Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA GIUSTIZIA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)
Una presa per il culo.
Gli altri Cucchi.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Un processo mediatico.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Senza Giustizia.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Qual è la Verità.
SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Parliamo di Bibbiano.
Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.
Scomparsi.
La Sindrome di Stoccolma.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia Ingiusta.
La durata delle indagini.
I Consulenti.
Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Il Diritto di Difesa vale meno…
Gli Incapaci…
Figli di Trojan.
Le Mie Prigioni.
Le fughe all’estero.
Il 41 bis ed il 4 bis.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.
Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.
Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.
Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il tribunale dei media.
Soliti casi d’Ingiustizia.
Angelo Massaro.
Anna Maria Manna.
Cesare Vincenti.
Daniela Poggiali.
Diego Olivieri.
Edoardo Rixi.
Enrico Coscioni.
Enzo Tortora.
Fausta Bonino.
Francesco Addeo.
Giacomo Seydou Sy.
Giancarlo Benedetti.
Giulia Ligresti.
Giuseppe Gulotta.
Greta Gila.
Mario Tirozzi.
Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.
Mauro Vizzino.
Michele Iorio.
Michele Schiano di Visconti.
Monica Busetto.
Nazario Matachione.
Nino Rizzo.
Nunzia De Girolamo.
Piervito Bardi.
Pio Del Gaudio.
Samuele Bertinelli.
Simone Uggetti.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
I Giustizialisti.
I Garantisti.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Cupola.
Gli Impuniti.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.
Palamaragate.
Magistratopoli.
Le toghe politiche.
INDICE NONA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di piazza della Loggia.
Il Mistero di piazza Fontana.
Il Mistero della Strage di Ustica.
Il mistero della Moby Prince.
I Cold Case italiani.
Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.
La vicenda della Uno Bianca.
Il mistero di Mattia Caruso.
Il caso di Marcello Toscano.
Il caso di Mauro Antonello.
Il caso di Angela Celentano.
Il caso di Tiziana Deserto.
Il mistero di Giorgiana Masi.
Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.
Il caso di Cristina Mazzotti.
Il Caso di Marta Russo.
Il giallo di Polina Kochelenko.
Il Mistero di Martine Beauregard.
Il Caso di Davide Cervia.
Il Mistero di Sonia Di Pinto.
La vicenda di Maria Teresa Novara.
Il Caso di Daniele Gravili.
Il mistero di Giorgio Medaglia.
Il mistero di Eleuterio Codecà.
Il mistero Pecorelli.
Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.
Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.
Il Caso Bruno Caccia.
Il mistero di Acca Larentia.
Il mistero di Luca Attanasio.
Il mistero di Lara Argento.
Il mistero di Evi Rauter.
Il mistero di Marina Di Modica.
Il mistero di Milena Sutter.
Il mistero di Tiziana Cantone.
Il Mistero di Sonia Marra.
Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.
Il giallo di Mauro Donato Gadda.
Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.
Il Mistero di Nada Cella.
Il Mistero di Daniela Roveri.
Il caso di Alberto Agazzani.
Il Mistero di Michele Cilli.
Il Caso di Giorgio Medaglia.
Il Caso di Isabella Noventa.
Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.
Il caso del serial killer di Mantova.
Il mistero di Andreea Rabciuc.
Il caso di Annamaria Sorrentino.
Il mistero del corpo con i tatuaggi.
Il giallo di Domenico La Duca.
Il mistero di Giacomo Sartori.
Il mistero di Andrea Liponi.
Il mistero di Claudio Mandia.
Il mistero di Svetlana Balica.
Il mistero Mattei.
Il caso di Benno Neumair.
Il mistero del delitto di via Poma.
Il Mistero di Mattia Mingarelli.
Il mistero di Michele Merlo.
Il Giallo di Federica Farinella.
Il mistero di Mauro Guerra.
Il caso di Giuseppe Lo Cicero.
Il Mistero di Marco Pantani.
Il Mistero di Paolo Moroni.
Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.
Il caso di Alessandro Nasta.
Il Caso di Mario Bozzoli.
Il caso di Cranio Randagio.
Il Mistero di Saman Abbas.
Il Caso Gucci.
Il mistero di Dino Reatti.
Il Caso di Serena Mollicone.
Il Caso di Marco Vannini.
Il mistero di Paolo Astesana.
Il mistero di Vittoria Gabri.
Il Delitto di Trieste.
Il Mistero di Agata Scuto.
Il mistero di Arianna Zardi.
Il Mistero di Simona Floridia.
Il giallo di Vanessa Bruno.
Il mistero di Laura Ziliani.
Il Caso Teodosio Losito.
Il Mistero della Strage di Erba.
Il caso di Gianluca Bertoni.
Il caso di Denise Pipitone.
Il mistero di Lidia Macchi.
Il Mistero di Francesco Scieri.
Il Caso Emanuela Orlandi.
Il mistero di Mirella Gregori.
Il giallo del giudice Adinolfi.
Il Mistero del Mostro di Modena.
Il Mistero del Mostro di Roma.
Il Mistero del Mostro di Firenze.
Il Caso del Mostro di Marsala.
La misteriosa morte di Gergely Homonnay.
Il Mistero di Liliana Resinovich.
Il Mistero di Denis Bergamini.
Il Mistero di Lucia Raso.
Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.
Il mistero di «Gigi Bici».
Il Mistero di Anthony Bivona.
Il Caso di Diego Gugole.
Il Giallo di Antonella Di Veroli.
Il mostro di Foligno.
INDICE DECIMA PARTE
I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il Mistero di Ilaria Alpi.
Il mistero di Luigi Tenco.
Il Caso Elisa Claps.
Il mistero di Unabomber.
Il caso degli "uomini d'oro".
Il mostro di Parma.
Il caso delle prostitute di Roma.
Il caso di Desirée Mariottini.
Il caso di Paolo Stasi.
Il mistero di Alice Neri.
Il Mistero di Matilda Borin.
Il mistero di don Guglielmo.
Il giallo del seggio elettorale.
Il Mistero di Alessia Sbal.
Il caso di Kalinka Bamberski.
Il mistero di Gaia Randazzo.
Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.
Il mistero di Giuseppina Arena.
Il Caso di Angelo Bonomelli.
Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.
Il caso di Sabina Badami.
Il caso di Sara Bosco.
Il mistero di Giorgia Padoan.
Il mistero di Silvia Cipriani.
Il Caso di Francesco Virdis.
La vicenda di Massimo Alessio Melluso.
La vicenda di Anna Maria Burrini.
La vicenda di Raffaella Maietta.
Il Caso di Maurizio Minghella.
Il caso di Fatmir Ara.
Il mistero di Katty Skerl.
Il caso Vittone.
Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.
Il Caso di Salvatore Bramucci.
Il Mistero di Simone Mattarelli.
Il mistero di Fausto Gozzini.
Il caso di Franca Demichela.
Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.
Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.
Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.
Il mistero di Antonietta Longo.
Il Mistero di Clotilde Fossati.
Il Mistero di Mario Biondo.
Il mistero di Michele Vinci.
Il Mistero di Adriano Pacifico.
Il giallo di Walter Pappalettera.
Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.
Il mistero di Andrea Mirabile.
Il mistero di Attilio Dutto.
Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.
Il mistero di JonBenet Ramsey.
Il Caso di Luciana Biggi.
Il mistero di Massimo Melis.
Il mistero di Sara Pegoraro.
Il caso di Marianna Cendron.
Il mistero di Franco Severi.
Il mistero di Norma Megardi.
Il caso di Aldo Gioia.
Il mistero di Domenico Manzo.
Il mistero di Maria Maddalena Berruti.
Il mistero di Massimo Bochicchio.
Il mistero della morte di Fausto Iob.
Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.
Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.
Il delitto insoluto di Piera Melania.
Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri.
Il mistero di Jessica Lesto.
Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.
L’omicidio nella villa del Rastel Verd.
Il Delitto Roberto Klinger.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.
LA GIUSTIZIA
SECONDA PARTE
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giustizia solerte e giustizia inerte. C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. Augusto Minzolini su Il Giornale il 2 Dicembre 2022
C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. E il fatto che il Guardasigilli in questione abbia anche un passato da Pm, come Carlo Nordio, dimostra che non sono i ruoli che contano ma le persone che li ricoprono. Il ministro della Giustizia ha deciso su richiesta di Matteo Renzi (che ieri ha sollevato l'argomento nel question time al Senato) di vederci chiaro sulla decisione dei Pm di Firenze che hanno condotto l'indagine sulla vicenda «Open» basata sull'accusa di finanziamento illecito ai partiti: i magistrati, infatti, di fronte all'ordine dell'Alta Corte di distruggere il materiale sequestrato a Marco Carrai (grande amico del leader di Italia Viva) senza trattenerne copia perché l'acquisizione non era stata regolare, hanno fatto spallucce e lo hanno inviato ad un organismo parlamentare come il Copasir, cioè il comitato di controllo dei servizi segreti. Una decisione, quella dei pubblici ministeri fiorentini, priva di logica, che è sfociata solo in una dimostrazione di Potere, o meglio in una vera e propria sfida nei confronti non solo della Politica ma anche delle altre gerarchie togate: l'ennesimo messaggio in codice per dire agli altri Palazzi che i Pm possono tutto. Solo che questa volta ai Pm Nordio ha risposto da Pm e mezzo e senza scomporsi ha promosso un'indagine conoscitiva «rigorosa» e «con priorità assoluta» sull'accaduto. Insomma, conoscendo i suoi colleghi il Guardasigilli non si è fatto intimidire e ha risposto per le rime. Con decisione e in tempi rapidi, come si dovrebbe non solo per rispetto della Cassazione ma anche degli imputati.
Sempre ieri, invece, la Cedu, cioè la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Silvio Berlusconi e della Fininvest per le vicende delle quote che hanno in Mediolanum. Quote che con una decisione paradossale la Banca d'Italia ha chiesto di sequestrare perché il Cav avrebbe perso i requisiti di onorabilità per la condanna di frode fiscale; richiesta che il Consiglio di Stato avrebbe bocciato senza, però, dare attuazione alla sua decisione. La Cedu se ne è lavata le mani dicendo che la vicenda riguarda tutti, dall'Unione Europea alla Bce, meno che lei per cui i ricorrenti non possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato italiano. La Corte europea dei Diritti dell'Uomo, a quanto pare, decide su tutto, sui migranti, sulle Ong, ha dato ragione ad un terrorista come Abu Amar in poche settimane e in due anni è intervenuta in favore di un transessuale georgiano. Ma sulle scelte più delicate si tira indietro vestendo i panni, a seconda del momento, di don Abbondio o dell'Azzeccagarbugli. Ad esempio, il ricorso intentato dal Cav sull'assurda condanna per frode fiscale contro il giudice Esposito pende di fronte alla Corte di Strasburgo dal 2014. Insomma, sui «casi» più controversi la Cedu, che preferisce non essere tirata in mezzo nelle polemiche, usa la carta dell'inerzia. Forse ci sarà un giudice a Berlino ma sicuramente non a Strasburgo. Appunto, per la giustizia non bastano le toghe, contano soprattutto gli uomini che le indossano. E il loro coraggio: ieri i giudici della Consulta, che pure non sono dei cuor di leone, per rispetto e in ossequio al buonsenso, hanno risposto picche dando cinque schiaffoni ai ricorsi dei medici e dei professori «no vax».
Da Mannino a Stasi: ecco perché l’appello del pm è una forzatura del diritto. Impugnare un proscioglimento vuol dire forzare i principi del diritto internazionale. Tra i casi recenti, ci sono quelli clamorosi di De Girolamo e dell’ex primario di Montichiari, Mosca. Valentina Stella su Il Dubbio il 3 dicembre 2022.
Martedì prossimo in commissione Giustizia al Senato, nell’ambito del Dl "anti-rave", sarà messo ai voti anche l’emendamento di Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.
In realtà il tentativo di introdurre subito la riforma, pure inserita nel programma di centrodestra, sembrerebbe destinato a infrangersi su un nulla di fatto. Sarà quasi certamente così nonostante il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una intervista al Gazzettino resa lo scorso 24 ottobre, abbia detto: «Mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale». Ancor prima al Corriere del Veneto aveva dichiarato: «Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma».
In realtà per l’Anm si tratta un falso problema, come ci aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia in una intervista: «Il problema vero è quello dell’enorme quantità dei processi, su cui le impugnazioni del pm non incidono, attestandosi su una percentuale inferiore al 2%». Al di là delle percentuali, dietro le quali però si nascondono storie individuali, ci sono tre ragioni che vengono addotte a supporto dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione: «L’impugnazione del pm contro questo tipo di decisioni non può convivere con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio», ci disse il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, in una intervista. Mentre il professor Paolo Ferrua ricorda spesso che se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello, subirebbe un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione, tanto è vero che il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici prevede che "ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge".
Più voci sostengono che dopo una assoluzione non si può rimanere prigionieri del sistema giustizia per un tempo lungo o indeterminato. E a proposito di storie personali, diversi sono i casi di cronaca giudiziaria che si muovono tra gli scenari appena tracciati. Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche agricole, nel 2020 è stata assolta "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici del Tribunale di Benevento non riconobbero l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una «gestione opaca» del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli fu completamente smontata. Infatti insieme con De Girolamo furono assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. Eppure la Procura fece appello: quest’anno tutte le assoluzioni sono state confermate in secondo grado.
Nel dicembre 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una "doppia conforme" assolutoria, i pg di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto.
E che dire di Alberto Stasi? Accusato per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto in una calda mattina di agosto a Garlasco, fu assolto con rito abbreviato in primo e secondo grado, poi la Cassazione annullò la sentenza di assoluzione e rinviò ad altro appello che lo condannò. Sentenza poi confermata dalla Cassazione bis. Risultato: 16 anni di carcere e un dubbio enorme sulla sua colpevolezza.Ci solo altre vicende che ancora non si sono concluse in via definitiva ma che comunque sono nel solco del tema trattato.
A gennaio di quest’anno la Corte d’assise del tribunale di Viterbo ha assolto Andrea Landolfi dalle accuse di omicidio volontario e omissione di soccorso, per cui il pm aveva chiesto una condanna a 25 anni. Era stato sbattuto su tutte le prime pagine come l’ennesimo autore di un femminicidio. Tutto falso per i giudici di primo grado. Nonostante questo la Procura ha fatto appello, iniziato da un mese. Altro caso recente è quello di Gianni Ghiotti. Nel 2020 si era presentato dai carabinieri dicendo che aveva soffocato con un cuscino la madre, anziana e gravemente malata, per mettere fine alle sue sofferenze. Il giudice di Asti però lo assolve perché stabilisce che la madre era morta per cause naturali. «Ha raccontato – scrive il giudice nella decisione – qualcosa di cui è intimamente convinto ma che non corrisponde alla realtà dei fatti». Due giorni fa invece la Corte di Appello di Torino lo ha condannato a 6 anni e 8 mesi accogliendo la tesi del Pg.
Altra vicenda: l’ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari Carlo Mosca era stato arrestato per omicidio volontario: secondo la Procura, nel pieno della pandemia (marzo 2020), l’uomo avrebbe somministrato farmaci poi risultati letali a due pazienti. La Corte d’assise di Brescia lo ha assolto motivando così: è stato vittima di "un’accusa calunniosa di omicidio, tanto più infamante in quanto rivolta a un medico, ossia a una persona avente vocazione salvifica e non certamente esiziale. Di enormi proporzioni è stata soprattutto l’afflizione arrecata all’imputato, che ha patito un’ingiusta e prolungata limitazione della libertà personale e rischiato di subire una condanna all’ergastolo, con gravissime ripercussioni sul piano sia umano che professionale, cui il verdetto assolutorio può porre solo parziale rimedio". Un mese fa la Procura ha annunciato il ricorso in appello.
Caos sul blocco della norma "Salvaladri". Ogni giudice la interpreta a suo modo. Luca Fazzo il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.
Altro che giustizia uguale per tutti. Da un tribunale all'altro, la legge contenuta nella riforma Cartabia è applicata discrezionalmente
«Io sono Dio e posso prendere tutto quello che mi serve»: arrestato mentre cercava di rubare, tranciando con i denti il cavo di sicurezza, un iPhone da un negozio milanese, un afgano di trent' anni si è giustificato così davanti al giudice. La commessa che aveva cercato di fermarlo lo ha denunciato. Ma il giudice Mariolina Panasiti ha deciso che non poteva tenerlo in carcere: merito (o colpa) del decreto «salvaladri» firmato in agosto dall'allora ex ministro della Giustizia Marta Cartabia. Un decreto di cui il nuovo governo ha deciso di rinviare l'entrata in vigore, ma che intanto ha dispiegato in parte i suoi effetti. Facendo uscire dal carcere qualche ladro, come l'afghano di cui sopra. E soprattutto aprendo uno scontro all'interno della magistratura, tra il politico e il dottrinale, su come comportarsi davanti a una norma congelata quando mancavano poche ore alla sua entrata in vigore.
A catapultare in orbita la faccenda è stato il giudice senese Simone Spina, che l'altro ieri - sospendendo il processo a un imputato di violenza privata - ha trasmesso alla Corte Costituzionale il provvedimento con cui il premier Giorgia Meloni e il suo ministro Carlo Nordio hanno stoppato l'entrata in vigore della riforma Cartabia: il provvedimento sarebbe addirittura incostituzionale. Ma in attesa che si pronunci la Consulta, e che il Parlamento a egemonia centrodestra ratifichi o modifichi il decreto «salvaladri», cosa fare delle migliaia di accusati di furto che non sono stati querelati dalle vittime, che la «Cartabia» avrebbe reso non punibili ma che attualmente si trovano in carcere?
Nei giorni scorsi sul tema è intervenuto il Massimario della Corte di Cassazione, l'ufficio che si occupa di evidenziare i principi di diritto contenuti nelle sentenze, e che stavolta si è addentrato in una analisi approfondita della situazione inedita creata dal blocco in extremis della riforma. Ebbene, secondo il Massimario non ci sarebbe dubbio: visto che le vittime dei reati hanno novanta giorni di tempo per sporgere querela, «in questo limbo di procedibilità la misura dovrebbe essere mantenuta». Chi è in carcere, insomma, dovrebbe restare in carcere. Il giudice milanese Marco Tremolada, coordinatore delle sezioni penali del tribunale meneghino, ha diramato a tutti i suoi colleghi la circolare del Massimario. Non c'è un obbligo di attenersi alle indicazioni, ma il messaggio è chiaro: per adesso non scarcerate. Peccato che ci siano giudici che non la pensano affatto così: come la Panasiti, il magistrato milanese che ha scarcerato il ladro afghano. La quale rimarca come il nuovo governo non abbia cancellato la riforma Cartabia, ma solo rinviato al 30 dicembre la sua entrata in vigore. «Appare di intuitiva evidenza - scrive -, che la imminenza dell'entrata in vigore del decreto legislativo» fa sì che il ladro quando verrà giudicato verrà assolto, e questo rende fin da subito impossibile tenerlo in carcere.
Capire chi ha ragione e chi torto risulta, davanti alla complessità tecnica della faccenda, praticamente impossibile. Di fatto, da un tribunale all'altro, e all'interno dello stesso tribunale, si stanno verificando interpretazioni diverse, e di conseguenza trattamenti diversi per imputati identici.
Il grande squilibrio dei poteri. Lo strapotere dei pm e le ingerenze nella politica sui migranti: le Procure indagano a loro piacimento. Gennaro De Falco su Il Riformista l’11 Novembre 2022
I recentissimi sbarchi di massa dalle navi della Ong di immigrati in corso in Italia non possono non indurre ad alcune riflessioni di ordine politico istituzionale. Non è questa la sede per affrontare il fenomeno in termini ideologici o etici su cui possono esistere ed esistono posizioni assolutamente divergenti e su cui non voglio entrare perché tutte le diverse sensibilità che esistono meritano comunque il massimo rispetto ed anche per non abusare dello spazio che mi viene assai generosamente concesso su queste pagine, ma è assolutamente un fatto che il fenomeno in tutto il bacino mediterraneo interessi in maniera assai massiccia soprattutto il nostro Paese.
