bis. La seconda ‘tornata’ in Appello è una mazzata: Stasi viene condannato a 16 anni con rito abbreviato, sentenza poi confermata dalla Suprema Corte nel 2015, chiudendo così la vicenda giudiziaria.

Ma Stasi di colpevolezza non ne vuole sentir parlare, lui che si è sempre professato innocente. “Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi”, spiega infatti nell’intervista alla trasmissione tv. Quanto all’esperienza dietro le sbarre, Stasi la mette così: “Nell’immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua“.

Quanto alla vicenda giudiziaria, Stasi racconta che durante il processo “sembrava di remare contro un fiume in piena andando controcorrente, fin dall’inizio: una volta lo scambio dei pedali, un’altra volta il test solo presuntivo, e l’alibi che mi viene cancellato, l’orario della morte che viene spostato. Non c’era desiderio di cercare la verità“.

E infatti arrivano due assoluzioni, in primo grado e nel primo processo d’Appello, mentre “sull’unica condanna il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha chiaramente detto ‘Non si può condannare Alberto Stasi’, quindi, in Italia hanno un sistema che a oggi funziona così: la pubblica accusa dice ‘No, questa persona va assolta’ ma, nonostante questo, la persona viene condannata“.

Lo spartiacque nella sua vicenda personale arriverà per Stasi quando verrà arrestato dalle forze dell’ordine, salvo poi venir rilasciato dopo soli quattro giorni. Quelle manette, quella libertà privata, furono “come un punto di non ritorno”. “Non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio“, spiega.

Da "le Iene" il 23 maggio 2022.

“Togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua”.

“Perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale? Non c’era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse”.

Alberto Stasi parla in esclusiva e per la prima volta, a distanza di sette anni dal suo arresto per omicidio, ai microfoni di una trasmissione televisiva, nello speciale de “Le Iene” dal titolo “Delitto di Garlasco: la verità di Alberto Stasi”. Una puntata interamente dedicata a uno dei casi di cronaca nera più discussi nel nostro Paese, in onda domani, in prima serata, su Italia 1.

Nell’agosto del 2007 una ragazza di 26 anni - Chiara Poggi - viene trovata morta nella villetta della sua famiglia in un piccolo e tranquillissimo paese in provincia di Pavia, Garlasco, dal fidanzato Alberto Stasi che viene da subito iscritto nel registro degli indagati.

Nel 2015, a otto anni dal delitto e dopo essere stato riconosciuto innocente per due volte, al quinto grado di giudizio viene condannato a sedici anni di carcere per averla assassinata brutalmente.

“Perché ho deciso di parlare oggi? Per dare un senso a questa esperienza, perché certe cose non dovrebbero più accadere. Se una persona vive delle esperienze come quella che ho vissuto io questa deve essere resa pubblica, a disposizione di tutti, e visto che ho la possibilità di parlare lo faccio, così che le persone capiscano, possano riflettere e anche decidere, voglio dire, se il sistema che c’è va bene oppure se è opportuno cambiare qualche cosa”.

Dal carcere di Bollate dove sta scontando la sua pena Stasi rompe il silenzio con Alessandro De Giuseppe e Riccardo Festinese, per raccontare come, secondo lui, sarebbero andate le cose, in un documento unico e assolutamente inedito.

Una lunga intervista in cui il trentottenne (ne aveva 24 anni all’epoca del delitto) si lascia andare parlando di Chiara, dei suoi genitori, dei magistrati, delle perizie, degli arresti che ha subito e dei processi, anche mediatici, che ci sono stati, approfondendo quelle che lui ritiene siano state storture, forzature ed errori che hanno portato alla sua condanna. Ancora oggi, infatti, e, come sempre, Alberto Stasi si dichiara innocente.

Nello speciale ripercorre, fornendo dettagli, quella che sembra una vicenda tutt’altro che chiara e lineare, un processo senza un movente e senza una prova, basato unicamente sull’interpretazione di una serie di indizi che sarebbero parsi tanto contraddittori da portare, nel tempo, prima a due assoluzioni e poi a una condanna definitiva.

“Sembrava di remare contro un fiume in piena andando controcorrente, fin dall’inizio: una volta lo scambio dei pedali, un’altra volta il test solo presuntivo, e l’alibi che mi viene cancellato, l’orario della morte che viene spostato. Non c’era desiderio di cercare la verità perché una volta può accadere, la seconda volta può passare, ma non possono esserci una terza, una quarta, una quinta, per sette anni. Che verità c’è in tutto questo?”.

“Io sono stato assolto in primo grado, sono stato assolto in appello, sull’unica condanna il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha chiaramente detto «Non si può condannare Alberto Stasi», quindi, in Italia hanno un sistema che a oggi funziona così: la pubblica accusa dice «No, questa persona va assolta» ma, nonostante questo, la persona viene condannata”.

Tra le prime domande dell’inviato c’è quella del se sia stato lui a uccidere l’allora fidanzata. “Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara penso che non sanno di cosa stanno parlando”, risponde Stasi, poi il discorso assume toni differenti: “Nell’immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua”.

Il racconto torna al suo primo interrogatorio e al suo primo arresto: “Ero spaventato ma anche abbastanza sereno, quella tranquillità di chi ha la convinzione di potere chiarire le cose. In quella notte l’accertamento era preliminare, puoi anche aspettare quello definitivo, perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale?

Non c’era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse, e quindi venni accompagnato in carcere”.

Della sua prima notte in carcere ricorda lo smarrimento ma anche la “premura”, per lui un po' stonata, del direttore del carcere di Vigevano: “Quando fui scarcerato dopo quattro giorni, con un’ordinanza del giudice che smontava punto per punto quel provvedimento assurdo, il direttore (del carcere di Vigevano, ndr) mi disse «Arrivederci fuori, spero che vada a dire in giro che l’abbiamo trattata bene».

È come se in quel momento la cosa più importante fosse solo avere il proprio ruolo a posto, non il fatto che una persona di 24 anni veniva portata in carcere. Lui era, in qualche modo, custode della mia persona però l’interesse doveva essere forse tutt’altro, non questo”.

Stasi è convinto che quell’episodio abbia segnato in maniera irreversibile tutta la vicenda processuale successiva e che abbia gettato nell’immaginario collettivo e, secondo lui forse anche in parte della Magistratura, il seme della sua colpevolezza, individuando esclusivamente in lui la persona su cui concentrare tutte le indagini.

Dice: “Credo che questo episodio abbia comunque segnato tutto il seguito della vicenda processuale perché devi immaginarti il terremoto: la Procura di Vigevano aveva portato in carcere davanti a tutta Italia un ragazzo di 24 anni e adesso doveva spiegare il perché aveva sbagliato, e con loro anche i RIS di Parma, i quali avevano indotto il Pubblico Ministero a portare in carcere una persona sulla base di una relazione che era sbagliata”.

Parla poi delle indagini: “Sono passati 15 anni ma in quegli anni i RIS di Parma era un po' mitizzati. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa.

Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego.

Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il PM non è mai andato a dire «Questo provvedimento era prematuro», perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo”.

Alessandro De Giuseppe gli chiede se ha già progetti per quando uscirà dal carcere: “Oggi ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi.

Se hai la fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia, tanto per fare un esempio”.

Infine, “Cosa vorrei dire ai giudici che mi hanno condannato? Non saprei perché sono, in qualche modo, e in negativo, i protagonisti di questa vicenda. È difficile arrivare alla mente e al cuore di quelle persone. Il loro non è un mestiere banale, ha conseguenze sulla vita delle persone, come un medico in sala operatoria: ci sono lavori che non comportano queste responsabilità, altri invece sì.

Se si decide di intraprendere un certo lavoro, una certa carriera, deve essere fatto in modo coscienzioso perché poi anche lì entrano dinamiche normali, di lavoro. La carriera, l’ambizione, il posto in un'altra sede, tutte cose che non dovrebbero avere nulla a che fare con la giustizia”.

·        Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

«Mi sarebbe piaciuto prendere le mani di mio papà, o quelle di mia mamma, e dire loro “Ti voglio bene”... Però, purtroppo, non ci sono mai riuscito». Così l’ormai cinquantenne Pietro Maso parla dei propri genitori ora, che sono trascorsi trent’anni esatti da quando con agghiacciante freddezza e crudeltà, aiutato da tre amici uno dei quali ancora minorenne, li uccise in casa a Montecchia di Crosara per arricchirsi con i loro soldi. «Non aver mai detto ai miei genitori “ti voglio bene”, “ho bisogno di voi”, è una cosa che adesso mi manca, ne soffro, mi manca la possibilità di dire alle persone, soprattutto ai miei genitori, che ho bisogno di loro... ».

La confessione

È un Pietro Maso che non ti aspetti, quello che apre le porte del suo cuore narrando «i miei tormenti interiori» durante quella che annuncia «sarà l’ultima intervista che rilascerò sull’omicidio di mio padre e mia madre». Trent’anni dopo averli massacrati per l’eredità, Maso ammette di sentirne la mancanza: «Perché — spiega alla trasmissione Cronache Criminali condotta su Rai1 da Giancarlo De Cataldo — la vita in sé è difficile e ho bisogno anch’io di essere confortato, di dare i miei valori e i miei sentimenti. Per questo i miei genitori mi mancano umanamente, perché vorrei con loro il contatto fisico, però spiritualmente sento che mi sono vicini e questo per me è già molto bello». Difficile, quasi impossibile, accostarlo al giovane sprezzante e spavaldo che «quando nel ’91 mi rifiutarono al seminario, decisi di diventare come Don Johnson».

Il ragazzo di allora

L’allora ventenne Pietro voleva emulare il celebre interprete di Miami Vice, bello, glamour, al volante di una fiammante Ferrari bianca: «Venni assunto in un supermercato, riuscivo a rubare mantenendo i conti in pareggio». I miti imperanti dell’epoca, del resto, erano «il successo, il denaro, i beni materiali». Ora invece Maso è un cinquantenne dallo sguardo malinconico, che chiede di «essere dimenticato per il mio passato drammatico» e che, nel suo percorso di riqualificazione, ha deciso di «dedicare la mia vita ad aiutare i carcerati a reinserirsi nella società». Lo racconta meglio lui stesso: «Il Pietro di oggi fa fatica, perché dentro di me c’è c’è un passato di sofferenza. Questa è l’ultima intervista che rilascerò, quando sono uscito dal carcere ne ho concesse diverse, anche per chiedere pubblicamente perdono. Da allora il mio percorso di cambiamento è stato molto lento, il giorno della condanna pensai di farla finita ma l’indomani mi sono messo le scarpe e ho scelto di vivere per essere una persona migliore, ho deciso di affrontare il passato, di capire il perché di ciò che avevo fatto...».

Il cambiamento

Il Pietro di oggi si dichiara «diverso» e rivela: «Ciò che sono adesso è stato guadagnato sulla sofferenza, sulla solitudine, sul vivere le proprie emozioni e non poterle esternare. Se sono riuscito ad arrivare fino a qua, mi dico che posso andare anche oltre. Adesso cerco di raccogliere dalla vita le cose vere, un tempo invece raccoglievo cose futili, una macchina migliore, un vestito in più, altri soldi... ora invece la ricerca è in un’altra direzione, cerco esattamente l’opposto rispetto al passato. Dentro di me — confida pubblicamente Maso — ho un peso che sto portando dentro, ed è la mancanza dei miei genitori. Al contrario invece non sento il peso del carcere, mi sembra di essere stato in cella un giorno, non 22 anni, non sento che mi sia stata tolta per così tanto tempo la possibilità di uscire». A gravare sul veronese, invece, sono i rimorsi: «Se potessi vorrei solo tornare indietro per ridare la vita ai miei genitori, d’ora in poi desidero essere dimenticato, vorrei avere quel poco spazio che mi permetta di fare questa cosa che per me è importantissima infatti con altre persone mi sono dedicando a tempo pieno al reinserimento lavorativo e sociale dei detenuti che stanno espiando una giusta pena. Quando ascolto i loro racconti sento che hanno ricevuto poco, io invece ho ricevuto troppo rispetto a quello che ho dato... Scusate se ancora una volta sono entrato nelle vostre vite — si congeda Maso — spero che sarà l’ultima».

·        Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ho Visto Cose. Morte di Filippo Raciti, il tifoso condannato per l’omicidio del poliziotto ora vive all’estero. Quindici anni fa l’uccisione dell’ispettore allo stadio di Catania. Antonino Speziale, che allora aveva 17 anni, ha scontato la pena, rivendicando la sua innocenza: «Cerco di rifarmi una vita e dimenticare». Tornerà alla sbarra per il risarcimento del danno. Alan David Scifo su La Repubblica l'1 Febbraio 2022. 

Quel venerdì, il 2 febbraio di 15 anni fa, a Catania le luminarie erano già accese in via Etnea. E i tifosi speravano in un aiuto di Sant’Agata per vincere quel derby d’alta classifica che coronava la bella stagione di Palermo e Catania. Era un anticipo insolito quello della serie A, ma quel derby doveva giocarsi di venerdì perché gli altri giorni le strade della cittadina sotto l’Etna doveva riempirsi di cera al grido di “Semu tutti devoti tutti” per la santa della città. Prima della preghiera cattolica c’era quindi la preghiera laica e anche Antonino, all’epoca 17 anni, non voleva mancare quella sera. Tra Palermo e Catania non corre buon sangue e quel venerdì la sicurezza doveva essere massima, per questo motivo per tutta la giornata volavano elicotteri sopra lo stadio “Massimino” strapieno per la partita. È il giorno che ha segnato la vita di Antonino Speziale, ma lui di quella sera così buia per la Sicilia e per il calcio italiano non vuole più parlare. Condannato a otto anni per aver ucciso l’ispettore di polizia Filippo Raciti, ha scontato la sua pena, nonostante si sia proclamato sempre innocente e lo scorso anno è tornato libero. L’età in cui tutti i suoi amici hanno trovato lavoro e si sono sposati lui li ha passati in carcere. Sono state lacrime il giorno di dicembre, quando lui è tornato nella sua Catania, in pieno centro storico, riabbracciando la madre e il padre. 

Dalla città del “Liotru” però, dove è stato accolto con gli applausi del suo quartiere ha voluto andare via presto: «Ho deciso di andare via e girare il mondo per riprendere in mano la mia vita – dice dall’estero al telefono tra una pausa e l’altra dal suo lavoro – Uscito dal carcere non è facile trovare lavoro quindi ho deciso di recuperare, vedere il mondo e riprendermi il tempo perduto». Volato via da qualche mese, cerca di darsi da fare in qualunque modo, facendo consegne a domicilio e facendo dei lavoretti, ma il suo obiettivo è quello di farsi una nuova vita: «Lavoricchio e intanto mi impegno per aumentare il mio bagaglio di esperienze, conoscere le lingue e fare pratica nei lavori che ho avuto modo di studiare in carcere solo nella loro parte teorica».

Ormai superati i trent’anni Antonio vuole darsi una nuova opportunità e teme anche che qualunque parola possa essere travisata e farlo ripiombare di nuovo nell’incubo. «Non voglio parlare di quei giorni, non è questo il momento», dice Antonino che non vuole offendere nessuno e teme qualunque parola possa ritorcersi contro. I suoi anni in carcere però non li dimentica: «Non è facile dover vivere all’interno delle carceri già in un momento normale, figuriamoci in un momento di pandemia, non c’è nessun interesse e nessuno ti aiuta. Ci si è dimenticati che le persone in carcere sono comunque persone e negli ultimi due anni le conseguenze delle carenze delle carceri sono triplicate con la pandemia. La situazione è disastrosa, se c’è una cosa di cui voglio parlare è questa: chi è in carcere deve essere aiutato. Chi sta vivendo la pandemia dentro un circuito chiuso sta soffrendo di più».

Uscito dal carcere, 14 anni dopo quel tragico due febbraio 2007, non è più riuscito a dimenticare quei giorni: «Ho studiato in cella, facendo solo teoria, ho incontrato però professori che mi hanno aiutato». Uscito però, tenta di rifarsi una vita in Italia ma poi decide di andare via. «Per me è stata durissima lasciare di nuovo i miei affetti ma voglio riprendermi i miei spazi, rimettermi in gioco». Così la decisione qualche mese fa di volare via, con l’intento di allontanarsi da un mondo che non sembra avere un futuro per lui: «Per chi esce dal carcere non è facile trovare lavoro, per questo ho deciso di andare via – dice ancora -. Soprattutto dopo la pandemia è diventato ancora più difficile. Io ho saltato un decennio della mia vita e devo recuperare».

Antonio, proclamatosi sempre innocente, nonostante non voglia toccare più l’argomento, in Italia, probabilmente, verrà per andare di nuovo nelle aule giudiziarie, per il ricorso presentato dal suo avvocato, Giuseppe Lipera, contro la condanna al risarcimento di 15 milioni di euro alla presidenza del Consiglio dei ministri e al ministero dell’Interno. L’udienza è fissata per il giugno 2020 e anche in quel caso l’avvocato Lipera si batterà per ribadire l’innocenza del suo assistito, facendo leva sugli elementi controversi del processo, come l’ora del decesso, le immagini di sorveglianza e le cause della morte, avvenute, secondo il giudizio finale del giudice, dall’impatto del sotto-lavandino portato in braccio da Speziale che, nonostante abbia ammesso di aver partecipato ai disordini, continua a ribadire che con la morte dell’ispettore Raciti non c’entra nulla. Quel tragico giorno però non lo dimentica, quel giorno in cui alla parte della città illuminate a festa per Sant’Agata, si alternava il buio del piazzale dello stadio Massimino e il buio di un evento tragico che ha segnato la vita della famiglia Raciti e la vita di un ragazzo ancora minorenne, che ha pagato il suo conto con la giustizia ma vuole tornare a vivere.

Caso Raciti, Spaziale e Micale condannati al risarcimento di 15 milioni. A stabilirlo è il Tribunale civile di Catania: i due condannati per la morte dell'ispettore Filippo Raciti dovranno risarcire lo Stato con una somma a sei zeri. Il legale al Dubbio: «È una sentenza priva di senso, incomprensibile». Valentina Stella su Il Dubbio il 18 maggio 2021. La terza sezione civile del Tribunale di Catania ha condannato la scorsa settimana Antonino Speziale e Daniele Natale Micale al pagamento in solido, nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero degli Interni, di ben 15.063.339,66 Euro. Avete capito bene: 15 milioni di euro, 30 miliardi delle vecchie lire! Ma facciamo un passo indietro e ricordiamo chi sono Speziale e Micale. Era il 2 febbraio 2007: fuori dallo stadio “Massimino” di Catania, nel giorno del derby contro il Palermo, si scatenò l’inferno. Lo scontro tra ultras e forze dell’ordine provocò una vittima: l’ispettore Filippo Raciti. A ucciderlo con un colpo di un sotto-lavello, secondo tre sentenze della magistratura, è l’allora diciassettenne Speziale che verrà condannato da un Tribunale minorile a 8 anni e 8 mesi per omicidio preterintenzionale. Con lui verrà condannato anche Micale, ma a 11 anni. Invece secondo la difesa dell’ex ultras catanese Speziale, rappresentata dall’avvocato Giuseppe Lipera, Raciti sarebbe rimasto schiacciato dal Discovery della polizia in fase di retromarcia per sfuggire alle pietre e alle bombe carta dei tifosi. Una tesi, quella del fuoco amico, mai presa in considerazione dalla magistratura nonostante la presenza di “lacune indiziarie”, come scritto dalla Cassazione, che annullò l’ordinanza di custodia cautelare. Speziale ora è un giovane uomo libero e la sua difesa sta lavorando alla revisione del processo. Ma torniamo alla sentenza del Tribunale civile dello scorso 13 maggio: essa va ben oltre la richiesta di risarcimento danni avanzata dall’Avvocatura dello Stato per conto della Presidenza del consiglio e del ministero dell’Interno che era stata molto inferiore per ciascuno dei due condannati: 305 mila euro per quelli patrimoniali, per «le erogazioni» finanziarie agli eredi, e 50 mila per quelli non patrimoniali legati «all’immagine negativa». Nell’esposto l’Avvocatura dello Stato sottolineava come il ministero dell’Interno avesse «patito un evidente pregiudizio di natura patrimoniale consistito nelle indennità e nelle erogazioni corrisposte alla vedova e agli orfani del dipendente deceduto». Si tratta nello specifico: di una speciale elargizione per un importo di Euro 220.704,34, tre assegni vitalizi di Euro 500,00 mensili, l’assegno vitalizio mensile non reversibile di Euro 1.033,00 in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi, un contributo una tantum per le spese funerarie di Euro 1.560,00, l’equo indennizzo di Euro 39.552,00, l’indennità di buona uscita, il trattamento pensionistico di reversibilità. Inoltre, «la presidenza del Consiglio dei ministri e il Viminale hanno altresì subito danni di natura non patrimoniali consistiti nella grandissima eco internazionale che ha avuto la vicenda». Circostanza confermata dal giudice civile laddove scrive: «Nel caso in oggetto, in sede penale, sono stati prodotti articoli di giornale sulla vicenda, cui anche in questa sede si fa riferimento, dai quali emerge il rilievo internazionale degli eventi occorsi». A ciò aggiunge anche si è trattato di  «fatti che sicuramente hanno leso l’immagine dello Stato come apparato atto a reprimere e prevenire scontri e tafferugli». Per l’avvocato Lipera, sentito dal Dubbio, «è una sentenza priva di senso, incomprensibile. Sono sconvolto. Io non ho mai sentito parlare di una cifra così esorbitante: per un morto per incidente stradale, o nei casi di uomini dello Stato uccisi dai terroristi, non ho mai sentito di simili risarcimenti. E poi questo “danno all’immagine” dello Stato: sono considerazioni che a parer mio non stanno né in cielo né in terra». Sul fatto che il risarcimento sia molto maggiore di quello richiesto dall’Avvocatura dello Stato risponde: «È un grosso errore, faremo appello per una questione anche di principio».

Caso Raciti: la Polizia indaga i testimoni che hanno raccontato una versione diversa da quella emersa. Le Iene News l'11 febbraio 2021. La procura di Catania sta indagando per diffamazione i due testimoni che nei nostri servizi sul caso Raciti hanno riferito una versione secondo la quale sarebbe possibile che l’ispettore non sia stato colpito da Antonino Speziale ma avrebbe potuto ricevere il colpo mortale da una Jeep della Polizia in manovra. Il capo della Polizia ha querelato i due testimoni sentiti nei nostri servizi sul caso della morte di Filippo Raciti, che si sono visti così recapitare la notifica di avviso di chiusura delle indagini da parte della procura di Catania per diffamazione. Per la morte dell'ispettore Raciti, ucciso durante gli scontri avvenuti durante la partita Catania-Palermo nel 2007, era stato condannato il tifoso Antonino Speziale a otto anni carcere, che ha finito di scontare a dicembre. Ma nonostante i tre gradi di giudizio siano arrivati alla stessa conclusione i dubbi su questa vicenda sembrano rimanere.

MANCA IL MOMENTO DELL’IMPATTO. Intanto il momento in cui Speziale colpirebbe Raciti non si vede mai: dalle immagini riprese quella sera dalle camere di sicurezza dello stadio si osserva un sottolavello (presunta arma del delitto) lanciato dai tifosi che scompare, per ricomparire pochi secondi dopo una decina di metri più in là. L'impatto è stato quindi "dedotto" ma non osservato da nessuno, neanche dagli altri poliziotti che erano lì in quel momento. Peraltro risulta abbastanza difficile capire come quel pezzo di lamiera avrebbe potuto colpire qualcuno con violenza e contemporaneamente volare molti metri in avanti.

DISCREPANZE TRA L’ORARIO DELL’IMPATTO E LA MORTE DI RACITI. Le telecamere dello stadio immortalano quella scena alle 19:08, ma Filippo Raciti si sente male verso le 20:30 e muore poco dopo le 22. Come poteva l’ispettore, con lesione al fegato e costole rotte, continuare gli scontri con gli ultrà per tutto quel tempo?  “Una lesione del fegato provoca un’emorragia tale che un fisico più reggere 20, 30 minuti al massimo" ha sottolineato il giornalista d’inchiesta Piero Messina, "provoca una morte abbastanza rapida. Come ha fatto quest’uomo a continuare gli scontri con una lesione così grave per un’ora e mezza?”

IL VIDEO INTERROTTO. L’avvocato Giovanni Adami, che assiste da anni diversi ragazzi imputati, ci ha detto di non aver mai avuto accesso a tutti i filmati originali che avrebbero forse potuto dare una prospettiva diversa alla vicenda. Uno in particolare che mostrava un’angolazione perfetta per capire l’accaduto si interrompe proprio nel momento del presunto impatto tra il sottolavello tirato dai tifosi e la Polizia. “Tutto può essere”, ha commentato l’avvocato Adami, “La telecamera si è bloccata in quel momento? Si è fermata la batteria? Solo vedendo gli originali si poteva capire…”. Ma come detto gli originali non sono stati trovati.

LA PERIZIA SUL SOTTOLAVELLO. Una perizia del Ris di Parma, richiesta proprio dal tribunale di Catania, ha stabilito che quell’oggetto (il sottolavello in lamiera) non era idoneo a dare il colpo mortale. Ma i giudici scrissero di non condividere le conclusioni dei Ris, perché non era stato usato il dovuto rigore scientifico.

LA CONFESSIONE. Intercettato in una delle stanze del Tribunale Antonino Speziale, parlando con un altro ragazzo, alla domanda “l’hai ammazzato?” sembra rispondere con un cenno della testa come a dire “sì”. Gli inquirenti la reputano una confessione ma poco dopo Speziale dice “No, questo non è morto”, sembrando chiarire con l’amico che la persona con cui si sarebbe scontrato non è morto.

IL CAMBIO DI VERSIONE DEL  POLIZIOTTO ALLA GUIDA DELLA JEEP. L’agente che era alla guida della jeep su cui viaggiava anche Raciti, sentito nell’immediatezza dei fatti, racconta di una retromarcia fatta in mezzo al caos, di aver sentito una forte botta contro l’auto e di aver poi visto l’Ispettore, che era lì dietro, sentirsi male. Lo stesso Agente invece ai processi cambia radicalmente versione raccontando di aver sentito solo i botti dei petardi lanciati dai tifosi ed escludendo con certezza di aver sfiorato chiunque col mezzo.

L’IPOTESI ALTERNATIVA. E proprio questa invece sarebbe l’ipotesi alternativa per spiegare la morte dell’ispettore Raciti: sarebbe stato investito involontariamente da una jeep delle forze dell’ordine che stava compiendo una manovra durante quei momenti concitati.

LE TESTIMONIANZE. Proprio a questa ipotesi si riferivano le testimonianze di due persone che ci hanno contattato spontaneamente dopo la messa in onda dei nostri primi servizi sulla vicenda. Senza che avessero assolutamente nulla da guadagnare i testimoni hanno raccontato di aver sentito - direttamente o indirettamente - membri stessi della Polizia parlare di quello sfortunato incidente. La prima, una donna, sostiene di esser stata al funerale di Filippo Raciti e di aver udito questa frase rivolta al padre dell’ispettore da un altro poliziotto: “Signor Raciti le dobbiamo porgere le scuse in quanto Polizia, perché è stata una manovra errata di un collega'”. Questa Circostanza è poi stata smentita dalla famiglia dell’ispettore capo ma poco dopo si è fatto avanti un altro testimone che ci ha detto: “Mio padre era una collega del padre di Filippo Raciti. Si incontrarono al mercato storico, in pescheria, e nella discussione il papà di Raciti disse che era venuto a conoscenza che effettivamente il figlio non era stato ammazzato da Antonino Speziale ma dal "fuoco amico", da quella famosa, purtroppo, retromarcia del Discovery”. Questi due testimoni non avevano e non hanno a tutt’oggi nulla da guadagnare nel riferire queste cose, ma hanno scelto di riferirle. E la Procura, che auspichiamo abbia verificato quelle parole ha scelto di indagarli entrambi per diffamazione aggravata a mezzo stampa. Per la procura i due avrebbero riferito "fatti non veri, offendendo la reputazione della Polizia di Stato", affermando "in modo implicito" che nelle indagini sulla morte dell'ispettore capo Filippo Raciti "sarebbero state coperte volontariamente le responsabilità dei veri" autori "indirizzandole dolosamente a carico di Antonino Speziale”. Risulta inoltre che alcune persone siano state convocate in Questura per aver postato su Facebook commenti sulla famiglia Raciti: da sempre contrari ad ogni manifestazione di violenza od offesa anche verbale, vogliamo però sperare che non si impedisca di esprimere le proprie opinioni qualora ciò avvenga correttamente.

·        Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

L’ostaggio, il poliziotto Renato Cortese nella trappola del caso Shalabayeva. La spy story grottesca di un rapimento inesistente nella contro inchiesta di Enrico Bellavia, ora in libreria. Il dirigente che arrestò il boss Provenzano nella rete della vicenda del rimpatrio, nel 2013, della moglie del sedicente dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Enrico Bellavia su La Repubblica il 30 settembre 2022.

Anticipiamo qui brani de “L’ostaggio” di Enrico Bellavia (Zolfo editore, 248 pagine, 17 euro), sul caso Alma Shalabayeva. Il processo ha assolto Renato Cortese , condannato in primo grado a 5 anni per sequestro di persona. Il 4 ottobre il superpoliziotto riceverà la cittadinanza onoraria di Palermo.

Si può annientare un uomo tenendolo in vita? È sufficiente rovesciargli addosso un’accusa infamante. Basta contraddire con un tratto di penna un’intera esistenza. Lasciare che lo spettro di una carriera finita, bollata con marchio di ignominia offuschi meriti e successi e agiti giorni e notti. Basta il confino in un limbo indefinito a sprecare le proprie ore.

Questa è la storia di un cacciatore diventato preda. Il capro espiatorio di una ir-ragion di Stato. È la storia del miglior poliziotto italiano passato per il calvario di una condanna per sequestro di persona. Reo di un crimine aberrante: «Lesa umanità mediante deportazione».

Un’enormità punita con cinque anni di carcere, tanto quanto basta a precludere il ritorno in attività. Ma è soprattutto la storia esemplare di un testacoda politico-giudiziario nel quale la gogna non è il mezzo ma il fine ultimo. La cronaca di un’impostura. La partitura di un teorema basato sul nulla. O quantomeno su nulla che sia stato dimostrato. L’ordito di una trama che restituisce un sacrificio, per giunta inutile.

Questa è la storia di Renato Cortese, calabrese, classe 1964, entrato in polizia da funzionario nel 1991 e diventato dirigente generale dopo cinque lustri in prima linea. Capo della Catturandi della gloriosa Squadra mobile di Palermo, anima del gruppo Duomo che ha arrestato il superboss Bernardo Provenzano, alla guida della Mobile di Reggio Calabria e di Roma, al vertice del Servizio centrale operativo, quindi questore a Palermo. E chissà cos’altro gli avrebbe riservato il futuro: forse capo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, trampolino di lancio, probabilmente, per l’empireo del Viminale. Curriculum invidiabile e invidiato, titoli in abbondanza per puntare legittimamente ancora in alto. Lungo un percorso, certo, più accidentato della strada. Tra quei corridoi ministeriali dove i sussurri sono più minacciosi delle urla, la moquette più infida dell’asfalto e le ragioni di opportunità più subdole di un agguato. (…) 

Il 21 ottobre 2020 Renato Cortese lascia Palermo «con il cuore spezzato», come scrive in una lettera aperta alla città che questo calabrese di Santa Severina sente come sua. (…) Poche ore prima, quella che era una carriera lanciata al massimo si è infranta sull’incredibile sentenza del Tribunale di Perugia che ha ritoccato al raddoppio le pur dure richieste, 2 anni e 4 mesi, dell’accusa. E invece sono cinque anni per sequestro di persona, la macchia di una presunta macchinazione risoltasi con una extraordinary rendition. Cinque anni che valgono l’interdizione dai pubblici uffici e lo spettro del carcere. (…)

Casal Palocco, Roma, martedì 28 maggio 2013, ore 24. Ventisei agenti, un nucleo congiunto formato da poliziotti della Squadra mobile diretta da Renato Cortese e della Digos, diretta da Lamberto Giannini, futuro capo della polizia, entra nel parco di una villa elegante alla periferia Sud di Roma. Quartiere residenziale per l’alta borghesia, verde, abitazioni più che confortevoli, riparate oltre la cortina di muri e alberi, lascito dell’esercizio di stile della pianificazione razionalista, è oggi la naturale estensione della città che tende verso il mare e si ritrova in pineta.

Lì abita Alma Shalabayeva (si pronuncia con l’accento sulla terza a: Shalabàyeva), nata in Kazakistan nel 1966. Nessuno la conosce però con il suo vero nome. Per tutti è Alma Ayan, nata in Centrafrica nello stesso anno. E così si presenta ai poliziotti, esibendo un passaporto dell’ex colonia francese, teatro delle crudeltà dell’autoproclamatosi imperatore Bokassa diventata un’incerta Repubblica, esposta ai venti cangianti delle pulsioni popolari e militari e al centro di un intenso traffico di documenti falsi. (…) La notte dell’irruzione a Casal Palocco i poliziotti però non sono interessati ad Alma Ayan e alle sue bugie. Cercano un latitante. Risponde al nome di Mukhtar Ablyazov, classe 1963. È un oligarca kazako, banchiere e sedicente oppositore del regime filorusso di Nursultan Nazarbaev, passato tempo dopo, nel 2019, nelle mani del delfino, il presidente Qasym-Jomart Tokayev, che dopo un po’ ha rotto con il suo padrino, estromettendolo nel 2022 da presidente del Consiglio di sicurezza. (…)

Alma, dunque, non ha alcun titolo valido per rimanere in Italia. E poiché i kazaki dicono che è una loro cittadina, è lì che deve tornare. (…) Quando il carrello dell’aereo si stacca da terra, Renato Cortese non può sapere ancora che un pezzo della sua vita se ne va via verso un Paese del quale sapeva molto poco. Da quel momento sarà lui l’ostaggio. Incatenato a una storia surreale. Da poliziotto impavido diventerà un codardo che non ha esitato a sbarazzarsi di una povera donna e della figlia per compiacenza verso i kazaki. (…)

Perugia, 9 giugno 2022, 20.17. «Assolti perché il fatto non sussiste». Il silenzio è rotto da un brusio che si fa ovazione, dall’abbraccio e dal pianto che è gioia. Scaccia dieci ore di tensione, due anni di purgatorio e nove di scartoffie e amarezze. Dissolve le ombre e libera da un peso.

Il fatto non sussiste. Non c’è nulla, non c’è mai stato. E neppure questo processo d’Appello avrebbe dovuto esistere. Se non ci fosse stato quell’altro, il primo grado, nato da un’inchiesta che ha puntato sui poliziotti, sperando di dimostrare che avessero obbedito a ordini infami, rendendosi complici di un crimine odioso. E invece? Funzionari e agenti hanno agito secondo la legge, nessuna violazione, nessuna compiacenza, nessuna sudditanza a despoti stranieri.

Alma Shalabayeva ha mentito sulla sua identità e esibito un passaporto falso, poi ha amministrato con sapienza e astuzia il ritorno di immagine che ne è derivato. Con un giorno al Cie è riuscita nell’intento di smacchiare la biografia ufficiale del marito. L’immagine di dissidente di Mukhtar Ablyazov è una sagoma che è servita a distrarre dalle vere ragioni che l’avevano indotto a fuggire dal Kazakistan: il tesoro portato via da un Paese, il suo, ricco di materie prime da cui discendono fortune in mano a pochi. Un malloppo ora ben al sicuro nei paradisi fiscali.

Chi è stato tenuto in ostaggio in questa storia sono solo gli imputati, spinti giù nel girone dell’assurdo, lungo la rupe su cui rotolano le macerie del nostro sistema giudiziario, della politica e di certa informazione.

La giustizia, in questo caso, con la lentezza che le è propria, ha riparato all’errore, il che non cancella il danno prodotto. Anzi, lo fa risaltare. Difficilmente, politica e informazione faranno altrettanto. Confideranno sulla memoria labile di un Paese che metabolizza tutto in fretta. Invece bisogna dire e ripetere che tutto questo è accaduto davvero. E non si può dimenticare. Non si deve.

Quei poliziotti e funzionari che hanno eseguito ordini e alla fine sono stati loro a pagare. FRANCESCO VIVIANO su Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2022.

COME spesso accade, purtroppo, la giustizia italiana riserva sempre delle sorprese. Non è mai lineare. Perché? Perché accade che chi finisce nelle mani della cosiddetta Giustizia, subisce e poi spesso viene riabilitato, per modo di dire, venendo assolto dopo una condanna di primo grado. Una condanna, che spesso dura molti anni, come nel caso che ha visto protagonisti l’ex questore di Palermo, Renato Cortese, il poliziotto che ha messo le manette ai polsi di uno dei grandi capi di Cosa Nostra, come il corleonese, Bernardo Provenzano. Ed insieme a lui erano stati indagati a condannati altri suoi colleghi, l’ex capo del’ ufficio immigrazione, Maurizio Improta e gli agenti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore che nel processo di primo grado erano stati condannati a pene tra i 5 d i tre anni.

Accusati di sequestro di persona, di “rapimento di Stato” per la vicenda relativa a Alma Shalabayeva, moglie del dissidente del Kazakistan Mukhatar Ablyaziv, che fu fermata a Roma e poi espulsa appunto in Kazakistan perché in possesso di un passaporto risultato falso. Bene, quelle accuse, sono risultate infondate e gli imputati, dopo nove anni, sono stati assolti per non avere commesso il fatto. Insomma non ci fu nessun “rapimento di Stato”.

Ma viene spontaneo chiedersi: perché la giustizia italiana indaga, arresta, condanna funzionari ed agenti di polizia che eseguono ordini che vengono dall’alto, cioè dal ministero degli interni (allora retto dall’On Angelino Alfano di Forza Italia) e dalla Procura di Roma allora retta dal procuratore Giuseppe Pignatone. Quei poliziotti e funzionari hanno eseguito degli ordini ed alla fine sono stati loro a pagare. Insomma, la solita storia. Gli “esecutori” vengono processati condannati e poi per fortuna assolti, ed i “mandanti” neanche vengono indagati.

Possiamo immaginare che dei funzionari ed agenti di polizia eseguono una espulsione dall’ Italia verso il Kazakistan come se fosse una loro iniziativa personale? Pensate davvero che un poliziotto, carabiniere, finanziere, guardia forestale, vigili urbani, possano fare una cosa del genere se qualcuno dall’alto non glielo ordina? Ma questa è la giustizia italiana che purtroppo, ogni giorno che passa offre di se una pessima immagine anche se la sentenza di ieri della Corte d’Appello di Perugia ha ridato dignità ed onore all’ex questore di Palermo, all’epoca dei fatti capo della squadra mobile di Roma, Renato Cortese ed agli altri imputati.

Ma chi li ripagherà i danni di questa lunga indagine, durata nove anni, che ha pregiudicato la vita e la carriera di Renato Cortese e degli altri? Nessuno, come sempre accade. Questa squallida vicenda, purtroppo fa il paio con quell’altro processo che è ancora in corso a Caltanissetta, dove sono imputati quattro poliziotti, accusati di avere ordito il clamoroso depistaggio sulla strage di via D’Amelio, dove morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta. Ma quei poliziotti erano “coordinati” e “comandati” da un paio di magistrati che, purtroppo, come sempre accade, sono rimasti fuori dal processo, come se non avessero nessuna responsabilità sulla gestione del “pentito”, Vincenzo Scarantino le cui false accuse portarono alla condanna all’ergastolo di persone che con quella strage non avevano nulla a che fare e che per fortuna dopo tanti anni sono stati assolti, perché innocenti.

Sono processi che chiedono vendetta. Renato Cortese e gli altri imputati, per esempio, in questi nove anni, hanno dovuto subire in silenzio questa ingiustizia. Un poliziotto Cortese, che era avviato verso una splendida carriera e che sarebbe potuto diventare Capo della Polizia (speriamo che prima o poi accada). Era stato capo della  “catturandi” della squadra mobile di Palermo che ha arrestato dopo 30 anni di latitanza, il capo mafia corleonese, Bernardo Provenzano. Poi fu a capo della squadra mobile di Roma e poi questore di Palermo dovendosi dimettere per l’indagine dell’ affaire Kazakistan. Un calvario che è durato nove anni che si risolto è adesso con l’assoluzione piena. Ma chi gli ripagherà questa ingiustizia subita? Nessuno. 

E poi una considerazione che non c’entra nulla con questi processi che però fa riflettere, perché è un dato di fatto. Prima di Cortese che ha arrestato Bernardo Provenzano, un altro investigatore, un carabiniere, il generale Mario Mori capo del Reparto Operativo Speciale dei carabinieri che nel 1993 pose fine alla latitanza del capo di Cosa Nostra, Totò Riina, fini anche lui nei guai, indagato processato condannato e poi assolto. Per caso porta sfortuna catturare i grandi capi di Cosa Nostra? Non ci credo ma è accaduto e quindi tanti auguri a quegli investigatori che da anni danno la caccia all’ ultimo dei grandi latitanti di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro.

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Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

(Adnkronos il 10 giugno 2022) - "E` stata riconosciuta la regolarità della nostra attività e l`assenza assoluta di qualsivoglia iniziativa criminale. Penso a mia madre che ha 90 anni e che avrà un bel regalo, a mia moglie che proprio oggi compie gli anni, a mio nipote di sei mesi che almeno avrà un ricordo di un nonno perbene. Sono passati nove anni che nessuno mi restituirà e forse adesso potrò avere un po` di serenità". 

Così Maurizio Improta dopo la sentenza di assoluzione pronunciata dai giudici della Corte d`Appello di Perugia nel processo per l`espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia, avvenuta nel2013.   

 Cosa si aspetta dalla Polizia ora? "Aspetto quello che deciderà il capo della Polizia, che non ha mai avuto un attimo di tentennamento nei nostri confronti. Quello che vorranno chiederci di fare faremo. Ora vogliamo recuperare la serenità e tante ore di sonno che mancano da parecchi anni perchè sono cose che fanno male, che minano il fisico, la mente. Ci vuole tanta forza".    

"Ho pianto tante volte da solo, l`ultima volta ieri. Un pensiero -aggiunge Improta in lacrime- va a mio padre che subì lo stesso tormento quando era prefetto a Napoli e ne uscì assolto. Si vede che la Corte di Appello di Perugia ha letto bene le carte, ha analizzato, ha capito di avere a che fare con persone perbene". 

Da adnkronos.com il 10 giugno 2022.  

Tutti assolti in appello gli imputati del processo per l'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, avvenuta nel 2013. I giudici della Corte di Appello di Perugia con la sentenza di assoluzione, pronunciata dopo quasi dieci ore di camera di consiglio, hanno ribaltato il verdetto di primo grado per Renato Cortese, Maurizio Improta, i poliziotti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma, Stefano Leoni e il giudice di pace Stefania Lavore. 

Alla lettura del dispositivo del collegio, presieduto da Paolo Micheli, erano presenti in aula tutti gli imputati e tanti colleghi dei poliziotti, finiti sotto processo, arrivati a Perugia da diverse regioni. Assente, invece, Alma Shalabayeva, parte civile nel processo.

I poliziotti hanno ascoltato in silenzio la lettura della sentenza e, poi, si sono abbracciati. Lacrime di gioia per Renato Cortese, Maurizio Improta, Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma, Stefano Leoni, che hanno atteso in aula il verdetto che ha ribaltato la sentenza di I grado. Intorno a loro tanti colleghi e amici arrivati da ogni parte d'Italia per sostenerli.

“E’ una pagina di grande giustizia" dice all’Adnkronos l’avvocato Ester Molinaro che insieme al professor Franco Coppi difende Renato Cortese. "Contenti sicuramente per l’esito del processo. Dimostra al contempo che, come abbiamo sempre sostenuto, il processo a carico del dottor Cortese non sarebbe mai dovuto iniziare. L’assoluzione perché il fatto non sussiste sradica completamente l’impianto accusatorio”.

IMPROTA - "E’ stata riconosciuta la regolarità della nostra attività e l’assenza assoluta di qualsivoglia iniziativa criminale" dice Maurizio Improta dopo la sentenza di assoluzione. "Penso a mia madre che ha 90 anni e che avrà un bel regalo, a mia moglie che proprio oggi compie gli anni, a mio nipote di sei mesi che almeno avrà un ricordo di un nonno perbene. Sono passati nove anni che nessuno mi restituirà e forse adesso potrò avere un po’ di serenità".

Cosa si aspetta dalla Polizia ora? "Aspetto quello che deciderà il capo della polizia, che non ha mai avuto un attimo di tentennamento nei nostri confronti. Quello che vorranno chiederci di fare faremo. Ora vogliamo recuperare la serenità e tante ore di sonno che mancano da parecchi anni perché sono cose che fanno male, che minano il fisico, la mente.

Ci vuole tanta forza". "Ho pianto tante volte da solo, l’ultima volta ieri. Un pensiero -aggiunge Improta in lacrime- va a mio padre che subì lo stesso tormento quando era prefetto a Napoli e ne uscì assolto. Si vede che la Corte di Appello di Perugia ha letto bene le carte, ha analizzato, ha capito di avere a che fare con persone perbene".

LA DIFESA DI IMPROTA - “Da quando ho preso l’incarico di seguire il dottor Improta e dopo aver letto gli atti non ho mai dubitato dell’infondatezza dell’ipotesi di accusa, nemmeno per un minuto" dice all’Adnkronos l’avvocato Bruno Andò, difensore di Maurizio Improta. "Questa sentenza riabilita pienamente un funzionario che ha avuto l’esclusivo interesse della tutela della legge e del rispetto dei diritti umani”. 

IL LEGALE DI CORTESE - “Dire che siamo soddisfatti è fin troppo ovvio. Resta l’amarezza determinata da un processo che non doveva neppure nascere" dice all'Adnkronos l’avvocato Franco Coppi, difensore insieme a Ester Molinaro, di Renato Cortese. "La sentenza di appello ha rimesso le cose al loro posto, resta la sofferenza che Cortese e gli altri imputati hanno dovuto sopportare”.

L'AVVOCATO DI STAMPACCHIA - "Ritengo che la Corte d'appello abbia compreso meglio e di più, ha rinnovato l'istruttoria dibattimentale consentendo di ascoltare in aula le testimonianze dell'ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone e del pm Eugenio Albamonte che si occuparono del caso. Quello che ha pagato il mio assistito non è un prezzo risarcibile, ma oggi per lui è una grande soddisfazione" ha detto all'Adnkronos l'avvocato Massimo Biffa, difensore del poliziotto Francesco Stampacchia. "Ora attendiamo di leggere le motivazioni - ha aggiunto il penalista - mi fa piacere che questi uomini, poliziotti in gamba, rimasti in panchina, da domani possano riprendere la loro attività, questo è l'augurio che faccio loro".

LA PORTAVOCE DI ALMA - “La sentenza e le condanne in primo grado erano giuridicamente inattaccabili, e di conseguenza le assoluzioni non possono che essere il risultato di pressioni politiche” ha commentato Marc Comina, portavoce della famiglia Shalabayeva. “Questa sentenza è scandalosa e scioccante, perché legittima dei comportamenti che sono un danno e uno scandalo non solo per Alma ma per la stessa credibilità dello Stato italiano. Non c'è dubbio, quindi, sul fatto che Alma proporrà ricorso”, ha spiegato il portavoce. 

GIANNINI - Il capo della Polizia Lamberto Giannini ha accolto con "grande soddisfazione" la sentenza della Corte di Appello di Perugia che ha riconosciuto la "correttezza della condotta degli appartenenti alla Polizia di Stato" in relazione alla vicenda di Alma Shalabayeva.

TONELLI - "Da 30 anni a questa parte è stata già persa una infinità di servitori, una classe dirigente amministrativa e politica per una caccia alle streghe" afferma all'Adnkronos Gianni Tonelli, deputato leghista e segretario generale aggiunto del Sap. "Spero che, da domenica, possa inaugurarsi nuova stagione anche in questo senso per la nostra Repubblica". "Questa vicenda ha lasciato sul campo troppi cadaveri, metaforicamente parlando. Due funzionari eccellenti oggi assolti. E il mio pensiero va ai prefetti Procaccini e Valeri, straordinari funzionari che hanno vista interrotta la loro carriera e il rapporto di servizio straordinario al Paese che, da una vita, facevano", ha detto Tonelli facendo anche riferimento alle dimissioni e all'avvicendamento all'epoca dei prefetti Procaccini e Valeri.

"Per fortuna Cortese e Improta avranno la possibilità di rivalutare ampiamente la loro posizione che già è stata riabilitata - sottolinea Tonelli -. Ci chiediamo come mai a volte si prendono abbagli così importanti da parte della magistratura, quando si parla di funzionari pubblici. Sono in gioco gli interessi non solo dei singoli, ma di una comunità che ha diritto di preservare i propri servitori e coloro che guidano una classe dirigente in maniera eccellente". 

MACCARI - "Il tempo è galantuomo e la giustizia finalmente è fatta, ma nel frattempo sono state distrutte carriere e persone" afferma all'Adnkronos Franco Maccari, vicepresidente nazionale del Sindacato Fsp Polizia. 

CECCHINI - "Siamo felici e orgogliosi dei nostri colleghi dei quali conosciamo l'onorabilità, la dignità lavorativa, umana e professionale" dice all'Adnkronos Andrea Cecchini, segretario generale di 'Italia Celere'. "Per noi è una soddisfazione che possano continuare a esercitare la loro professione, nonostante siano stati infangati dall'opinione pubblica negli anni precedenti - conclude Cecchini -. Confidavamo fin dall'inizio nella magistratura e in una sentenza favorevole. E così è stato". 

GASPARRI - “Ho difeso fin dall'inizio il dottor Improta e gli altri funzionari di polizia ingiustamente accusati per la vicenda Shalabayeva. Avevano ragione e oggi la sentenza d'appello dimostra la loro innocenza. Ero intervenuto in parlamento più volte" dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. "Vergogna su chi li ha accusati ingiustamente. Vergogna su chi emette sentenze che poi vengono smentite negli ulteriori gradi di giudizio. E non si dica che ciò dimostra che la giustizia funziona. Perché intanto le persone subiscono anni di danni morali, personali e professionali - aggiunge il senatore azzurro - . Ora i vertici del Viminale devono risarcire con immediatezza e con adeguati incarichi, dei funzionari di grande valore che hanno subito un'ingiusta gogna per colpa di alcune toghe”.

Caso Shalabayeva: "Tutti assolti gli imputati". Antioco Fois su La Repubblica il 9 Giugno 2022.  

A Perugia la sentenza del processo d'appello. Cancellata la condanna per i superpoliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta.

Assolti in appello dopo quasi dieci ore di camera di consiglio, cinque mesi di processo e nove anni dai fatti, i superpoliziotti Renato Cortese e Maurizio Improta, a giudizio per la vicenda che culminò con l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Alua, nel maggio 2013.

Con loro la corte d’appello di Perugia, presieduta da Paolo Micheli, ha assolto gli altri quattro poliziotti Francesco Stampacchia, Luca Armeni, Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, che erano stati...

Shalabayeva, tutti assolti. Nessun rapimento di Stato. Scagionati Cortese e Improta. Non fu un sequestro, lacrime e abbracci tra i poliziotti liberati dall’incubo di un’accusa infamante. Dieci ore di camera di consiglio per mettere la parola fine a un vicenda lunga nove anni. Enrico Bellavia su La Repubblica il 9 Giugno 2022.

Tutti assolti: nessun rapimento. I giudici della corte d’Appello di Perugia erano entrati in camera di consiglio dopo 8 udienze poco dopo le 10. Ne sono usciti dieci ore dopo liberando tutti e 7 gli imputati dall’accusa infamante di aver partecipato a un sequestro di Stato, così come stabilito in primo grado. Si conclude così tra le lacrime e gli abbracci dei poliziotti dentro un incubo lungo nove anni, il processo per il rimpatrio in Kazakistan, il 30 maggio del 2013 di Alma Shalabayeva, moglie del ricercato Mukhtar Ablyazov e della figlia Alua, di sei anni, dopo un blitz nella loro villa di Casal Palocco a Roma.

La donna era stata rispedita in patria con un velivolo noleggiato apposta dall’ambasciata kazaka a Roma.

Il provvedimento di rimpatrio si basava sul fatto che Alma Shalabayeva avesse esibito un documento, un passaporto della Repubblica Centroafricana, che era sembrato falso, salvo poi essere rocambolescamente accreditato come autentico dal nuovo esecutivo di quel Paese. Nel documento, l’identità della donna era Alma Ayan e non aveva mai formalizzato alcuna richiesta di asilo in Italia. Il marito, oltretutto, risultava latitante e non protetto dalla Gran Bretagna, dal momento che lo status di rifugiato era in corso di riesame per via dei suoi guai giudiziari.

La tesi opposta, sposata dai giudici di primo grado, era invece che l’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano, investito da una tempesta politica, ma rimasto fuori dalle conseguenze giudiziarie, attraverso i vertici del Viminale, avesse filoguidato un’operazione di extraordinary rendition che si sarebbe tramutata in un «crimine di lesa umanità», come i giudici del tribunale hanno rimproverato ai sette finiti a giudizio, anello terminale di una catena di comando mai perseguita.

Si tratta di sei poliziotti, l’allora capo della Mobile, Renato Cortese l’uomo che catturò il boss Bernardo Provenzano, alla sbarra, con i funzionari Luca Armeni e Francesco Stampacchia, del capo dell’Immigrazione, Maurizio Improta, con i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni e della giudice di Pace Stefania Lavore.

La storia ha inizio la sera del 28 maggio 2013 quando un gruppo di poliziotti fa irruzione nella villa di Alma Shalabayeva a Casal Palocco. L’ambasciata kazaka ha fornito l’informazione che lì potrebbe nascondersi Mukhtar Ablyazov, sedicente dissidente, ricercato per l’appropriazione di un malloppo consistente, sparito dalla principale banca del Paese. Ablyazov, ricercato con nota rossa Interpol non c’è. Ci sono invece la moglie che si presenta con il passaporto falso di Alma Ayan, la figlia di 6 anni, Alua, due domestici ucraini e i cognati di Ablyazov. I poliziotti, eseguita la perquisizione, trattengono la donna per accertamenti. E dopo la spediscono al Cie di Ponte Galeria, il centro di identificazione ed espulsione.

Il 30 si tiene l’udienza di convalida davanti al giudice Lavore che convalida. La sera stessa la donna sale sull’aereo noleggiato dai kazaki insieme alla figlia e viene spedita ad Astana e poi trasferita in casa dei genitori di lei ad Almaty. Dopo poche ore il suo avvocato denuncia l’abuso dell’espulsione di una donna che andava protetta per ragioni umanitarie e il caso deflagra anche in ambito europeo, tanto da far intervenire l’allora ministro Emma Bonino. Il Centro Africa dichiarerà l’autenticità del passaporto rilasciato con falsa identità per motivi di sicurezza e successivamente il provvedimento di espulsione verrà revocato. Nel dicembre successivo Alma Shalabayeva rientra in Italia con il proprio passaporto kazako e ad aprile dell’anno successivo ottiene lo status di rifugiata.

La ricostruzione, accolta con un surplus di aggravio di pena dal tribunale era invece, quella di una totale acquiescenza ai kazaki da parte del governo italiano. La vicenda si colloca a ridosso del rinnovo dell’esecutivo con la maggioranza delle larghe intese guidata da Enrico Letta. In quello stesso frangente Alessandro Pansa era arrivato al vertice della polizia dopo la morte di Antonio Manganelli e dopo qualche mese di reggenza di Alessandro Marangoni. Giuseppe Procaccini, il capo di gabinetto di Alfano, rimasto all’Interno anche successivamente con il governo Renzi, si era dimesso. Il Viminale aveva concluso l’indagine interna sostenendo che la procedura di espulsione era stata corretta, tesi ribadita anche recentemente, in risposta a una interrogazione parlamentare del dem Carmelo Miceli e l’unico appunto possibile riguardava le comunicazioni giunte dalla base al vertice circa la procedura seguita.

Insomma, per la polizia, la ricerca di Ablyazov aveva seguito la procedura ordinaria con il blitz a Casal Palocco. E anche il rimpatrio era stato corretto. Ma date le implicazioni doveva essere data comunicazione ai piani alti, cosa che era mancata.

Per gli imputati, accusati di aver tradito il giuramento di lealtà alla Costituzione, sono stati nove anni in bilico intorno a una tesi indimostrata: Alma Shalabayeva rimpatriata in Kazakistan per compiacere il regime di Astana con il quale l’Italia, Eni in testa, faceva ottimi affari. Senza però che venisse mai spiegato perché avrebbero dovuto farlo, visto che il processo non ha dimostrato che avessero obbedito a un ordine superiore violando le regole, né che avessero un interesse diretto nella vicenda.

All’accusa era bastato un incerto puntello: l’idea che l’allora capo della Mobile, Renato Cortese e il capo dell’Immigrazione Maurizio Improta si fossero accordati per trattenere la moglie di Mukhtar Ablyazov, per trovare un labile riscontro al postulato. E sostenere che Alma doveva essere trattenuta per snidare il marito latitante. Sta infatti tutta qui la tesi del sequestro di persona che ha atterrato le carriere di due funzionari costringendoli a un quasi riposo forzato dopo la sentenza di primo grado. Cortese si è ritrovato da questore di Palermo a una scrivania del Viminale. Improta ha dovuto lasciare la questura di Rimini e rimanere parcheggiato alla polizia ferroviaria.

Ex oligarca del regime di Nazarbayev, Ablyazov, scontato un anno dei sei comminatigli in patria per malversazioni, era fuggito prima in Russia e poi in Gran Bretagna. Inseguito dal sospetto, suffragato dalle pronunce di varie corti, di essersi impadronito di un bottino da 6 miliardi di dollari della Bta, la banca privata, poi nazionalizzata di cui era stato il padrone. Con il corollario della morte sospetta del suo ex socio. Ablyazov, datosi alla politica con un proprio partito di opposizione, da delfino del presidente si era fatto strenuo antagonista. E tale è rimasto dopo il passaggio di consegne, prima indolore, poi traumatico tra Nazarbayev e Tokayev.

Con un’abile campagna mediatica, dall’Inghilterra e successivamente dalla Francia, complici i buoni uffici della figlia maggiore Madina, residente in Svizzera, Ablyazov si è dato lo status di dissidente, inseguito dal temibile regime kazako, lasciando in ombra gli affari per nulla limpidi che lo avevano portato a essere il più ricco uomo del Kazakistan e poi, secondo la definizione dei giornali inglesi, un Bernie Mardoff del suo Paese, con opache operazioni finanziarie anche negli Usa, intorno alle torri di Donald Trump.

È accaduto anche che da rifugiato in Inghilterra, Ablyazov ha taciuto sul possesso di residenze milionarie e per questo condannato a 22 mesi per oltraggio alla Corte. Prima della sentenza ha trovato rifugio in Francia dove è stato arrestato pochi giorni dopo il rimpatrio della moglie. Dopo tre anni ha riacquistato la libertà e combatte ancora per non essere estradato in Kazakistan.

In primo grado a ottobre 2020 Cortese e Improta, Stampacchia e Armeni erano stati condannati a 5 anni, il doppio di quanto aveva chiesto l’accusa. Tramma a 4 anni e Stefano Leoni a tre anni e mezzo. Due anni e sei mesi per la giudice Lavore.

A Cortese e Improta era stato contestato anche di aver ingannato il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone e il pm Eugenio Albamonte traccheggiando sulla falsa identità di Alma Shalabayeva per poterla espellere. I due magistrati non sono stati ascoltati in primo grado, mentre la corte d’Appello li ha chiamati a deporre. Entrambi hanno rivendicato la legittimità della propria scelta, ribadendo la falsità del documento esibito da Alma Shalabayeva e hanno certificato che in nessun caso era stato chiesto formale asilo da parte di Alma Shalabayeva.

In sentenza di primo grado i giudici avevano liquidato l’esemplare carriera di Cortese, lanciato verso i vertici della polizia, con una formula sbrigativa, “significativi successi professionali”, caricando le motivazioni dell’accusa di “alto tradimento”. Il superpoliziotto, ritrovatosi descritto come un aguzzino, quando anche il procuratore generale aveva richiamato quel verdetto, ha rotto due anni di silenzio e ha invocato “rispetto” per la propria storia. I giudici della corte d’Appello glielo hanno restituito per intero.

Caso Shalabayeva, nessun colpevole: Improta e Cortese assolti in appello. Il Dubbio il 9 giugno 2022.  

Per la Corte d’Appello di Perugia, quello di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, nel 2013, non fu un sequestro di persona.

Per la Corte d’Appello di Perugia, quello di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua, nel 2013, non fu un sequestro di persona. E così, dopo quasi dieci ore di camera di consiglio, il collegio presieduto da Paolo Micheli ha assolto il capo dell’ufficio immigrazione della questura di Roma, Maurizio Improta, i funzionari Vincenzo Tramma e Stefano Leoni, il capo della Mobile, Renato Cortese, i funzionari dello stesso ufficio, Luca Armeni e Francesco Stampacchia, e il giudice di pace Stefania Lavore «perché il fatto non sussiste».

I sette erano finiti a processo per il “prelievo” e la consegna alle autorità kazake della moglie del dissidente kazako Mukthar Ablyazov (ricercato dalle autorità di Astana) e della figlia di sei anni. Una vicenda che per i giudici di primo grado rappresentò un vero e proprio «rapimento di Stato», organizzato dalle forze di polizia traendo «in inganno» la procura Roma, che diede il nulla osta all’espulsione. Da qui la condanna a cinque anni per Cortese, Improta, Armeni e Stampacchia, a quattro anni per Tramma e a tre anni e mezzo per Leoni.

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici si erano espressi con parole di fuoco: il trattenimento forzoso e la successiva espulsione verso la Repubblica del Kazakistan delle due «rappresentano un caso eclatante non solo di palese illegalità – arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di palese violazione dei diritti fondamentali della persona umana». La tesi aveva convinto anche la procura generale del capoluogo umbro, che il 14 aprile scorso aveva chiesto la condanna di tutti gli imputati a quattro anni per sequestro di persona. E pochi giorni prima, in aula, erano stati ascoltati i tre grandi assenti del processo di primo grado, ovvero l’ex procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, il sostituto Eugenio Albamonte e l’ex aggiunto Nello Rossi.

Fu Albamonte, insieme a Pignatone, a firmare l’autorizzazione all’espatrio della donna, secondo l’accusa sotto la costante pressione di Improta. Un nulla osta prima concesso a voce a Cortese, poi revocato telefonicamente per rapidissimi accertamenti e infine autorizzato in forma scritta, procedura anomala, come ammesso dallo stesso Albamonte in aula. Shalabayeva e la figlia furono così fatte salire in fretta e furia a bordo di un aereo messo a disposizione delle autorità kazake. «È una pagina di grande giustizia – ha commentato all’Adnkronos Ester Molinaro, difensore insieme al professor Franco Coppi di Cortese -. Dimostra al contempo che, come abbiamo sempre sostenuto, il processo a carico del dottor Cortese non sarebbe mai dovuto iniziare. L’assoluzione perché il fatto non sussiste sradica completamente l’impianto accusatorio».