È inoltre assolutamente un fatto che i governi “politici” che si sono susseguiti in questi anni ricevendo, piaccia o non piaccia, un ampio consenso elettorale proprio su questi temi hanno poi dovuto abdicare immediatamente lasciando scendere e rimanere in Italia tutti coloro che sono riusciti a giungere sulle nostre coste. È inoltre un fatto che anche la Chiesa, che in un primo momento ha esplicitamente sostenuto gli arrivi, ora sembra avere assunto un atteggiamento più prudente ma, nonostante il più o meno condivisibile atteggiamento chiaramente ostile dell’elettorato e delle forze politiche prevalenti, il fenomeno, giusto o non gusto che sia, si sta intensificando e sembra del tutto inarrestabile. A questo punto bisogna chiedersi le ragioni per le quali l’Italia, nonostante gli esiti elettorali, sia divenuta ormai stabilmente la porta di ingresso dell’Europa. A ben vedere la ragione è evidente e chiarissima e la si trova nelle intercettazioni emerse nella vicenda Palamara. Secondo quanto riportò La Verità nell’agosto 2018, a proposito della questione migranti e le presa di posizione di Salvini, il capo della Procura di Viterbo Paolo Auriemma (non indagato) disse a Palamara: «Salvini indagato per i migranti? Siamo indifendibili». Ma Palamara replicò: «No hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».
Queste conversazioni finite tutte nel dimenticatoio, come sempre accade in questo Paese quando un fatto è troppo grosso per poterlo affrontare, unitamente alle successive vicende giudiziarie e la sconcertante vicenda dello speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza ci spiegano le ragioni del fenomeno che ci rende assolutamente unici in tutta Europa. Ripeto, in questa sede non voglio entrare nel merito di quanto è accaduto ed accade e dire se secondo me sia giusto o sbagliato ed anche se sia sostenibile dall’ Italia o dall’Europa ma solo comprendere ed interpretare le ragioni di questo stato di cose. Ebbene, secondo me la ragione di quanto accade, piaccia o non piaccia, sta soprattutto nella riforma legislativa che nel 1993 ha soppresso l’immunità parlamentare determinando il totale squilibrio dei poteri e nei poteri e svuotando di ogni contenuto reale la democrazia rappresentativa. Non nascondiamoci dietro un dito, la vera ragione di questo stato di cose è il fondato timore della politica di assumere iniziative di contrasto effettivo verso gli sbarchi per il timore di subire gli attacchi del potere giudiziario o meglio dei pm.
In effetti al giorno d’oggi i poteri dei singoli uffici di Procura sono amplissimi e sono acuiti dal fatto che le norme sulla competenza territoriale sono opinabilissime. In pratica ogni pm può indagare ed emettere provvedimenti a suo piacimento. Del resto mi pare che anche l’attuale ministro della giustizia ritenga necessario il ripristino proprio dell’immunità parlamentare, staremo a vedere. Si potrà dire che se ciò avvenisse la lotta alla corruzione si indebolirebbe; ora, a parte il fatto che non mi pare che con la riforma del ’93 il fenomeno della corruzione si sia ridotto, certamente si è molto ridotta la nostra libertà e, a questo punto, c’è da chiedersi quale è il prezzo che su questi temi ancora si vuole e si può pagare. Oggi è così con l’immigrazione ma se il fenomeno si consolidasse e ampliasse anche in ambito industriale, come del resto è già avvenuto a Taranto, cosa accadrebbe o magari accadrà? A me pare evidente, quale che sia l’atteggiamento verso le migrazioni, che un riequilibrio del rapporto tra e nei poteri dello Stato sia indispensabile ed urgente e che lo snodo fondamentale di questo riequilibrio non possa non essere il ripristino dell’immunità parlamentare e magari anche l’introduzione di rigide incompatibilità che regolino l’accesso in politica dei magistrati. Gennaro De Falco
Così le leggi d’emergenza hanno generato mostri… Mostri in carne e ossa. Erano gli anni del terrorismo e della repressione di uno Stato impaurito che si aggrappò a risposte che fecero vacillare lo Stato di diritto. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 novembre 2022.
Mi chiesero: «Lei è responsabile dei reati che le sono ascritti?» Risposi veloce: «Sì».
Non era vero, e lo sapevano anche loro – ma non importava. C’era il reato associativo e questo bastava. E con il “concorso morale”, di qualunque gesto fosse stato responsabile uno di noi, ne eravamo tutti colpevoli. D’altra parte, anche noi la pensavamo così: “loro” erano una associazione, “loro” erano tutti colpevoli, fosse anche per omissione, e quanto meno per concorso morale. Gli uni e gli altri, ci eravamo comportati di conseguenza.
Al primo processo a Napoli mi diedro 8 anni, era caduta l’accusa di banda armata
Il primo processo a Napoli – per associazione sovversiva e banda armata che aveva operato al Sud – mi diedero otto anni; era caduta l’accusa di banda armata: non eravamo così temibili, non c’erano gravi reati di sangue, qualche attentato, qualche rapina. Mi andò bene perché l’avvocato mi convinse a prendere parte a un riconoscimento: c’era un testimone. Io non ne avevo intenzione – non partecipavamo ai “riti del processo”, ma lui mi disse una cosa del tipo: “Che ti costa, tanto non ti riconosce”. Così andai, e in effetti il testimone disse che – no, non ero io l’affittuario del covo. Così evitai forse qualche anno in più, anche se invece lo diedero a un mio compagno che era rimasto fedele all’impegno di non accettare confronti e venne considerato, lui, l’affittuario del covo dove avevano trovato tutto il materiale che riconduceva ai vari attentati. Ero io, l’affittuario, ma andò così: a loro serviva uno qualunque.
Nel secondo processo a Roma, il primo costruito intorno ai “pentiti”, mi diedero 30 anni
Il secondo processo, a Roma, mi diedero invece trent’anni. Qui c’era un’altra banda armata e c’erano tanti reati, al nord, al sud e al centro: non c’erano morti, per fortuna. Fu il primo processo costruito intorno ai “pentiti”. Tutti venimmo considerati responsabili di tutto. Era il “concorso morale”, dispiegato in pieno; al di là anche di una mera considerazione “geografica”: che i meridionali fossero colpevoli dei reati al Sud, e i settentrionali di quelli a Nord – macché. Stavolta tutti avevamo degli avvocati – tutti quelli in aula, altri erano latitanti da anni. Ma erano come imbambolati, basiti – aspettavano che passasse la buriana. Ma il pm giocava sporco.
Durante l’interrogatorio di uno di noi il pm citò il processo di Napoli per costruire connessioni e responsabilità e aggravare un quadro fosco di pericolosità – a esempio, la quantità di armi a disposizione. Che era stata invece proprio la motivazione in sentenza per attenuare la nostra pericolosità. Dalla gabbia in aula, chiesi di intervenire e spiegai. La cosa irritò molto il pm. Irritò anche gli avvocati difensori – era una osservazione banale ma puntuale che avrebbe potuto fare uno qualunque di loro, ma non conoscevano la cosa e d’altronde quanti mai procedimenti avrebbero dovuto conoscere, quante migliaia di carte avrebbero dovuto sapere? Loro aspettavano che passasse la buriana.
Avevo scritto di aver “contribuito all’estinzione di quella organizzazione”, ma per il pm era “all’estensione dell’organizzazione”
A me avevano sequestrato in carcere dei fogli su cui stavo scrivendo una sorta di mia memoria difensiva. Nei carceri speciali – e io li ho girati quasi tutti – facevano di queste cose: servivano per le loro “prove”. Bene: avevo scritto che avevo “contribuito all’estinzione di quella organizzazione” – e era andata proprio così: ci eravamo sciolti, troppo militarismo e il rapporto con strutture di base di lotta, di cui ci consideravamo solo il braccio operativo, armato, si stava perdendo, si era perso. Non volevamo essere come le Br.
Il pm usò quei fogli per dire che io avevo contribuito “all’estensione dell’organizzazione”: un piccolo slittamento semantico che diceva proprio l’opposto: d’altronde, ero un “colonnello” – e quei gradi dovevano ben significare qualcosa. Lo feci notare, come prima; e come prima, il pm stizzito, gli avvocati impagliati. E così, arrivammo ai trent’anni.
In Cassazione il giudice Carnevale smontò il nostro “concorso morale”
In appello, divennero ventitrè. Non cambiava poi molto. Poi, finimmo in Cassazione, e qui trovammo il giudice Carnevale. Non sono in grado di dare un giudizio sull’uomo, che suscitò molte controversie e una campagna aggressiva, anche perché la sua “linea di condotta” non si applicò solo alla nostra sentenza ma, successivamente, a altre per associazione mafiosa; ma Carnevale smontò il nostro “concorso morale”. Fu la prima volta, il primo processo per il quale decadde – anche se la cosa non provocò un “ripensamento” dei legislatori. Così, noi tornammo in appello.
Avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni e io arrivai a pesare cinquantadue chili
Nel frattempo, era intervenuta la legge per la dissociazione – e io ne ero stato, nell’Area autonoma di Rebibbia, tra quelli che si era impegnato di più negli incontri con politici, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria (con qualcuno sono ancora in contatto), personalità ecclesiastiche, giornalisti, per portarla avanti. Quasi tutti noi del secondo processo vi aderimmo. Ma io uscii per il mio stato di salute: ero prostrato e frustrato, anche per vicende personali. Ero stato arrestato a aprile del 1978 – in pieno sequestro Moro: eravamo finiti a Poggioreale, sparsi tra i padiglioni dei detenuti comuni; poi, avevano deciso di isolarci in un repartino, e lì avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni, e io arrivai a pesare cinquantadue chili e un mio compagno perse un rene; ma dissero che ci avrebbero riportato nei padiglioni e intanto ci misero in quello sanitario per riprenderci; poi, di notte, ci impacchettarono e ci portarono negli speciali: il generale dalla Chiesa aveva deciso così, eravamo sulla sua lista. E iniziò il mio percorso nel “circuito dei camosci”: uscii a febbraio del 1985, ma agli arresti domiciliari, fino a novembre – altri nove mesi infernali. Poi, tra cumulo e legge della dissociazione finì che feci più carcere di quello che mi toccava. Capitava, con la giustizia forfettaria. Un tanto a chilo – che faccio, lascio? Lasci.
Le leggi di emergenza sono state mostruose
La legislazione d’emergenza è stata mostruosa e ha costruito mostri: non parlo solo delle “figure giuridiche” ma delle persone in carne e ossa. E dalla parte dei “combattenti” e dalla parte dello Stato. C’è un episodio emblematico. Siamo verso i colpi di coda del terrorismo – dopo le confessioni di Peci e le centinaia di arresti. Un gruppo che si era costruito intorno la figura di un ex- detenuto che si era politicizzato in carcere avvicinandosi alle Br e era poi uscito a fine pena – compie una rapina alla fine della quale uccide due guardie giurate, ormai disarmate e a terra, lasciando un volantino di “campagna contro la dissociazione” accusando un’altra terrorista, da poco arrestata, di essere in realtà un’infiltrata dei servizi segreti. Nell’aula di un processo che si svolgeva in quei giorni, viene letto un comunicato delle BRrche smentisce categoricamente che la terrorista accusata sia un’infiltrata – avevano fatto una “indagine interna”; implicitamente, prendono le distanze da quella azione. Il gruppo viene arrestato e succede che alcuni finiranno con chiedere la legge sulla dissociazione. È il caos totale.
Ci trovammo imprigionati tra leggi di emergenza e terrorismo
In un bel libro di Fernando Aramburu, Patria, i cui personaggi vivono in una cittadina dei Paesi Baschi dilaniata dalle azioni dell’Eta e dagli schieramenti, anche all’interno di una stessa famiglia, che esse provocano, un giovane militante accusato di gravi reati finisce all’ergastolo: è arrogante, rabbioso, fragile nella sua ideologia. Aramburu non ha tentennamenti nel mostrarci l’insensatezza delle azioni armate, l’alone di sostegno, convinto o forzato, e la scia di dolore che esse provocano – non ha neppure tentennamenti nell’additare la violenza dello Stato e del carcere e delle torture. Era quella stessa spirale di violenza in cui ci trovammo imprigionati qui – tra legislazione d’emergenza e terrorismo. Quando l’Eta dichiara finita la lotta armata, quelli rimasti in carcere erano i più refrattari, e chi mostrava dubbi o perplessità veniva ostracizzato, isolato. Tra loro, il giovane protagonista della storia, che intanto è invecchiato, che intanto si è staccato da tutto, dai suoi antichi compagni e anche da se stesso. Gli rimane solo un pezzo della sua famiglia.
In Italia mancò una soluzione politica al terrorismo: la “linea della fermezza” dal sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture
Quello che mancò anche in Italia – e che finì per caricare tutto sulle spalle discrezionali della magistratura, che assunse un ruolo di supplenza e salvifico, quindi con una sorta di “investitura” sociale e morale – fu una soluzione politica al terrorismo. Il che significa che una questione politica venne trattata solo come questione criminale – fatto questo che nella storia di questo paese non è propriamente del tutto nuovo. Mancò, quel ruolo, soprattutto quando le due principali organizzazioni della lotta armata, le Brigate rosse e Prima linea, l’avevano sostanzialmente dichiarata finita. Mancò, intendo, da parte delle principali forze politiche del paese: la “linea della fermezza” che era scesa in campo, con enorme sostegno della stampa, durante il sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture. Non le ha mai più avute.
E in un modo e nell’altro – sempre lì si viene rimandati. Sono passati quarantaquattro anni dal 16 marzo 1978 – e la “soluzione biologica”, ovvero la naturale morte sta ormai prendendo il posto di ogni ipotesi di soluzione politica. Chissà, magari prima di arrivare a cinquanta se ne potrebbe riparlare. Giusto per dire, che ormai. Capita ripetutamente che negli istituti superiori dove qualche insegnante si avventura nei territori della storia contemporanea, alla domanda sui responsabili della strage di piazza Fontana la risposta degli studenti sia: le Brigate rosse. Nel buio della conoscenza, tutte le vacche sono nere.
Errore di battitura nell’accusa, l’indagato resta in carcere. Una svista, un semplice errore materiale - questa la spiegazione del giudice -, ma tale da condizionare il diritto di difesa di un uomo. Canestrini: «La libertà vale così poco?» Simona Musco su Il Dubbio il 24 novembre 2022.
«Una storiella di diritti e giochetti». L’avvocato Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, è letteralmente infuriato. Avvilito, verrebbe da dire, di fronte ad un caso tanto semplice quanto assurdo da raccontare.
La storia è quella di un 31enne arrestato per detenzione ai fini di spaccio di 30 grammi lordi di cocaina, il cui principio attivo risulta ancora sconosciuto. Una storia comune, una di quelle che affollano quotidianamente le aule di tribunale, se non fosse per un particolare: la contestazione è cambiata dopo l’udienza di convalida, di fatto impedendo al legale di poter difendere il proprio assistito adeguatamente. Una svista, un semplice errore materiale – questa la spiegazione del giudice -, ma tale da condizionare il diritto di difesa di un uomo che così è rimasto in carcere.
«Secondo il codice procedurale, l‘arresto deve essere convalidato da un giudice entro quattro giorni. In questo periodo, l’accusa deve anche decidere se chiedere una misura cautelare, cioè se ritiene che ci sono oltre gravi indizi di colpevolezza, anche pericolo di fuga o di reiterazione del reato o di inquinamento probatorio – racconta Canestrini in un post-sfogo su Facebook -. La Procura chiede dunque il carcere per l’arrestato, ma contesta il fatto di lieve entità (articolo 73 testo unico stupefacenti, comma 5)».
A seguito della sentenza della Corte costituzionale che dichiarò illegittime le previsioni della legge Fini-Giovanardi, infatti, il legislatore modificò, tra le altre cose, i limiti edittali contemplati dal comma 5, riconoscendo lo stesso articolo quale fattispecie autonoma di reato, modificando il precedente dl 146 del 2013 che lo concepiva quale mera circostanza attenuante. Le modifiche portarono ad una riduzione della pena e così si è passati dalla reclusione da uno a cinque anni alla reclusione da sei mesi a quattro anni, se la condotta criminosa, per i mezzi, le modalità o le circostanze ovvero per la quantità e qualità delle sostanze, è di lieve entità. La modifica incise anche sulle misure precautelari e cautelari, data l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e/o di disporre la custodia cautelare in carcere.
Da qui la chiara strategia difensiva di Canestrini, che con una breve memoria esplicativa – dopo aver visitato l’uomo in carcere di domenica e aver rassicurato la famiglia – si è opposto alla richiesta di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rovereto. Insomma, un caso semplice e subito chiuso, normalmente. Ma non nel caso in questione: «Incredibilmente il giudice, dopo aver interloquito con il pm dopo l’udienza (dato che in udienza in carcere il pm non si è presentato), espone la strabiliante tesi che la contestazione del comma 5 era un “errore materiale”, che al posto del “5” doveva leggersi “1”, dato che il comma 1 prevede lo spaccio grave che sorregge arresto e misura cautelare carceraria», afferma Canestrini.
Un errore rettificato dal pm solo successivamente all’udienza di convalida e che dunque ha impedito allo stesso difensore di preparare una strategia alternativa per la difesa del suo assistito, che, dunque, è rimasto in carcere. Il giudice parla di un «un evidente errore materiale di battitura», ravvisabile nel «riferimento al comma 5 dell’articolo 73 Dpr 309/1990, anziché al comma 1, relativo alle sostanze di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 del Dpr 309/1990, tra cui rientra la cocaina, alla quale sia nella parte in fatto dell’imputazione, così come nella parte motiva, vi è il chiaro e inequivoco riferimento, quale oggetto dell’illecita detenzione per cui è stato disposto l’arresto.
Trattasi dunque, in concreto, di fattispecie che rende non solo obbligatorio l’arresto in flagranza, ma che sorregge la misura cautelare detentiva in carcere a norma dell’articolo 280 del codice di procedura penale». E tanto basta, dunque. «La nostra libertà è quindi appesa alla possibilità che un 5 significhi in realtà un 1 – ha concluso il legale -. Ma la libertà è davvero così poco importante da meritarsi questo?».
Denuncia la figlia per errore, una vicenda assurda per una carta di credito “rubata” al padre. Alberto Cisterna su Il Riformista l’11 Novembre 2022
Una storia come tante altre. Una carta di credito qualunque, l’avviso sul cellulare di un addebito. L’uomo che, preoccupato dall’importo, cerca di capire cosa sia accaduto e scopre subito l’acquisto di qualcosa di molto costoso in uno dei negozi dello shopping di lusso della Capitale. Di lì a chiamare i Carabinieri un attimo. Una pattuglia si fionda al negozio e chiede di visionare le telecamere di sicurezza. Si vedono due ragazze e un ragazzo intente all’acquisto di qualcosa. Si vede la borsa costosa finire impacchettata e una delle due ragazze accostarsi alla cassa per pagare con una carta di credito.
I Carabinieri, giustamente soddisfatti, avvisano l’uomo che può recarsi in caserma per denunciare l’accaduto, ci penseranno loro a identificare i tre mascalzoni. L’uomo torna a casa, racconta l’accaduto in famiglia e si accorge, però, che la carta di credito non era nel solito cassetto della sua scrivania, che qualcuno l’ha portata via. Corre in caserma e racconta l’accaduto ai militari i quali, a quel punto, mostrano il video al malcapitato che, con sgomento e sorpresa, scopre che la ragazza alla cassa intenta a pagare è sua figlia. Ovviamente lavata di capo, urla e strepiti. La ragazza, da poco maggiorenne, si era invaghita di un tizio belloccio che, insieme alla sua complice, aveva convinto la poverina al gesto ossia a fare un regalo alla tipa che l’accompagnava e così la frittata era stata fatta.
Il codice penale di Mussolini, quello che il ministro Nordio giura di voler modificare, in una norma di straordinaria saggezza prevede che il furto di denaro tra familiari conviventi non sia punibile. Persino il fascismo comprendeva che doveva evitare di mettere il naso tra le mura del focolare domestico e che se la moglie portava via soldi al marito o un figlio al padre erano pur cavoli loro. La morale fascista è un conto, ma la pace familiare è questione delicata da cui persino un regime totalitario preferiva stare alla larga. Tutto a posto, quindi. Manco a dirlo. Nel 2007, in ossequio ai soliti obblighi eurocomunitari, il legislatore aveva previsto un apposito reato – poi confluito nel Codice penale (art. 493.ter) – in forza del quale chiunque utilizza indebitamente «non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti» è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro.
Vabbè e che importa? direbbe l’uomo qualunque, il saggio cittadino, la brava madre di famiglia. Se la figlia avesse prelevato il denaro in contanti dalla cassaforte o dal cassetto della camera da letto dei genitori non sarebbe stata punibile, a chi importa che, invece, abbia comprato la borsa di lusso con la carta di credito dell’ignaro genitore? Sempre soldi sono. In un paese normale il discorso non farebbe una piega. Anche in un ordinamento giuridico normale. Ma la Corte costituzionale, prima, e la Cassazione, dopo, hanno sempre negato che l’esclusione della punibilità, concepita dal ministro fascista Rocco nel lontano 1930 per la moneta contante rubata tra le mura di casa, si possa applicare alla moneta elettronica. Si dice con estrema e curiale precisione che l’art.493-ter ha natura «plurioffensiva» (una sorta di trappola definitoria che rappresenta uno dei caposaldi della cultura penale ipogarantista di questo paese) ossia tutela non solo il patrimonio personale del titolare della carta di credito (il padre), «ma anche gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione di tali strumenti da parte dei consociati» (la finanza internazionale).
Siamo una nazione strana e sorprende che qualcuno si sorprenda di una norma come quella che punisce i rave party. Insomma, come dire, puniamo i rave party non solo perché minacciano la salute dei ragazzi, mettono spesso a rischio la loro incolumità personale, ma perché sono un pericolo per la sicurezza pubblica, per cui anche se non circolasse una goccia d’alcol o un grammo di droga (può essere), il delitto resta. Si celebra, quindi, il processo con la fedifraga figlia, poco più che diciottenne, come imputata e con il padre disperato nelle vesti di una riluttante parte offesa. La Corte costituzionale ha parlato chiaro, la Cassazione pure, la partita è chiusa c’è poco da discutere; fedina penale macchiata a vita e chissà quanti impicci.
Si dice che anche i carabinieri, presidio di saggezza in questa malcapitata patria, si fossero scusati col padre ignorando che, denunciando alla Procura i due truffatori, avrebbero messo nei guai anche la ragazza. Si racconta che il giudice, infischiandosene degli illustri precedenti, abbia assolto la pasticciona e allungato di qualche anno la vita al povero genitore assillato e tormentato dai sensi di colpa per aver fatto una denuncia al buio. Strano paese questo, in cui la giustizia – se vuole – non conosce alcun padrone se non quello della propria coscienza. Strano, ma a volte così bello. Alberto Cisterna
L’efficientismo non è giustizia. Reati e processi, la riforma della giustizia e le 12 proposte degli avvocati. Viviana Lanza su Il Riformista il 30 Ottobre 2022
La riforma Cartabia, la sua entrata in vigore, il futuro della giustizia, le iniziative del nuovo governo. Sono tanti i temi sul tavolo del dibattito giudiziario. La Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Marco Campora, ha preso posizione rispetto a tali temi con un documento in cui si analizzano nel dettaglio le criticità della giustizia penale e si elencano proposte, sintetizzabili in dodici punti:
1) Seria e profonda depenalizzazione; 2) Amnistia e indulto; 3) Revisione del catalogo dei reati previsti dal codice penale e dalle leggi penali e delle relative pene; 4) Abrogazione della improcedibilità e ritorno alla prescrizione sostanziale ante-riforma; 5) Sancire con chiarezza, impedendo interpretazioni distorsive, la necessità che vi sia identità tra il giudice che ha assunto le prove e il giudice che emette la sentenza; 6) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, il rilascio di una nuova nomina al fine di proporre appello in caso di imputato dichiarato assente nel corso del giudizio di primo grado; 7) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, di allegare all’atto una nuova dichiarazione/elezione di domicilio dell’imputato; 8) Rivedere la norma in materia di intercettazioni nel rispetto dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale; 9) Ampliamento dei casi in cui è possibile accedere al patteggiamento; 10) Reintroduzione della possibilità di accedere al rito abbreviato per i delitti punibili con la pena dell’ergastolo; 11) Modifica delle disposizioni in tema di custodia cautelare sulla base della proposta contenuta nel recente quesito referendario; 12) Riforma dell’ordinamento accogliendo ed approvando le proposte della “Commissione Giostra”.
«La riforma Cartabia è divenuta legge e tra pochi giorni comincerà ad essere applicata nei Tribunali italiani – si legge nel documento firmato dal presidente Marco Campora e dal segretario Angelo Mastrocola –. Dopo l’incubo del triennio Bonafede, che ha rappresentato senz’altro il punto più basso della giustizia italiana in cui il mix esplosivo tra il più feroce populismo penale e la più grossolana insipienza ha prodotto guasti difficilmente emendabili, le attese erano alte e si auspicava un reale cambio di passo rispetto al nefasto recente passato». La riforma, per i penalisti napoletani, non è tutta da cassare ma non convince affatto. «In questa riforma – dicono i vertici dei penalisti napoletani – c’è sicuramente del buono e sarebbe sciocco non riconoscerlo. Il totem della pena detentiva e del carcere inizia ad essere scalfito dalla possibilità di applicare, già in fase di cognizione, le sanzioni sostitutive che da decenni noi penalisti indicavano quale strada maestra da seguire per assicurare la reale risocializzazione dei condannati, per ridurre i pericoli di recidiva e per dare respiro agli istituti penitenziari ridotti a luoghi crudeli, criminogeni e tecnicamente illegali».
Fiducia, poi, nella giustizia riparativa (sperando che però nei fatti venga realmente messa in atto); ok all’ampliamento del catalogo dei delitti procedibili a querela (anche se sarebbe meglio metterci più coraggio) e delle categorie di reato per le quali può applicarsi la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Ok anche alle modifiche del codice di rito che ampliano la democrazia all’interno del processo e potenzialmente attenuano il rischio di arbitrii nella fase investigativa. Ma i veri nodi della giustizia penale, quelli seri, non sono risolti. Un esempio. «La riforma, senza neppure intervenire in modo deciso sul patteggiamento, e cioè sul più laico dei riti alternativi, lungi dall’affrontare i nodi essenziali che ingabbiano e paralizzano la giustizia si limita (oltre ad auspicare che l’udienza preliminare e la nuova udienza pre-dibattimentale sfoltiscano sensibilmente il numero dei processi) a “sponsorizzare” come rito principe del nostro ordinamento il giudizio abbreviato (storicamente la tipologia di giudizio meno adeguata a far emergere una verità processuale che quantomeno tenda ad una verità sostanziale, fondandosi lo stesso su atti strictu sensu polizieschi); arrivando addirittura a prevedere – in aperta distonia con il principio in forza del quale l’imputato ha diritto ad un secondo grado di giudizio nel merito senza subire qualsiasi tipo di condizionamento – lo sconto di pena di un sesto per l’imputato che, condannato in primo grado a seguito di giudizio abbreviato, rinunzi a proporre impugnazione», dicono Campora e Mastrocola.
«La realtà è che la riforma mira a raggiungere un obiettivo (minor numero di processi, maggiore efficienza e più celerità) servendosi di mezzi a nostro parere inadeguati allo scopo. Si limita in gran parte, infatti, ad intervenire sul codice di rito, sulla procedura (che ha esclusivamente funzioni di garanzia e detta le regole del gioco) lasciando per lo più inalterato il codice penale e le migliaia di leggi in materia penale disseminate nelle più disparate disposizioni normative. Di contro, è evidente che l’unico mezzo per ridurre i processi senza diminuire le garanzie dei cittadini (imputati e parti offese) è quello di ridurre in modo significativo il catalogo dei reati attraverso una massiccia depenalizzazione. Vi sono, invero, nel nostro codice e soprattutto nelle cd. leggi speciali centinaia di fattispecie che ben potrebbero essere regolate e demandate ad altre branche dell’ordinamento. Così come – ed al netto dell’ovvia considerazione che per fare qualsiasi tipo di riforma è necessario il consenso della maggioranza parlamentare – sarebbe stato del tutto logico (come di regola è sempre avvenuto di fronte a riforme di una certa rilevanza), al fine di ridurre il cd. arretrato e per consentire alle nuove norme di esplicare i loro effetti, varare un provvedimento di amnistia e di indulto che avrebbe altresì consentito di porre un argine allo sfacelo che registriamo da decenni (ed in modo particolare nell’ultimo anno) negli istituti penitenziari».
Il ragionamento è: se l’intento della riforma è quello di modernizzare il diritto (e il processo) penale e renderlo più mite e meno terribile occorreva intervenire sulla tipologia delle pene e sui limiti edittali previsti dalle varie fattispecie del codice penale, «ancor oggi incentrato esclusivamente sulla pena detentiva in linea con l’ideologia imperante negli anni ‘30», osservano i vertici dei penalisti di Napoli, «limiti che continuano ad essere esorbitanti e che gioco-forza, considerata l’enorme posta in palio, impongono l’aumento progressivo delle garanzie e non già la loro progressiva erosione». «Banalizzando – aggiungono – per ridurre il numero dei processi, e dunque per migliorare l’efficienza e favorire una maggiore celerità, è necessario ridurre l’ambito di intervento del diritto penale a monte, apparendo una mera chimera il raggiungimento dell’obiettivo attraverso vie traverse (il sistema che si auto-regola e che blocca la trasformazione in processi delle centinaia di migliaia di notizie di reato) o peggio attraverso l’erosione delle garanzie e degli spazi di intervento del singolo imputato».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Arrestano la sposa per droga il giorno delle nozze. Poi la scoperta: "Un errore". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 29 Ottobre 2022
La sposa, 42 anni, stava per pronunciare il fatidico "sì" quando i carabinieri hanno interrotto la cerimonia con un mandato di arresto. Per fortuna, si è trattato solo di un equivoco ma le nozze sono saltate
"Nel bene e nel male, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà finché morte non ci separi", recita la formula del consenso al matrimonio. Oppure "finché mandato di arresto ci separi", dipende dai punti di vista. Lo sa bene una sposa 42enne di Seveso (Monza) che è stata arrestata il giorno delle sue nozze proprio mentre era ad un passo dal fatidico "sì". Per fortuna, si è trattato solo di un terribile equivoco ma la celebrazione è saltata.
La storia
A raccontarla non ci si crede. Eppure la storia è vera, verissima. Stando a quanto riporta l'Agenzia stampa Ansa, l'episodio è accaduto a Seveso, una piccola cittadina in provincia di Monza e Brianza, qualche giorno fa. Tutto pronto per la cerimonia: l'abito bianco, le fedi nuziali e la festa in famiglia. E invece, quella che doveva essere una giornata da sogno si è trasformata in un vero e proprio incubo. La sposa, con accanto anche il futuro marito, si è vista letteralmente piombare davanti i carabinieri. I militari dell'Arma le hanno notificato l'esecuzione di una misura cautelare in carcere per un cumulo di pene legato a reati di droga proprio mentre si stava celebrando il matrimonio con rito civile. Ma si trattava di un frainteso.
L'arresto
La sposa ha rischiato di finire in manette per via un errore di trascrizione. In buona sostanza, i carabinieri hanno interrotto le nozze per eseguire l'ordine di carcerazione, trasmesso alla Procura di Monza dal Tribunale brianzolo per una sentenza passata in giudicato, nonostante ci fosse stato il ricorso in Appello. A confermare l'equivoco è stato l'avvocato della donna che, interpellato sui fatti, ha mostrato ai militari dell'Arma un'anomalia nei documenti. Una volta accertato l'equivoco, la Procura ha immediatamente ritirato il provvedimento. Fatto sta che la festa è saltata comunque e gli sposi sono stati costretti a fissare una nuova data per le nozze.
Scatti di ordinaria “mala edilizia” giudiziaria. L'Anm ha pubblicato sul proprio sito centinaia di foto, raccolte dagli stessi protagonisti della giurisdizione: una mappa, da Nord a Sud, della condizione di aule e uffici giudiziari nei quali sono costretti a lavorare magistrati, avvocati e personale amministrativo. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 24 ottobre 2022.
Il nostro giornale lo dice da sempre. La giustizia non ha bisogno di proclami e di effetti speciali, se poi, scendendo sul pianeta terra, le aule e gli uffici frequentati dai magistrati, dagli avvocati e dai cittadini sembrano più a delle piccionaie o a dei tuguri. Per questo motivo l’Associazione nazionale magistrati ha voluto far conoscere lo stato in cui versa l’edilizia giudiziaria. Come? Nella maniera più semplice ed accessibile, pubblicando sul proprio sito (associazionemagistrati. it) centinaia di foto, scattate dagli stessi protagonisti della giurisdizione e quotidiani frequentatori dei Tribunali.
La galleria fotografica – in alcuni casi una vera e propria galleria degli orrori –, composta da otto sezioni, mostra da Nord a Sud, passando per la capitale, lo stato pietoso in cui versano le aule d’udienza e altri locali dei Tribunali italiani. Ogni galleria fotografica ha un titolo e i magistrati hanno dato adito al loro estro: le locuzioni utilizzate vanno da “Impressionismo giudiziario”, a “Vostro onore”, “Giustizia 6.0” e “Con gli occhi all’insù” per giungere alla “Raccolta differenziata”. Le altre gallerie si intitolano “Terzo potere”, “Lavori in corso” e “Il vizio della memoria”. Scatti non d’autore che non hanno la velleità di vincere premi fotografici, ma che intendono portare a conoscenza di tutti la realtà, senza filtri, senza infingimenti, senza, appunto, effetti speciali.
Nel suo saluto di commiato, rivolto ai dipendenti e a funzionari del ministero della Giustizia, Marta Cartabia, ha dichiarato che nei seicento giorni trascorsi in via Arenula ha voluto «contribuire a realizzare quel volto costituzionale della Giustizia». Chissà cosa ha pensato la ministra uscente sfogliando il dossier fotografico dell’Associazione nazionale magistrati.
“MALA EDILIZIA”
I componenti della VIII Commissione permanente di studio dell’Anm evidenziano le motivazioni che li hanno indotti a fare questo singolare viaggio nell’Italia della “mala edilizia” giudiziaria. «Per ottenere un quadro aggiornato della “salute” dei nostri palazzi di giustizia – spiegano abbiamo ritenuto utile effettuare un monitoraggio dell’edilizia giudiziaria, chiedendo a tutti i magistrati di documentare fotograficamente lo stato in cui versano gli uffici in cui quotidianamente prestano servizio e in cui, ogni giorno, migliaia di cittadini (personale amministrativo, avvocati, parti processuali), fanno ingresso. Grazie al contributo delle Giunte Esecutive Sezionali e di tanti colleghi abbiamo così realizzato un dossier fotografico sull’edilizia giudiziaria composto da circa 500 foto relative a più di 50 Tribunali e Procure della Repubblica».
L’edilizia giudiziaria è una sorta di specchio dell’Italia, secondo l’Associazione nazionale magistrati. «Quella che emerge da questa “istantanea” – affermano i componenti della VIII Commissione permanente di studio – è la fotografia di un Paese i cui palazzi di giustizia presentano strutture sovente inadeguate e uffici troppo spesso inospitali e, in alcuni casi, persino insalubri: insomma, luoghi di lavoro non dignitosi per quanti vi prestano servizio o anche solo li frequentano come utenti.
Al fine di evidenziare le situazioni di maggiore criticità che, a nostro giudizio, richiedono interventi urgenti, tra tutte le foto raccolte ne abbiamo selezionate alcune, che abbiamo suddiviso in otto categorie in base all’oggetto raffigurato e al contesto in cui la foto è stata scattata. L’intera raccolta fotografica, comprensiva di documenti e relazioni, suddivisa in base all’ufficio giudiziario da cui provengono, è, invece, consultabile navigando attraverso la cartina geografica».
A ROMA SPAZI INSUFFICIENTI E INADEGUATI
A denunciare questa situazione è il presidente del Tribunale, Roberto Reali, che si sofferma, in una relazione inviata al presidente della Giunta dell’Anm Lazio (Sezione di Roma) tanto sul settore civile quanto su quello penale, senza tralasciare l’Aula Bunker di Rebibbia.
Gli immobili in cui si svolgono le attività del civile si caratterizzano per la loro vetustà. Reali pone l’attenzione sull’immobile di via Lombroso, che ospita dal lontano 1977 l’Archivio di Stato Civile, concesso in uso gratuito per tre anni al Ministero di Grazia e Giustizia dalla Provincia di Roma. Sono trascorsi quarantacinque anni e la montagna di faldoni è ancora lì. La struttura «risulta inagibile e interdetta ai lavoratori» dal 2015 ed è incustodita.
La Città giudiziaria, situata in Piazzale Clodio, ospita il settore penale: necessita di interventi di ristrutturazione e di ampliamento. Servono, evidenzia il presidente del Tribunale di Roma, investimenti mirati per la «riqualificazione complessiva della Città giudiziaria» e l’ampliamento della tessa «mediante la costruzione di un nuovo Palazzo che possa affiancare i già esistenti Edifici A, B e C di Piazzale Clodio». Nell’Aula Bunker di Rebibbia avvocati, magistrati, parti processuali e forze dell’ordine nelle giornate di pioggia farebbero bene ad indossare l’impermeabile o ad usare l’ombrello a causa delle infiltrazioni di acqua piovana dalle coperture, denunciate dallo stesso Reali. Nella documentazione allegata al dossier si nota, inoltre, che nei pressi delle aule di udienza il problema dei rifiuti è di portata eccezionale. Decine di sacchi formano montagne di spazzatura.
Ambienti condivisi nella gallery di Cassino, dove spicca una foto di alcuni armadi e fascicolatori, pieni zeppi di faldoni, sistemati in un bagno. Nella stessa stanza in cui si trovano un lavabo e la carta per pulirsi.
PIEMONTE: TORINO RIDE, ALESSANDRIA PIANGE
Se il Palazzo di Giustizia di Torino, intitolato a Bruno Caccia (magistrato martire, ucciso dalla criminalità organizzata nel 1983) si presenta ordinato, non può dirsi lo stesso per le aule di udienza del Tribunale di Alessandria. Qui, le infiltrazioni che mangiano gli intonaci e i cavi volanti sono un pugno nell’occhio. In uno spazio ricavato alle spalle della postazione dei giudici, arredata con elementi di almeno settant’anni fa – poltrone comprese -, si nota un deposito in cui sono ammassate sedie, cartoni e addirittura alcuni televisori. Come il deposito di un rigattiere.
A Biella, oltre ai muri scrostati e ad alcune cabine dalle quali debordano centinaia di cavi, spicca un vecchio telefono pubblico. Il pezzo da museo è sovrastato da un muro ridotto a gruviera. “Pronto, ministero della Giustizia?”. Non risponde nessuno. Stranamente…
A PAOLA L’ASCENSORE VA SOLO GIÙ
Il viaggio nella “mala edilizia” prosegue a Sud. La Giunta sezionale dell’Anm di Catanzaro, nei mesi scorsi, ha denunciato l’improvvisa rottura di un cavo dell’ascensore del Palazzo di Giustizia di Paola. L’impianto di sollevamento è precipitato nel vuoto. Il caso ha voluto che non ci fossero persone nell’ascensore. In Tribunale per lavorare non per rischiare la vita. A Crotone, invece, i magistrati hanno protestato per «le criticità strutturali del Tribunale» e hanno altresì rappresentato «la nocività degli ambienti di lavoro» a causa dell’umidità dei locali, delle perdite d’acqua al piano terra e al secondo piano. A ciò si aggiunge il blocco totale degli impianti di riscaldamento. Per il momento, viste le alte temperature delle “ottobrate” che si susseguono, il pericolo di congelamento non sussiste.
FOGGIA. UNA STANZA PER 4 NEL PENALE. MA NEL CIVILE VA PEGGIO
Nel Tribunale penale di Foggia i quattro giudici del dibattimento devono lavorare nella stessa stanza. Ma i conti non tornano. Ci sono tre scrivanie ed una sola postazione fissa dotata di computer. Forse, serve una calcolatrice in via Arenula. Nel Tribunale civile va peggio. Ben sette magistrati condividono la stessa stanza, sprovvista di computer e di telefono. E non hanno neppure distinte scrivanie. Insomma, nel capoluogo da uno si sperimenta il coworking giudiziario all’italiana.
BARI E I FASCICOLI NEI BAGNI
In piazza De Nicola, sede del Tribunale Civile, della Corte di Appello penale e civile, e del Tribunale di Sorveglianza si ricava spazio pure nei bagni per conservare i fascicoli. Al piano terra, nel sottoscala si trova invece di tutto: sedie e poltrone rotte, armadi inutilizzati, vecchie macchine da scrivere, monitor, stampanti fuori uso, fascicolatori metallici arrugginiti ed ammaccati. Dal rigattiere all’isola ecologica è un attimo (per la gioia dei ratti per possono insinuarsi ovunque).