Caso Shalabayeva, l’appello di Renato Cortese, il super poliziotto antimafia: «Chiedo un minimo di rispetto». Dopo la discussa condanna in primo grado per l’espulsione della miliardaria kazaka, il funzionario chiede giustizia alla Corte di Perugia. In sua difesa ha testimoniato l’ex procuratore Pignatone. E le sentenze inglesi trovate da L’Espresso smentiscono l’accusa. Paolo Biondani su L'Espresso l'11 maggio 2022.

«La sentenza di primo grado afferma che io avrei tradito il giuramento di fedeltà alla Costituzione italiana. Tutte le sentenze meritano rispetto, e io rispetto anche questa che, seppur ingiustamente, mi ha condannato. Però credo che tutta la mia vita e la mia carriera, forse, avrebbero meritato a loro volta un minimo di rispetto».

Renato Cortese è il super poliziotto entrato nella storia della lotta alla mafia per aver arrestato il capo di Cosa Nostra, Bernardo Provenzano, dopo 40 anni di latitanza, e per aver guidato molte delle più importanti indagini degli ultimi decenni contro i boss siciliani delle stragi, la ‘ndrangheta calabrese, i clan della camorra e le più potenti organizzazioni criminali romane. Ieri, quando ha parlato per la prima volta davanti ai giudici della corte d’appello di Perugia, si è limitato a chiedere questo, «un minimo di rispetto», al collegio che ora è chiamato a decidere se confermare o meno la condanna a cinque anni di reclusione, con l’accusa infamante di sequestro di persona aggravato, che gli aveva inflitto il tribunale umbro, decretando in aggiunta la sua «interdizione perpetua dai pubblici uffici».

Il caso è molto controverso e riguarda l’espulsione di Alma Shalabayeva, una ricchissima signora kazaka che nel 2013 fu rimandata in patria dalla polizia italiana, che era intervenuta su richiesta dell’Interpol per arrestare suo marito, l’ex banchiere Mukhtar Ablyazov, ricercato dopo diverse condanne per essersi impadronito di denaro pubblico per cifre colossali, che è sfuggito alla cattura ed è tuttora libero. Il tribunale di Perugia ha giudicato illegittima l’espulsione della moglie e l’ha parificata a un sequestro di persona, paragonandolo alle operazioni segrete di «extraordinary rendition» eseguite clandestinamente dalla Cia dopo l’11 settembre.

Oltre a Cortese, i giudici di primo grado hanno condannato Maurizio Improta, allora capo dell’ufficio immigrazione, altri due poliziotti e il giudice di pace che convalidò l’espulsione. Nelle motivazioni il tribunale afferma che la signora kazaka aveva diritto di restare in Italia in quanto protetta dall’asilo politico concesso nel 2011 dalle autorità inglesi a suo marito, riconosciuto a Londra come «dissidente kazako» e «perseguitato politico». Gli imputati, sempre secondo la sentenza di primo grado, che aveva raddoppiato le pene chieste dal pubblico ministero, avrebbero tenuto nascosta l’identità della signora e quindi «ingannato i magistrati della Procura di Roma» che diedero il regolare nulla osta all’espulsione.

Nel 2019 un’inchiesta giornalistica de L’Espresso ha messo in dubbio la fondatezza del pilastro portante della sentenza di primo grado, rivelando che nel 2012 l’ex banchiere Ablyazov è stato in realtà condannato dai giudici di Londra per aver mentito davanti alle corti inglesi e falsificato documenti per evitare la confisca di centinaia di milioni da lui sottratti alla banca statale kazaka Bka. I tribunali britannici, con una serie di verdetti confermati in tutti i gradi di giudizio, hanno anche ordinato l’arresto di Ablyazov, che è scappato dal Regno Unito proprio per non finire in prigione. Con la condanna e il mandato di cattura, il precedente atto di asilo politico è diventato inefficace, già da un anno prima dell’espulsione dall’Italia della moglie, ed è scattato il procedimento amministrativo che nel 2014 ha portato alla definitiva revoca del permesso di soggiorno a Londra.

Tutte queste sentenze inglesi sono rimaste sconosciute e totalmente ignorate dai giudici del tribunale di Perugia, che invece nelle motivazioni delle condanne di Cortese e degli altri imputati scrivono e ripetono più volte che Ablyazov nel 2013 sarebbe stato considerato dalle autorità inglesi come un perseguitato politico da proteggere. Invece già dal 2012 era diventato anche a Londra un latitante da arrestare.

Nelle sentenze inglesi si legge che Ablyazov ha rubato alla Bka più di cinque miliardi di dollari, occultati in centinaia di società offshore, provocando il fallimento della banca statale. L’Espresso ha scoperto che anche due familiari di Alma Shalabayeva sono stati condannati a Londra per aver mentito ai giudici e fatto da prestanome di Ablyazov per evitare la confisca delle sue proprietà inglesi.

Nel processo d’appello in corso a Perugia hanno testimoniato per la prima volta, per decisione della Corte, anche i magistrati della Procura di Roma che il tribunale umbro aveva ritenuto ingannati dalla polizia, rifiutandosi però di chiamarli a deporre. L’allora procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, in particolare, ha dichiarato sotto giuramento che Cortese non lo ha mai ingannato e ha confermato che la signora Shalabayeva usava in Italia un nome falso, che il passaporto centrafricano da lei esibito era «grossolanamente falsificato», che non disse mai ai magistrati di essere la moglie del banchiere kazako. Pignatone ha concluso: «Non ho ancora capito perché la signora e i suoi legali non hanno mai presentato una domanda scritta per avere asilo politico in Italia».

Il processo prosegue il 25 maggio per le ultime repliche di accusa e difesa. Poi, la sentenza.

Caso Shalabayeva, Cortese: «La mia carriera merita rispetto». Dichiarazioni spontanee dell’ex capo della Mobile condannato in primo grado per il sequestro della moglie e della figlia del dissidente kazako Ablyazov. Rocco Vazzana su Il Dubbio l'11 maggio 2022.

«Tutta la mia vita e tutta la mia carriera forse avrebbe meritato un minimo di rispetto». Renato Cortese, ex capo della Squadra mobile romana condannato in primo grado a cinque anni per il sequestro di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua avvenuto nel 2013, si rivolge così alla Corte d’Appello di Perugia dove si celebra il secondo grado del processo che lo vede imputato.

Il dirigente di Polizia ed ex uomo di fiducia di Giuseppe Pignatone, accusato insieme ad altre sei persone, rilascia dichiarazioni spontanee in aula nelle battute conclusive del procedimento. Il 14 aprile scorso, infatti, la Procura generale ha chiesto per lui per altri imputati (tra cui l’ex capo dell’Ufficio immigrazione della questura capitolina Maurizio Improta) una condanna a quattro anni per sequestro di persona. E prima che il nuovo verdetto, atteso per la fine del mese, venga emesso Cortese prende la parola e chiede maggiore attenzione ai giudici. «L’unico stato d’animo che intendo portare all’attenzione della Corte è quello suscitato in me dall’affermazione della sentenza con la quale avrei tradito un giuramento fatto sulla Costituzione», dice l’ex capo della Mobile. «Tutte le sentenze meritano rispetto e io rispetto anche la sentenza che, seppur ingiustamente, mi ha condannato. Però credo che tutta la mia vita e tutta la mia carriera forse avrebbe meritato un minimo di rispetto», aggiunge l’alto dirigente di Polizia, che prima di imbattersi nella vicenda Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov consegnata insieme alla figlia di sei anni alle autorità di Astana, era noto alle cronache per ben altri motivi.

A lungo impegnato nella lotta alla mafia e alla ’ndragheta, Cortese può vantare sul curriculum la cattura di pezzi da novanta di Cosa nostra del calibro di Bernardo Provenzano e Giovanni Brusca. Due gemme, per un investigatore, adesso oscurate da accuse molto pesanti legate a un’altra “cattura”: quella di una donna e una bambina innocenti. Perché per i giudici di primo grado si trattò di un vero e proprio «rapimento di Stato», organizzato dalle forze di polizia traendo «in inganno» la Procura di Roma, che diede in tempi rapidissimi il nullaosta alla «deportazione» della moglie del dissidente e della figlia. «Un caso eclatante non solo di palese illegalità – arbitrarietà delle procedure seguite dalle istituzioni italiane, ma, soprattutto, una ipotesi di patente violazione dei diritti fondamentali della persona umana», si legge nelle motivazioni della sentenza. Una tesi infondata, secondo la difesa di Renato Cortese, rappresentato in Corte d’Appello da Ester Molinaro e Franco Coppi.

La storia dell’ex capo della Mobile parla da sola, è la strategia difensiva, impossibile infangarla con accuse così infamanti. «Per me è una pagina di profonda ingiustizia. E quella sentenza che è stata pronunciata nel nome del popolo italiano non è stata emessa nel mio nome né in quello di tanti uomini», dice l’avvocata Molinaro. «Renato Cortese è il poliziotto che ha catturato i boss mafiosi come Brusca e Provenzano, che quando ha lasciato la questura di Palermo è stato applaudito per il suo lavoro», aggiunge la legale, puntando tutto il suo intervento sul brillante passato del suo assistito. Una sorta di eroe contemporaneo: «Tra qualche giorno ricorre l’anniversario della strage di Capaci, se ne parlerà nelle scuole, in eventi pubblici. Dietro a uomini come Falcone ci sono uomini come Renato Cortese», sottolinea la penalista. «Quello che lascia perplessi è che la Procura generale per un uomo come Cortese non abbia chiesto nemmeno le attenuanti generiche», argomenta Molinaro. E tra le attenuanti generiche, secondo la difesa, dovrebbero essere valorizzate alcune circostanze: Shalabayeva, pur essendo moglie di un dissidente, non godeva di alcuno status di rifugiato politico, non avrebbe chiesto l’asilo nelle ventiquattro ore in cui si consumeranno le procedure burocratiche per l’espulsione e sarebbe stata in possesso di un passaporto diplomatico di dubbia provenienza, ritenuto falso dalla Procura ma sempre rivendicato come autentico dai legali della donna. Anche se rimane comunque il problema dell’espulsione di una bambina di sei anni, accompagnata dalla Polizia italiana su un aereo messo a disposizione dalle autorità kazake.

Diversa l’arringa del professor Coppi, che per difendere Cortese non vuole nascondersi «dietro» alla sua «carriera». «Nella sentenza si parla di un crimine contro l’umanità fatto da funzionari di Polizia. Accusare Cortese di asservimento, di tradimento può essere giustificato solo se si abbia raggiunto la prova sicura, certa di una complicità piena tra Cortese e le autorità del Kazakistan», mette in chiaro il professore. «Soltanto così si potrebbe affermare che a un certo punto ha rinnegato se stesso compiendo il reato per cui è stato condannato. Per le congetture non c’è posto nel processo penale. Pensare che Cortese improvvisamente diventi il braccio armato e da solo abbia deciso di asservirsi al Kazakistan pare assurdo», sottolinea Coppi in un passaggio decisivo del suo intervento. Perché è difficile immaginare – anche in caso di condanna confermata in Appello – che l’ex capo della Mobile possa comunque aver agito in totale autonomia. Un dubbio, quest’ultimo, dal quale non sfuggono nemmeno i giudici di primo grado, quando nelle motivazioni della sentenza scrivono: «Se il Tribunale non è in grado di rispondere a una delle domande chiave che questa storia continua a suscitare (a quale livello politico o istituzionale venne presa la decisione della deportazione?) ritiene tuttavia di poter affermare che durante tre interi giorni del maggio 2013 si realizzò, di fatto, una limitazione o compressione della nostra sovranità nazionale».

Tutte fandonie, per Coppi, convinto che quella sentenza faccia «acqua da tutte le parti». Dunque «L’innocenza del dottor Cortese a me appare chiara». Ma dovrà essere la Corte a stabilire se si trattò davvero di un sequestro di Stato o di un enorme fraintendimento.

Caso Shalabayeva, processo di appello a Perugia: ok ad ascoltare testimonianze dei giudici romani. di Antioco Fois su La Repubblica il 17 Gennaio 2022.   

Il collegio ha riaperto la fase dibattimentale per sentire l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e i pm Eugenio Albamonte e Nello Rossi, che sarebbero stati "tratti in inganno" dalla polizia per consentire l'espulsione della moglie di Ablyazov. Il caso Shalabayeva riparte dalle testimonianze dei magistrati romani. È tornata in aula davanti ai giudici della corte d'appello di Perugia la vicenda del trattenimento e dell'espulsione, nella primavera di nove anni fa, della moglie del controverso dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, e di sua figlia di sei anni. Nella prima udienza, il collegio presieduto da Paolo Micheli, ha deciso di riaprire la fase dibattimentale per sentire come testimoni l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e i pm Eugenio Albamonte e Nello Rossi, che secondo la sentenza di primo grado, che aveva condannato sei poliziotti e un giudice di pace, sarebbero stati "tratti in inganno" dalla polizia per consentire l'espulsione della moglie di Ablyazov.

Alma Shalabayeva: «Scioccata dalle dichiarazioni del Viminale». Alma Shalabayeva torna a parlare 24 ore prima dell'inizio del processo d'appello a Perugia. «Deportazione violenta contro me e mia figlia. Sconcertanti le parole del sottosegretario Molteni». Il Dubbio il 17 gennaio 2022.

«Al momento del mio rapimento nel maggio 2013, mio marito era un rifugiato politico in Inghilterra. Questo è un fatto indiscutibile». Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Muktar Ablyazov, torna a parlare di quello che per la giustizia italiana è stato il suo rapimento. Lo fa alla vigilia del processo d’appello che comincerà oggi davanti alla Corte d’appello di Perugia nel quale sarà rappresentata dagli avvocati Rosa Conti e Diana Iraci. «Vorrei ricordare a coloro che cercano di distogliere l’attenzione dei giudici attraverso i media che non è mio marito ad essere al centro di questo processo, ma io e mia figlia che abbiamo vissuto per quasi quattro giorni l’incubo di un arresto e la violenza della deportazione in un Paese la cui brutalità dittatoriale è stata appena ricordata al mondo intero» afferma in un’intervista all’ANSA.

«Alcuni media sostengono che lui (il marito – ndr) – dice Shalabayeva – abbia perso o iniziato a perdere il suo status di rifugiato politico nel 2012 a causa di una condanna alla detenzione da parte dei tribunali britannici. Questo semplicemente non è vero». Shalabayeva non sarà domani in aula. «Poiché si tratta di un’udienza tecnica, sarò rappresentato dai miei avvocati» spiega. «Sono stata soddisfatta – aggiunge – della decisione di primo grado. Alcuni dei protagonisti del mio rapimento sono stati severamente condannati. Da questo punto di vista, è stata fatta giustizia. Lo stato di diritto ha prevalso. Per me, che vengo da un Paese dove tutto è arbitrario, questo mi ha dato una sensazione molto speciale e rassicurante. La decisione di primo grado ha dato a mia figlia Alua, a me e a tutta la mia famiglia il conforto di una sentenza giusta, che è tutt’altro che comune per noi».

Shalabayeva ritiene comunque che «alcuni dei protagonisti» della vicenda siano «sfuggiti alla giustizia». «In primo luogo, Andrian Yelemessov – afferma -, l’allora ambasciatore kazako in Italia, così come i suoi due collaboratori Nurlan Khassen e Yerzhan Yessirkepov, che avrebbero dovuto essere condannati e che sono sfuggiti solo grazie alla loro immunità diplomatica (in base alla quale sono stati prosciolti in udienza preliminare dal gup – ndr). Ciò rappresenta per noi motivo di frustrazione. D’altra parte, i poliziotti italiani, come tutti, eseguono degli ordini. La sentenza di condanna non comprende coloro che – sostiene ancora la donna – al più alto livello dello Stato, hanno dato l’ordine di collaborare con la dittatura kazaka».

«La decisione di primo grado è solida ed equilibrata» ribadisce Shalabayeva. «Dalle accuse non sufficientemente provate – prosegue – gli imputati sono già stati assolti in primo grado. Spero i giudici non si lascino influenzare e confermino le condanne del tribunale. Infatti, dato che abbiamo dovuto aspettare quasi otto anni per la condanna in primo grado, alcuni reati sono già caduti in prescrizione. Tuttavia, se la prescrizione dovesse intaccare il punto centrale del procedimento, cioè l’arresto e la successiva deportazione, in meno di quattro giorni, a bordo di un jet privato noleggiato dall’ambasciata kazaka, della moglie e della figlia del principale oppositore della dittatura kazaka, allora sarei senz’altro costretta a rivedere quanto sto dicendo sulla giustizia italiana».

Shalabayeva afferma quindi di essere rimasta «scioccata dalle dichiarazioni rilasciate sabato dal sottosegretario del Ministero dell’Interno Nicola Molteni». «Non può sostenersi – sostiene – che la procedura che ha portato alla mia espulsione è stata condotta in modo corretto, quando già con la decisione dell’11 luglio 2014 la Cassazione ha stabilito che la stessa era “manifestamente illegittima ab origine”. Tale decisione è irrevocabile e appare preoccupante che venga messa in discussione».

L'espulsione della donna kazaka. Caso Shalabayeva, il Pm chiede 4 anni per Cortese e Improta. Paolo Comi su Il Riformista il 15 Aprile 2022.  

«I funzionari hanno voluto compiacere ciò che veniva chiesto dall’ambasciata kazaka e il Viminale ha seguito la vicenda fino all’espulsione della moglie del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov. Perché lo abbiano fatto, non lo sappiamo, Alma Shalabayeva non era ricercata e non aveva commesso nulla, era però interesse fare in modo che questa donna servisse per la cattura del marito». Con queste parole il procuratore generale di Perugia Sergio Sottani e il sostituto Claudio Cicchella hanno concluso ieri la loro requisitoria, chiedendo per i dirigenti della polizia di Stato Renato Cortese e Maurizio Improta la condanna a 4 anni di reclusione con 5 anni di interdizione dai pubblici uffici per l’accusa di sequestro di persona.

In primo grado Improta e Cortese erano stati condannati a cinque anni. Stessa condanna per alcuni funzionari della squadra mobile e dell’Ufficio immigrazione della Questura di Roma che nel maggio del 2013 operarono l’espulsione verso il Kazakistan di Alma Shalabayeva e della figlia di sei anni Alua. Nel processo era stata assolta dall’accusa di sequestro di persona il giudice di pace Stefania Lavore che si occupò del procedimento, condannata per falso a due anni e sei mesi. L’espulsione verso il Kazakistan nella sentenza di primo grado venne descritta come un “crimine di lesa umanità realizzato mediante deportazione”, oltre che “un caso eclatante” di “straordinario accanimento persecutorio” e “violazione dei diritti fondamentali della persona umana”. Alla fine di maggio del 2013, Alma Shalabayeva venne prelevata dalla propria abitazione romana nel quartiere residenziale di Casal Palocco, portata in questura, poi al Cie e infine rimpatriata in Kazakistan con un volo a noleggio.

I magistrati di Perugia hanno sempre definito “anomalo” ed “eccezionale” l’iter che ha portato al nulla osta per l’espulsione della donna. Tutto regolare, invece, per l’ex procuratore romano Giuseppe Pignatone, chiamato dalle difese dei due funzionari, secondo il quale «il passaporto era falso e nessuno ci chiese l’asilo politico. L’espulsione era un nostro dovere». Il Viminale negli anni ha sempre ribadito la correttezza della procedura tenuta dai suoi dirigenti. La questura di Roma, in pratica, si sarebbe ritrovata tra le mani il documento falso di una donna e nessuno poteva sapere che fosse la moglie di un dissidente politico del Kazakistan. «Anche perché, cosa è venuto in tasca ai poliziotti?», hanno detto i difensori dei due dirigenti.

Tesi confutata da Sottani: «Si cercava Mukhtar Ablyazov. Perché l’Interpol di Astana non si è rivolta all’Interpol italiana ma è stato direttamente l’ambasciatore a richiedere l’intervento della questura romana? Si è proceduto all’espulsione di una donna che tutt’al più poteva essere estradata ma non c’erano neppure i presupposti».

Nessuno, poi, pare fosse stato però messo al corrente che l’aereo utilizzato per il rimpatrio era stato noleggiato. «Non sapevo se fosse un aereo di linea o noleggiato. Non lo sapevo io, non lo sapeva Eugenio Albamonte (pm di turno all’epoca, ndr)», ha detto sempre Pignatone. La sentenza è attesa dopo Pasqua. A presiedere il collegio, il giudice Paolo Micheli, a latere i colleghi Maria Rita Belardi e Franco Venarucci. Paolo Comi

L'ex procuratore testimone al processo d'appello. Pignatone si difende: “Espulsione di Shalabayeva nostro dovere”. Angela Stella su Il Riformista il 5 Aprile 2022. 

Ieri nuova udienza del processo d’Appello a Perugia per la vicenda relativa all’espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia avvenuta nel 2013. Tutto era iniziato la notte tra il 28 e 29 maggio 2013, quando lei e la figlia furono prelevate dalla polizia in un’abitazione di Casalpalocco. Le forze dell’ordine cercavano il marito, il dissidente kazako Muktar Ablyazov, ma alla donna venne contestata l’accusa di possesso di un passaporto falso. Presenti in aula, oltre a sei dei sette imputati – tra i quali l’ex capo della Squadra Mobile di Roma ed ex questore di Palermo Renato Cortese e l’ex capo dell’ufficio immigrazione Maurizio Improta – anche Alma Shalabayeva, moglie del kazako Muktar Ablyazov, parte civile nel procedimento.

La donna a margine dell’udienza ha dichiarato: «Vivo con sofferenza queste udienze che sono un momento in cui rivivo quello che mi è accaduto, i dettagli dolorosi e le violenze vissute. Dall’inizio sono state violate tutte le leggi e tutti i miei diritti. Se i poliziotti si fossero comportati come avrebbero dovuto il destino sarebbe stato diverso».

Chiamati a testimoniare, essendosi riaperta l’istruttoria dibattimentale come da richiesta delle difese, l’ex procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone, l’ex magistrato Nello Rossi e il pm Eugenio Albamonte. Il 14 ottobre del 2020 Cortese, Improta, e due funzionari della mobile romana – Luca Armeni e Francesco Stampacchia – erano stati condannati a una pena di 5 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, il giudice di pace Stefania Lavore a 2 anni e sei mesi e due funzionari dell’Ufficio immigrazione – Vincenzo Tramma e Stefano Leoni – rispettivamente a 4 anni e 3 anni e sei mesi di reclusione. Condanne che, ad eccezione del giudice di pace, avevano visto il riconoscimento oltre che per i falsi, anche del reato di sequestro di persona.

Pignatone, oggi presidente del Tribunale Vaticano, ha riferito: «Non ho mai ricevuto pressioni da parte di Renato Cortese per il rilascio del nulla osta» per l’espulsione e «Maurizio Improta non l’ho proprio sentito quel giorno». Pignatone ha ricordato in aula di avere avuto notizia della perquisizione nella villa di Casalpalocco in maniera informale, nel corso di una telefonata con Cortese: «Mi disse che il suo ufficio doveva farla su richiesta dell’Interpol per un latitante kazako ricercato per reati finanziari e con un possibile pericolo di terrorismo. Un atto che avrebbe impegnato molto la squadra mobile. Fu una telefonata informale perché ci stavamo sentendo spesso per la vicenda del clan Fasciani e il senso era di non fare conto sui suoi uomini in quei giorni perché sarebbero stati impegnati». In relazione alla vicenda del nulla osta per l’espulsione di Alma Shalabayeva, Pignatone ha ricostruito in aula che «mi telefonò Nello Rossi, il procuratore aggiunto di turno in quei giorni, dicendomi che c’era un problema su una persona che doveva essere espulsa perché non aveva i documenti in regola.

Poi Rossi mi disse che doveva partire per un problema riferendomi che sapeva tutto il pm Albamonte, che venne a riferirmi che la donna aveva un passaporto a nome Alma Ayan che la polizia riteneva falso mentre l’avvocato Olivo, che aveva parlato con lui e con Rossi sosteneva, invece, fosse autentico. Mi feci portare il passaporto, palesemente falso». Ha poi precisato: «Albamonte per le vie brevi aveva già dato l’ok al nulla osta ma lo sospendemmo dopo i documenti portati dall’avvocato per capire meglio come stavano le cose. Albamonte si allontanò dalla mia stanza e tornò con altri documenti, uno della Polaria, uno della Farnesina da cui emergeva che non aveva nessuno status diplomatico in Italia. Dopo l’esame della documentazione – ha proseguito Pignatone – ci siamo convinti più che mai che il documento era falso, e dopo nove anni mi chiedo ancora come sia possibile affermare il contrario con un passaporto che riporta un nome diverso, e che fosse nostro dovere concedere il nulla osta.

A quel punto Albamonte ha dettato alla mia segretaria il nulla osta e io l’ho vistato e per noi la storia finisce lì. Resto convinto della falsità del documento. E non ho mai capito perché quel giorno gli avvocati non abbiano chiesto l’asilo politico». Al quadro si è aggiunta la ricostruzione di Albamonte: «L’avvocato di Alma Shalabayeva Olivo non mi parlò di un problema di incolumità per la sua assistita». Ha poi parlato di Improta: «Mi chiamò per chiedere chiarimenti, mi disse che erano all’aeroporto, che c’era un volo che poteva essere utilizzato per il rientro immediato della signora in Kazakistan e che aveva urgenza di avere le determinazioni per capire il da farsi». Albamonte ha definito quella chiamata “inopportuna” anche se la percepì come “una esigenza organizzativa”. Angela Stella

"Perché sono state ignorate prove importanti?" Caso Shalabayeva, per il capo della polizia Giannini la sentenza è ingiusta. Claudia Fusani su Il Riformista il 28 Maggio 2021. 

Non era mai successo di sentire il Capo della polizia in carica esprimere “grave disappunto” per una sentenza della magistratura che ha condannato, in primo grado, due tra i migliori investigatori in servizio nella Polizia di Stato. E farlo rispondendo alla domanda di un deputato membro della Commissione Affari costituzionali. È successo martedì pomeriggio alla Camera durante l’audizione del prefetto Lamberto Giannini da tre mesi alla guida della Polizia e di tutto il Dipartimento della Pubblica sicurezza. Tutto verbalizzato e, come si dice, agli atti del Parlamento. È un passaggio importante segno di questi tempi in cui stanno cadendo molti tabù e si registrano molte “prime volte”.

Come la crisi della magistratura, da due anni al centro di inchieste e scandali a cominciare dal suo organismo di autogoverno, il Csm, il sistema delle correnti e delle nomine. Due anni che iniziano a maggio 2019 con l’inchiesta che coinvolge l’allora sostituto procuratore a Roma Luca Palamara, lo porteranno alla sua radiazione (contro cui ha fatto ricorso), alle dimissioni di sei membri togati del plenum di palazzo dei Marescialli e a scrivere un libro-intervista Il Sistema che ha svelato, appunto, il sistema delle nomine in magistratura comprensivo degli “accordi” via via intrapresi per ricoprire le varie posizioni apicali negli uffici di magistratura. Un terremoto. Che continua a dare scossoni. In quelle pagine Palamara racconta anche i difficili equilibri tra la procura della Capitale, all’epoca il capo era Pignatone, e quella di Perugia che per legge indaga sui colleghi della Capitale. Il fatto è che il tribunale di Perugia nell’ottobre scorso ha condannato per sequestro di persona e falso un giudice dei minori e sei poliziotti tra cui i due questori Maurizio Improta e Renato Cortese, tra i migliori investigatori in forza nella Polizia di Stato. L’accusa è di aver favorito nel maggio 2013 l’espulsione illegale (extraordinary rendition, così la chiamano i giudici di Perugia) in Kazakistan della signora Alma Shalabayeva e della figlia Ayma (6 anni).

Nel maggio 2013 Improta era a capo dell’Ufficio stranieri della questura di Roma e Cortese a capo della Squadra mobile. Il 19 maggio era arrivata la segnalazione della presenza a Roma di un noto magnate kazako, ex ministro delle Finanze, ricercato per una lunga lista di reati fiscali e appropriazione indebita di 6 miliardi di dollari. Nella villetta di Casal Palocco Cortese e Improta non trovarono Ablyazov bensì due sorelle una delle quali mamma di una bimba di sei anni. La storia sembrò semplice, sul momento: la signora Ayan Alma aveva un passaporto falso della Repubblica centroafricana e in base alla legge Bossi Fini doveva essere espulsa. Così infatti è successo, con il via libera del Tribunale dei minori, il nullaosta della procura guidata da Pignatone e del sostituto procuratore. Ma il caso divenne dopo pochi giorni “un grave errore” dello Stato italiano e di alcuni suoi servitori perché mamma e bambina, moglie e figlia del ricercato Ablyazov, dovevano in realtà essere protette perché il magnate kazako aveva fatto richiesta a Londra della protezione umanitaria. Morale della storia: l’inchiesta finì a Perugia (perché era coinvolto il giudice dei minori) e gli unici a pagare sono stati i poliziotti. Condannati a quattro anni e subito sollevati dai rispettivi incarichi, a disposizione dell’amministrazione. Parcheggiati. Nel frattempo Ablyazov ha ricevuto condanne in svariati paesi, in Gran Bretagna e in Francia, ma ha ottenuto anche (nel 2020) la protezione politica in Francia. La signora Shalabayeva ha comprato casa in Italia dove spesso vive alternando viaggi in Francia e Svizzera.

Vicenda scomoda, difficile, lunga, con varie implicazioni politiche e qualche regolamento di conti tra toghe. Soprattutto piena di sviste, errori e omissioni. Che adesso hanno rotto il muro dell’omertà. E dell’imbarazzo. Il primo ad uscire allo scoperto fu l’allora capo della Polizia Franco Gabrielli che in una trasmissione tv espresse dubbi sulla sentenza e valorizzò quei funzionari. Cortese, per dirne una, è uno dei signori che ha scritto la storia dell’antimafia a Palermo (ha arrestato Provenzano) e a Reggio Calabria e negli ultimi anni ha garantito le indagini per l’omicidio Regeni. Improta ha speso anni nell’antiterrrorismo. Martedì ha parlato il nuovo Capo della polizia circa «il grandissimo disappunto» per quella decisione «dovuto alla conoscenza dei fatti, alla grandissima stima che ho dei colleghi e alla certezza che la loro posizione verrà al più presto chiarita».

Giannini ha risposto alla domanda dell’onorevole Fabio Berardini, avvocato, ex M5s, da ieri uno dei deputati che hanno costituito il nuovo gruppo parlamentare di centro che si chiama “Coraggio Italia”. Berardini ha infatti chiesto lumi al prefetto sulle due interrogazioni parlamentari che giacciono da mesi in attesa di risposta, la prima dei deputati 5 Stelle D’Uva, Licatini, Barbuto e Davide Ajello; la seconda del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Entrambe elencano domande specifiche e chiedono verifiche sulle indagini. A Giannini non è parso il vero, conoscendo il contenuto di quelle interrogazioni rivolte al ministro dell’Interno, degli Esteri e della Giustizia, di rispondere alla domanda: «Le risposte alle interrogazioni conterranno una dettagliata ricostruzione dei fatti». Una diversa verità. Ovverosia che tra il 29 e il 31 maggio 2013 Muhtar Ablyazov era un latitante, che l’Interpol ne richiedeva l’arresto (con tanto di red notice) e che la signora, poiché in possesso di un documento di identità palesemente falso andava espulsa sulla base della legge Bossi-Fini. Dunque i funzionari «hanno operato con linearità e legittimità».

Le risposte alle due interrogazioni parlamentari dovrebbero riportare alla luce (questo giornale lo ha fatto in parte tre mesi fa) e mettere in fila una serie di atti che i giudici di Perugia hanno ignorato. Ad esempio la lettera di Noble, capo dell’Interpol, che rivela come Ablyazov fosse a quei tempi un ricercato e non un rifugiato politico; la perizia di quattro pagine che dimostra la falsità del passaporto di Alma Ayan. «Auspico che in tempi brevi – ha detto l’onorevole Berardini – si possa ribaltare la situazione e reintegrare i questori che sono stati messi in disponibilità». Ancora non c’è una data per l’Appello.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Il caso riletto dopo il Palamaragate. Sequestro Shalabayeva, perché hanno condannato i poliziotti e salvato Pignatone e il Pm Albamonte? Claudia Fusani su Il Riformista il 27 Febbraio 2021. 

Questa è una storia che ha più domande che risposte. Che ne intreccia altre, tra cui il libro dell’ex magistrato Luca Palamara “Il Sistema”, e lascia sensazioni scomode, che inquietano. Ad esempio, che le indagini talvolta dimenticano pezzi importanti per strada. Per errore, per volontà o per sciatteria, al netto dell’umana fallibilità? È una storia che potrebbe cambiare copione grazie a due variabili non previste. La prima è il virus che ha fatto slittare la sentenza di un processo di primo grado da aprile a ottobre 2020 e le motivazioni a gennaio 2021 (ne parliamo poco più avanti).

La seconda è appunto il libro di Palamara, uscito a ridosso di quelle motivazioni. A pagina 87 si legge: “A gennaio del 2015 mi attivo fortemente (è Palamara a parlare, ndr) per la nomina di Luigi De Ficchy a procuratore di Perugia. Ma non è tutto lineare. Pignatone (procuratore a Roma, ndr) infatti non la prende per niente bene, perché teme fortemente che la competenza di Perugia sui magistrati romani possa creare dei problemi alla luce del contenzioso tra De Ficchy e Prestipino (l’aggiunto che Pignatone ha scelto come suo braccio destro a Roma, protagonista al suo fianco delle più importanti indagini contro la mafia condotte in Calabria e in Sicilia, ndr). Anche in questo caso mi attivo per trovare un punto di equilibrio. Nei mesi successivi organizzo un incontro a tre: io, Pignatone e De Ficchy. Ci vediamo al bar Vanni, a Roma, zona Prati, una conversazione riservata che si svolge in una sala privata al piano superiore (…). La pace siglata tra i due durerà però molto poco: di lì a breve (nel 2016, ndr) la Procura di Perugia aprirà un’indagine nei confronti di uno dei più stretti collaboratori del procuratore Pignatone. Si tratta di Renato Cortese, autore della cattura di Provenzano e capo della squadra Mobile di Roma, che insieme a Maurizio Improta, responsabile dell’Ufficio Immigrazione della stessa Questura, nell’ottobre 2020 verrà condannato per la vicenda Shalabayeva, la frettolosa espulsione dall’Italia della moglie di un dissidente kazako. Indagine condotta da Antonella Duchini, in quel momento la più stretta collaboratrice di De Ficchy”.

Occorre adesso fissare nella mente queste due variabili impreviste e tornare alla cronologia dei fatti. C’è un tribunale, quello di Perugia, che è convinto di aver raggiunto la verità circa la “frettolosa espulsione dall’Italia della moglie del dissidente kazako”: l’ottobre scorso ha condannato due investigatori di razza nell’antimafia e nell’antiterrorismo, i questori Cortese e Improta appunto, altri quattro funzionari di polizia e un giudice di pace per sequestro di persona e falso documentale. Accuse gravi che macchiano per sempre l’onore di chi invece ha scelto di servire lo Stato, da poliziotto o da giudice. I fatti risalgono al maggio 2013 (dopo otto anni siamo alla sentenza di primo grado…) e riguardano un caso all’epoca clamoroso, l’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia Aula, 6 anni, moglie e figlia del politico dissidente e imprenditore kazako Muktar Ablyazov, ricercato all’epoca da tre paesi (Russia, Kazakstan, Ucraina) per vari reati fiscali e aver sottratto decine di milioni dalla Banca centrale di Astana di cui era stato presidente. Nelle motivazioni depositate il mese scorso si parla di “rapimento di Stato” e si afferma che “per tre giorni è stata compressa la sovranità nazionale”.

Fermiamoci brevemente su quei fatti. Nella notte tra il 28 e il 29 maggio 2013, in una villetta di Casal Palocco, zona residenziale a sud di Roma, irrompono 50 agenti della Digos e della squadra mobile allertati da un’informativa dell’ambasciata del Kazakistan sulla possibile presenza di Ablyazov sul quale pende il mandato di arresto internazionale. Nella villetta non c’è l’ex oligarca ma solo Alma e Aula, ospiti di Venera, sorella di Alma, e del marito. Gli agenti trasferiscono la donna nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria contestando l’autenticità del documento esibito, un passaporto emesso dalla Repubblica centroafricana intestato ad Alma Ayan. La sera del 31 maggio, alle 22.30, la donna e la figlia vengono imbarcate su un volo con destinazione Astana. Il provvedimento di espulsione è possibile grazie al nulla osta della Procura di Roma. In calce ci sono le firme del procuratore Pignatone e del pm di turno, Albamonte.

Le indagini sulla vicenda restano alla Procura di Roma fino al 2016, poi vengono trasferite a Perugia perché tra gli indagati c’è un giudice di pace della Capitale che ha “attratto” la competenza in Umbria. Sempre a Perugia vive Madina Shalabayeva, sorella maggiore di Alma nonchè moglie di un altro oligarca riparato in Svizzera, Ilias Krupanov, che nel 2014 aveva già presentato una denuncia per sequestro di persona. Il pm che riceve la denuncia di Madina Shalabayeva, e che poi nel 2016 attrae da Roma l’indagine sui poliziotti, si chiama Antonella Duchini, successivamente indagata a Firenze e trasferita dal Csm. I dettagli sono sostanza in questa storia complicata. Eccone altri, utili a fissare il contesto. La Procura di Perugia all’epoca è guidata da Luigi De Ficchy, “rivale” di Pignatone che non lo sceglie come aggiunto nella Capitale. De Ficchy è anche il procuratore che nel 2017 (quindi dopo l’incontro al bar Vanni) indaga il magistrato Luca Palamara per corruzione (il gup proprio nei giorni scorsi ha chiesto all’accusa di specificare meglio le accuse nell’udienza preliminare) e che autorizza l’uso del trojan per intercettarlo. Le chat e le conversazioni captate dal trojan (fiore all’occhiello del ministro Bonafede) saranno poi all’origine dello tsunami che ha travolto il Csm, Palamara e tutta la magistratura, mettendo allo scoperto gli scontri tra le correnti della magistratura e gli accordi spartitori per le nomine apicali di procure e tribunali.

De Ficchy ha lasciato la Procura di Perugia due giorni prima che, a fine maggio 2019, i giornali comincino a pubblicare le intercettazioni del trojan di Palamara. Infine, qualche riferimento politico, anche questo utile. A maggio 2013, il governo Letta ha da poco nominato a capo della polizia il prefetto Alessandro Pansa, dopo un periodo di vacatio dovuto alla prematura scomparsa del prefetto Manganelli. Il governo Letta ha in maggioranza il nuovo partito di Angelino Alfano, ministro dell’Interno, creato dopo la traumatica scissione da Forza Italia. Torniamo all’indagine sulla “frettolosa espulsione” di Alma Shalabayeva e della figlia. Il passaporto trovato nella villetta di Casal Palocco risulta, come si è detto, falso. Motivo per cui viene avviata la procedura di espulsione. I notam dell’Interpol parlano di un ricercato per reati finanziari (il marito Ablyazov) che non gode e neppure ha mai richiesto lo status di rifugiato politico. Motivo per cui neppure la moglie può essere compresa sotto questa protezione. Il 31 maggio 2013, quindi, il procuratore Pignatone e il pm Albamonte, dopo vari scambi di carteggi con il capo della Mobile Cortese e il responsabile dell’Ufficio Immigrazione Improta, completano il fascicolo per l’espulsione con tanto di firma del giudice per i minori. Sempre il 31 maggio, nel primo pomeriggio, quando Alma e la figlia sono ancora a Ponte Galeria, si presentano in Procura a Roma i loro legali Riccardo e Federico Olivo, che comunicano che la donna ha la protezione diplomatica come risulta dal passaporto della Repubblica centroafricana. Passaporto che però è palesemente falso.

Alle 17.30 Pignatone e Albamonte firmano il nulla osta e alle 22.30 mamma e figlia sono in volo per Astana. Dopo due giorni scoppia il caso: Shalabayeva diventa la cittadina più monitorata a livello internazionale. Emma Bonino, ministro degli Esteri, accende i riflettori e si mette al lavoro per proteggere madre e figlia che infatti torneranno in Italia pochi mesi dopo con un visto turistico, ottenendo poi l’asilo politico. Placate le acque mediatiche, la Procura di Roma, tra qualche imbarazzo visto che aveva autorizzato la partenza della donna, prosegue le indagini e nel maggio 2014 il pm Albamonte indaga per abuso e omissione il capo dell’Ufficio Immigrazione Maurizio Improta, insieme a suoi quattro collaboratori. Poiché tra gli indagati c’è il giudice di pace romano che seguì la pratica di esplulsione, il fascicolo emigra direttamente a Perugia per competenza. Dove lo aspettano, e a quanto pare già da un pezzo, De Ficchy e l’aggiunta Duchini.

Tra i primi atti istruttori c’è il verbale del pm Albamonte. Che mette nero su bianco che la Procura autorizzò la partenza di Shalabayeva e della figlia perché i documenti centrafricani della donna erano falsi e da nessuna parte risultava che godesse dello status di rifugiato politico. La domanda è: se così stanno le cose, perché Perugia cinque anni dopo arriva a condannare con accuse pesanti i due poliziotti e non coinvolge l’ufficio della Procura romana che firmò il nulla osta? Perché, soprattutto, il Tribunale non ha mai ammesso le testimonianze del sostituto Albamonte? Se errore ci fu, fu commesso da tutti, e non solo da una parte. Diversamente, non ci fu errore. E allora le condanne di oggi sono da rivalutare.

A questo punto merita leggere alcuni passaggi del verbale che Albamonte rese all’aggiunto di Perugia Antonella Duchini. È il 2 marzo 2016, il fascicolo sull’espulsione di Alma Shalabayeva e della figlia (maggio 2013) è da poco stato trasferito a Perugia. Il dottor Albamonte ripercorre le ore del 31 maggio 2013. A metà mattina – racconta – “arrivò la telefonata del dottor Cortese (Mobile e Ufficio Immigrazione della questura di Roma erano responsabili della pratiche per l’espulsione per cui era necessario il nulla osta della Procura, ndr) che chiese se c’erano motivi ostativi a negare il nulla osta. Domanda alla quale risposi non ravvisando tali motivi”. Si tratta a tutti gli effetti di un nulla osta verbale. È una giornata intensa, quella, segno che il caso della signora Alma Ayan (questo il nome noto in Procura) assume subito un certo peso.

Dopo la telefonata infatti si presenta in ufficio l’avvocato Federico Olivo, vecchia conoscenza del dottor Albamonte: “Mi disse che c’era un problema perché era stato sequestrato un passaporto che risultava contraffatto mentre invece era originale ed era anche un passaporto diplomatico”. A favore di queste tesi, l’avvocato mostra documenti consolari della Repubblica centroafricana che attestano l’autenticità del documento. Nella stessa conversazione l’avvocato “riferì anche che non tanto la signora quanto il marito era un oppositore politico del regime kazako, circostanza che risultava anche da fonti aperte”. Non un segreto di Stato, quindi. A quel punto Albamonte va dal procuratore aggiunto titolare del fascicolo (il dottor Rossi che poi però esce di scena per impegni personali) dove trova il padre di Federico Olivo, Riccardo. Insomma, il nulla osta verbale viene momentaneamente sospeso in attesa di verifiche sull’autenticità del passaporto diplomatico sequestrato dalla squadra mobile. La verifica però non fa cambiare idea: “Ci convincemmo – racconta Albamonte – che gli atti prodotti dalla difesa non erano sufficienti a escludere la falsità del passaporto diplomatico a nome Alman Ayan”. Dopo qualche minuto telefona il dottor Improta che sostiene di avere altro materiale utile al caso. “Il dottor Improta mi disse anche che l’Ufficio Immigrazione aveva bisogno di tempi celeri perché avevano la disponibilità da lì a poche ore di un volo per Astana”.

Non potendo assicurare tempi celeri, il magistrato suggerisce – poi dirà di non aver mai saputo della presenza di una minore – di riportare la donna al Cie di Ponte Galeria. Albamonte sottopone il caso al procuratore Pignatone. Nel frattempo si fa pomeriggio. La documentazione aggiuntiva inviata da Improta consiste nella nota di Polaria di Fiumicino; della nota kazaka datata 30.5.2013 da cui risulta che “il vero nome di Alma Ayan è Shalabayeva, titolare di due validi passaporti kazaki e di un falso passaporto a nome Ayan”; la nota del cerimoniale del Ministero degli Esteri da cui risulta che “il nominativo di Ayan Alma era stato oggetto di una richiesta di accreditamento diplomatico per il Burundi ma che la pratica risultava poi essere stata revocata”.

Raccolta e analizzata tutta la documentazione, Albamonte e Pignatone valutano che “il passaporto era falso come stabiliva la nota dell’autorità kazaka”. Inoltre, “il tema della posizione di Ablyazov rispetto al regime kazako non fu centrale nelle nostre valutazioni. Avevamo la pro-va della falsità del documento. La presenza dell’indagata sul territorio italiano (richiesta dagli avvocati Olivo, ndr) non era dirimente. Tutto questo rese possibile il rilascio del nulla osta”. Nello stesso verbale Albamonte sottolinea che “nessuno gli aveva mai detto le vere generalità della donna erano Alma Shalabayeva” e che “non mi era mai stato rappresentato che l’espulsione potesse comportare rischi per l’incolumità della donna”. Il magistrato, proprio in chiusura di verbale, sottolinea di “non aver saputo che era coinvolta una bambina” e che nessuno gli disse che nella villa di Casal Palocco erano state rinvenute “mail da cui risultava che il nome di Alma Ayan era in realtà il nome usato da Alma Shalabayeva per ragioni di sicurezza”. Due circostanze che sembrano essere contraddette dalla lettura degli atti inviati in Procura il 31 maggio dal dottor Improta. L’oggetto scritto in testa al documento è infatti “Shalabayeva Alma alias Ayan Alma”. Nello stesso documento si legge: “Pertanto la Shalabayeva è nella condizione di essere rimpatriata unitamente alla figlia minore attualmente affidata a persona nominata dal Tribunale dei minori”.

Conviene qui subito dire che la bambina partì regolarmente con la mamma, come prevede la legge, e che la procedura fu seguita dal giudice dei minori, che non risultano forzature o costrizioni e che anche all’arrivo ad Astana la donna e la figlia condussero una vita protetta fino a dicembre quando il governo italiano, a mo’ di scuse, le fece tornare in Italia con un regolare permesso. Nel frattempo il marito era in carcere a Nizza arrestato per fini estradizionali.

Non ultima, va riportata la nota Interpol firmata dall’allora segretario generale Ronald Noble. La data è del 23 luglio 2013. “In sintesi – si legge – per quanto riguarda l’Interpol e qualsiasi paese membro il signor Ablyazov era un soggetto ricercato da tre paesi membri Interpol per gravi reati. Nessun paese membro Interpol sarebbe stato (il 31 maggio, ndr) in grado di sapere attraverso il segretariato generale che il Regno Unito aveva concesso ad Ablyazov lo status di rifugiato politico”.

Come potevano quindi Procura e Mobile sapere che la moglie sarebbe stata a sua volta in pericolo tornando ad Astana? Leggendo le motivazioni della sentenza che ha condannato Improta, Cortese e gli altri poliziotti i giudici sembrano invece essere partiti dall’assunto che quello fu un “sequestro di persona”, quasi una “deportazione” e non di una regolare espulsione. Quella di Alma Shalabayeva è stata certamente una vicenda strana e per fortuna senza conseguenze su mamma e figlia. E questo è quanto più conta. Restano però aperte molte domande. La prima: come funzionò davvero la catena di comando che innescò l’irruzione a Casal Palocco?

La seconda: dalla relazione del capo della polizia prefetto Pansa si desume che il capo della Squadra Mobile deliberò l’operazione sulla base dell’input ricevuto dall’ambasciatore kazako. È tuttavia evidente che né Cortese né Improta avrebbero potuto decidere autonomamente quella espulsione. Perché, poi, la Procura di Perugia non sentì tra i testimoni anche il procuratore Pignatone e il pm Albamonte? La lista delle domande sarebbe ancora lunga. E chissà che una chiave per trovare le riposte non possa trovarsi anche in quell’incontro al bar Vanni tra i due Procuratori di Roma e Perugia di cui parla Palamara nel suo libro. Tutto questo merita un approfondimento.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Il caso. Caso Shalabayeva, “Cortese solo un capro espiatorio, perché non indagano Pignatone?” Giorgio Mannino su Il Riformista il 20 Ottobre 2020.  

«Una sentenza di imbarazzante e manifesta ingiustizia: chi volle quell’espulsione, fornendo informazioni false, la fa franca; chi si trovò a dover applicare la legge, in galera. L’umiliazione per Renato Cortese, per gli altri condannati e per questo paese in cui, sul palcoscenico dell’antimafia da operetta, si esibiscono ogni giorno eserciti di narcisi petulanti e inoffensivi, resta intatta. Ci sarà un processo d’appello, è vero. Pur rispettosi di ogni sentenza penso che occorra far sentire lo stupore e l’imbarazzo per la condanna di chi applicò le disposizioni ricevute e per la graziosa immunità riconosciuta a chi quelle disposizioni le impartì». Claudio Fava, presidente della Commissione regionale Antimafia all’Ars, commenta così la sentenza di condanna a cinque anni emessa dal tribunale di Perugia nei confronti – tra gli altri – di Renato Cortese, questore di Palermo, per il sequestro (avvenuto nel 2013) e l’estradizione di Alma Shalabayeva, moglie di un dissidente kazako ricercato in patria per motivi politici.

Un pronunciamento, quello della corte perugina, che ha sconvolto parte del mondo della politica e della società civile. Ieri pomeriggio, infatti, a Palermo, davanti il Teatro Massimo, si sono riunite associazioni, rappresentanti dell’amministrazione comunale e molti poliziotti «per solidarizzare col questore Cortese che ha contribuito, con grande impegno, a combattere la criminalità organizzata e a onorare lo Stato».

L’uomo che ha infranto la latitanza record del boss Bernardo Provenzano sarà sostituito, nei prossimi giorni, da Leopoldo Laricchia. Una disposizione che arriva dal ministero dell’Interno e dai vertici della Polizia: «Con la decisione presa si riafferma il principio che la polizia osserva e si attiene a quanto pronunciato dalle sentenze», ha detto Franco Gabrielli. Ma l’indignazione, in piazza, si tocca con mano.

C’è persino Vincenzo Agostino, padre del poliziotto Nino ucciso in circostanze tutte da chiarire il 5 agosto 1989, che agitando il cellulare mostra una foto che immortala il momento della cattura di Provenzano con un giovanissimo Cortese al suo fianco: «È ingiusto che abbia pagato soltanto lui. Ha pagato il pesce più piccolo, l’ultimo anello di una lunga catena di comando rimasta impunita. La sentenza non ha fatto giustizia», ha detto Agostino. Ed è proprio contro la sentenza, ritenuta ingiusta, che molti poliziotti si scagliano. «Sono convinto – ha detto Carmine Mancuso, ex politico e figlio di Lenin Mancuso, ucciso da Cosa nostra insieme al giudice Cesare Terranova il 25 settembre 1979 – che la sentenza sia iniqua. A pagare non possono essere soltanto quanti hanno eseguito gli ordini. Quindi credo sia importante che i giudici accertino le responsabilità ai vertici».

Mancuso, infine, giudica «ingiusto il trasferimento, perché, intanto, si tratta di una sentenza di primo grado e Cortese ha servito con grande onore lo Stato». Un’idea condivisa dai tanti presenti che affollano piazza Verdi. Restii a credere che per Cortese possa esserci una forma di riabilitazione: «Era destinato a diventare capo della Polizia. La sua carriera, ai vertici, ormai è finita», sussurra qualcuno. E rimbalzano tante domande senza risposta: «Perché Angelino Alfano (allora ministro degli Interni, ndr) tace? Perché le sue dimissioni, allora chieste a gran voce, furono respinte? Chi aveva deciso quell’operazione? Perché Eugenio Albamonte e Giuseppe Pignatone che diedero il via all’espulsione non sono stati coinvolti nell’inchiesta?», si chiede un poliziotto che preferisce rimanere anonimo. Mentre Palermo si appresta a dare il benvenuto al nuovo questore: «Siamo qui anche per Laricchia, per augurargli buon lavoro», dicono gli organizzatori del raduno. Parole che mal nascondono la grande amarezza. Giorgio Mannino

·        Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

"Ero distrutta". Il racconto choc della violenza di Genovese. Una giovane vittima di Alberto Genovese ha raccontato in esclusiva a Quarto Grado la sua storia: "Pochissimi ricordi, come urla di dolore". Angela Leucci il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Cosa avveniva a Terrazza Sentimento? Ci mette la faccia una delle accusatrici di Alberto Genovese e a Quarto Grado ripercorre, per quanto possibile, la notte di violenze subite.

La giovane, che si chiama Aurelia, ha raccontato tutto in un’intervista esclusiva della trasmissione di Rete 4, partendo dall’inizio: era un sabato come tanti quel 10 ottobre 2020 e lei è andata a questa festa con un’amica, lasciando i cellulari all’ingresso. Non conosceva personalmente all’epoca Genovese, ma era stata altre volte a queste feste. Feste in piena pandemia in cui, spiega, c’era tanta droga.

“La droga c’era in grande quantità - ha detto Aurelia - c’erano dei piatti posizionati in giro per la casa e chi voleva andava al piatto e usufruiva della sostanza ma non era obbligatorio. Era una cosa che facevi di tua spontanea volontà. Mi ricordo che sono arrivata, ho ordinato uno spritz e Alberto veniva sempre da noi ma più che con me aveva un atteggiamento molesto con la mia amica. Tanto che abbiamo deciso di andarcene perché non ci piaceva la situazione”.

Aurelia spiega di non ricordare il momento in cui Genovese la portò in camera, ma di esserci stata altre volte in gruppo. Poi il blackout. “Se non mi sbaglio avevo usufruito della droga nei piatti volontariamente ma solo quello - ha illustrato - Ricordo anche che prima di avere un blackout mi era stata passata da lui una bottiglia, pensavo fosse un alcolico normale ma non so cosa ci fosse dentro, non l’ho mai saputo forse c’era della droga dentro. Penso che sia stato un insieme di cose che mi ha dato che mi ha portato ad avere un blackout di 20 ore. Non ricordo assolutamente niente. Ricordo solo dei flashback molto disconnessi e cose surreali che non stavano succedendo, di ciò che stava accadendo veramente ho pochissimi ricordi, come urla di dolore”.

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Il giorno dopo, “ero completamente distrutta, non riuscivo a camminare e a tenere gli occhi aperti. Piano piano ho messo insieme i vari pezzi. Sentivo dolore, ricordi di manette, corde, sangue sulle lenzuola, ho cominciato ad avere paura, ma all’inizio ero confusa, non riuscivo a provare niente”. Aurelia afferma che Genovese si sia comportato con lei in maniera violenta: le avrebbe urlato di andare via ma al tempo stesso l’avrebbe trascinata nuovamente a letto. Quindi la scelta di Aurelia: ha chiamato un’amica e avvertito Genovese che, se non l'avesse lasciata andare sarebbero arrivate le forze dell’ordine.

Sono seguiti giorni di ricovero in ospedale: il medico pare abbia capito immediatamente che c’era stata violenza. Aurelia sarebbe stata contattata per ritirare la denuncia, le sono stati offerti 2mila euro e 3 bottiglie di champagne. Ora la giovane cerca di ripartire da se stessa, vuole “riuscire a sistemare i miei problemi, infatti sto andando da una psicologa perché devo stare bene di testa e ci sto lavorando. Voglio vivere un po’ più serenamente e avere meno problemi sociali”.

(ANSA il 23 novembre 2022) - "Lo scopo perseguito" da Alberto Genovese "è stato sempre evidentemente quello della ricerca del massimo piacere personale". Lo scrive il gup di Milano Chiara Valori nelle motivazioni della sentenza con cui lo scorso settembre ha condannato a 8 anni e 4 mesi l'ex imprenditore del web, accusato di aver violentato, dopo averle stordite con un mix di droghe, due giovani vittime: una 23enne a Ibiza nel luglio 2020 e una 18enne quasi tre mesi dopo nell'attico suo attico milanese chiamato Terrazza Sentimento. Per il giudice "appare pregnante anche l'intensità del dolo e la spregiudicatezza con cui l'intento edonistico è stato perseguito".

 (AGI il 23 novembre 2022) - Emerge "in modo palese" come le violenze sessuali commesse da Alberto Genovese "siano state pesantemente condizionate dall'uso massiccio e prolungato di sostanze stupefacenti", mentre "non può dirsi provato l'emergere di un disturbo di personalità che possa avere inciso nella genesi e nella dinamica" degli episodi. 

E' quanto scrive la gup Chiara Valori nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato l'ex imprenditore del web a 8 anni e 4 mesi per gli abusi commessi ai danni di una 18enne nell'attico Terrazza Sentimento (ottobre 2020) e di 23enne a Villa Lolita a Ibiza (luglio 2020). Entrambe le giovani sarebbero state stordite con un mix di stupefacenti.

Per la giudice, Genovese, 45 anni, ha "sempre agito in condizioni vigili, mentre l'unica che versava in uno stato di sostanziale incoscienza era proprio" la ragazza neo maggiorenne. "E altrettanto e' a dirsi per la vicenda" di Villa Lolita "visto che la persona offesa non ha alcun ricordo di quanto avvenuto all'interno della camera da letto, mentre" sia Genovese che l'ex fidanzata Sarah Borruso (condannata a 2 anni, 5 mesi e 10 giorni), "hanno dettagliatamente offerto il proprio racconto, accompagnando poi la ragazza fuori dalla stanza in stato catatonico, mentre essi apparivano del tutto vigili e attivi".

"Genovese spregiudicato, la droga non c'entra". Il giudice: "Assoluta lucidità e freddezza nel cercare il massimo piacere personale". Luca Fazzo su Il Giornale il 24 Novembre 2022

«Grandiosa imperturbabilità», «assoluta lucidità e freddezza». Se l'obiettivo di Alberto Genovese era convincere il giudice di essere rimasto vittima dei suoi demoni, del suo successo, dei suoi soldi, di avere perso il senno, in tutto o in parte, in un abisso di sesso e cocaina, bisogna dire che il tentativo non è riuscito. Ieri il giudice Chiara Valori deposita le motivazioni della sentenza con cui il 19 settembre scorso ha condannato l'imprenditore milionario, fondatore di Facile.it, a otto anni e quattro mesi di carcere. Sono di quelle che non lasciano spiragli di comprensione a Genovese e alle sue nefandezze. Nessuna «deriva inevitabile»: questo stupratore seriale resta freddo e organizzato fino alla fine, anche dopo la drammatica fuga della sua vittima da Terrazza Sentimento, l'attico a due passi dal Duomo di Milano. Mentre la ragazza cerca di riprendersi dalla no stop di stupri cui è stata sottoposta, Genovese va a prenotarsi il trapianto di capelli da un chirurgo plastico.

Per quanto a un profano possa apparire bizzarro, la condanna più pesante a questo imprenditore simbolo del 2.0 viene inflitta per la cessione di droga in quantità industriale che avveniva durante le sue feste e che le trasformava in eventi fuori controllo da ogni punto di vista. E che lo stesso Genovese descrive così per spiegare perché non volesse far entrare la polizia in casa: «C'era droga dappertutto, c'erano immagini di un sesso brutto, vergognoso, c'erano escrementi, c'era ogni forma possibile di aberrazione». Alla condanna per la droga portata alle feste si aggiungono le pene per lo stupro della ragazza che lo ha denunciato e per l'altra violenza - emersa durante le indagini - compiuta a Ibiza. Solo il comportamento tenuto dopo l'arresto, il «lungo percorso di disintossicazione positivamente intrapreso», oltre ai risarcimenti versati alle vittime, porta il giudice a concedere le attenuanti generiche. Altrimenti il conto sarebbe stato più alto.

Per ritenere Genovese pienamente imputabile, la sentenza deve addentrarsi nello scontro tra perizie psichiatriche: da una parte i medici della difesa che indicano l'imprenditore come un soggetto autistico, un «Asperger ad alto funzionamento», aggravato dalla tossicodipendenza che avrebbe prodotto una «riduzione della massa encefalica» danneggiando non i lobi della cognizione ma quelli dell'empatia; e i consulenti del pm che attestavano la piena padronanza di sé, anche nei momenti più estremi, da parte dell'uomo. Ma la sentenza deve superare anche la linea difensiva di Genovese, secondo cui la vittima era in realtà pienamente consenziente e aveva accettato l'invito, in cambio di soldi e di droga, sapendo bene cosa la aspettava. Il giudice non esclude che tutto sia iniziato così. «È probabile che l'accordo sia sfociato per un rapporto sado-maso, la giovane si è lasciata legare senza opporre resistenza alcuna ed è dunque probabile che vi sia stato almeno un iniziale consenso a pratiche di bondage».

Peccato che subito dopo, per paura o per dolore, la ragazza - e i filmati sono inequivocabili - «abbia espressamente revocato tale consenso, con grida di dolore, espliciti NO e preghiere di interrompere l'azione (slegami!, basta)». «Genovese - scrive il giudice Valori ha ammesso di non essersi fermato a fronte del chiarissimo dissenso della persona offesa, ritenendo fosse suo diritto ottenere la prestazione che aveva concordato».

Giuseppe Guastella per corriere.it il 9 novembre 2022.  

Una nuova pesantissima tegola precipita sulla testa di Alberto Genovese dopo la condanna a otto anni e 4 mesi di carcere del 19 settembre per gli stupri a Terrazza sentimento e a Villa Lolita: la Procura di Milano accusa l’ex imprenditore di altre gravissime violenze sessuali e di una sola tentata - come al solito con le vittime che prima erano state drogate -, del tentativo di comprare il silenzio della ragazza che lo ha fatto finire in carcere e di un’agghiacciante galleria di orrori pedopornografici trovati nel suo pc. 

Le nuove ipotesi d’accusa emergono dall'avviso di conclusione delle indagini  firmato dal procuratore aggiunto Letizia Mannella, che guida il dipartimento soggetti deboli della Procura di Milano, e dei sostituti Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini. Una doccia fredda, ma non del tutto inaspettata per l’ex re delle startup, che si trova ai domiciliari in una casa di cura dove sta disintossicandosi dalla droga. 

I pm, infatti, avevano deciso di portarlo al primo processo solo per la violenza alla modella di 18 anni che, dopo essere fuggita a ottobre 2021 seminuda e insanguinata da Terrazza Sentimento, aveva fermato una volante in pieno centro a Milano; e per quella sulla 23enne abusata a Villa Lolita di Ibiza nell’estate precedente.

Dalle lunghe e certosine indagini della squadra mobile della Polizia erano però già emersi altri stupri, di cui c’è ampia traccia negli atti del processo, ma gli investigatori hanno deciso di concentrarsi solo su quelli per i quali ritengono di avere in quel momento gli elementi più concreti. Un capo d’accusa riguarda le violenze denunciate da una giovane modella pugliese, oggi 22enne, che ha avuto una relazione con Genovese. 

In base al suo racconto e a quello di una sua amica (entrambe lo querelarono e rivelarono la loro identità a «Non è l’Arena» su La7) i pm avevano chiesto un nuovo arresto di Genovese, ma questo a febbraio 2021 era stato rigettato dal gip Tommaso Perna per mancanza di indizi sufficienti. 