TRANI. PALAZZI STORICI CHE RICHIEDONO MANUTENZIONE
Chi non vorrebbe fare udienza a due passi dal mare? A Trani la sede delle Esecuzioni mobiliari, ospitata nel Palazzo Gadaleta, si trova in una posizione felice. All’interno, però, i magistrati sono preoccupati. In alcune stanze le crepe evidenti non fanno immaginare niente di buono. Le cose non vanno meglio nella sede centrale del Tribunale, a Palazzo Torres, a due passi dalla splendida Cattedrale romanica. Lo stabile, risalente alla metà del XVI secolo, richiede di essere sottoposto ad urgenti interventi di ristrutturazione. Alcuni cornicioni sono pericolanti.
IL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI CATANIA CADE A PEZZI
A riprova dell’emergenza edilizia giudiziaria vi è il crollo parziale, pochi giorni fa, nel Palazzo di Giustizia di Catania, del tetto della cancelleria del Giudice per le indagini preliminari. Fortunatamente, non ci sono stati feriti. La Giunta etnea dell’Associazione nazionale magistrati è ritornata a porre all’attenzione i gravi problemi che si affrontano nella città siciliana e ha espresso «ancora una volta la massima preoccupazione e il vivo allarme per le condizioni in cui versano gli uffici giudiziari catanesi».
L’Anm chiede con urgenza che vengano svolte attività di manutenzione ordinaria e straordinaria «per evitare tragedie che questa volta sono state solo sfiorate». «Non è ammissibile – si legge in una nota – che in un edificio pubblico, e a maggior ragione in un Palazzo di Giustizia, dove devono trovare tutela i diritti di ciascuno, i lavoratori che ivi operano debbano temere per la propria incolumità. Non è altresì ammissibile che, a seguito di tali eventi, alcuni magistrati dell’ufficio non dispongano attualmente di un ufficio dove poter celebrare le udienze e non siano pertanto messi in condizione di adempiere ai propri doveri».
Grande preoccupazione viene espressa da Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania. «Il crollo di un soffitto, verificatosi nel Palazzo di Giustizia – dice al Dubbio -, è un incidente che, purtroppo, non ci sorprende. Ricordiamo ancora il distacco della lastra di marmo dalla parete di un’aula d’udienza e le recenti piogge torrenziali all’interno dei locali. Da anni denunciamo i problemi strutturali del Palazzo di Giustizia e, più volte, abbiamo posto all’attenzione delle istituzioni le carenze dell’edilizia giudiziaria nella nostra città ». Silenzio di tomba da via Arenula. «Dagli uffici ministeriali – aggiunge il numero uno delle toghe etnee non sono pervenute risposte adeguate e vane sono pure rimaste le richieste loro inoltrate dai vertici giudiziari di Catania.
Così siamo arrivati a questo ennesimo episodio che poteva anche essere tragico. Adesso, a causa dell’inagibilità di un intero settore del Palazzo, ci sarà da fare i conti con una serie di inevitabili ritardi e disfunzioni nell’attività giudiziaria e di problemi organizzativi per gli uffici che si riverseranno sull’intera struttura giudiziaria, sui cittadini e sui difensori. Un altro duro colpo per noi avvocati, ancora alle prese con le restrizioni anti-Covid, e proprio nel momento in cui l’Ufficio per il processo iniziava ad avviarsi. Ci auguriamo che gli interventi di ripristino siano immediati e che questo ennesimo episodio sia uno sprone per affrontare e risolvere la questione dell’edilizia giudiziaria a Catania».
Sul crollo nell’ufficio del Gip intervengono pure Antonino La Lumia, presidente del Movimento Forense, e Giuseppe Casabianca, presidente della sezione di Catania di MF. «Secondo i primi accertamenti – affermano -, la causa sarebbe da individuare nelle recenti infiltrazioni d’acqua piovana. Solo la mera casualità, dunque, ha consentito di evitare una tragedia, perché nella notte nessuno era presente nei locali.
Ciò è inaccettabile: gli avvocati e tutti coloro che quotidianamente operano nei Tribunali non possono vedere la propria incolumità messa a rischio dalle pessime condizioni nelle quali versano gran parte degli edifici giudiziari in Italia. Il Movimento Forense, da anni, denuncia, anche attraverso ripetute mozioni congressuali, tale perdurante stato di degrado, inconcepibile in un ordinamento, che dovrebbe invece garantire l’efficienza e la funzionalità dell’intero sistema: una vera riforma della Giustizia, piuttosto che fermarsi esclusivamente ai profili del rito, deve partire da queste basi e non può trascurare seri e concreti investimenti». Gli esponenti del Movimento Forense chiedono «un intervento immediato da parte delle istituzioni, al fine di assicurare il regolare svolgimento di tutte le attività processuali e, nel contempo, di inserire il tema tra le priorità dell’agenda politica del nuovo governo».
Quando si trascurano i luoghi in cui si amministra la Giustizia, i diritti rischiano di essere abbandonati. Proprio come gli oggetti dei depositi improvvisati in alcuni Tribunali. Con buona pace del «volto costituzionale della Giustizia».
Sedici giudici per un solo processo: record choc a Roma. Nel corso del processo a carico del clan camorristico Moccia si sono avvicendati 16 magistrati in quindici udienze. La protesta dell'Unione delle Camere Penali: "Incompatibile con il principio del giusto processo". Rosa Scognamiglio il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Sedici giudici in 15 udienze. È il caso da guiness world record che è esploso a Roma dove, nel corso del processo al clan camorristico Moccia, scaturito dall'operazione di settembre 2020 della Dda che portò al sequestro di alcuni locali nel cuore della Capitale, si sono avvicendati una lunga scia di magistrati. Al punto che la protesta da parte della categoria forense è stata inevitabile. "Una gravità inaudita", ha denunciato l'Unione delle Camere Penali attraverso le pagine del quotidiano Il Messaggero.
Il caso
La storia, raccontata dalla giornalista Valeria Di Corrado, è a dir poco paradossale. Al punto che gli stessi addetti ai lavori, quando lo scorso 5 ottobre (la data dell'ultima udienza) uno dei giudici è risultato "incompatibile", hanno ironizzato: "si è attinto a chi passava in corridoio", è stato il commento sarcastico dei legali. Del resto, è andata proprio così: è stato necessario l'intervento di un altro magistrato che stava celebrando un processo per direttissima in un'altra aula dello stesso Tribunale. Ed è stata proprio quella la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tanto che la Camera Penale di Roma ha proclamato l'astensione in vista dell'udienza programmata per il prossimo 2 novembre "per manifestare la propria solidarietà al collegio difensivo in quello che si è trasformato nel funerale del processo accusatorio".
La protesta
L'Unione delle Camere Penali ha indetto una protesta a livello nazionale. Pare, infatti, che la misura fosse colma da un pezzo. A monte del problema ci sarebbe una carenza di organico nella magistratura che, a conti fatti, rischia non solo di inficiare il regolare svolgimento dei processi ma anche di diventare endemica. Un'emergenza che, come ben chiarisce la cronista de Il Messaggero, ha portato "il presidente del Tribunale di Roma a stabilire un tetto nel numero dei processi per mafia". In questo modo "si riduce la funzione giudiziaria a una mera formalità - ha commentato al quotidiano romano Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma - Il dibattimento dovrebbe essere il cuore del procedimento penale, invece così viene svilito. La sostituzione in corsa del magistrato non può essere la soluzione al deficit d'organico. E comunque dovrebbe essere l'eccezione, non la regola".
Il principio di immutabilità del giudice
Il "cambio in corsa" del magistrato dovrebbe essere un evento sporadico se non addirittura eccezionale. La sentenza Bajrami delle sezioni unite della Corte di Cassazione ha abrogato, nel 2019. il principio di immutabilità del giudice. "Immaginiamo di essere sotto processo e che la decisione sulla innocenza o colpevolezza la prenda un magistrato diverso da quello che ha seguito tutto il dibattimento. - ha concluso l'avvocato Comi - Non conosce nulla, arriva e decide. Si può chiamare processo rispettoso dei diritti fondamentali delle persone? È una giustizia credibile? Tutto questo nel tribunale più grande d'Europa".
Lede il diritto all’immediatezza del processo. Processi penali impazziti: l’assurdo turn over dei giudici. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 23 Ottobre 2022
Abbiamo più volte ricordato quanto sia fondamentale una regola del processo penale che si chiama “immediatezza della deliberazione”: il giudice che emette la sentenza deve essere il medesimo che ha partecipato all’intero dibattimento, ha ascoltato i testimoni, i consulenti, i periti, ed ha acquisito (o non acquisito) documenti ed altre prove. Se il giudice cambia, occorre ripetere l’istruttoria (“a pena di nullità assoluta” proclama severamente la norma).
Abbiamo anche detto che questo elementare principio di civiltà, sancito senza equivoci dall’art. 525 del nostro codice di rito, è stato letteralmente sovvertito dalla interpretazione giurisprudenziale, con un significativo contributo, purtroppo, della stessa Corte Costituzionale. Di fatto, ora la situazione è l’opposto di quanto previsto dalla norma, formalmente ancora vigente: se cambia il giudice, pazienza. Il giudice nuovo si legga i verbali (se ne ha voglia), si faccia un’idea di quello che è successo, e pronunci la sentenza. La cosa più scandalosa – anche in questo ci ripetiamo, ma ne vale la pena, così comprenderete meglio il fatto che mi appresto a raccontarvi – è la logica che ha ispirato questo sovvertimento interpretativo.
Chi pretende di ripetere il processo per non essere giudicato da un giudice diverso da quello che ha raccolto la prova attenta alla ragionevole durata del processo, e mena il can per l’aia, secondo inveterato costume degli avvocati difensori. Invece, tutti zitti sulle ragioni per le quali il giudice cambia, che evidentemente sono considerate convenzionalmente nobilissime e comunque insindacabili. Peccato che, nel 90% dei casi, sono ragioni di carriera: voglio cambiare sezione, o funzione, o sede, e quindi arrangiatevi. Da quando le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente sancito questi principi, e queste priorità valoriali, in tutti i Tribunali italiani si è scatenata – complici ovviamente anche le croniche carenze di organico – una sarabanda che definire indecorosa è il minimo che si possa dire. Inizi i processi con un giudice (o tre, se il giudizio è collegiale) e da quel momento assisti inerme a un continuo modificarsi del giudicante.
Recentemente a Roma un nutrito gruppo di valorosi Colleghi ha denunciato un caso che ha davvero dell’incredibile. Si tratta di un processo a carico di numerosi imputati di gravi fatti di estorsione ed interposizione fittizia, aggravate dal metodo mafioso. Ebbene, in un processo di questa complessità, che prevede in caso di condanna pene davvero molto gravi, è accaduto in pratica che in nessuna udienza il collegio fosse il medesimo dell’udienza precedente. Ad ogni udienza almeno un giudice, ma a volte anche due, erano nuovi. Facciamo qualche esempio, in modo che la denunzia del fatto non scolori in una eccessiva genericità.
Il Collegio che ammette le prove è subito diverso da quello che inizia a raccoglierle. E sia. Ma si veda l’esame delle persone offese: due udienze, alla seconda cambia un giudice. Esame – ovviamente cruciale – della Polizia Giudiziaria che ha svolto le indagini, e degli altri testi dell’accusa: cinque udienze. Dopo la prima udienza, a quella successiva ne cambiano due; alla terza altri due; alla quarta altri due, alla quinta uno. Udienze per esame testi della difesa: quattro, ad ognuna è cambiato uno dei tre giudici. Ma l’acme si raggiunge nella fase della discussione. La requisitoria del Pubblico Ministero avviene in presenza di due giudici nuovi su tre (e parliamo di due nuovi giudici che non avevano mai partecipato nemmeno ad una delle udienze precedenti).
Alla udienza fissata per l’inizio delle arringhe difensive, cambia nuovamente uno dei tre giudici, che però si rende conto di versare in una condizione di incompatibilità; quindi l’udienza viene sospesa, e si va alla ricerca di un qualsivoglia altro giudice che possa comporre il collegio. Quando infine si è trovato il malcapitato (che non sa nulla di nulla del processo, ovviamente, e non ha nemmeno sentito la requisitoria del pm), i difensori sollevano tutte le eccezioni possibili, ma il Tribunale ritiene di superarle senza battere ciglio. La fine della storia la apprenderemo dalle cronache.
Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti. Mettetevi nei panni degli imputati, con onestà intellettuale, e ditemi cosa provereste ad essere giudicati in queste inaudite condizioni. Ecco, quando si parla di regole processuali noi avvocati siamo sempre gli azzeccagarbugli che piantano grane per non fare i processi. Ed usiamo termini di difficile comprensione, quali appunto quelli del diritto alla “immediatezza del processo”. Forse oggi avete capito un po’ meglio di cosa stiamo parlando; e cioè della libertà e dei diritti fondamentali di tutti e di ciascuno di noi. E di come essi siano oggi quotidianamente mortificati ed umiliati, nel generale disinteresse. Si tratta, tuttavia, di non mollare; e noi, statene certi, non molliamo.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Respinta la richiesta di alcune ore di libertà: "Non è affidabile". Domiciliari isolato: “Ha 70 anni, non può fare neanche spesa: aveva provato a rubare un maglione”. Vito Califano su Il Riformista il 19 Ottobre 2022
La denuncia del suo avvocato descrive un uomo solo in casa, con problemi di salute, agli arresti domiciliari nella sua abitazione dopo una condanna per il tentato furto di un maglione in un grande magazzino. Così solo che anche fare la spesa può diventare un’impresa. Quell’uomo ha 70 anni, leccese, e vive questa situazione dallo scorso agosto. E agli arresti domiciliari l’uomo dovrebbe rimanere fino al prossimo giugno.
Il legale Giuseppe Russo ha reso noto il caso, preoccupato dalla situazione soprattutto dopo che il magistrato del Tribunale di Sorveglianza ha respinto l’istanza avanzata per far ottenere alcune ore di libertà all’uomo per permettergli di uscire e provvedere egli stesso alle proprie necessità oltre che per favorire al condannato un graduale reinserimento sociale.
“Il magistrato ha ritenuto al momento di non accogliere la richiesta ritenendo il mio assistito non affidabile“, ha spiegato l’avvocato a Il Corriere del Mezzogiorno Puglia. “La sua è una situazione al limite del paradosso. Non ha nessuno. L’unica figlia dopo aver provveduto per alcuni mesi a lui, ora con la riapertura delle scuole, non può più perché lavora ed è madre di quattro figli – ha aggiunto ancora Russo – Senza nessun aiuto, ultrasettantenne, che deve fare questa persona da sola chiusa in casa, in questo rione dove non c’è niente nel raggio di due chilometri e non può neppure chiedere ad un vicino di comprargli del pane e della pasta?”.
L’avvocato ha precisato che il 70enne aveva ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali alla fine del processo ma dopo aver tenuto alcune condotte illecite – sorpreso una volta alla guida senza patente e in compagnia di persone con precedenti penali – era finito agli arresti domiciliari.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Così il processo diventò vittima collaterale dell’emergenza terrorismo. La lotta alla mafia e al terrorismo hanno determinato una torsione di diritti e garanzie. È così che la magistratura ha perseguito non più il reato ma il fenomeno. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 17 ottobre 2022.
Credo sia difficile delineare – anche solo parzialmente – la direttrice lungo la quale si è venuto evolvendo il sistema della giustizia penale, anche se lo si volesse limitare al processo penale. Ciò non significa che, seppure con i riferiti limiti, qualche riflessione non possa essere sviluppata.
È dato acquisito che la bonifica del codice di procedura penale avviata dalla Corte costituzionale si sia in qualche modo arenata con il dispiegarsi del fenomeno terroristico di matrice domestica. In quel tempo è chiaramente emersa la consapevolezza che significativi risultati in termini di accertamento di responsabilità potevano ottenersi non tanto con l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) quanto attraverso lo strumento del processo. È la cosiddetta stagione dell’emergenza, alla quale deve riconoscersi (o attribuirsi) il fatto di essere stata l’incubatrice delle modifiche sostanziali, ma soprattutto processuali, relativamente ai reati di criminalità organizzata.
Nascono e si sviluppano in questa stagione – dello stragismo e del terrorismo – le espressioni “lotta”, “contrasto” e “fenomeni criminali”. Inevitabilmente il processo subisce una “torsione” finalistica. Certamente vengono ridefinite le ipotesi delittuose, man mano che i fatti criminali evidenziano significative manifestazioni fattuali, ma è il processo, rimodulato nei suoi sviluppi e nei suoi strumenti, ad assumere rilievo. È inevitabile che la tenuta democratica del Paese, e la stessa tenuta delle istituzioni, siano messe a dura prova da una criminalità così strutturata se anche lo Stato, la magistratura, gli organi investigativi, l’intelligence, operando in sinergia, non affrontano con la legalità (le leggi del Parlamento) le diffuse e radicate questioni criminali che rischiano di minare la stessa sopravvivenza del Paese.
È inevitabile che, fermi i confini invalidabili tracciati dalla Corte costituzionale, spetti al Parlamento affrontare l’emergenza con leggi che mettono in tensione princìpi e garanzie. Democrazia e diritti, processo e criminalità. Su questo elemento, in qualche modo fisiologico del rapporto tra criminalità e giustizia penale si è inserito, spesso molto al di là del dato “fisiologico”, un elemento finalistico: l’azione di lotta e di contrasto, tesa non già al solo accertamento, ma per così dire finalizzata a piegare il processo al risultato di argine, non già al reato, ma al fenomeno, in una dimensione che, collegando i due elementi oggettivo e soggettivo, altera la natura e l’essenza del processo penale, strumento di verifica di responsabilità e di esistenza del fatto delittuoso.
Certo il processo, nato per verificare fatti isolati, spesso oggetto di semplice accertamento di responsabilità, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa, nonché nell’espansione territoriale dei fatti che supera gli ambiti ristretti delle competenze storicamente ritagliate per una diversa tipologia di reati. Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la politica, il Parlamento, la legge. Della predisposizione di questo strumentario, votato all’acquisizione di questo arsenale (ancorché non sacro ma egualmente funzionale) si è impadronita la politica, una larga parte della politica, mossa da esigenze securitarie, definite anche sovraniste e populiste, in quanto originate e alimentate dal cortocircuito tra politica (parte della società) e popolo (parte di esso) che lo ha progressivamente esteso e ne fa fatto una prospettazione sempre più ampia. In altri termini, il meccanismo ha progressivamente contagiato larghi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità.
Non sono mancate lungo questo percorso che ha attraversato la fine e l’inizio di questo secolo anche delle controspinte, evidenziatesi da interventi sulla Costituzione (art. 111), sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, con varietà di effetti che non hanno alterato, tuttavia, il non marginale retrogusto di sapore autoritario della nostra legislazione e della sua interpretazione giurisprudenziale. È facile attribuire a queste situazioni – vere o comunque di non agevole quantificazione – la responsabilità di una progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase investigativa delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice delle indagini preliminari che troppo spesso asseconda la Procura avallandone acriticamente le iniziative.
Sarebbe, tuttavia, riduttivo in contesti così complessi, attribuire solo a questo elemento la matrice del progressivo indebolimento dell’impianto garantista, al di là del vulnus di sistema determinato dalle notissime decisioni della Corte costituzionale del 1992, figlie della ricordata stagione. In altri termini, non sono solo le spinte e le propensioni riferite, a incidere sul sistema delle garanzie, ma altre visioni della funzione delle regole finiscono per intaccare, erodendole, quelle forme consolidate di tutela dei diritti non solo individuali, ma che pur sotto questa dimensione incidono su aspetti di garanzia più ampi.
Il riferimento è alle istanze sempre più accentuate tese alla semplificazione, all’economicità, alla compressione temporale, alla dimensione sostanzialistica, alla smaterializzazione in una dimensione ispirata ad una logica di funzionalità della macchina giudiziaria. Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano un’agenda di riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici, attraverso azioni organizzative che non sono mai solo tali, essendovi sottese scelte processuali valoriali; governata dalla giurisprudenza cosiddetta creativa, finiscono per modellare il processo in termini di efficienza, pur nell’affermata esigenza, ritenuta però in qualche modo subvalente, delle garanzie. Invero, non è un elemento inedito, al quale sono funzionali istituti come le sanatorie, la mera irregolarità, il raggiungimento dello scopo, gli oneri a carico delle parti private, la natura ordinatoria dei termini, la sanzione di inammissibilità.
Sono tutte occasioni per adeguare il rito, come – ecco il riferimento al virus – nel caso dell’emergenza epidemiologica, colta quale occasione per adeguare i comportamenti alle mutate situazioni ambientali, per poi trasformare le eccezioni, destinate alla temporaneità, in regole permanenti. Al rispetto formale delle regole, si affianca una interpretazione meno rigorosa, sfocata che tende a fare del giudice il codificatore delle regole attraverso la prassi e i comportamenti formalmente non irrituali, spesso delineati attraverso correzioni attuate anche con la softlaw (normativa secondaria). La logica si attua anche attraverso percorsi processuali acognitivi e induzioni a comportamenti che pongono alternative da “soave inquisizione” suggerendo adesioni vantaggiose a fronte di incerti esiti processuali.
La logica dell’accertamento investigativo, del resto, non si innesta in una fase a forte connotazione garantista, come era alle origini del modello accusatorio, ma in un percorso ibrido, con accentuati recuperi del materiale d’accusa e da marcati interventi del giudicante. C’è sicuramente diversità tra una consapevole – ancorché agevolata – accettazione delle proprie responsabilità, alla quale non è estranea anche una funzione rieducativa, ed una scelta indotta da molteplici fattori condizionanti (economici, sociali), oltre a quelli più strettamente processuali. Inevitabilmente, l’accentuazione dell’autoritarismo favorisce logiche ispirate a deformare il processo dei suoi connotati storici per collocarlo in una dimensione efficientista, spesso ispirata ad altri modelli processuali dalle cui impostazioni siamo lontani per la forte diversità dei contesti storici, politici e strutturali di quelle giurisdizioni.
Entro questa tenaglia – da un lato pulsioni autoritarie e dall’altro propensioni efficientiste, anche variamente combinate tra loro – si snatura il senso “classico” e “storico” del processo penale, che spesso smarrisce la propria essenza. Per un verso, in relazione alle emergenze criminali (o presunte tali) si accentuano le spinte repressive; dall’altro, per la criminalità a medio-bassa intensità si pregiudica la sua natura sostanziale-qualitativa che le è propria, considerati i valori in gioco, per approdare a una burocratico-quantitativa di impostazione quasi aziendalista che dovrebbe esserle estranea, sempre considerati i beni coinvolti.
Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 12 ottobre 2022.
Cos' hanno in comune il tossicodipendente marocchino Youssef Fahmi e il grande imprenditore vinicolo ed ex monarca della Banca Popolare di Vicenza Gianni Zonin?
L'immigrato disoccupato, sbandato e schiavo dell'eroina e l'imprenditore-banchiere sono stati condannati alla stessa pena: poco meno di quattro anni di carcere. Per l'esattezza, il tossico si è beccato tre anni e otto mesi per avere preso per il collo un ragazzo rubandogli nel marzo 2020 uno smartphone per strada, il banchiere a tre mesi in più (tre anni e undici mesi in appello: la metà della condanna in primo grado) perché ritenuto il principale responsabile del buco di oltre 6 miliardi di euro della Bpv che ridusse sul lastrico 127 mila risparmiatori italiani concentrati soprattutto nel mitico Nordest.
Due pesi e due misure così abissalmente sproporzionati da togliere il fiato.
Tanto più davanti alla lettura degli atti della commissione d'inchiesta usciti proprio in questi giorni. Basti prendere la deposizione in Parlamento di Marino Smiderle, il cronista (oggi direttore del Giornale di Vicenza ) che più ha seguito tutta la vicenda. Dove si ricordano gli inaccettabili vuoti legislativi sulle responsabilità delle «società cooperative a responsabilità limitata non quotate, nel caso specifico, banche popolari non quotate» che permisero a chi le guidava «di rimanere al comando per decenni senza detenere quote di capitale significative» e costruire castelli di carta nel silenzio (se non talora tra gli elogi) di chi doveva controllare, inclusa Bankitalia.
Fino al crac di Lehman Brothers, quando le banche precipitarono e gli azionisti della Popolare berica esultavano: «Noi siamo sempre attorno ai 60 euro!» Una quotazione casareccia. Fasulla. Che per altri cinque anni illuse tutti, fino all'obbligo della trasformazione in Spa imposto dall'Europa e introdotto dall'oggi al domani da Renzi, e tutto crollò. Travolgendo i risparmiatori che, imbrogliati dai funzionari delle filiali Bpv (loro stessi imbrogliati e rovinati dai vertici) avevano addirittura finanziato nuovi aumenti di capitale convinti di aver messi «i schei» al sicuro come fossero depositati «nel "libretto" o, come la chiamava Zonin, nella "musina"». Cioè il salvadanaio di cui si fidavano ciecamente perché veneto: «nostro, de nialtri». Un'illusione tradita.
La classifica del Sole 24 Ore: la città è decima. Perché a Napoli i cittadini denunciano meno che nelle altre città: la storia del salumiere Scarciello. Francesca Sabella su Il Riformista il 4 Ottobre 2022.
Il Sole 24 ore ha tracciato la “mappa del crimine” con informazioni estratte dalla banca dati interforze dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno relative all’anno 2021. Ebbene, con grande sorpresa, soprattutto di coloro che continuamente indicano Napoli come la città peggiore del Paese, è Milano la città nella quale si consumano più reati e si registra il maggior numero di denunce. Ora, frenate l’entusiasmo, siamo comunque alla decima posizione nella top ten delle grandi città con più reati, ma c’è da dire anche che qui i cittadini sono più restii a denunciare. Andiamo con ordine.
Milano, quindi, si conferma al vertice dell’Indice della criminalità, che entrerà nell’indagine della Qualità della Vita 2022 a fine anno, con 193.749 reati denunciati nel corso del 2021: 5.985 ogni 100mila abitanti. Per dare un peso al fenomeno, la cifra risulta pari alla somma di tutti i crimini denunciati nello stesso arco di tempo a L’Aquila, Pordenone e Oristano, le tre province con meno densità di illeciti che si posizionano in fondo alla classifica. E così tra le 107 province italiane Milano è quella con più furti rilevati ogni 100mila abitanti, in particolare nei negozi e nelle auto in sosta; è settima per denunce di violenze sessuali; seconda per rapine in pubblica via; terza per associazioni per delinquere. Seguono per densità di crimini le altre grandi città: tra le prime dieci classificate si incontrano – oltre a Milano – anche Torino (3ª), Bologna (4ª), Roma (5ª), Firenze (7ª) e Napoli (10ª).
Sì, la sorpresa: Napoli è in fondo alla classifica per densità di atti criminali. Ma è prima per furti con strappo e di motocicli, ma anche di contrabbando. Ma qui c’è un ragionamento importante da fare: più denunce, però, non significa per forza meno sicurezza. Ma anche perché i dati sulle denunce riflettono la propensione dei cittadini a presentarle, legata a diversi fattori: la differente “soglia del dolore” della cittadinanza verso il crimine; il grado di fiducia nelle forze dell’Ordine; la più o meno efficace presenza delle istituzioni sul territorio. Soffermiamoci sulla propensione dei cittadini di Napoli a sporgere denuncia, sono centinaia le storie degli imprenditori che raccontano della paura di denunciare e rimanere poi soli, abbandonati dallo Stato e preda della criminalità organizzata che si ha avuto il coraggio di denunciare.
L’omertà non è un problema solo del Sud, sia chiaro, ma che qui le istituzioni abbiano abbandonato fette delle città è altrettanto chiaro e che questo si rifletta in una sfiducia nei confronti di forze dell’ordine e politica, anche. La frase che centinaia di volte abbiamo sentito dire è “ma che denuncio a fare” oppure “se denuncio mi fanno pure qualcosa”. Sono frasi che fanno parte del quotidiano di questa città. La sfiducia nelle forze dell’ordine e nella giustizia c’è e ed è concreta. Certo il decimo posto fa piacere, ma bisogna considerare il perché Napoli va a guadagnarsi l’ultima posizione. Basti pensare che in città la metà dei cittadini non denuncia i reati di camorra per paura di ritorsioni. Parliamo di un numero enorme di reati che non compaiono nei database della Polizia e quindi nelle classifiche. E basta ricordare due storie che fanno parte di una lista lunghissima di imprenditori che hanno denunciato e poi sono rimasti soli.
Luigi Leonardi, denunciò la camorra che gli chiese il pizzo per il suo negozio di articoli di illuminazione, lasciato solo dallo Stato e poi addirittura sospettato lui stesso di aver commesso un reato. Lui come il salumiere Ciro Scarciello che dopo aver denunciato la camorra, fu costretto a chiudere il suo negozio a Forcella. Sono solo alcuni esempi. Una bella notizia il decimo posto per Napoli, ma guardiamo oltre i numeri.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Risarcimento del danno: tutto quello che c'è da sapere. Il risarcimento del danno, sia questo patrimoniale o non patrimoniale, ha una logica proprietaria che si estende al diritto penale come a quello civile. Ecco come funziona. Giuditta Mosca il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.
I criteri del risarcimento del danno hanno una natura variegata e complessa che vive di un lessico proprio e che va approfondita per carpirne la filosofia e gli obiettivi di fondo. Qui si parla delle responsabilità contrattuali ed extracontrattuali e delle pratiche risarcitorie in ambito penale e civile, proponendo al lettore le sentenze che evidenziano i principi e il funzionamento delle logiche attualmente applicate nell’ordinamento giuridico italiano. Partiamo dalla definizione di risarcimento del danno.
Il risarcimento del danno
È descritto all’articolo 2043 del Codice civile il quale sancisce come un atto doloso o colposo che arrechi un danno ingiusto debba essere risarcito da chi lo cagiona. Il medesimo articolo rimanda al capo 2058 che assume importanza, giacché prescrive che il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica ma anche che il giudice possa decidere altrimenti se questa risulta insopportabile per chi deve risarcire il danno.
In parole più immediate, qualora fosse danneggiato un bene fisico, se ne può chiedere la sostituzione o l’equivalente in denaro per ripararlo. Il giudice può decidere per quest’ultima se il debitore non può affrontare il costo della sostituzione integrale. La legge è orientata a riconoscere la reintegrazione della forma specifica perché è quella che più tiene conto dell’interesse del danneggiato e del danneggiatore e che meglio incarna i principi di solidarietà descritti nell’articolo 2 della Costituzione.
Il danno può avere un’origine illecita contrattuale, extracontrattuale oppure precontrattuale. Nel primo caso ci si trova nell’ambito di una condotta che lede i principi stabiliti in un contratto mentre, nel secondo caso, vengono lesi i principi della convivenza della comunità. La responsabilità precontrattuale ricorre nel momento in cui, nella fase in cui si sta formando un contratto, una delle parti non rispetta gli obblighi eventualmente previsti. Per tutte queste tre condizioni valgono le sanzioni del codice civile, ossia il risarcimento del danno.
Responsabilità civile e responsabilità penale
Quando si lede una delle norme del diritto civile si creano i presupposti per l’omonima responsabilità. In questo ambito si situano, per esempio, la responsabilità medica, quella degli avvocati e dei professionisti in genere. La responsabilità civile prevede il risarcimento del danno che consta sia dei danni patrimoniali che di quelli non patrimoniali, ossia i danni alla persona.
A differenza di quanto si possa credere, la differenza tra responsabilità civile e penale non ha nulla a che vedere con la gravità del fatto, ma riguarda la natura delle norme violate e nelle sanzioni che queste comportano. Nei perimetri della causa civili si può ottenere un risarcimento del danno, nei confini della legge penale si situano invece le applicazioni delle pene.
L’indennizzo
Come scritto, il risarcimento del danno è il metodo usato per rimediare a una condotta illecita e ha il compito di ripristinare la situazione a come era prima che il danno fosse inferto. L’indennizzo esce da questo canone ed è di norma riconosciuto a chi ha subito un pregiudizio non proveniente da un atto illecito o da responsabilità civile. I libri di legge citano come esempio quello dell’espropriazione per pubblica utilità. Pure essendo del tutto lecita, chi perde la proprietà che possedeva riceve un indennizzo, ovvero una indennità.
I danni non patrimoniali
Quando il danno è facilmente quantificabile, per esempio la riparazione di un veicolo coinvolto in un incidente, la situazione è chiara e l’importo del risarcimento anche. Quando si entra nella complicata materia dei danni non patrimoniali, ossia i danni alla persona, la questione si fa più interessante.
Il danno non patrimoniale identifica i pregiudizi che susseguono la lesione dei diritti della persona e non hanno rilievo economico. Frase che merita un approfondimento e che non si esaurisce nelle disposizioni dell’articolo 2059 del Codice civile il quale è stato reinterpretato da quelle che sono note con il nome di “Sentenze di San Martino”, ovvero le sentenze 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008 che hanno chiarito quali sono le voci che sottostanno al risarcimento in caso di danno alle persone. Il danno non patrimoniale è stato quindi circoscritto a quello biologico e quello morale ed esistenziale che meritano di essere quantificati come voci distinte e non più tutte insieme.
Il danno biologico è estensione dell’articolo 139 del Codice delle assicurazioni private e, pure riferendosi a lesioni di entità non superiori al 9% di invalidità causate da sinistri stradali, viene applicata a tutte le situazioni nelle quali un individuo subisce danni causati da condotte illecite. Rientra quindi nella sfera del danno biologico, per esempio, anche la responsabilità medica.
Si parla quindi di microlesioni che, per la disciplina, sono quelle temporanee o permanenti che hanno conseguenze sulle attività quotidiane e sulla vita relazionale di chi le ha subite. In questa definizione non sono però contemplate le ripercussioni che le lesioni hanno sulla capacità del danneggiato di produrre reddito.
Le lesioni superiori al 9% vengono quantificate in base alle “tabelle di Milano” le quali sono punto di riferimento in tutto il Paese.
Il danno esistenziale è argomento controverso, perché con il passare degli anni diverse sentenze della Cassazione hanno più volte corretto il tenore del danno esistenziale volendolo prima collegare a quello morale e poi ritornando a uno stato in cui le due tipologie di danno fossero da considerare ognuna per sé. Ciò che ne è emerso è che il danno esistenziale può essere riconosciuto a fronte di un fatto che lede i diritti inviolabili di una persona. Deve trattarsi di una lesione di un certo rilievo (per quanto il termine possa essere vago) e il danno non può essere una condizione di fastidio o di disagio.
Il danno morale riguarda una lesione fisica o la perdita di un congiunto o di una persona cara e si propone di riparare una sofferenza "interiore". Il danno morale veniva riconosciuto solo alle vittime di reati penali ma, con gli interventi della Cassazione, accompagna di norma il danno biologico e, anche in questo caso, non è collegato alla capacità del danneggiato di generare reddito. Per la Cassazione deve trattarsi di un dolore sofferto che non degeneri in conseguenze patologiche. Poiché il danno morale rimanda al danno biologico, non obbliga chi ne soffre di richiederne esplicitamente il risarcimento, è di fatto sufficiente aumentare l’importo del danno biologico.
Il risarcimento del danno patrimoniale
Riguarda gli impatti che un illecito extracontrattuale ha sul patrimonio del danneggiato. È disciplinato dagli articoli 1223, 1226 e 2056 del Codice civile e si suddivide in:
Danno emergente, ossia un danno immediato che impatta sulla diminuzione delle sostanze patrimoniali del danneggiato. Un esempio è riconducibile alle spese necessarie alla riparazione di una vettura in seguito a un sinistro ma anche ai costi di un intervento reso necessario da una prestazione male effettuata da un professionista.
Il lucro cessante è relativo al danno futuro di un mancato guadagno. Il risarcimento è riconosciuto dal giudice soltanto quando c’è la certezza oppure una prova rigorosa della sua probabilità.
I criteri per il risarcimento
Vigono tre criteri: il risarcimento in forma specifica, il risarcimento equivalente e la via equitativa.
Il risarcimento del danno in forma specifica permette di ripristinare la situazione a come era prima del danno. Se questa formula risulta onerosa per chi è chiamato a risarcire, il giudice può ricorrere al risarcimento equivalente che, peraltro, è la via più canonica mediante la quale un giudice individua una somma che traduca in denaro il valore il danno.
Infine, il risarcimento del danno in via equitativa, è la formula usata quando un danno è certo ma difficilmente quantificabile. Si applica sia alle violazioni di tipo contrattuale sia a quelle extracontrattuali e, nel valutare il risarcimento, occorre esaminare la specificità del singolo caso senza sovrastimarlo o sottostimarlo.
E nel processo penale?
La persona offesa può chiedere il risarcimento del danno cagionato da un reato e, per farlo, può:
Costituirsi parte civile nello svolgimento del procedimento penale.
Avviare un’azione risarcitoria in ambito civile. In questo caso il processo civile è del tutto scisso da quello penale e, per principio, l’esito di un procedimento non inficia sull’altro, a meno che sul fronte penale non si sia già giunti almeno alla sentenza di primo grado
Gli illeciti di natura penale danno accesso al risarcimento del danno morale.
Settant’anni di processo per un’eredità: «Una vita persa a cercare giustizia». La denuncia: «Ormai non ne vale più nemmeno la pena: per pagare tutte le spese non basterebbe l’intera proprietà di cui stiamo discutendo ormai da una vita». Simona Musco su Il Dubbio l'1 settembre 2022.
«Ormai non ne vale più nemmeno la pena: per pagare tutte le spese non basterebbe non solo la mia parte, ma l’intera proprietà di cui stiamo discutendo ormai da una vita». Se mai servisse un esempio concreto della lunghezza dei processi civili in Italia, la storia di Antonietta Caparra e suo marito Vincenzo Crea sarebbe da manuale. I due, infatti, da 70 anni combattono in tribunale per poter finalmente mettere le mani sull’eredità lasciata alla donna dal padre, Salvatore Caparra, deceduto nel 1952. Antonietta, ultima sopravvissuta di 10 figli, ha infatti dovuto affrontare il giudizio di divisione ereditaria prima contro i quattro fratelli e poi contro gli eredi, «detentori a non domino dell’intero compendio ereditario».
Il giudizio, dopo 18 sentenze intermedie di tutte le giurisdizioni a favore della donna, si è inceppato per ben 14 anni davanti alla Corte d’appello di Catanzaro, che solo nel 2019 si è pronunciata, di fatto confermando la divisione decisa dal Tribunale di Crotone in primo grado nel 2005. Ma il 21 ottobre 2021, la Corte di Cassazione ha deciso di rinviare tutto di nuovo davanti ai giudici del capoluogo calabrese, dove ora inizierà un nuovo giudizio d’appello. A 87 anni, dunque, Antonietta Caparra nei suoi terreni non ha potuto piantare nemmeno una piantina. Così nel 2018 ha deciso di presentare un esposto al Csm, chiedendo di fare chiarezza sul comportamento dei giudici che si sono occupati del caso, rei, secondo la donna e il marito, di aver perso colpevolmente tempo. Quell’esposto, racconta oggi al Dubbio Vincenzo Crea, ex avvocato, è però finito nel nulla. «Ci è stato detto di rivolgerci all’autorità ordinaria», ha evidenziato l’uomo, che per risolvere la questione dovrebbe, dunque, rivolgersi ancora una volta ai giudici. Antonietta e suo marito le hanno provate tutte: dalla protesta con il presidente del tribunale a quella col giudice istruttore, passando per un appello al ministro della Giustizia. E nel frattempo hanno continuato a spendere soldi, osservando quel patrimonio farsi via via più esiguo, da dividere per un numero sempre crescente di eredi.
«Abbiamo già speso centinaia di migliaia di euro tra avvocati, perizie e viaggi. Ne avremo fatti almeno 400 – avevano protestato -. E nonostante tutto non abbiamo mai potuto mettere mano alle risorse che stiamo reclamando. Eppure ci sono diverse perizie a nostro favore. Non vogliamo niente di più rispetto a quello che ci tocca, solo la nostra parte». Anche perché, dicono i due, i giudici hanno più volte ribadito il diritto di tutti i figli all’eredità, disponendo la consulenza tecnica per determinare a chi assegnare cosa. La quota della signora Antonietta, però, nel frattempo è passata da 160 a 16 ettari. «Alla morte di mio padre ero appena tredicenne e quindi alla mercé dei miei fratelli, patologicamente attaccati alla terra», aveva segnalato nel suo esposto al Csm. Il processo d’appello, iniziato nel 2005, per anni è stato scandito da udienze interlocutorie ed inutili, «riservando le stesse domande platealmente infondate e più volte rigettate». Fino ad una sentenza interlocutoria «fuori del diritto», affermano, avendo escluso dalla collazione 533 ettari. «Esclusione illegale, non solo sotto il profilo costituzionale, ma anche perché le donazioni sono state concesse con la clausola donativa come “anticipata quota sulla futura quota legittima”, chiaramente implicante la collazione, totalmente ignorata in sentenza, come se non esistesse, dando luogo ad una sentenza antigiuridica e inqualificabile che favorisce i donatari, abusivi detentori dell’intero compendio dal 1952», si leggeva nell’esposto.