Ora l’accusa imputa all’ex imprenditore formalmente più violenze sulla giovane, una sarebbe avvenuta tra il 6 e l’8 ottobre 2020 a Terrazza sentimento, due giorni prima di quella alla modella di 18 anni che il mese successivo lo porterà a San Vittore.

Episodi documentati scrupolosamente dalle tante fotografie che sono state trovate nelle memorie dei dispositivi elettronici di Genovese. 

Ad uno stupro a maggio 2020 avrebbe partecipato anche l’allora fidanzata dell’uomo, Sarah Borruso, che è stata condannata nel processo a due anni 5 mesi di carcere perché avrebbe partecipato alla violenza di Ibiza. 

«Mi sono risvegliata durante il rapporto, improvvisamente, ero lucida, eravamo tutti e tre nudi sul letto», «ho detto ad Alberto che doveva smettere, ma è andato avanti per circa due minuti», ha dichiarato a verbale la vittima.

I due fidanzati il 25 febbraio 2020 - accusano i magistrati - avrebbero anche tentato di violentare una 28enne lombarda che, interrogata dalla polizia l’11 novembre 2020, ha dichiarato che era andata nell’attico con un’amica per partecipare ad una delle famose feste a base di alcol e droga servita nei piatti e di essere stata attirata in camera da letto dalla Borruso per sniffare cocaina. 

Ha aggiunto di essersi accorta che si trattava di una droga diversa che le aveva annebbiato i sensi mentre entrava Genovese il quale le aveva offerto altra droga. 

Poi ha raccontato di aver trovato la forza di andare in bagno e fare una doccia, di ricordare confusamente Genovese che tentava di farle prendere altra droga e che, quando lei non è riuscita a fuggire perché ha trovato la porta chiusa, «ha alzato il tono della voce quasi ad incazzarsi dicendo che stavo rovinando il mood della serata».

La droga che entra a fiumi nelle magioni di Genovese fa finire nei guai Daniele Leali, l’amico factotum che è indagato perché mediava con  spacciatori anche acquistando coca, ketamina, 2cb e mdma riservate agli ospiti drogati delle feste, i soli dei quali Genovese voleva circondarsi. 

Era Leali, affermano i pm, che riempiva, offriva e distribuiva i vassoi di stupefacenti come era lui che, sempre per conto di Genovese, quando ormai la situazione si stava mettendo al peggio per il suo amico, tentava intorno al 3 novembre 2020 di comprare il silenzio della prima vittima offrendole  (tre giorni dopo l’uomo sarà arrestato) 8.000 euro affinché dicesse il falso agli inquirenti ritrattando le accuse.

Leali, contattando amici e conoscenti della ragazza, per l'accusa sarebbe riuscito ad incontrarla proponendole denaro, regali e viaggi all’estero se avesse dichiarato che era stata consenziente e minacciandola che se non l’avesse fatto, se si fosse accanita contro il Genovese questi, che era «potente» si sarebbe «accanito» su di lei. I due sono accusati di intralcio alla giustizia per questo. 

L’ultima, se mai fosse possibile, ancor più odiosa accusa è la di detezione di materiale pedopornografico per una dozzina di file trovati nel computer di Genovese con dentro video e foto di minorenni. In un folder, denominato «La Bibbia 3.0», la polizia postale ha identificato 62 minorenni «privi di vestiti o in atteggiamenti sessuali espliciti».

Ci sono altri 11 file che sarebbero stati consultati pochi giorni prima dell’arresto, molti riportano nella denominazione elementi come «8 yo» e «10 yo», dove «yo» starebbe per l’età (in inglese: years old). 

Quando fu interrogato ad un anno dall’arresto, Genovese ammise che prediligeva le ragazze molto giovani, magre e pronte a drogarsi. In una chat aveva scritto: «Io sono un porco pedofilo», «ho un range 16/20, in Italia è legale, tecnicamente», «nel 2018 ho fatto sesso con tre sedicenni», scriveva. Al processo i pm hanno parlato di un «quadro di devastazione umana».

Davide Giancristoforo Alberti per ilsussidiario.net il 17 ottobre 2022.

Aurelia Bagnai, la ragazza che ha denunciato l’imprenditore Alberto Genovese, scoperchiando di fatto un terribile vaso di Pandora, è stata ospite ieri sera negli studi del programma di Non è l’Arena su La7, talk condotto da Massimo Giletti. Aurelia ricorda i tragici momenti della violenza così: “Ero completamente alterata, ancora oggi non è un ricordo a parte il letto, dei flash molto brevi, scollegati, sconnessi, senza senso logico, ero completamente allucinata.

Il flash che mi è tornato? Ho qualche ricordo del dolore che provavo, mi ricordo del dolore delle manette, erano molto strette, mi ricordo di aver supplicato più volte, e poi ho il flashback molto forte del sangue sulle lenzuola”. 

Giletti le chiede quindi come ha trovato la forza di andare in tv: “Ci ho riflettuto molto – ha spiegato Aurelia Bagnai – io non ho niente di cui vergognarmi, niente da nascondere e non devo aver paura di parlare di questa cosa e di raccontare la verità”. Quindi di nuovo su quella tragica sera: “Quella sera sono arrivato lì da sola con una mia amica, non conoscevo nessuno. Come sono entrato in quella stanza? Io non mi ricordo come sono entrata. Da dopo che ho bevuto da quella bottiglia non ricordo più nulla. – ha aggiunto – prima non avevo mai vissuto il lato brutto delle droghe. Mi era sempre capitato di viverla in contesti di divertimento, in cui stavo bene, però la droga non è solo quello, è anche altro”.

Sulla condanna ad Alberto Genovese da 8 anni e 4 mesi, la ragazza spiega: “Non sono nessuno per dire se sia sufficiente o meno, è la legge che decide, ma per me il fatto che lui sia stato condannato è una grandissima vittoria perchè non è una cosa così scontata, ci sono donne violentate che non hanno la fortuna di vedere il proprio aggressore in carcere e io ho avuto la fortuna di vederlo arrestato anche solo dopo un mese dalla mia denuncia, non è così scontato e mi sento molto fortunata”.

E ancora: “L’insegnamento, la cosa più grande e positiva che sono riuscita a tirare fuori da questa storia è stato mettere fine un circolo vizioso messo in atto da quest’uomo, che continuava ad andare avanti e a cui nessuno aveva mai messo fine, quindi averlo messo in carcere è sicuramente la cosa più bella”. Aurelia ha spiegato di aver rifiutato 130mila euro da Alberto Genovese per uno sconto di pena.

(ANSA il 19 settembre 2022) - E' stato condannato a otto anni e quattro mesi Alberto Genovese, ex imprenditore del web imputato con l'accusa di aver violentato, dopo averle rese incoscienti con mix di cocaina e ketamina, due modelle: una di 18 anni, durante una festa il 10 ottobre 2020 nel suo attico Terrazza Sentimento, l'altra di 23 anni ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente. Lo ha deciso il gup di Milano, Chiara Valori, nel processo abbreviato. E' stata condannata a 2 anni e cinque mesi anche l'ex fidanzata Sarah Borruso, che era imputata per il caso di Ibiza. Il Gup ha dunque riconosciuto tutte le imputazioni contestate dai pm.

Alberto Genovese condannato a 8 anni per le violenze su due ragazze. L’ex modella 18enne: «Ha vinto la verità». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2022.

La pena è più alta di quanto chiesto dalla procura. Due anni e 5 mesi per l’ex compagna Sarah Borruso, accusata di avere partecipato al secondo stupro nella villa di Ibiza 

Rimane in piedi Alberto Genovese. Attonito. Si appoggia per qualche istante al muro dell’aula mentre la sorella gli sta accanto quasi a proteggerlo dal mondo, come ha sempre fatto durante le udienze del processo. L’imprenditore diventato multimilionario con le startup imputato per aver violentato ferocemente due giovani donne, non prima però di aver provveduto a drogarle, sembra annichilito dalla sentenza del giudice che lo ha appena condannato a 8 anni e 4 mesi di carcere, più di quanto aveva chiesto l’accusa. Una mazzata.

L’unico beneficio che ottiene il 45 enne arrestato dalla Polizia a novembre 2021, un mese dopo che una 18 enne modella era fuggita seminuda e insanguinata da Terrazza Sentimento fermando una volante in pieno centro a Milano, è connesso alla scelta del rito abbreviato che impone la riduzione della pena di un terzo. Per il resto, il giudice Chiara Valori condivide l’impostazione dei pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini e dell’aggiunto Letizia Mannella basata sulle indagini meticolose della squadra mobile di Milano di cui questa sentenza, arrivata in meno di due anni, potrebbe essere solo il primo tassello giudiziario.

Indagini che, in attesa delle motivazioni tra 90 giorni, si può già dire che hanno inchiodato l’uomo con le testimonianze delle vittime ma soprattutto con i video delle tante telecamere che Genovese aveva sapientemente disseminato nel lussuoso attico e superattico a due passi dal Duomo, a cominciare dalla camera da letto, dove hanno registrato ogni secondo delle sue «operazioni», nonostante avesse tentato di cancellarli quando stavano per finire nelle mani della Polizia. La differenza di 4 mesi in più nella pena finale è dovuta ad un diverso calcolo del gup che ha anche condannato a 2 anni e 5 mesi Sarah Borruso, 37 anni, la ex fidanzata del crepuscolare anfitrione (i pm avevano chiesto 2 anni e 8 mesi) accusata di aver partecipato al secondo stupro, quello di una 23 enne attirata nella favolosa Villa Lolita di Ibiza dalla fama delle feste di Alberto Genovese. Ma soprattutto dalla droga che il facoltoso imprenditore e la corte dei miracoli che tirava avanti alle sue spalle distribuivano gratis, servendola sui piatti di portata.

La Borruso alla sentenza scoppia in lacrime. Secondo il suo difensore, l’avvocato Giammaria Paminteri, andava assolta perché, soggiogata da un amore malato, si è trovata suo malgrado coinvolta senza commettere reati. Per questa seconda accusa, che costa la condanna per «violenza di gruppo» a entrambi gli ex fidanzati, i difensori di Genovese, gli avvocati Luigi Isolabella e Luigi Ferrari, avevano chiesto l’assoluzione, mentre per la prima si erano spesi per ottenere la minima pena. Sulla base di consulenze mediche e psichiatriche di parte, avevano sostenuto che il loro assistito fosse parzialmente incapace di intendere e volere per gli anni di uso massiccio di droga e per la sindrome di Asperger che non gli permettevano di comprendere la volontà di chi gli stava intorno.

Si può agevolmente pensare che il giudice Valori non abbia creduto alla storia della seminfermità ma ai pm, secondo i quali Genovese seguiva un suo preciso «rituale» in un «quadro di devastazione umana» che prevedeva invariabilmente di drogarsi e di drogare la vittima con mix di cocaina e ketamina, per poi abusarne senza alcun freno, come si trattasse di una «bambola di pezza», anche se lei lo implorava in lacrime di smetterla. Come fa la modella di 18 anni nei video drammatici di Terrazza Sentimento. Genovese ha detto che era una prostituta e che era d’accordo a fare sesso estremo per denaro, cosa che lei ha negato sdegnosamente.

Il suo legale, l’avvocato Luigi Liguori, che aveva chiesto due milioni di risarcimento rifiutando i 130 mila proposti dall’imputato, riporta le sue parole dopo la sentenza: «Sono felice per la condanna e perché è emersa la verità. Per molti potevo sembrare una ragazzina che accusava l’intoccabile, ma ora posso dire di essere contenta di aver rifiutato i suoi soldi». Il gup le ha assegnato una provvisionale di 50 mila euro, demandando la quantificazione dei danni a una causa civile. «È meno di quanto ci aspettavamo», afferma Liguori dicendo che solo le spese mediche sono costate già 30 mila euro. Dopo un periodo in carcere, Genovese ha ottenuto i domiciliari in una clinica pubblica per curarsi dalla dipendenza dalla droga. Difficilmente tornerà in cella grazie alla pena già scontata e ai benefici riservati ai tossici. È ovvio che, come la Borruso, farà appello, mentre all’orizzonte già si profila la chiusura delle indagini su altre presunte vittime.

La terrazza, la droga, gli stupri. A Genovese 8 anni e 4 mesi. Pena più alta di quella chiesta dal pm: condannato per due violenze. Ma potrebbe non rientrare mai in carcere. Luca Fazzo il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Neanche davanti ai processi per stupro gli imputati sono tutti uguali. Se al posto di Alberto Genovese ci fosse un altro imputato, meno abbiente e quindi difeso più maldestramente, quasi di certo sarebbe ancora in carcere, e ieri avrebbe affrontato il giudizio con le manette ai polsi.

Invece Genovese entra ed esce dall'aula senza ferri né scorta - alto, in forma, abbracciato a una ragazza - e con la concreta possibilità di non rivedere mai più una cella. Torna nella comunità dove a luglio dell'anno scorso il giudice gli ha concesso di scontare gli arresti domiciliari per curarsi dalla dipendenza dalla droga: quella dipendenza che, secondo la sua versione, lo spinse a trasformare la sua splendida casa nel centro di Milano in un luogo di feste, di orge, di sniffate. E di stupri.

Ieri il giudice preliminare Chiara Valori lo condanna a otto anni e quattro mesi per due episodi di violenza sessuale: quello, documentato da filmati inequivocabili, ai danni della diciottenne, che fuggendo il 10 ottobre 2020 dalla casa vicino il Duomo (ribattezzata «Terrazza Sentimento») lo denunciò e lo fece arrestare l'8 novembre successivo e poi il secondo, emerso durante le indagini, non filmato ma ritenuto dal giudice altrettanto provato, consumato nell'isola di Ibiza ai danni di una ventitreenne con la complicità della fidanzata di allora Sarah Borruso, cui vengono inflitti due anni e mezzo. Nel computo della condanna di Genovese al reato di stupro si aggiunge il delitto di cessione di droga, per le montagne di coca e altre porcherie che movimentavano le serate del brillante businessman.

Il giudice è andato aldilà della pena chiesta di otto anni chiesta dai pm Rosanna Stagnaro e Letizia Mannella. Ma Genovese ha già scontato tra carcere e comunità quasi due anni di pena, e altri due - a meno di accelerazioni improvvise - se ne andranno tra appello e Cassazione. Morale, quando la sentenza diventerà definitiva (e anche ammesso che non venga affievolita strada facendo) l'inventore di Facile.it sarà vicino ad un residuo di pena di quattro anni, che gli consentirà di chiedere direttamente di essere affidato ai servizi sociali senza rientrare in carcere, per completare il percorso di recupero. Percorso che - stando alle istanze presentate in questi mesi dal suo difensore Luigi Isolabella - Genovese sta compiendo.

La sua linea difensiva, d'altronde, è cambiata progressivamente tra il momento dell'arresto e il processo terminato ieri. Se all'inizio si proclamava innocente accusando la sua vittima di essere consenziente alle brutalità che le venivano inflitte, Genovese è passato a ammissioni parziali («se l'ho fatto è perché ero drogato») utilizzando come giustificazione una sorta di dipendenza da soldi dopo avere ceduto Facile.it e essersi ritrovato multimilionario. «Voglio dare un taglio netto col passato», aveva fatto sapere a ridosso delle udienze, e aveva fatto anche rimuovere la luce al neon «Sentimento» dalla terrazza della casa delle feste. Nel frattempo aveva persino iniziato a risarcire i vicini di casa che per anni avevano denunciato invano alle forze di polizia quanto accadeva nell'appartamento dell'imprenditore. Sarebbe forse bastato un controllo per dare uno stop al vortice di perversioni di Terrazza Sentimento.

«Com'è andata? Male», dice ieri lasciando l'udienza Luigi Liguori, avvocato della vittima milanese di Genovese. Sull'entità della pena detentiva, il legale non si esprime, a non andargli giù è l'esiguità del risarcimento: per ora la ragazza riceverà solo cinquantamila euro, il budget di qualche festa di Genovese.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 settembre 2022.

Ecco un esempio di sentenza equa (coerente coi dettami di legge) ma lascia scornate entrambe le parti in causa, ossia lo stupratore -torturatore e la sua vittima, accompagnati dai rispettivi studi legali usciti anche loro con le ossa rotte. 

Profili: lui è un indifendibile sadico che ha tentato di scampare la galera con l'ausilio di una tonnellata di soldi e dell'improbabilissima tesi secondo la quale la cocaina l'aveva reso incapace di intendere e di volere (tesi che non sta scientificamente in piedi, anzi, la cocaina slatentizza le vere e buie viscere dell'individuo) e lei è l'ingenua superstite di una violenza orribile (ma orribile) che però dopo il trauma si è comportata con indubbia leggerezza: è finita in balìa di chi l'ha convinta a cambiare avvocati e le ha detto che avrebbe potuto intascare sino a 5 milioni di euro. 

È finita che lui andrà in galera e lei avrà un risarcimento ridicolo, con cui non pagherà neanche le spese mediche e il deludente avvocato. Basti questo: il sadico, nell'aprile scorso, aveva offerto un acconto miserevole (130mila) che la ragazza aveva rifiutato, ma alla fine poi ne ha presi 50mila. Se ne vorrà altri, dovrà tentare in sede civile. 

Ma prima di ricapitolare si ricomincia dalla fine. Il sadico violentatore 45enne Alberto Genovese è stato condannato a otto anni e quattro mesi per due violenze sessuali: una più atroce e interminabile ai danni di una diciottenne nel suo attico a Milano (ottobre 2020) l’altra su una ventitreenne a Villa Lolita a Ibiza (luglio precedente con l'ex fidanzata di Genovese Sarah Borruso, condannata a due anni e cinque mesi per concorso indiretto nelle violenze. 

Altri profili: i pm sono Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, il procuratore aggiunto è Letizia Mannella, il giudice è Chiara Valori che è un gup (giudice dell'udienza preliminare) perché si è trattato di un rito abbreviato, secondo il quale l'imputato non avrebbe potuto presentare prove a sua discolpa e tutto sarebbe dovuto basarsi sulle prove video (schiaccianti, davvero inguardabili) e sulle testimonianze dirette delle vittime: ma trattandosi di un «rito abbreviato condizionato», la difesa ha potuto infarcire il fascicolo di improbabili sciocchezze tipo una «dipendenza da cocaina» che non esiste clinicamente (è solo psicologica) col povero Genovese che «non controllava più la realtà e ha capito solo dopo».

Bastava informarsi un minimo per apprendere che per i cocainomani marci esiste solo il «withdrawal» (crisi di astinenza che dura una settimana o poco più) e il disturbo da «extinction», che è la mera voglia di riprenderla. Invece i legali hanno tentato di ipotizzare delle «alterazioni cognitive» di lui che avrebbero pregiudicato «il consenso iniziale» di lei, consenso che peraltro non c'è mai stato. Il giudice non l'ha bevuta, e neanche assaggiata. 

Profilo dei difensori: quelli di Genovese sono gli avvocati Luigi Isolabella, Davide Ferrari e Stefano Solida, noti professionisti che odiano i giornalisti (fanno bene) e che avevano ottenuto esiti eccellenti con altri casi di presunti stupratori finiti ai disonori delle cronache.

Non è noto se l'idea di offrire alla prima modella 18enne un risarcimento risibile rispetto alle aspettative (130mila euro) sia stata un'idea loro oppure di Genovese. L'ex fidanzata dello stupratore, Sarah Borruso, ieri sembrava scossa (per i 2 anni e 5 mesi) ma in galera non dovrebbe proprio finirci, e comunque ha tenuto a precisare che non ha mai avuto contatti fisici con la seconda ragazza violentata (e neanche con la prima). 

Il profilo dei difensori della 18enne, la vittima, è più complesso. La percussiva cerchia di amici dapprima la spinse dal giovane avvocato Saverio Macrì (classe 1988) che conosceva per varie ragioni e che lavorava nello studio del più navigato 50enne Luca Procaccini, che si era fatto le ossa con l'ex presidente della Camera Penale di Milano. Lei disse che voleva una «pena esemplare» e loro non aspettavano altro: contattarono subito un team di psichiatri forensi più una nota criminologa (vera, non televisiva) che disse che trattavasi del «caso più provante e inimmaginabile che io abbia affrontato. La strada del recupero sarà molto lunga».

Anche gli altri specialisti parlarono di «trauma spaventoso». Uno zio di Saverio era peraltro Giuseppe Macrì, luminare tra i medici legali. Insomma, altro che rito abbreviato e accordi economici preventivi con lo stupratore: «Trovare un punto d'accordo con noi», dissero i legali a Libero, «sarebbe stato più difficile o impossibile: un risarcimento preventivo, ricordiamo, determina il diritto ad uno sconto di pena considerevole, poi ci sono le attenuanti, le esimenti...».

Trattare un risarcimento prima della conclusione del processo, come solo dei nuovi avvocati avrebbero accettato di fare, avrebbe favorito Genovese; accettare di trattare solo dopo una condanna, invece, avrebbe significato puntare alla massima sanzione possibile. È chiaro che un criminale ricco, la sua vittima, cerca di risarcirla prima. Ancora stordita e bisognosa di cure (stiamo parlando di gente che alle feste di Genovese si drogava regolarmente) la ragazza ha poi cominciato a combinare sciocchezze: pochi giorni dopo lo stupro era già sui social, non resistette nemmeno un pomeriggio nel centro di cura di Parma in cui i legali le avevano chiesto di ricoverarsi.

Ed eccoci al profilo di quello che è poi diventato improvvisamente il nuovo legale della ragazza, Luigi Liguori, che non avvertì nemmeno i due colleghi della sostituzione. Fece una serie di gaffe: s'inventò di essere «avvocato di famiglia» ma fu smentito dal padre della ragazza. Coi due legali, poi, si dimise anche l'intera equipe medica, sostituita - pare - da una psicologa della mutua, nel senso di Servizio sanitario nazionale. In sostanza la ragazza rifiutò un certo percorso terapeutico e giudiziario, e pretese il silenzio stampa sulla sua vicenda. La morale è che Liguori ha chiesto quasi 2 milioni di euro di risarcimento e ne ha ottenuti 50mila.

L'altra morale è che i legali di Genovese hanno chiesto la sua seminfermità mentale ma il giudice l'ha dichiarato capace di intendere (ma non di volere) l'entrata in una galera. E per definizione non si può né deve gioire alla notizia che qualcuno finirà in galera. Anche se parliamo di uno stupro ripreso da 19 telecamere (per 20 ore totali di registrazione ciascuna) che hanno assodato stupri, crudeltà, cessione di droga e lesioni orrende.

Il signor Alberto Genovese ha violentato e seviziato una diciottenne dopo averla drogata durante una delle sue drogatissime feste: lei non era uno stinco di santo, ma Genovese, scrissero i pm, era lucidissimo e la legò ai polsi e alle caviglie con una cravatta stretta alla gola annodata alla spalliera del letto, con un cuscino premuto sul viso per lunghe manciate di secondi; la sfinì con violenze sessuali anche dopo che il suo corpo aveva quasi la rigidità e il calore di una salma, lei incosciente per 18 ore filate: il medico della Clinica Mangiagalli (una donna) riscontrò che era stata seviziata «in un modo che raramente le era capitato di vedere», torture praticate con modi e strumenti che la legge, e la pietà, impediscono di dettagliare. Ora Genovese avrà modo di ripensarci. Il rito abbreviato non prevede Appello.

Monica Serra per “la Stampa” il 20 settembre 2022.

«Ho amato un uomo che ha sempre e solo scelto se stesso, che non mi ascoltava, che non mi rispettava e che mi umiliava. Non voglio cadere nella vittimizzazione, perché mi prendo le mie responsabilità. Ho commesso degli errori, prima tra tutti ho calpestato la mia dignità, non mi sono imposta come avrei dovuto, sono stata ingenua pensando di trasformare l'Alberto di allora in un padre di famiglia». 

Nel giorno della condanna dell'ex mago delle startup a otto anni e quattro mesi con l'accusa di aver violentato due ragazze - una diciottenne a Terrazza Sentimento, il suo superattico con vista sul Duomo, e una ventitreenne a Ibiza - e di aver ceduto la droga che a fiumi circolava ai suoi party, l'ultima a uscire dall'aula è stata la sua ex fidanzata, Sarah Borruso, 27 anni oggi, diciotto in meno di lui. Con le lacrime agli occhi e grandi occhiali da sole sul naso, sorretta dalla madre e dal suo avvocato Gianmaria Palminteri.

La giudice Chiara Valori l'ha condannata a 2 anni e 4 mesi, tre in meno di quelli richiesti dai magistrati che la ritengono colpevole di violenza sessuale di gruppo. «Lei c'era, sapeva quello che faceva, ha partecipato attivamente», hanno ricostruito i pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini, attraverso testimonianze, messaggi e chat raccolti dalla squadra mobile di Milano, diretta da Marco Calì. 

In questi due anni di «tsunami giudiziario e mediatico» che si è abbattuto sulla sua vita, Borruso ha sempre rifiutato di raccontare pubblicamente la sua verità. Lo ha fatto in aula, chiedendo di prendere la parola per fare dichiarazioni spontanee nell'ultima udienza prima della sentenza. Ha ricostruito come, nell'estate del 2019, è iniziata la sua storia con Genovese «dopo un lungo corteggiamento».

«I primi mesi abbiamo vissuto una relazione normale, autentica, anche lui si mostrava innamorato quanto me», ha spiegato la ventisettenne arrivata a pesare 44 chili «perché questa storia mi sta logorando». «Mi diceva che non provava un sentimento così importante per una ragazza da molto tempo. Ho iniziato a vivere una sorta di favola, ero convinta di aver trovato l'anima gemella. In poco tempo era diventato la mia ragione di vita, il mio tutto». 

Così Borruso ha spiegato come è entrata «a far parte del mondo» dell'imprenditore, fatto di feste e vacanze patinate, di droga, tanti soldi, «in un quadro di devastazione umana», come l'hanno definita i pm convinti della «piena volontà» degli atti che la accusano di aver commesso. «L'unico problema che si è palesato sin dall'inizio della nostra relazione era l'uso smodato di sostanze. Le richieste sessuali più spinte, tra le quali i rapporti a tre, sono arrivate solo dopo. Insieme alla droga, ai giorni interi che passavamo a farne uso senza dormire, né mangiare».

Davanti al giudice e al suo ex, all'associazione antiviolenza Dire, che ha poi deciso di rinunciare a costituirsi parte civile contro di lei, Borruso ha provato a spiegare il suo disagio nei menage a troi, a cui però avrebbe in più occasioni partecipato, secondo le testimonianze raccolte nel corso delle indagini. 

«Non sapevo come si facesse - dice ora la ventisettenne -, per me era già difficile accettare di condividere il mio fidanzato con un'altra, spesso mi sentivo in difetto o di troppo. Provavo un senso di vergogna indescrivibile. Capitava di rimanere immobile, di continuare a drogarmi solo perché non avrei saputo cos' altro fare, perdevo tempo in bagno, o me ne andavo dalla stanza. È difficile spiegare le emozioni conflittuali che vivevo in quei momenti, da un lato provavo la paura di perderlo e dall'altra il senso di disgusto nel toccare certi picchi».

Oggi che si è trasferita dalla madre lontano da Milano, ha fatto un percorso di riabilitazione dalla droga e si è iscritta alla facoltà di psicologia, Borruso in aula prova a respingere la ricostruzione dei pm, che in questo filone d'inchiestala accusano di aver partecipato alla violenza sessuale di una ventitreenne a Villa Lolita, in una vacanza a Ibiza. «Voglio dire per l'ennesima volta che i rapporti a tre non erano volontà mia, non erano un mio desiderio, ma solo di Alberto. Era lui che li desiderava e io mi prestavo perché - ammette - essendo stata innamorata non vedevo molte altre alternative se non quella di perderlo».

Poi conclude: «La mia paura più grande sapete qual è? Quella di essere condannata perché sono stata la fidanzata di Alberto Genovese. Non fatelo, per favore». Per i pm non è così ed evidentemente neanche per la giudice. L'intero collegio difensivo - anche gli avvocati Luigi Isolabella, Davide Ferrari e Stefano Solida che assistono l'ex imprenditore - attendono le motivazioni della sentenza per decidere se ricorrere in appello.

 Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 21 settembre 2022.

La recente condanna dell'imprenditore Alberto Genovese a 8 anni e 4 mesi di reclusione per gli abusi sessuali subiti da due ragazze non archivia la storia di Terrazza Sentimento. Non siamo alla fine di questa vicenda ma solo all'inizio. In procura da due mesi sono arrivate le ultime informative della squadra mobile di Milano. 

Svelano gli incubi che sarebbero stati patiti da altre cinque ragazze nel super attico dei party con piscina a sfioro dove il re delle Start up consumava 480 bottiglie di champagne ogni due mesi, cocaina a etti e somministrava la micidiale ketamina - anestetizzante utilizzato in veterinaria per i cavalli - che pialla la memoria delle vittime. Sarà ora il procuratore aggiunto Letizia Mannella con i pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini a decidere se e per quali casi chiedere il rinvio a giudizio di Genovese per la fase due di questa indagine.

Chi ha letto questi documenti anticipa che svelano come la discesa negli inferi di questo imprenditore richiedesse pratiche sempre più estreme, vittime sempre più giovani, giochi sempre più adrenalinici. Saranno pm e giudici a chiarire se si trattava di sesso consenziente o se la ragazza era obnubilata, priva del libero discernimento. 

È il risultato di una certosina attività investigativa durata quasi due anni. Anche perché bisognava analizzare una quantità senza precedenti di dati informatici e telefonici. Tra questi ultimi, in particolare, sono state vagliate 7.111 chat e 1.985.691 messaggi complessivi (whatsapp 1.908.993 messaggi per 3.568 chat), trasmessi tra luglio 2020 e il giorno dell'arresto dell'imprenditore. A seguire 46.324 immagini dal 1 luglio del 2020 e tra queste si cercavano quelle che più potevano far ipotizzare un abuso sessuale e le identità delle ragazze.

Al vaglio quindi scatti da sesso estremo e 52 foto «ritraenti ragazze legate con manette e stringhe». Ma l'attività più impegnativa è stato lo studio dei video. In totale sono 10.739, dal primo luglio 2020 ben 3.846. Si è partiti da dodici «in cui le partner di Genovese appaiono totalmente assenti a causa probabilmente di dosi eccessive di sostanza stupefacenti ed appaiono in completa balia della volontà di Genovese" per altri 28 video in cui si ritraggono donne con legati mani e/o piedi. Incrociando i volti, le date, le telefonate, i messaggi è emerso un gruppo di ragazze. 

Tra queste alcune già avevano denunciato Genovese, altre erano state sentite come testimoni, altre contattate dagli inquirenti hanno preferito non sporgere querela.

Tra i tetra delle memorie delle 18 telecamere del sistema di videosorveglianza interno, gli hard disk di pc, tablet e telefoni era però impossibile analizzare tutto. Certo, si è utilizzato il metodo delle parole chiave, ma tutto ciò non era sufficiente. Per questo serviva creare una speciale squadra che ha interfacciato milioni di dati per mesi. Ora il risultato è nelle informative e decideranno in Tribunale. Di certo Genovese ha decapitato il suo mondo. Fatto di Start up, frecce di crescite nei bilanci in verticale, milioni facili, lussi e sprechi. 

Anche il suo linguaggio offre una chiave d'interpretazione per capire il mimetismo del predatore sessuale seriale che ha necessità di reiterare il proprio rito, migliorarlo per sentirsi unico, inimitabile nel possedere, dominare, umiliare. Il vocabolario di Genovese offre questa cifra e permette di meglio interpretare. A iniziare dal nome della terrazza delle feste, che dev' essere invitante, accogliente, evocare un sogno e nulla di pericoloso.

Chiamarla "Terrazza Sentimento" è un colpo di genio del male perché associa una parola alla quale tutti noi più teniamo, vivendolo in ogni azione che facciamo: sentimento appunto.

E chi vuoi che sappia che quella casa in realtà è un fortino, l'ascensore (messa a sue spese), prevede un codice per accedere all'ultimo piano, un'inferriata impedisce l'accesso dalla scala? Il mimetismo lo ritroviamo anche nel chiamare le ragazzine che corrono da lui, Genovese le apostrofa con «piccoline», vezzeggiativo accudente, da fratello superiore.

Ancora, Genovese tra amici indica le droghe che utilizza e fa utilizzare, ovvero che stordiscono, isolano le cellule, evitano le sinapsi con un nome invitante e innocuo: vitamine o vitamins. Anche chi le vende non sono indicati come spacciatori ma come «promoter» o «provider» o «Deliveroo», termini traslati dalla city meneghina tra finanza e del food a domicilio, come se si trattasse di normale quotidianità. Pensare però che sia il sole sarebbe un errore. 

Troppe indagini dimostrano come Terrazza Sentimento sia la punta di un fenomeno. Siamo di fronte a chi usa benzodiazepine e droghe come armi, il predatore prima conquista la fiducia, si mimetizza, abusa, cancella la memoria della vittima e reitera. 

Dalle discoteche ai colloqui di lavoro, dai luoghi di lavoro agli incontri per motivi medici, le cronache raccontano sempre più storie di insospettabili che agiscono nell'impunità. E di quante vittime vengono chiamate a mesi, anni di distanza e non avevano ricordi di quanto patito. Per questo bisogna reagire: affidare la soluzione alla sola iniziativa giudiziaria è un'utopia.

La Milano by-night schiava di droga e sesso. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Settembre 2022.

La modella è arrivata l’anno scorso dal Brasile, a 21 anni: sognava una carriera nella capitale mondiale della moda ed ha creduto alle promesse di uno dei tanti squallidi pr milanese 42enne, divenuto il suo compagno. Ma subito dopo i festini a base di droghe, i pestaggi, i rapporti imposti con altri uomini. Ma la persecuzione continua con la complicità della lentezza della giustizia

Si è appena chiuso il capitolo delle feste a base di droghe e sesso sulla Terrazza Sentimento organizzate dall’ imprenditore milionario Alberto Genovese, fondatore del sito Facile.it, che se ne sta per aprire un’altro grazie alla denuncia presentata venerdì scorso in procura a Milano dagli avvocati di una ragazza 22 anni, che lavorava come modella. “Sono vittima delle minacce e della droga. Mi ha somministrato benzedrina. Ho una lesione al naso, per la cocaina. Mi ha convinto a filmare i nostri rapporti sessuali: ha minacciato di inviare i video alla mia famiglia” .

E questa è la sua storia, rivelata dal Corriere della Sera. “Ho origini italiane. Nel marzo 2021 ho deciso di venire a Milano proprio per avviare la procedura della cittadinanza. Una conoscente mi ha fatto il nome di quest’uomo”. Un 42enne, attivo anche come pr nel giro delle agenzie di modelle. La base della presunta persecuzione è un appartamento in una bassa palazzina di una zona residenziale. A pochi metri, un’agenzia di casting. Adesso sarà il pm, insieme alle forze dell’ ordine, ad indagare sui fatti denunciati ed accertare gli eventuali reati. Leggendo la denuncia, è plausibile ipotizzare un giro stratificato, ampio, che presenta varie analogie con gli orrori di “Terrazza Sentimento” e dell’imprenditore Alberto Genovese. Ma appunto come dicevamo prima lo accerteranno gli investigatori.

Anche nello scandalo di Genovese c’era un p.r. al centro di tutti i racconti delle donne che partecipavano al party, come raccontava un anno fa il quotidiano La Repubblica (vedi qui) Una di loro, che chiameremo Natasha, ne ha delineato il ruolo: “C’era della droga alla festa – ha messo a verbale – ad un certo punto, c’erano due piatti a disposizione per tutti. Li ha portati vicino al bar Daniele Leali: in uno c’era 2CB, conosciuta come “coca rosa”, e nell’altro “Calvin Klein”, che è chetamina mischiata con cocaina“. Una figura da sensale, almeno secondo la versione della ragazza: “Credo che tutti si aspettassero che Leali la portasse in sala, nessuno si è spaventato o sorpreso della cosa“. Rassicurante, a modo suo. Tanto che Natasha, la notte del brutale stupro dell’amica, lo aveva preso a riferimento, per non correre rischi in quel delirio tossico: “Ho sempre seguito con i miei occhi il braccio destro del Genovese, Daniele Leali, per capire la situazione e se ci si poteva fidare“. Da chiarire che Leali nel processo a Genovese ed alla sua ex-compagna, non è stato mandato a giudizio. 

Proseguiamo con il racconto della modella. “Lui si è mostrato da subito gentile e premuroso, proponendo di ospitarmi. Mi sono trasferita come soluzione temporanea. Ha presto cominciato a drogarsi davanti a me. Mi ha proposto di provare, fidandomi lui. Diceva che dopo sarei stata meglio… Non saprò mai come sia potuto accadere, ma è successo… Con il trascorrere dei giorni, è nata una relazione. Dopo pochissimo tempo, sono diventata completamente dipendente da lui… Si tratta di una persona ossessionata dal sesso. Io ero disposta a tutto. Lo assecondavo in ogni richiesta anche quando mi convinceva a compiere atti che mai avrei pensato di fare…“.

Dal marzo scorso arriviamo all’estate. “I documenti relativi alla richiesta di cittadinanza non erano pronti, così sono rimasta nell’appartamento. Ha iniziato a parlare di problemi economici. Fino a quel momento, aveva coperto lui ogni tipo di spesa. In quel periodo non potevo lavorare, avevo problemi alla pelle del viso. Ha preso con insistenza a lamentarsi dell’assenza di soldi, accusandomi — e facendomi credere, abilissimo com’è nelle manipolazioni psicologiche — di essere io la responsabile. Ha introdotto la possibilità di invitare degli uomini con i quali avrei avuto dei rapporti. Mi sono rifiutata. Lui insisteva». Trascorrono i mesi. “Non smetteva di acquistare cocaina e ospitare feste. A Milano come a Porto Cervo. Ha cominciato a picchiarmi e minacciare di rivelare che mi drogavo. Ero sotto ricatto. Un giorno mi ha detto di aver fatto sesso con me tutta la notte, ma ero così stordita che non riuscivo a ricordare niente”. 

“Non ho denunciato prima per paura: quell’uomo ripeteva che, se avessi deciso di parlare con chiunque, mi avrebbe ucciso. Poi avrebbe distrutto la mia famiglia. E nel caso in cui fossi sparita, scappando, giurava che avrebbe mandato qualcuno a cercarmi” racconta la giovane ragazza.

L’ avvocato Alexandro Maria Tirelli è il legale della ragazza: “Una delle situazioni più raccapriccianti della mia carriera. Rivolgo un appello alla Procura affinché voglia eseguire le indagini in maniera tempestiva e chiudere questa infame storia“. La modella aiutata da amici, questa volta veri, ha lasciato l’Italia, racconta “So che altre donne lo hanno denunciato per violenze… Non riesco a dormire, vivo nel terrore. La somministrazione di benzedrina era quasi quotidiana… Così come della droga. La droga mi ha persino impedito di rendermi conto di cosa capitava… Quel problema al naso, per la cocaina, non ho il coraggio di farlo vedere… È riuscito a ottenere il mio nuovo numero. Mi invia dei messaggi: ogni messaggio mi genera angoscia… I soldi dei rapporti sessuali con altri uomini, li ho sempre consegnati a lui: si tratta di 15mila euro. Ha detto che rimango di sua proprietà e che, se mi uccidesse, la sua vita acquisterebbe un senso”. 

“Ho avuto rapporti sessuali con altri uomini, in sua presenza: mi ha obbligato a prostituirmi. Ha organizzato feste a base di droga e di sesso… Io sono disposta a indicare i nomi di ogni persona coinvolta” conclude la modella italo-brasiliana. Ed ora la Milano by-night, i “modellari” , i p.r. delle discoteche ed agenzie di modelle iniziano a tremare. Il vero dramma è che periodicamente, quasi ciclicamente a Milano accadono gli stessi scandali. A parole tutti dicono di volerla cambiare, ma in realtà, grattacieli a parte non cambia mai niente, E questa è la Milano da vomitare. Non quella da bere.

«Alberto Genovese è malato, ci sono attenuanti. E per Ibiza assoluzione piena». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022. 

La difesa dell’ex imprenditore ha chiesto il riconoscimento della seminfermità mentale, quindi il minimo della pena, per lo stupro a Terrazza Sentimento, e sostiene che a Villa Lolita non furono commesse violenze. 

Assoluzione piena dall’accusa dello stupro a Villa Lolita di Ibiza; seminfermità mentale, quindi minimo della pena, per quello a Terrazza Sentimento a Milano, sul quale la Procura, a differenza del primo, aggiunge alle testimonianze le immagini delle telecamere interne che dimostrerebbero inequivocabilmente la ferocia delle violenze. È così che la difesa di Alberto Genovese replica alla condanna a 8 anni di carcere chiesta dai pm Rosaria Stagnaro, Paolo Filippini e dall’aggiunto Letizia Mannella al gip Chiara Valori.

I difensori dell’imprenditore diventato multimilionario con le startup, finito in carcere a novembre 2020 per aver drogato e violentato una modella di 18 anni ospite in una delle feste a base di alcool e stupefacenti, proseguono la nella strada già tracciata da Genovese: nelle indagini e nel processo abbreviato, che garantisce lo sconto di un terzo della pena, il 45 enne ha detto che dal 2016 fino all’arresto le droghe pesanti erano diventate il suo unico scopo di vita. Attorno gli si era formata una cerchia di personaggi che sfruttavano cinicamente le sue cospicue possibilità economiche e la droga gratis. Al punto che, quando stava molto male, non avrebbero chiesto soccorso per evitare di perdere la gallina dalle uova d’oro.

I legali di Genovese, gli avvocati Luigi Isolabella e Luigi Ferrari, hanno depositato consulenze mediche e psichiatriche secondo le quali l’uso massiccio di droga avrebbe fatto danni pesanti al cervello dell’uomo che, sommati alla sindrome di Asperger, gli impedivano di cogliere correttamente la volontà altrui. Le ragazze si presentavano nelle fastose residenze, ha detto Genovese, per drogarsi liberamente ed erano consenzienti ai rapporti sessuali. Come la 23 enne che, infatti, dopo quella che lei ha denunciato come una violenza alla quale a luglio 2020 avrebbe partecipato ad Ibiza anche la fidanzata dell’uomo, Sarah Borruso (chiesti 2 anni e 8 mesi), avrebbe proseguito normalmente a chattare con lui. Nonostante i video in cui lei lo implora di smettere, l’imprenditore ha negato anche di aver violentato la 18enne a Milano che era d’accordo a fare sesso estremo per denaro, cosa che lei ha negato con determinazione.

Chiesta l’assoluzione piena anche per Sarah Borruso, difesa dall’avvocato Gianmaria Palminteri. Una donna soggiogata da un amore malato per Genovese che si è trovata suo malgrado coinvolta in uno scenario in cui non ha commesso reati. 

(ANSA il 18 Luglio 2022) - "Deve essere considerata una vittima di Alberto Genovese e va assolta con la formula più ampia" Sarah Borruso, l'ex fidanzata dell'imprenditore del web, processata anche lei in abbreviato a Milano, ma solo per uno dei due casi di violenza sessuale contestati a lui, ossia quello nei confronti di una 23enne a Ibiza. 

A chiedere di mandare assolta la ragazza è stato l'avvocato Gianmaria Palminteri, durante il suo intervento difensivo che si è svolto davanti al gup Chiara Valori. Il legale ha ribadito che la sua assistita non ha mai fornito alcun contributo fattuale né ha partecipato materialmente alla presunta violenza, "anzi, anche lei deve essere considerata una vittima". Per la giovane donna la Procura ha chiesto una condanna a 2 anni e 8 mesi. Ora stanno parlando i difensori di Genovese.

Chiesti per lei 2 anni e 8 mesi, respinge le accuse. Alberto Genovese, l’ex ai giudici: “Ho paura è di essere condannata perché sono stata la sua fidanzata”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Luglio 2022 

Ha preso la parola durante l’udienza dello scorso 27 giugno per rendere dichiarazioni spontanee al Gup Chiara Valori. Sarah Borruso, ex fidanzata di Alberto Genovese, è accusata di aver partecipato con lui alla violenza ai danni di una 23enne a Ibiza. Per lei la procura ha chiesto 2 anni e otto mesi di carcere. Ma lei respinge le accuse e svela il suo più grande timore: “essere condannata perché sono stata la fidanzata di Alberto Genovese”. Borruso ha detto di essere stata innamorata e succube del suo fidanzato ma che non abusò in nessun modo della 23enne.”Per troppo tempo sono stata accostata alla figura di Alberto, ho vissuto dietro l’ombra di un uomo e quello che spesso percepisco è che non si comprenda il fatto che io ho un nome e una personalità distinta da lui”, ha raccontato Borruso durante l’udienza, come riportato da Repubblica.

Chiesta una condanna a otto anni di reclusione e 80mila euro di multa per Alberto Genovese, l’ex imprenditore del web imputato con l’accusa di aver rese incoscienti con mix di droghe due modelle e di aver abusato sessualmente di queste. Il caso del re delle startup, imputato per violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di stupefacenti e lesioni, aveva tenuto banco sui media per settimane, uno scandalo che aveva preso il nome di “Terrazza Sentimento”, l’attico di lusso con vista sul Duomo di Milano di proprietà di Genovese dove si sarebbe consumata una delle due violenze al centro del processo.

A formulare la richiesta, nel processo abbreviato a porte chiuse davanti al gup Chiara Valori, il procuratore aggiunto di Milano, Letizia Mannella, e i pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini che hanno parlato di un “quadro di devastazione e degrado umano”. Le accuse riguardano due casi, due modelle: una di 18 anni, durante una festa il 10 ottobre 2020 nel suo attico Terrazza Sentimento con vista sul Duomo, l’altra di 23 anni ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente. La sentenza è prevista in arrivo a settembre.

Sarah Borruso è imputata per concorso nella violenza nell’isola spagnola. Ma la donna ha respinto le accuse e raccontato di aver preso le distanze da tempo da quel mondo delle feste a base di droga che una volta le apparteneva. Oggi ha 27 anni, è iscritta a Psicologia e di droghe dice di non volerne sapere. “Sono ripartita da zero allontanandomi per sempre dall’uso delle sostanze, una volontà nata ben prima dell’arresto di Alberto perché ero già stremata da quel tipo di vita”, ha detto.

E le distanze da quel mondo dice di averle prese già prima delle vicende di “Terrazza Sentimento”: “Non è un caso che non fossi presente quella sera di ottobre. Già da settembre ero andata via, determinata a fargli sentire la mia assenza. Era l’ultimo estremo tentativo, sperando che comprendesse che stava buttando via la sua vita, oltre a perdere anche me, anche se alla fine correvo sempre se mi chiamava in cerca di aiuto o protezione. Infatti sono stata l’ultima persona che ha visto prima di essere arrestato “. Da allora Sarah rivede per la prima volta Alberto in udienza, un anno e mezzo dopo. “Alcuni ci hanno paragonato a una coppia diabolica e io sono stata dipinta, al pari di Alberto, come una carnefice”.

Alla fine, Borruso rivolge un appello al giudice. “Ho commesso molti errori, primo tra tutti calpestare la mia dignità. Sono stata ingenua nel pensare di trasformare l’Alberto di allora in un padre di famiglia. Ma è impensabile per me considerarmi colpevole di un reato. La mia più grande paura è di essere condannata perché sono stata la fidanzata di Alberto Genovese“.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Alberto Genovese, le nuove accuse: «Sei ragazze violentate, modella pagata per tacere». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.

Genovese avrebbe tentato di pagare con 8 mila euro il silenzio della modella che lo fece arrestare. E altre due ragazze lo accusano di averle stuprate

Sono almeno altre due le violenze sessuali di cui è sospettato Alberto Genovese e che fanno salire a sei il numero delle presunte vittime dell’ex re delle startup, per il quale giovedì la Procura di Milano ha chiesto 8 anni di carcere nel processo sui primi due episodi. 

E ora si scopre che ai filoni di indagine già in corso sulle violenze, sulla droga e su questioni fiscali, se ne è aggiunto anche uno per il tentativo di pagare con 8.000 euro il silenzio della modella che lo ha fatto arrestare. 

Terrazza sentimento, l’appartamento con attico e piscina a due passi dal Duomo di Milano, era meta ambita nel mondo della notte milanese. Perché lì la droga girava gratis per i privilegiati, rigorosamente tutti tossici, che facevano la fila davanti alla porta, spiega lo stesso Genovese nell’interrogatorio davanti al gup di Milano Chiara Valori che a settembre emetterà la sentenza. 

Tra loro, le ragazze poco più che maggiorenni che, selezionate dalla cerchia degli amici di Genovese e da lui approvate, si presentavano a qualsiasi ora. «C’era la musica, c’era da bere e c’era cocaina, ketamina, 2c-b, c’era Md, c’era marijuana. Si faceva uso di sostanze e si faceva il bagno in piscina», racconta. 

Era in questo via vai, sostengono i sostituti pm Rosaria Stagnaro, Paolo Filippini e l’aggiunto Letizia Mannella, che trovava le sue vittime. Alla modella di 18 anni abusata ferocemente nell’appartamento, alla 23enne violentata pesantemente ad Ibiza, parti lese nel processo in corso, e alle due giovani donne che nei mesi scorsi lo hanno denunciato per trattamenti analoghi (i loro racconti non sono stati giudicati sufficienti dal gip Tommasi Perna per un nuovo arresto, ma l’accusa resta), si aggiungono almeno altre due vittime. 

Si tratta di violenze su una ragazza italiana e su una di origini straniere su cui i pm già avrebbero molti elementi investigativi, ma agli atti c’è anche la vicenda di una lituana che sarebbe tornata in patria da Ibiza in condizioni fisiche molto precarie. 

Come ci sono più elementi sulla cessione di droga agli ospiti e su chi riforniva Genovese e sulla evasione fiscale che avrebbe fatto tra il 2018 e il 2019 con la holding Auliv, indagine per cui gli sono stati sequestrati 4,3 milioni. 

L’ultimo filone riguarda gli 8.000 euro che, poco prima di essere arrestato, l’ex imprenditore tentò di far arrivare alla prima vittima appena uscita dall’ospedale dopo gli abusi. La giovane rifiutò i soldi, ma il gesto potrebbe portare ad un’accusa di corruzione in atti giudiziari, dato che la ragazza era ed è il testimone chiave delle indagini. 

Il 45enne ha dichiarato di fronte al gup Valori che, quando era lucido, il suo «desiderio era quello di mettere a tacere pagando la persona, come se questo potesse avere effetto sulle vicende giuridiche», ma quando era drogato credeva che i soldi erano per i «proprietari» della giovane, che immaginava fosse una prostituta, prima che si vendicassero su di lui. Ma ammette: «Per evitare conseguenze, avrei pagato qualsiasi cifra, non posso nasconderlo». 

Sandro De Riccardis per “la Repubblica” l'8 luglio 2022.  

La schiavitù della droga, il rapporto con le donne, la paura di morire. Per Alberto Genovese ieri i pm Letizia Mannella, Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini hanno chiesto una condanna a otto anni (con lo sconto di un terzo della pena previsto per il rito abbreviato) e 80 mila euro di multa per due episodi di violenza ai danni di due ragazze. Il primo nel luglio 2020 a Villa Lolita in Spagna, il secondo tre mesi dopo nel suo attico milanese. Richiesta invece una pena a due anni e otto mesi per la sua ex, Sarah Borruso, solo per il secondo episodio.

Nella precedente udienza, sollecitato dal suo legale Luigi Isolabella, l'ex imprenditore ha parlato della sua lenta discesa agli inferi. La quantità di droga in casa «dipendeva dalla velocità con cui veniva finita sia da me, sia da tutto l'insieme di persone che venivano ad assumere sostanze. Quando si scendeva sotto una soglia, ne acquistavo per ritornare a quantitativi ingenti da conservare in casa». Un consumo sempre maggiore. «Prima la conservavo in una scatoletta rossa, i quantitativi erano modesti. Quando sono andato nell'attico la tenevo in cassaforte.

Poi ci sono stati gli ultimi mesi in cui i piatti erano semplicemente in giro 24 ore su 24. Non c'era più una fase in cui la mettevamo via, ma stava lì. Nelle intenzioni era per me. Nella realtà era immediatamente disponibile a chiunque entrasse in casa. C'era un gruppo di ospiti fissi, attorno al quale ruotavano altre persone più o meno occasionali, ma c'era un nucleo di almeno quindici persone che era due o tre volte a settimana da me per la droga».

Genovese si dice «contrario al Ghb (la droga dello stupro, ndr ) perché avevo la consapevolezza che si stava male appena mischiata con altre sostanze». Da lui invece «le persone stavano male dopo che assumevamo la sostanza per tre giorni o dopo che per cinque non si andava a dormire, dopo che c'era un mischione continuo di ogni genere di droga. Io quando andavo giù ero brutto. C'era cocaina, c'era ketamina, c'era 2C-B, c'era MD, c'era marijuana, si faceva uso di sostanze e si faceva il bagno in piscina.

La droga era nei piatti, sul muretto accanto alla scala, a bordo piscina. Anche in camera mia. () Tutti quegli incontri a casa mia erano incontri di tossicodipendenti che vivevano una sessualità priva del suo valore, in modo promiscuo, svalutante». Oggi Genovese considera l'arresto quasi una salvezza. 

«Sono stato arrestato a un pelo dalla morte - dice -. Il mese tra il sequestro dell'attico e l'arresto è stato di gran lunga quello in cui mi sono drogato di più. Se non mi avessero arrestato, sarebbe stato l'ultimo, ho veramente toccato il fondo». Intorno, una corte di persone attratte dalla sua ricchezza.

«Davo soldi alle persone, anche in contanti, anche se pagavo loro vacanze, viaggi, cene e tutto quanto rendesse loro possibile una vita molto al di sopra delle loro possibilità. Una volta ho dato dei soldi a un mio amico per il puro fatto che stavo contando delle banconote, le avevo tra le mani e gliel'ho allungate. Cercavo di illudermi di essere oggetto di affetti sinceri, ma vivevo l'angoscia profonda che mi usassero per il benessere che procuravo». 

Sulla violenza a Ibiza, Genovese ricorda che «fu un macello perché la ragazza ebbe una crisi compulsiva, iniziò ad agitarsi e io non l'avevo mai visto accadere. Poi ho scoperto in comunità che invece è un esito possibile dell'abuso di sostanze. Quando siamo riusciti a portarla fuori, siamo resistiti alla luce del sole credo due minuti, poi ci siamo riproiettati in camera. Abbiamo ricominciato a drogarci».

Da Ibiza va a Formentera. «Doveva essere una vacanza di relax e astinenza. Invece continuo a drogarmi abbondante anche a Formentera. Ci fu una notte in cui mi sentii male, () c'era anche mia madre. Fu uno dei momenti peggiori perché mia madre divenne più partecipe della mia dipendenza, e di questo provo vergogna». Solo di recente lui ha visto i video della violenza nel suo attico. «La prima volta fui fermato dagli psicologi, avevano avuto una crisi di pianto. Due anni dopo provo repulsione e disgusto per ciò che ero io e per come è stata ridotta quella ragazza». 

L'ex imprenditore del web accusato di due violenze sessuali. Alberto Genovese, chiesti 8 anni per il caso di “Terrazza Sentimento”: “Quadro di devastazione e degrado umano”. Vito Califano su Il Riformista il 7 Luglio 2022. 

Chiesta una condanna a otto anni di reclusione e 80mila euro di multa per Alberto Genovese, l’ex imprenditore del web imputato con l’accusa di aver rese incoscienti con mix di droghe due modelle e di aver abusato sessualmente di queste. Il caso del fondatore di Facile.it, imputato per violenza sessuale aggravata, detenzione e cessione di stupefacenti e lesioni, aveva tenuto banco sui media per settimane, uno scandalo che aveva preso il nome di “Terrazza Sentimento”, l’attico di lusso con vista sul Duomo di Milano di proprietà di Genovese dove si sarebbe consumata una delle due violenze al centro del processo.

A formulare la richiesta, nel processo abbreviato a porte chiuse davanti al gup Chiara Valori, il procuratore aggiunto di Milano, Letizia Mannella, e i pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini che hanno parlato di un “quadro di devastazione e degrado umano”. Le accuse riguardano due casi, due modelle: una di 18 anni, durante una festa il 10 ottobre 2020 nel suo attico Terrazza Sentimento con vista sul Duomo, l’altra di 23 anni ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente. La sentenza è prevista in arrivo a settembre.

Chiesti due anni e otto mesi invece per l’ex fidanzata dell’imprenditore Sarah Borruso. La donna è imputata per concorso nella violenza nell’isola spagnola, ha detto di essere stata innamorata e succube del suo fidanzato ma che non abusò in nessun modo della 23enne. “Abusavo di droghe, non controllavo più la realtà e ho capito solo dopo, riguardando quei video, che la ragazza aveva manifestato il suo dissenso”, aveva detto Genovese, interrogato nella scorsa udienza e piangendo alla fine, per cercare di giustificare il suo comportamento sulla 18enne nell’attico di lusso. Genovese era presente in aula, in questo periodo in una clinica per disintossicarsi.

La requisitoria è stata divisa in tre parti dai pm, con Mannella che ha introdotto le vicende, Stagnaro che ha parlato dei fatti specifici e Filippini del cosiddetto elemento soggettivo dei reati. L’imputato aveva sostenuto di non ricordare della notte dell’ottobre 2020, presso la Terrazza Sentimento, e di aver capito che la giovane donna le aveva chiesto di smettere solo dopo aver visto le immagini delle telecamere a circuito chiuso. L’imprenditore invece in quel momento aveva preso i “no” della modella come parte di una “contrattazione economica” tanto che bruciò, secondo la sua versione, soldi che le aveva dato. Le accuse per la violenza denunciata a Ibiza non sono supportate da filmati ma da testimonianze. Genovese aveva parlato di “rapporti consenzienti” ma anche di aver compreso che la ragazza stava molto male quella sera solo ora che è in comunità, riporta l’Ansa.

La difesa di Genovese si è basata sulla tesi del vizio di mente dovuto all’abuso cronico di droghe. “Al momento dei fatti, quantomeno grandemente scemata” la capacità di intendere e di volere dell’imputato, secondo un documento fornito agli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari da specialisti, perché “l’alterazione cognitiva dovuta all’abuso” avrebbe impedito di “discernere pienamente i confini tra il consenso iniziale” della 18enne che subì gli abusi e “il successivo venir meno del consenso”.

Le parti civili che interverranno nel pomeriggio e che assistono la 18enne hanno annunciato una memoria in cui i danni calcolati nei confronti della ragazza sono saliti da 1,5 milioni a quasi 2 milioni di euro. “Non può più fare la modella”, aveva già detto in passato, facendo riferimento a danni fisici e psichici. L’ex fondatore di start up digitali aveva offerto risarcimenti per un totale di circa 155mila euro alle due giovani, che sono stati rifiutati. I pm milanesi hanno, comunque, chiesto al giudice di concedere al 45enne le attenuanti generiche anche per il suo percorso riabilitativo, terapeutico e di recupero dalla tossicodipendenza, che sta portando avanti in una clinica in regime di domiciliari. “Mi spiace per ciò che ho fatto, ora voglio cambiare vita”, aveva detto nella scorsa udienza Genovese.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Processo Genovese, l'imprenditore: "Solo dopo ho capito che la ragazza non era consenziente". Il Tempo il 27 giugno 2022

Un lungo sfogo di pianto in aula, al termine di un lungo interrogatorio. Al fianco di Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver violentato due ragazze di 18 e 23 anni dopo aver dato loro un mix di droghe, ci sono i suoi avvocati, Luigi Isolabella e Davide Ferrari e la psicologa Chiara Pigni, che lo ha seguito nel suo percorso di recupero. Da 9 mesi è agli arresti domiciliari in una comunità a Cuveglio, in provincia di Varese, dove ha avuto modo di riflettere sugli anni di eccessi e sulla sua dipendenza dalla droga.

Della sua parabola Genovese ha parlato nel corso del processo a suo carico, celebrato con rito abbreviato, davanti al gup Chiara Valori. Fino al 2016, l’anno della sua ascesa, l’imprenditore non avrebbe mai toccato la cocaina o altre sostanze. Il successo, però, l’avrebbe travolto. Era passato dall’essere "un nerd" di talento ad essere a capo di un’azienda poi venduta - che fatturava decine e decine di milioni di euro. Un salto che, a suo dire, non avrebbe saputo gestire: avrebbe iniziato a bere molto e poi anche ad assumere cocaina e altre sostanze. Nell’ultimo periodo, prima dell’arresto novembre 2020, Genovese poi avrebbe "perso il contatto con la realtà". Anche 10 ottobre di 2 anni fa, nel corso di una festa a Terrazza Sentimento durante la quale è accusato di aver violentato una sua ospite appena 18enne, Genovese non si sarebbe accorto di essere andato troppo oltre. E non avrebbe capito che la ragazza non era consenziente. Stordita con un mix di cocaina e ketamina, la 18enne era rimasta per ore e ore chiusa nella stanza dell’imprenditore. L’ex re delle start up digitali, in aula, ha spiegato di aver realizzato quello che era successo solo "a posteriori", guardando i video delle telecamere di sorveglianza della casa. Filmati nei quali ha capito che la ragazza gli chiedeva di fermarsi. Durante la serata, invece, non avrebbe realizzato la gravità della situazione. Una linea che ripercorre la consulenza tecnica della difesa, firmata dagli psichiatri Pietro Pietrini e Giuseppe Sartori, i quali avevano sottolineato come al momento dei fatti "la capacità di intendere e volere" di Genovese fosse "quantomeno grandemente scemata".

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 28 giugno 2022.

Rinnega il se stesso schiavo della droga e giura che oggi non ha nulla a che fare con la persona accusata di aver drogato due ragazze giovanissime per abusare di loro a Terrazza sentimento, dove erano state attirate dalla corte dei miracoli senza scrupoli che viveva alle sue spalle. 

La via di uscita che Alberto Genovese tenta di guadagnare nel processo in cui è imputato di violenza sessuale, anche di gruppo, e cessione di droga, è quella delineata dai suoi consulenti: la droga e la sindrome di Asperger avevano fortemente ridotto la sua «capacità di intendere e volere».

Se il giudice Chiara Valori dovesse accogliere questa tesi, in caso di condanna la pena per l'imprenditore 52 enne diventato multimilionario con le startup, già ridotta dal rito abbreviato, verrebbe ridimensionata ulteriormente. 

Dei due episodi di cui risponde, Genovese punta principalmente a ridimensionare il primo, quello della modella di 18 anni che ad ottobre 2020, dopo 20 ore di violenze selvagge, fuggì seminuda dallo splendido attico con piscina a due passi dal Duomo di Milano facendolo arrestare un mese dopo.

Per superare le prove su violenze, no della ragazza, droga che era costretta ad assumere certificate dalle telecamere di sorveglianza installate con cura in camera da letto, rispondendo alla domanda del legale della vittima, l'avvocato Luigi Liguori, l'uomo afferma di essersi reso conto solo quando è uscito dalla dipendenza dalla droga e ha visionato i filmati agli atti dell'inchiesta dei pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini e dell'aggiunto Letizia Mannella che la ragazza «non era d'accordo» a fare sesso estremo e che non avevano concordato una parola d'ordine per stoppare il gioco erotico.

Lui, in ogni caso, si sentiva tranquillo perché convinto che la modella, che era d'accordo a fare sesso per soldi, fosse una prostituta. Versione smentita sdegnosamente dalla 18 enne che lo accusa di averla drogata, legata e seviziata causandole ferite che per sempre le impediranno di lavorare. 