Una situazione che, dopo 50 anni di contenzioso, ha depauperato le risorse economiche della famiglia. Nel 2019, finalmente, la Corte d’appello di Catanzaro ha deciso la restituzione dei beni in conformità del progetto di divisione precedentemente approvato. E in nome del giusto processo e del principio di ragionevole durata, i giudici avevano applicato quanto previsto dal decreto legislativo numero 154 del 2013, contenente la disciplina transitoria della riforma della filiazione di cui alla legge numero 219 del 2012. Secondo i giudici di appello, dunque, la parificazione compiuta da tale legge tra i figli nati al di fuori del matrimonio e quelli invece nati all’interno del matrimonio era applicabile alla causa in questione, risolvendo la controversia in base alla norma sopravvenuta e, quindi, confermando quanto deciso in primo grado, circa la necessità di tenere conto anche delle donazioni ai fini della collazione. Secondo la Cassazione, però, la sentenza d’appello sarebbe errata «nel momento in cui, sia pur facendo richiamo all’intervento dello ius superveniens, ha disapplicato indebitamente le decisioni prese in punto di collazione con la precedente sentenza, in quanto in tal modo, ancorché motivando con il riferimento all’art. 111 Cost., ha riconosciuto un diritto senza che però fosse stata validamente proposta la domanda, in quanto la riforma della decisione non definitiva doveva avvenire tramite la sua impugnazione».
Insomma, come in un eterno gioco dell’oca, i protagonisti della vicenda sono costretti a tornare indietro di una casella, ancora una volta. «Mia moglie ha 87 anni e diverse patologie: in questo modo verrà privata della legittima, perché bisognerà rifare il progetto di divisione – spiega Crea -, il che richiederà anni. E la prima udienza è già stata rinviata al 6 dicembre». Un vero e proprio calvario per i due, che avevano denunciato l’irragionevole durata del processo a Palazzo dei Marescialli. «L’eccessivo tempo trascorso è di per sé dimostrativo di gravi responsabilità – aveva sottolineato Caparra -. La magistratura rappresenta un baluardo di legalità a cui nessun magistrato deve discostarsi».
Giustizia ingiusta. Prima in carcere e poi a processo: una persona su tre aspetta la sentenza dietro le sbarre. Viviana Lanza su Il Riformista il 28 Luglio 2022.
Carcere, diritti, giustizia. Se ne tornerà a parlare durante la prossima campagna elettorale, c’è da aspettarselo. Questi argomenti sono in genere molto buoni per riempire di contenuti discorsi e proclami politici, salvo poi essere abbandonati nel deserto di iniziative che separa le parole dai fatti. Uno degli scogli più grandi da superare, per chi davvero volesse affrontare seriamente il tema carcere è quello della detenzione preventiva. Cioè, il ricorso alla custodia cautelare che da extrema ratio, da adottare in casi di conclamata e reale pericolosità sociale, è finita per essere una pratica molto usata dai pm.
Tutto questo, in un sistema giustizia che non funziona come dovrebbe e che ha tempi di definizione dei processi estremamente lunghi, biblici si direbbe, genera drammi e casi di malagiustizia. Perché? Perché in molti casi la custodia cautelare si tramuta in una sorta di anticipazione della condanna, a prescindere quindi dall’esito del processo: della serie, prima ti sbattiamo in carcere e poi verifichiamo se sei innocente o no. Nei paesi dell’Unione europea un detenuto su cinque si trova in cella pur non essendo stato condannato per alcun crimine. SI contano in totale oltre 98mila persone in detenzione detentiva. In Italia circa un terzo della popolazione è in carcere in via cautelare. In Campania idem: su 6.687 detenuti presenti nelle carceri della regione si contano 4.367 detenuti con almeno una condanna e 2.500 che sono invece in cella senza ancora una condanna definitiva.
Tutto questo – sottolinea Openpolis riportando i dati di un’inchiesta di Deutsche welle – accade «nonostante gli studi suggeriscano che la detenzione preventiva, nella maggior parte dei casi, non sia necessaria. Oltre al fatto che ricorrere a modalità alternative per gestire persone non ancora condannate aiuterebbe a contestare il sovraffollamento carcerario. Un problema sentito in tutti i Paesi dell’Unione europea». Già, il sovraffollamento quello che ogni politico in campagna elettorale promette di voler contrastare e che poi puntualmente ignora. È bene ricordare che quando si parla di detenzione preventiva si parla di presunti innocenti per i quali non c’è stata ancora una sentenza, non una condanna definitiva. «Come evidenzia l’ultimo report del Consiglio d’Europa – ricorda Openpolis – si tratta di quasi 100mila persone detenute senza condanna per periodi estremamente variabili, che possono essere di alcuni mesi come di più di un anno, a seconda del Paese». Secondo gli studi condotti sulla detenzione preventiva, la maggior parte delle persone detenute preventivamente sono accusate di aver commesso crimini minori e in prevalenza sono stranieri, disoccupati e senzatetto.
Dati che stridono enormemente, soprattutto in Italia, con i principi costituzionali per cui il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio e non la soluzione ai drammi sociali e alle carenze delle istituzioni. Se si considera la condizione delle carceri in Europa, e in Italia (pensiamo, noi che siamo napoletani, a quel che sono Poggioreale, per esempio, carcere vecchio e superaffollato, o Santa Maria Capua Vetere, carcere senza acqua potabile), è chiaro che la detenzione preventiva si rivela particolarmente dura e devastante per una persona innocente fino a prova contraria. «Le persone possono essere rinchiuse per 23 ore al giorno e avere pochi contatti con il mondo esterno e poche attività a disposizione per trascorrere il tempo. Come mostra un recente studio – si legge nel report sulla detenzione preventiva – le misure di reintegrazione come il lavoro e i programmi sociali non sono messe a disposizione dei presunti innocenti, i quali sono inoltre esposti a una condizione di forte incertezza rispetto al proprio futuro». Una devastazione nella vita di troppi: dagli studi è emerso, infatti, che circa la metà dei casi di custodia cautelare terminano senza una condanna.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Vite sospese per anni, impigliate nell’attesa di un verdetto. Una malattia chiamata processo: quando tutto termina assolti o condannati resta un vuoto. Alberto Cisterna su Il Riformista il 21 Luglio 2022.
Esistono i “nonluoghi” insegnava Marc Augè. Spazi in cui le vite degli uomini si incrociano, si sfiorano senza tessere tra loro alcuna relazione. Ambiti in cui non si consuma neppure l’apparenza di un rapporto, in cui le individualità si contano, si sommano, ma senza che ciascuna vita abbia la minima rilevanza in sé considerata per gli altri. Trovarsi imputato in un processo, rispondere di un reato per anni e anni crea un “nonluogo” dell’anima, uno spazio indeterminato in cui la vita fluttua nella sola attesa di un verdetto.
Certo non tutta la vita, ma una parte importante di essa resta come sospesa, impigliata: aspetta, spera, dispera, impreca, blandisce, teme, minaccia. Sentimenti sprecati, emozioni indotte, paure provocate, speranze ondivaghe. Quando tutto termina, quando l’innocenza risuona si ha l’impressione di un vuoto da colmare, di nuove emozioni da sperimentare, di un guado da cercare nel fiume impetuoso della vita, forse, un po’ più a monte o, forse, un po’ più a valle e, comunque, altrove. Certo la malattia genera paesaggi interiori in gran parte simili. La guarigione lascia l’anima senza un obiettivo preciso da raggiungere e senza lo scopo verso il quale era proteso fino a poco prima ogni soffio vitale. La vita sanata dal male resta priva di quel velo di incertezza e di inquietudine che la rendeva, comunque, tenace, fragile, reattiva.
Poi tutto riprende a scorrere: un po’ più in là, in un altro punto. Nel punto in cui i rugosi e taglienti canali carsici della sofferenza restituiscono l’acqua alla luce del sole dopo averla imprigionata in mille meandri e dispersa per mille anfratti bui e tortuosi. Accettare il processo come si accetta una malattia, sperando in un’assoluzione che possa suonare come una guarigione. Ma assolti o guariti il problema resta lo stesso: dove guadare nuovamente il torrente dell’esistenza, a partire da quale roccia saltare gli argini per fare rientro a casa. L’illusione di tornare indietro, di poter volgere lo sguardo a un passato divenuto irraggiungibile e che, quindi, è definitivamente seppellito. Peggio, crogiolarsi nella retorica dell’ingiustizia, dell’autocommiserazione affidandosi al vaticinio ingannatore di una ricompensa impossibile, credendo alle sirene di una riparazione che nessuno può dispensare.
Oppure tener dritto lo sguardo in avanti e riprendere la vita esattamente nel punto in cui era stata sfregiata; senza rievocare sogni e progetti, divenuti ormai fantasmi, ma anche senza rinunciare al tentativo di riannodare fili, di ricomporre la tela, di ultimare i dettagli di un bozzetto rimasto incompiuto e senza autore per un calcio sferrato alla tavolozza dei colori. Quando uno dei più importanti intellettuali del secondo scorso, cacciato dal fascismo e privato della sua cattedra universitaria, fece ritorno – oltre venti anni dopo – nel suo ateneo trovò ad attenderlo i suoi nuovi studenti. Non erano, certo, quelli della sua ultima lezione bruscamente interrotta dai picchiatori in camicia nera. Erano altri, molti dei quali neppure nati al tempo dell’infamia. Il professore si accomodò sulla sua cattedra, la stessa di quel giorno di vergogna, sfogliò lentamente il libro di testo in un silenzio composto, alzò lo sguardo verso quei ragazzi e disse: «allora, se non sbaglio, eravamo rimasti a pagina…». Alberto Cisterna
La macchina della giustizia è in ginocchio: a forza di riforme non ci sono più giudici. Pensionamenti, stop ai concorsi, improcedibilità. Nell’organico mancano 1.442 magistrati e ci vorranno tre anni per vedere all’opera i nuovi assunti. E così i processi vanno al macero. Simone Alliva su L'Espresso il 18 Luglio 2022.
L’allarme lanciato dal Consiglio superiore della magistratura si dipana sotto silenzio, in tono minore. Scivola nella categoria “notizie smarrite”, quelle che circolano per un momento e poi si estinguono senza che nessuno le raccolga, sopraffatte dall’ondata delle altre. In tutta Italia mancano 1.442 magistrati rispetto quelli previsti in organico. Il tasso di scopertura a livello nazionale si avvicina ormai al 15 per cento.
L’enorme carico di lavoro vale bene un sotterfugio. I processi e la teoria della finzione: l’enorme carico di lavoro è solo un sotterfugio. Andrea R. Castaldo su Il Riformista il 17 Luglio 2022.
Make-believe è un’efficace espressione inglese che fotografa alla perfezione lo stato attuale della giustizia penale in Italia. Non esiste una parola corrispondente precisa in italiano, ma traducendo con ‘fare finta’ si rende bene l’idea. Come ben sanno attori e comprimari (avvocati, ma soprattutto imputati e vittime) che affollano quotidianamente i Tribunali, da anni va in scena lo spettacolo ormai rodato della finzione. E i segnali provenienti da differenti contesti non sono incoraggianti, al contrario inclinano al pessimismo. E allora proviamo a mettere ordine, quanto meno per dismettere quel velo di ipocrisia e retorica che peggiora la situazione.
Cominciando dalla definizione. Ora, la finzione ha un doppio volto e ciascuno di noi può scorgervi quello preferito. Nel linguaggio comune, la fictio viene convenzionalmente associata all’idea di menzogna, di inganno; ma nella versione nobile e più sofisticata assume contorni quasi positivi. Infatti, per i filosofi del finzionalismo la finzione svolge un ruolo fondamentale nell’individuazione della realtà, sino a costituirne una forma di manifestazione. Non resta che applicare il principio nella prassi. Entrando in un’aula di Tribunale qualsiasi in un giorno qualsiasi, l’incauto osservatore si troverà di fronte un ruolo di udienza particolarmente carico, anche di 30-40 processi. Una concezione meccanica della giustizia, che si muove per numeri e statistiche. Ma dietro l’assurdità delle cifre compaiono con prepotenza le persone e le loro storie, in un tessuto di sofferenze che coinvolge indifferentemente autore e vittima del reato. E dove lo sbocco finale inevitabilmente deluderà una parte. Ma la quantità non è l’unico problema, forse neppure quello maggiormente rilevante. Intanto è da considerare il peso. In senso fisico e virtuale.
Ogni fascicolo è composto da molte, troppe pagine, spesso da atti inutili. Un peso che si trasferisce sulle spalle del giudice, sotto forma di zavorra, che dovrà decidere. E per leggere (tutto?) occorre tempo e per comprendere e valutare ciò che si legge ne occorre di più. Peraltro, a ogni stazione della via crucis (le diverse fasi e i vari gradi del giudizio) il peso aumenta. Ora, bisogna compiere un ulteriore sforzo e dalla immaginazione calarsi nella realtà. Il nostro processo penale è (o almeno dovrebbe essere) imperniato sul modello accusatorio. In parole semplici, significa che la prova si forma nel contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo, privilegiandosi oralità e celerità. Ma se il dibattimento si celebra a distanza di anni dai fatti, l’attendibilità dei testimoni è inevitabilmente compromessa e i ‘non ricordo’ vengono costantemente suppliti dalle precedenti dichiarazioni scritte. La finzione si autolegittima. Ma il giudice, dopo l’esame di quel teste, non si ritira in camera di consiglio; semplicemente, rinvia a una prossima udienza; che si terrà a distanza di mesi, o addirittura di un anno.
Con l’inevitabile conseguenza che il suo giudizio si fonderà sulla trascrizione fredda nei verbali e non nelle ‘sensazioni’ raccolte in presenza. La ciliegina sulla torta è che sarà molto probabile che il giudice (monocratico o collegiale) che emetterà la sentenza non sarà neppure colui che ha partecipato alle precedenti udienze. L’immutabilità del decisore, un principio di civiltà ancor prima che di diritto, è stata infatti sacrificata sull’altare del pragmatismo nell’orientamento giurisprudenziale attuale, ammettendosi in buona sostanza la deroga, sulla base del consenso delle parti e con qualche garanzia formale e non sostanziale. Di nuovo la teoria della finzione. Se si prova a trasferire questo desolante affresco nei processi di criminalità organizzata o con una molteplicità di imputati, o dalle contestazioni tecniche, il modello (concreto) che viene fuori è francamente impressionante. Eppure, è ciò che quotidianamente si avvera in Italia.
Con l’aggravante che le indagini replicano il sistema della pesca a strascico: prendere ogni carta possibile per la selezione futura. ‘Fare finta’ diventa dunque una necessità: il carico di lavoro per essere smaltito vale bene un sotterfugio. La finzione della conoscenza e dello studio si accompagna però sul versante psicologico all’alibi del principio di affidamento, noto soprattutto nel lavoro di équipe. Confidare cioè nella correttezza e diligenza professionale di terzi. Che si traduce nel processo penale nel neutralizzare il senso di colpa auspicando che qualcun altro nella cinghia di trasmissione del processo avrà tempo (e voglia) di leggere e studiare. Make-believe, per l’appunto. Andrea R. Castaldo
Milano, il paradosso del processo ai quattro operatori Amsa: stesse accuse, ma tre modalità di pena diverse. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.
Due uomini e due donne hanno perso il posto perché filmati mentre portavano via alcuni oggetti destinati alla ricicleria di via Corelli. Ma due hanno avuto la libertà temporanea, una i servizi sociali e l’altra il carcere.
Due condannati liberi in attesa della modalità di espiazione della pena, una in carcere ma poi liberata e ammessa ai servizi sociali, la quarta invece detenuta da aprile: eppure tutti e quattro sono accomunati dalla medesima condotta (aver trattenuto per sé nel 2019 qualche oggetto consegnato alla ricicleria dell’Amsa dove lavoravano in via Corelli, e aver accettato qualche mancia da cittadini che da soli facevano fatica a portare gli oggetti); dagli stessi reati («peculato» e «corruzione», essendo questi operatori ecologici ritenuti «incaricati di pubblico servizio»); dalla stessa pena patteggiata a 2 anni e 2 mesi; e pure dalla stessa «sfortuna» di dover fare i conti con la novità della legge cosiddetta «Spazzacorrotti». Cioè con le norme che ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione impediscono l’espiazione della pena in misura alternativa al carcere, salvo prova di fattiva collaborazione. Eppure questo quartetto, in partenza analogo, si sfrangia in esiti tutti differenti sul sensibile tema della libertà personale.
La curiosa vicenda inizia quando Amsa, che evidentemente nutriva qualche sospetto, ingaggia una agenzia di polizia privata che filma i lavoratori mentre portano via magari lo schermo di un vecchio tv, cornici di quadri, vecchi notebook dismessi (presumibilmente venduti per poco a qualche mercatino), e mentre ricevono qualche spicciolo da cittadini (rimasti non identificati) che si facevano aiutare a portare in discarica oggetti ingombranti. Queste immagini vengono poste poi a base sia dei licenziamenti (sebbene infine tradottisi in una transazione con i lavoratori che accettano di perdere il posto a fronte al versamento da parte di Amsa di 10.000 euro), sia della denuncia alla Procura: la quale dai video trae le imputazioni di peculato (l’essersi appropriati in ragione del proprio ufficio di cose appartenenti alla pubblica amministrazione, quali sono i rifiuti una volta consegnati alle riciclatorìe) e corruzione (l’aver accettato denaro da chi si faceva aiutare).
I quattro lavoratori, due uomini e due donne, con il difensore Pasquale Cuomo scelgono di patteggiare 2 anni e 2 mesi senza sospensione condizionale. Ma in sede di esecuzione della pena la dea bendata della giustizia si rivela strabica. Ai due uomini, infatti, l’ufficio esecuzione della Procura (forse concentrato in quel momento sul rebus giuridico della tempistica della nuova legge) sospende l’ordine di carcerazione appena emesso, come se non ci fosse il problema dei reati ostativi. A una delle due donne, al contrario, l’ordine di carcerazione sempre della pm Adriana Blasco viene invece eseguito in forza appunto dell’obbligo dettato dalla «Spazzacorrotti», ma l’arrestata, quando da detenuta fa domanda di misura alternativa presso la Sacra Famiglia di Cesano Boscone e con donazione di 500 euro alla Caritas, viene ammessa dai giudici di sorveglianza ai servizi sociali anche senza collaborazione: perché? Perché «i fatti risultano integralmente accertati, e una eventuale collaborazione della detenuta non sembra essere utile e rilevante, visto che anche il pm non ha segnalato la necessità di svelare altre attività rimaste oscure». L’esatto contrario di quanto la quarta condannata legge invece nel provvedimento con il quale a inizio luglio altri giudici di sorveglianza rinviano la sua udienza a fine settembre, per chiedere ai pm se esistano «possibili spazi collaborativi» su «il denaro ricevuto da terze persone non identificate». Richiesta che pare ardua da esaudire, visto che nei video gli elargitori dei pochi euro non erano identificabili, i lavoratori non li conoscevano, e non vi furono indagini sul punto.
Gli italiani non credono più nella giustizia: crolla la fiducia nelle toghe. Il Rapporto Eurispes: per due cittadini su tre il sistema giudiziario non funziona. I mali principali? La lentezza dei processi e una legge che non è uguale per tutti... Simona Musco su Il Dubbio il 20 giugno 2022.
Sempre più giù. Il livello di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia è ai minimi storici. E chi pensa che i cittadini siano poco interessanti ai temi toccati dal referendum del 12 giugno, al netto dei risultati, probabilmente non ha un quadro chiaro della situazione. Perché se c’è una cosa sicura, almeno a guardare la fotografia scattata dal 34esimo rapporto Eurispes, è che una rivoluzione nel campo della giustizia al Paese non dispiacerebbe. Il rapporto è chiarissimo nella sua collezione di numeri e dati: due italiani su tre non sono soddisfatti del sistema giudiziario italiano.
I numeri sono sconfortanti: il 20,6% degli intervistati esprime un giudizio totalmente negativo, dichiarando di non avere per niente fiducia nella giustizia italiana. Ne ha poca, invece, il 45,3%, abbastanza il 28,2% e molta solo il 5,9%. Il dato più drammatico, però, riguarda l’identikit del cittadino disilluso: non solo adulti ormai inseriti nel mondo del lavoro e avvezzi a scandali come quello del caso Palamara o casi di malagiustizia storici, bensì giovani, soprattutto di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Ovvero coloro che rappresentano il futuro del Paese. In questa fascia “critica”, infatti, si trovano coloro che hanno poca (50,9%) o nessuna (22,4%) fiducia nella giustizia, giudizio negativo che va via via mitigandosi nelle fasce di età superiori, collocando i più fiduciosi tra coloro che hanno un’età compresa tra i 45 e i 65 anni. Una delle conseguenze più immediate è che se la fiducia scarseggia pensare di affidarsi alla giustizia sembra quasi una sciocchezza. Così più di un cittadino su quattro – il 27,3 per cento – preferisce non denunciare reati o illeciti. Il che non consente nemmeno di stilare statistiche affidabili sull’andamento dei reati nel nostro Paese.
Ma perché tanta riluttanza? L’11% confessa che i fastidi di un procedimento legale sono superiori ai vantaggi che potrebbe ottenere denunciando, il 10,1% dichiara di aver desistito dall’intento per non dover sostenere spese legali e il 6,2% perché sfiduciato nei confronti della giustizia.La sfiducia ha una gradazione diversa a seconda delle convinzioni politiche. I più disillusi sono coloro che non si sentono rappresentati da alcun partito (73,4%), ma la vera sorpresa è che anche gli elettori del Movimento 5 Stelle – partito iper giustizialista e da sempre idolatrante le toghe, a prescindere dai risultati – nutrono poca fiducia nel sistema, ovvero il 69,7%. Diffidenti anche gli elettori di sinistra (66,8%), mentre la diffidenza cala tra i sostenitori del centro (61,7%), della destra (58,9%), del centro-destra (57,5%) e del centro-sinistra (51,6%). A creare questa crepa tra cittadino e giustizia è soprattutto la lentezza cronica dei processi, lentezza sulla quale l’Europa ha puntato un faro, tant’è che i fondi del Pnrr sono legati a doppio filo alla capacità delle riforme in atto di ridurre i tempi elefantiaci della giustizia italiana.
Le lungaggini sono al primo posto in classifica per il 23% degli intervistati. Per il 19,8%, invece, il problema è un altro: a non convincere è che la legge sia uguale per tutti, lamentando, dunque, privilegi e ingiustizie a seconda di chi finisce nelle maglie della giustizia. Per il 13,6% il problema è nell’assenza di certezza della pena, mentre per l’11,9% le cause sono da ricercare nelle scelte sbagliate operate dai magistrati. L’11,6%, infine, sostiene che siano le leggi ad essere inadeguate. Solo l’8% è invece convinto che la giustizia in Italia funzioni bene. I temi del referendum vengono sfiorati nel capitolo che riguarda la responsabilità dei giudici e compiti della giustizia.
Secondo l’80,2% dei cittadini intervistati, i giudici dovrebbero essere giudicati con lo stesso sistema applicato a tutti i cittadini, affermazione che fa venire in mente il quesito – bocciato dalla Consulta – sulla responsabilità civile delle toghe. A sostenere il contrario è il 19,8%. Il che fa pensare che se tale domanda fosse stata ritenuta ammissibile dal giudice delle leggi, forse gli italiani si sarebbero precipitati a votare in massa. Per il 78,2% il primo compito della giustizia è garantire una pena adeguata per chi ha sbagliato, mentre al secondo posto, con il 60,5%, si piazza il recupero ed il reinserimento sociale di coloro che sono stati condannati per gli errori commessi – che vede contrario il 39,5% degli intervistati. Ma la sfiducia nel sistema giustizia è visibile anche nella convinzione manifestata dal 57,8% degli intervistati – secondo cui l’azione dei giudici sarebbe condizionata dall’appartenenza politica (è poco d’accordo con questa posizione il 31,1% e non lo è affatto l’11,1%).
Ma qual è la visione che gli italiani hanno della pena e delle sanzioni alternative? Il 29,5% afferma di non volere che coloro che si sono macchiati di colpe gravi abbiano l’opportunità di usufruire di misure alternative al carcere, come arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, eccetera, il 27,3% è favorevole all’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi, il 24,7% si schiera a favore dell’abolizione dell’ergastolo e “solo” il 15,8% si dice favorevole alla reintroduzione della pena di morte. Sono contrari all’abolizione dell’ergastolo soprattutto i cittadini di destra (82,7%) e quanti non si sentono politicamente rappresentati (82,9%). Di destra anche la maggior parte di quanti si dicono d’accordo con l’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi e dei provvedimenti alternativi alla detenzione per i reati più gravi. La possibilità di reintrodurre nel nostro ordinamento la pena di morte vede più consensi espressi dai cittadini di centro-destra (20,1%), seguiti dai 5 Stelle (19,7%) e da quelli di destra (19%).
Magistratura, mancano i cancellieri: giudici e pm vadano a fare le fotocopie. Iuri Maria Pirado su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.
Pare che in alcuni tribunali manchino i cancellieri, per capirsi quelli che tengono in ordine i fascicoli, aggiornano le agende delle udienze, rilasciano le copie degli atti, insomma fanno andare avanti l'ufficio. Nell'attesa che il problema di organico sia risolto, si potrebbe forse immaginare che il corpo giudiziario contribuisca autonomamente a prestare un po' di servizio supplementare.
Non sarà un dramma né rappresenterebbe una degradazione intollerabile dedicare un'oretta al giorno a fare fotocopie, a sistemare i faldoni e magari perché no, se occorre? - a spolverare le scrivanie e a svuotare i cestini. Al giovane magistrato, vincitore del concorso che gli attribuisce il potere di arrestare la gente, di sequestrare patrimoni e di confiscare i beni altrui, si potrà ben richiedere di fare ciò che in qualunque azienda fa del tutto normalmente persino il titolare, il quale senza tante storie si mette a spostare gli scatoloni quando il magazziniere è in malattia.
Nulla di punitivo, per carità. Il potere di accusare le persone e di scrivere le sentenze non lo toglie nessuno, però accanto a quello si potrebbe prevedere il dovere di rassettare le aule, un po' come al militare si consegna un fucile ma gli si chiede di farsi la branda. Dopotutto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura potranno anche realizzarsi nell'uso del toner e dello strofinaccio.
Rossi: «Gli errori giudiziari devono allarmare tutti. Anche chi ne è estraneo». Intervista al direttore della rivista "Questione giustizia". «Il processo ha tre gradi proprio per ridurre al minimo la possibilità di errore». Valentina Stella su Il Dubbio il 5 luglio 2022.
Qualche giorno fa Nello Rossi, direttore della rivista di Magistratura Democratica “Questione giustizia”, ha pubblicato un articolo dal titolo “Md e il caso Tortora. Ma l’errore interroga tutti i magistrati”‘.
Perché ha sentito l’esigenza a partire dal quel caso di compiere una “operazione verità” sulla fisionomia di Md?
La tragica vicenda di Enzo Tortora deve essere sempre presente ai cittadini e ai magistrati. Nello scriverne ho voluto rievocare la posizione critica assunta da Md sul processo e sull’operato di alcuni magistrati e le veementi reazioni che suscitò in seno alla corporazione. Per ribadire che il garantismo di Md, spesso investita da polemiche pretestuose, ha radici lontane. Ma mi interessava ancora di più riproporre il tema, spinosissimo, dell’errore nel giudizio penale.
Quando parla di “polemiche pretestuose” si riferisce a quelle di Matteo Renzi?
Anche. Penso al tormentone sul preteso “cordone sanitario” di Md intorno a Renzi e “alle sue idee”. Solo il Dubbio, in una recente intervista, mi ha consentito di sgonfiare questo palloncino. Riportando “esattamente” la mia frase critica sulla visita di Renzi al despota saudita Bin Salman, indicato dall’intelligence americana come il mandante del barbaro omicidio del giornalista Khashoggi. Altri giornali non hanno ritenuto utile porre a Renzi le classiche domande: in che contesto, quando e perché?
Lei scrive: ‘ L’errore del giudice e l’errore giudiziario sono eventi diversi’. Non tutti gli errori giudiziari dipendono da un errore del giudice?
Tutti gli errori commessi nel processo penale hanno un drammatico impatto su beni fondamentali come la libertà, l’onore, la reputazione. Ed il processo è articolato in tre gradi proprio per ridurre al minimo la possibilità dell’errore. Ma a volte l’errore si ripete sino alla sentenza definitiva perché la disattenzione, la superficialità, lo spirito burocratico che l’hanno generato coinvolgono tutta la catena dei pm e dei giudici ( e magari anche dei difensori). Questo è l’errore giudiziario in senso tecnico: un fallimento del sistema che deve allarmare “tutti” i magistrati, anche quelli che non l’hanno commesso, e che può essere ridotto al minimo solo mettendo in campo un estremo rigore professionale e la cultura del dubbio.
Mille risarcimenti all’anno tra ingiusta detenzione ed errori giudiziari sono fisiologici o patologici?
Benvenuta nel labirinto del nostro processo penale. In altri ordinamenti la decisione del primo giudice o della giuria popolare è immediatamente esecutiva, l’appello solo eventuale, il giudizio di una Corte suprema è una ipotesi eccezionale. È una giustizia più rapida della nostra e che subisce meno smentite. Da noi molti errori vengono accertati nei diversi gradi di giudizio e grazie ai procedimenti di controllo sulle misure cautelari; e questo è un bene. Ma il meccanismo si scarica sulla lunghezza dei processi e questa, a sua volta, può stimolare il ricorso a misure cautelari, che comunque dovrebbero essere sempre applicate con mano tremante.
La sen. Giulia Bongiorno ha stigmatizzato una intercettazione di un vostro iscritto riportata nel libro di Palamara: ‘ Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione dicendo noi non siamo giudici imparziali, o meglio non siamo degli indifferenti, siamo di parte, siamo dalla parte del più debole perché questo è scritto nella Costituzione non perché questo è una rivoluzione’. In cosa consiste la vostra parzialità?
Potenza dei ruoli! In veste di avvocato la sen. Bongiorno avrebbe avuto vita facile nel demolire quell’intercettazione. Nessun appartenente ad Md direbbe mai che essa è nata “con una cultura della corporazione” ma, se mai, l’esatto contrario. Dunque il maresciallo ha capito male e trascritto peggio. E lo stesso vale per il più sofisticato discorso sulla non indifferenza rispetto ai valori e sulla imparzialità nel giudicare. Se anche fosse vuoto di idee e “atarassico”, un magistrato avrebbe comunque esperienze di vita ( un divorzio, un furto subito, una lite condominiale e così via). E su tutte queste materie potrebbe essere chiamato a giudicare. Quello che si può e si deve pretendere è che il magistrato sappia tendersi verso l’imparzialità all’atto del decidere, facendo la tara del proprio vissuto e delle proprie idee in vista della rigorosa applicazione della legge. Questa consapevole tensione verso l’imparzialità è la più alta prestazione professionale del magistrato.
Lei rivendica che Md “da decenni è il luogo nel quale, con più coerenza e ampiezza di riflessioni, si difendono le garanzie processuali ed i diritti dei cittadini”. Gli altri gruppi associativi non lo fanno o lo fanno meno?
Non si tratta di stilare graduatorie. Ma sul terreno del garantismo ribadisco quello che ho detto e sono aperto ad ogni confronto.
Ma voi non siete le famose “toghe rosse” politicizzate in lotta con Silvio Berlusconi?
Detesto la definizione giornalistica di toghe rosse; ma fa troppo caldo per protestare con la necessaria vivacità. Però, sul filo dell’ironia, le regalo una piccola chicca. Da Procuratore aggiunto a Roma ho chiesto, silenziosamente e con la dovuta rapidità, l’archiviazione di una denuncia – infondata – sporta contro l’on. Silvio Berlusconi per il reato di manipolazione del mercato nella vicenda Alitalia. Ho fatto solo il mio dovere; ma conosco pubblici ministeri che hanno tenuto in piedi per anni procedimenti nei confronti di uomini politici e che, quando hanno chiesto, magari tardivamente, l’archiviazione, sono stati colmati di elogi e presentati come campioni della “giustizia giusta”.
Sta parlando di Carlo Nordio e della sua inchiesta su D’Alema?
Personalizzare sarebbe ingiustificato e riduttivo. Parlo di fenomeni, di tendenze. Non è materia di battibecchi stizzosi. Ma su questi temi un dibattito pubblico approfondito, serio e sereno, ci starebbe tutto.
L’Unione Camere penali è mobilitata in difesa del principio di immutabilità del giudice. Concorda che sia un problema quello di essere giudicati da un giudice che non ha raccolto la prova?
È disperante dover rispondere in tre righe a questa domanda. Comunque ci provo. L’immutabilità del giudice o della giuria popolare è un dogma assoluto in un processo immediato e concentrato in poche udienze. Per intenderci quello che si vede nei film americani. Ma quando questa immediatezza è pressocchè impossibile (per il numero dei processi, i carichi di lavoro, i rinvii a lungo termine della udienze etc) il principio dell’immutabilità del giudice può e deve essere ragionevolmente contemperato con altri principi ed esigenze. La sentenza delle Sezioni Unite, Bajrami, ha percorso questa strada, a mio avviso con equilibrio.
Ritiene che il sistema del disciplinare dei magistrati vada cambiato per rendere accessibili a tutti le motivazioni delle archiviazioni in nome di una giustizia sempre più trasparente?
Francamente no. E sono in buona compagnia, se ha presente le pronunce sul punto di Tar e Consiglio di Stato.
Sì, ho presente. Ne ho scritto qualche giorno fa. Prego continui.
I magistrati lavorano immersi nei più aspri conflitti e spesso sono dei parafulmini. Rendere pubblici – attraverso le motivazioni delle archiviazioni – i contenuti di esposti non solo infondati ma spesso solo insinuanti, malevoli, ostili significherebbe aprire in quest’ambito una rincorsa senza fine di polemiche, di ricorsi, controricorsi; e magari di denunce per diffamazione.
“Questione giustizia” rivendica quella stagione. Magistratura Democratica rivendica il caso Tortora e ne va fiera…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 3 Luglio 2022.
Questione Giustizia, la rivista di Magistratura Democratica diretta da Nello Rossi, ha appena scelto di pubblicare alcuni interessanti documenti relativi al caso Tortora. Essi ricostruiscono con chiarezza la dura presa di posizione che assunse all’epoca MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.
La ragione di questa scelta editoriale, per molti versi sorprendente, è chiarissima, ed è d’altronde rivendicata nell’editoriale di questo importante numero della rivista. Si intende orgogliosamente rivendicare una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. La magistratura italiana, si vuole dire insomma, non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.
La provocazione è coraggiosa e feconda, e merita attenzione e rispetto. Intanto, vediamo i fatti che essa documenta. Siamo nel marzo del 1989. All’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora, Giovanni Palombarini e Franco Ippolito, rispettivamente Presidente e Segretario di MD, nonché Sandro Pennasilico, segretario della sezione napoletana di MD, convocano una clamorosa conferenza stampa a Napoli, per denunciare le inammissibili “storture” di quel processo, l’inconcepibile gestione dei pentiti, il rapporto ancillare dell’ufficio istruzione rispetto alla Procura, la gestione della informazione giudiziaria.
Tra l’altro, la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani, in ordine alla quale ben 400 avvocati del Foro hanno chiesto la rimozione del Procuratore capo Vessia. MD chiede con forza che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati resisi responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana” (così testualmente Palombarini). Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM (in quota magistratura Indipendente). Sarà tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa (anzi, premierà quei magistrati, aggiungo io). MD, che guidava l’ANM insieme ad Unicost, si dimette e determina la crisi della Giunta. Lo scontro è durissimo, MD denuncia che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”. E molto altro, che suggerisco davvero di andare a leggere con attenzione.
Se questa iniziativa di “Questione Giustizia” e del suo direttore vuole rivendicare una nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, con noi penalisti sfonda una porta aperta. Da sempre diciamo: stiamo attenti a non replicare il tragico errore qualunquista e populista fatto con la politica (per enorme responsabilità proprio della magistratura, però, caro Direttore Rossi!), con la distruzione dei partiti ridotti ad icona di ogni nequizia. Il problema non sono “le correnti”, ma la loro degenerazione in meri luoghi di amministrazione del potere (giudiziario). Comprendo l’orgoglio per quella rivendicazione, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico.
Il potere ipertrofico ed incontrollato delle Procure ed il suo micidiale connubio con i media ha la responsabilità storica di avere spostato l’oggetto del giudizio sociale sui fatti penali dalla sentenza alla incriminazione. Possiamo davvero dire che almeno una parte della magistratura italiana sia stata attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi cruciali? O quella bella pagina “napoletana” è solo un lontano e sbiadito ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia? Parliamone, con lealtà e chiarezza: noi siamo pronti a farlo. Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Gli esami di maturità. Altro che Promessi Sposi, per spiegare la giustizia andrebbe spiegato come un magistrato perseguita un uomo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Giugno 2022.
Nel suo dialogo con Liliana Segre, finito tra gli argomenti d’esame di Maturità e ripubblicato ieri dal Corriere della Sera, Gherardo Colombo dice: “Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi!”. Non c’è dubbio che dalla lettura di quel capolavoro i ragazzi possano ritrarre nobili motivi di meditazione “in tema di giustizia” (magari “tema” d’ora in poi lo aboliamo, che proprio non si può sentire): ma più e meglio si trasmetterebbe ai ragazzi illustrando loro le pagine meno romanzate della giustizia italiana, facendo loro conoscere le colonne infami recanti la lunga teoria dei nomi sconosciuti appartenenti alle vittime della giustizia.
Sarebbe lettura magari più noiosa, ma altrettanto istruttiva, quella che indugiasse sulle lapidi dei suicidi in carcere, i morti di galera imprigionati – spesso inutilmente, sempre ingiustamente – in nome del popolo italiano. Sarebbe conoscenza forse spiacevole, ma assai formativa, quella offerta da una ricognizione della vita negletta delle mogli, dei figli, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori di chi senza motivo, senza necessità, senza diritto è stato rinchiuso in una cella. I ragazzi potrebbero imparare da questa storia clandestina come nel loro Paese – non nel secolo decimo settimo, ma in questo – un magistrato possa arrestare la libertà di chiunque, sequestrargli ogni bene e innanzitutto il primo, la vita, e privarlo di tutto, del patrimonio, della casa, della famiglia, del lavoro, della reputazione, della salute, senza risponderne in nessun modo e nemmeno nel caso che quello scempio sia oltretutto avvenuto per trascuratezza, per errore, per abuso.
Imparerebbero, i ragazzi, che tra le disgrazie che possono capitare a un essere umano – proprio come una malattia maledetta che se lo mangia, come un rovescio professionale che lo manda sotto a un ponte, come un’auto impazzita che lo investe – c’è quella di trovarsi soggetto al potere di un magistrato che decide di perseguitarlo, e lo perseguita, prendendo il corso normale della sua vita e stravolgendolo, violentandolo, lo immette con i sigilli di Stato in un buco nero di sopraffazione, di degradazione, di disperazione, mentre nel mondo di fuori risuona il verbo del collega togato che spiega che tutto questo è fisiologico. I ragazzi sarebbero così proficuamente indotti a farsi della giustizia di questo Paese un’idea un po’ più aderente. E a esprimerla, magari, al prossimo esame di Maturità. Iuri Maria Prado
Lo sciopero dei penalisti. Cambio del giudice a processo in corso, il malcostume italiano: l’esempio Johnny Depp-Amber Heard. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 18 Giugno 2022.
Ci sono diritti che la gente non sa di avere, ed ancor meno sa quanto siano messi in pericolo. Come penalisti italiani abbiamo proclamato due giorni di astensione dalle udienze (26 e 27 giugno prossimi) in difesa di uno di questi, oggi di fatto praticamente vanificato nelle aule di giustizia del nostro Paese. Parlo del diritto – fondamentale- dell’imputato ad essere giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.