Lucido e razionale, di tanto in tanto l'imputato prorompe nel pianto ripercorrendo la sua vita prima, durante e dopo la droga. Al suo fianco c'è la sorella che, ammessa in aula, lo consola tenendolo per mano e accarezzandolo amorevolmente. Genovese si difende sostenendo che le ragazze con cui faceva sesso estremo erano consenzienti, compresa la 23 enne che è accusato di aver drogato e violentato a Villa Lolita di Ibiza con la partecipazione della sua fidanzata di allora, Sarah Borruso, 26 anni, imputata con lui di violenza sessuale di gruppo.

Drammatiche le sue dichiarazioni spontanee. Ha detto che era innamorata di Genovese, credeva in un futuro con lui e voleva farlo uscire dal tunnel della droga. Non ci è riuscita lasciandosi invece trascinare in rapporti sessuali a tre che non le piacevano ma che accettava per compiacere colui che, nonostante tutto, si illudeva fosse il suo uomo. Alberto Genovese vuole cambiare vita, anzi dice di averlo già fatto da quando è ai domiciliari in una clinica dove si cura dalla dipendenza che, dicono i suoi consulenti, gli ha ridotto la corteccia cerebrale compromettendo la sua capacità di valutare la realtà. «Mi sono reso conto solo ora di quanta falsità avessi intorno», afferma in aula. 

Alberto Genovese in aula: «Droga alle mie feste? Le ragazze sapevano ed erano consenzienti». Poi scoppia in lacrime. Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.

La difesa dell’ex imprenditore: a «Villa Lolita» a Ibiza la 23enne era d’accordo nell’assumere droga. «Soltanto ora che sono in comunità di recupero ora so quali possano essere gli effetti, anche convulsioni»

Ha continuato a difendersi, davanti al gup Chiara Valori, Alberto Genovese, l’ex fondatore di importanti start up digitali a processo con rito abbreviato per due casi di violenze sessuali con uso di droghe tra Milano e Ibiza, nel 2020. E, al termine dell’udienza, Genovese ha avuto una lunga crisi di pianto in aula.

In particolare, l’ex imprenditore ha parlato di quanto avvenne nell’isola spagnola nel luglio di due anni fa, nella sua residenza «Villa Lolita», dove una modella di 23 anni avrebbe subito abusi sessuali. Su questo caso, il primo che è stato affrontato, Genovese ha spiegato che lui quel giorno non ha percepito alcun rifiuto e che comunque la ragazza non ha manifestato, a suo dire, dissenso su rapporti sessuali con utilizzo di massicce dosi di cocaina e ketamina. L’ex imprenditore sostiene che solo ora, che è in una comunità di recupero per tossicodipendenti, ha compreso quali possano essere gli effetti dell’abuso di droghe, comprese le convulsioni. La 23enne, infatti, era stata molto male quella notte nella villa di Ibiza.

Per la presunta violenza nell’isola è imputata anche l’ex fidanzata di Genovese, Sarah Borruso. Il 45enne ha sostenuto che era lui a chiederle di prendere parte a rapporti anche con altre donne. Genovese ha ripercorso, in sostanza, la linea difensiva già resa nei verbali nel corso delle indagini, dicendo che fino al 2016 non aveva mai fatto uso di droghe e che sul suo cambio di stile di vita ha pesato il successo: si è trasformato, in pratica, da un «nerd» in un imprenditore che incassava decine e decine di milioni di euro. A suo dire, non sarebbe riuscito a gestire questa fase, nemmeno le relazioni sociali e sentimentali, e avrebbe iniziato prima a bere molto e poi a drogarsi. Ha anche riferito, stando a quanto si è saputo, che alle feste nelle sue residenze, tra cui l’ormai nota Terrazza Sentimento (ora messa in vendita) tutti andavano ben sapendo che si facesse uso di droghe e che il tema fosse «cocaina e sesso», comprese le ragazze.

Per cercare di difendersi dall’accusa di aver violentato una 18enne nell’attico di lusso Terrazza Sentimento nell’ottobre di due anni fa, Genovese ha sostenuto che in quella fase della sua vita aveva perso totalmente il controllo della realtà per l’abuso di sostanze, soprattutto cocaina, e che non era quindi in grado di percepire il dissenso della ragazza. Il tutto in linea con la consulenza difensiva in cui si parla di un vizio di mente. Riguardando i video delle telecamere a circuito chiuso della sua camera, agli atti dell’indagine, Genovese ha detto di aver capito e solo «a posteriori», da quanto si è saputo, che la ragazza quella notte aveva manifestato il suo rifiuto. In più fasi del suo esame in aula, durato diverse ore, l’ex fondatore di start up digitali si è detto dispiaciuto per i comportamenti che ha tenuto, quando era schiavo delle droghe, compreso, dunque, ciò che ha fatto quella notte alla 18enne. Ora spera, come ha già ribadito più volte e anche oggi davanti al giudice, di riuscire a cambiare vita. E in chiusura di udienza è scoppiato in pianto.

"Non controllavo la realtà". E Genovese scoppia a piangere davanti al giudice. Francesca Galici il 27 Giugno 2022 su Il Giornale.

Prosegue il processo sui due casi di stupro di cui è accusato Alberto Genovese: l'ex imprenditore impura all'abuso di sostanze il suo comportamento.

Alberto Genovese si è presentato in aula a Milano per il processo a porte chiuse che lo vede imputato con l'accusa di violenza sessuale. Sono due gli eventi per i quali l'ex imprenditore del web è finito sotto processo, uno accaduto a Milano e l'altro a Ibiza ai danni di due modelle, stordite con la droga prima degli abusi. I fatti a lui imputati si sono svolti tra luglio e ottobre del 2020 e sono in parte testimoniati dai video che sono stati acquisiti agli atti.

"Abusavo di droghe, non controllavo più la realtà e ho capito solo dopo, riguardando quei video, che la ragazza aveva manifestato il suo dissenso", ha dichiarato tra le lacrime a grandi linee davanti al gup, Chiara Valori, per trovare una giustificazione al suo comportamento sulla 18enne abusata nell'attico di Milano frequentato anche dai vip. Le sue parole, come prevedibile, sono in linea con una consulenza difensiva che ha parlato di un vizio di mente dovuto all'uso massiccio di stupefacenti. Oggi, Alberto Genovese imputa al conumo di droghe i suoi comportamenti e dichiara di volersi allontanare da quello stile di vita che ha contraddistinto la sua esistenza fino a quando non è stato arrestato: "Mi spiace per ciò che ho fatto, ora voglio cambiare vita".

I suoi party erano quelli più ambiti nella Milano by night influente. Le modelle facevano a gara per ricevere gli inviti alle feste di Terrazza Sentimento, dove sapevano che avrebbero potuto incontrare personaggi capaci di aiutarle a diventare famose e a guadagnare molti soldi. E tutti o, per lo meno, la maggior parte degli invitati che frequentava quei party, secondo quanto ha sostenuto Genovese, erano ben consapevoli che il tema fosse "cocaina e sesso".

"Stuprata tutta la notte" quei video e i diari da Terrazza Sentimento

La psicologa Chiara Pigni, consulente dei difensori Luigi Isolabella e Davide Ferrari, è stata sentita come teste e ha dichiarato che i disturbi della personalità di Genovese, che hanno comportato per lui difficoltà nelle relazioni sociali e affettive, lo hanno portato a rifugiarsi prima nell'alcol e poi nella cocaina. Agli atti è stata inserita una relazione difensiva, firmata dai professori Pietrini e Sartori, nella quale si sostiene che la "capacità di intendere e di volere" di Genovese, un "nerd" diventato "mister 200 milioni di euro", era "al momento dei fatti, quantomeno grandemente scemata". Il motivo va ricercato, stando alla consulente nell'abuso di sostanze stupefacenti, che gli hanno "impedito" di "discernere pienamente i confini tra il consenso iniziale" della 18enne, che fu violentata per ore il 10 ottobre 2020, e "il successivo venir meno". Un impedimento al punto tale che l'imputato non ha saputo "comprendere quando fosse il momento opportuno di fermarsi".

L'ex imprenditore continua a dichiarare di non ricordare niente di quella notte, i cui ricordi sono stati ricostruiti attraverso i video delle telecamere. Lui in quel momento avrebbe percepito i suoi "no" come parte di una "contrattazione economica", tanto che bruciò, secondo la sua versione, soldi che le aveva dato. Sul caso di Ibiza (ci sono testimonianze e non immagini), l'ex fondatore di start up digitali si è difeso parlando di "rapporti consenzienti", ma dicendo anche di aver compreso che lei stava molto male quella sera solo ora che è in comunità, ai domiciliari.

Alberto Genovese in lacrime in aula: “Perso contatto con la realtà ma tutte sapevano di cocaina e sesso”. Redazione su Il Riformista il 27 Giugno 2022 

“Abusavo di droghe, non controllavo più la realtà e ho capito solo dopo, riguardando quei video, che la ragazza aveva manifestato il suo dissenso“. Poi la precisazione su quei party dove tutti quelli che ci andavano erano consapevoli che il tema principale fosse “cocaina e sesso“. Piange a dirotto in aula Alberto Genovese, l’imprenditore accusato di aver violentato due ragazze di 18 e 23 anni dopo aver dato loro un mix di droghe nel corso di feste tra Milano e Ibiza.

Nell’interrogatorio davanti al gup Chiara Valori ha provato a giustificare il suo comportamento sulla 18enne nell’attico di lusso Terrazza Sentimento, in linea con una consulenza difensiva che ha parlato di un vizio di mente dovuto all’uso massiccio di stupefacenti. “Mi spiace per ciò che ho fatto, ora voglio cambiare vita”, ha spiegato mostrando almeno a parole pentimento per quella fase della sua vita che ha causato sofferenze alle ragazze che frequentavano le sue feste.

Al fianco Genovese, gli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari e la psicologa Chiara Pigni, che lo ha seguito nel suo percorso di recupero. Da 9 mesi è agli arresti domiciliari in una comunità a Cuveglio, in provincia di Varese, dove ha avuto modo di riflettere sugli anni di eccessi e sulla dipendenza dalla droga.

Fino al 2016, l’anno della sua ascesa, l’imprenditore non avrebbe mai toccato la cocaina o altre sostanze. Il successo, però, l’avrebbe travolto. Era passato dall’essere “un nerd” di talento a capo dell’azienda Facile.it – poi venduta – che fatturava decine e decine di milioni di euro, alla notorietà improvvisa che non avrebbe poi saputo gestire.

Nell’ultimo periodo, prima dell’arresto novembre 2020, Genovese poi avrebbe “perso il contatto con la realtà” che l’ha portato poi a non realizzare che la ragazza vittime delle violenze non era consenziente. Stordita con un mix di cocaina e ketamina, la 18enne era rimasta per ore e ore chiusa nella stanza dell’imprenditore. Lo stesso vale per la vacanza ad Ibiza, nel luglio di 2 anni fa, nel corso della quale Genovese è accusato di aver abusato di una sua ospite 23enne insieme alla ex fidanzata Sarah Borruso. In quel caso, per l’ex re delle start up la ragazza era “consenziente” a fare sesso con la coppia. E aveva assunto volontariamente massicce dosi di cocaina e ketamina che l’avevano fatta stare molto male, fino alle convulsioni.

Mentre l’ex fidanzata, imputata in concorso per questa vicenda di volenze, ha detto che era molto innamorata, praticamente succube di lui, ma che lei non abuso’ in alcun modo della 23enne. Il 7 luglio toccherà all’aggiunto Mannella e ai pm Stagnaro e Filippini e alle parti civili, tra cui l’avvocato Luigi Liguori (per la vittima 18enne) e le associazioni Svs (legale Andrea De Vincentis) e Bon’t worry (avvocato Caterina Biafora). Il 18 luglio l’intervento della difesa e il 19 settembre la sentenza.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 3 giugno 2022.

Non si può leggere che il sadico Alberto Genovese «secondo l'accusa avrebbe violentato una modella»: l'ha violentata e basta, non serve il condizionale. Ci sono 19 telecamere (per 20 ore totali di registrazione ciascuna, un record mondiale) che hanno assodato stupri, crudeltà, cessione di droga e lesioni orrende.

Il processo a Genovese, per farla breve - anzi, abbreviata - sta diventando una barzelletta sopra la quale aleggiano i milioni che lui pagherà per sfangarla alla meglio, e a lei va bene. Intanto il rito abbreviato: sconto di un terzo e udienza a porte chiuse, una giustizia privata.

Il rito prevede che l'imputato non possa presentare prove a sua discolpa, e che ci si basi solo sulle carte del pm: invece stanno infarcendo il processo di cazzate, di «dipendenza da cocaina» che non esiste clinicamente (chiamino un perito: spiegherà che esistono solo il «withdrawal», crisi di astinenza che dura una settimana o poco più, e il disturbo da «extinction», la voglia solo psicologica di riprenderla).

Apprendiamo della «incapacità di intendere e di volere» di Genovese (era lucidissimo, dissero dapprima i pm) e di «alterazioni cognitive» che avrebbero pregiudicato «il consenso iniziale» di lei: che non c'è mai stato, perché l'hanno portata in camera incosciente. 

Dice il qualunquista: chi ha i soldi la fa sempre franca. Questa volta ha ragione. Stanno solo trattando. 

Alberto Genovese e gli schiamazzi alle feste di Terrazza Sentimento: risarciti quattro residenti nel condominio. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022.

Genovese era imputato anche al processo per disturbo: la controversia condominiale chiusa anche con un’oblazione da 150 euro. Rumore durante i party e immondizia tra il 2017 e il 2020. 

Che torni a vivere nel lussuoso attico a due passi dal Duomo teatro delle feste a base di alcol e droga e delle violenze sessuali che lo hanno portato in carcere è da escluderlo, tant’è che lo ha messo in vendita (valore tra 2 e 3 milioni), ma è anche per questo, oltre al fatto di aver risarcito quattro condomini che lo avevano denunciato perché esasperati dagli schiamazzi che arrivavano dall’abitazione anche a notte fonda, che Alberto Genovese ha potuto chiudere con un’oblazione di circa 150 euro il processo in cui era imputato di disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone.

Le feste, la droga

Anni di feste ed eventi sfrenati in cui la droga girava nei piatti a disposizione degli ospiti organizzati «a partire dalle ore 20 fino a notte inoltrata», come si legge nell’imputazione formulata dal pm Letizia Mocciaro, di gente che andava e veniva per le scale incurante del baccano lasciandosi dietro una scia di bottiglie vuote e di sporcizia, avevano costretto gli inquilini a chiamare le forze dell’ordine per imporre all’imprenditore di abbassare il volume. I ricorsi all’amministratore del condominio e le telefonate dirette non avevano ottenuto alcun risultato con Genovese che pareva non dare molto peso alle proteste in un periodo in cui, poi si scoprirà, il suo principale interesse era la droga. Fatti accaduti a partire dal maggio del 2017 e terminati nella notte tra il 10 e l’11 ottobre del 2020 quando una modella di 18 anni fugge dall’abitazione dopo una ventina di ore di violenze agghiaccianti e in strada ferma una volante della Polizia. Poco meno di un mese dopo, Genovese viene arrestato.

I risarcimenti

Il processo per gli schiamazzi si è chiuso di fronte al giudice Mauro Gallina con l’oblazione e dopo che quattro condomini sono stati risarciti da Alberto Genovese che, così si scrolla di dosso un procedimento penale mentre sta affrontando il processo più delicato per il suo futuro, quello che è in corso per le violenze a Terrazza sentimento mentre è agli arresti domiciliari in una casa di cura dove sta cercando di sconfiggere i fantasmi che ha dentro e la dipendenza dalla cocaina, che gli è costata anche il coinvolgimento marginale, per un centinaio di grammi acquistati nel 2019, nell’indagine che giovedì ha portato ad una trentina di arresti. 

La cocaina e la galleria d’arte ad Amsterdam: 31 arresti. Sgominata banda internazionale: riciclavano i proventi del traffico di stupefacenti comprando opere d’arte. Il traffico di droga Italia-Olanda e la street art per «lavare» i soldi: «Ci prendiamo tutto, città per città». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 13 Maggio 2022. Al vertice dell’organizzazione il latitante Andrea Deiana titolare di una galleria d’arte ad Amsterdam. Struttura militare, «colonnelli» a Milano, magazzini, chat criptate e legami con i clan pugliesi e la camorra. Indagato anche Alberto Genovese, l’imprenditore arrestato per violenze sessuali e droga a Terrazza Sentimento.

«Cento li porto adesso». Nel vano nascosto dell’auto c’è un etto di ketamina. Sul navigatore, il corriere imposta «piazza Maria Beltrade 1». Ha anche il codice numerico da inserire nel citofono. È il 12 novembre 2019. L’uomo che gli apre la porta balzerà alle cronache un anno dopo. A ricevere la consegna nella sua «Terrazza Sentimento» in pieno centro a Milano è Alberto Genovese, ex «mago delle startup», oggi ai domiciliari in una clinica per disintossicarsi e accusato di violenze sessuali ai danni di una 18enne e di una 23enne, sempre dopo averle stordite con un mix di droghe. L’imprenditore, che è indagato, era uno dei clienti di un’organizzazione che aveva quasi il monopolio della ketamina nel Nord Italia e che è stata smantellata dal lavoro della squadra mobile milanese, guidata da Marco Calì, coordinata dai pm Silvia Bonardi, Alessandra Dolci, Cecilia Vassena della Dda di Milano. Sono 31 le misure cautelari, di cui 21 in carcere, tre ai domiciliari e sette obblighi di firma. Al vertice c’era Andrea Deiana, 41 anni, piccoli precedenti ma considerato un broker internazionale della droga con base in Olanda. È sfuggito alla cattura, è ancora ricercato dalla polizia. Un broker con il pallino per la musica e soprattutto per la street art, tanto da aprire la galleria «Art3035Gallery», nel cuore di Amsterdam, per ripulire suoi i traffici.

Le chat criptate e il nickname Banksy.

Nelle chat criptate si faceva chiamare «Banksy», come il celebre writer britannico senza volto. Era lui a rifornire i suoi «colonnelli» milanesi, Angelo Di Monte e Manuel Zucca che avevano come schermo un ristorante a Peschiera Borromeo. Ma i contatti criminali, e gli affari, arrivavano ovunque. Gli bastavano un paio di telefoni criptati per movimentare grosse partite di cocaina, hashish, ketamina. Nella banda anche un ex calciatore delle giovanili di una squadra di Serie A attivo sulla zona dell’Astigiano.

«Dobbiamo riempire l’Italia di fumo»

Deiana sognava in grande: «Ci dobbiamo prendere tutto noi. Città per città. Dobbiamo riempire l’Italia di fumo e tutti devono comprare da noi», scriveva in stile Pietro Savastano della serie Gomorra a Vincenzo Amato, uomo del clan Coluccia di Galatina (Lecce) oggi latitante, con cui s’è scambiato 35mila messaggi. E sempre a lui confidava la sua intuizione: usare la sua galleria olandese, finita ora sotto sequestro, come «lavatrice». Con le opere d’arte «si puliscono soldi senza pagare spese, anzi guadagnando». Il trucco erano le vendite gonfiate di opere di artisti sconosciuti, o di multipli, poster e litografie, finite anche in una galleria milanese perquisita l’altro giorno nella maxi operazione che, grazie al supporto di Europol, del Servizio centrale operativo della Direzione centrale anticrimine, della Direzione centrale servizi antidroga, ha toccato anche Lituania, Spagna, Olanda. Bastava trovare privati e società compiacenti, come un paio d’imprese di logistica, una del Milanese, l’altra a Como, pronte a trattare quadri sopravvalutati a fronte di una commissione del 2%.

I legami con la Camorra.

Tra i suoi contatti di peso c’è anche l’ex latitante Raffaele Imperiale, altro «broker» della droga con legami con la Camorra, di recente estradato dagli Emirati Arabi. A lui lo legava non solo la comune passione per l’arte (il soprannome di Imperiale è il «boss dei Van Gogh») ma un’antica amicizia che lo aveva portato ad aiutare il «collega» durante la lunga latitanza: «Vivevamo nella stessa casa. A Kiev la guerra era finita da tre anni, era pericolosa, giravamo armati e con le guardie del corpo», scrive in una chat in cui racconta di aver accompagnato Imperiale al jet privato che lo porterà poi a Dubai. Con il suo vecchio amico sarebbe riuscito anche a far arrivare a Milano grossi carichi, come «617 chili di hashish dalla Spagna», immaginando però di crescere ancora: «Prossima 1000 a Roma».

L’organizzazione militare.

Nonostante i sequestri (36 chili di coca, 87 di hashish, 9 di marijuana, 32 di ketamina), eseguiti dal settembre 2019, l’attività proseguiva a ritmo frenetico. E a Milano la sua rete prevedeva un’organizzazione quasi militare che si giostrava immagazzinando i carichi in box e case sicure. I corrieri non dovevano conoscersi tra loro. Le comunicazioni solo con telefoni criptati (nickname rubati a Star Wars, «Obi Wan Kenobi», o a un rivoluzionario anarchico ucraino, «Nestor»). E avevano l’ossessione per le «cimici»: le macchine venivano bonificate quasi ogni giorno. In caso di microspie o controlli della polizia facevano sparire subito le auto.

Gianluigi Nuzzi per “Specchio – La Stampa” il 16 maggio 2022.

Nudo, Alberto Genovese aziona la telecamera del suo iPhone che riprende una ragazza prona sul letto, le mani legate dietro la schiena da un paio di manette mentre gli sta praticando un rapporto orale. 

A Terrazza Sentimento è il 9 aprile 2019, la preda è Lorena detta Lori, una splendida e magrissima diciottenne dai grandi occhi nocciola, studentessa e modella che si ritrova nella camera che l'imprenditore predilige per i rapporti sadomaso.

La caccia era iniziata a gennaio, quando Genovese aveva visto e subito desiderato quella ragazza di ventitré anni più giovane ritratta nella foto mandata dall'amico Johnny, pr della Milano di notte. 

Johnny: Ti passo una cucciola... Maggiorenne da giorni... Conosciuta ieri... A che ora da te? Serve qualcosa? E non mi rispondere la figa!

Genovese: Lei. Da ora sono libero.

Johnny: Arriviamo per le 6.30 lì. Così convochiamo.

Genovese: Top. Droga e alcol ne ho, manca la gnagna...

Johnny: Tu basta che apri il cellulare e cade dal cielo... è in Puglia... Salvati il contatto però è proprio il tuo genere...

Genovese: Da chiavare sì...

Johnny: Stra plasmabile, numero uno anche di carattere, è molto piccola di testa, è giusta per te. 

L'eccitazione di Genovese cresce a dismisura nei giorni di vigilia, tanto che il 5 aprile, tronfio per l'obiettivo ormai centrato, gira una foto della splendida Lorena all'amico Frank: «Questa è la prossima, limonata tutto il tempo». 

Del resto, la giovane età è una calamita irresistibile; ci scherza persino con gli amici: «In effetti, basta uscire con piccoline che ancora non hanno fatto la terza elementare come età, per me ci siamo anche...». 

E così il 9 aprile Alberto accompagna Lorena in camera, la telecamera è pronta per un filmato che andrà ad aggiungersi a quelli già custoditi nell'imponente archivio della sua collezione privata.

La sua ossessione è infatti quella di riprendere e fotografare i riti che compie sulle ragazze per eccitarsi nel rivedersi e, anche, condividere le scene con gli amici più stretti. 

Una volta arrestato, il 7 novembre 2020, i tecnici della polizia scientifica violeranno la memoria del suo telefonino per rimanere senza parole.

Conteranno 10.739 video e ben 498.906 immagini. In particolare, tra il luglio del 2020 e il giorno del suo fermo trovano 46.324 scatti e 3846 filmati.

Siamo a febbraio del 2021 quando gli inquirenti si calano negli abissi di quel mondo, così scintillante negli affari e nell'apparire e così brutale nelle relazioni e nelle ritualità sessuali. In questura, visionando scatti, chat e filmati, un investigatore ripete un vecchio proverbio: «Finché possiamo dire questo è il peggio, vuol dire che il peggio ancora può venire».

Ha ragione. Se sull'aspetto giudiziario è doveroso attendere l'esito dei procedimenti, è anche vero che la Procura di Milano dal 25 gennaio 2021 ha allargato l'indagine dalla violenza su Francesca alle possibili violenze contro altre sei ragazze. 

Lorena è una di loro. Giorgia Pagano e Martina Dolcetto, le investigatrici della squadra mobile di Milano che analizzano i filmati di Terrazza Sentimento, sono uscite all'alba dalle loro case e già sono di fronte al pc con le prime immagini del video del 9 aprile.

Notano subito l'assenza d'interazione tra Lorena e Genovese. «La partecipazione all'amplesso è passiva» scrivono le agenti nella loro relazione, «la ragazza pratica il rapporto orale a occhi chiusi, senza proferire né lamento né parole di dissenso, subendo così ogni iniziativa dallo stesso». 

Lorena, bloccata dalle manette, intontita e rallentata dagli stupefacenti, sembra attendere il suo destino. Genovese appoggia il telefonino a un paio di metri di distanza perché riprenda il rapporto orale, poi ritorna alla preda inerme, la orienta e la guida nelle azioni per soddisfare i propri desideri.

Quindi, con la telecamera del telefono ora indugia sui dettagli fisici della diciottenne ora sugli strumenti del supplizio, come quel «frustino di colore nero, probabilmente utilizzato durante l'atto».

Questo primo brevissimo video si consuma in pochi minuti e, in fondo, assomiglia ai tanti girati da coppie che prediligono il sesso estremo. Ma siamo solo all'inizio di quell'incontro. Le agenti si avviano a esaminare il video successivo, questa volta più lungo. L'iPhone è sul comodino dal quale riprende il letto matrimoniale dove Lorena è a cavalcioni sopra Genovese. 

«Ferma! Ferma, torna indietro» chiede all'improvviso l'agente alla collega. «Ecco, qui, aspetta, ingrandisci». L'immagine si allarga su un dettaglio del corpo della giovane che viene cerchiato in rosso con il cursore: «Si nota la presenza di un livido sulla coscia sinistra della ragazza che si sta mettendo inginocchiata sopra Genovese il quale è appoggiato con la schiena sulla testiera del letto».

Un primo livido: sesso consensuale o violenza su una ragazza pesantemente drogata, incapace di reagire? Lui certo nega e decideranno i magistrati, ma un inquirente che ha lavorato per oltre un anno sul suo caso mi confida: «Il contenuto di file fotografici e video documenta in maniera inequivoca i rapporti sessuali e la loro natura estrema accompagnati dall'uso di sostanza stupefacente, la quale potrebbe aver annebbiato i ricordi della vittima.

Quest'ultima è inquadrata in più occasioni con lo sguardo assente, oppure sofferente per le pratiche sessuali che è stata costretta a subire; in molte occasioni è ammanettata e si vedono lividi e segni sul corpo, oltre a lacrimazioni in concomitanza degli atti sessuali». 

Dopo quel primo rapporto, Genovese è soddisfatto. L'amico Johnny, che gli ha procurato il contatto, gli manda un messaggio: «Non hai ancora liberato la piccolina?». E lui: «Liberata alle 23». L'amico fa due conti e risponde: «Dai ci sta dopo 30 ore» e Genovese di rimando: «Minchia ha 18 anni».

E poi con Frank.

Frank: Mi hanno detto che hai chiavato il missile, è vero?

Genovese: Yes... minchia fratello l'ho sfondata... ma poi come vengono bene i video...

Frank: Fatti fidanzato.

Genovese: Quando una ha una faccia così bella... col cazzo in bocca è esteticamente pazzesco.

In questura, dopo un caffè alla macchinetta, le agenti Giorgia e Martina tornano così al computer e decidono di studiare meglio i video di quei giorni.

Drogata e umiliata? Ma ha inchiodato Alberto Genovese: la rivelazione sulla modella, quella notte a Milano...Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.

Di seguito, alcuni stralci di un capitolo di "I predatori (tra noi) - Soldi, droga, stupri: la deriva barbarica degli italiani", il nuovo libro di Gianluigi Nuzzi, edito da Rizzoli. Nei brani riportati, la storia di Alberto Genovese, l'imprenditore accusato di violenze sessuali alcune delle quali perpetrate nella sua abitazione milanese ribattezzata "Terrazza sentimento", e Ludovica, una giovane modella che è finita a far parte del suo giro caratterizzato da sesso estremo e droga. (...)

Genovese era rimasto incantato dalla luminosa bellezza della studentessa, con campagne pubblicitarie e spot per importanti marchi della moda già all'attivo. Da maggio a ottobre del 2017 aveva teso la sua ragnatela, studiato la personalità, individuato la fragilità centrale: Ludovica è a Milano, giovane e sola, cerca punti di riferimento, e un uomo più grande, con illimitate disponibilità finanziarie può far breccia. Così Genovese la introduce nel suo mondo di eccessi, cene stellate, abiti di lusso, feste lunghe ventiquattr' ore, le dà progressiva importanza, la fa sentire preziosa, la coinvolge in viaggi uno più affascinante dell'altro, tra Stati Uniti, Grecia e Ibiza. La ragazza pensa sia amore e i due si fidanzano. (...)

Ludovica entra così nel mondo di Terrazza Sentimento, con Genovese che la inizia alle sue parafilie, ai rapporti di gruppo e violenti, e lei non si sottrae: «Ho ancora i lividi sul culetto... comunque sogni d'oro», e ancora: «Amore da quando facciamo gli afterelli sono diventata immune al dolore, la depilazione è una piccola tortura cinese». Partecipa con piacere ai rapporti con Alberto e un'altra ragazza, soprannominata «la Bionda», appena più grande, classe 1995. (...) In apparenza, Alberto e Ludovica sono una coppia ricca e dannata. Lei è sua complice nel sesso, nella mondanità e nella droga. Li ritroviamo a Los Angeles nell'estate del 2018, quando Genovese mette in contatto Ludovica con il pusher «Bag Man Pizza» e lei, tutta soddisfatta, dopo gli acquisti scrive all'amato di aver preso «13 coc e 42 md», dove probabilmente intende 13 grammi di cocaina e 42 pastiglie di MDMA, ovvero di ecstasy. (...) In parallelo, proprio in quei giorni, Genovese inizia la storia con Sarah Borruso, che potrebbe scalzare Ludovica dal ruolo di fidanzata ufficiale. In realtà, Genovese sta costruendo un autentico harem, un alveare con tante api ma nessuna regina, un cerchio magico. 

Le contendenti entrano in competizione, tra gelosie, rancori, tensioni e dispetti, alimentando così la parte narcisa del predatore. Al di là dei frequenti rapporti occasionali con ragazze che entrano ed escono da quello che Genovese chiama il «circo», l'arrivo di Sarah condiziona il rapporto con Ludovica, che sembra logorarsi. A marzo del 2019 arriva la prima violenza, una brutalità che sconvolge: Durante un rapporto sessuale ha avuto uno scatto d'ira perché io gli continuavo a ripetere che non avevo nessuna relazione con qualcuno e che doveva fidarsi perché lo amavo. Alberto ha iniziato a darmi dei pugni sulla schiena tanto da lasciarmi dei lividi... in lacrime gli ho urlato di smetterla e che me ne sarei andata via di casa... lui poi ha smesso, si è avvicinato a me, dandomi dei baci per calmarmi. (...) Ludovica è comunque collocata nel cerchio magico dell'ecosistema di re Alberto, l'esclusivo gruppo di donne alle quali erano garantiti incredibili benefit. Vacanze su misura, spesate in tutto, viaggi esclusivi con jet privati per raggiungere mete da sogno: Baleari, l'isola di Mykonos in Grecia, i festival psichedelici nel deserto del Nevada, la movida di Los Angeles, New York, Londra, Parigi, Tulum, Istanbul, Capri e la Costa Smeralda. Per i soggiorni Genovese sceglieva solo dimore incantate con piscina, spesso altri edifici vicini per gli ospiti, meglio se in località isolate, in modo da non suscitare, durante i party a base di musica techno, alcol e droga, le ire dei vicini infastiditi e magari qualche controllo. (...) 

Ogni beneficiata aveva anche a disposizione una carta di credito. Infatti sui conti correnti Fineco e Crédit Agricole di Genovese venivano addebitati i resoconti di una dozzina tra American Express, Fineco e Visa: dalle quattro gold (in uso a lui stesso, alla cugina, all'autista e alla solerte e fida segretaria) ad alcune prepagate, come quelle perla domestica Sandra e appunto Ludovica, fino alla carta a uso personale per Sarah Borruso con 5000 euro di plafond mensile. Alle donne arrivavano anche bonifici bancari. (...) La sorprendente scoperta di fine aprile dell'ammanco. Ludovica l'ha tradito. Ha speso non 130.000 euro come all'inizio l'accusava Genovese, ma comunque 93.000 euro in vestiti e scarpe di marca senza dire niente a nessuno.

(...) Nessuno aveva mai avuto l'ardire di prendere più di quanto offerto, di saccheggiare i conti del predatore. 

Alberto si confida con Sarah, che reagisce male, è livida di rabbia. Un paio di settimane dopo Genovese - secondo la ricostruzione degli inquirenti - raggiunge Ludovica a casa sua, le chiede di scendere e la porta nel proprio appartamento. Quindi inizia a offrirle droga, tanto che poco dopo la giovane studentessa sarà già «messa male», stando alla valutazione che proprio Genovese comunica a Sarah che si informa dello stato di salute della ragazza. (...) È tardo pomeriggio, sono le 18.28, Genovese è nudo e osserva senza piacere il corpo magrissimo, abbandonato, della ragazza che quasi non si muove. Ma almeno sente, percepisce qualcosa? Chissà. Il predatore vuole iniziare il suo rito sadomaso. (...) Deve insistere con la complice delle sue ossessioni, Sarah. Deve coinvolgerla per forza. Lei è vicina, a poche decine di metri, nell'attico con l'insegna «Sentimento» sempre accesa. Con la mano si allunga sino al telefonino, apre WhatsApp, rivolge aSarah parole suadenti: «Allora vieni, hai fatto la righina? Porta le manette. Dai vieni...». Sarah tentenna, non vuole raggiungerlo ma nemmeno desidera che Alberto allenti la presa sulla giovane (...) «Se vengo sono libera di decidere se andarmene?... Cosa devo portare?». Ancora una volta, il predatore ha centrato l'obiettivo. Voleva Sarah e lei ha ceduto. Certo, ha sempre voluto che Sarah facesse sesso a tre, ma stavolta è diverso, perché prendersi Ludovica insieme rappresenta una vittoria doppia: la rivalsa per quelle spese pazze, ma anche una vittoria su Sarah, indotta a un triangolo con un'ex fidanzata come Ludovica. (...) Ottenuto l'assenso, Genovese, compiaciuto, sospira: «... ma resterai... [ricorda le, NdA] manette» e Sarah: «Ok ma come è messa lei ora?». E lui: «Male ma voglio le manette, dai...». Sarah ci pensa un attimo e le prende. (...) Quanto accade trai tre non è dato sapere, ma di certo conosciamo le reazioni di Ludovica e di Genovese. (...) Il racconto di Ludovica, però, è molto diverso. È stato un trauma. Ha paura. (...) Qualche giorno dopo, quando l'imprenditore, con i soliti toni manipolatori e melliflui, torna alla carica e ripropone un altro incontro a tre, Ludovica lo respinge:

GENOVESE: Cosa posso fare per convincerti? A parte prometterti solo coccole. L'altra volta ci è un po' scappata la mano...

LUDOVICA: Ecco appunto...

io sono rimasta traumatizzata e ho paura.

GENOVESE: Zero parole, Ludo. A te voglio bene. Poi a letto mi piaci tanto ma ti voglio bene.

LUDOVICA: Magari mi vuoi bene ma non sono un tuo oggetto da prendere e trattare come tale. Ed essere umiliata da TE e LEI. In quel modo.

Genovese a questo punto si fa suadente: GENOVESE: Avevo voglia di coccole.

LUDOVICA: No Albhai davvero esagerato.

GENOVESE: Nessuna umiliazione, Ludo. Mi era scappata la mano per i casini che avevi fatto... siamo pari.

LUDOVICA: Sì vero siamo pari.

GENOVESE: Ma hai fatto fuori 113k. Siamo pari.

LUDOVICA: Mi dispiace Alberto. È vero siamo pari.

GENOVESE: Non devi dispiacerti, ho goduto da 113k... godo come una bestia a legarti. 

"Non solo la violenza sessuale". Alberto Genovese, nuova accusa: una grossa questione di soldi 

(...) Alla fine, risale sulla giostra di Genovese, questa volta in Puglia, sul Gargano, dove l'imprenditore la raggiunge quando la studentessa è lì in vacanza con la sua famiglia. (...

) Mi ha cercato dicendomi che si era lasciato definitivamente da Sarah, a questo punto mi raggiunse in Puglia dove ero coni miei genitori. Abbiamo trascorso l'ultima sera della mia vacanza poi mi ha preso a schiaffi durante il sesso... solo per non essersi sentito soddisfatto sessualmente da me... mi stava riempiendo di schiaffi e pugni in testa, ho avuto timore per la mia incolumità... un occhio nero... ho iniziato a piangere implorandolo di smetterla. Sono scappata in bagno, verso le 7 il driver mi ha portato all'aeroporto a Bari per prendere un volo per Venezia... (...) Ma al predatore la sofferenza delle vittime sembra non interessare. Genovese cerca con Ludovica le pratiche più estreme, l'umiliazione più profonda. Le infila oggetti come bottigliette di Coca-Cola negli orifizi non per una comune ricerca del piacere ma per il disprezzo che nutre verso questa ragazza. (...) Ludovica non se la sente di denunciare il predatore. Lo teme, ma con quel volto tumefatto non può certo sfilare in passerella. A questo punto-siamo ormai a fine agosto del2020-chiede soldi a Genovese: «Ciao Alberto visto che hai detto che mi avresti dato una mano... io sono impresentabile per andare in agenzia e per i lavori che ho dovuto cancellare... Ti chiedo per favore semi dai una mano economicamente sia per pagare l'affitto che l'università». Genovese non indugia e chiede alla segretaria di effettuare un bonifico di 2000 euro a favore della ragazza. Non era più la fidanzata, e avrebbe potuto costituire un pericolo visto che Genovese temeva che potesse denunciarlo, tanto da fare continuamente leva psicologica sull'utilizzo smodato della sua American Express per intimorire la giovane.

Così partono altri bonifici. Il 21 settembre ne dispone uno di 3000 euro: «Alberto finita la nostra relazione mi aveva promesso che per un annomi avrebbe aiutato economicamente con dei bonifici. Dal marzo 2019 ho ricevuto quattro bonifici da 2000 euro ciascuno per i pagamenti dell'università come mi aveva promesso. Quando ho ricevuto i 3000 euro non ho chiesto spiegazioni, giustificando questo suo bonifico come un mezzo per farsi perdonare a seguito dell'aggressione dell'agosto 2020». Ma il più cospicuo, da 5000 euro, verrà accreditato il 19 ottobre, quindi dopo la notte di violenze subita da Francesca, la prima a denunciare l'imprenditore. (...) Tutto ormai precipita: dopo la denuncia di Francesca, Genovese viene arrestato con le accuse di violenza sessuale, sequestro di persona, lesioni e spaccio di droga. Lo scandalo esplode. Ludovica è sconvolta e rimane attonita quando riceve una telefonata dalla mamma del predatore, che le chiede di testimoniare il fatto che «Alberto è una persona sana eche solo a seguito di uso di sostanza stupefacente manifesta un comportamento aggressivo. Ho così informato la madre di Alberto che non ero disposta a testimoniare come stava chiedendo». 

(ANSA il 14 aprile 2022) Ha deciso di "dare un taglio netto con il passato" e, quando tutto sarà finito, di ritirarsi in un luogo lontano da Milano Alberto Genovese, l'imprenditore del web imputato per aver violentato, dopo averle rese incoscienti con mix di cocaina e ketamina, due modelle: una di 18 anni durante una festa il 10 ottobre di due anni fa nel suo attico con vista sul Duomo, ribattezzato Terrazza Sentimento, l'altra di 23 anni ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente. 

Genovese, da quando è finito in carcere ha cominciato un percorso, che ora sta proseguendo ai domiciliari in clinica, per disintossicarsi dalla cocaina e ora, come ha riferito all'ANSA chi gli è vicino, non vuole più ritornare a vivere nel superattico a Milano. E ciò perché, ha confidato, gli ricorda quel mondo in cui dice di "non ritrovarsi più". Così alla fine di marzo, oltre ad aver dato mandato di venderlo, ha chiesto che sparisca la scritta al neon "Sentimento" che campeggia sulla terrazza diventata simbolo di nottate e festini a base di sesso e droga e delle presunte violenze. Inoltre, ha ribadito che è sua intenzione risarcire le ragazze.

Come ha spiegato uno dei suoi difensori, l'avvocato Davide Ferrari, è stato creato un trust, gestito da 3 trustee e un protector, in cui è confluito l'intero patrimonio. Patrimonio "che non può assolutamente usare finché non finirà tutto - ha spiegato all'ANSA il legale -. Il trust è finalizzato al risarcimento di tutte le vittime e al pagamento delle spese processuali". Sull'istanza di sequestro preventivo per circa 1,5 milioni di euro a carico dell'imprenditore, presentata dal legale della modella vittima, all'epoca 18enne, dovrà decidere il gup Chiara Valori. Non è legata a questa istanza della parte civile la decisione di Genovese di mettere in vendita l'attico.

Giuseppe Guastella per il "Corriere della Sera" il 6 aprile 2022.

Offre un risarcimento che è meno di un decimo di quello chiesto solo da una delle vittime, e difatti non viene accettato, e chiede il rito abbreviato Alberto Genovese, quello che gli garantirebbe lo sconto di un terzo della pena se dovesse essere condannato per le violenze sessuali efferate alle quali, dice l'accusa, ha sottoposto dopo averle drogate due modelle giovanissime che ha ospitato nella sua magnifica «Terrazza sentimento» con vista sul Duomo di Milano, l'una, e nella villa degli eccessi di Ibiza, l'altra.

Non è difficile immaginare la strategia di contenimento che la difesa potrebbe perseguire, oltre ovviamente all'assoluzione, per far sì che il geniale imprenditore diventato milionario con le startup non rimetta più piede in carcere o, quantomeno, che ci torni per il minor tempo possibile. 

Per la prima volta Genovese compare nell'udienza preliminare di fronte al giudice Chiara Valori. Silenzio in aula, silenzio con i cronisti che assiepano il corridoio al settimo piano del palazzo di giustizia di Milano. Per l'uomo che starebbe per incassare oltre 200 milioni dalla cessione della sua quota in Prima Assicurazioni, parlano i legali, gli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari. Hanno due assegni.

Il primo da 130 mila euro destinato alla 18 enne che, dopo essere rimasta nelle mani di Genovese per 20 ore, la notte del 10 ottobre 2020, riuscì a fuggire seminuda in strada nel pieno centro di Milano e a fermare una volante della Polizia. Violenze riprese dalle telecamere di sorveglianza istallate con perizia in ogni angolo della magione. Alla clinica Mangiagalli le riscontrarono gravi lesioni contro le cui conseguenze sta ancora lottando. L'avvocato Luigi Liguori, in base ad una consulenza, ha quantificato in poco più di 1,5 milioni di euro i danni subiti dalla giovane che, devastata psichicamente e dalla carriera di modella definitivamente interrotta, ne ha già spesi 25 mila solo per curarsi. 

Genovese, invece, offre 25 mila euro all'altra giovane, 23 enne all'epoca dei fatti, che ha denunciato di essere stata drogata e violentata per una notte a luglio 2020 a Villa Lolita nell'isola spagnola. Un accordo per i risarcimenti garantirebbe a Genovese un sostanzioso sconto di pena da aggiungere a quello dell'abbreviato.

La difesa, però, chiede anche l'acquisizione di una serie di documenti e della consulenza medico-legale sulle condizioni psico-fisiche dell'imputato al momento dei reati. In caso di incapacità anche parziale di intendere e volere, altro taglio di pena. Nell'ultimo interrogatorio con i pm Rosaria Stagnaro, Paolo Filippini e Letizia Mannella, ha dichiarato che viveva perennemente in «un universo in cui tutto era permeato dalla droga» che in pochi anni lo ha trasformato in un tossico alla ricerca di donne giovanissime, anche minorenni, disposte a condividere, diceva, sesso estremo.

Lo ripeterà con le dichiarazioni che potrebbe fare nell'udienza del primo giugno. Se dovesse essere giudicato colpevole, deve puntare a contenere la pena quanto più possibile. Detratti i 16 mesi già scontati ai domiciliari e gli altri che farà ancora in una struttura di recupero fino alla sentenza definitiva, se ne restassero meno di sei potrebbe ottenere la detenzione in casa di cura di cui possono beneficiare i tossicodipendenti.

Da “milano.repubblica.it” l'1 giugno 2022.  

Una cronica intossicazione da stupefacenti e un deficit psicologico, con disturbi anche narcisistici, che avrebbero influito sulla sua capacità di intendere e di volere al momento dei fatti, riducendola.

E' questo, a quanto si è saputo, l'esito di una consulenza depositata dalla difesa di Alberto Genovese, l'ex imprenditore imputato a Milano con l'accusa di aver violentato, dopo averle rese incoscienti con un mix di cocaina e ketamina, due modelle: una, 18 anni, durante una festa organizzata il 10 ottobre di due anni fa nel suo attico con vista sul Duomo e ribattezzato 'Terrazza Sentimento', l'altra, 23 anni, sua ospite in una villa di lusso a Ibiza nel luglio precedente.

Oggi la gup di Milano Chiara Valori ha ammesso la richiesta di Genovese di essere processato con rito abbreviato (sconto di un terzo sulla pena e a porte chiuse) condizionato, tra l'altro, al deposito di una grossa mole di documenti, tra cui relazioni mediche sulla sua dipendenza dalle droghe e sulle sue condizioni psicologiche. 

Nella prossima udienza del 27 giugno, oltre all'esame di una psicologa, consulente della difesa, Genovese si farà interrogare in aula. In sostanza, con il deposito al gup soprattutto di un'ultima relazione medica la difesa dell'ormai ex imprenditore prova a sollevare il tema di un possibile vizio parziale di mente al momento dei fatti. La sentenza nel processo potrebbe arrivare il 19 settembre (altre udienze il 7 e il 18 luglio).

"E' invalida permanente al 40%, ha problemi fisici e psicologici e non può più fare la modella, il lavoro che faceva". Così l'avvocato Luigi Liguori ha descritto le condizioni della giovane violentata, secondo l'accusa, nell'ottobre 2020, quando aveva 18 anni, nell'attico di lusso vicino al Duomo di Milano da Genovese, a processo in abbreviato per quegli abusi e per quelli nei confronti di un'altra ragazza, sempre stordita con un mix di droghe, nel luglio precedente in una villa a Ibiza. 

Liguori, che rappresenta la vittima come parte civile, ha ricordato che i danni subiti dalla giovane sono stati calcolati per una cifra che arriva ad un milione e mezzo di euro. Genovese nella scorsa udienza aveva offerto 130mila euro come risarcimento e 25mila euro all'altra ragazza, cifre che sono state rifiutate dalle parti civili.

Il 27 giugno davanti alla gup Valori sarà sentita una psicologa, consulente della difesa, poi ci sarà l'interrogatorio chiesto da Genovese e la sua ex fidanzata, imputata in concorso per le violenze nell'isola spagnola, renderà dichiarazioni spontanee. Il 7 luglio parola all'aggiunto Letizia Mannella e ai pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini e ai legali di parte civile. Il 18 luglio interverranno i difensori, i legali Luigi Isolabella e Davide Ferrari. Il verdetto dovrebbe arrivare il 19 settembre. Per questo caso, ha spiegato ancora Liguori, "sono state svolte attività di indagini complete e la mia assistita ora aspetta l'esito del processo". L'avvocato ha ribadito che dopo gli abusi ha dovuto rinunciare "ai lavori, ai contratti che non poteva più svolgere date le sue condizioni".

«Alberto Genovese vuole risarcire le vittime»: perché è stato respinto il maxi sequestro da 1,5 milioni. Giuseppe Guastella su Corriere della Sera il 23 aprile 2022.

Non c’è alcun elemento che faccia sospettare che, nel caso dovesse essere condannato, Alberto Genovese non voglia risarcire le due giovani donne che per la Procura di Milano avrebbe drogato e violentato. Anzi, ha «dimostrato» esattamente il contrario nell’udienza preliminare (riprenderà il primo giugno) afferma il giudice Chiara Valori che, anche per questo, ha rigettato la richiesta di una delle due ragazze di sequestrargli oltre 1,5 milioni di euro. 

Il trust, Prima Assicurazioni e Terrazza Sentimento

La decisione di Genovese di costituire un trust, uno strumento giuridico in cui far confluire il suo grande patrimonio, compresi i 200 milioni della cessione della sua quota di Prima assicurazioni, aveva allarmato il legale della modella che novembre 2020, quando aveva 18 anni, lo aveva fatto arrestare accusandolo di averla drogata e poi violentata brutalmente un mese prima nella sua abitazione nel pieno centro di Milano. Sospettando che il trust «non garantisce in maniera assoluta» il «pagamento del risarcimento dei danni» alla sua assistita in caso di sentenza di condanna, l’avvocato Luigi Liguori aveva chiesto di sequestrare i soldi sui conti dell’imprenditore che, tra l’altro, ha anche messo in vendita «Terrazza sentimento», l’attico e superattico da 300 metri quadrati con piscina (valore tra i 2 re i 3 milioni) a due passi dal Duomo, teatro delle feste a base di alcol e droga e delle violenze, sostiene l’accusa dei pm Rosaria Stagnaro, Paolo Filippini e dell’aggiunto Letizia Mannella.

I danni fisici e psicologici alla vittima di violenza

Per l’avvocato Liguori, gli abusi sessuali avrebbero provocato alla ragazza pesanti danni fisici e psicologici, anche permanenti, che incidono e incideranno pesantemente sulla sua vita e che i consulenti valutano, appunto, in oltre 1,5 milioni. Una richiesta alla quale la difesa di Genovese, con gli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari, aveva risposto proponendo solo 130 mila euro per la modella e altri 25 per la seconda vittima, la ragazza che a 23 anni ha denunciato di essere stata abusata a luglio 2020 a Villa Lolita, l’abitazione posseduta ad Ibiza (Spagna) dall’imprenditore, che è imputato di violenza sessuale e cessione di droga ed è agli arresti domiciliari in una clinica per disintossicarsi dalla dipendenza dalla droga. Proposta rifiutata da entrambe.

Il risarcimento dei danni

In primo luogo, scrive il giudice Valori, «nessun elemento attesta» che Genovese non sia ancora in possesso di un patrimonio «sufficiente» a far fronte ad un’eventuale condanna al risarcimento dei danni, come non «sono invero individuabili elementi che inducano a ritenere un pericolo di dispersione» dei suoi beni prima che il processo arrivi alla fine. Tanto più, precisa il giudice, che lo stesso Genovese con la sua offerta ha dimostrato che non intende «sottrarsi» ad eventuali risarcimenti, dato che i 155 mila euro delle proposte sono stati depositati con due assegni circolari nello studio dell’avvocato Isolabella e sono lì a disposizione delle due giovani, nel caso in cui dovessero cambiare idea ed accettali. Inoltre, il trust, che non è altro che una cassaforte affidata ad un terzo, non è un «elemento sufficiente» per sospettare che voglia sfuggire ai risarcimenti, anche perché esso è stato costituito proprio con l’obbligo di «garantire il pagamento delle spese di giustizia ed eventuali risarcimenti» alle vittime che sono, infatti, indicate «tra i beneficiari diretti» del patrimonio, anche se l’imprenditore dovesse fuggire o addirittura «decedere anzitempo».

Genovese in comunità di recupero, l’avvocato: «Sta bene, si impegna per uscire dalla droga» Alberto Genovese, parla la fidanzata Sarah Borruso: «Lo assecondavo con droga e ragazze perché innamorata» Genovese, parla la 18enne vittima delle violenze: «Mi ha fatto prendere la droga, credevo di morire»

Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.  

I duecento milioni di euro che ha incassato vendendo le azioni di Prima Assicurazioni Alberto Genovese li avrebbe versati in un trust dove confluirebbe anche parte o tutto il suo corposo patrimonio, ma così non c'è più alcuna garanzia che, se condannato, risarcisca i danni pesanti che è accusato di aver provocato con le violenze sessuali alla ragazza che a 18 anni lo ha fatto arrestare.

Ad affermarlo è il legale della modella che ha chiesto il sequestro conservativo di oltre un milione e mezzo sui conti del mago delle startup, il quale ha anche messo in vendita la famosa «Terrazza sentimento», l'attico e superattico nel centro di Milano teatro delle feste favolose a base di alcol e droga, e degli abusi. 

Nella richiesta di sequestro, l'avvocato Luigi Liguori, che assiste la giovane, ribadisce quello che ha già affermato durante l'udienza preliminare che è in corso a carico di Genovese, spiegando che le violenze hanno causato alla ragazza danni fisici e psicologici molto gravi dai quali potrebbe non riprendersi mai e che i consulenti hanno valutato in 1,5 milioni.

La risposta della difesa di Genovese, con gli avvocati Luigi Isolabella e Davide Ferrari, sono stati appena 130 mila euro, mentre 25 mila sono stati proposti per l'altra vittima, una ragazza di 23 anni che ha denunciato di essere stata violentata a luglio 2020 da Genovese e dalla sua fidanzata Sarah Borruso a Villa Lolita, la residenza dell'imprenditore a Ibiza, in Spagna. Le offerte sono state rifiutate. 

Durante le indagini preliminari, Genovese ha chiesto «l'autorizzazione alla costituzione» di un trust, scrive Liguori nella richiesta al gip Chiara Valori, in cui «dovrebbe aver cautelato tutto il proprio patrimonio (o almeno una parte)» del quale, però, «rimarrà sempre proprietario», precisa. Questo trust, sostiene ancora il legale sollevando parecchi dubbi giuridici, «non garantisce in maniera assoluta» il «pagamento del risarcimento dei danni» alla sua assistita se l'imputato sarà condannato.

Accusato di violenza sessuale e cessione di droga, mentre è agli arresti domiciliari in una clinica per disintossicarsi dalla dipendenza dalla droga, Alberto Genovese vuole vendere anche la ormai sinistramente nota «Terrazza sentimento» dei party esclusivi. Come quello della notte del 10 ottobre 2020 durante la quale, secondo l'accusa dei pm Rosaria Stagnaro e Paolo Filippini e dell'aggiunto Letizia Mannella, la 18enne sarebbe stata prima drogata e poi violentata selvaggiamente per ore e ore. Le indagini della Squadra mobile di Milano hanno confermato le violenze anche grazie alle registrazioni delle telecamere di sorveglianza installate in modo maniacale in tutta la casa.

L'attico e superattico con vista mozzafiato sul Duomo di Milano, dal quale dista poche centinaia di metri, ha una superficie di circa 300 metri quadrati, compresa la grande terrazza con piscina a sfioro. 

Vale tra i due e i tre milioni. La vendita farebbe tirare un definitivo sospiro di sollievo agli inquilini del condominio che per anni hanno dovuto subire anche in piena notte rumori, musica altissima e schiamazzi. L'imprenditore ha anche venduto un appartamento più piccolo che possedeva nello stesso palazzo. Genovese ha chiesto al giudice il rito abbreviato (in caso di sentenza sfavorevole garantisce lo sconto di un terzo della pena) condizionato all'acquisizione della consulenza medico-legale sulle sue condizioni psico-fisiche al momento dei reati.

Di questa strategia che tende a ridimensionare quanto più possibile l'entità complessiva di un esito negativo fanno parte pure le proposte di risarcimento, anche se non sono state accolte. Basti pensare che nei giorni scorsi per un caso di violenze seriali, in abbreviato l'imprenditore Antonio Di Fazio è stato condannato a 15 anni e mezzo di carcere.

·        Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

L'inchiesta sanità fa flop: annullati gli arresti. Nel mirino assessori e consiglieri che si sono dimessi. E pure il governatore. Annarita Digiorgio il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Era il 6 ottobre, Giorgia Meloni stava formando il governo, in Basilicata il procuratore Curcio fa scattare le manette per una maxi inchiesta a strascico con 100 indagati e 22 capi di imputazione. Fra gli indagati anche il Presidente della Basilicata Vito Bardi per peculato: avrebbe usufruito di tre tamponi Covid prendendoli dalla Asl. Con lui tre assessori, due consiglieri regionali, un neo senatore di Fratelli d'Italia, il sindaco di Lagonegro e altri nomi eccellenti. Tg e testate nazionali sparano i titoli: «Basilicata connection, arrestato l'uomo di Forza Italia, vantava rapporti con i clan, Indagati anche uomini di Giorgia Meloni, la sanità lucana era cosa loro».

Con le manette scattano le dimissioni di assessori e consiglieri. Resiste solo il governatore, che non era stato colpito da misure cautelari. Ma la maggioranza vacilla: non ci sono più i numeri. Dopo due settimane dalla retata il tribunale del Riesame annulla quelle misure cautelari, gli indagati tornano liberi. Il pm antimafia Vincenzo Montemurro fa appello contro il gip. Il riesame rigetta. Il Riesame smonta tutto, gettando ombre sulla Procura: i testimoni alla base dell'inchiesta non sono attendibili, le intercettazioni non si potevano usare (dati i reati configurabili) e non ci sono riscontri rispetto a testimonianze e intercettazioni, spesso interpretate in modo errato.

Ma nel frattempo l'assessore Cupparo si è dimesso, e il Comune di Lagonegro è stato sciolto. Ha resistito invece il consigliere di Fdi Rocco Leone, sfidando i magistrati: «Sarebbe stato molto semplice chiudere la vicenda giudiziaria con le dimissioni ma non lo farò, per rispetto del mio essere uomo e della mia storia personale. Da questo momento potrei dire, come si fa di prassi, che ho fiducia nella giustizia, invece dirò che di questa giustizia ho paura».

La vicenda dell'ex governatore Pittella è ancora fresca: arrestato e costretto alle dimissioni, scaricato dal Pd e poi scagionato. Ma il pm antimafia Vincenzo Montemurro ha grande fama dal 2004, quando sempre a Potenza con Henry John Woodcock diede via all'inchiesta «Iene 2»: 51 arresti, un intreccio tra mafia, affari e politica in Basilicata, dopo 15 anni solo due condanne, il resto assolti e archiviati.

L'inchiesta di questi giorni era stata affidata alla procura ordinaria. In un secondo momento è passata alla Dda per alcune intercettazioni, eppure non risultano contestati né il reato di associazione mafiosa, né l'aggravante. Ma nulla di tutto questo è servito al Pd per evitare di chiedere al governatore Bardi le dimissioni dopo l'inchiesta. Per fortuna stavolta hanno resistito, e forse da domani torneranno tutti al proprio posto nel rispetto della volontà del popolo sovrano che li ha eletti.

Pittella: «Io, a processo senza prove e mortificato dalla gogna». Intervista all'ex presidente della Basilicata, assolto nel processo sulla "Sanitopoli" lucana: «La cosa peggiore? Essere additato come un malfattore. E poi gli arresti senza motivo: come si può in uno Stato di diritto?». Simona Musco su Il Dubbio il 25 dicembre 2021. «La cosa peggiore? Essere additato come un malfattore, la gogna, anche da parte di quelli che consideravo amici. E poi gli arresti senza prove: come si può in uno Stato di diritto?». Il giorno dopo l’assoluzione, Marcello Pittella, ex governatore della Basilicata, racconta al Dubbio i suoi tre anni e mezzo di vita sospesa. Anni in cui la sua carriera politica, all’epoca in ascesa, è stata azzoppata, dopo esser finito nella “Sanitopoli” lucana. Ingiustamente, stando alla pronuncia dei giudici di Matera.

La prima domanda è d’obbligo: come sta?

Benino. In questi tre anni e mezzo è successo di tutto, anche sul piano fisico, non solo morale. Di vicissitudini ne ho attraversate tante. Ora mi sento sollevato e ho la percezione di sentirmi libero e più sereno rispetto ad un periodo vissuto con un sorriso a mezz’asta, in ombra, come se ci fosse costantemente un cielo grigio. Adesso, invece, inizia ad apparire il sereno.

Com’è stato il giorno in cui le è stata notificata l’ordinanza di custodia cautelare?

Sono rimasto basito. Per carattere sono un combattente, non uno che si arrende. Ma non sono mai impulsivo, bensì un ragionatore. Ho letto le carte mille volte, senza però riuscire a capire perché c’è stato quel provvedimento, che secondo me era abnorme ed eccessivo rispetto a quello che pure si poteva fare: aprire un’indagine e notificare un avviso di garanzia. Arrivare agli arresti domiciliari, per un governatore… Quel fatto ha cambiato la mia vita, quella della mia famiglia e il volto di una regione. E poi, dopo tre anni e mezzo, sono stato assolto. Questo credo debba far riflettere.

Ha pensato che qualcuno volesse colpirla?

Di pensieri ne ho avuti tanti, ma poi prevale il senso di responsabilità per sé e per gli altri. Non ho pensato, alla fine, che vi fosse una premeditazione o che ci fosse un tentativo di colpirmi. Non posso pensare che la magistratura agisca così, anche se di episodi ce ne sono stati tanti. E non vedo nemmeno per quale motivo dovesse accadere. Ho creduto nella buona fede e voglio continuare a farlo. Saranno poi i comportamenti a dirci se ho fatto bene a pensarla così o meno.

Politicamente cosa ha significato per lei questa indagine?

Mi hanno stroncato la carriera. Ero all’apice in quel momento e l’alleanza aveva riconfermato la fiducia nella mia persona. E molto probabilmente avremmo vinto di nuovo. Cose così distruggono la vita politica, l’impegno e tutto ciò che hai profuso in tanti anni e che hai messo in campo a favore dei cittadini lucani. Ti cade il mondo addosso.

Com’erano stati quegli anni alla guida della Regione?

Avevamo costruito tante opportunità e realizzato tante cose. È inutile fare l’elenco: abbiamo fatto un’azione a 360 gradi di cui vado fiero e di cui mi vanto. Ovviamente tutto è perfettibile e migliorabile e si può fare di più e meglio, ma mi sembra che a distanza di tre anni ci sia una sorta di nostalgia rispetto a quello che avevamo costruito e quello che invece è stato demolito e non costruito da altri. È una mia valutazione e vale quello che vale. Ma con orecchio a terra percepisco questo clima.

Come sono stati quegli 87 giorni ai domiciliari?

Tanti amici mi hanno sostenuto. Tanta gente ha continuato a volermi bene incondizionatamente e non ha mai creduto alle cose di cui mi incolpavano. Ma c’è stata, purtroppo, anche tanta gente che ha pensato di dileguarsi quando ha visto il maltempo. Queste cose purtroppo accadono e magari si tratta di quelle persone che sono state le più vicine per anni, chissà per quale motivo. È la macchia nera sulla camicia bianca, quelle cose che ti deprimono e ti dispiacciono. Per il resto ho vissuto quei giorni con grande grinta e risolutezza, facendo attività fisica, studiando medicina, leggendo… Una vita casalinga, passata a pensare a com’era prima la vita e a come si stava trasformando. Quando cade il mondo addosso o reagisci e provi a rialzarti o sprofondi e muori. Ed io non potevo che tentare di reagire.

Si è definito un mostro da prima pagina.

Purtroppo, quando accade qualcosa di non positivo i social, i giornali e le televisioni iniziano una corsa alla notizia. E bisogna tenerla in piedi, la notizia. Che a volte viene utilizzata dagli amici o dagli avversari per demonizzare. È iniziata una caccia alle streghe per la quale Pittella era il male assoluto, per colpire chi già era stato tramortito e farlo morire. Francamente, quel tritacarne mediatico è gravissimo e pesa notevolmente sulla vita di chi si trova coinvolto.

Oggi che è stato assolto ha visto la stessa attenzione?

Alcuni titoli sicuramente hanno reso onore a ciò che è accaduto, altri un po’ meno: sono stati un po’ più tiepidi, proprio perché non potevano farne a meno. Ma se la sentenza fosse stata meno chiara sarebbero subito partiti in quarta. Domani la notizia finirà nel dimenticatoio, mentre dopo l’arresto c’è stata un’attenzione costante: dall’interrogatorio alle carte processuali, alla prima udienza. Insomma, una telenovela, con molte puntate, come ne vediamo in tv. Oggi avremo una, due puntate e poi basta. Ovviamente mi rincuora il fatto che i social e il mio cellulare siano impazziti, con messaggi e telefonate che hanno dato ristoro alla mia persona.

Ora c’è una nuova norma sulla presunzione di innocenza. Crede ci saranno passi avanti?

Me lo voglio augurare. Fino al terzo grado di giudizio si è innocenti. Questo in uno Stato di diritto.

Ma lei come ci è finito dentro a questa inchiesta?

Le carte processuali non riportano alcuna intercettazione che mi riguardi. Se non una sorta di teorema, secondo il quale essendo governatore e quindi uomo forte non potevo non sapere. E dato che i direttori generali e i direttori amministrativi spesso si incontravano con me, le loro affermazioni sono state legate alla mia persona. Ma non c’era una mia parola con la quale indicassi cosa fare. Ero accusato di concorso morale in falso, ma sulla base di che prove? Se non c’è una prova e c’è solo un teorema indiziario la cosa non funziona. Non si possono mettere insieme diavolo e acquasanta. Durante il processo è emerso da più parti.

Però sulla base di queste cose ha fatto tre mesi ai domiciliari. Com’è possibile?

E infatti, com’è possibile? La Cassazione, accogliendo il mio ricorso, respinse con molta forza quanto scritto dal Riesame e rimise le carte dicendo che il quadro indiziario non era suffragato da alcuna prova. E fece una sorta di reprimenda al TdL e alla procura. Alla fine la risposta è stata identica a quella di prima: sono finito a processo e il pm ha chiesto la condanna. E mi chiedo: in quale Stato di diritto siamo? Ci sono ancora delle incompiute enormi in Italia.

Com’è cambiata la sua visione della giustizia?

Continuo ad avere fiducia, come ne ho nelle istituzioni. Lo dico sempre ai cittadini che hanno perso fiducia nel Parlamento, nella politica, nelle istituzioni: ci sono sì esempi negativi e mele marce, in tutte le stratificazioni della nostra società, ma non tutti sono così. C’è anche gente seria, che legge le carte, che si assume la responsabilità di scrivere alcune cose. Per cui io non posso non continuare ad avere fiducia. Della magistratura, più in generale, abbiamo letto e ascoltato di tutto e di più in Italia. Ma si tratta di un pezzo, non può essere tutta così.

Qual è la cosa che l’ha ferita di più?

L’essere additato come un malfattore. Quello, onestamente, mi ha molto ferito. La gogna mediatica, soprattutto dei social e il tradimento di alcuni pseudo amici. Non sento di esserlo: ho vissuto la vita onestamente e con spirito di sacrificio.

Cosa farà ora?

Non ho programmi, se non recuperare un po’ di serenità e salute, perché senza quello non si va da nessuna parte. E poi voglio mantenere e ascoltare il pensiero dei cittadini, come ho fatto per una vita. Senza quello dove vuoi andare? Non sono calato dall’alto o costruito in laboratorio, sono un animale da società. Voglio sentire il polso. Ma solo quando sarò più tranquillo.

·        Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Morto Angelo Burzi: fondò Fi in Piemonte. Francesca Galici il 25 Dicembre 2021 su Il Giornale. Sarebbe morto suicida Angelo Burzi, ex consigliere regionale e fondatore di Forza Italia in Piemonte nel 1993. È morto Angelo Burzi, ex assessore regionale, che è stato uno dei fondatori di Forza Italia in Piemonte, nel 1993. È morto nella tarda serata del 24 dicembre a Torino a 73 anni. Secondo le prime informazioni, si tratterebbe di un suicidio. Burzi si sarebbe esploso un colpo di pistola alla testa. Ai carabinieri, che stanno svolgendo accertamenti, l'arma risulta regolarmente denunciata.

Laureato in ingegneria elettronica e imprenditore, fu eletto per la prima volta in consiglio regionale nel 1995. Venne rieletto nel 2000, nel 2005 e nel 2010. Nel 2012 diede vita al gruppo Progett'Azione. Dal 1997 al 2002 ha ricoperto la carica di assessore al bilancio per la Regione Piemonte e, tra il 1996 e il 1997, è stato presidente della Commissione speciale per la revisione dello Statuto della Regione.

"Questa notte, Angelo Burzi, amico da 20anni, intelligente e raffinato, uomo scorbutico, arguto, tenero e profondo, ha deciso che non valeva più la pena vivere in questo mondo. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto 'basta!'. Addio, amico mio", ha scritto Guido Crosetto su Twitter per salutare Angelo Burzi. 

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Rimborsopoli tragica: suicida dopo la condanna. Paolo Bracalini il 27 Dicembre 2021 su Il Giornale. L'ex assessore del Piemonte Burzi viveva come un'ingiustizia la pena di 3 anni. Politica sconvolta. Due settimane fa la condanna a tre anni (dopo una assoluzione per gli stessi fatti, un processo infinito e tre gradi di giudizio), due giorni fa, nella notte di Natale, il suicidio, con un colpo di pistola alla tempia in casa sua a Torino. Il legame tra i due fatti, per chi conosceva Angelo Burzi, 73 anni, ex assessore regionale al Bilancio, ex consigliere regionale in più legislature, tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte, è inevitabile. «Angelo non si dava pace della ingiustizia con cui è stata gestita la vicenda Rimborsopoli, una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria - commenta Roberto Cota, ex governatore, anche lui travolto dall'inchiesta sulle spese in Regione Piemonte - In questi anni ho cercato di stargli accanto, ma ognuno reagisce a modo proprio. Purtroppo Angelo non riusciva a farsi una ragione della ingiustizia subita che, tra l'altro, ha portato a un inspiegabile differenza di risultati rispetto a spese assolutamente uguali e anche a sentenze diverse su fatti analoghi. C'è stato un accanimento giudiziario che dura ormai da quasi dieci anni». Anche Guido Crosetto non riesce a non immaginare un nesso di causa effetto tra il calvario giudiziario di Burzi e il suicidio: «Non riesco a trattenere la rabbia, mi scuso. Da questa mattina non riesco a pensare che al suicidio di un uomo perbene e di ciò che lo ha spinto a quel gesto. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto basta! Contro di lui (e molti altri) hanno usato la giustizia. Perché c'è gente che l'amministra solo per combattere nemici». Il riferimento è a una inchiesta che ha portato ad assoluzioni e archiviazioni da un lato, e condanne dall'altro, per comportamenti e vicende molto simili ad eccezione dell'appartenenza politica degli imputati.

Le ragioni del gesto si potranno forse capire meglio dalla lettera che Burzi ha lasciato alle figlie. La vigilia di Natale, con una scusa ha allontanato la moglie da casa, per restare solo e compiere il gesto con l'arma, avvisando i carabinieri con una telefonata poco prima. Molte le voci politiche, da sinistra a destra, che ricordano Burzi, figura di spicco della politica piemontese, punto di riferimento dell'area liberale. Una tragedia che riporta in primo piano il tema della giustizia in Italia. «Probabilmente ha subito delle picconate così pesanti che anche una persona forte come lui non ha retto - dice a Lo Spiffero Enrico Costa, deputato di Azione, già viceministro alla Giustizia - Si è arrivati a discutere in appello fatti di più di dieci anni fa. Pensiamo alle persone che sono sotto processo per tutto questo tempo, talvolta per periodi ancora più lunghi. È accettabile? No. La sentenza definitiva deve giungere in un termine ragionevole rispetto ai fatti. Io sono per la non appellabilità delle sentenze di assoluzione» spiega Costa, ricordando l'assoluzione in primo grado di Burzi, come degli altri ex consiglieri poi condannati nell'appello bis dopo quasi dieci anni. «Qualcuno ha cercato di appannare la sua immagine - scrive in una nota Forza Italia Piemonte - ma chi ha conosciuto Burzi sa quanto fosse uomo di alti principi e rispettoso dei valori della galanteria d'altri tempi. La sua tragedia ci deve far interrogare e deve far interrogare il mondo politico se non vi sia qualche cosa da riformare nel sistema italiano». Paolo Bracalini

La vedova Burzi ricorda il marito: "Il suicidio di una persona onesta". Luca Fazzo il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La moglie dell'ex consigliere: "È stata solo la sua rettitudine a determinare il modo in cui ha espresso la sua protesta". «Grazie a quanti di voi hanno scelto di non voltare la testa dall'altra parte, a quanti stanno sostenendo la sua ultima battaglia per la verità». É difficile leggere senza un brivido questo e altri passaggi della lettera scritta ieri da Giovanna Perino. Giovanna era la moglie di Angelo Burzi, l'ex consigliere regionale piemontese morto suicida a Natale. La sua lettera di ieri non è una invettiva, non è un atto d'accusa polemico. È il ricordo accorato di un grande uomo. Viene da chiedersi se la leggeranno anche gli inquisitori di Burzi, e se qualche turbamento lo proveranno anche loro.

«Desidero ringraziare - scrive la vedova dell'esponente di centrodestra - quanti di voi hanno contribuito a diffondere i suoi ultimi pensieri ed avviato una analisi seria, puntuale e rispettosa della situazione che lo ha coinvolto». È una situazione, sottolinea la lettera, «che direttamente o indirettamente riguarda tutti noi», e dalla quale Burzi «ha scelto di uscire esprimendo la sua protesta più forte».

Si tratta, come è noto, dell'inchiesta sui rimborsi ai consiglieri regionali che aveva visto Burzi prima assolto e poi condannato, inghiottito in un processo senza fine: ed è questo, il meccanismo giudiziario e mediatico che stritola le persone, a venire indicato come una situazione «che riguarda tutti noi».

Di Angelo Burzi la compagna della sua vita ricorda l'impegno e la passione politica, fino alla sua ultima iniziativa, la rivista Società Aperta, nata all'insegna di «un sano pragmatismo ispirato da forti ideali». Ricorda il carattere particolare, non facile, di Burzi («quante le discussioni e le porte sbattute tra di noi, le riappacificazioni e il tornare a parlarsi»): «Non sentiva il bisogno di piacere a tutti, cosa che lo ha reso unico e speciale per molti e, allo stesso tempo, scomodo per altri. Aveva una intelligenza raffinata, era colto e carismatico».

Come sia accaduto che un uomo di questo spessore venisse portato al punto di rottura lo ha spiegato perfettamente Burzi stesso, nella lettera d'addio lasciata prima di spararsi. Ieri, al duro j'accuse del marito («Siccome arrendermi non è mai stata un'opzione, frangar non flectar, esprimo la mia protesta più forte interrompendo il gioco») Giovanna Perino aggiunge il ritratto commovente di un uomo «generoso in tutti i sensi, nel condividere idee visioni ed opportunità. Generoso nel prendesi cura degli altri. Presente quando c'era bisogno». È questo l'uomo che la Procura torinese aveva messo nel mirino con un accanimento che, incredibilmente, non è cessato neanche con la sua morte. Ma Burzi, ricorda sua moglie, «era una persona onesta». «E solo la rettitudine che era parte di lui, e non certo la debolezza, ha determinato il modo in cui ha scelto di esprimere la sua protesta».

Angelo, scrive ancora la Perino, «aveva un codice morale molto forte e una visione della giustizia. Amava la nostra lingua e le citazioni. Una di queste, di Leonardo da Vinci, ricordo tra le sue preferite: chi non punisce il male, comanda lo si faccia". Ed è quella che me lo rappresenta più di tutte, specie in questo momento». Fino all'ultimo saluto, quello che Giovanna Perino ha letto anche dal pulpito della chiesa il giorno del funerale «Per l'amore immenso e per le la stima e il rispetto che sempre ho auto e sempre avrò per te, voglio accettare tutto questo e lasciarti andare come hai scelto. Vai, amore mio, finalmente libero, come meritavi e come meriti».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

La clava del procuratore sul consigliere suicida: "La legge va accettata". Luca Fazzo il 28 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il Pg di Torino interviene in difesa dei suoi colleghi: "I pm non hanno amici o nemici". Che volete farci? «È la mano pesante della legge». Dice proprio così il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, per spiegare che se la notte di Natale un uomo si è tirato un colpo di pistola in testa è solo perché la giustizia ha fatto il suo dovere. Quell'uomo, l'ex consigliere regionale di Forza Italia Angelo Burzi, per Saluzzo era colpevole. Ma neanche in una riga del suo lungo comunicato di ieri Saluzzo ricorda che per il tribunale di Torino, che lo aveva processato per la Rimborsopoli piemontese, Burzi era innocente, «assolto perché il fatto non sussiste». E che la condanna che gli rifilava tre anni di carcere è ancora in attesa delle motivazioni e poi della Cassazione. Ma per l'ex consigliere la Cassazione non arriverà mai più.

Sul clima che ha portato un uomo coriaceo come Burzi ad ammazzarsi, da quarantott'ore fioccano le polemiche. Che ieri culminano nella richiesta di una commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione da parte della Procura torinese del filone locale sullo scandalo dei rimborsi ai consiglieri regionali: un filone passato per l'assoluzione quasi in blocco degli esponenti di centrosinistra, e con la Procura decisa invece a incassare la condanna del fronte moderato.

Di fronte alle polemiche, il procuratore generale Saluzzo sceglie di passare al contrattacco con una lettera aperta. Uno scritto che si apre con una dichiarazione formale di cordoglio per il gesto di Burzi, «ho letto la tristissima notizia», «esprimo tristezza», eccetera: ma poi usa la clava sul morto e sui suoi coimputati, e difende a spada tratta l'operato della sua Procura generale, dove il grande accusatore del centrodestra piemontese, il pm Giancarlo Avenati Bassi, ottenne la promozione dalla procura della Repubblica giusto in tempo per poter continuare la sua battaglia anche in appello. Ma chi oggi osa ricordare i passaggi oscuri di quella vicenda processuale secondo Saluzzo potrebbe finire a sua volta sotto processo: «Userei maggiore prudenza nel fare e veicolare affermazioni che gettano discredito e potrebbero costituire anche vilipendio dell'ordine giudiziario».

Nell'inchiesta sulla Rimborsopoli piemontese, assicura Saluzzo, non ci furono trattamenti di favore o di sfavore, perché «i magistrati non hanno amici o nemici» e «l'azione di questi uffici è improntata all'imparzialità e all'indipendenza». Se alcuni consiglieri sono stati assolti e altri condannati, spiega Saluzzo, è perché in alcuni casi «è stato individuato un legame con una attività politica», e allora è stata chiesta l'archiviazione. Per tutti gli altri, Burzi compreso, è stata chiesto il processo: «E, nella più parte dei casi, c'è stata la condanna».

Saluzzo ricorda che Burzi aveva continuato a rivendicare la «correttezza complessiva» del suo operato, e che le spese per cui era stato condannato erano in buona parte soldi che non aveva mai chiesto né ottenuto, semplici firme di visto sui rimborsi per altri consiglieri. Ma questo sembra non contare, come non sembrano contare la sentenza di assoluzione in primo grado, o l'annullamento delle prime condanne di appello dalla Cassazione. Il morto, nel procuratore, finisce nel calderone dei disinvolti, dei furbetti, degli spreconi che spendevano i soldi pubblici «talvolta con modalità macchiettistiche». E alla fine «deve anche essere accettata la voce e la mano pesante della legge quando le leggi vengono violate». Dice proprio così, e sembra il titolo di un poliziesco degli anni Settanta.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Il pm che sfotteva gli ex An: "Hanno le camicie nere". Paolo Bracalini il 28 Dicembre 2021 su Il Giornale. Il ruolo dell'accusa nel processo. Il centrodestra: "Giudizio diverso a seconda del colore politico". Nei diversi gradi di giudizio gli imputati della Rimborsopoli piemontese si sono trovati di fronte, a sostenere l'accusa, sempre lo stesso magistrato, Giancarlo Avenati Bassi, prima come pm poi come sostituto procuratore generale presso la Corte di Appello, a Torino. Un pm molto noto, scrive La Stampa di Torino, «per aver condotto l'accusa in processi di grande risonanza mediatica come la Rimborsopoli piemontese, che ha portato alla condanna di numerosi politici, così come di quella aostana, in cui era riuscito a ottenere 15 condanne». La convinzione degli ex consiglieri (di Lega, Fdi, Forza Italia) condannati nell'appello bis è di aver ricevuto un trattamento peggiore rispetto ai colleghi di diverso colore politico (quelli di sinistra), imputati per spese analoghe, a volte anche superiori per importo e spesso difficili da giustificare come attività politica. Eppure archiviati o assolti. Lo stesso turbamento lo covava anche Burzi, morto suicida con un colpo di rivoltella la notte di Natale. «Era profondamente convinto dell'ingiustizia subita - si sfoga la vedova - e poi lo feriva anche il diverso trattamento: alcuni imputati erano stati trattati in un modo, altri in modo diverso. Le sentenze non erano simili, cambiavano a seconda dei tribunali. Ma come è possibile che ci sia questa disparità? Che giustizia è?». Anche Roberto Cota, l'ex governatore, anche lui assolto in primo grado e poi condannato dopo un tormentato iter giudiziario, non si dà pace. «Alcune richieste di archiviazione della sinistra si riferiscono a spese che per quantità e qualità sono del tutto simili a quelle imputate a me e ad altri consiglieri (poi condannati, ndr). Ci sono le stesse spese, a volte proprio identiche), che per alcuni vanno bene e per altri no. Inoltre, la procura non ha impugnato le assoluzioni perlopiù di esponenti della sinistra, mentre ha impugnato la mia assoluzione e quella degli altri consiglieri», continua Cota, che chiude con una domanda inquietante: «Forse questa diversità nella valutazione di casi analoghi apre qualche quesito sulle possibili strumentalizzazioni delle norme, che soprattutto palando di diritto penale dovrebbero invece rispondere ai principi della determinatezza e tassatività?». Nelle varie udienze gli imputati si sono segnati alcuni episodi, tra tutti una frase detta nella requisitoria dal procuratore Avenati Bassi. Arrivando a trattare delle spese del gruppo Pdl il magistrato dice: «Abbiamo visto che quelli di Alleanza Nazionale volevano l'abbigliamento, forse avevano troppe camicie nere nell'armadio e dovevano prendere le bianche». Una battuta, certo, forse però non opportuna in quella sede, ritengono i leghisti. I quali fanno notare anche che Avenati Bassi fu indicato proprio dal Pd come consulente esterno della Commissione parlamentare sulle banche. Si trattò di un incarico puramente tecnico in quanto il pm è considerato un grande esperto di crimini finanziari. Un indizio, invece, secondo gli ambienti di centrodestra finiti nell'inchiesta, di una presunta non imparzialità della toga. Paolo Bracalini

Luca Fazzo per “il Giornale” il 31 dicembre 2021. Nei loro confronti il pm Giancarlo Avenati Bassi si mostrò garantista: anche se si erano fatti rimborsare cene cui mai avevano partecipato, se avevano inviato a spese della Regione amici in gita a Tel Aviv, se avevano dispensato con fondi pubblici decine di bottiglie di Prosecco. 

Avenati Bassi, lo stesso pm torinese che chiese per Angelo Burzi, morto suicida a Natale, e per gli altri imputati vip di centrodestra le condanne poi annullate dalla Cassazione, per altri consiglieri regionali chiese invece l'assoluzione: e, sebbene con qualche fatica, la ottenne.

Piccolo dettaglio: nel manipolo degli assolti, insieme a tre esponenti del centrodestra, c'era il Gotha della sinistra piemontese. Esponenti di Sel, di Sinistra Europea e del Pd: compresi due che hanno fatto carriera, e oggi siedono in Parlamento.

La prima volta che la Procura aveva chiesto il proscioglimento dei nove si era scontrata col rifiuto del giudice preliminare Roberto Ruscello, che aveva ordinato invece il processo. Avenati Bassi obbedisce, chiede il processo, e poi lì, davanti a un altro giudice, chiede di nuovo l'assoluzione. E stavolta la ottiene.

Il 15 gennaio 2015 vengono assolti in blocco. Con una sentenza che si potrebbe applicare pari pari allo scomparso Burzi e agli altri condannati insieme a lui: perché il giudice scrive che distinguere tra spese istituzionali, di partito e personali è spesso arduo, «il terreno diventa scivoloso», «la questione è tuttora aperta», «il quadro normativo è confuso».

Per cui alla fine manca il «profilo soggettivo»: ovvero la consapevolezza di commettere un reato. Se la cavano così il vicepresidente Pd del consiglio regionale Aldo Reschigna e l'attuale deputato Stefano Lepri: che avevano messo in nota spese, tra l'altro, quasi 5mila euro di panettoni, dolciumi e buoni benzina nonché il viaggio per una manifestazione di partito. 

Stessa sorte per Monica Cerutti, unica consigliere di Sel e assessore, nonostante i diecimila euro di ristoranti e i duemila di alberghi anche per «terzi estranei al gruppo»: tra i beneficiati, con un viaggio in Tunisia, c'è anche tale Marco Furfaro; quando era scoppiato il caso, la Artesio aveva spiegato che Furfaro era un collaboratore del gruppo: peccato che abitasse a Roma.

Assoluzione anche per Eleonora Artesio di Sinistra Europea, che aveva mandato a Tel Aviv un non meglio precisato Guido Crovesio. Assoluzione anche per Davide Gariglio, anche lui oggi deputato piddino, nonostante 950 euro spesi in fiori e "bollicine": trenta bottiglie di Bellavista Cuveè. Sono spese, come si vede, non dissimili da quelle che in tutta Italia hanno fatto finire sotto processo interi consigli regionali. Ma in questo caso il giudice riconosce che «l'attività politica è governata da ampissima discrezionalità, in grado massimo: addirittura da libertà»; che «il tipo di spesa non può non trovare limiti alla sua sindacabilità». E alla fine il giudice li assolve perché la loro spiegazione «risulta coerente con l'impegno politico e la storia personale di ciascuno». Ma anche Angelo Burzi era una brava persona.

Una giustizia roulette russa e un suicidio annunciato. Stefano Zurlo il 28 Dicembre 2021 su Il Giornale. Due anni di processo e l'illusione crudele dell'assoluzione. Una beffa, capovolta dal verdetto d'appello scritto con i caratteri della condanna. Due anni di processo e l'illusione crudele dell'assoluzione. Una beffa, capovolta dal verdetto d'appello scritto con i caratteri della condanna. Un controsenso, a maggior ragione perché il nostro codice afferma che la colpevolezza deve essere dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio e qui il tribunale aveva dubitato, eccome se aveva dubitato. Ma il nostro sistema penale non si perde in simili sottigliezze e riesce nell'impresa di trasformare l'innocenza nel suo contrario, il processo in un pastrocchio, infine - ed è il dato più grave - la giustizia in una lotteria. Una giostra senza tempo da cui puoi scendere con l'onore restituito o col fango fin sopra i capelli.

Solo che non tutti reggono questo susseguirsi di colpi di scena e così l'anno si chiude con il suicidio eccellente di Angelo Burzi, ex assessore e consigliere della Regione Piemonte che la vigilia di Natale si è sparato un colpo.

Burzi era uscito vincitore dal verdetto di primo grado, quindi l'appello aveva buttato nel cestino le sue certezze, poi c'era stata la cassazione e un appello bis; infine, dopo quasi dieci anni di questa altalena, il conteggio si era fermato a quota 3 anni di carcere. Tre anni per gli scontrini e le note spese su cui avrebbe fatto la cresta. Tanti, troppi per chi sperava di vedersi riconsegnare, come fosse solo una valigia smarrita, la propria onestà. Naturalmente, l'iter non era ancora concluso perché già s'intravedeva all'orizzonte un nuovo round in cassazione e poi, chissà, un altro passaggio in appello.

Nel sistema anglosassone, che noi abbiamo malamente copiato, l'appello ha forti limiti, da noi invece si porta via tranquillamente il rigore dei giudici del tribunale, la logica e anche il rispetto per l'imputato che è solo una pallina in balia di meccanismi contorti e farraginosi.

La giustizia italiana veste come Arlecchino: poco Perry Mason, solenni e nobili principi smentiti da una routine logorante e sfiancante che mortifica anche il diritto ad un processo in tempi ragionevoli. Figurarsi. La legge Pecorella aveva vietato l'appello del pm dopo un'assoluzione, proprio come era capitato a Burzi; ma la Corte costituzionale ha detto che no, non si poteva fare, perché accusa e difesa non avrebbero avuto le stesse chance.

Non si mette, come dicono i vangeli, vino nuovo in otri vecchie. La Costituzione non è allineata al codice di procedura, a sua volta zeppo di protesi, aggiunte e cerotti di ogni colore. Così i verdetti rompicapo talvolta sono un peso insostenibile. E il prologo di tragedie. Stefano Zurlo

Stefano Burzi morto suicida, Guido Crosetto si sfoga: "Contro di lui hanno usato la giustizia". Il Tempo il 26 dicembre 2021. Si è tolto la vita il giorno di Natale a Torino l'ex assessore regionale Angelo Burzi, una delle figure di spicco del mondo politico piemontese nell'area del centrodestra. Secondo le prime informazioni, si tratterebbe di un suicidio. Burzi si sarebbe esploso un colpo di pistola alla testa. Ai carabinieri, che stanno svolgendo accertamenti, l'arma risulta regolarmente denunciata. 

Nato a Torino il 28 agosto 1948 era aureato in Ingegneria elettrotecnica, dirigente d’azienda e imprenditore. E' stato tra i fondatori del movimento Forza Italia in Piemonte, coordinandolo per la provincia di Torino dal 1994 al '95. 

Coinvolto nella cosiddetta Rimborsopoli regionale, nell’ambito della quale, nella sentenza di Appello lo scorso 14 dicembre, era stato condannato a tre anni, Burzi ha vissuto come una pesante ingiustizia, al limite della persecuzione personale e politica, la disparità di trattamento rispetto ad altri suoi colleghi.  Sull'accaduto non si dà pace Guido Crosetto che su Twitter ricorda l'amico scomparso: "Questa notte, Angelo Burzi, amico da 20anni, intelligente e raffinato, uomo scorbutico, arguto, tenero e profondo, ha deciso che non valeva più la pena vivere in questo mondo. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto “basta!”. Addio, amico mio. RIP". 

Questa notte, Angelo Burzi, amico da 20anni, intelligente e raffinato, uomo scorbutico, arguto, tenero e profondo, ha deciso che non valeva più la pena vivere in questo mondo. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto “basta!”. Addio, amico mio. RIP

— Guido Crosetto (@GuidoCrosetto) December 25, 2021

E ancora qualche ora dopo un altro tweet per sfogare la rabbia: "Non riesco a trattenere la rabbia, mi scuso. Da questa mattina non riesco a pensare che al suicidio di un uomo perbene e di ciò che lo ha spinto a quel gesto. Contro di lui (e molti altri) hanno usato la giustizia. Perché c’è gente che l’amministra solo per combattere nemici"

Non riesco a trattenere la rabbia, mi scuso.

Da questa mattina non riesco a pensare che al suicidio di un uomo perbene e di ciò che lo ha spinto a quel gesto.

Contro di lui (e molti altri) hanno usato la giustizia. Perché c’è gente che l’amministra solo per combattere nemici.

Cota: «Burzi vittima dell’ingiustizia. Ora una commissione di inchiesta su Rimborsopoli». Gabriele Guccione su Il Corriere della Sera il 25 Dicembre 2021. L’ex governatore dopo la morte dell’ex assessore regionale di Forza Italia: «Noi condannati, altri con le nostre stesse accuse sono stati assolti».

«Non si dava pace, non riusciva a farsene una ragione. Per lui sono stati dieci anni di calvario, tra perquisizioni, interrogatori, quattro processi su cui non è stata detta ancora l’ultima parola. È giustizia questa?». È sconvolto Roberto Cota, 53 anni, ex presidente della Regione Piemonte, anche lui condannato nel processo «Rimborsopoli». Come Angelo Burzi, 73 anni, già consigliere e assessore regionale, tra i fondatori di Forza Italia, trovato morto la mattina di Natale nella sua casa in piazza Castello a Torino.

Cota, come fa a essere sicuro che all’origine di questa tragedia ci sia «Rimborsopoli»?

«Se dico queste cose, lo faccio a ragion veduta. Ho parlato con la moglie: a lei e alla famiglia di Angelo va tutta la mia vicinanza».

Dopo l’ultima sentenza del 14 dicembre, quella che ha condannato Burzi a 3 anni e lei a 1 anno e 7 mesi, vi eravate sentiti?

«Ci eravamo sentiti, sì. In questi ultimi due anni ho cercato di stargli accanto, ci siamo visti spesso e ho vissuto il suo stato d’animo. Ognuno però reagisce a suo modo. Angelo era intelligente, ma soprattutto di grande onestà e rettitudine. Era molto provato, giù di morale. Viveva tutta questa situazione con un senso di profonda ingiustizia».

Sperava in una assoluzione?

«Era stato assolto in primo grado, poi la Corte d’appello aveva ribaltato la sentenza e infine la Cassazione aveva annullato solo parzialmente il giudizio rinviando di nuovo gli atti ai magistrati di secondo grado per il ricalcolo della pena. Lui era capogruppo e, avendo patteggiato per una parte delle accuse relative alla legislatura precedente, gli hanno riconosciuto anche la continuazione del reato».

Ecco il motivo per cui ha avuto la pena più alta.

«Ma lui era assolutamente innocente, le sue spese erano collegate alla attività politica».

I giudici hanno deciso diversamente.

«Le spese contestate ad Angelo, come quelle addebitate a me, erano del tutto comparabili con le spese di altri consiglieri che, a mio parere, sono stati giustamente prosciolti in altri gradi di giudizio. C’è stata una inspiegabile differenza di risultati rispetto a vicende assolutamente uguali e anche a sentenze diverse su fatti analoghi. Per come è stata gestita, Rimborsopoli è stata una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria».

È questo il suo giudizio?

«Sono state fatte delle ingiustizie tremende, Angelo ha subito una ingiustizia tremenda, io stesso ho subito una ingiustizia tremenda. Per questo credo sia necessario un serio approfondimento pubblico della vicenda».

Che cosa intende?

«Bisognerebbe istituire una commissione parlamentare di inchiesta su tutto quello che è successo: tribunali che hanno giudicato per le stesse imputazioni in modo diverso, procure che impugnavano e altre no...».

Secondo lei la faranno?

«Non lo so se la faranno».

E perché?

«Io credo che la politica debba essere fatta a testa alta. Purtroppo però molti politici tendono ad avere un brutto vizio: davanti alle disgrazie dei loro colleghi si girano dall’altra parte sperando che prima o poi non tocchi anche a loro».

È pessimista?

«Questa storia va avanti da dieci anni, e non è ancora finita. E dire che io avevo chiesto e ottenuto il giudizio immediato. Se non è accanimento giudiziario questo, allora che cos’è?». 

Il pg di Torino: «Burzi non fu perseguitato dai giudici». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 27 Dicembre 2021. La nota del procuratore generale Saluzzo dopo il suicidio dell’ex consigliere: «Esponenti politici hanno ritenuto di utilizzare la morte di un uomo per accuse del tutto false e contraddette dai fatti speculazioni politiche». Ci sono alcuni esponenti politici (anche passati), scrive il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, «che hanno ritenuto di utilizzare la morte di un uomo per accuse del tutto false e contraddette dai fatti». La morte è quella di Angelo Burzi, 73 anni, l’ex consigliere e assessore regionale del Piemonte, suicidatosi la notte di Natale nel suo appartamento nel centro di Torino, dieci giorni dopo la condanna (a tre anni) nell’Appello bis del processo Rimborsopoli, sull’utilizzo dei fondi per il funzionamento dei gruppi consigliari. Una vicenda giudiziaria citata in una delle tre lettere lasciate a moglie, figlie e amici politici. Alcuni dei quali hanno poi attaccato l’operato dei magistrati, etichettando il caso che aveva coinvolto Burzi come «processo politico» o «persecuzione giudiziaria», a causa di «gente» che «amministra la giustizia solo per combattere nemici politici». È così che Saluzzo ha scritto un comunicato di quasi due pagine, difendendo quei colleghi che, ieri mattina al palagiustizia, si sentivano sotto accusa. Nonostante, il giorno prima, avesse voluto evitare qualsiasi polemica, vista la tragedia, «un evento di fronte al quale esprimo tristezza e umana condivisione dei sentimenti di dolore di chi gli era vicino».

La difesa dei magistrati

Dopodiché, con «garbo» formale, è passato a una durissima replica sostanziale, davanti ad «affermazioni inaccettabili», che «gettano discredito» e che «potrebbero costituire anche vilipendio dell’ordine giudiziario». Primo: «I magistrati non hanno “nemici” (neppure “amici”) e per quanto riguarda le Procure del mio distretto (e quella di Torino, in primo luogo) e la Procura generale, l’affermazione, oltre che “destabilizzante” e irricevibile, è ampiamente contraddetta dal fatto che indagini e processi hanno riguardato, negli anni, esponenti politici di differenti versanti». Morale: «Non c’è nulla di più lontano dal vero», sostenere che la Procura ordinaria e quella generale «avrebbero trattato situazioni identiche in modo differente, a seconda del diverso colore politico». Postilla: «Poi, certo, deve anche essere accettata la voce e la mano pesante della legge (di quelle leggi scritte dalle stesse persone che oggi additano “lo scandalo”) quando le regole vengono violate». Come era stato per Burzi — spiega Saluzzo —, condannato in Appello e, precedentemente, uscito dal secondo filone di Rimborsopoli con un patteggiamento a un anno e due mesi, diventato definitivo il 23 gennaio 2020. 

La lettera di Angelo Burzi, ex consigliere regionale suicida: «Io sono innocente, vittima di una ingiustizia». Gabriele Guccione su Il Corriere della Sera il 26 dicembre 2021. Condannato per Rimborsopoli. Cota: «Non si dava pace». «Io sono innocente, vittima di una ingiustizia». Una lettera indirizzata agli amici politici, tra cui l’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, in cui sono ricostruiti quasi dieci anni di traversie giudiziarie: il suo «calvario». Angelo Burzi, 73 anni, ex assessore e consigliere regionale, storico esponente di Forza Italia, ha voluto lasciare il suo j’accuse, con tanto di nomi e cognomi dei magistrati incrociati nel corso di quattro processi, prima di chiudersi nel bagno della sua casa in piazza Castello, a Torino, e di togliersi la vita con un colpo di pistola la notte di Natale.

La condanna

Appena dieci giorni avanti, il 14 dicembre, la Corte d’appello lo aveva condannato a 3 anni di carcere per i rimborsi — qualche migliaio di euro — che per la Procura (e i giudici) erano peculato; per lui spese legittime collegate all’attività politica. «Non si dava pace, non riusciva a farsi una ragione di quella che viveva come una profonda ingiustizia», racconta Cota, anche lui condannato (a 1 anno e 7 mesi) nello stesso processo. «È un’accusa da cui mi sento oppresso», aveva dichiarato Burzi nel maggio 2015, durante il dibattimento di primo grado, da quale uscì assolto. Sei anni più tardi, dopo la condanna in appello e un rinvio della Cassazione, la nuova pronuncia dei giudici di secondo grado: colpevole.

Forza Italia

Imprenditore e politico di lungo corso, Burzi aveva contribuito a far nascere Forza Italia in Piemonte nel 1993. Due anni più tardi era stato eletto per la prima volta in Consiglio regionale, dove è rimasto fino al 2014. Dal 1997 al 2002 era stato assessore al bilancio nella giunta di Enzo Ghigo. «Da uomo orgoglioso quale era — lo ricorda l’ex presidente azzurro — questa vicenda lo ha molto addolorato: con indubbie storture commesse da alcuni, anche molti politici retti e onesti sono stati travolti, convinti in buona fede, secondo le regole allora vigenti, di non aver mai commesso illeciti». Ora, tra gli amici del centrodestra, prende forma una iniziativa tutta politica: «Si istituisca una commissione parlamentare di inchiesta su Rimborsopoli per accertare ciò che è successo». Il primo a lanciarla è l’ex presidente Cota: «Sono state fatte delle ingiustizie tremende: le spese contestate ad Angelo, come quelle addebitate a me, erano del tutto comparabili con le spese di altri consiglieri che, a mio parere, sono stati giustamente prosciolti in altri gradi di giudizio. C’è stata una inspiegabile differenza di risultati — sostiene l’ex governatore leghista ora in Forza Italia —. Per questo credo sia necessario un serio approfondimento pubblico della vicenda».

Il cordoglio

Intanto è il momento del cordoglio, unanime. «Sono senza parole», afferma commosso il viceministro dello Sviluppo economico, anche lui di Forza Italia, Gilberto Pichetto. «È stata una persona con la quale era sempre intenso il dialogo e il confronto politico, un punto di riferimento per l’area liberale e come promotore di dibattito politico cittadino», dichiara il sindaco di Torino, il dem Stefano Lo Russo. Burzi se ne è andato, secondo il parere dell’amico e fondatore di Fratelli d’Italia Guido Crosetto, «piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie a cui ha detto basta!». Come se il suo fosse stato un atto politico, l’ultimo.

Angelo Burzi e le tre lettere prima del suicidio. «Oppresso dall’accusa di Rimborsopoli». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 27 dicembre 2021. I guai giudiziari erano arrivati con l’inchiesta sulle presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari. Ha lasciato tre lettere scritte a mano in camera da letto, indirizzate alla moglie, alle figlie e ad alcuni amici politici, poi è andato in bagno e si è tolto la vita, con un revolver di grosso calibro: la notte di Natale se ne è andato così Angelo Burzi, 73 anni, ex consigliere regionale di Forza Italia e assessore al Bilancio nella giunta di Enzo Ghigo. A quell’ora, poco prima di mezzanotte, si trovava da solo nell’appartamento di piazza Castello. In una delle missive — sequestrate dai carabinieri, insieme all’arma — si ripercorre, tra circostanze e nomi, la sua lunga vicenda giudiziaria fino alla recente condanna (a tre anni) nell’Appello bis del processo Rimborsopoli. Quelle spese ai tempi del Consiglio regionale, da lui fatte o autorizzate da capogruppo, che per la Procura (e i giudici) erano peculato. «Un’accusa da cui mi sento oppresso», disse nel maggio 2015, durante il dibattimento di primo grado, nel quale fu assolto dalle contestazioni. Sei anni più tardi, dopo la condanna in secondo grado e un rinvio della Cassazione, la storia era ancora in piedi, fino alla pronuncia dell’Appello bis, appunto, il 14 dicembre scorso.

Laureato in Ingegneria, imprenditore e politico di lungo corso, Burzi era stato tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte nel 1993, per poi essere eletto in Consiglio regionale due anni più tardi. Rieletto nel 2000, nel 2005 e nel 2010, poco dopo aveva dato vita al gruppo Progett’Azione. L’ultima iniziativa, cinque anni fa, era stata la fondazione Magellano, una sorta di pensatoio attraverso il quale avrebbe voluto rilanciare Torino. I guai giudiziari erano arrivati con l’inchiesta sulle presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari, poi etichettata Rimborsopoli. Una vicenda che gli aveva sempre pesato, come confidò lui stesso, durante l’esame da imputato, davanti al tribunale: «Di tanti anni di attività politica sono molto orgoglioso, ma non certo dell’episodio odierno».

Non era un’ammissione di colpevolezza, ma l’espressione di un disagio per essere finito sotto accusa, lui che a scanso di equivoci — rivendicò — i rimborsi proprio non li chiedeva: «Nel periodo oggetto del procedimento — si parla tra il 2010 e il 2012 — tutte le mie telefonate, nel dubbio che fossero di interesse privato o pubbliche, sono state tutte pagate da me». Tra le ipotesi del gesto c’è anche un accenno, nella missiva, alle condizioni di salute, ma gli amici escludono che possa essere il motivo. Gli accertamenti dei carabinieri partiranno così dai fatti: tre lettere e una 357 magnum a canna corta, regolarmente detenuta e intestata alla moglie.

Burzi, le lettere dell’ex assessore piemontese suicida dopo la condanna. La moglie: “Sentenza politica, era innocente”. Diego Longhin, Sara Strippoli su La Repubblica il 27 dicembre 2021. Tra i fondatori di Forza Italia, 73 anni, aveva ricevuto la pena più alta nel processo Rimborsopoli dopo essere stato assolto in primo grado. "Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente". Giovanna Perino ha avuto la lettera del marito che si è tolto la vita la sera della vigilia di Natale con un colpo di pistola. Un gesto che appare premeditato, organizzato nei dettagli. Angelo Burzi, 73 anni, liberale, ex assessore della giunta di Enzo Ghigo, tra i fondatori di Forza Italia, protagonista del passaggio al Pdl, fra banchi del Consiglio regionale tra il 1995 e il 2010, il 14 dicembre era stato condannato a tre anni di reclusione in via definitiva per peculato nell'ambito dell'inchiesta Rimborsopoli, una maxi indagine sull'uso improprio del denaro destinato ai gruppi consiliari.

Morto suicida l'ex consigliere regionale Angelo Burzi, tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte.  Carlotta Rocci su La Repubblica il 25 Dicembre 2021. Angelo Burzi aveva 73 anni, compiuti ad agosto. Aveva 73 anni. Si è tolto la vita in casa con un colpo di pistola. La fondazione Magellano l'ultima sua creatura. Due settimane fa la condanna per Rimborsopoli: il suo cruccio. Si è tolto la vita qualche minuto prima della mezzanotte nel suo appartamento di piazza Castello, a Torino, Angelo Burzi, ex consigliere regionale di Forza Italia. Burzi, 73 anni, ingegnere e imprenditore, una lunga carriera in politica, si è ucciso sparandosi alla testa con una pistola che aveva in casa e che era regolarmente detenuta. Sull'accaduto indagano i carabinieri della stazione Po Vanchiglia.  Burzi ha lasciato alcune lettere destinate alla moglie e alle due figlie. Le indagini sono in corso per capire le motivazioni del gesto ma Burzi aveva da poco scoperto di essere malato.

La fondazione Magellano, promossa cinque anni fa, era stata la sua ultima iniziativa: un pensatoio per rilanciare Torino perché come aveva detto in un'intervista a "Lo Spiffero" “bisogna ragionare guardando a dopodomani, perché dall’attuale situazione critica in cui vive Torino e, di conseguenza, il Piemonte non si esce in un batter d’occhio”.

Il dolore per Rimborsopoli

Ma Burzi è stato uno dei fondatori di Forza Italia in Piemonte, nel 1993. Fu eletto per la prima volta in consiglio regionale nel 1995. Venne rieletto nel 2000, nel 2005 e nel 2010. Nel 2012 diede vita al gruppo Progett'Azione. Dal 1997 al 2002 ricoprì la carica di assessore al bilancio nella giunta Ghigo. E' stato chiamato in causa nei processi celebrati dal tribunale di Torino (in parte ancora in corso) per le presunte irregolarità nell'utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari, meglio nota come Rimborsopoli. Una vicenda della quale - raccontano gli amici di partito - "continuava a soffrire: si sentiva perseguitato". Proprio due settimane fa, il 14 dicembre, era stato condannato a tre anni dalla Corte d'Appello di Torino per l'inchiesta sulle "spese pazze" dei gruppi consigliari che occupavano gli scranni di Palazzo Lascaris tra il 2010 e il 2014, periodo in cui Burzi guidava il gruppo di Forza Italia.

Lo Russo: riferimento liberale

"Ho appreso con grande dispiacere della tragica scomparsa di Angelo Burzi. È stata una persona con la quale era sempre intenso il dialogo ed il confronto politico". Lo dichiara il Sindaco di Torino, Stefano Lo Russo. "È stato - continua - un punto di riferimento per l'area liberale, come assessore, consigliere regionale e come promotore di dibattito politico cittadino".

Cota: non si dava pace

 "Angelo era intelligente, ma soprattutto di grande onestà e rettitudine. Ha vissuto con profonda ingiustizia Rimborsopoli, sulla quale credo sia ora necessario un approfondimento". L'ex presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, si commuove parlando di Burzi. E aggiunge: "In questi anni ho cercato di stargli accanto, ma ognuno reagisce a modo proprio. Angelo non si dava pace della ingiustizia con cui è stata gestita la vicenda Rimborsopoli, una delle pagine più incredibili della recente storia giudiziaria". 

Il ricordo di Ghigo

"Provo un profondo dolore per la scomparsa di Angelo. Politico di razza, autentico liberale, persona dalle grandi intuizioni. Il suo contributo nella fondazione di Forza Italia, così come nei miei anni di presidente del Piemonte è stato determinante nel creare un modello di governo regionale virtuoso che, ancora oggi, ci viene riconosciuto anche dagli avversari politici" sottolinea l'ex governatore Enzo Ghgio. "Rapportarsi con lui, come con tutte le persone di viva intelligenza è stato, a volte, sì impegnativo, ma sempre costruttivo e stimolante. Da uomo orgoglioso qual era, è stata sicuramente  per lui  dolorosa la vicenda giudiziaria che lo ha coinvolto in un periodo storico in cui, con indubbie storture commesse da alcuni, anche  molti politici retti e onesti sono stati travolti, convinti in buona fede, secondo le regole allora vigenti, di non aver mai commesso illeciti".

Le altre reazioni alla notizia

"Ho appreso della tragica scomparsa di Angelo Burzi. Sono vicina ai familiari, ed a chi gli è stato vicino in questi anni. A loro esprimo sentite condoglianze ed i sentimenti del più profondo cordoglio". Così il Vice Ministro dell'Economia e delle Finanze, Laura Castelli. "Sorpresa e costernazione" la esprime Osvaldo Napoli, deputato di "Coraggio Italia", che aggiunge: "Ho conosciuto e apprezzato un politico integerrimo, un uomo di assoluta integrità personale. Anche se la politica ci ha messo spesso su posizioni diverse, non è mai venuta meno la mia considerazione e la mia stima per le sue qualità. Sono vicino ai familiari e a loro esprimo il mio sincero e profondo cordoglio".

"Angelo Burzi èstato e resterà per sempre un punto di riferimento per l'area liberale che compone il nostro partito. Non è solo stato solo uno dei fondatori di Forza Italia a livello locale ma anche il primo e l'unico a creare una scuola di formazione politica degna di questo nome". Così, in una nota,  Marco Fontana, coordinatore cittadino di Forza Italia a Torino.

Luca Beatrice per Libero Quotidiano il 27 dicembre 2021. «Una di queste sere vengo a bere un gin tonic date, al ritorno dal mare», gli ho scritto la sera della vigilia di Natale. «Buona salsedine», mi risponde con la solita simpatia. Prima di mezzanotte Angelo Burzi decide di mettere fine alla propria vita. Il tempo di chiudere le lettere alla moglie Giovanna, alle figlie, ai più cari amici. Un colpo di pistola, poi il buio. Libero. Angelo era un uomo libero. Democratico, laico, di amplissime vedute, ironico, caustico, sarcastico e molto colto. Difficile e complesso, come ricorda Enzo Ghigo, «rapportarsi con lui, come con tutte le persone di viva intelligenza è stato, a volte, sì impegnativo, ma sempre costruttivo e stimolante». Parole che non sanno di prammatica: con Ghigo governatore del Piemonte, Burzi fu assessore al Bilancio e alle Finanze.  

CENTRODESTRA MODERATO Nel 1993 era stato tra i fondatori di Forza Italia in regione, quindi coordinatore e capogruppo del partito a Torino, nella migliore stagione del centrodestra che coincise con la rinascita della città della Mole dopo le crisi delle giunte rosse e la fine del pentapartito. Un centrodestra di estrazione moderata e antiestremista, aperto al nuovo, cap-ce non solo di amministrare ma anche sviluppare pensiero, e quando c'era da pensare Burzi faceva da riferimento. Dovere di cronaca impone di provare a capire le ragioni per un gesto così drammatico. Poche settimane fa era stato condannato in appello a tre anni di reclusione nel cosiddetto processo "Rimborsopoli bis" con l'accusa di peculato, coinvolto anche Roberto Cota. Proprio l'ex presidente regionale leghista, tra coloro che gli sono rimasti accanto, ha puntato il dito contro certi procedimenti: processi interminabili, interrogatori, perquisizioni, reati dai quali altri sono stati assolti. Difficile non pensare al consueto uso politico della giustizia, ritornando al tempo in cui un'intera classe dirigente fu azzerata nell'aule giudiziarie; è ciò che trapela dalle dure parole di Guido Crosetto su Twitter: «Non riesco a trattenere la rabbia, mi scuso. Da questa mattina non riesco a pensare che al suicidio di un uomo perbene e di ciò che lo ha spinto a quel gesto. Contro di lui (e molti altri) hanno usato la giustizia. Perché c'è gente che l'amministra solo per combattere nemici». Se questo è davvero il motivo scatenante per l'uscita di scena, abbandonando il campo in modo definitivo per interrompere un gioco durato fin troppo, chi conosceva e apprezzava Angelo Burzi oggi confonde il dolore con la rabbia. Tra i messaggi degli amici, chi lo ricorda come un uomo buono ucciso da gente spietata, chi avverte un vuoto enorme, chi ne rimpiange l'intelligenza da liberale, liberista, libertario, un combattente vero finché ha retto. Angelo aveva 73 anni. Una lunga esperienza ma un'età in cui si può dire e dare ancora molto. Ci rimase male a non essere considerato nell'ultima campagna elettorale torinese, avrebbe voluto offrire consigli utili e preziosi. Non per questo aveva smesso di pensare e progettare. Cinque anni fa creò la Fondazione Magellano, pensatoio per la Torino del futuro, e più di recente lanciato la startup RedAbissi, incuriosito dal mondo della comunicazione social. Di profonde letture, sosteneva di non capire troppo l'arte contemporanea, gli promisi una lezione sui Concetti spaziali di Fontana, purtroppo abbiamo rimandato e ora non potrà più ascoltarla.

GIUBBOTTO E CAPPELLO Tanti interessi ma una sola passione vera, se non una ragione di vita: la politica. Ne era deluso eppure a tratti ancora ci credeva. Smesse giacca e cravatta dell'ufficialità, si presentava all'appuntamento in un caffè con lo Schott marrone uguale a quello di Tom Cruise in "Top Gun" e un bel cappello a falda larga. Un gigante, un personaggio da film western o di guerra, generi che non sfornano più capolavori ma ancora resistono per chi ama il cinema vero. Sconvolgente la fine ma in qualche modo eroica, perché la dignità dell'uomo avverte per tempo quando sta giungendo il punto di non ritorno. Poi diranno che si erano sbagliati ma anche stavolta era troppo tardi.

Da “La Stampa” il 30 dicembre 2021. Pubblichiamo qui la lettera scritta dall'ex consigliere regionale piemontese Angelo Burzi poco prima di chiudere la propria esistenza con un colpo di pistola alla testa. Racchiude la sofferenza per le condizioni di salute incerte e per la convinzione che la condanna subita per Rimborsopoli fosse una profonda ingiustizia.

Ho vissuto splendidamente sino al compimento del mio 73mo compleanno. Poi, da settembre sono cominciati i problemi la notizia delle udienze alla fine previste per il processo di appello ed un iniziale mal di schiena. Partiamo da questo e si arriva ad una Pet di fine novembre, ad una biopsia ed a una Tac tutt' altro che positive.

Panorama non certo entusiasmante, ma c'è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del «peggio», non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte. Alla fine del processo di appello, 14 dicembre, ho totalizzato una condanna a tre anni per peculato svolto continuativamente dal 2008 al 2012.

I possibili sviluppi stanno in un possibile nuovo ricorso in Cassazione , che avrà con grande probabilità un esito nuovamente negativo . E qui iniziano i problemi seri perché interverrà la sospensione del vitalizio per la durata della condanna. Probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato. 

Credo tutto ciò sia soggettivamente insostenibile, banalmente perché col Vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l'ansia, l'angoscia che in questi anni ho generato oltre che a me stesso anche attorno a me nelle persone che mi sono più care, mia moglie, le mie figlie, i miei amici.

Preferisco dare loro oggi, adesso, una dose di dolore più violenta, ma una tantum poi la loro vita potrà ricominciare visto che hanno, contrariamente a me, una larga porzione di futuro davanti a sé, futuro che non voglio danneggiare o mettere a rischio con una inutile mia ulteriore presenza su questo palcoscenico. Siccome arrendermi non è mai stata un'opzione, frangar non flectar, esprimo la mia protesta più forte interrompendo il gioco, abbandonando il campo in modo definitivo. 

Serve anche fare un non esaustivo elenco dei personaggi che maggiormente hanno contraddistinto in maniera negativa questo mia vicenda in quasi dieci anni. Dapprima i giudici del primo processo d'appello, i quali, con una sentenza che definire iniqua e politicamente violenta è molto poco, azzerarono la sentenza di primo grado che mi vide assolto per insussistenza del fatto dopo due anni di dibattimento in aula.

Poi l'uomo nero, il vero cattivo della storia, il sostituto procuratore che dall'inizio perseguì la sua logica colpevolista, direi politicamente colpevolista, Essendo persona preparata e colta non si arrese rispetto alle assoluzioni del primo grado, ma appellandosi a sua volta ottenne la condanna nel successivo appello. Ancor più colpevole a mio avviso perché, conoscendo in dettaglio i fatti che mi riguardano, insistette nelle sue tesi. Infine trionfò pochi giorni fa con le decisioni della Cassazione.

In questo caso con il contributo significativo del presidente e relatore della Corte , le cui motivazioni non sono ancora note , ma è evidente che ci ha messo molto del suo . Desidero infine che il mio abbandono non sia in alcun modo connesso con il Natale . Spero però sia di esplicita condanna per coloro che ne sono stati concausa e di memoria per coloro che, leggendo queste poche righe, le potessero condividere. 

Importante anche non dimenticare il ruolo positivo della Presidente Bersano di Begey che svolse eccellentemente il suo non semplice ruolo durante il primo grado del processo, leggendo le carte disponibili, sentendo coloro che avevano titolo, distinguendo le spese per la loro inerenza al mandato dei consiglieri, condannando severamente i colpevoli ed assolvendo gli altri, fra i quali io stesso. Insomma facendo il giudice! 

Me ne vado in eccellente forma psichica, abbastanza traballante in quella fisica, certo che questo mio gesto estremo sia l'unica strada da me ancora percorribile la riduzione e la cessazione futura del danno! Siccome credo in Dio sono anche certo che Lui comprenderà e che quindi non passerò l'eternità tra le fiamme degli inferi. Con sincerità.

Caso Burzi, Pisapia: «Condanna inspiegabile dopo l’assoluzione». Pisapia: «Se in primo grado i magistrati avevano ritenuto l’assoluzione com’è possibile che intervenga in secondo grado la prova della colpevolezza?» Il Dubbio il 28 dicembre 2021. «Non conosco la vicenda nel merito e non posso fare valutazioni. Mi chiedo: se in primo grado i magistrati avevano ritenuto l’assoluzione com’è possibile che intervenga in secondo grado la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio? Se si ritiene che certi comportamenti di amministratori pubblici, magari in buona fede, creino dei danni erariali, la sede non è quella penale». Lo dice in una intervista a La Stampa l’avvocato Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano, in merito al suicidio dell’ex consigliere regionale piemontese Angelo Burzi alla vigilia di Natale.

«Non c’è dubbio», per Pisapia che “Mani pulite” sia stata una occasione sprecata. «In quel periodo sono successe cose positive e anche molto negative. Nessuno ne è uscito bene: non gli avvocati in coda davanti ai pm, non i magistrati che si sono profondamente divisi, non i giornalisti che si sono appiattiti sulle Procure. Ci vorrebbe un impegno comune per evitare una volta per tutte che la presunzione d’innocenza si trasformi invece sempre in presunzione di colpevolezza».

La riforma Cartabia «intanto recepisce una norma europea. Penso sia fondamentale perché ormai consideriamo normale parlare di un indagato, persona su cui non c’è stata alcuna valutazione di colpevolezza o innocenza, come sicuramente colpevole, facendogli vivere di solito una gogna mediatica che può avere effetti devastanti» ha aggiunto Pisapia.

«Il rapporto previsto dalla Costituzione parla di autonomia e indipendenza, e a quello bisogna ispirarsi mentre spesso magistratura e politica hanno cercato di condizionarsi reciprocamente – afferma – Le correnti possono continuare a dare un contributo culturale ma non all’interno del Csm con scambi su pacchetti di nomine che portano a scandalosi mercimoni. Credo che debba esistere un organismo disciplinare indipendente e diverso da quello che stabilisce, ad esempio, incarichi e carriere». 

Morte Burzi, il Pg Saluzzo: «I magistrati non hanno né amici né nemici». Il pg di Torino, Francesco Saluzzo, difende i magistrati del suo Distretto giudiziario, all'indomani del suicidio dell'ingegnere Angelo Burzi: ecco la nota. Il Dubbio il 27 dicembre 2021.

«Ho letto la tristissima notizia della morte dell’ingegner Angelo Burzi, evento di fronte al quale esprimo tristezza e umana condivisione dei sentimenti di dolore di chi gli era vicino. Seppur con il necessario garbo, debbo, però, intervenire sulle inaccettabili affermazioni di alcuni esponenti politici (anche passati) che hanno ritenuto di utilizzare la morte di un uomo per accuse del tutto false e contraddette dai fatti». Così in una lunga nota il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, che facendo rifermento ad alcune affermazioni secondo cui Burzi sarebbe stato vittima di accanimento giudiziario, osserva: «I magistrati non hanno “nemici” (neppure “amici”) e per quanto riguarda le Procure del mio Distretto (e quella di Torino, in primo luogo) e la Procura Generale, l’affermazione, oltre che “destabilizzante” e irricevibile, è ampiamente contraddetta dal fatto che indagini e processi (e non è necessario fare riferimento ai singoli procedimenti) hanno riguardato, negli anni, esponenti politici di differenti versanti. Perché l’azione di questi Uffici è rigorosamente ancorata ai principi ed alle garanzie costituzionali, alla imparzialità ed alla assoluta indipendenza».

Entrando nel merito delle contestazioni, Saluzzo spiega, punto per punto, perché sono ritenute inaccettabili.  «La prima – sottolinea – riguarda una pretesa parzialità nell’azione della Procura della Repubblica di Torino, prima, e della Procura Generale presso la Corte di Appello di Torino (l’Ufficio che io rappresento), dopo; che avrebbero trattato situazioni analoghe o identiche in modo differente; par di capire a seconda del diverso colore politico. Tesi che ha spinto alcuni degli intervistati a parlare di “processo politico” e di accanimento giudiziario (se ho compreso, a senso unico), per giungere all’affermazione di un esponente politico, secondo il quale “…c’è gente (evidentemente pubblici ministeri e giudici) che l’amministra (la giustizia) solo per combattere nemici”. Nulla di più lontano dal vero. I due Uffici requirenti, che hanno agito in una solida e convinta condivisione della impostazione, hanno valutato episodio per episodio, spesa per spesa e tutte le volte nelle quali è stato individuato un legame con un’attività o una finalità politica, anche blanda, vi è stata richiesta di archiviazione o non si è proceduto alla contestazione».

«Nei casi nei quali quella finalità, quella caratterizzazione non è stata provata vi è stato processo e, nella più parte dei casi, condanna. E, infatti, le affermazioni di responsabilità si sono avute per i casi di spese con scopi assolutamente privati (talvolta con carattere quasi “macchiettistico”), o di beneficio anche per terze persone, del tutto estranee all’attività ed all’azione politica dei singoli imputati. Così è stato per tutte, e sottolineo tutte, le persone portate al giudizio del Tribunale, poi della Corte di Appello e, nuovamente di questa, dopo la decisione della Corte di Cassazione» prosegue Saluzzo e osserva: «il criterio utilizzato, frutto di una scelta attenta, di garanzia e aderente alla lettera della legge penale è stato unico per tutti e per tutte le operazioni che sono state analizzate. Per nessuno è stato utilizzato un parametro differente. I magistrati non hanno “nemici” (neppure »amici«). Poi, certo, deve anche essere accettata la voce e la mano pesante della legge (di quelle leggi scritte dalle stesse persone che oggi additano “lo scandalo”) quando le regole vengono violate. Sicché userei maggiore prudenza nel fare e veicolare affermazioni che gettano discredito e potrebbero costituire anche vilipendio dell’ordine giudiziario».

«Il secondo punto – continua il pg di Torino – riguarda la posizione dell’ingegnere Burzi; si è tentato, con alcune delle interviste, di accreditare l’idea di una persecuzione giudiziaria nei suoi confronti e di una “coerenza” delle sue spese e di quelle che lui aveva autorizzato come capogruppo del suo movimento politico con le previsioni che vogliono rimborsabili le spese “per la politica”. Non è così: l’ingegner Burzi (che non ha mai “subito” perquisizioni, a differenza di quanto si legge) aveva “patteggiato” una pena di oltre un anno di reclusione per una serie di ipotesi che, evidentemente, non riteneva di poter contestare, pur rivendicando, in più occasioni, la correttezza complessiva del suo operato: spese che riguardavano sia alcune sue proprie sia spese autorizzate a beneficio di altri consiglieri del suo gruppo politico. Spese, soprattutto queste ultime, assolutamente non giustificabili e non riferibili a quel parametro del quale sopra ho scritto.

La recente condanna della Corte di appello di Torino, non è intervenuta su quella precedente applicazione di pena (c.d. patteggiamento) che era divenuta definitiva il 23.1.2020, ma, sulla base di quanto aveva disposto la Corte di cassazione, ha rivalutato quattro ipotesi di reato, e per esse vi è stata condanna, ed ha provveduto ad un ’ricalcolò della pena ed all’applicazione di un aumento per effetto della continuazione con quattro e diverse ipotesi di reato contestate. È poi gravissimo coinvolgere i Giudici nell’accusa di parzialità, come se le prospettazioni di un’accusa “parziale” nella sua azione trovassero facilmente la condivisione di numerosi Collegi giudicanti e della stessa Corte di cassazione che ha confermato la maggior parte delle decisioni di condanna e, per alcuni, ha rinviato al Giudice di appello per la rideterminazione della pena o per altre questioni tecniche».

«Debbo anche osservare come gli esponenti politici coinvolti non abbiano neppure mostrato di voler prendere atto della irregolarità (chiamiamola così) delle loro condotte, frutto di anni di prassi illegali, per operare una “svolta” all’interno del processo. Anzi, hanno orgogliosamente rivendicato la correttezza del loro operato, anche quando la realtà dei fatti denunciava un uso di risorse pubbliche per fini personali, anche di basso e assai discutibile profilo. Va ristabilita la verità e l’obiettività delle vicende e delle dinamiche. E nelle dinamiche processuali vi è anche la diversa valutazione del giudice (soprattutto di appello) che non deve essere apprezzato ed applaudito solo quando assolve o riduce le pene», conclude Saluzzo.

Fondatore di FI in Piemonte. Morto Angelo Burzi, l’ex assessore suicida in casa: “Vittima di ingiustizia su Rimborsopoli”.  Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Dicembre 2021. È morto nella tarda serata del 24 dicembre, alla vigilia di Natale, puntandosi la pistola alla testa. È scomparso così all’età di 73 anni l’ex assessore regionale del Piemonte Angelo Burzi una delle figure di spicco del mondo politico locale nell’area del centrodestra e decano di Forza Italia, tra i fondatori del partito azzurro in Piemonte. 

Stando alle prime ricostruzioni dei carabinieri, intervenuti in serata venerdì, Burzi, che era solo nella sua abitazione di piazza Castello a Torino, si è sparato alla tempia con la sua pistola regolarmente registrata.

Laureato in ingegneria elettronica, imprenditore, fu eletto per la prima volta in consiglio regionale nel 1995. Rieletto nel 2000, nel 2005 e nel 2010, dal 1997 al al 2002 ricoprì la carica di assessore al bilancio. L’ultima iniziativa politica era stata, cinque anni fa, la fondazione Magellano: un ‘pensatoio’ per rilanciare la città di Torino.

Le indagini per capire il movente del gesto estremo di Burzi sono in corso, con l’ex assessore che, riferisce Repubblica, avrebbe lasciato alcune lettere destinate alla moglie e alle due figlie. Ma un collegamento potrebbe essere quello riguardante le sue vicende giudiziarie.

Burzi era stata chiamato in causa nei processi celebrati dal tribunale di Torino, ancora in corso, per le ‘Spese pazze’ in Regione, ovvero le presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari.

Il 14 dicembre scorso l’esponente di Forza Italia era stato condannato dalla Corte d’Appello di Torino a tre anni di reclusione: tra il 2010 e il 2014, anni di ‘riferimento’ per l’inchiesta, Burzi era capogruppo del partito in Regione. 

A citare l’inchiesta è per esempio Roberto Cota, ex presidente della Regione Piemonte, condannato a un anno e 7 mesi nella stessa indagine: “Angelo era intelligente, ma soprattutto di grande onestà e rettitudine. Ha vissuto con profonda ingiustizia Rimborsopoli, sulla quale credo sia ora necessario un approfondimento”, spiega all’Ansa l’ex governatore leghista. 

A proposito di Rimborsopoli, insiste l’ex presidente del Piemonte, “purtroppo Angelo non riusciva a farsi una ragione della ingiustizia subita che, tra l’altro, ha portato a un inspiegabile differenza di risultati rispetto a spese assolutamente uguali e anche a sentenze diverse su fatti analoghi. Per questo credo sia necessario un serio approfondimento pubblico della vicenda, perché c’è stato un accanimento giudiziario che dura ormai da quasi dieci anni”.

Collegamento con l’indagine a carico di Burzi che arriva anche da Guido Crosetto, esponente di Fratelli d’Italia piemontese come l’ex assessore forzista: “Questa notte, Angelo Burzi, amico da 20 anni, intelligente e raffinato, uomo scorbutico, arguto, tenero e profondo, ha deciso che non valeva più la pena vivere in questo mondo. Piegato da anni di assurde ingiustizie e violenze giudiziarie, ha detto “basta!”. Addio, amico mio“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Angelo Burzi, la lettera alla moglie dopo il suicidio per la condanna: “Era innocente, sentenza politica”. Fabio Calcagni  su Il Riformista il 27 Dicembre 2021. La moglie Giovanna non ha dubbi, Angelo Burzi si è ucciso “perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente”. Il marito, 73enne ex assessore regionale in Piemonte, tra i banchi del Consiglio tra il 1995 e il 2010 e tra le truppe liberali che hanno fondato Forza Italia prima di passare poi nel Popolo delle libertà, è stato trovato morto alla vigilia di Natale.

Burzi era rimasto solo nella sua abitazione di piazza Castello a Torino, con una scusa era riuscito a lasciar andare la moglie dai parenti a festeggiare. Quindi, con una pistola regolarmente detenuta, l’ha fatta finita non prima di chiamare i carabinieri: “Sto per suicidarmi, non voglio che sia mia moglie a trovarmi, avvisatela voi”. Inutile infatti la corsa dei militari, che lo hanno trovato già privo di vita. 

Un suicidio che non era legato alla scoperta di una malattia, come inizialmente si era ipotizzato, ma alla condanna definitiva a 3 anni per l’inchiesta sulla cosiddetta ‘Rimborsopoli’ in Regione, ovvero le presunte irregolarità nell’utilizzo dei fondi destinati al funzionamento dei gruppi consiliari.

Il 14 dicembre scorso l’esponente di Forza Italia era stato condannato dalla Corte d’Appello di Torino a tre anni di reclusione: tra il 2010 e il 2014, anni di ‘riferimento’ per l’inchiesta, Burzi era capogruppo del partito in Regione. La pena più alta, quella per Burzi, in quanto capogruppo in Consiglio regionale. 

La moglie Giovanna Perino si sfoga e con Repubblica parla di “condanna politica” contro il marito. Burzi che, prima di compiere l’estremo gesto, le ha lasciato una lettera, assiema ad una seconda per le figlie e a una terza indirizzata a cinque amici fidati. 

“La sua è stata una condanna politica – dice la moglie – è stato perseguitato per quasi dieci anni. In primo grado Angelo era stato assolto, chi l’aveva giudicato in quella occasione aveva analizzato con attenzione la situazione”. Non a caso nella lettera lasciata alla moglie Burzi ringraziava la giudice Silvia Bersano Begey: “Angelo la ringrazia per il lavoro fatto, molto diverso rispetto a quello di altri suoi colleghi che sono venuti dopo“.

Una condanna vissuta come una profonda ingiustizia, perché gli sarebbe costata anche il vitalizio da consigliere regionale: “Per oltre 30 anni ha fatto politica. Era un uomo intelligente, molto intelligente. Se avesse voluto arricchirsi avrebbe trovato il modo, non certo con i buoni pasto e le cene rimborsate”.

Secondo Burzi infatti quelle migliaia di euro per le quali i giudici lo avevano condannato, erano in realtà spese legittime collegate all’attività politica e non peculato.

Il primo a evocare l’aspetto giudiziario dietro il suicidio di Burzi era stato l’allora governatore piemontese Roberto Cota, anche lui condannato a un anno e 7 mesi. “Angelo era intelligente, ma soprattutto di grande onestà e rettitudine. Ha vissuto con profonda ingiustizia Rimborsopoli, sulla quale credo sia ora necessario un approfondimento”, aveva spiegato all’Ansa Cota, oggi passato proprio in Forza Italia. 

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

M.Ner. per il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021. Ci sono alcuni esponenti politici (anche passati), scrive il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, «che hanno ritenuto di utilizzare la morte di un uomo per accuse del tutto false e contraddette dai fatti». 

La morte è quella di Angelo Burzi, 73 anni, l'ex consigliere e assessore regionale del Piemonte, suicidatosi la notte di Natale nel suo appartamento nel centro di Torino, dieci giorni dopo la condanna (a tre anni) nell'Appello bis del processo Rimborsopoli, sull'utilizzo dei fondi per il funzionamento dei gruppi consigliari. Una vicenda giudiziaria citata in una delle tre lettere lasciate a moglie, figlie e amici politici. 

 Alcuni dei quali hanno poi attaccato l'operato dei magistrati, etichettando il caso che aveva coinvolto Burzi come «processo politico» o «persecuzione giudiziaria», a causa di «gente» che «amministra la giustizia solo per combattere nemici politici». È così che Saluzzo ha scritto un comunicato di quasi due pagine, difendendo quei colleghi che, ieri mattina al palagiustizia, si sentivano sotto accusa. 

Nonostante, il giorno prima, avesse voluto evitare qualsiasi polemica, vista la tragedia, «un evento di fronte al quale esprimo tristezza e umana condivisione dei sentimenti di dolore di chi gli era vicino».

Dopodiché, con «garbo» formale, è passato a una durissima replica sostanziale, davanti ad «affermazioni inaccettabili», che «gettano discredito» e che «potrebbero costituire anche vilipendio dell'ordine giudiziario». Primo: «I magistrati non hanno "nemici" (neppure "amici") e per quanto riguarda le Procure del mio distretto (e quella di Torino, in primo luogo) e la Procura generale, l'affermazione, oltre che "destabilizzante" e irricevibile, è ampiamente contraddetta dal fatto che indagini e processi hanno riguardato, negli anni, esponenti politici di differenti versanti». 

Morale: «Non c'è nulla di più lontano dal vero», sostenere che la Procura ordinaria e quella generale «avrebbero trattato situazioni identiche in modo differente, a seconda del diverso colore politico». 

Postilla: «Poi, certo, deve anche essere accettata la voce e la mano pesante della legge (di quelle leggi scritte dalle stesse persone che oggi additano "lo scandalo") quando le regole vengono violate». Come era stato per Burzi - spiega Saluzzo -, condannato in Appello e, precedentemente, uscito dal secondo filone di Rimborsopoli con un patteggiamento a un anno e due mesi, diventato definitivo il 23 gennaio 2020.

MASSIMILIANO NEROZZI per il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021. A volte Angelo si sentiva come Josef K., il protagonista del Processo di Kafka, racconta un amico. «Riteneva che le sue spese fossero riconducibili all'attività politica e per questo non concepiva le accuse». La pensò così il tribunale di Torino, con l'assoluzione del 7 ottobre 2016; non i giudici dei due appelli e, nel mezzo, quelli della Cassazione, che per Burzi avevano chiesto un ricalcolo della pena. Insomma, per chi lo conosce da anni, e per anni gli è stato al fianco, fu un calvario: «Non sono nella testa di Angelo - diceva ieri Gianluca Vignale, a lungo compagno di gruppo in consiglio regionale e ora capo di gabinetto del presidente Cirio - ma uno dei motivi o il motivo principale che l'ha portato a compiere un gesto così tragico è stato il percorso giudiziario fatto in questi anni». Per un motivo: «Credeva nella giustizia e si sentiva innocente». Nel racconto di parte che sempre viene fuori dai ricordi dei famigliari, e dallo sfogo dei colleghi di partito, non ci sono dubbi, come dice a tutti anche la moglie, Giovanna Perino: «Ripeteva di essere innocente, e lo era. Invece l'hanno perseguitato, per dieci anni». Indagato nell'aprile 2013 nell'ambito di un'inchiesta della Guardia di finanza, coordinata dagli allora pm Giancarlo Avenati Bassi ed Enrica Gabetta, Burzi e altri consiglieri arrivarono al dibattimento di primo grado l'anno successivo, alla sentenza d'Appello nel luglio 2018, e alla fine del remake del secondo grado lo scorso 14 dicembre, dopo il rinvio della Cassazione.

Una vicenda lunga, come troppo spesso impongono i tempi della giustizia, che inevitabilmente gli aveva incupito l'anima: «Mi sento oppresso da questa accusa», disse davanti al tribunale, durante l'esame da imputato. Perché, «sono orgoglioso di tutti gli anni di attività politica, ma non di questo episodio». 

Non era ovviamente un'ammissione di responsabilità, ma l'esternazione di un disagio, per essere accusato di peculato: «Il peggio per una persona che fa parte delle istituzioni». Come conferma la moglie agli amici: «Era una delle cose che gli provocava più amarezza». Visto che ai suoi occhi, era tutto tragicamente semplice: «Quelle spese erano state fatte solo per attività politica». Con i mesi, che erano diventati anni, la frase si era trasformata in mantra, ricorda oggi Vignale, al suo fianco da consigliere fino al 2019: «Ne abbiamo parlato un sacco di volte, davvero tante». 

Per un po', Vignale aveva condiviso con Burzi pure il percorso giudiziario, prima di essere assolto in abbreviato nel primo filone di Rimborsopoli ed essere archiviato nel secondo. «Angelo - spiega Vignale - riteneva che le sue spese fossero riconducibili all'attività politica.

Esistevano regolamenti consigliari, ora scritti in maniera più precisa, ma che all'epoca parlavano di spese di rappresentanza». Per come conosceva Burzi e per «la persona che Angelo era», Vignale non ha dubbi sulla ragione ultima del suicidio. «Lui era un tipo intransigente con sé stesso, ma anche con gli altri», e pure per questo non sempre risultava simpatico. 

Però, «aveva il senso della politica, e sentiva la responsabilità di gestire le risorse pubbliche: per questo tutta la vicenda giudiziaria gli è pesata, tremendamente». Questa è però una versione della storia e di fronte all'altra, sottoscritta dai giudici, e da una sentenza nel nome del popolo italiano, Vignale è più cauto di alcuni ex colleghi di partito. Anche se ne comprende la rabbia: «Di fronte a una tragedia c'è un aspetto umano che non si può non comprendere, e per questo credo che vada sempre soppesato ciò che si dice su ciò che è avvenuto e sulla persona stessa». Come sospira un altro ex compagno in consiglio: «Non ci può non essere un moto d'animo, per chi ha vissuto le sofferenze di quella vicenda». O come ribadisce la moglie: «Era convinto di aver subito un'ingiustizia».

Guido Crosetto e Angelo Burzi: se li critichi, i magistrati gridano al vilipendio. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 29 dicembre 2021.

 È anche possibile che fossero mal dirette le considerazioni che Guido Crosetto, già parlamentare di Fratelli d'Italia, ha rivolto al caso di Angelo Burzi, il politico piemontese che la notte di Natale si è sparato in testa perché non sopportava il peso dei processi e del provvedimento di condanna di cui era destinatario, e che riteneva ingiusto. Crosetto ha dichiarato che quell'uomo era vittima di una giustizia orientata, perché «c'è gente che l'amministra solo per combattere i nemici»: e, appunto, è ben possibile che si trattasse di un giudizio gratuitamente rivolto ai magistrati che si sono occupati di quel caso. Ma, se pure fosse così, convincerebbe assai poco la lunga dichiarazione resa dal procuratore generale presso la Corte d'Appello di Torino, Francesco Saluzzo, secondo cui simili giudizi «gettano discredito e potrebbero costituire anche vilipendio dell'ordine giudiziario». Ora, ipotizzare che le sentenze uscite da quegli uffici, come da qualunque altro, possano essere il frutto di pregiudizi politicamente orientati può essere sbagliato: ma che arrechi «discredito» a un ordine di potere i cui esponenti hanno dato abbondantissima prova, e non si sa più quante volte, di comportarsi proprio in quel modo, esponendosi così a discredito per causa tutta propria, è a dir poco incauto. Per non dire dell'altra figura (il "vilipendio") evocata dal procuratore generale torinese, che suppone l'insulto indebito a un complessivo decoro istituzionale il quale, ancora una volta per condotta propria della magistratura stessa, non appare propriamente intonso. È forse già discutibile che un magistrato di vertice difenda il lavoro dei propri uffici replicando alle valutazioni critiche che, giustamente o no, si levano dal pubblico dibattito. Ma trarne argomenti a rivendicazione del credito dell'ordine giudiziario, e a vagheggiamento un po' minaccioso di ipotesi di vilipendio, è parecchio fuori segno.

Quando Gabriele Cagliari andò alle docce e mise la testa in un sacchetto. La morte di Angelo Burzi è solo l’ultima di una lunga lista iniziata con Tangentopoli. Un trentennio segnato dal rapporto distorto tra il mondo politico e la magistratura. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 29 dicembre 2021. «A i miei compagni di cella. 4 luglio ’ 93. Cari Ranieri e Vittorio, non preoccupatevi: è un suicidio in piena regola. Lo dichiaro in piena lucidità e capacità di intendere e volere. Intendo con questo evitare conseguenze per questo mio atto di cu non avete alcuna responsabilità. Vi ringrazio per la compagnia. Cella 102, V raggio».

Poi, dopo aver lasciato in bella mostra il biglietto, Gabriele Cagliari andò alle docce, mise la testa in un sacchetto di plastica – quello aveva, per suicidarsi – e si lasciò mancare l’aria. Il pm che lo aveva interrogato per l’ennesima volta gli aveva negato per l’ennesima volta la libertà, dopo aver lasciato intendere che invece, forse; poi, se n’era andato in vacanza. A Cagliari sembrava d’essere trattato «come un cane».

Scrisse in una lettera ai familiari: «Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto. Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile».

Anche Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale e fondatore di Forza Italia in Piemonte, che si è suicidato ieri l’altro dopo la definitiva condanna per “Rimborsopoli” ha scritto alcune lettere – alla moglie, alle figlie e a un gruppo di amici fidati. Deve averle preparate nei giorni precedenti, scritte con calma, con lucidità. Deve averle nascoste, per evitare che qualcuno le scoprisse. Poi, ha declinato un invito a cena in casa di parenti, a Biella, la vigilia di Natale, a cui invece la moglie è andata, ha preso la 357 Magnum, regolarmente detenuta – quello aveva, per suicidarsi – si è chiuso in bagno, e si è sparato. Prima però ha chiamato il 112 – chiedendo ai carabinieri di fare presto a venire, che non voleva fosse la moglie a scoprirlo.

Il figlio di Cagliari ha raccolto tutta la corrispondenza scritta dal padre in carcere e ne ha fatto un archivio “pubblico” online. Ci sono anche gli interrogatori e le poesie che scrisse in quei quattro mesi: «Prigione # 3. Passo e ripasso sulla mia orma / come il giaguaro imprigionato / che non ha pensiero ma ossessione: / feretro viola della mia pazzia. / “De profundis clamavit ad te” / a questa profondità ti chiamo / e ti richiamo anima del mondo. / Tu che ora tieni la falce alle mie spalle. Aprile 1993». Ma c’è anche: «Il giorno 9.3.93 alle ore 13.50 presso la Casa Circondariale di Milano S. Vittore, avanti a me, dr. Gherardo Colombo, Sostituto procuratore della Repubblica in Milano, è presente: CAGLIARI GABRIELE, in atti già generalizzato. ADR: Intendo rispondere. Confermo quanto ho dichiarato al GIP nell’interrogatorio di oggi».

Non sappiamo cosa vorrà fare e quando, la signora Giovanna Perino, moglie di Burzi, delle lettere del marito, se renderle pubbliche – «Si è ucciso perché si sentiva innocente, lo ha fatto perché era innocente», ha detto – e potremmo capire il pudore. L’ex governatore del Piemonte Roberto Cota, destinatario di una lettera, che con Burzi era finito nell’inchiesta e come lui è stato condannato, ha detto che Burzi ricostruisce tutta la sua vicenda giudiziaria. Io credo che queste lettere siano, in qualche modo, un “documento collettivo”, pubblico, come pubbliche sono state le vicende politiche e giudiziarie a cui fanno riferimento. Il suicidio di Burzi, come già quello di Cagliari, non è un “fatto privato”. Interroga tutti noi. Dovrebbe.

Sergio Moroni, deputato socialista travolto da Tangentopoli e che si suicidò il 2 settembre del 1992 con un fucile – quello aveva, per suicidarsi – nella cantina del condominio dove abitava, scrisse anche lui delle lettere prima del “gesto” ( «Quando la parola è flebile, non resta che il gesto» ). Una era indirizzata al presidente della Camera, Napolitano, e comincia così: «Egregio Signor Presidente, ho deciso di indirizzare a Lei alcune brevi considerazioni prima di lasciare il mio seggio in Parlamento compiendo l’atto conclusivo di porre fine alla mia vita».

E si sofferma su un punto che a me sembra ancora centrale: «Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e più giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire a evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, a evitare processi sommari ( in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna». Beh, non è andata così. E il suicidio di Burzi, trent’anni dopo, sta qui a mostrarcelo.

Certo, Rimborsopoli non è Tangentopoli – che fu un vero sconquasso della vita e della società politica. Eppure, nei suicidi di Cagliari e Moroni e Burzi, ritroviamo la medesima disperazione, il medesimo senso di ingiustizia, la medesima sensazione di essere «come cani ricacciati ogni volta al canile». Dovremmo chiederci tutti che cosa è successo, nel rapporto tra politica e magistratura, in questi trent’anni. Che cosa sta succedendo ancora. E ancora.

Morto l'ex assessore del Piemonte. Chi era Angelo Burzi, ultima vittima di Tangentopoli: distrutto dalla gogna si è tolto la vita la notte di Natale. Tiziana Maiolo su Il Riformista il  28 Dicembre 2021. Angelo Burzi è la quarantaduesima vittima di Tangentopoli. Ucciso dall’ingiustizia, si è tolto la vita la notte di Natale. Come Sergio Moroni, come Gabriele Cagliari, come i quarantuno che lo hanno preceduto. Cui vanno aggiunti quelli morti di dolore e di malattia dopo la gogna giudiziaria. Ha lasciato lettere molto precise di accusa contro l’uso politico delle inchieste, non un testamento ma una rivendicazione di dignità, di quell’immagine di persona perbene che la casta in toga ha voluto togliergli di dosso.

Burzi è stato uno dei fondatori di Forza Italia in Piemonte, poi capogruppo in Regione per quattro legislature, tra il 1995 e il 2010, e assessore al bilancio del governatore Enzo Ghigo. La vendetta politico-giudiziaria che lo riguarda, che si è scagliata come una bomba intrisa di moralismo su di lui come su centinaia di altri ex consiglieri e assessori di tutte le regioni d’Italia, si chiama “Rimborsopoli”. È un vero scandalo nazionale, nato su un equivoco (i fondi per i rimborsi spesa a disposizione dei gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno natura privatistica o pubblica?) e trasformato in una vera caccia all’uomo in ogni regione, con i consiglieri additati all’opinione pubblica come ladri del denaro pubblico e come persone prive di moralità.

Angelo Burzi aveva chiesto il rimborso di 3.600 euro per un video elettorale girato nella campagna del 2010. E poi altri 27.000 euro per pagare consulenze per progetti di legge. Era denaro a disposizione dei gruppi regionali per iniziative politiche. Lui, da liberale qual era, aveva usato i fondi con parsimonia, facendone un uso politico, come previsto e ritenuto lecito dai regolamenti in quegli anni. Non sapeva, come non sapeva nessuno, che il suo comportamento sarebbe stato anni dopo ritenuto un reato, peculato. Ma un tribunale presieduto da una giudice di quei (pochi) che decidono con il codice in mano, lo aveva assolto. E con lui l’ex presidente regionale Roberto Cota. La dottoressa Silvia Bersano Begey, presidente della prima sezione penale di Torino, morta nel febbraio scorso, viene citata nelle lettere d’addio di Angelo Burzi e ricordata nei necrologi sulla Stampa dai suoi colleghi così come dagli avvocati, come “Magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Se ne vanno sempre i migliori, potremmo banalizzare, ma sapendo che stiamo dicendo in questo caso qualcosa di vero, di reale.

Mani pulite, la stagione dei suicidi

Dieci anni di persecuzione politico-mediatico-giudiziaria. Perché a quell’assoluzione, nell’assurdità tutta italiana, con i pm che possono ricorrere contro processi finiti con l’innocenza dell’imputato, seguirono una condanna in appello, poi una Cassazione che fa ripetere il secondo grado e infine ancora la condanna. Tre anni di carcere. Con anche le umiliazioni parallele. Perché la Corte dei conti del Piemonte, come anche quella della Lombardia e altre ancora, cioè lo stesso tribunale che aveva sempre approvato i bilanci regionali e che non aveva mai sollevato obiezioni sulle modalità di spesa dei rimborsi, si era svegliata d’improvviso dal dormiveglia, scoprendo di botto il danno materiale e anche d’immagine arrecato dai consiglieri alla stessa Regione. Cominciando a chiedere indietro i soldi spesi e a erogare condanne pecuniarie. E d’incanto anche una torma di giornalisti da quattro soldi, con la penna intrisa nell’invidia e nel rancore politico, andava spigolando tra le carte per trovare quei pochissimi (veramente pochi) che avevano esagerato, facendosi rimborsare non solo le cene elettorali ma anche qualche scappatella non politica, non solo i libri ma anche oggetti diversi. Quei pochi erano diventati l’immagine deformata di tutti.

“Rimborsopoli”, proprio come la sua sorella maggiore “Tangentopoli”, è nata in gran parte nei titoli scandalistici di giornalacci, oltre che nella furia dei pubblici ministeri. «Angelo? Un innocente perseguitato per dieci anni», ha detto la moglie dell’ex assessore Burzi. E ha ricordato quanto il marito si sia sentito umiliato, dopo la sentenza di condanna dello scorso 14 dicembre, nell’apprendere che gli sarebbe stato tolto anche il vitalizio. Non un dispiacere dovuto a problemi economici, piuttosto uno sberleffo alla travaglio, un “tiè, così impari”, un calcio a chi è già per terra.

Un po’ quel che era capitato nel 1993 al socialista Sergio Moroni, uomo politico e farmacista stimatissimo di Brescia, che d’improvviso vedeva i suoi concittadini guardarlo con sospetto, dopo che una semplice informazione di garanzia era stata strombazzata sui giornali come una pena di morte. E suicidio fu. Ricordo la voce rotta dal pianto di Giorgio Napolitano, Presidente della Camera dei deputati, mentre leggeva la lettera d’addio. Anche quella era un forte messaggio politico, e piangevamo in molti, in quell’aula. Sconvolto, allora come in seguito, l’amico e compagno di partito Paolo Pillitteri: «Eravamo amici, la sua morte è la cosa più sconvolgente accaduta in quegli anni. Dopo aver ricevuto l’avviso di garanzia si sentiva respinto dalla sua città, non aveva più voglia di niente, era privo di speranza, era scomparso l’uomo forte che io conoscevo, era un uomo annientato».

Il punto è proprio questo: l’assassinio, la pena di morte. Quella che uccide la tua reputazione, prima di tutto. Perché un titolo di giornale, un’informazione di garanzia, e poi il processo e la sentenza possono annientarti. Ma quel che più uccide è il tempo che passa, lo scorrere dei giorni e degli anni, e tu intanto non puoi prendere un treno o un aereo perché, anche se prima nessuno sapeva chi tu fossi, “dopo”, dopo che la tua faccia è stata sbattuta in ogni dove, temi di esser riconosciuto e insultato.

Che importa se dieci anni dopo sarai assolto? Intanto tu per prendere quell’aereo devi mascherarti con occhialoni e cappellino, e vergognarti come un colpevole anche se non sei neanche mai passato con il semaforo rosso. Angelo Burzi, come Sergio Moroni, non ha sopportato tutto questo. Ha sottratto il suo corpo, non ha voluto esser costretto a mascherarlo per farlo accettare. Si è tolto di mezzo, ha scelto la dignità di quel colpo di pistola. Angelo era veramente una persona gentile, ha telefonato ai carabinieri perché arrivassero alla sua morte prima della moglie: non voglio che mi trovi lei, ha detto agli agenti. Si è chiamato fuori. Come Gabriele Cagliari, che la moglie e i figli aveva preferito non incontrarli a San Vittore, ma che aveva tanto sperato nella scarcerazione che, secondo il suo difensore Vittorio D’Ajello, gli era stata promessa, nella forma dei domiciliari, dal pm De Pasquale.

La sua lettera d’addio («siamo come cani in un canile», «il detenuto è una pratica da sbrigare», «il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima») è un documento politico che ogni pm, che ogni giudice dovrebbe tenere sulla scrivania prima di chiedere o dare la galera. Non dimenticherò mai la cella numero 102 del quinto raggio, quello dei detenuti “comuni” e lui che, due giorni prima di darsi una morte non prevista, mi pregava di occuparmi di “quel ragazzo del Ghana”. Lui sperava almeno di poter andare a casa, e aveva familiari e avvocati. L’altro non aveva niente. Due giorni dopo lui non c’era più.

Non ricordo, nel corso di questi trent’anni, di aver mai sentito qualcuno di quei pubblici ministeri di Mani Pulite, esprimere parole di cordoglio, di dispiacere per quelle quarantuno persone che si sono tolte la vita, né per quelle che sono morte d’infarto o di tumore per l’ansia o il desiderio inconscio di completare la distruzione del proprio corpo, iniziata dal cinismo di pm e giornalisti. Ricordo solo, purtroppo, quel che disse un giorno uno di loro, il procuratore Gerardo D’Ambrosio, alla notizia dell’ennesimo suicidio: «Vuol dire che c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Peccato che non sia una virtù di certi magistrati.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La gogna, il suicidio, le accuse. Travaglio e il pg Saluzzo fanno a gara di ferocia sul corpo di Burzi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Dicembre 2021. Può un Procuratore generale di una città importante come Torino, un austero e rigoroso esponente di Magistratura Indipendente, ritrovarsi suo malgrado al livello di Marcolino l’Ignorantone del diritto? Parrebbe impossibile, pure è accaduto anche questo, nel pentolone ormai ribollito dell’amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Che il suicidio di Angelo Burzi, ex consigliere e assessore della Regione Piemonte, e soprattutto il messaggio politico contenuto nelle lettere che lui ha lasciato, avrebbero suscitato discussioni e polemiche era ampiamente prevedibile.

Perché questi processi, che portano il nome di “Rimborsopoli” e che hanno riguardato tutte le Regioni italiane, hanno avuto sentenze a macchia di leopardo, prima di tutto per la difficoltà interpretativa sulla natura e l’uso dei fondi rimborso messi a disposizione di ogni gruppo e partito e poi di ogni singolo consigliere. Poi anche perché, come nel caso del Piemonte, è apparso agli esponenti di alcuni partiti locali una disparità di trattamento “politico” soprattutto da parte dei rappresentanti dell’accusa. Resta il fatto, principale, che diversi giudici abbiano palesato quanto meno quel “ragionevole dubbio” che impone l’assoluzione degli imputati. In Liguria, in Emilia, nel Lazio e anche in Piemonte in primo grado. Possibile però che la casta dei procuratori non abbia mai dubbio alcuno? Possibile che mai, ma proprio mai, qualche pm abbia la curiosità, come gli impone la legge, di andare a curiosare tra indizi e prove, per vedere se ce ne sia qualcuna in favore dell’imputato?

Il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo ha ritenuto di spendere il suo tempo e la sua competenza per tentare di precisare, ma anche di arginare la valanga di commenti e di autentico sconcerto per un evento tragico motivato dallo stesso autore come gesto politico e di protesta contro l’ingiustizia di una parte della magistratura. Due pagine, che l’alto magistrato chiede siano pubblicate integralmente. La Stampa, quotidiano torinese, l’ha fatto. Gli altri hanno spulciato. Ma è importante leggerlo tutto. Stride subito un’assenza. Il ricordo della dottoressa Silvia Bersano Begey, la presidente della prima sezione penale di Torino che assolse Angelo Burzi e i suoi colleghi, ritenendo le sue e le loro richieste di rimborsi compatibili con spese di rappresentanza. Non si può ricostruire la vicenda giudiziaria dell’ex assessore di Forza Italia senza ricordare questo passaggio processuale e i suoi protagonisti. Soprattutto quella presidente che Angelo Burzi ringrazia per la sua correttezza nelle sue lettere d’addio e che gli stessi magistrati e avvocati torinesi hanno voluto ricordare, dopo la sua morte prematura nel febbraio scorso come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”.

Non si può dimenticare questa giudice, e poi concludere con un concetto che è addirittura opposto a quello espresso nei necrologi che la ricordano. Con queste parole: «Va ristabilita la verità e l’obiettività delle vicende e delle dinamiche. E nelle dinamiche processuali vi è anche la diversa valutazione del giudice (soprattutto di appello) che non deve essere apprezzato ed applaudito solo quando assolve o riduce le pene». Nessun applauso dunque, né per i vivi né per i morti. Ma se ci guardiamo intorno e vediamo le diverse decisioni assunte da diversi tribunali per fatti simili se non uguali, vogliamo farci attraversare la fronte da un’ombra di dubbio, prima di parlare di “verità” e “obiettività” dei fatti? Un’altra frase del procuratore – la penultima delle due pagine – colpisce. E stupisce per lo stupore del dottor Saluzzo nel constatare il mancato “pentimento” dei suoi imputati. «Debbo anche osservare come gli esponenti politici coinvolti non abbiano neppure mostrato di voler prendere atto della irregolarità (chiamiamola così) delle loro condotte, frutto di anni di prassi illegali, per operare una “svolta” all’interno del processo. Anzi, hanno orgogliosamente rivendicato la correttezza del loro operato…».

Ecco, appunto, davanti a questo quadro, a quanto pare generalizzato, davanti a questo orgoglio di tanti esponenti politici, non viene un dubbio sul confine tra legalità e illegalità, su regolarità e irregolarità, su prassi e regolamenti? Certo, “peculato” è una parola dolce da assaporare, soprattutto quando serve a richiudere la classe politica, tutta quanta, in quel “serraglio” di cui parlava Gabriele Cagliari. Certi magistrati, nel distinguo perenne tra il noi e il voi, tra il puro e l’impuro, non si rendono neanche conto del fatto di svolgere un ruolo politico. Che senso ha, per esempio, rappresentare l’accusa nel processo di primo grado e poi tornare sullo stesso scranno come pg nell’appello come è successo a Torino al dottor Giancarlo Avenati Bassi? Come potrebbe capitare a Milano all’appello del processo Eni con il pm Fabio De Pasquale? Come si pretende che nei processi politici come quelli di “Rimborsopoli” o di grande impatto mediatico come quello dell’Eni, l’opinione pubblica non pensi a un accanimento da parte delle Procure, se lo stesso accusatore che ha “perso” la prima causa, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nella seconda? Anche se la legge glielo consente?

Riprendiamo per ultimo, l’argomento di apertura di queste riflessioni. “Con garbo”, proprio come ha scritto il procuratore Saluzzo. Ci rendiamo conto che il paragone con un Travaglio qualunque per l’alto magistrato è decisamente una forzatura di cui ci scusiamo in anticipo. Però, se il caro Marcolino l’Ignorantone del diritto ignora il fatto che il patteggiamento non comporta l’ammissione del reato contestato, non è un po’ la stessa cosa sostenere che Angelo Burzi “non riteneva di poter contestare” alcuni addebiti “pur rivendicando in più occasioni la correttezza complessiva del suo operato”? E che avrebbe scelto di patteggiare una pena nel “Rimborsopoli due” perché non era in grado di difendersi dalle accuse? Non viene il dubbio che magari semplicemente lui non ne potesse più, dopo dieci anni, di questi processi uno e due che si inseguivano come un gioco di specchi all’infinito? E che abbia alla fine detto basta proprio per questo? Travaglio queste cose non le può capire, anche perché a volte, per come parla e scrive, pare privo di quegli organi vitali, che vanno del cervello al cuore, che gli sarebbero utili anche per ragionare sulle ingiustizie del mondo. Ma un magistrato colto e preparato come il dottor Saluzzo forse potrebbe rifletterci sopra.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La morte dell'ex assessore del Piemonte. Suicidio di Angelo Burzi, tra giornalisti e pm si scatenano gli sciacalli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Dicembre 2021. Il suicidio di Angelo Burzi ha sollevato qualche leggera protesta nel mondo politico. Di solito silente e devoto di fronte alle iniziative della magistratura. Stavolta qualcuno ha fatto sentire la sua voce -persino nel mondo giornalistico – e ha osservato come la spietatezza ingiusta della giustizia, a volte, porta a conseguenze tragicissime. Angelo Burzi era una persona perbene che aveva dato molta della sua intelligenza e delle sue doti alla politica. Cosa che una volta – quando io ero giovane – era considerata apprezzabile. Oggi invece, nel senso comune, è segno di corruzione e di avidità. Diceva Manzoni, “In quel tempo Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”. Non è cambiato molto da allora (1630, più o meno).

Burzi si è ucciso, sparandosi, perché non sopportava una condanna penale ingiusta e l’accusa di essere un corrotto. È segno di forza sacrificare la vita alla difesa della propria dignità, non di debolezza o tremore. Il partito dei Pm invece ha reagito senza nessuna paura né gentilezza. Di fronte alla morte di una vittima della giustizia, ha gridato, più o meno, e più o meno all’unisono: “era giusto che morisse, ha peccato, ha sbagliato, ha commesso reato”.

Burzi era stato assolto in primo grado. I giudici avevano detto che il suo non è reato. Ma in Italia una persona può essere giudicata innocente e poi condannata con le stesse accuse dalle quali era stato assolto. E con le stesse prove. È uno dei pochissimi paesi dove succede questo. I Pm da noi hanno il diritto di allungare finché vogliono i tempi supplementari e di ignorare qualsiasi assoluzione. Se ti vogliono inchiodare, tranquillo, ti inchiodano.

A guidare l’offensiva spietata e incivile del partito dei Pm si sono impegnati il capo del partito, Marco Travaglio (che ieri nel suo editoriale è giunto a sbeffeggiare il morto), e il procuratore generale di Torino. Credo che non fosse mai successa una cosa del genere. Io, per esempio, so leggere da 64 anni, ma un articolo fuori da ogni senso di umanità come quello di Travaglio non l’avevo mai letto. Credo che anche molti giornalisti del Fatto non lo avessero mai letto e che condividano questo mio stupore.

Penso che ormai sia aperta una grande questione morale. Riguarda la ferocia di un pezzo di magistratura che sta travolgendo la nostra civiltà e lo spirito pubblico di questo paese. Troviamo il coraggio per porre questa questione morale sul tavolo, e per chiamare la politica, gli intellettuali, pezzi di giornalismo e di scienza, e del diritto, e della stessa magistratura, a reagire? O preferiamo scivolare piano piano nell’infamia?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Il suicidio del Consigliere Regionale piemontese. “Le parole di Saluzzo su Burzi sono gravissime”, i penalisti contro il pg di Torino. Redazione su Il Riformista il 29 Dicembre 2021. Il suicidio del Consigliere Regionale piemontese Angelo Burzi pone drammaticamente questioni di elementare evidenza. Restare prigionieri di una accusa e di un processo per dieci anni è una barbarie, qualunque sia l’accusa, qualsiasi siano le responsabilità. Restarlo dopo essere stati assolti in primo grado “perché il fatto non sussiste” aggiunge infamia alla barbarie, e non è da tutti riuscire ad accettarla. Angelo Burzi non c’è riuscito. Tutto qui, tragicamente semplice nella sua evidenza.

Eppure dobbiamo leggere, sul solito gazzettino delle manette, che il torto risiederebbe nelle parole di chi si scandalizza per tale barbarie ed esprime umana compassione per chi ne è stata vittima. (Parole peraltro condite dalla consueta dose di disinformazione tecnica: l’annullamento della Cassazione, ad eccezione di un capo divenuto definitivo, riguardava non la semplice rideterminazione della pena, come afferma Travaglio, ma la sussistenza dell’elemento soggettivo della condotta!). Non meno gravi ci appaiono le parole del Procuratore Generale di Torino, dott. Saluzzo, il quale ha ritenuto di dover intervenire (non è ben chiaro in difesa di chi e di cosa), finendo per minacciare addirittura reazioni giudiziarie verso quanti, esprimendo quello sgomento e quelle censure, si macchierebbero di vilipendio della magistratura.

Invece di serbare un silenzio rispettoso della tragica vittima di quella barbarie (un processo infinito nonostante una assoluzione piena in primo grado), o semmai di aprire una riflessione sulla compatibilità tra l’appello del Pubblico Ministero contro sentenze assolutorie ed il principio della condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”, il dott. Saluzzo – e non è cosa nuova per lui – mena fendenti, invocando il più odioso dei reati a tacitazione delle legittime critiche.

I penalisti italiani esprimono tutta la umana e partecipe vicinanza ai familiari di Angelo Burzi, e tutta la più orgogliosa, incommensurabile distanza, culturale ed etica, dalle posizioni espresse da Marco Travaglio e da Francesco Saluzzo sul tragico epilogo di una vicenda giudiziaria di per sé incompatibile con i principi costituzionali del giusto processo.

Il caso del Consigliere regionale piemontese. Caso Burzi, perché i magistrati dovrebbero ripassare la Costituzione. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. «Non si possono scaricare le falle di un sistema solo sulle spalle della magistratura». Chi parla non è una di quelle toghe firme abituali del Fatto, di quelle che difendono la corporazione a prescindere, ma un magistrato moderato e in genere ragionevole come Fabio Roia, vicepresidente vicario del tribunale di Milano, ex membro del Csm e che fu segretario di una corrente di centro della magistratura, Unicost.

Parla dalle colonne della Stampa, intervistato dallo stesso giornalista, Paolo Colonnello, che il giorno precedente aveva dialogato, con ben altro risultato, con Giuliano Pisapia, avvocato e parlamentare europeo. È un vero peccato che non si possa individuare una sia pur flebile voce di magistrato che, dopo la tragedia che ha visto suicida l’ex consigliere e assessore regionale del Piemonte Angelo Burzi, sappia discostarsi dal formale “doveroso rispetto” per chi non c’è più, per capirne invece le ragioni esplicite e trasparenti messe nero su bianco nelle lettere d’addio. Un’occasione persa. Quasi come se l’intera magistratura avesse delegato una sorta di pensiero unico di casta al procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo. Il quale, nelle due pagine di autodifesa dalle critiche per la conduzione della procura di Torino nei diversi gradi di giudizio che hanno visto alla sbarra come imputati una serie di consiglieri regionali piemontesi, aveva ipotizzato il reato di vilipendio dell’intera magistratura a carico di chi avesse osato avanzare certe critiche.

Eppure non c’è bisogno di conoscere i processi, di aver letto le carte, per tentare qualche ragionamento elementare. Basta la conoscenza della Costituzione. Come fa Giuliano Pisapia, che ricorda prima di tutto come già il processo, soprattutto se prolungato negli anni, sia una sofferenza per l’imputato. Cui immediatamente il Presidente Roia replica che anche le vittime e le parti civili soffrono. Il che è più di un’ovvietà, è un modo astuto di mettere le cose a posto nel mondo dei puri e degli impuri. Anche se innocenti secondo la Costituzione. Ma è proprio la legge delle leggi che impone anche la ragionevole durata del processo. Quindi, restare otto o dieci anni, o anche più, in attesa di un verdetto è o no una violazione di legge, oltre che sofferenza atroce, anche quando non ci siano vittime sul selciato?

Il secondo dettato costituzionale evocato da Giuliano Pisapia è che per poter condannare, occorre la ragionevole certezza della colpevolezza. Se un imputato è ritenuto innocente “oltre ogni ragionevole dubbio”, su quali basi un pubblico ministero chiede di ricominciare daccapo, di fare un altro processo? Voglia di vincere a tutti i costi? E ancora: sulla base di quali nuove prove, di quali elementi, di quali testimonianze, in processi come quello che ha riguardato Angelo Burzi, la corte d’appello ha riformato la sentenza di primo grado e ha condannato? Oltre a tutto c’è un dubbio di fondo, in queste vicende di scontrini e rimborsi, e riguarda lo stesso intervento dello strumento penale. «Se si ritiene –è il ragionamento di Pisapia- che certi comportamenti di amministratori pubblici, magari in buona fede, creino dei danni erariali, la sede non è quella penale».

È questo il punto cruciale di un discorso generale, di un momento della storia in cui ci sta precipitando addosso come una valanga un eccesso di giurisdizione, in cui tutto pare diventare reato. Come se i nostri comportamenti, anche i più banali, fossero spiati da qualcuno che cerca i reati, che li costruisce per noi. Per decenni i gruppi regionali, come quelli parlamentari, hanno distribuito i fondi destinati ai rimborsi delle spese per la propria attività politica e di rappresentanza ai singoli esponenti politici con controlli basati sull’autocertificazione. I famosi scontrini. Non c’erano elenchi rigorosi e specifici sulla tipologia di spese rimborsabili. Spettava a ogni capogruppo ammettere o respingere ogni documentazione, e in genere vigeva una certa flessibilità. C’è stato qualcuno che si è allargato? Sì, ma sono stati pochi, e quei pochi hanno riempito i titoloni dei giornali.

Le inchieste penali su “Rimborsopoli” sono iniziate quando la situazione politica lo sollecitava (onestà, onestà), proprio come nel 1992 era scoppiata “Tangentopoli”. Ma trent’anni fa si parlava di mazzette e di finanziamento illecito ai partiti di milioni di lire. Non di scontrini per spese di qualche migliaio di euro per cene elettorali o piccole consulenze. Non è un caso se ci sono state sentenze a macchia di leopardo in tutta Italia. Perché la verità è quella di Pisapia (e ci saremmo aspettati la condivisione di un magistrato come Roia): che cosa c’entrano il codice penale e il peculato? Ci sono stati giudici che hanno condiviso questo dubbio di fondo e lo hanno scritto, mentre assolvevano gli imputati “perché il fatto non sussiste”, come la presidente della prima sezione penale di Torino Silvia Begano Bergey.

Oggi ne possiamo citare un altro – come ha ricordato sul Foglio Carmelo Palma, giornalista ed ex consigliere regionale piemontese-, il gip bolognese Letizio Magliaro. Il quale si rammaricava del fatto che certi comportamenti politici autopromozionali eccessivi non avessero trovato altra forma di sanzione fuori delle aule di giustizia. E così concludeva: «L’amara constatazione che ciò normalmente non accade non può però indurre a una impropria sostituzione della responsabilità penale a quella politica; su ciò di cui il giudice penale non può parlare, occorre tacere». Bologna, sentenza 2191/15. Da incorniciare.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il 'memoriale'. La lettera di Angelo Burzi prima del suicidio: “Sono innocente, sentenza iniqua e politicamente violenta”. Redazione su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Pubblicata nel giorno dell’ultimo saluto, con i funerali che si son svolti nella chiesa di San Filippo Neri, nel centro storici di Torino. È stata resa nota oggi l’ultima lettera di Angelo Burzi, tra i fondatori di Forza Italia in Piemonte ed ex assessore regionale, che la sera del 23 dicembre scorso si è ucciso in casa. 

Burzi era stato condannato a tre anni dalla Corte d’Appello a Torino per la cosiddetta ‘Rimborsopoli’ e da sempre si riteneva vittima di accanimento giudiziario.

Ho vissuto splendidamente sino al compimento del mio 73mo compleanno. Poi, da settembre sono cominciati i problemi… la notizia delle udienze alla fine previste per il processo di appello ed un iniziale mal di schiena. Partiamo da questo e, abbreviando un percorso durato tre mesi, si arriva ad una Pet di fine novembre, ad una biopsia ed a una Tac tutt’altro che positive. Si preannuncia quindi un prossimo futuro di approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio.

La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte. Alla fine del processo di appello, 14 dicembre u.s., ho totalizzato una condanna a tre anni per peculato svolto continuativamente dal 2008 al 2012. I possibili sviluppi stanno in un possibile nuovo ricorso in Cassazione, che avrà con grande probabilità un esito nuovamente negativo, diciamo alla fine del 2022. E qui iniziano i problemi seri perché interverrà la sospensione dell’erogazione del vitalizio per la durata della condanna. Probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine decina di migliaia di euro.

Conclusioni

Credo tutto ciò sia soggettivamente insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato oltre che a me stesso anche attorno a me nelle persone che mi sono più care, mia moglie, le mie figlie, i miei amici. Preferisco dare loro oggi, adesso, una dose di dolore più violenta, ma una tantum… poi la loro vita potrà ricominciare visto che hanno, contrariamente a me, una larga porzione di futuro davanti a sé, futuro che non voglio danneggiare o mettere a rischio con una inutile mia ulteriore presenza su questo palcoscenico.

Siccome arrendermi non è mai stata un’opzione, frangar non flectar, esprimo la mia protesta più forte interrompendo il gioco, abbandonando il campo in modo definitivo. Serve anche fare un non esaustivo elenco dei personaggi che maggiormente hanno contraddistinto in maniera negativa questa mia vicenda in quasi dieci anni. Dapprima i giudici del primo processo d’appello, i quali, con una sentenza che definire iniqua e politicamente violenta è molto poco, azzerarono la sentenza di primo grado che mi vide assolto per insussistenza del fatto dopo due anni di dibattimento in aula. Poi l’uomo nero, il vero cattivo della storia, il sostituto procuratore che dall’inizio perseguì la sua logica colpevolista, direi politicamente colpevolista. Essendo persona preparata e colta non si arrese rispetto alle assoluzioni del primo grado, ma appellandosi a sua volta ottenne la condanna nel successivo appello. Ancor più colpevole a mio avviso perché, conoscendo in dettaglio i fatti che mi riguardano, insistette nelle sue tesi. Infine trionfò pochi giorni fa con l’esito del rinnovato appello determinato dalle decisioni della Cassazione.

In questo caso con il contributo significativo del presidente e relatore della Corte, l’ultimo arrivato sulla scena, le cui motivazioni non sono ancora note, bisogna attendere i 90 giorni dalla sentenza, ma è evidente che ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa. Se la procedura glielo avesse consentito, credo le avrebbe ampliate.

Desidero infine che il mio abbandono non sia in alcun modo connesso con il Natale, è solo dovuto alla concomitante assenza fisica di mia moglie, il che lo rende oggi praticabile. Spero però sia di esplicita condanna per coloro che ne sono stati concausa e di memoria per coloro che, leggendo queste poche righe, le potessero condividere. Importante anche non dimenticare il ruolo positivo della Presidente Bersano di Begey che svolse eccellentemente il suo non semplice ruolo durante il primo grado del processo, leggendo le carte disponibili, sentendo coloro che avevano titolo, distinguendo le spese per la loro inerenza al mandato dei consiglieri, condannando severamente i colpevoli ed assolvendo gli altri, fra i quali io stesso. Insomma facendo il giudice!

Me ne vado in eccellente forma psichica, abbastanza traballante in quella fisica, certo che questo mio gesto estremo sia l’unica strada da me ancora percorribile… la riduzione e la cessazione futura del danno! Siccome credo in Dio sono anche certo che Lui comprenderà e che quindi non passerò l’eternità tra le fiamme degli inferi.

Con sincerità,

Angelo Burzi

Ps: chi fosse destinatario di queste parole sappia di essere autorizzato a farne l’uso che crede. Ne posso rispondere solo io, che però non ci sarò più.

E il pm insultò i giudici di Cassazione: molti di loro non passerebbero l'esame. Luca Fazzo il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. La toga Avenati Bassi contro la suprema Corte che aveva annullato le condanne: "Sono registrato e questo mi inibisce..." Per il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo i parlamentari che hanno criticato, dopo il suicidio di Angelo Burzi, la gestione dell'inchiesta sulla Rimborsopoli piemontese hanno commesso il reato di «vilipendio alla magistratura». Sarà. Ma che dire allora delle parole che Avenati Bassi, il «vice» di Saluzzo incaricato di rappresentare l'accusa nel processo ai consiglieri regionali, ha usato contro la magistratura di cui egli stesso fa parte? Anche il dottor Avenati Bassi è andato giù pesante, rasentando l'insulto. E non contro un magistrato qualunque ma contro la Cassazione. La colpa della Suprema Corte: avere annullato, ordinando un nuovo processo, buona parte delle condanne - compresa quella del povero Burzi - che Avenati Bassi era riuscito a ottenere nel processo d'appello. I magistrati che hanno annullato le condanne, per il combattivo pg torinese sono praticamente dei somari, gente che non avrebbe dovuto nemmeno superare il concorso per indossare la toga.

Di alcuni aspetti particolari del linguaggio di Avenati Bassi ha ampiamente riferito nei giorni scorsi sul Giornale Paolo Bracalini. Stiamo parlando, d'altronde, di un magistrato che dopo avere chiesto l'assoluzione di esponenti della sinistra e la condanna degli imputati di centrodestra non ha ritenuto inopportuno accettare la designazione da parte del Pd a consulente della commissione parlamentare di inchiesta sulle banche.

Ciò premesso, la lettura della trascrizione integrale della requisitoria pronunciata da Avenati Bassi lo scorso 30 novembre davanti alla Corte d'appello torinese contro i venti consiglieri regionali è ugualmente una lettura sorprendente. Il sostituto pg deve convincere la Corte che le condanne annullate dalla Cassazione si possono emettere un'altra volta. Cita i passaggi della sentenza romana che sono funzionali alla sua tesi, ma non può nascondere che alcuni passaggi dicono il contrario di quello che lui ha sempre sostenuto e continua a sostenere. Così si mette a maltrattare la Cassazione. Dapprima rimarca che sul tema dei rimborsi ai consiglieri regionali la Cassazione ha emesso sentenze contraddittorie, «ma lo possiamo dire soltanto così, in un momento di scoramento e di nostalgia di quando la Cassazione parlava con una sola voce». Ma la botta vera arriva su uno dei nodi del processo, ovvero la responsabilità dei capigruppo per spese effettuate dai singoli consiglieri regionali. Avenati Bassi premette che «sono registrato e quindi questo mi inibisce», cioè senza microfoni avrebbe detto di peggio: e poi spiega che «se su questo tema in un concorso in magistratura ci fosse scritto quello che ha scritto la Cassazione forse non si sarebbe neppure entrato in magistratura». E non basta: la decisione degli autorevoli colleghi è «singolare», «incoerente». «Una cosa che veramente questo non ti fa passare il concorso in magistratura», ribadisce il concetto poco dopo. «Sono francamente allibito, visto che sulla Cassazione non ci sono ulteriori gradi però siamo in un paese democratico e il disappunto lo si può esprimere, io esprimo questo disappunto».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

"Troppi magistrati rifiutano le sentenze. Non è da Paese civile". Luca Fazzo il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. La vicepresidente dell'Unione: "Quanti casi come quello di Burzi restano sconosciuti".

«Io non conosco personalmente il dottor Saluzzo. Ma il suo comunicato successivo al suicidio dell'ex consigliere Angelo Burzi mi sembra un esempio classico di pervicacia accusatoria. E questo è un problema culturale che riguarda un pezzo di magistratura italiana. Non tutti i magistrati ne sono affetti, si badi. Ma molti sì».

Paola Rubini, avvocato padovano, è vicepresidente dell'Unione delle Camere penali: l'organismo che martedì è intervenuto duramente contro la narrazione della tragedia di Burzi veicolata dal comunicato del procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo.

Cosa non va in quella ricostruzione?

«Prima di tutto che non si è capito a che titolo sia intervenuto Saluzzo. Perché? Per difendere chi? Siamo di fronte a una difesa a tutti i costi del ruolo svolto dall'accusa in questo processo, una discesa in campo che ritengo assolutamente inopportuna, anche perché omette circostanze di grande rilievo».

Per esempio?

«Il primo è la durata abnorme di un processo che si trascina da dieci anni in violazione di tutti i richiami che la giustizia europea ha inviato ripetutamente all'Italia. Poi non si dice che i giudici di primo grado avevano assolto gli imputati con formula piena. E infine si minimizza la portata della sentenza della Cassazione che aveva annullato le condanne e ordinato un nuovo processo: non solo per ricalcolare le pene, ma anche sul tema cruciale della consapevolezza psicologica del reato. Se non c'è quella consapevolezza il reato non esiste. È questa omissione che mi fa parlare di pervicacia accusatoria. Io vengo da una scuola ipergarantista, ma le decisioni dei giudici le rispetto tutte, qualunque siano. Sarebbe giusto che tutti facessero la stessa cosa».

Se Burzi e i suoi coimputati erano stati assolti con formula piena in primo grado, come è possibile che altri giudici li abbiano ritenuti colpevoli «aldilà di ogni ragionevole dubbio»?

«Qui si apre il tema su cui ci battiamo da anni: in caso di assoluzioni in primo grado, al pubblico ministero deve essere impedito il ricorso in appello».

La bozza di riforma del ministro Cartabia lo prevedeva, ma dal testo definitivo la norma è sparita.

«Abbiamo un governo sostenuto da molti partiti, ed evidentemente in alcuni la sensibilità erano diverse. Alla fine è stata fatta una sintesi, una mediazione: un po' come sulla prescrizione, dove si è partorita un norma che ora dobbiamo capire come si applica in concreto: e non è facile».

Resta il fatto che, davanti a un morto ancora da seppellire, il pg di Torino sembra non avere niente da rimproverarsi.

«La tragedia di quest'uomo sottoposto a un processo lunghissimo, pacificamente aldifuori di ogni limite, non viene rispettata. E si cerca di spostare la barra verso la protezione a tutti i costi della pubblica accusa. Questo non è degno di un paese civile».

Quanti casi Burzi ci sono?

«Troppi. Di questo si è parlato, giustamente, perché era una persona nota, stimata. Ma di imputati che non arrivano vivi alla fine del loro processo ce ne sono tantissimi. I dati sui suicidi nella carceri sono terribili. Questo è il frutto di una giustizia che non ha attenzione alle persone».

Occhio, Saluzzo vi ha ricordato che esiste il reato di vilipendio della magistratura.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Caso Burzi, la riflessione di Bruti Liberati: «La verità processuale a volte è in contrasto con la realtà». Edmondo Bruti Liberati sulle dichiarazioni del pg Saluzzo: «Non vi è autorità giudiziaria, per quanto elevata, che possa arrogarsi il compito di stabilire "la verità e l'obbiettività delle vicende e delle dinamiche", come ha preteso, con un comunicato stampa, il Procuratore generale di Torino». Il Dubbio il 04 gennaio 2022. Edmondo Bruti Liberati, ex capo della procura di Milano, affida a “La Stampa” di Torino la sua analisi (non solo giudiziaria) sul caso di Angelo Burzi, l’ex consigliere regionale del Piemonte, suicidatosi nelle festività di Natale, dopo la condanna definitiva nel processo “Rimborsopoli“. Il magistrato, ora in pensione, pone due questioni: il ruolo dei pm e la strumentalizzazione politica. «Di fronte all’insondabilità del gesto estremo, da chiunque e in qualunque circostanza compiuto, sta rispetto e silenzio. L’ex consigliere regionale del Piemonte Angelo Burzi, qualche giorno dopo la condanna a tre anni di reclusione da parte della Corte di Appello di Torino nel processo “Rimborsopoli” sull’utilizzo dei fondi regionali stanziati per il funzionamento dei gruppi rappresentati nel Consiglio Regionale, alle 23.47 del 24 dicembre, subito prima di togliersi la vita, ha scritto una mail “certo che questo mio gesto estremo sia l’unica strada da me ancora percorribile…“» scrive Bruti Liberati.

«Quando si è costretti a confrontarsi con una persona che ha voluto dare conto della sua tragica scelta con una lettera destinata alla diffusione non ci si può sottrarre dalla riflessione. Lasciamo da parte alcune, scontate, infondate, ma non per questo meno deprecabili, speculazioni politiche. Nella mail dell’ingegner Burzi, resa pubblica secondo la sua volontà e giustamente pubblicata nella sua integralità sulla stampa, vi sono dure accuse» evidenzia l’ex capo della procura di Milano al quotidiano diretto da Massimo Giannini.

«L’opinione pubblica è posta di fronte ad una vicenda processuale che si trascina per oltre un decennio. La politica è chiamata confrontarsi con una disciplina del finanziamento pubblico ai partiti e alle loro rappresentanze nelle istituzioni, che, tra oscillazioni e ipocrisie, ha generato prassi discutibili e talora perverse. Ma è la magistratura ad essere chiamata in causa direttamente, a rendere conto della sua responsabilità nel discernere, con scelta che non ammette terza soluzione, tra ciò che è reato e ciò che non lo è. La valutazione di fatti concreti raffrontati a una normativa inadeguata e a prassi applicative difformi provoca inevitabilmente interpretazioni diverse, nei vari gradi di giudizio e in diverse sedi giudiziarie» dice Edmondo Bruti Liberati, il quale non nega che a volte la verità processuale sia diversa dalla realtà. E in tal senso sottolinea le dichiarazioni, probabilmente fuori luogo, del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, all’indomani del suicidio dell’ingegnere Angelo Burzi.

Citando un passo del Vangelo di Matteo (7, 1-2), Edmondo Bruti Liberati arriva al nocciolo della questione. «Fuori luogo e sgradevoli le speculazioni politiche su questa tragica vicenda, ma ancor più la pretesa di sottrarsi alle critiche fossero anche le più aspre. Non vi è autorità giudiziaria, per quanto elevata, che possa arrogarsi il compito di stabilire “la verità e l’obbiettività delle vicende e delle dinamiche”, come ha preteso, con un comunicato stampa, il Procuratore generale di Torino. La sentenza definitiva, con quella che i tecnici chiamano l’autorità della cosa giudicata, per l’esigenza sociale di porre un termine ai processi fissa la verità processuale. Come ci indicano i detti latini, tuttora spesso richiamati, facitde nigro album, aequat quadrata rotundis, la verità processuale potrebbe anche essere in aperto contrasto con la realtà, con la “verità e l’obbiettività delle vicende”».

Infine, Bruti Liberati evidenzia come «la salvaguardia della convivenza civile impone che sia rispettato il compito di chi deve decidere e non può sottrarsi anche nei casi difficili, pur con la consapevolezza che ciò che secondo le regole del processo è stato definito nero nella realtà potrebbe essere bianco o viceversa. Proprio la libera e anche aspra critica contribuisce a fondare la fiducia nella giustizia, che non può essere fede cieca, ma rispetto per coloro cui la società ha affidato il compito arduo, ma irrinunciabile, di decidere, persone umane, sulle vicende di altre persone umane».

E la toga rossa Bruti Liberati scopre i mali delle Procure. Luca Fazzo il 5 Gennaio 2022 su Il Giornale. L'ex leader di Md: "Errore sottrarsi alle critiche. La verità processuale spesso in contrasto con la realtà". Davvero, dottor Bruti, la giustizia trasforma il bianco in nero, e scambia il tondo per quadrato? «Io queste cose le sostengo da trent'anni. Se poi le ho anche messe in pratica, non sono io a poterlo dire».

Sono le cinque di ieri pomeriggio, e Edmondo Bruti Liberati - ex leader di Magistratura democratica, ex presidente dell'Anm, ex procuratore della Repubblica di Milano - si trova a fare i conti con l'eco del lungo articolo a sua firma sulla Stampa: una paginata che parte dal caso di Angelo Burzi, l'ex consigliere regionale piemontese morto suicida a Natale, per affrontare nodi cruciali del rapporto tra giustizia, politica, società. E lo fa con durezza sorprendente soprattutto da parte di un uomo che ha vissuto per quarant'anni nei piani alti della magistratura organizzata, in un mondo dove il potere assoluto delle toghe è stato difeso con ogni mezzo.

All'indomani del suicidio di Burzi, il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo ha diramato un comunicato che rivendicava a 360 gradi la linea seguita nelle inchieste e nel processo per la «Rimborsopoli» piemontese, ventilando addirittura l'incriminazione per vilipendio alla magistratura dei politici che avevano osato criticare la Procura. Scrive Bruti, dopo aver ricordato che siamo davanti a «una vicenda processuale che si trascina da oltre un decennio»: «Sono fuori luogo e sgradevoli le speculazioni politiche su questa tragica vicenda, ma ancor più la pretese di sottrarsi alle critiche fossero anche le più aspre. Non vi è autorità giudiziaria, per quanto elevata, che possa arrogarsi il compito di stabilire la verità e l'obiettività delle vicende e delle dinamiche come ha preteso il procuratore generale di Torino».

È un passaggio chiave perché mette in discussione in un colpo solo due pilastri del potere delle toghe: la libertà di esternazione pressoché totale, e la presentazione della verità giudiziaria come verità assoluta. Soprattutto a questo secondo tema Bruti dedica le parole più pesanti: «La verità processuale potrebbe anche essere in contrasto con la realtà, con la verità e obiettività delle vicende». Il giudice deve giudicare, ricorda Bruti, e il suo ruolo va rispettato perché lo esige la «convivenza civile». Ma «ciò che secondo le regole del processo è stato definito nero nella realtà potrebbe essere bianco, e viceversa».

È una rivoluzione copernicana rispetto a decenni in cui qualunque giudizio - politico, morale, persino storico - è stato condizionato dalle «verità» giudiziarie, e spesso ha dovuto cedere loro il passo. Ieri, di fronte all'impatto del suo articolo, Bruti ricorda gli interventi che in passato ha dedicato agli stessi temi. Ma invano, in quegli scritti, si cercherebbero affermazioni della nettezza e della pesantezza dell'articolo sulla Stampa.

Maturazione, percorso critico, rivisitazione? «Non sta a me dirlo», dice ancora l'ex «toga rossa». Di sicuro quando Bruti, citando il Vangelo di Matteo («Non giudicate, per non essere giudicati»), invita i magistrati all'umiltà è difficile non ripensare al «pentimento» di un'altra figura storica della magistratura di sinistra, l'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, arrivato - dopo decenni trascorsi sul banco dell'accusa - persino alla convinzione dell'inutilità del carcere. Come se l'età, la pensione, l'uscita dai corridoi e dai riti delle Procure, avessero aiutato entrambi ad aprire gli occhi su scenari inediti.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

"Burzi 10 anni a processo. È il fallimento del sistema". Francesco Boezi l'8 Gennaio 2022 su Il Giornale. L'ex pm e l'ex assessore suicida: "Terrificante condannare una persona che è già stata assolta". Il dottor Carlo Nordio, noto ex magistrato, parla senza troppi fronzoli di «sistema fallito». L'oggetto di questo «fallimento» è lo stato di salute della giustizia italiana. Dal caso specifico dell'ex consigliere regionale Angelo Burzi (nel tondo) alla necessità generica che la politica la smetta con la sottomissione a certe procure, passando per una essenziale riforma del Consiglio superiore della magistratura e per un messaggio dal basso che potrebbe arrivare, nel caso si votasse, attraverso la vittoria dei referendari: quella di Nordio è una diagnosi complessiva.

Un procuratore del caso Burzi, attraverso una lettera pubblicata da La Stampa, ha parlato anche del «dovere d'informare». Conviene su questa necessità?

«È normale, e talvolta anche doveroso che un capo difenda l'operato del suo Ufficio, soprattutto se le critiche non sono state espresse negli atti giudiziari ma attraverso la stampa. Questo per quanto riguarda i Pm, che sono parti processuali come gli avvocati. Sono i giudici che devono sempre tacere. Certo avrei preferito che quel Pm avesse anche denunciato la demenzialità del nostro sistema, dove un imputato assolto può poi essere condannato, e il processo durare dieci anni».

L'esito della vicenda di Burzi è stato tragico. Molte personalità, in specie del fronte garantista, hanno condiviso la lettera d'addio dell'ex assessore regionale...

«Il suicido presuppone un tale patrimonio di sofferenze che è quasi irriguardoso commentarlo. Ma un processo che duri dieci anni mette alla prova anche i caratteri più forti. L'aspetto giuridico invece è terrificante: come si fa a condannare una persona già assolta? La condanna presuppone prove al di là di ogni ragionevole dubbio, e qui un giudice aveva già dubitato. è il sistema che è fallito».

Alcune delle vicende che interessano politica e Giustizia sembrano una coda di Tangentopoli. Quella fase è stata superata? Se no, perché?

«Tangentopoli, intesa come corruzione, non è mai finita, perché era ed è un fenomeno diffuso, ed è stato un grave errore pensare che potesse essere eliminato dalla magistratura. Quest'ultima poi, dopo le vicende di Palamara, le indagini sulla Procura di Milano e quelle su un membro del Csm è così screditata da esser ancor più inidonea a un compito così difficile».

Occorre dunque una piena pacificazione tra politica e magistratura. Il prossimo presidente della Repubblica può avere un ruolo in questo percorso?

«Più che una pacificazione occorre che la politica, in quanto legittimata dal voto del popolo sovrano, si riappropri delle sue prerogative e la smetta di essere subalterna alle procure. Quanto al capo dello Stato, presiedendo il Csm ha il diritto, e il dovere, di vigilare affinché questo organo non esorbiti dalla sue prerogative ed operi con efficienza e tempestività nel pieno rispetto della legge».

La riforma del Csm, per dire, viene ventilata da tempo ma non si concretizza. Serve forse un assetto istituzionale diverso per arrivarci?

«Serve il sorteggio. È l'unico modo per rompere il legame tra elettori ed eletti, e la conseguente baratteria clientelare delle correnti, come è emerso dallo scandalo Palamara, e come peraltro tutti sapevano».

Dal basso, invece, spira un vento garantista. Quali sono le sue previsioni sul referendum per la Giustizia?

«Confido che il referendum passerà all'esame della Corte, magari con qualche aggiustamento perché alcuni quesiti sono tecnicamente discutibili. Ma quello che conta sarà il messaggio finale del popolo. Se la vittoria dei referendari fosse netta, significherebbe che gli italiani ne hanno abbastanza di questo sistema fallito e reclamano riforme profonde e radicali».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Caso Burzi, Saluzzo replica a Bruti Liberati: «Ho difeso l’operato dei magistrati». Il suicidio di Angelo Burzi accende lo scontro tra magistrati. Ora il pg di Torino, Francesco Saluzzo replica alle parole di Edmondo Bruti Liberati. Il Dubbio il 5 gennaio 2022. Il suicidio di Angelo Burzi, ex consigliere regionale del Piemonte, ha scatenato una polemica interna alla magistratura dopo le recenti dichiarazioni dell’attuale procuratore generale di Torino e della Valle d’Aosta, Francesco Saluzzo. Ieri, l’ex procuratore capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati, aveva criticato la nota del magistrato piemontese, che oggi, sempre dalle colonne della “Stampa“, ha replicato all’intervento del giudice ora in pensione.

Caso Burzi, il pg Saluzzo replica a Bruti Liberati

«Ho letto – scrive il pg Saluzzo al direttore de la “Stampa”, Massimo Giannini – l’autorevole intervento del collega Edmondo Bruti Liberati sul caso Burzi e, poiché chiamato in causa direttamente, ritengo di dover brevemente replicare. Premetto che io non ho inteso accreditare la verità processuale come verità storica (anche se ribadisco la incontrovertibilità dei documenti contabili sui quali si è basata l’impostazione dell’accusa e, evidentemente, anche le plurime decisione dei giudici di appello) consapevole che si tratta di ricostruzioni e di percorsi di convincimento, logici e fattuali, la cui forza e prova di resistenza è affidata alla motivazione del provvedimento e alla valutazione di giudici diversi nei vari gradi» si legge nella replica del procuratore generale di Torino.

«Ecco perché ho inteso difendere il mio ufficio»

Saluzzo ribadisce i motivi che lo hanno portato a diffondere il comunicato stampa a seguito del suicidio di Angelo Burzi. «Il punto di partenza dell’intervento del mio ufficio è stato rappresentato da affermazioni di singolare gravità, tra tutte quella secondo cui l’agire della procura della Repubblica e della procura generale sarebbe stato orientato e attuato “per ammazzare i nemici” (politici). Criticando addirittura il fatto che vi sia stato un processo (impostazione “frontale” condivisa anche da alcuni documenti delle associazioni dell’avvocatura); ma un processo – se celebrato e condotto secondo i principi e le norme – non è mai ingiusto».

«Credo che neanche il collega Bruti Liberati possa ritenere queste affermazioni riconducibili nell’alveo della “critica aspra”. Altrimenti qualunque affermazione, anche la più falsa, calunniosa e diffamatoria, dovrebbe godere della protezione del diritto di manifestazione del pensiero e rimanere confinata fuori dall’area della responsabilità penale e, invece, cosi è non nell’ordinamento, iniziando dalle norme della nostra Costituzione».

Il dovere dei magistrati (secondo il pg Saluzzo)

«Lo scopo del mio intervento, per il quale – ribadisco – ritengo di avere pieno diritto, era quello di fornire una corretta informazione all’opinione pubblica, offrendo gli strumenti per una pacata valutazione della vicenda e per orientare una lettura di essa, anche critica, anche aspra, anche “alternativa” ma pur sempre, come deve essere, nel solco e nel rispetto dei fatti. Ed è il medesimo sentimento che mi spinge a rivolgerle questa breve precisazione: il dovere anche per i magistrati (che non ne sono esclusi), di informare e di rendere trasparente e leggibile il loro operato e il percorso individuato per accertare e chiedere la punizione per i fatti che essi ritengono costituire reato» conclude il pg Saluzzo.

Le battaglie per la responsabilità del magistrato. Bruti Liberati e il senso divino della magistratura intoccabile. Gian Piero Broglia su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. Dopo lunghi anni di battaglie politiche per la responsabilità del magistrato, dopo sentenze della Corte Costituzionale che confermano la responsabilità di tutti i pubblici funzionari, dopo che centinaia di migliaia di cittadini hanno firmato sul referendum sulla giustizia, nell’assordante silenzio dei media, ieri il dottor Bruti Liberati ha scritto sulla Stampa che il magistrato risponde solo davanti alla pubblica opinione, perché il processo non può arrivare alla verità dei fatti. E che esercita “a divinis” questo suo potere, come dal Vangelo secondo Matteo.

Anche la tesi di Galli della Loggia, che sosteneva che la magistratura di un tempo (quella Giolittiana che resisteva al fascismo) avesse una cultura diversa di quella politicizzata di oggi, è sbagliata. Perché il dottor Bruti Liberati, che appartiene a una dinastia di magistrati, e quindi dovrebbe rappresentare quella magistratura D’Antan, oggi scrive per difendere l’ultima casta di intoccabili. Al povero Angelo Burzi e soprattutto ai suoi familiari resta la consolazione delle Beatitudini: beati i perseguitati dalla giustizia. Gian Piero Broglia

La malapianta grillina che ha devastato la giustizia. La corruzione è peggio che uccidere, la barbarie della legge simbolo dei grillini che ha devastato la giustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Gennaio 2022. 

Al dottor Piercamillo Davigo, che ama dilettare i suoi ammiratori con storielle paradossali, sostenendo che convenga, dal punto di vista della burocrazia giudiziaria, ammazzare la moglie piuttosto che divorziare, sottoponiamo un altro quesito. È più conveniente uccidere il coniuge (facciamo il marito questa volta, va) o essere imputato di un reato contro la Pubblica amministrazione? Sul Riformista di ieri il magistrato Alberto Cisterna ha ricordato in modo magistrale la scomparsa tragica di Angelo Burzi. Basterebbe mettere insieme due suoi concetti, “giustizia come malattia” e “gogna perpetua” e avremmo già detto tutto. Perché, se è vero che storicamente la giustizia non è stata uguale per tutti da un punto di vista sociale e di censo, ancor meno oggi lo è da un punto di vista politico. E soprattutto moralistico.

Da molti anni leggiamo nei provvedimenti giudiziari e nelle sentenze le analisi di schiere di magistrati che si fanno sociologi e psicologi al fianco di chi “ruba una mela”. Buone intenzioni, che dovrebbero stare fuori dalle aule dei tribunali e trasferirsi, più che in parrocchia, nelle amministrazioni locali. Così finisce che, quasi per una sorta di nemesi della storia, la “giustizia come malattia”, la sofferenza del processo e del carcere finiscono per scagliarsi sul mondo dei privilegi e del potere. O sull’immaginario di quell’universo, per come è percepito. “Tiè!” sembra diventata la parola d’ordine, quasi una risposta al grido “lavoratoriii!”, la pernacchia di Alberto Sordi nei Vitelloni di Fellini. Due leggi sono il simbolo dello sberleffo –e il dottor Cisterna le cita puntualmente- , quella del 2012 che ha preso il nome della ministra guardasigilli del governo Monti, Paola Severino, e l’altra dal nome ripugnante di “spazzacorrotti”, voluta dal ministro Bonafede ed entrata in vigore il 9 gennaio del 2019, quando il premier Giuseppe Conte e il Movimento cinque stelle governavano con la Lega di Salvini.

Se è vero che la prima ha regalato notti insonni a Silvio Berlusconi, che sulla base della retroattività della norma, ha perso il seggio al Senato dopo l’unica condanna definitiva, la sua applicazione ha prodotto soprattutto la strage degli amministratori locali. Lungi da noi il voler dare lezioni alla Corte Costituzionale, ma la sospensione dal ruolo di sindaci, assessori e consiglieri per mesi e mesi, dopo una sola condanna di primo grado, con l’accompagnamento consueto di strilli sui giornali e paternali politiche televisive sull’”opportunità” di allontanamento dalla vita pubblica di persone spesso in seguito assolte, fa proprio a pugni con la ratio dell’articolo 27. E speriamo che provveda il prossimo referendum almeno a eliminare l’automaticità del provvedimento. Non è un caso se abbiamo parlato di “strage”. Perché il sadismo, esplicito e voluto, di norme come la “spazzacorrotti” è stato pensato proprio come vendetta che ferisce e che uccide. E il fatto che sia stata applicata retroattivamente per un anno prima che intervenisse la Corte Costituzionale non è stato senza conseguenze. Proprio come accade per i reati di mafia, anche quelli di corruzione sono per esempio “ostativi” all’applicazione dei benefici previsti dai regolamenti penitenziari.

Così, per tornare un attimo alla storiella che vorremmo raccontare al dottor Davigo, prendiamo due condannati a cinque anni di carcere, un rapinatore e Roberto Formigoni. Il primo dopo un anno può avere l’affidamento ai servizi sociali e uscire dal carcere. Il secondo, no. Perché il suo diritto è stato “spazzato via” dagli amici di Bonafede. E infatti è proprio quello che è successo. È quel che capita un po’ tutti i giorni. Perché nei confronti del condannato “comune” la freddezza della sanzione spesso è accompagnata da un qualche senso di umanità, per cui, se il giudice non ne valuta una particolare pericolosità, anche uno che ha accoltellato il collega può andare ai domiciliari. O un ex rapinatore, quando mancano quattro anni al termine della pena, può essere affidato ai servizi sociali. A Roberto Formigoni non fu concesso, a causa dello spirito di vendetta degli amici di Bonafede.

E che dire di quel che capitò a Luca Guarischi, che tornò dall’Algeria per scontare un residuo di pena inferiore ai quattro anni il 10 gennaio 2019 e fu costretto a un anno di carcere perché dodici giorni dopo entrò in vigore la legge “spazzacorrotti” , prima che nel 2020 la Corte Costituzionale ne dichiarasse l’irretroattività? È ovvio che qui c’è prima di tutto un problema di cultura. Non punisco il reato che hai commesso, ma la tua persona. Sei un corrotto, il che equivale a essere un mafioso, un reietto della società. Devi essere isolato, per te non ci può essere futuro. Ecco la “giustizia come malattia”, ecco la “gogna perpetua”. Proprio quel che succede con i condannati per reati di mafia. Nei processi che riguardano la criminalità organizzata, una delle esigenze che stanno alla base di norme “speciali” e di una certa applicazione delle regole, è quella di tenere isolati i detenuti rispetto all’ambiente criminale esterno. Di qui per esempio l’articolo 41 bis del regolamento, che impone il carcere “impermeabile”, piuttosto che l’impossibilità di godere di quei benefici che si applicano ogni giorno anche a responsabili di gravi reati, omicidi, ferimenti, stupri, rapine. Parliamo di permessi premio, di lavoro esterno, di liberazione anticipata. Chi ha sulle spalle un reato “ostativo”, se non si è genuflesso con la cenere sul capo, sa che la sua condizione sarà eterna, che è condannato per sempre, che la sua è una vera pena capitale.

Non è molto diverso per gli “ostativi” della corruzione, come di quelli del “concorso esterno”. In fondo sono gli stessi, quelli che hanno sul corpo le stimmate del far parte del mondo del privilegio percepito. La percezione, proprio come quella del caldo d’estate, è elemento dominante. Anche se deviante. Non a caso, dal punto di vista giornalistico, si usa spesso il concetto di “odore”: odore di mafia, odore di corruzione. Così è più facile usare metodi investigativi, o di giudizio, ordinari nei confronti di colui che ha ucciso la moglie, ma straordinari contro un avvocato come Pittelli che ha “evaso” la detenzione domiciliare scrivendo una lettera senza aver chiesto l’autorizzazione. Oppure un consigliere regionale che forse ha consegnato gli scontrini sbagliati e ha chiesto un rimborso non dovuto, o sulla cui legittimità c’è incertezza.

Non dobbiamo dimenticarci di Angelo Burzi, e neanche permettere che l’avvocato Pittelli “marcisca in galera”, dopo che è stata “buttata la chiave”. Sono ugualmente vittime, e non stiamo parlando di innocenza o colpevolezza. Stiamo parlando di ferite sul corpo, di ferocia di leggi e di processi, e del valore della vita. Loro non l’hanno sottratta a nessuno, ma qualcuno, in un modo o nell’altro, l’ha sottratta a loro.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La legge trasformata in un sistema afflittivo e cieco. Severino e spazzacorrotti, la giustizia ridotta a gogna. Alberto Cisterna su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Quello di Angelo Burzi non rimarrà, purtroppo, l’ultimo suicidio generato da un mondo complesso e controverso come quello della giustizia. Sia chiaro: persone si tolgono la vita ovunque a causa di una condanna o di una carcerazione ritenute insopportabili. In questi giorni si parla di quel Jeffrey Epstein che, in Usa, ha cancellato la propria esistenza schiacciato dallo scandalo sessuale che lo ha visto protagonista.

L’esperienza del processo e, soprattutto, quella del carcere è dura, molta dura a sopportarsi; se poi a distruggere la propria vita è l’imputato che si proclama innocente in un gesto di estrema disperazione, è inevitabile la spinta del sistema e dei suoi corifei a trovare giustificazioni, a farsi schermo con le condanne. Si finisce, così, per macchiare la vittima, il suicida, di una duplice colpa: quella di essere un pregiudicato matricolato e quella di non aver saputo reggere il peso della condanna. È una prova muscolare quella che ci si attende dal reo, meglio ancora se – a capo cosparso di cenere – si proclama anche sinceramente pentito e bisognoso di perdono. Guai a ribellarsi a questo cliché che rassicura il sistema, di cui anzi il sistema ha un bisogno estremo per saldare alla propria, inevitabile primazia giuridica, anche una sorta di supremazia morale, capace di muoversi a compassione verso l’empio che accetta supinamente il proprio destino.

In fin dei conti il dibattito sull’ergastolo ostativo si concentra tutto nel postulato sotteso a questa doppia supremazia: carcere duro, ma sconti e benefici per chi si sottomette allo Stato e collabora. Indipendentemente, anzi a dispetto di ogni percorso rieducativo e di ogni resipiscenza, si accettano solo genuflessi e riscattati. Con una certa approssimazione certo, ma alcune reazioni quasi infastidite al suicidio di Angelo Burzi potrebbero trovare una spiegazione in questa doppia soggezione che ciascun condannato, ciascun detenuto si pretende debba pagare allo Stato, quasi che la perdita della verginità giuridica ed etica degradi la dignità della persona umana e la renda mero oggetto di una potestà superiore, onnivora. Troppo facile è non credere all’autolesione mortale in nome della propria innocenza, quando una sentenza definitiva predica il contrario. Troppo semplice ricordare al reprobo che, concluso il processo, nessuna innocenza sopravvive e ciò che conta è la fredda prosa di un verdetto.

Però. Però a leggere le ultime parole dell’ex consigliere regionale, la sua laica e disperata professione di innocenza si coglie altro. Vi è una filigrana che tiene insieme quelle frasi, disvela un mondo ulteriore in cui – nostro malgrado – siamo stati trascinati e, quindi, confinati. La legge Severino, prima, e la legge Spazzacorrotti, dopo, hanno disegnato – forse anche a dispetto dei loro fautori – i perimetri di un’afflizione imponente, quasi smodata per imputati e condannati. Sospensioni, confische, carcere duro, misure di prevenzione, decadenze e altro ancora hanno messo in funzione un gigantesco triangolo che risucchia le vite, prima ancora che sanzionare le condotte dei colpevoli. È un sistema afflittivo perfetto, panottico, senza scampo che colpisce il reo a 360° non lasciandogli alcuna via di fuga. Il peculato nei fondi messi a disposizione dei consiglieri regionali ha, obiettivamente, avuto risposte ondivaghe in molte parti del paese. Vi sono indagini fallite che proseguono stancamente solo per non certificare l’innocenza degli imputati e assoluzioni già pronunciate, anche qualche condanna.

Angelo Burzi era stato assolto in primo grado e condannato in appello, sino alla conferma in Cassazione. Un percorso, obiettivamente, non rettilineo che – a prescindere totalmente dal merito – deve aver sfibrato l’imputato al punto tale da indurlo al gesto estremo del togliersi la vita. Ma la lettera non dice questo o almeno non dice solo questo. Non può farsene un’esegesi che sarebbe sconveniente e inappropriata, ma un paio di punti meritano di essere colti. Innanzitutto il prologo: «Natale 2021 Conoscere per decidere». Un’ovvietà per qualunque persona, a maggior ragione per i giudici che si sono occupati di lui. Ma conoscere cosa? Le carte forse? Ma quello è scontato che siano state conosciute. La sua vita? Ma quella resta praticamente fuori dalle aule di un processo, tutto concentrato su pochissimi frammenti di un’esistenza, spesso su un solo gesto, su un attimo d’impeto. Le aule non giudicano vite, esaminano fatti, comportamenti.

Cosa voleva, quindi, Angelo Burzi? Forse che ci accostasse alla sua condanna e alla sua morte conoscendo la sua verità, quella che le prove dell’accusa hanno schiantato e di cui non c’è traccia nel suo certificato penale. Certo la malattia da poco scoperta, certo le sofferenze probabili e imminenti: «si preannuncia quindi un prossimo futuro dl approfondimenti, di interventi chirurgici e di terapie per nulla gradevoli… panorama non certo entusiasmante, ma c’è di peggio. La giustizia è un esempio appunto del “peggio”, non trascurando che lo scrivente è certo di essere totalmente innocente nei riguardi delle accuse a lui rivolte». La giustizia come una malattia, come un male oscuro che lo ha fagocitato e, quindi, restituito alla vita da colpevole. Poi l’accerchiamento, lo schianto imposto da leggi imperturbabili nella loro supponente severità. La paura di perdere il vitalizio come conseguenza della condanna e, ancora, «probabilmente si sarà fatta nel frattempo nuovamente viva la Corte dei conti pretendendo le conseguenze del danno di immagine da me provocato, diciamo non poche decine di migliaia di euro».

Se non fosse che «tutto ciò è .. insostenibile, banalmente perché col vitalizio io ci vivo, non essendomi nel corso della mia attività politica in alcun modo arricchito, e sostanzialmente perché non sono più in grado di tollerare ulteriormente la sofferenza, l’ansia, l’angoscia che in questi anni ho generato, oltre che a me stesso, anche attorno a me nelle persone che mi sono più care». E, infine, il richiamo alla soggezione morale, al supplizio etico che quella condanna imponeva senza scampo; il rimprovero (giusto o ingiusto che sia) a chi secondo lui «ci ha messo molto del suo, probabilmente aggiungendo le sue valutazioni di ordine etico morale, del tutto soggettive e prive sia di sostanza che di sostenibilità giuridica, alle richieste dell’accusa».

I processi per chi saccheggia le risorse pubbliche o si corrompe sono giusti, anzi necessari. Tuttavia guai a trasformarli in una sorta di gogna perpetua, nella bulimica ricerca di ogni più minuto brandello della vita pubblica di una persona per sanzionarlo e reprimerlo. Se le pene, tutte le pene, si trasformano in una perenne vendetta per soddisfare il senso di rivalsa della plebe, allora anche il sacrificio della vita acquista la dignità di un testardo argomento contro la giustizia di una condanna. Alberto Cisterna

·        Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Morta Maria Del Savio Bonaudo, l’ex procuratrice del caso Cogne. «Sempre convinta che Franzoni era colpevole». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 4 novembre 2022

È stata il volto simbolo degli inquirenti che per anni si occuparono dell’inchiesta sul delitto di Cogne. Oggi a 76 anni è morta Maria Del Savio Bonaudo, ex procuratrice capo di Aosta. Dal 2002 si occupò direttamente del delitto di Cogne, dove il 30 gennaio Samuele Lorenzi venne ucciso dalla madre, Anna Maria Franzoni. Un caso che spaccò l’Italia. Rimane nella memoria la sua valutazione tranciante su quel delitto. «Sono e resto convinta che Anna Maria Franzoni sia colpevole. Non perché è stata condannata in tutti i gradi di giudizio, ma perché c’erano le prove» disse in una dichiarazione rilasciata all’Ansa.

Nel 2008 Maria Del Savio Bonaudo aveva lasciato la magistratura per indossare la toga di avvocata, motivando la decisione come una «scelta di vita», e per continuare la sua carriera professionale «dall’altra parte della barricata ». Ricordando quell’inchiesta in una delle ultime interviste ha raccontato: «In quei giorni non ho mai detto che era stata la mamma ad uccidere Samuele. Abbiamo fatto tutte le indagini possibili, abbiamo sentito e monitorato tutti i possibili sospetti indicati dalla famiglia. Poi i tecnici del Ris hanno rilevato il sangue sulle ciabatte, quelle che lei indossava prima di uscire di casa mentre dopo calzava gli stivaletti, ed è stato trovato il pigiama sotto le lenzuola. Insomma, si è chiarito che non poteva che essere stata lei. Avevamo le prove, sono state raccolte bene».

Muore Maria Del Savio Bonaudo, la procuratrice del delitto di Cogne: era convinta che Franzoni fosse colpevole. La Repubblica il 4 Novembre 2022

È morta a Torino Maria Del Savio Bonaudo, 76 anni, ex procuratrice capo di Aosta. Dal 2002 si occupò direttamente del delitto di Cogne, dove il 30 gennaio Samuele Lorenzi venne ucciso dalla madre, Anna Maria Franzoni.

Di questo caso, che divise l'Italia in due, vent'anni dopo, in un'intervista all'Ansa Bonaudo disse "Sono e resto convinta che Anna Maria Franzoni sia colpevole. Non perché è stata condannata in tutti i gradi di giudizio, ma perché c'erano le prove".

Nel 2008 lasciò la guida della procura di Aosta per indossare la toga di avvocata, motivando la decisione come una "scelta di vita", e per continuare la sua carriera professionale "dall'altra parte della barricata".

Il delitto di Cogne, se la realtà ha sempre una veste televisiva. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022. 

L’omicidio del piccolo Samuele ha avuto una rilevanza mediatica inconsueta ed è diventato uno di quei casi di cronaca nera rimasti impressi nel ricordo collettivo. 

Sono passati vent’anni da quella sciagurata mattina in cui il piccolo Samuele Lorenzi, di soli 3 anni, viene trovato morto nel letto dei genitori, nella loro villetta nei pressi di Cogne, in Val D’Aosta. Questo efferato omicidio ha visto la madre, Annamaria Franzoni, la «Bimba», unica indiziata e poi condannata. Domenica sera, Crime+Investigation ha presentato «Il delitto di Cogne», scritto da Simone Passarella, diretto da Claudio Pisano e prodotto da Simona Ercolani, Stand By Me. L’omicidio di Samuele ha avuto una rilevanza mediatica inconsueta ed è diventato uno di quei casi di cronaca nera rimasti impressi nel ricordo collettivo, un caso che, a distanza di tanti anni, divide ancora l’opinione pubblica in innocentisti e colpevolisti.

Di quella tragedia ormai conosciamo tutto: luoghi, protagonisti, emozioni. Allora, l’abbiamo vista in onda sera dopo sera: nei salotti di Maurizio Costanzo, di Irene Pivetti, di Maurizio Belpietro, di mille tv locali, soprattutto di Bruno Vespa che ha saputo serializzare l’appuntamento. Ha costruito un plastico della scena del crimine, ha scritturato una compagnia di giro, assegnando le parti con sapienza registica, ha messo in scena una nuova forma di esperienza del reale. Come ha scritto Marco Imarisio, «a Cogne nasce il canone moderno della cronaca nera, tutto il delitto minuto per minuto. Per farlo, serve mettere una vita a disposizione del pubblico. La Bimba obbedisce, acconsente al suo “Truman Show”, si lascia osservare, spiare, mentre l’avv. Taormina riempie ogni vuoto perché ha capito che il vuoto è il grande nemico della macchina spettacolare dei media, non importa se viene riempito dalla verità o dal falso». Cogne ci ha insegnato che la realtà, specie quando si presenta in forme così clamorose, così cariche di sensazionalismo, abbia ormai una sua veste televisiva, un suo format, un suo carattere artificioso e preordinato.

Vent’anni fa il delitto di Cogne: la morte di Samuele e la condanna della madre Annamaria Franzoni. Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Il 30 gennaio 2002 uno degli episodi di cronaca che ha maggiormente scosso l’opinione pubblica italiana nel nuovo secolo.

30 gennaio 2002

La mattina del 30 gennaio 2002, tra le 8,15 e le 8,30, Samuele Lorenzi, un bambino di tre anni, muore con 17 coltellate in una casa in Val d’Aosta, a Cogne. L’arma non è mai trovata. Per gli inquirenti l’unica responsabile della morte del piccolo è sua madre, Annamaria Franzoni. Sono seguiti i pianti, le accuse di calunnia, i dibattiti mediatici tra esperti e i plastici della villetta di Cogne ricostruiti per la tv.

L’arresto poi annullato

In un mese e mezzo gli inquirenti avevano messo insieme gli elementi: il sangue sul pigiama, le macchie sugli zoccoli, gli otto minuti fuori casa per accompagnare l’altro bambino. Viene arrestata il 14 marzo 2002. Indizi però non sufficienti per il tribunale del Riesame, che un paio di settimane dopo, come richiesto dall’avvocato Carlo Federico Grosso, rimise Franzoni in libertà. Il Riesame bis poi stabilì che l’ordine di cattura era valido ma la donna attese il processo in libertà.

La prima condanna a 30 anni

Passata alla difesa dell’avvocato Carlo Taormina, in primo grado scelse il rito abbreviato. Il 19 luglio 2004 il gup di Aosta la condannò a 30 anni. La difesa denunciò un vicino di casa e fu il Cogne-bis: la Procura di Torino ipotizzò un inquinamento della scena del delitto.

Pena ridotta a 16 anni

Il secondo grado partì il 16 novembre 2005, con Taormina che rimise il mandato un anno dopo. Al suo posto una legale d’ufficio, Paola Savio, insieme a Lorenzo Imperato. Una difesa più misurata e la Corte di Appello tenne conto delle attenuanti: pena ridotta a 16 anni, come poi confermato dalla Cassazione il 21 maggio 2008.

Domiciliari e lavoro esterno

La donna uscì dal carcere nel giugno del 2014 per scontare il resto della pena ai domiciliari, dopo che una perizia aveva escluso la possibilità di un altro delitto. Qualche mese prima il lavoro esterno in una cooperativa sociale e i permessi per periodi a casa con il marito e i due figli, il più piccolo nato un anno dopo l’omicidio.

Ritorno in libertà

Dal febbraio 2019 la completa libertà. Ora Annamaria Franzoni vive sull’appennino tosco-emiliano, a Monteacuto Vallese. Gestisce un agriturismo.

«È quella la casa?»

Franzoni si costituì parte civile in un processo per violazione di domicilio della villetta a carico di una troupe televisiva, poi assolta. In aula la donna ha denunciato un turismo macabro fuori dallo chalet. Vent’anni dopo, c’è ancora chi arriva a Cogne e chiede: «È quella la casa?».

Cogne, un pm tradì e svelò la prova del caso: «Dopo l’omicidio le famiglie erano nel panico. La svolta? Le ciabatte». Enrico Marcoz su Il Corriere della Sera il 30 Gennaio 2022.

L’ex capa della Procura di Aosta: «Ci fu una fuga di notizie sul fatto che l’assassino indossasse un pigiama. A tradirmi fu un pm che io consideravo un figlio maggiore». 

«Anna Maria Franzoni è colpevole di quel delitto. Ne sono convinta. Ma non perché sia stata condannata in tutti i gradi di giudizio, piuttosto perché c’erano prove decisive contro di lei. Non c’erano altre possibilità, l’accusa era fondata».

A vent’anni dal delitto di Cogne Maria Del Savio Bonaudo, procuratore capo di Aosta all’epoca dell’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi, non ha dubbi.

Cosa è stato il «caso Cogne»?

«Era un omicidio, seppur brutto ed eclatante. Le indagini richiedevano intelligenza, attenzione e puntigliosità. Il pm Stefania Cugge, titolare del caso, è stata esemplare nella conduzione dell’inchiesta».

Vista la sua giovane età e la scarsa esperienza, ha mai pensato di sostituirla o di affiancarla?

«C’è stata qualche pressione esterna ma non ho mai avuto dubbi sulle sue capacità. Sono una donna e so cosa ho passato da parte degli uomini che volevamo farmi fare la serva in ufficio. Dovevo forse dare le indagini a un altro solo perché maschio?».

Torniamo al 30 gennaio 2002.

«Ho saputo delle indagini solo alla sera, la segretaria del pm si era dimenticata di avvisarmi. Erano momenti concitati. Stavo andando dal sindaco per la Fiera di Sant’Orso quando mi hanno chiamata, sono caduta dalle nuvole. Da Roma volevano informazioni».

Quali furono le sue prime impressioni?

«Nelle ore successive al fatto non avevamo certezze. La dottoressa Ada Satragni, vicina di casa della vittima e medico condotto, sosteneva che al bambino era esplosa la testa, contro tutte le evidenze scientifiche, mentre i medici dell’ospedale dicevano che si trattava di un atto violento. Bisognava quindi aspettare l’autopsia».

A Cogne che clima c’era?

«Le famiglie si erano allarmate, pensavano ci fosse in giro per il paese un “mostro”. Sono andata in tv per tranquillizzare la popolazione».

Le indagini si sono indirizzate subito su Anna Maria Franzoni?

«In quei giorni non ho mai detto che era stata la mamma ad uccidere Samuele. Abbiamo fatto tutte le indagini possibili, abbiamo sentito e monitorato tutti i possibili sospetti indicati dalla famiglia. Poi i tecnici del Ris hanno rilevato il sangue sulle ciabatte, quelle che lei indossava prima di uscire di casa mentre dopo calzava gli stivaletti, ed è stato trovato il pigiama sotto le lenzuola. Insomma, si è chiarito che non poteva che essere stata lei. Avevamo le prove, sono state raccolte bene».

E l’impianto accusatorio ha tenuto.

«Rispetto ad altre vicende simili, penso al delitto di Garlasco oppure all’omicidio di Meredith Kercher, quest’inchiesta non è stato possibile scalfirla».

Cosa rendeva complesse le indagini?

«Ricordo che c’era molta fretta di arrivare alla soluzione del caso ma non è che le indagini sono durate un’eternità. In quei momenti bisogna fare attenzione a tutto. Penso, per esempio, al tribunale del Riesame che dispose la scarcerazione di Anna Maria Franzoni: il medico legale, contrariamente a quello che ci aveva detto a voce, aveva scritto nella relazione che era avvenuta nel breve lasso di tempo in cui la madre era fuori casa. I giudici avevano quindi dedotto che non era stata lei. Mi sono andata a riguardare tutto il fascicolo, scoprendo che quello era il punto morto delle indagini».

Quanto ha inciso la pressione mediatica?

«Questa vicenda è diventata complessa per una serie di motivi, dall’interesse mediatico alla commozione e alla sofferenza che ha destato nei cittadini. Tutti ci chiedevano una risposta veloce ma per dare una risposta ci voleva il tempo di fare le indagini. Non è concepibile attribuire un reato così grave senza avere certezze».

Il momento più difficile?

«La pubblicazione su alcuni quotidiani della notizia che l’assassino indossava il pigiama. Noi lo sapevamo in camera caritatis perché ci era stato anticipato ma non potevamo chiedere una misura cautelare sulla base di informazioni orali, avevamo bisogno di una relazione scritta per la quale ci volevano un paio di giorni. Dopo quegli articoli, la gente si chiedeva come mai non l’arrestavamo. Eravamo in difficoltà. Anche per l’immagine di inefficienza o incapacità che potevamo dare».

Ha poi chiarito questo passaggio?

«Non sapevo chi avesse fatto trapelare la notizia, l’ho scoperto anni dopo quando ero già in pensione: era stato un mio sostituto procuratore, che consideravo come un figlio maggiore. Forse era deluso perché non gli avevo affidato il caso. Tra di noi era abitudine condividere tutto. È stato un tradimento. Ecco, questo mi ha fatto ancora più male».

Giacomo Nicola per "il Messaggero" il 7 gennaio 2022. Vent' anni dopo nella stessa casa, lo chalet dove è stato ucciso suo figlio Samuele e per il cui delitto è stata condannata. Annamaria Franzoni ha passato qui le feste di Natale. Ha preso il sole accanto al marito, è stata seduta davanti al camino. Dal giardino ha sparato fuochi d'artificio nel cielo, la notte di Capodanno. «Ma qui in paese - dicono - nessuno ormai ci fa più caso». Assieme al marito, Stefano Lorenzi, ha trascorso in tutto tre giorni nella villetta di Cogne in frazione Montroz, Valle D'Aosta. 

La numero 4, la casa più famosa nella tragica galleria dei delitti italiani. Giorni fa una coppia di turisti di mezza età si camminava in lungo e in largo alla ricerca di informazioni: «Qual è esattamente?». Erano venuti apposta, come molti altri prima di loro. Chiedevano ai passanti, fino a quando al fondo della strada hanno visto il padre e l'hanno riconosciuto. Erano lì entrambi: il padre e la madre. È stato qui che la mattina del 30 gennaio 2002, fra le 8.15 e le 8.30, Annamaria Franzoni ha fracassato la testa, «con numerosi e ripetuti colpi» al figlio Samuele di 3 anni «cagionandone la morte».

Samuele Lorenzi era stato ritrovato sul letto dei genitori, nella stanza al piano seminterrato. La Franzoni, che oggi ha 50 anni, non è mai stata abbandonata dalla sua famiglia. Nemmeno ha mai ammesso il delitto. Sedici anni di carcere, ridotti a dieci con l'indulto e la buona condotta. Ai domiciliari dal 2014, infine libera nel 2019. Una perizia psichiatrica ha escluso il rischio di recidiva.

Dopo aver passato tre giorni di fine anno con il marito, Annamaria Franzoni è tornata a Monteacuto Vallese, sull'Appennino Tosco-Emiliano, la terra dove è nata. Qui si occupa di un agriturismo che apre principalmente in occasione di feste e cerimonie. Annamaria Franzoni si è sempre dichiarata innocente. E non è la prima volta che la donna torna nella casa di frazione Montroz da quando ha scontato la pena a 16 anni (ridotti a meno di 11) per l'uccisione del figlio.

Dopo essere tornata in libertà, già nel novembre 2018 era stata notata nello chalet da alcuni vicini. Nel giugno 2021 era terminato il contenzioso tra la famiglia Franzoni e l'avvocato Carlo Taormina con cui la villetta di Cogne rischiava di essere messa all'asta. Il tribunale di Aosta aveva infatti dichiarato estinta la procedura esecutiva, avviata su richiesta del legale che lamentava il mancato pagamento di onorari difensivi per oltre 275mila euro, divenuti circa 450mila nell'atto di pignoramento.

«I coniugi Franzoni hanno iniziato a pagare», aveva detto l'avvocato Taormina. La villa era stata dissequestrata il 23 marzo 2013, alla presenza di Stefano Lorenzi. Da allora era tornata nella piena disponibilità della famiglia, fino al pignoramento, poi revocato. Lo scorso 4 febbraio Annamaria Franzoni aveva denunciato nell'aula del tribunale di Aosta l'esistenza di un turismo macabro alla villa di Cogne. Era comparsa come testimone e parte civile nel corso di un processo per violazione di domicilio a carico di una giornalista e di un telecineoperatore, poi assolti. Vent' anni dopo, a Cogne, in pochi ricordano la faccia di Samuele. In molti invece riconoscono quella di Annamaria Franzoni.

Il delitto di Cogne, la vera storia di Annamaria Franzoni. Quando disse: «Tiro io le bombe». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 22 Gennaio 2022. 

Una giovane madre depressa, il figlio Samuele, 3 anni, colpito alla testa per 17 volte. Cominciò così uno dei casi di cronaca più controversi, complice anche la scelta di spettacolarizzare tutto, all’inseguimento di una improbabile innocenza. Che cosa resta oggi? La tragedia di un bambino e la speranza che non accada più. 

Questo articolo a firma di Marco Imarisio, l’inviato del Corriere che seguì la cronaca del delitto e della vicenda giudiziaria di Annamaria Franzoni, è stato pubblicato sul magazine 7 in edicola venerdì 21 gennaio

Come fosse ieri. Era un piccolo appartamento al piano terra di un residence alle cascate di Lillaz. Ilaria e Fabiola, le sue sorelle più piccole, aprirono la porta dell’ingresso con una espressione raggiante. «È di là, adesso arriva». Dopo cinque minuti, Annamaria Franzoni entrò con un passo quasi militare. Si piantò nel mezzo del salotto, con le ginocchia piegate in avanti, in posizione da sci. E con le mani che si muovevano in avanti sui fianchi, come se stesse scagliando qualcosa in avanti, disse con tono enfatico che aveva dei missili da sganciare, adesso che era tornata libera quelli che non le credevano, che la accusavano, avrebbero tremato. «Ora le tiro io le bombe, altro che le loro balle». Le sue labbra tremavano per la rabbia. «Siediti, che ti racconto cosa ho passato in carcere per colpa di queste m...» ordinò con tono perentorio. Per poi cambiare registro in un istante e chiedere all’ospite, con tono premuroso: tè o caffè?

Fuso orario

Era il 3 aprile del 2002. Annamaria ogni tanto si interrompeva per prendere in braccio il figlio Davide, per baciarlo passandogli la mano tra i capelli. Incrociava spesso lo sguardo con quello di suo marito Stefano, seduto all’altro capo del tavolo, quasi a chiedere una implicita approvazione, ogni tanto parlava con la madre Chiara per decidere cosa preparare per cena. Sembrava una normale casalinga, e non la donna che da ormai due mesi stava ossessionando l’Italia intera. Ancora non si rendeva bene conto di quel che si stava muoveva intorno a lei. Si muoveva a tentoni, con qualche impaccio, come se fosse sotto l’effetto di un fuso orario. Il suo tempo si era congelato alla sera del 14 marzo, quando i carabinieri erano entrati nella casa di famiglia a Monteacuto Vallese, poco distante da Bologna per portarla in carcere. Era stata via diciassette giorni. Fino a quando una decisione a sorpresa del Tribunale del Riesame di Torino l’aveva rimessa in libertà, riaprendo una vicenda tragica che sembrava chiusa, e decretando così anche l’ufficialità di un impazzimento mediatico già in corso che avrebbe trasformato «il delitto di Cogne» nella più inspiegabile e controversa storia della cronaca nera italiana. Chiamarono dalla redazione, primo pomeriggio del 30 gennaio 2002. «C’è una mamma depressa che ha ucciso il suo bambino in un paesino della Val d’Aosta, perché non ci fai un salto? Tanto stasera puoi già tornare indietro». Passarono 92 giorni senza rivedere casa, e in fondo nessuno ne è mai uscito davvero. Anche per questo, certe volte è davvero come se fosse ieri. Ancora oggi, vent’anni dopo, può succedere che qualcuno si fermi a porre la solita domanda. «Ma siamo proprio sicuri che è stata lei?»

Quel mattino

Dubbi sembrava che non ce ne fossero, quel giorno. Samuele Lorenzi, tre anni allora e per sempre, si sveglia piangendo nel suo lettino. La mamma ha trascorso una notte difficile, il marito Stefano ha chiamato il 118 alle 5.58. «Ansia e sintomi di influenza» scriverà la dottoressa nel referto medico. Non è la prima volta. Non è stato un anno semplice, per questa donna di 33 anni. Una serie di svenimenti, di stati d’affanno respiratorio, una prima diagnosi di depressione, con prescrizione di tranquillanti. Alle 7.30 Stefano va a lavorare. Dopo aver consolato Samuele portandolo nel lettone dei genitori al pianterreno ed essersi cambiata il pigiama con i topolini disegnati, così racconterà decine di volte, alle 8.15 Annamaria si infila il giaccone e accompagna Davide alla fermata dello scuolabus, duecento metri di distanza e una attesa di cinque minuti, fino alle 8.20. Annamaria gli fa un cenno di saluto e torna indietro. In tutto, dirà, è stata via otto minuti al massimo. Quell’angolo di paradiso che lei e Stefano hanno scelto per rendersi autonomi da una famiglia unita ma ingombrante, si chiude per sempre. Lo hanno ingiustamente definito come il clan Franzoni. Era solo una famiglia di vecchio stampo patriarcale, incombente, immanente, un porto sicuro dal quale era legittimo voler salpare per vivere una vita propria. Ma il volto nascosto di quell’idillio bucolico è la solitudine, il senso di straniamento. Essere padrona di casa non significa sempre sentirsi a casa. Da quando è arrivato il suo secondo figlio, sente in sé un disagio che è una goccia cinese, non dà tregua.

Alle 8.27 del 30 gennaio 2002 Annamaria chiama Ada Satragni: «A Samuele è scoppiata la testa». E l’amica: «Cosa hai fatto?»

Alle 8.27 Annamaria chiama la dottoressa Ada Satragni, e le dice che a Samuele è scoppiata la testa. Alle 8.28 chiama il Pronto soccorso, e dice che suo figlio vomita sangue. Un minuto dopo, chiama il centralino della ditta dove lavora il marito, dicendo di avvertirlo che deve rientrare a casa ma chiedendo di non dirgli che «Samuele è morto». È ancora vivo, invece, povero bambino. Qualcuno lo ha colpito per diciassette volte, con un oggetto pesante e aguzzo. Ha il cranio sfondato, alcuni frammenti d’osso mancanti, anche una ferita sulla mano sinistra, con la quale ha cercato di difendersi. Sulla parete del letto gli schizzi di sangue raggiungono quasi i due metri d’altezza. «Cosa hai fatto?» urla Ada Satragni alla madre mentre porta fuori il bambino, che sta rantolando. Lei è catatonica, ripete che gli è scoppiata la testa. Quando arriva l’elicottero decollato da Aosta, Annamaria resta a terra. Suo figlio geme, apre e chiude gli occhi, respira, sta lottando. Lei lo guarda andare via. Come se non gli appartenesse più, come se fosse entrata in un’altra dimensione. Samuele Lorenzi muore alle 9.55, sul lettino che lo sta portando in sala operatoria. Quando arriva Stefano, sua moglie lo abbraccia piangendo. Senza accorgersi di avere accanto un carabiniere, gli chiede: facciamo un altro figlio? Mi aiuti a farne un altro? La logica e il comportamento contraddittorio di Annamaria puntano in una sola direzione. E se un bimbo viene ucciso mentre è solo in casa con la mamma che dopo la sua nascita ha cominciato a stare poco bene, non c’è bisogno di andare lontano per trovare il colpevole. Basterebbe portare Annamaria in caserma, e farla parlare. Invece arriva il mondo intero, a calpestare la scena del delitto. Ci entrano almeno quindici persone. Nella notte, prima della visita del Reparto scientifico dell’Arma, vengono mandati due carabinieri a sistemare mobili e suppellettili che sono stati spostati, per scongiurare una figura orrenda con i colleghi.

L’Italia era ossessionata dal delitto: quando Porta a Porta ne parlò, la trasmissione fu guardata da 10 milioni di spettatori

All’inizio è quasi un macabro gioco di società. Funziona come un telefilm del tenente Colombo, si vede il colpevole fin dalle prime battute, se ne osservano i comportamenti, mentre il classico cerchio si stringe. Solo che nel delitto di Cogne non si chiuderà mai davvero. Mancherà sempre il lucchetto della prova regina, al punto che la sentenza di primo grado che nel 2004 condanna Annamaria lo farà sulla base di sillogismo, l’assassino indossava zoccoli e pigiama, zoccoli e pigiama sono della mamma di Samuele, quindi è la colpevole è lei. Ci vorrà il lavoro certosino della procura generale di Torino per salvare quel processo ricostruendo un quadro indiziario plausibile. Ma questo succede dopo, quando ormai la villetta in frazione Montroz è diventata il simbolo del male e di una Italia che ha perso il senno, trasformando quel delitto, e quella donna, in una ossessione. È difficile ancora oggi spiegare come sia stato possibile. È difficile far capire cosa furono quei giorni. Non c’era che Cogne, sembrava non esistesse altro.

Il record Auditel di Porta a Porta

Nella storia di Porta a Porta, la puntata andata in onda in prima serata il 14 marzo, pochi minuti dopo l’arresto di Annamaria, fece registrare all’Auditel punte da dieci milioni di spettatori, con uno share del 36,11%, un dato secondo solo e di poco allo speciale dell’undici settembre 2001, poi comunque superato durante la puntata del 28 marzo, a ridosso della decisione del Tribunale del Riesame, che raggiunse uno share del 45 per cento. L’onda rompe ogni diga quando Annamaria viene liberata, grazie al lavoro dell’avvocato Carlo Federico Grosso, un principe del diritto convinto dell’innocenza della sua assistita, che ebbe gioco facile nel mostrare la fragilità di quella indagine. Fino a quel momento, Annamaria aveva parlato solo due volte, due interviste piene di lacrime ed emotività, rilasciate il 10 marzo quasi in contemporanea a un quotidiano e a una televisione nazionali. Per arrivare a lei, bisognava passare da suo padre, che prima di mostrarla ripeteva la lezione sul pigiama di sua figlia, secondo lui imbrattato e non schizzato di sangue, all’epoca era su questo dettaglio che si giocava l’indizio principale, e poi una lunga serie di teorie bizzarre, come quella sul complotto comunista teso a fargli pagare una antica militanza nella Democrazia cristiana. «È grossa da mandar giù, è troppo grossa...».

ANNAMARIA ANDÒ IN TV AD ANNUNCIARE LA NUOVA GRAVIDANZA. POI VENNERO IL CARCERE E LA SCELTA DI RICOMINCIARE NEL SILENZIO

Un paio di sere dopo quella prima intervista. Giorgio Franzoni aveva chiesto di accompagnarlo fuori, a passeggiare. Faceva un freddo cane. Lui indossava soltanto una camicia a maniche corte. Avevamo camminato fino a un campo arato e piatto. All’improvviso si era fermato, rimanendo indietro. Si era portato la mano destra alla faccia come per coprirsela. «Ho lavorato tutta la vita per essere rispettato. Adesso, questa macchia è dura da sopportare». Il patriarca stava piangendo. E quelle lacrime sulla sua faccia larga, il cedimento di un uomo duro che ci teneva ad apparire tale, facevano molta più impressione delle sue frequenti sfuriate. A quel tempo, aveva 64 anni, capelli ricci e bianchi, e le braccia abbronzate di chi è abituato a lavorare all’ aperto. Era un uomo massiccio e difficile, come può esserlo chi è abituato a comandare, ad avere sempre l’ultima parola, anche quando si trova in una situazione impossibile da gestire.

Il padre, le imprese edili, l’agriturismo

Figlio di un muratore, era arrivato a creare un piccolo impero, quattro imprese edili e due agriturismi. I figli maschi lavorano nei cantieri, le donne nell’altra attività. Dieci in tutto, dicono a Monteacuto che lui volesse arrivare a dodici, come gli Apostoli. La famiglia si radunava sempre intorno a un tavolo di legno che sembrava quello di un convento. Anche le panche sulle quali si sedevano tutti avevano qualcosa di monastico. Non c’erano poltrone. Solo poche sedie di legno. Ogni volta, dopo la cena consumata intorno alle 19, Giorgio ordinava ad Annamaria di parlare. «Avanti» le diceva, «Raccontaci cosa è successo».

Lui annotava tutto, con una calligrafia che tracciava ampi cerchi su un grande bloc notes, batteva il pugno sul tavolo per far tacere il brusìo che si levava durante il supplizio di quel bambino rivissuto e ripetuto come una lezione da mandare a memoria. Ogni tanto si dava tremendi pizzicotti sulle braccia per non addormentarsi, per mantenere l’attenzione. Quando c’era qualcosa che non tornava, le chiedeva di ripetere da capo, il sangue sul pigiama, il sangue sugli zoccoli, il sangue di suo nipote che aveva tre anni e ormai non c’era più. Lottava per la sua Bimba, per la figlia che più gli somigliava, per il buon nome della famiglia. Nient’altro al mondo. Pochi giorni prima dell’arresto di Annamaria, stanco di aspettare, aveva convinto la figlia e il marito Stefano a intraprendere un viaggio in gran segreto, destinazione Roma.

Gli amici democristiani

Aveva bussato alla porta degli ex democristiani della sua zona, Carlo Giovanardi e Pierferdinando Casini, che lui aveva conosciuto quando era presidente del Consiglio comunale del suo paese. Non gli aveva aperto nessuno. Avendo saputo della loro trasferta, l’unico che si fece vivo fu l’avvocato Carlo Taormina, che in quei giorni impazzava nei talk show chiedendo a gran voce l’arresto di «quella assassina», e accusando di inerzia «i mascalzoni» della procura di Aosta. Tanto diversi fisicamente, una montagna e un ramo secco, quanto fatti per intendersi. Quel linguaggio, quell’aggressività, erano musica per le orecchie di Franzoni. Quanto a fargli cambiare idea sulla colpevolezza di sua figlia, ci avrebbe pensato lui, e forse non serviva neppure. Taormina divenne il consigliere occulto della famiglia Franzoni. Una settimana dopo l’arresto di Annamaria, suonò il telefono. Era Giorgio. Disse che la copertura offerta dal Corriere della Sera, che oltre ad Annamaria aveva intervistato anche il marito Stefano ed era riuscito ad avere un canale per comunicare con la famiglia, non bastava più. «Per avere l’esclusiva della mia famiglia, il tuo giornale deve sposare in pieno la nostra linea» disse. «Dovete fare un editoriale per dire che Annamaria è innocente». La proposta fu girata per dovere al direttore dell’epoca, Ferruccio de Bortoli, il quale giustamente fece rispondere che un accordo del genere era impossibile. Franzoni non si perse d’animo, figurarsi. Questa specie di asta era stata fatta all’insaputa di Annamaria, che poi era l’oggetto all’incanto, mentre lei si trovava in carcere. Fu proprio la mamma di Samuele a chiamare dal telefono di Ilaria per dare appuntamento al residence di Lillaz. La nostra chiacchierata, quella che avrebbe dovuto contenere le bombe da sganciare sul mondo intero, si interruppe quando entrò in casa Giorgio Franzoni.

La scena di Taormina

Con un gesto, fece cenno a tutti di andare via. Rimasti soli, iniziò a parlare del «Tao», così lo chiamava. «Un avvocato bestia» lo definì. Mica come quel Grosso, che pure aveva ridato la libertà a sua figlia. «Non ha la rabbia dentro, non è grintoso, lo ha voluto mio genero, ma ha sbagliato, qui serve uno come il Tao, lui sì che sarebbe capace di trasformare questo caso in un processo alla politica italiana. Quanto a mia figlia, mi dispiace, ma tu non potrai più parlarci». E così fu. Al primo rovescio, quando la Cassazione annullò la scarcerazione di Annamaria, tanti saluti a Grosso. 

L’avvocato-bestia Taormina aveva iniziato come ospite della compagnia di giro televisiva che si era appena formata, e finì per diventare protagonista e principale sceneggiatore dello spettacolo che commentava dal salotto dei talk-show. Non c’era più alcun diaframma tra i fatti e la loro rappresentazione. Infatti, il delitto di Cogne sancì anche il sorpasso della televisione sulla carta stampata. Se tutta l’Italia voleva vedere la donna del mistero, non aveva senso fuggire dai media e affidarsi a qualche sparuta intervista. Il Tao decise di cavalcare in ogni modo possibile il voyeurismo dilagante. Questa è Annamaria, prendetene tutti, nutritevi della sua vita, non solo del racconto della morte del figlio, sempre uguale a quello provato e riprovato al tavolo della casa di Monteacuto, ripetuto con la stessa voce, le stesse pause.

Il canone moderno della cronaca nera

Annamaria su tutti i canali televisivi, su tutti i rotocalchi femminili, al Costanzo Show per annunciare di essere nuovamente incinta, negli show del pomeriggio, con un ufficio stampa dedicato, Annamaria di ritorno a Cogne dove gira un video grottesco dove la parte dell’assassino misterioso viene recitata da Stefano, il padre di Samuele. A Cogne nasce il canone moderno della cronaca nera, tutto il delitto minuto per minuto. Per farlo, serve mettere una vita a disposizione del pubblico. La Bimba obbedisce, acconsente al suo Truman Show, si lascia osservare, spiare, mentre Taormina riempie ogni vuoto perché ha capito che il vuoto è il grande nemico della macchina spettacolare dei media, non importa se viene riempito dalla verità o dal falso. «Signori, il mistero è risolto, i veri colpevoli sono i vicini di casa, tra poco avrete le prove».

Dalle conferenze stampa alla condanna

Per quaranta volte, contate una ad una, convocherà conferenze stampa per dire di conoscere l’identità del vero assassino, per fornire dossier e indizi fasulli. Perché più pezzi ci sono, meno potranno incastrarsi in un racconto plausibile. Intanto, Annamaria diventa una frase fatta, un cliché che ogni volta si svuota di significato. Viene condannata il 27 aprile del 2007 al termine di un processo d’Appello nel quale il suo avvocato rinuncia a qualsiasi cautela, sì alle telecamere, ai giornalisti, con la sua cliente che per l’ultima volta viene osservata, annusata, soppesata dall’Italia intera. Taormina viene mandato via prima della sentenza, la famiglia si è rivoltata contro il patriarca ed è riuscita da imporre un cambio di avvocato e di linea. Quel vuoto e quel silenzio che le facevano così paura diventano l’unica via d’uscita possibile. Espiare, sparire, tornare a vivere, ogni tanto anche in quella villetta, voltando le spalle a quei media che hanno divorato anche lei e una verità che fin da quel 30 gennaio del 2002 sembrò semplice nella sua atrocità. Non ci sarà mai più un’altra Cogne. Almeno, così speriamo che sia.

·        Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

Marco Gasperetti per il “Corriere della Sera” il 14 luglio 2022. 

«L'assassino di mio figlio rischia di fuggire, vi prego non lasciatelo libero». L'appello lo aveva ripetuto decine e decine di volte, Luigi Ciatti, il padre di Niccolò, e a qualcuno quel grido di dolore era sembrata persino un'ossessione.

Aveva ragione babbo Luigi, purtroppo. Così, dopo cinque anni di calvario, la beffa di un processo spagnolo finito con il minimo della pena per un omicidio orribile, 120 mila euro spesi in processi e trasferte, la notizia terribile di una prima fuga (finita male per l'omicida), ecco arrivare anche l'ultima beffa. La più annunciata.

«Che cos' altro dobbiamo subire? Quale altra tortura deve ricadere sulla mia famiglia?

- si chiede adesso Ciatti -.La mia è stata una vox clamantis in deserto , l'hanno lasciato libero senza neppure sorvegliarlo come un assassino meriterebbe. Una vergogna assoluta per la giustizia mondiale».

Quando lo avete saputo?

«Stamani (ieri mattina ndr ) ed è stato l'ennesimo colpo al cuore per me, mia moglie e mia figlia. Ma come è possibile che una persona condannata per omicidio volontario, che già una volta era fuggita in Germania, non sia stata controllata? Purtroppo è l'ennesima dimostrazione di quello che avevo già pensato più volte». 

Qual è il suo pensiero signor Ciatti?

«Penso che la giustizia spagnola non sia giustizia. A questo picchiatore omicida ha dato il minimo della pena e ora se l'è fatto scappare. Avevo fatto appelli, avevo chiesto per favore di controllare almeno i movimenti del condannato. Ma nulla. Ripeto una vergogna assoluta».

C'è un mandato di cattura europeo. E c'è anche un processo in Italia. Se lo dovessero trovare, che cosa spera accada?

«A questo punto, se nel mondo è rimasta un briciolo di giustizia, dovrebbe accadere una cosa sola: Bissoultanov dovrebbe essere estradato in Italia, dove si è aperto un processo vero, e dovrebbe essere condannato all'ergastolo». 

All'udienza spagnola che cosa è accaduto?

«Il giudice doveva decidere se metterlo in galera, come si meritava, prima degli altri due gradi di giudizio. Erano presenti tutti, anche gli avvocati del ceceno, ma lui era uccel di bosco, fuggito dopo la firma della scorsa settimana. Dunque il giudice ha firmato un mandato di cattura. Ora spero in un nuovo miracolo». 

L'arresto?

«Sì, spero che sia trovato e assicurato alla nostra giustizia. Ma ho una grande paura». 

Quale?

«Che sia fuggito in Russia, l'unico luogo che può accoglierlo e dove è al sicuro. Magari come ceceno lo manderanno in guerra in Ucraina, ma intanto l'ha fatta franca, ha massacrato mio figlio, si è fatto gioco di me e della giustizia».

Stefano Brogioni per lanazione.it il 13 luglio 2022.

Rassoul Bissoultanov, il ceceno condannato in Spagna a quindici anni per l'omicidio del 22enne fiorentino Niccolò Ciatti, avvenuto nell'agosto del 2017 a Lloret de Mar, non si è presentato stamani al tribunale di Girona all'udienza che doveva decidere sull'applicazione di una misura cautelare. 

I giudici spagnoli hanno emesso un mandato d'arresto internazionale, non essendoci stata giustificazione della sua assenza. Bissoultanov era in regime di libertà vigilata e lavorava a Girona. "Pensiamo che sia scappato. Tutto questo è allucinante", commenta Luigi Ciatti, padre di Niccolò.

"Ce lo aspettavamo, così fa malissimo. Errori e leggerezze dai giudici spagnoli". Marco Gemelli il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il papà della vittima: dall'inizio viviamo un assurdo senso di impunità

Non è solo amarezza né delusione. Non è rabbia e nemmeno rassegnazione. Nelle parole di Luigi Ciatti, il padre del giovane Niccolò, c'è la frustrazione e quel senso di impotenza di chi aveva provato a mettere tutti in guardia sul rischio di fuga dell'assassino del figlio. Aveva ripetuto fino allo sfinimento cosa sarebbe successo, e adesso che Rassoul Bissoultanov è diventato uccel di bosco la sua profezia si è puntualmente avverata.

Quanto fa male, oggi, sapere che le vostre paure erano più che fondate?

«Fa malissimo. Il nostro timore era questo sin dal giugno dell'anno scorso quando fu fissato il processo. Il sistema giudiziario spagnolo, che già aveva comminato la pena più lieve possibile per un caso di omicidio volontario aggravato, ha concesso a un assassino il beneficio di una settimana di tempo per preparare la fuga. Era chiaro che sarebbe fuggito, perché non parliamo di uno sprovveduto o di qualcuno sprovvisto di una rete di contatti in grado di renderlo irreperibile: in questo lasso di tempo Bissoultanov potrebbe essere ovunque. È vero, non ha il passaporto e non può prendere l'aereo, ma ha dimostrato di saper scomparire, come ha fatto dopo aver firmato la settimana scorsa».

Ritiene che sarebbe stato possibile evitare la fuga?

«Certamente. Ora ritrovarlo sarà un problema non indifferente, ma le alternative c'erano: gli inquirenti avrebbero dovuto predisporre una sorveglianza più attiva, in attesa di decidere se metterlo dietro le sbarre. O attivare i braccialetti, previsti dal sistema giudiziario spagnolo, seppur poco usati. O ancora si poteva obbligarlo alla firma ogni 2-3 giorni anziché a cadenza settimanale. In fondo parliamo di un assassino certificato, non di un comune delinquente. Ora confidiamo in un suo errore, ma è difficile che ne commetta ancora».

L'impressione è che sin dall'inizio di questa vicenda si siano susseguiti parecchi errori...

«Di sicuro in quest'ultimo episodio c'è stata molta superficialità, con controlli insufficienti da parte della polizia. Ho avuto occasione di parlare col pubblico ministero spagnolo, giovane ma determinato, e mi ha spiegato che per muoversi era necessario aspettare la sentenza. Arrivata dopo un mese. Ma sin dall'inizio di questo calvario, cinque anni fa, tante cose non sono andate come avrebbero dovuto. Prima le autorità hanno tenuto Bissoultanov in carcere 4 anni senza fare un processo, poi l'errore di un giudice italiano ha portato alla scarcerazione. E ancora: da un lato la Spagna ha fatto le corse per istruire velocemente un processo, e dall'altra c'è voluto un mese per emettere una sentenza, dopo il verdetto della giuria popolare. Insomma, avvertiamo un senso di impunità assurdo. Se mettiamo a confronto la nostra vicenda con la sentenza per i fatti di Colleferro, vediamo chiaramente quanto sia diversa la visione della giustizia da parte dei giudici italiani e spagnoli».

Come si fa a restare fiduciosi nella giustizia, dopo una serie così lunga di batoste?

«Noi più di questo non riusciamo a fare. Siamo noi a dover lottare per ottenere giustifica e far valere un diritto, perché di fronte abbiamo qualcosa che rispetto a noi è gigantesco. Un muro fatto di formalismi, procedure e decisioni sbagliate. Sentiamo intorno a noi la solidarietà delle persone comuni e delle istituzioni locali, ma non l'appoggio di chi dovrebbe darci la garanzia della certezza del diritto. E tra un mese, il 12 agosto, saranno passati già 5 anni».

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 6 luglio 2022.

Quanto vale la vita di un ragazzo di 22 anni, ucciso a calci e pugni, per la giustizia spagnola? È di ieri la sentenza del tribunale di Girona per l'omicidio volontario di Niccolò Ciatti, ucciso in una discoteca da un calcio sferrato con tutta la violenza possibile su un corpo inerme. Ebbene, sono 15 anni. Questa la sentenza a carico del cittadino ceceno Rassoul Bissoultanov, che ha lo status di rifugiato politico. E il padre di Niccolò, il signor Luigi Ciatti, da Scandicci in provincia di Firenze, non ci sta. Non ci può stare. «Ci troviamo di fronte persone - si sfoga - che dovrebbero essere dalla nostra parte, ma che invece sono al fianco degli assassini. Siete la vergogna di un mondo civile. Quando tornate a casa, avete il coraggio di guardare negli occhi i vostri figli?». Dice: «Continueremo a lottare. Agli assassini si dà l'ergastolo». 

È lo sfogo di un padre che in Spagna ha visto snodarsi un processo con lentezza esasperante, poi incomprensibili favoritismi per l'imputato (scarcerato nonostante tutto, e subito fuggito in Germania), e che ora, quando finalmente una giuria popolare ha stabilito che si tratta di omicidio volontario e non di semplice leggerezza come s' è difeso Bissoultanov, vede applicare la pena minima. «Incomprensibile. Quali sarebbero le attenuanti per non dare il massimo?». 

La procura ne aveva chiesti ventiquattro, considerando che in Spagna non esiste ergastolo e il massimo possibile sono 25 anni. «Ed era quanto ci aspettavamo», dice il giovane Alessandro Marconi, che quella sera del 2017 era in discoteca con Niccolò, e non si capacita di come siano andate le cose. Invece no. Il presidente del tribunale di Girona ha deciso per il minimo. 

Da quel che trapela della sentenza, ha deciso che non si poteva applicare il massimo della pena perché Niccolò è morto per un solo calcio e quindi non ci sarebbe stato accanimento. Per il babbo di Niccolò, però, una pena così lieve è inaccettabile. «Penso che questo Presidente del Tribunale dovrebbe studiare la parola Giustizia. Giustificare una sentenza del genere con "per quanto possa sembrare duro ai parenti"... credo che veramente dovrebbe cambiare lavoro». È perfino ovvio che il signor Ciatti faccia un confronto con il processo ai due fratelli Bianchi che hanno ucciso di botte il povero Willy Montero. «Hanno preso due ergastoli. Eppure i fatti sono gli stessi».

Tra Girona e Colleferro, i due casi si somigliano per tanti aspetti. Vent' anni la vittima, picchiatori di professione i carnefici. Simili le dinamiche processuali. «Quando sono andato a Girona a testimoniare - racconta l'amico Alessandro - vedere in aula Bissoultanov, impassibile, mi ha dato i brividi». «Siamo dispiaciuti, amareggiati, arrabbiati: sono cinque anni che chiediamo giustizia, non capisco come i giudici non siano riusciti a vedere la gravità dell'omicidio», commenta anche Filippo Verniani, un altro amico. Parenti e amici si attendono molto dal processo parallelo che si tiene a Roma, istruito dal pm Erminio Amelio: venerdì inizia l'istruttoria, la sentenza di primo grado è attesa per l'inizio di autunno.

Ha sempre detto il papà: «Le indagini in Italia sono state serie e potrebbero portare a una condanna davvero giusta». Tra le due giustizie s' è innescata una gara a chi arriverà per primo alla sentenza definitiva. E la famiglia ha tutto l'interesse a tenere aperto il processo in Spagna per permettere l'avanzamento di quello italiano. Perciò faranno ricorso. «Nel giro di 10 giorni valuteremo l'impugnazione», commenta Agnese Usai, legale dei Ciatti. 

Da tgcom24.mediaset.it il 5 luglio 2022.

Il tribunale di Girona, in Spagna, ha condannato a 15 anni Rassoul Bissoultanov, il ceceno accusato dell'omicidio di Niccolò Ciatti, morto il 12 agosto 2017 a Lloret de Mar dopo un pestaggio in discoteca. "Il minimo della pena", commenta su Facebook il padre Luigi. Il pm aveva chiesto 24 anni; 15 anni sono la pena minima prevista in Spagna per il reato di omicidio volontario. 

Il padre: "Una vergogna" - "Il presidente del Tribunale di Girona ha scelto la pena minima - dice il padre -. Penso che dovrebbe studiare la parola giustizia. Giustificare una sentenza del genere con 'per quanto possa sembrare duro ai parenti' credo che veramente dovrebbe cambiare lavoro. Ci troviamo di fronte persone che dovrebbero essere dalla nostra parte e invece sono al fianco degli assassini. Siete la vergogna di un mondo civile". 

Il legale della famiglia: valuteremo se impugnare la sentenza - "In tempi rapidissimi valuteremo l'impugnazione della sentenza", ha detto Agnese Usai, legale italiana della famiglia di Niccolò Ciatti. "I termini per l'impugnazione nell'ordinamento spagnolo sono brevissimi".

Solo 15 anni al ceceno che ha ucciso Ciatti. Il padre: "Una vergogna". Stefano Vladovich il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Pena ridotta all'omicida del 22enne pestato a morte in Spagna. L'accusa chiedeva 24 anni.

Quindici anni per omicidio volontario. Il Tribunale di Girona, dopo aver condannato Rassoul Bissoultanov per l'assassinio di Niccolò Ciatti, 22 anni, emette la sentenza. Quindici anni di carcere al 26enne ceceno esperto di Mma, la pena minima prevista in Spagna dove il massimo per omicidio di primo grado sono 24 anni. Tre lustri appena dietro le sbarre per aver preso a calci un ragazzo senza motivo, sotto gli occhi di decine di persone. «Vergogna!» scrive il padre della vittima, Luigi Ciatti, sulle pagine di Facebook. «Questa non è giustizia. È un'offesa a Niccolò e a tutti noi. Eppure c'era il verdetto della giuria popolare che aveva riconosciuto l'omicidio volontario aggravato, c'era la richiesta del pm di dare al colpevole 24 anni di carcere e 9 di libertà vigilata. Quali sono le attenuanti che il presidente del Tribunale ha riconosciuto al colpevole? Faremo ricorso. «Quando tornate a casa - Ciatti si rivolge ai giudici spagnoli - avete il coraggio di guardare negli occhi i vostri figli?».

Due pesi, due misure. Lunedì la sentenza a Frosinone con la pena dell'ergastolo ai fratelli Bianchi, anche loro professionisti di Mma, un mix di arti marziali e boxe, che hanno massacrato di botte Willy Monteiro Duarte. Ieri quella del Tribunale catalano che riduce al minimo, per lo stesso reato, la pena. «Il presidente del Tribunale di Girona dovrebbe studiare la parola giustizia - continua Ciatti - E dovrebbe cambiare lavoro. Persone che dovrebbero essere dalla nostra parte, invece sono al fianco degli assassini. Siete la vergogna di un mondo civile».

Una sentenza assurda per un delitto ancora più assurdo commesso sulla pista da ballo del St Trop di Lloret de Mar, in Costa Brava, dove Niccolò trascorre con gli amici l'ultimo giorno di vacanza. È il 12 agosto 2017, tre picchiatori ceceni entrano in discoteca. Sono le 2,27. Alle 2,51 incrociano Niccolò e lo spintonano. «Levati gli urlano. Il 22enne di Scandicci cade a terra. Bissoultanov prende la mira e gli sferra un calcio laterale alla testa. Un colpo calibrato e, soprattutto, mortale diranno in aula i poliziotti della omicidi spagnola. Le loro parole, assieme a un video girato da un turista olandese, lo inchiodano. «Un colpo che non si improvvisa, una mossa inferta con la massima forza - spiegano alla giuria - Il corpo dell'aggressore è saldo e ben in equilibrio per dare il colpo letale». Niccolò muore per emorragia cerebrale. Per il pm spagnolo, Victor Pillado, l'amico di Bissoultanov, Movsar Magomadov, anche lui figlio di rifugiati ceceni, non ha preso parte al pestaggio.

La querelle giudiziaria inizia con l'arresto dei tre picchiatori. Restano nelle celle spagnole fino alla decorrenza dei termini, agosto 2021: dopo 4 anni il processo in Spagna non è mai iniziato. Bissoultanov coglie l'occasione e va in Francia, dove risiede, con una scusa. Scompare fino alla cattura in Germania, a ottobre. Estradato in Italia, resta nelle patrie galere fino al 29 dicembre quando la corte di Assise di Roma lo rimette in libertà per un vizio di forma: l'imputato non era in Italia quando è stato emesso l'ordine di cattura. Il ceceno torna in Spagna per andare a processo. «Non credo nella giustizia italiana» dice in conferenza stampa. A fare la differenza, di fatto, è la pena prevista per l'omicidio volontario nei due Paesi. Nel frattempo la Terza Sezione della Corte d'Assise di Roma dichiara infondata l'istanza che l'ha scarcerato. Il processo prosegue a Roma anche senza imputato visto che nessuno dei due procedimenti, quello spagnolo e quello italiano, ha sentenza definitiva. Oggi la seconda udienza.

Il giovane fu pestato in una discoteca di Lloret de Mar. Omicidio Niccolò Ciatti, per il ceceno Rassoul Bissoultanov condanna a 15 anni: “Minimo della pena, la vergogna di un mondo civile”. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2022 

Quindici anni di reclusione, il minimo secondo quanto stabilisce il codice penale spagnolo. È questa la condanna emessa dal tribunale provinciale di Girona, per omicidio volontario, nei confronti del 29enne ceceno Rassoul Bissoultanov: quest’ultimo era accusato della morte di Niccolò Ciatti, giovane 21enne di Scandicci (Firenze) pestato a morte e senza alcun motivo la notte tra l’11 e il 12 agosto 2017 in una discoteca di Lloret de Mar, nota località della Costa Brava, dove si trova in vacanza con alcuni amici.

Il verdetto nei confronti del 29enne ceceno era stato emesso lo scorso 3 giugno, ma la sentenza è stata deposita oggi dal giudice togato a cui spettava determinare la pena, che oscillava tra un minimo di 15 e un massimo 25 anni.

Il procuratore Victor Pillado aveva chiesto 24 anni di carcere e 9 anni di libertà vigilata per Bissoultanov: “Dobbiamo giustizia alla famiglia Ciatti – aveva detto nella requisitoria il pm Pillado -, dobbiamo una condanna giusta e responsabile”.

Rabbiosa la reazione della famiglia Ciatti, che tramite l’avvocato Agnese Usai non esclude di impugnare la sentenza facendo ricorso per reclamare una pena maggiore per il condannato. “In tempi rapidissimi valuteremo l’impugnazione della sentenza”, ha detto all’Ansa il legale. 

Su Facebook il padre di Niccolò, Luigi, ha utilizzato parole durissime: “Penso che questo presidente del Tribunale di Girona dovrebbe studiare la parola giustizia. Giustificare una sentenza del genere con “per quanto possa sembrare duro ai parenti” credo che veramente dovrebbe cambiare lavoro. Continueremo a lottare per darti quella giustizia che meriti Niccolò – ha scritto Luigi Ciatti pubblicando una foto del figlio – ci troviamo di fronte persone che dovrebbero essere dalla nostra parte ma che invece sono al fianco degli assassini. Siete la vergogna di un mondo civile, quando tornate a casa avete il coraggio di guardare negli occhi i vostri figli?”.

Stando a quanto ricostruito nel corso del processo, Bissolultanov in quella notte fatale per Niccolò era sulla pista da pallo della discoteca ‘St Trop’ insieme a due connazionali quando, senza alcun motivo, prese di mira il 21enne italiano che stava trascorrendo con i suoi amici l’ultima serata della vacanza in Costa Brava.

In particolare Bissolultanov, esperto di arti marziali e in particolare di MMA, sferrò un violentissimo calcio alla testa di Niccolò, già a terra, dove non si rialzerà più. Il 21enne di Scandicci morirà poche ore dopo in ospedale.

«Giusto scarcerare il ceceno accusato dell’omicidio Ciatti: vi spiego perché». Parla il difensore di Rassoul Bissoultanov, uno dei due ceceni accusati dell'omicidio di Niccolò Ciatti, il 22enne fiorentino pestato a morte nell'agosto 2017 in Spagna. Valentina Stella su Il Dubbio il 31 dicembre 2021. La risposta alle polemiche sulla scarcerazione di Rassoul Bissoultanov, uno dei due ceceni accusati dell’omicidio di Niccolò Ciatti, il 22enne fiorentino pestato a morte l’11 agosto 2017 in una discoteca di Llorret de Mar in Spagna, sta tutta nell’articolo 10 del codice penale (Delitto Comune dello straniero all’estero). Ce lo spiega nel dettaglio il suo avvocato Francesco Gianzi in questa intervista. In pratica il nostro Paese, nel caso di un cittadino straniero che commette un reato contro un cittadino italiano all’estero, può richiedere l’arresto solo se lo straniero è presente in Italia nel momento in cui viene emessa l’ordinanza.

Avvocato ci spiega bene tecnicamente da dove deriva questa scarcerazione?

È stata fatta una richiesta di revoca della misura cautelare che si basava su diversi punti, tra cui l’improcedibilità dell’azione penale e quindi dell’arresto. La Corte di Assise di Roma ha ritenuto assorbente il primo punto e quindi ha accolto la nostra istanza condividendo l’impostazione difensiva per cui la misura della custodia cautelare in carcere non poteva essere emessa mancando la condizione di procedibilità ex art. 10 c.p., relativa alla presenza dello straniero nel territorio dello Stato, atteso che Bissoultanov, al momento dell’emissione dell’ordinanza di misura cautelare in carcere non si trovava in Italia, essendo sul territorio dello Stato solamente successivamente all’emissione dell’ordinanza e cioè in sede di consegna in esecuzione del mandato di arresto europeo da parte dell’Autorità Giudiziaria tedesca, dove era detenuto a tal fine. In sostanza è stato trasferito in Italia e posto in custodia cautelare in carcere sulla base di una violazione di legge.

Il processo comunque inizierà il 18 gennaio.

Il processo si potrà comunque celebrare, salvo questioni di giurisdizione. Bisognerà capire se la giurisdizione è quella italiana o quella spagnola. Questo è un problema che verrà affrontato alla prima udienza dibattimentale. Noi riteniamo che la giurisdizione sia dello Stato spagnolo, e  già i giudici spagnoli hanno fatto ricorso in sede europea perché è stata sottratta loro, con questa iniziativa dell’arresto da parte del nostro Paese, la giurisdizione in quanto mentre in Italia il processo in absentia è possibile, in Spagna invece no. Che problema ci sarebbe a processarlo in Spagna piuttosto che in Italia, considerato che il reato che viene contestato, ossia l’omicidio volontario, è lo stesso e che in caso di condanna la pena edittale massima prevista è sempre quella dell’ergastolo? Voglio però ricordare una cosa.

Prego.

Bissoultanov è stato detenuto oltre quattro anni in custodia cautelare preventiva in Spagna in attesa di giudizio e per oltre quattro mesi dagli arresti in Germania fino alla revoca della misura. Tuttora si è in attesa di celebrare il processo, che doveva iniziare in Spagna nel mese di novembre, ed è stato sospeso invece proprio in conseguenza del provvedimento emesso dall’Autorità Giudiziaria in Italia. Questo arresto ha provocato a mio avviso diversi danni: al ragazzo che ha subìto  una ingiusta carcerazione in Italia e alla famiglia della vittima perché così si è ritardato l’inizio del processo in Spagna. Ora quindi ci saranno ulteriori ritardi finché non si deciderà in merito alla giurisdizione. Lamentiamoci pertanto del fatto che il processo non sia ancora iniziato e non della scarcerazione del mio assistito.

Sono state molte le polemiche per questa scarcerazione sintetizzate dalla formula “un assassino è libero per un cavillo. Vergogna!”. Come si può rendere accettabile socialmente questa decisione?

Non si tratta di un cavillo, ma di rispettare le regole. Il ragazzo è stato arrestato in violazione della normativa italiana vigente. Per di più questo provvedimento italiano interviene a quattro anni dal fatto. Può sembrare scandalosa la scarcerazione, ma prima di pronunciarsi bisogna conoscere tutta la storia dall’inizio. A proposito di polemiche, vorrei chiarire un altro aspetto.

Dica.

Terminata la carcerazione preventiva in Spagna, gli è stato imposto l’obbligo di dimora lì. Ho letto su diverse testate che poi sarebbe fuggito. Non è così: gli è stato concesso un permesso di pochi giorni da un giudice spagnolo per andare a trovare i suoi genitori in Francia, a Strasburgo. Mentre si spostava nell’area metropolitana della città per arrivare a Kehl per mangiare una pizza, città che, seppur tedesca, fa parte dell’area metropolitana di Strasburgo, è stato preso in consegna dalla polizia tedesca. Ammanettato mani e piedi, è stato trattenuto lì due mesi prima di essere estradato in Italia. In sostanza, il mio assistito in attesa di un processo ha scontato quattro anni e mezzo di carcerazione preventiva. Capisco le ragioni dei genitori della vittima, ma anche trascorrere tutto questo tempo in prigione in attesa di essere processato mi sembra eccessivo.

Avvocato, un altro elemento della storia che ha suscitato critiche è che forse il suo assistito potrebbe non partecipare al processo.

Non  vedo nulla di strano che un processo si possa celebrare con l’imputato a piede libero. Cosa cambia per la parte offesa? Non sarebbe questo il primo caso. Anche qualora fosse stato detenuto, si sarebbe comunque potuto rifiutare di partecipare alle udienze. Dopo di che un uomo libero decide di stare dove ritiene più opportuno: in Italia, Francia, Germania, dove vuole insomma in attesa della conclusione del processo.

Però mi pare che il vero problema è che Bissoultanov possa lasciare l’Italia, se non lo ha già fatto, e sottrarsi alle sue eventuali responsabilità, in caso di condanna.

Non so se sia rimasto in Italia ma non mi stupirei se fosse altrove perché non ha mai vissuto qui. Nel caso in cui venisse condannato e qualora si rendesse irreperibile scatterebbe il mandato di arresto europeo e la richiesta di estradizione. Comunque chi può dire come andrà a finire il processo se ancora non è neanche iniziato? Al momento è innocente, come prevede la nostra Costituzione.

Il padre della vittima ha scritto al Presidente della Repubblica Mattarella. Che ne pensa?

Rispetto tutte le scelte difensive e soprattutto quelle personali di un padre che ha perso un figlio. Qui però nessuno può violare le leggi vigenti. Noi abbiamo richiesto semplicemente che venissero rispettate le norme del codice penale. 

Nessun cavillo. Scarcerare l’imputato dell’omicidio Ciatti è stato un atto di legalità. Guido Stampanoni Bassi su L'Inkiesta il 4 Gennaio 2022. I giornali hanno gridato allo scandalo, appoggiando il risentimento (comprensibile) della famiglia della vittima dell’omicidio avvenuto a Lloret de Mar nel 2017. Eppure i magistrati hanno soltanto applicato la legge, ricordando che nel nostro ordinamento non si possono tollerare arresti illegittimi. Nella vicenda che ha portato alla scarcerazione dell’imputato accusato di un terribile delitto (l’omicidio di Niccolò Ciatti a Lloret de Mar nel 2017) non c’è stato nessun cavillo, ma un arresto illegittimo che non può essere tollerato dal nostro ordinamento. Qualunque sia il crimine e chiunque sia l’arrestato.

È di pochi giorni fa la decisione della Corte di Assise di Roma di rimettere in libertà uno degli imputati accusati di aver causato la morte di Niccolò Ciatti, il ragazzo tragicamente ucciso nell’estate del 2017 a Lloret de Mar in Spagna.

Senza voler entrare nel merito delle (più che comprensibili) reazioni dei familiari, stupisce la reazione di una buona parte della stampa che, seguendo modalità ormai ben consolidate quando si ha a che fare con vicende che toccano l’opinione pubblica, non ha tardato ad attaccare la decisione, definendola frutto del solito “cavillo”.

Addirittura – in qualche caso – bersaglio degli attacchi non è stato solo il provvedimento, ma anche il suo autore: si veda l’articolo pubblicato da Repubblica, secondo cui «non è la prima volta che un atto emesso dalla Terza Corte d’Assise del Tribunale di Roma è destinato a far discutere: il Presidente della giuria che ha ordinato la liberazione di Bissoultanov, infatti, appena due mesi fa aveva annullato il decreto che disponeva il giudizio per i quattro 007 egiziani accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni»). Con le sue decisioni «destinate a far discutere» – sembra di capire – questo Giudice avrebbe più a cura i diritti dei presunti assassini e torturatori di nostri connazionali e questo, evidentemente, non può essere accettato.

Ma le cose stanno davvero così? Davvero, la decisione è frutto di un “cavillo”? (che la Treccani definisce come «quel ragionamento sottile e fallace, ma con apparenza di verità, con cui si cerca di trarre altri in inganno o di alterare o interpretare speciosamente fatti e parole»).

In realtà no. La decisione della Corte di Assise si basa, infatti, su quanto previsto dall’art. 10 c.p. – ossia la disposizione del nostro codice penale relativa al “delitto comune dello straniero all’estero” – nella parte in cui si stabilisce che lo straniero che commetta all’estero un delitto contro un cittadino italiano (o contro lo Stato italiano) è punito «sempre che si trovi nel territorio dello Stato».

Più precisamente, l’aspetto su cui si è discusso (e su cui la Procura ha offerto un’interpretazione non accolta dalla Corte) è se tale previsione – ossia la presenza dello straniero nel territorio dello Stato – debba essere considerata una condizione di procedibilità oppure una condizione di punibilità. In altri termini, ci si è chiesti se tale condizione sia necessaria per sottoporre lo straniero a misura cautelare (ossia per arrestarlo) oppure per processarlo (ed eventualmente sanzionarlo).

Ebbene, la giurisprudenza della Corte di Cassazione (alla quale, secondo certa stampa, il giudice «delle decisioni destinate a far discutere» avrebbe osato uniformarsi) è da anni orientata nel senso che la presenza dello straniero nel territorio dello Stato sia una vera e propria condizione di procedibilità, la cui sussistenza – scrive testualmente la Cassazione – è richiesta «anche ai fini della applicazione di misure cautelari da adottarsi nella fase delle indagini preliminari».

Detta in termini non giuridici, per la legge, così come interpretata dalla Suprema Corte e dalla più autorevole dottrina, non è consentito arrestare uno straniero che abbia commesso all’estero un reato contro un italiano qualora lo stesso non si trovi in Italia; e, qualora si sia proceduto in tal senso, si sarebbe in presenza di un atto contra legem, in quanto posto in essere oltrepassando i poteri attribuiti dalla legge ai protagonisti del procedimento penale.

Esattamente quello che è avvenuto nella tragica vicenda relativa all’omicidio di Niccolò Ciatti, nella quale l’imputato (che nel frattempo ha comunque passato diversi anni in stato di custodia cautelare in carcere in Spagna) al momento dell’emissione dell’ordinanza di misura cautelare non si trovava in Italia, essendo giunto in Italia sono nell’ottobre del 2021 dalla Germania.

Nessun cavillo, dunque, ma la sola applicazione dei principi fondamentali del nostro ordinamento, i quali non possono tollerare arresti illegittimi. Qualunque sia il crimine e chiunque sia l’indagato.

Inequivocabile, in tal senso, il passaggio della decisione ove si legge che, accanto al principio di obbligatorietà della azione penale, «esiste quello, altrettanto invalicabile, di legalità, che richiede la necessaria verifica che ricorrano tutte le condizioni normative per il legittimo esercizio di quell’azione».

Tornano in mente le parole del professor Ennio Amodio nel libro “A furor di popolo” (titolo che ben si adatta alla presente vicenda): «Le vittime devono essere rispettate, ma le stesse vittime devono rispettare il processo».

Per quanto una decisione possa lasciare l’amaro in bocca (e il discorso è analogo a quanto accaduto nella vicenda Regeni, dove è stato annullato il decreto che mandava a giudizio gli imputati egiziani accusati delle torture e della morte del nostro connazionale) e per quanto le reazioni dei familiari delle vittime siano più che comprensibili, non è però ammissibile è che, dalla stampa, vengano veicolati messaggi fuorvianti che rischiano di delegittimare l’immagine della magistratura.

Omicidio Ciatti, al via il processo Il papà: «Gli ho urlato che sono assassini, temo che restino impuniti». Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

Da cinque lunghissimi anni papà Luigi Ciatti aspettava questo momento. Voleva guardarli negli occhi quei due ceceni accusati di aver ucciso suo figlio Niccolò. Ieri mattina, poco prima le 9.30 è accaduto ed è stata un’esperienza drammatica. «Li ho visti arrivare come scolaretti accompagnati dalle loro mamme — racconta Luigi Ciatti —. È stato uno spettacolo indecente. Ho gridato loro che erano solo assassini anche se camuffati da bravi ragazzi. E che era inutile che stessero attenti a non mostrare muscoli, tatuaggi e la loro forza vigliacca. Gli ho detto che avevano ucciso un ragazzo buono, indifeso, stordito e in ginocchio, come un condannato a morte innocente».

Le hanno risposto, signor Ciatti? «Hanno guardato me, mia figlia, mia moglie sconvolta dal dolore, poi hanno abbassato la testa. Sembravano le ombre dei picchiatori che erano e sono. Abbiamo gridato ancora che erano degli assassini. Mi sono avvicinato, mi hanno fermato. È arrivata anche la polizia spagnola, ci ha tenuto lontani».

Le hanno chiesto perdono i due imputati? «Figuriamoci. Hanno soltanto pensato a recitare la parte che qualcuno gli ha imposto, quella vergognosa dei falsi innocenti».

Si è aperto un processo, devono essere ancora giudicati. Sono colpevoli a priori? «Il processo in questa tragica vicenda dovrebbe servire solo a stabilire la pena. C’è un video che oltre ogni ragionevole dubbio racconta l’omicidio di mio figlio. Sequenze terribili e strazianti che ho visto e rivisto. È stato un agguato premeditato, un’azione coordinata, violenta e spietata. C’è anche il colpo di grazia, la pedata che ha spento la luce nella mente di Niccolò. In Italia sarebbero già stati condannati all’ergastolo. Qui in Spagna, cinque anni dopo, sono ancora liberi di muoversi dove vogliono mentre mio figlio è chiuso per sempre sotto una lastra tombale».

L’accusa ha chiesto 24 anni di carcere per il principale accusato e nessuna pena per il complice. Richieste giuste? «Ripeto, in Italia i due imputati sarebbero stati condannati al carcere a vita. Temo che in qualche modo riescano a farla franca».

Perché? «Racconteranno che è stato un incidente. Proveranno a confondere le idee alla corte. Ma se in Spagna la giustizia non è un ectoplasma questo processo non può che finire con una parola: condanna».

Oggi sarete ascoltati come testimoni. Che cosa pensate di dire? «Diremo ai giudici popolari e togati chi era nella vita Niccolò. Racconteremo la storia di un ragazzo straordinario, che amava la gente, il lavoro, la famiglia e risparmiava per mettere su casa. Pregheremo la corte di non ascoltare le sirene di chi lo ha ucciso. Non può esserci impunità o comprensione per chi ha commesso un delitto così terribile».

Antonella Mollica per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2022.  

«Ho visto quel ragazzo sferrare un calcio violento alla testa di Niccolò, come se colpisse un pallone di calcio». Inizia così, in un'aula del tribunale di Girona, in Spagna, il racconto drammatico della notte in cui ha perso la vita Niccolò Ciatti, il fiorentino di 22 anni, ucciso in una discoteca di Lloret de Mar nell'agosto 2017. 

È la prima udienza del processo che i familiari hanno aspettato per quasi cinque anni. E quando all'ingresso del tribunale vedono arrivare i due ceceni imputati per omicidio, il papà Luigi, la mamma Cinzia e la sorella Sara non riescono a trattenere la rabbia.

«Assassini, avete ucciso nostro figlio, aveva solo 22 anni». È la prima volta che vedono in faccia Rassoul Bissoultanov, il giovane di 28 anni che ha ucciso Niccolò con un calcio sferrato alla testa ai bordi di una pista da ballo. L'altro imputato, complice dell'aggressione, è Movstar Magomedov e ha 26 anni. 

Sono entrambi lottatori residenti a Strasburgo. All'appuntamento con la giustizia spagnola si presentano accompagnati dalle mamme. «Dio vi punirà per quello che avete fatto» urla Cinzia prima di scoppiare in lacrime davanti agli agenti del Mossos de Esquadra intervenuti a riportare la calma.

L'udienza parte con le richieste dell'accusa: «È stato un omicidio volontario - dice il pm Victor Pillado - Bissoultanov sapeva che sferrando quel calcio poteva uccidere. E Niccolò non ha potuto difendersi». 

Per questo, conclude il pm, merita una condanna a 24 anni più 9 anni in libertà vigilata. Le responsabilità, invece, dell'altro imputato, si definiranno nel dibattimento (come prevede la giustizia spagnola): ma secondo la Procura non ce ne sono. 

Sullo schermo davanti ai giudici popolari scorrono le immagini di quell'aggressione senza un perché. I due imputati ascoltano impassibili le testimonianze degli amici che erano in vacanza con Niccolò.

Era l'ultimo giorno prima della partenza, erano stati a cena in un fast food, avevano bevuto un bicchiere di vodka e aranciata, due shottini in un pub, e poi erano andati alla discoteca St Trop, tra le più note della zona. 

Intorno all'1.30 la tragedia: «I ceceni erano furie scatenate», raccontano i ragazzi in aula. Prima Bissoultanov colpisce Niccolò con un pugno al viso, lo fa cadere per terra, poi gli sferra il calcio al capo.

«Ho ancora nella testa il rumore di quel colpo violento - racconta Filippo - sono riuscito a sentirlo nonostante la musica alta». Niccolò perde sangue da un orecchio, non risponde più. Lo porteranno fuori dalla discoteca e poi all'ospedale di Girona. 

«Avevamo paura di quei ragazzi che erano più grossi di noi, quando ci hanno aggrediti. Non c'era stato alcun problema, hanno fatto tutto loro. Per noi quella sera era l'ultima prima di tornare a casa, siamo andati lì perché ci avevano detto che erano tutti italiani e che la festa era stata organizzata da italiani. Non avremmo mai immaginato quello che è poi accaduto».

Omicidio Ciatti, la madre di Niccolò: «I loro figli mi hanno tolto il mio, ma da quelle mamme nessun cenno».  Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.  

Racconta la signora Cinzia, la mamma di Niccolò Ciatti, che quando ha visto arrivare le madri dei due ceceni accusati di aver assassinato suo figlio non è stata solo la rabbia e la disperazione a prendere il sopravvento. «Le ho guardate, passo dopo passo, ho cercato nei loro occhi un’espressione di pietà, un segno di empatia — ricorda ancora turbata — ma sembravano statue che camminavano. E allora ho pensato che cosa avrei fatto io se fossi stata al loro posto».

Che cosa avrebbe fatto? «Avrei agito da madre, avrei unito la razionalità al sentimento. E allora mi sarei avvicinata a quella mamma che aveva perso il figlio più straordinario che il Cielo le potesse regalare, e le avrei chiesto perdono».

Non ha avuto neppure un cenno, un segno di vicinanza al suo dolore da quelle madri? «Nessuno. Avevano solo occhi per i loro figli. Il resto del mondo non sembrava esistere. La disperazione di una madre alla quale avevano assassinato un figlio era nelle loro menti qualcosa di inesistente. C’erano solo loro, gli altri non esistevano».

Cinzia Azzolina risponde ad alcune domande dopo aver testimoniato con il marito Luigi al processo di Girona. La verità sulla morte del figlio l’ha già trovata da cinque anni, adesso cerca giustizia.

Crede ancora nella giustizia, signora? «Credo nella speranza, altrimenti non sarei qui ad affrontare un calvario indicibile. Ricordare quei momenti ci trafigge il cuore ma la speranza ci aiuta. Il ricordo di Niccolò, che è ancora con noi in ogni momento e al quale continuo a parlare, ci rafforza. È una battaglia dolorosa ma dobbiamo combatterla. La giustizia non può chiudere gli occhi davanti al video che ritrae gli ultimi istanti di vita di mio figlio e i suoi assassini che lo massacrano».

Chi era Niccolò? «Ho cercato di raccontarlo alla corte oggi (ieri, ndr) ma poi sono arrivate le lacrime e non sono riuscita ad andare avanti. Provo adesso, magari mi aiuterà mio marito che è vicino a me. Niccolò era un ragazzo dolce, sereno, tranquillo, innamorato della vita. Lo hanno ucciso a tradimento violenti aguzzini».

Loro si difendono raccontando che c’è stata una rissa. «Non c’è stata alcuna rissa in quella discoteca, solo un agguato. I ceceni che hanno ucciso Niccolò non avevano neppure un graffio, la minima ecchimosi: mio figlio è stato la vittima sacrificale».

Quando l’ha sentito per l’ultima volta? «Il giorno prima della sua morte. Era, felice, mi aveva detto di stare tranquilla. Io e mio marito eravamo in montagna. Alle 5 del mattino del 12 agosto del 2017 è arrivata la telefonata che ci avvertiva che nostro figlio stava male. Ci siamo messi in viaggio verso la Spagna. Speravamo di portarlo a casa vivo e invece siamo ancora qui a piangerlo e a chiedere giustizia». 

Omicidio Ciatti, il padre: “Hanno colpito per ammazzare Niccolò. L’imputato: “Non l’ho fatto apposta non volevo ucciderlo”. La Stampa l'1 giugno 2022.

In Spagna, a Girona è in corso il processo ai tre ceceni che nella notte  tra l’11 e il 12 agosto 2017 pestarono a morte Niccolò Ciatti mentre si trovava con gli amici sulla pista da ballo di una discoteca di Lloret de Mar. Gli imputati sono Rassoul Bissoultanov e Movsar Magomadov, due ceceni che all'epoca dei fatti erano appena più grandi di Niccolò Ciatti. Secondo quanto ricostruito, Bissolultanov, esperto di arti marziali, in particolare del tipo di lotta chiamata Mma, la notte tra l'11 e il 12 agosto del 2017, sulla pista da ballo della discoteca St Trop, insieme a due connazionali, uno dei quali era Magomadov, improvvisamente prese di mira Niccolò Ciatti, che stava trascorrendo con i suoi amici l'ultima serata della vacanza in Costa Brava. Così iniziò il pestaggio mortale. Bissoultanov sferrò un violentissimo calcio alla testa del ragazzo di Scandicci, che non si rialzò più. Morì in ospedale alcune ore dopo. Per Bissoultanov l'accusa chiede una condanna a 24 anni di carcere più 9 di libertà vigilata, mentre esclude responsabilità per Magomadov. I legali della famiglia Ciatti, invece, chiedono che anche l'altro ceceno venga condannato a 15 anni di reclusione. La difesa di Bissoultanov punta a far riconoscere che non si trattò di omicidio volontario ma che fu preterintenzionale. «I tre aggressori non avevano un graffio, un segno, sono dei picchiatori - aggiunge Luigi Ciatti - Mio figlio stava ballando, c'è un video che lo testimonia. I tre assassini sapevano benissimo cosa stavano facendo, colpivano per uccidere». Poi Luigi Ciatti, ha commentato la sua reazione di ieri, fuori dal tribunale, quando ha gridato «assassino» ad uno degli accusati: «Immaginatevi il dolore di trovarsi a due metri dagli assassini di mio figlio, che arrivavano in tribunale come se nulla fosse. La nostra rabbia è esplosa in parole, nulla di più». «Un lottatore esperto»«Un lottatore esperto» che ha puntato a colpire la vittima con un calcio alla tempia, quindi «nel punto più delicato», sapendo perciò «benissimo» che gli avrebbe «provocato la morte». È questo l'argomento principale che gli avvocati della famiglia del giovane utilizzeranno nel processo apertosi a Girona per sostenere la richiesta di condanna a omicidio doloso nei confronti di Rassoul Bissoultanov, principale accusato. Lo rivela Agnese Usai, legale italiana della famiglia di Niccolò, aggiungendo che la «prova regina» per sostenere la tesi dell'accusa è un video a suo tempo consegnato alla polizia catalana. «Lì si vede chiaramente» come è avvenuta l'aggressione, ha affermato. Una tesi simile a quella della procura. La difesa dell'imputato sostiene invece che l'uomo non abbia voluto uccidere Niccolò, e quindi sia solo colpevole di omicidio involontario. Usai ha spiegato inoltre che i genitori del ragazzo dovrebbero essere sentiti in tribunale in giornata. La legale si aspetta che ai genitori di Niccolò vengano fatte domande sulla sua personalità. «Era una persona tranquilla», ha detto l'avvocato, «un ragazzo molto giovane ma che faceva un lavoro durissimo perché aveva un banco al mercato a Firenze», «con disciplina e senso del dovere». Le deposizioni di Bissoultanov e del suo presunto complice, Movsar Magomadov, dovrebbero invece aver luogo domani 2 giugno, ha aggiunto Usai. Nel frattempo oggi sono stati sentiti il DJ e personale della sicurezza della discoteca St. Trop di Lloret de Mar, dove fu aggredito Ciatti. Alcuni testimoni hanno affermato che quella notte ci fu una discussione tra due gruppi e che gli imputati erano «molto aggressivi». L’accusa chiede 24 anni per Bissoultanov. «Non volevo ucciderlo»«Non l'ho fatto apposta, non volevo ucciderlo». Queste le parole dette oggi in aula da Rassoul Bissoultanov, principale accusato nel processo spagnolo per l'omicidio del ragazzo italiano Niccolò Ciatti nel 2017 a Lloret de Mar. Nel processo che si sta celebrando a Girona Bissoultanov è accusato dalla Procura di omicidio doloso e chiede una pena a 24 anni di carcere.

Caso Ciatti, il tribunale spagnolo condanna l’aggressore per omicidio volontario. Il Domani il 03 giugno 2022

Una giuria popolare si è pronunciata sul caso di aggressione ai danni del ragazzo toscano che è stato ucciso nel pestaggio. Sarà ora un giudice a stabilire l’entità della pena

Chi ha sferrato un calcio a Niccolò Ciatti voleva uccidere. Lo ha stabilito la giuria popolare del tribunale provinciale di Girona, in Spagna, che al termine della camera di consiglio.

La giuria ha condannato per omicidio volontario Rassoul Bissoultanov, il cittadino ceceno che ha partecipato al pestaggio del 22enne toscano morto nell’agosto del 2017 a Lloret del mar. Lo ha reso noto il legale della famiglia, Agnese Usai.

Il giudice, in un secondo momento, stabilirà l'entità della pena. L'accusa ha chiesto 24 anni di condanna e 9 di libertà vigilata avanzata. Assolto, invece, l'amico di Bissoultanov, Movsar Magomadov.

Secondo quanto ricostruito, Bissolultanov, esperto di arti marziali, in particolare del tipo di lotta chiamata Mma, sulla pista da ballo della discoteca St Trop, insieme a due connazionali, improvvisamente prese di mira Ciatti, che stava trascorrendo con i suoi amici l'ultima serata della vacanza in Costa Brava.

Niccolò Ciatti, il ceceno Bissoultanov condannato per omicidio volontario. Marco Gasperetti su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.

La sentenza poco fa al tribunale di Girona: nei prossimi giorni il giudice comunicherà l’entità della pena, compresa tra 15 e 25 anni. Assolto l’altro imputato Mostar Magomedov. Il 22enne toscano fu ucciso con un calcio in faccia all’esterno di una discoteca a Lloret del Mar

Colpevole di omicidio volontario. La Corte di Girona ha appena condannato Rassoul Bissoultanov, il 28enne lottatore ed esperto di arti marziali che uccise con una micidiale pedata alla tempia mentre era a terra indifeso, Niccolò Ciatti, 22 anni, un ragazzo di Scandicci. L’omicidio avvenne nella notte tra l’11 e il 12 agosto del 2017 sulla pista da ballo della discoteca «St Trop», di Lloret de Mar in Spagna, dove Niccolò stava trascorrendo con i suoi amici l’ultima serata della vacanza in Costa Brava. L’accusa aveva chiesto 24 anni di carcere. Assolto invece l’altro imputato, Mostar Magomedov, 26 anni. Nei prossimi giorni, come previsto dal codice spagnolo, il giudice stabilirà in entità della pena, compresa tra i 15 e i 25 anni.

La Corte

I giudici spagnoli e la giuria popolare non hanno creduto ai tentativi di difesa dell’imputato che aveva cercato di salvarsi dall’accusa più severa, quella di omicidio volontario, giurando che non voleva assassinare quel ragazzo e che non pensava che un calcio lo avrebbe ammazzato. Una giustificazione assurda, come evidenziato dalla pubblica accusa, che aveva dimostrato come Bissoultanov conoscesse molto bene le arti marziali e dunque sapesse perfettamente che quella mossa avrebbe potuto uccidere un uomo.

Il video

La giuria non ha soltanto giudicato esaustive le terribili immagini di un video dove si vede il «colpo di grazia» inflitto dal ceceno a Niccolò, ma hanno anche ritenuto validissime le testimonianze dei testimoni (poliziotti, guardie giurate, medici) e soprattutto il racconto di Filippo Verniani, l’amico di Ciatti che era accanto a lui durante l’aggressione. «Il ceceno voleva uccidere, non ho dubbi — ha confermato Verniani —. Quel colpo l’ha pensato e ha puntato Niccolò come se avesse in mano un fucile e gli volesse sparare alla testa». Nelle testimonianze medici e polizia scientifica avevano descritto il calcio letale per il giovane di Scandicci un «colpo professionale di una persona che conosceva tecniche di lotta».

Antonella Mollica (inviata a Girona) per il corriere.it il 2 giugno 2022.

È il giorno degli imputati al processo per l’omicidio di Niccolò Ciatti e Raoul Bissoultanov parla, piange e racconta una notte tutta diversa rispetto a quella narrata fino ad ora e ripresa dalle telecamere della discoteca: «Non mi sono accorto di aver colpito alla testa e no, no sapevo che un calcio alla testa potesse provocare la morte». 

È la parte essenziale dell’interrogatorio di Bissoultanov in aula al processo che lo vede imputato per l’omicidio di Niccolò Ciatti, ucciso a 22 anni in una discoteca di Lloret de Mar. «Quella sera ho pestato i piedi a qualcuno, mi sono sentito dare una spinta, io mi sono girato con il sorriso e ho chiesto: amico cosa è successo? Da quel momento mi sono arrivati calci e spinte. Un ragazzo alto mi ha dato un pugno alla spalla e poi ha tentato di colpirmi al viso ma sono riuscito a schivarlo»: è la sua ricostruzione di quella sera. Ha ripetuto più volte: «Ero sotto choc».

Nel corso dell’interrogatorio durato circa un’ora il giovane si è anche commosso quando l’avvocato gli ha chiesto se avesse mai pensato di scappare in Russia. «Non ho mai pensato di scappare. Durante la detenzione in Italia - ha poi detto - sono stato trattato da terrorista assassino. Ho chiesto perdono alla famiglia». 

Il padre di Niccolò, Luigi Ciatti reagisce con rabbia: «È un attore, dice quello che l’avvocato gli ha detto di dire». Rassoul Bissoultanov è accusato dalla Procura spagnola di omicidio doloso e per lui è stata chiesta una pena a 24 anni di carcere.

I poliziotti: «Ucciso con un calcio alla testa mirato»

Di altro tenore invece, la deposizione dei poliziotti: «Niccolò è stato ucciso con un calcio alla testa mirato. Un gesto non casuale ma preparato, da professionista. Lo dimostra la posizione di guardia assunta durante l’aggressione, il piede a 45 gradi per dare più forza possibile». 

Nell’aula del tribunale di Girona hanno parlato i poliziotti che hanno fatto le indagini e hanno studiato sequenza per sequenza il video dell’aggressione. «Niccolò non aveva alcuna possibilità di difendersi da un calcio del genere - ha detto uno dei poliziotti del Mossos de Esquadra - chi fa arti marziali o lotta libera, come nel caso di Rassoul Bissoultanov, il giovane imputato per omicidio - sa che un calcio del genere così violento può uccidere».

I medici legali hanno confermato che Niccolò è morto per emorragia cerebrale. Quando in aula hanno mostrato le immagini dell’autopsia, su invito del giudice, la mamma di Niccolò è uscita mentre il padre ha deciso di restare in aula: «Era mio figlio», ha detto. 

La ricostruzione della notte

Alle 2.50 i due gruppi si incontrano. Da alcune testimonianze, tra cui quella del dj della discoteca, emerge che ci sarebbero state delle spinte tra Niccolò e il ceceno fino a trasformare la pista da ballo in un ring. «Magomadov - ha spiegato uno dei poliziotti del Mossos de Esquadra che ha fatto le indagini sull’omicidio di Niccolò - colpiva da ogni parte per tenere lontani tutti, mentre Bissoultanov infieriva su Niccolò» fino al calcio che non gli ha lasciato scampo. 

Gli amici il giorno prima in aula avevano raccontato che mentre Magomadov bloccava la testa di Niccolò, Andrea, uno della comitiva fiorentina, gli era saltato alle spalle nella speranza di fargli allentare la presa.

Il processo riprende oggi con gli ultimi testimoni e con l’interrogatorio dei due ceceni imputati.

Caso Ciatti, il verdetto del tribunale spagnolo: «Fu omicidio volontario». I giudici di Girona condannano il ceceno Rassoul Bissoultanov, assolto l'altro imputato. A giugno il processo a Roma. Il padre di Niccolò: «Non gioiamo per la condanna. Ma Bissoultanov è ancora libero». Il Dubbio il 3 giugno 2022.

Il Tribunale provinciale di Girona, in Spagna, ha condannato per omicidio volontario Rassoul Bissoultanov, il 29enne cittadino ceceno accusato della morte di Niccolò Ciatti, il 21enne di Scandicci (Firenze) che venne pestato senza alcun motivo la notte tra l’11 e il 12 agosto 2017 in una discoteca di Lloret de Mar, nota località della Costa Brava, dove si trova in vacanza con alcuni amici. Il verdetto è stato emesso dalla giuria popolare oggi pomeriggio.

Assolto l’altro imputato. Per Bissoultanov pena tra i 15 e i 25 anni

L’entità della pena sarà stabilita dai giudici togati nei prossimi giorni, compresa tra i 15 e i 25 anni, secondo quanto stabilisce il codice penale spagnolo per l’omicidio volontario di una persona indifesa. Alla lettura della sentenza erano presenti i familiari di Niccolò, con il padre Luigi e la madre Cinzia, assistiti dal loro avvocato Agnese Usai. Nei suoi confronti il procuratore spagnolo Victor Pillado ha chiesto 24 anni di carcere e 9 anni di libertà vigilata. «Dobbiamo giustizia alla famiglia Ciatti – ha detto nella requisitoria il pm Pillado -, dobbiamo una condanna giusta e responsabile». Imputato nello stesso processo anche il ceceno Movsar Magomadov, 27 anni, che per la procura non avrebbe avuto responsabilità nell’omicidio, mentre i legali della famiglia Ciatti lo ritengono altrettanto colpevole. La giuria popolare ha assolto Magomadov da ogni accusa.

Agosto 2017, la ricostruzione dell’aggressione

«Non pensavo che con un calcio alla testa potessi ucciderlo», ha tentato di difendersi in aula Bissoultanov. La difesa del ceceno ha sostenuto che si sarebbe trattato di omicidio preterintenzionale, reato punibile con un massimo di quattro anni di carcere. Nel corso delle udienze di questa settima davanti al tribunale spagnolo la giuria popolare ha ascoltato i tecnici della polizia che hanno evidenziato come il calcio letale alla testa per il giovane di Scandicci è stato assestato in modo definito professionale da una persona conoscitrice di tecniche di lotta, e non in modo casuale. Sono stati sentiti dai giudici anche gli amici presenti durante la vacanza a Lloret de Mar e gli stessi familiari. Secondo quanto ricostruito durante le indagini, Bissolultanov, esperto di arti marziali, in particolare del tipo di lotta chiamata Mma, la notte tra l’11 e il 12 agosto 2017, sulla pista da ballo della discoteca St Trop, insieme a due connazionali, improvvisamente prese di mira Niccolò Ciatti, che stava trascorrendo con i suoi amici l’ultima serata della vacanza in Costa Brava. Così iniziò il pestaggio mortale. Bissoultanov, poco più grande di Niccolò, sferrò un violentissimo calcio alla testa del ragazzo di Scandicci, che non si rialzò più. Morì in ospedale alcune ore dopo. Anche Magomadov avrebbe preso parte al pestaggio, e alcuni video girati dai presenti in discoteca e le testimonianze degli amici di Niccolò lo confermerebbero.

L’8 giugno il processo a Roma

Lo scorso 20 maggio la Cassazione ha annullato la scarcerazione di Rassoul Bissoultanov, estradato dalla Germania in Italia e scarcerato il 22 dicembre 2021 dai giudici della Corte d’Assise di Roma. Il ceceno nel frattempo però è tornato in Spagna dove per lo stesso caso era già stato aperto un processo, che oggi si è concluso con il processo davanti al Tribunale provinciale di Girona. Si farà anche in Italia il processo per l’omicidio di Niccolò Ciatti. Nello scorso marzo lo hanno deciso i giudici della III Corte d’Assise di Roma respingendo l’istanza della difesa del ceceno Rassoul Bissoultanov. Il dibattimento a Roma si aprirà il prossimo 8 giugno.

Il padre di Niccolò: «Non gioiamo. Ma ora Bissoultanov è ancora libero»

«Non siamo soddisfatti, non abbiamo assolutamente gioito. Abbiamo avuto semplicemente il verdetto, un passo giusto verso quella giustizia che Niccolò dovrà ottenere. Sinceramente, avevamo timore che venisse riconosciuto l’omicidio colposo con una massima pena di 4 anni», commenta all’Adnkronos Luigi Ciatti, il padre di Niccolò. «Nelle prossime settimane – spiega Ciatti – i giudici togati dovranno decidere la pena, che può andare dai 15 ai 25 anni con aggravante, inoltre il pm ha chiesto 9 anni di libertà vigilata. Ma nel frattempo, purtroppo, Bissoultanov è libero: ha obbligo di firma settimanale ma di fatto è libero».

«Chi commette questi atti così violenti è giusto che paghi – prosegue il padre di Niccolò -, è giusto che si sappia che chi fa una cosa del genere finisce in carcere. Qui in Spagna, a livello mediatico, non c’è molto interesse attorno a questi casi. Ma va bene così, a noi importa che Bissoultanov sia stato riconosciuto colpevole, dispiace invece che non sia stata riconosciuta la complicità di di Movsar Magomadov. Andiamo comunque avanti sulla ricerca totale di giustizia, tanto ci sarà un ricorso». «Ritengo che la complicità dei due ceceni abbia portato all’uccisione di Niccolò. Sono convinto che in Italia subirebbero entrambi un processo con pena massima dell’ergastolo, la complicità nel nostro Paese è vista in maniera diversa che in Spagna. È chiaro che Magomadov non poteva sapere che l’amico avrebbe colpito con un calcio alla testa Niccolò, però è lui che l’ha messo nella condizione tale perché questo avvenisse». 

Assolto l'altro imputato. Niccolò Ciatti, il ceceno Rassoul Bissoultanov condannato per omicidio volontario: “Voleva uccidere”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

La Corte di Girona, in Spagna, ha condannato come colpevole di omicidio volontario il 28enne ceceno, lottatore ed esperto di arti marziali Rassoul Bissoultanov per la morte di Niccolò Ciatti. Era l’agosto del 2017 quando il 22enne toscano, alla sua ultima notte di vacanza con gli amici, veniva colpito con un calcio alla testa da Bissoultanov alla discoteca St Trop di Lloret de Mar. Il giudice stabilirà nei prossimi giorni la pena che sarà compresa tra i 15 e i 25 anni secondo quanto stabilisce il codice penale spagnolo per l’omicidio volontario di persona indifesa.

Ciatti aveva 22 anni ed era originario di Scandicci, comune nella città metropolitana di Firenze. L’omicidio venne registrato dalle immagini di alcune telecamere di sorveglianza. Quelle immagini restano agghiaccianti: tremenda la pedata alla tempia scagliata dal ragazzo ceceno, un vero e proprio “colpo di grazia” che non ha lasciato scampo al ragazzo italiano. Ritenute valide anche i reccconti di testimoni come poliziotti, medici e guardie giurate. L’amico di Ciatti Filippo Verniani non ha mai avuto dubbi: “Il ceceno voleva uccidere, non ho dubbi. Quel colpo l’ha pensato e ha puntato Niccolò come se avesse in mano un fucile e gli volesse sparare alla testa”.

Quel calcio era stato descritto da medici e polizia scientifica come un “colpo professionale di una persona che conosceva tecniche di lotta”. L’accusa aveva chiesto 24 anni di carcere e nove anni di libertà vigilata. Bissoultanov si era difeso dicendo di non voler assassinare il 22enne e di non pensare che un calcio l’avrebbe ammazzato. Per omicidio preterintenzionale avrebbe rischiato al massimo 4 anni di carcere. Giudici e giuria popolare non hanno creduto alla difesa anche in virtù dell’approfondita conoscenza delle arti marziali, e in particolare dell’MMA, dell’imputato. Assolto l’altro imputato Mostar Magomedov, di 26 anni, amico del condannato.

Ciatti non si rialzò più dopo quel calcio. Morì in ospedale alcune ore dopo. Presenti alla lettura della sentenza al Tribunale provinciale i familiari di Niccolò, con il padre Luigi e la madre Cinzia, assistiti dal loro avvocato Agnese Usai. “Dobbiamo giustizia alla famiglia Ciatti, dobbiamo una condanna giusta e responsabile”, ha detto nella requisitoria il pm Pillado. La famiglia riteneva Magomadov altrettanto colpevole. I Giudici della III Corte d’Assise di Roma hanno deciso che si terrà anche in Italia il processo per l’omicidio di Ciatti. Il dibattimento si aprirà il prossimo 8 giugno.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Andrea Bulleri per “il Messaggero” il 4 giugno 2022. 

«Soddisfatti? Dopo aver perso un figlio innocente, ucciso con la violenza che abbiamo visto dai filmati solo perché stava ballando, non può esistere soddisfazione». 

Il padre di Niccolò Ciatti ha la voce stanca. Ha seguito ogni singola udienza del processo a Girona, insieme alla moglie Cinzia e alla figlia Sara. E ora ha paura: «Finché i magistrati non stabiliranno una pena precisa, speriamo entro giugno, il killer di Niccolò resterà libero».

Luigi Ciatti, la sentenza certifica ciò che lei ha sempre sostenuto in questi anni: quel calcio contro suo figlio fu sferrato per uccidere.

«È un punto fondamentale che finalmente è stato riconosciuto. Sentir parlare di casualità, di omicidio colposo da punire con quattro anni di carcere, dopo aver visto le immagini di quel pestaggio, è qualcosa di inconcepibile». 

La procura ha chiesto una condanna pesante per Bissoultanov: 24 anni.

«La legge spagnola non prevede l'ergastolo per l'omicidio. Quell'uomo un giorno uscirà dal carcere, ammesso che non fugga di nuovo prima dell'arresto. Mio figlio invece non tornerà più».

Teme che il killer di Niccolò possa scappare?

«L'ha già fatto una volta, quando la Spagna lo ha rimesso in libertà. Finché i magistrati non definiranno la pena, è libero: deve solo presentarsi alla polizia per firmare una volta a settimana». 

Il secondo imputato, Movsar Magomadov, è stato assolto.

«Sapevamo che sarebbe stata dura ottenere la sua condanna. Per Madrid, non fu complice perché non poteva sapere che l'altro colpisse per uccidere. Ma fu lui, Magomadov, il primo a scaraventare a terra Niccolò. Se non l'avesse fatto, mio figlio sarebbe ancora vivo».

Per la prima volta se li è trovati davanti entrambi, ha potuto guardarli in faccia. Le hanno chiesto scusa?

«Figuriamoci. Hanno recitato perfettamente la loro parte, si sono presentati con mamma e fratellino al seguito. Hanno anche perso il fisico da lottatori che ostentavano orgogliosi cinque anni fa. Tutto per mostrarsi innocui di fronte alla giuria». 

Alla prima udienza, lei gli ha gridato contro: «Assassini» .

«Mi sembra il minimo. Sfido chiunque a trovarsi a meno di due metri da chi sai aver ucciso tuo figlio e restare indifferente. In ogni caso, non li ho nemmeno sfiorati. Nei giorni successivi, la polizia spagnola ha avuto il buon gusto di farli entrare da un ingresso secondario». 

Mercoledì comincerà il processo a Roma. Cosa si aspetta?

«Giustizia. Se la Spagna si pronuncerà in via definitiva prima dell'Italia, il procedimento si fermerà. In ogni caso, noi continueremo a lottare. È il minimo che dobbiamo a Niccolò».

Edoardo Izzo per “La Stampa” il 4 giugno 2022.

Per i nove giudici popolari del tribunal de jurado di Girona (Spagna) Rassoul Bissoultanov - il ceceno a giudizio per aver colpito con un calcio alla testa Niccolò Ciatti, ucciso a 21 anni sulla pista della discoteca St Trop di Lloret de Mar, l'11 agosto del 2017 - è colpevole di omicidio volontario nei confronti di una persona indifesa. 

Un «assassinio», secondo la definizione di rito del diritto penale spagnolo. Il verdetto è arrivato nella quinta giornata del processo, nel quale si sono costituiti parti civili oltre ai familiari del giovane anche le discoteche e il municipio di Loret de Mar.

Dopo un giorno e una notte di camera di consiglio i nove giudici, estratti a sorte tra la cittadinanza, hanno formulato la risposta al questionario loro affidato dal giudice Adolfo Garcia Morales, della quarta sezione penale del tribunale di Girona, al termine della requisitoria con cui il pubblico ministero, Victor Pillado, aveva chiesto una condanna a 24 anni più 9 di libertà vigilata. 

«Dobbiamo dare giustizia alla famiglia di Niccolò», aveva dichiarato quest' ultimo dopo le testimonianze ascoltate in aula e la visione del filmato che documenta la ferocia e l'insensatezza dell'attacco subito dal 21enne. Una aggressione rapida, violentissima, forsennata. 

Il ragazzo di Scandicci si sta muovendo nella folla della discoteca, viene spintonato, aggredito alle spalle, prima un pugno, poi un calcio quando già è in terra e con il capo girato in direzione opposta. A sferrarlo è Rassoul Bissoultanov, 26 anni, ceceno, atleta di lotta libera, fermato con due connazionali, Khabibul Kabatov, 22 anni e Movsar Magomedov, 24 anni.

Quest' ultimo a giudizio anche lui a Girona, ma ritenuto non colpevole sebbene nel video di quella maledetta serata sia stato proprio lui ad afferrare e spingere terra uno degli amici accorsi in aiuto di Niccolò. I tre - secondo le testimonianze - si sono comportati come «furie scatenate». 

Sembravano aver agito con una tattica paramilitare, aveva sentenziato a suo tempo la polizia catalana. E proprio sul grado di consapevolezza da parte dell'aggressore ruotava il quesito centrale sul quale i giudici popolari sono stati chiamati ad esprimersi. «Non mi sono accorto di aver colpito alla testa. Non sapevo che un calcio alla testa potesse provocare la morte», ha sostenuto il ceceno durante l'interrogatorio in aula.

Ma l'affresco tracciato dagli agenti che hanno svolto le indagini e dai medici legali incaricati dell'autopsia racconta di un'aggressione professionale: quello che ha ucciso Niccolò è un colpo di kick boxing, sferrato con la gamba alzata lateralmente e con il piede a 45 gradi, per ottenere la maggior violenza d'impatto possibile. Niente di casuale, insomma. 

Spetterà ora ai giudici togati stabilire l'esatta entità della pena: tra i 15 e i 25 anni secondo il codice penale spagnolo. Ancora qualche giorno di attesa, dunque, per il papà e la mamma di Niccolò, Luigi e Cinzia, presenti in aula alla lettura della sentenza: «Non proviamo né soddisfazione né gioia: è solo un passo verso la giustizia», ha commentato Luigi al termine della seduta, esprimendo la preoccupazione che Bissoultanov - che ha l'obbligo di firma ed è senza passaporto ma non andrà per ora in carcere - possa scappare. «Un giudice ha finalmente stabilito che Niccolò è stato ucciso volontariamente - commenta a La Stampa Filippo Verniani, storico amico di Niccolò Ciatti, che era con lui in quella vacanza -. Non possiamo però provare gioia. Per noi è colpevole anche l'altro, che ha avuto un ruolo attivo in quella vicenda». 

«La morte di Niccolò ha cambiato per sempre la nostra vita. Ci siamo resi conto che la vita può cambiare in un istante e resteremo per sempre con un taglio nel cuore che nessuno rimarginerà mai».