Per spiegare l’importanza della partita in gioco, mi avvalgo di una esemplificazione comprensibile per tutti. Prendete il processo Johnny Depp c. Amber Heard, che l’intero pianeta, piaccia o no, ha seguito con morbosa attenzione. Meglio, così capirete bene di cosa stiamo parlando. Dunque provate ad immaginare questo scenario: dopo decine di udienze nel corso delle quali il Giudice, o meglio la giuria popolare in questo caso, ha ascoltato i protagonisti e decine di testi e di consulenti, scrutando espressioni, sospiri, imbarazzi, contraddizioni, dei protagonisti avvicendatisi sullo scranno dei testimoni, il Giudice (la giuria popolare) cambia. Va via, per qualsivoglia ragione, e viene sostituito da altro giudice (giuria popolare). A pronunciare la sentenza sui fatti ricostruiti nelle lunghe e tumultuose udienze dibattimentali saranno persone diverse da quelle che hanno raccolto la prova per mesi. I nuovi giurati giudicheranno leggendo i verbali di tutte le udienze precedenti, alle quali ovviamente non hanno partecipato. Sono certo stiate tutti trasalendo: come sarebbe possibile un simile scempio?
Nessuna lettura di verbali potrà mai equivalere all’ascolto diretto, personale, fisico dei testimoni e dei protagonisti della vicenda. Insomma, è ovvio che il giudice che emette la sentenza debba essere lo stesso che ha raccolto la prova. Perciò, se cambia il giudice, il processo va ripetuto, non può esserci il minimo dubbio. Ed infatti, il nostro codice di procedura penale prevede esattamente questo: se cambia il giudice, il processo va ripetuto (salvo accordo tra le parti). Ora, dovete sapere che questa norma, espressiva di un diritto delle parti processuali talmente elementare che non dovrebbe essere oggetto della pur minima discussione, è entrata da subito nelle mire della magistratura italiana, che l’ha sempre vista come il fumo agli occhi, perché sarebbe una norma all’origine di inaccettabili rallentamenti del processo. Quindi è iniziata una giurisprudenza “interpretativa” di una norma invece chiarissima, che non lascia alcun margine di interpretazione.
Interpretazione culminata in una sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione che ha letteralmente riscritto quella norma, fissando il principio inverso. Se cambia il giudice, la regola è che il processo va avanti lo stesso: le parti possono eventualmente chiedere che questo o quel testimone, o un nuovo testimone, debba essere sentito, ma badino bene di motivarlo con chiarezza, altrimenti non se ne fa nulla. Incredibile, vero? Quella sentenza è andata non solo contro la inequivoca testualità della norma, ma anche contro un pronunciamento della stessa Corte Costituzionale, che almeno subordinava la legittimità del cambio del giudice alla esistenza, per esempio, di videoregistrazioni delle udienze, in modo che almeno il nuovo arrivato se le debba guardare. La riforma Cartabia del processo sta cercando di recuperare i principi fissati dalla Consulta (vedremo cosa stabiliranno i decreti delegati).
Il risultato di quella sentenza delle sezioni unite è un autentico disastro. Assistiamo ormai quotidianamente a collegi che cambiano in corso di giudizio, magari dopo decine di udienze e di testimoni escussi dal precedente giudice, e senza che nessuno sia tenuto ad alcuna giustificazione. Perché questo è l’aspetto più odioso: che le esigenze personali (di carriera, familiari, occasionali) del giudice prevalgono sul diritto dell’imputato ad essere giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.
È un fatto di una gravità inaudita, un malcostume inaccettabile, una manifestazione di tracotanza corporativa davvero senza eguali. Perciò scioperiamo, chiedendo alla Ministra di intervenire in modo efficace nei decreti delegati, dove è sì inserita la videoregistrazione come condizione di legittimazione del cambio del giudice, ma al momento senza alcuna garanzia nemmeno che il nuovo giudice se la vada a vedere davvero. Il minimo che debba prevedersi è che ciò accada in una pubblica udienza. Così come occorre prevedere uno specifico intervento normativo che imponga al magistrato che voglia trasferirsi ad altro ufficio o ad altra sede di poterlo fare solo dopo aver esaurito il ruolo delle udienze che ha già iniziato. Quindi, di questo stiamo parlando, cioè – ancora una volta- di diritti fondamentali della persona: ed è una battaglia che vogliamo vincere.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Referendum giustizia, le assurde tesi di Letta e Conte. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.
A meno di una settimana dai referendum sulla giustizia, un settore della cosa pubblica da sempre ostile a qualunque tentativo di riforma, si segnala l’esilarante presa di posizione di Enrico Letta in versione cerchiobottista: “Il Pd non è una caserma e men che meno su questi temi. C’è la libertà dei singoli, essa rimane a maggior ragione per una materia come questa, così complessa, rispetto a quesiti molto diversi tra di loro”. “Tuttavia, – ha poi sottolineato il segretario del Pd – questi referendum aprirebbero più problemi di quanti ne risolverebbero”.
Ancora più netta la posizione di Giuseppe Conte, leader del partito più forcaiolo della storia patria: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”. La magistratura – ha proseguito il presidente del Movimento 5 Stelle – ha delle colpe, tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”.
Ergo, in merito forse al più significativo dei referendum, quello che tende ad imporre una rigida separazione tra funzione giudicante e funzione requirente, secondo Letta ciò provocherebbe ulteriori problemi, mentre per Conte questa elementare regola di civiltà giuridica sarebbe addirittura punitiva nei confronti dell’ordine giudiziario.
Eppure colpisce che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata una volta per tutte la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tale proposito risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Scrive infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”
Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che attualmente, il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia dovesse venire approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.
Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, la quale con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche – i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel consiglio disciplinare – l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura – obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire -, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile.
D’altro canto, occorre ricordare, per decenni soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Ricordo che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva ad una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che ancora oggi ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze e che tende a rafforzare l’idea che nei fatti non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, in cui la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano ancora troppo sfumate nell’immaginario collettivo.
Ovviamente nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri – pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco – i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”. Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese. Claudio Romiti, 6 giugno 2022
In carcere senza richiesta del pm. Per una (sola) volta il gip paga. La Corte dei Conti ha evidenziato la mancanza di azioni di rivalsa per il recupero delle somme pagate per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Riccardo Radi, (Avvocato), su Il Dubbio il 17 giugno 2022.
A fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per un danno erariale da 10mila euro nei confronti di una toga. La vicenda è accaduta a Salerno ed è stata “scoperta” leggendo la relazione della Corte dei Conti sulle spese sostenute dallo Stato per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari negli anni 2017- 2020.
Nella relazione si indica il caso in maniera generica senza entrare nei particolari. Noi siamo riusciti a ricostruire la storia giudiziaria recuperando anche l’atto di citazione per danno erariale, unico caso in Italia dal 1992 ad oggi, notificato dal ministero della Giustizia al giudice disattento che ha emesso una misura cautelare di arresti domiciliari senza che il pubblico ministero ne avesse fatto richiesta.
In pratica un giudice delle indagini preliminari, non di prima nomina, riceve una richiesta di misura cautelare per un signore accusato in concorso con la figlia di false fatturazioni. Non si sa come è perché, il Gip emette una misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della figlia in assenza di una richiesta del pubblico ministero che la riguardasse. La polizia giudiziaria esegue la misura e arresta la donna, che solo in sede di interrogatorio di garanzia, su istanza difensiva, verrà liberata in “assenza dei presupposti di legge”. La malcapitata, di fatto sottoposta a un sequestro di persona, propone richiesta di risarcimento del danno per illegittima detenzione che viene accolta con la liquidazione della somma di euro 21.170,91.
La Corte dei Conti, sul presupposto della esistenza di danno erariale a carico del giudice che ha emesso la misura cautelare senza l’esistenza dei requisiti di legge, e a carico del pm che la ha comunque eseguita senza averla richiesta, notifica a entrambi una richiesta con contestazione del danno per i comportamenti tenuti.
La tragicomica avventura si è definita all’italiana. Il pubblico ministero ha evitato la richiesta di danno erariale sostenendo con particolare vigore la sua completa estraneità ai fatti accaduti. In pratica in sua discolpa ha dedotto: “Quando la misura cautelare gli è stata portata per la esecuzione, non aveva il relativo fascicolo, trattenuto dal Gip per gli adempimenti successivi (interrogatorio di garanzia). A sostegno della sua tesi ha depositato attestazione del cancelliere”. Vi chiederete: e allora? Come puoi chiedere la misura cautelare per un uomo e la ricevi emessa, e la esegui, nei confronti di una donna e ritieni che “non avendo il fascicolo” sei esente da ogni responsabilità?
Eppure la tesi difensiva ha funzionato, e il ministero della Giustizia ha ritenuto che le argomentazioni del pm consentono di “escludere la gravità della colpa”. Quindi è rimasto solo il Gip a dover rispondere del fattaccio, e il ministero non ha potuto esimersi, con linguaggio burocratico, dal sottolineare che “l’errore emerge laddove il Pm ha richiesto la applicazione della misura della custodia cautelare in carcere solo nei confronti di C. G.” e non della donna. Quindi la colpa grave è riscontrabile avendo emesso la “misura cautelare senza i presupposti di legge”. In conclusione il giudice ha definito la propria colpa grave pagando il 50% dell’iniziale richiesta di risarcimento, e con circa 10.000 euro ha “patteggiato” il danno erariale.
Possiamo concludere che l’episodio, più che un errore, sia un gesto simbolico del Gip che, facendo a meno del Pm, esprime la sua solidarietà alla battaglia dell’avvocatura per la separazione delle carriere? A parte il sarcasmo, proviamo a riflettere su un dato inquietante: in Italia dal 1992 al 31 dicembre 2021 ci sono stati 30.133 innocenti indennizzati dallo Stato per errori giudiziari o ingiuste detenzioni.
Badate bene che il numero rappresenta la punta di un immenso iceberg, in quanto solo il 24% delle domande di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta. In ogni caso, per gli innocenti conclamati e indennizzati lo Stato ha pagato 894 milioni e spicci di euro. Su questi dati la Corte dei Conti ha posto l’attenzione, evidenziando la mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. La magistratura risulta essere una sorta di isola felice in cui l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario.
Ebbene, a fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato recuperando la somma di euro 10.425,68. Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? Questo è il tema focale sotteso alla storia che abbiamo raccontato. È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti.
Abuso di potere. Abbiamo le prove della malagiustizia in Italia, manca solo il processo ai responsabili. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 6 Giugno 2022.
Ogni giorno assistiamo alla strage di diritti e di legalità senza che gli esecutori siano chiamati a renderne conto. Dagli innocenti nelle carceri al comportamento di alcuni magistrati che interferiscono nell’attività dei poteri legittimi.
Com’è che diceva quello? «Io so. Ma non ho le prove». Noi invece – oggi, ma non da oggi – le prove del crimine giudiziario le abbiamo. Non occorre provare che le carceri sono ricolme di innocenti. Non occorre provare che funzionari dello Stato, abusando del proprio potere, violentano le libertà private, distruggono l’immagine, i patrimoni, la vita altrui senza risponderne in nessun modo.
Non occorre provare che l’esistenza di centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone è affidata al capriccio, all’arbitrio, alla noncuranza persecutoria di pubblici impiegati che fanno malgoverno della propria funzione riducendosi a sgherri di Stato, a teppisti di Stato, ad aguzzini di Stato.
Non occorre provare che una parte, ovviamente non tutta ma una significativa parte, della cerchia giudiziaria è gravemente contaminata dalla presenza di malversatori che, protetti dal proprio potere irresponsabile, coltivano e difendono interessi particolari in plateale conflitto con quelli generali.
Non occorre provare che fazioni influenti e aggressive del potere togato si sono costituite in una centrale di sistematico hackeraggio dell’organizzazione democratico-rappresentativa, un contro-governo di ammutinati che interferisce nell’attività dei poteri legittimi e pubblicamente li intimidisce, li ricatta, li minaccia.
Non serve nessuna prova per documentare tutto questo, perché la prova di tutto questo è quotidianamente disponibile, quotidianamente squadernata sulla scena della giustizia italiana. Una diuturna strage di diritti e di legalità si compie e prosegue senza che i responsabili siano chiamati a renderne conto. Ma non mancano le prove. Manca il processo.
Riforma giustizia e la soppressione dei tribunali. Massimo Carugno, Scrittore, su Il Riformista il 9 Maggio 2022.
Erano gli ultimi giorni di agosto del 2011 quando Michele Vietti, avvocato e cattedratico, insediato sullo scranno di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dall’amico Pier Ferdinando Casini, lanciò un proclama che avrebbe avuto conseguenze negativissime nel panorama della giustizia italiana.
La grande crisi economica del 2009 aveva appena investito il pianeta e l’ansia di tutti i governi era quella di accelerarne l’uscita, affastellati tra uno spread crescente e le 3 A di un ranking, che cadevano come birilli, mentre a Wall Street si contavano i cocci dei fallimenti delle grandi banche stelle e strisce.
“Il riordino della geografia giudiziaria e la soppressione dei tribunali minori ci farà guadagnare 3 punti di P.I.L.”, disse l’uomo della politica neo-democristiana, fiero di essersi riempito la bocca del tema del momento e non sapendo, poverino, quel che stava per scatenare.
Il governo Berlusconi, il IV di questo nome, era alla frutta ma cercava disperatamente di resistere dando segnali a destra e a manca di efficienza e controllo della spesa e l’allora Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, subentrato appena un mese prima al dimissionario Angelino Alfano, si affannò a presentare un decreto legge, convertito poi in una legge delega, che conteneva i criteri per la soppressione di numerosi tribunali. Era il 14 settembre del 2011 e la legge portava il numero 148.
Appena un anno dopo il Ministro Paola Severino, lanzichenecca nel governo Monti, il cui epinomo nel frattempo era subentrato a Palazzo Chigi nel tentativo di ridare credibilità al paese dopo i disastri dell’uomo di Arcore, varò il decreto legislativo 155/2012 con il quale furono cancellati 37 tribunali e 220 sezioni distaccate.
“Una svolta epocale,” la definì il Ministro, una dei tanti cattedratici di quel governo che dimostrarono, come sempre, che l’eccesso di teoria allontana dai problemi del paese reale.
E fa niente che poi di quel risparmio, del quale la politica aveva innalzato il vessillo, non si vide nulla, visto che le spese dei tribunali le pagavano i comuni che li ospitavano e il costo più rilevante, quello del personale, non era stato risparmiato perché non si potevano licenziare le persone.
“Ma ne miglioriamo l’efficienza” , si disse da più parti, specie dalla magistratura e da quei giudici che, fuggiti dalle aule dei processi, occupavano i posti tecnici del Ministero rappresentandone la vera volontà esecutiva a dispetto di quella politica.
Peccato che i monitoraggi e gli studi successivi, tra cui uno mirabile di un noto giornale finanziario, stimarono tra quelli più efficienti d’Italia proprio quei tribunali la cui soppressione, in esecuzione di quel provvedimento definito dalla Severino epocale, era in itinere.
Parliamo per esempio dei 4 tribunali abruzzesi, di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto, la cui cancellazione era stata congelata per i problemi legati alla Corte d’Appello di L’Aquila ancora precaria per il terremoto del 2009.
Perché l’efficienza proclamata dai boiardi del ministero è ben diversa da quella d’uso comune nel pensiero dominante della buona amministrazione.
In effetti verrebbe spontaneo pensare, per efficiente, a un tribunale che sia a dimensione d’uomo, che abbia una durata breve dei processi, dei tempi ristretti per l’accesso agli uffici e per il ritiro dei documenti, una evasione puntuale di fascicoli e processi. E ancora che sia vicino ai cittadini, moralmente e fisicamente, e che non si debbano fare ore di percorrenza per raggiungerlo da uno qualunque dei comuni del suo circondario, appesantiti da una orografia montana e da una viabilità tortuosa che per fare 40 chilometri richiede due ore di viaggio, magari anche allietati da ghiaccio e neve.
Ma dalle parti di via Arenula non la pensavano così, anzi, di tali considerazioni non gliene poteva fregà di meno (ci si perdoni il francesismo).
E già. Perché di questa storia dei Tribunali ne parlavano da tempo, anzi, loro ne stavano parlando da decenni. Solo che nella prima repubblica c’era una politica che governava la grande finanza e gli apparati amministrativi dello stato. Le repubbliche successive ( seconda e l’attuale terza) sono state, aimè, dominate dai poteri economici e tirannegiate da quelli tecnocratici (vedi i disastri dei governi tecnici). Dalle parti del Palazzo dei Marescialli infatti hanno sempre avuto in testa l’idea che un giudice non dovesse saltare dal civile al penale, dai divorzi ai decreti ingiuntivi, dai pignoramenti immobiliari all’ordinanza di custodia cautelare da comminare nell’udienza preliminare.
Questo cambio continuo di materie era robaccia da avvocati e non una palestra ove cimentarsi in esperienze nuove ed allargare il proprio scibile giuridico. Non era una opportunità formativa ma piuttosto un faticoso fastidio a cui dare rimedio. E venne fuori il concetto tutto particolare di efficienza legata ovviamente a quello di specializzazione. Si pensò quindi che i tribunali ideali fossero quelli composti da un numero tale di giudici (oltre una trentina) da permettere a ognuno di essi di dedicarsi ad un pezzettino della scienza giuridica e pronunciare ed emettere sentenze con i container (tanto sarebbero state tutte le stesse: solo da cambiare, con il copia/incolla, i nomi delle parti) e fare quello per tutta la vita.
E fa niente se una tale riforma avrebbe creato solo delle megalopoli giudiziarie che avrebbero investito il cittadino con una agilità elefantiaca, fa niente se si sarebbero create delle cattedrali nel deserto distanti mille miglia dal paese reale, fa niente se un povero sventurato, per muoversi all’interno di tali alveari di giudici e cancellieri, avrebbe avuto bisogno del navigatore e del GPS, fa niente se interi territori della penisola sarebbero rimasti sguarniti di presidi giudiziari ancorché fossero all’interno, o adiacenti, a zone ad alta densità criminale, fa niente se aree che ospitavano, e ospitano, carceri importanti e ad alta sicurezza, si sarebbero trovate all’improvviso sguarnite di uffici giudiziari esponendosi ai rischi di lunghi e pericolosi trasferimenti per permettere a detenuti temutissimi di partecipare alle udienze.
Come si dice dalle mie parti “se sta bene Rocco, sta bene tutta la Rocca”.
Poi le cose sono cambiate, quella riforma, che giaceva nelle fantasie di qualcuno tra i corridoi grigi del Ministero ed è stata silente per anni perché sopita da una politica che teneva a guardia certe spinte corporative, con il degrado della autorevolezza della classe di governo è rispuntata fuori ed è stata prepotentemente adottata proprio sulla spinta della tecnocrazia dei giudici.
Ed oggi ce la troviamo adottata con tutte le negatività di cui abbiamo fatto cenno.
Si potrebbe fare lo stesso discorso anche per altri settori della amministrazione pubblica come la Sanità, anch’essa spettatrice inerme di gravosi tagli di presidi in nome del risparmio della spesa, lasciando poveri di essi territori e popolazioni.
Ci si dimentica che certi settori della vita pubblica come la Giustizia o la Sanità sono servizi e non aziende e rispondono al criterio del soddisfacimento dei bisogni della comunità e non al realizzo di un profitto.
Sono comparti che devono andare incontro al cittadino e non obbligarlo a inseguirli.
In fondo lo dissero anche i padri costituenti quando, formulando l’art.5 della Carta, sancirono che la Repubblica avrebbe favorito e adottato il decentramento amministrativo.
Solo che di questi sani principi ce ne siamo presto dimenticati e oggi guardiamo, in maniera bolsa e miope, alla riforma della Cartabia, (che si occupa solo di come eleggere i giudici nel plenum del C.S.M.), come a l’unica possibile e necessaria.
Più che quella, il Ministro proveniente dal Palazzo della Consulta avrebbe dovuto fare tante altre cose.
Ne abbiamo fatto cenno in una precedente riflessione pubblicata su queste colonne. E tra esse riformare la riforma della geografia giudiziaria, anzi adottare una vera controriforma e, se proprio volessimo spingerci all’estremo, non solo riaprendo tutti i tribunali chiusi, ma istituendone di nuovi per avvicinare tali servizi ai cittadini e i cittadini ai giudici con più fiducia e maggiore speranza di ottenere giustizia vera.
Ma questi sarebbero sogni e i sogni, si sa, non si avverano mai, o quasi.
La riforma giustizia. Ingiusta imputazione, un risarcimento per frenare la caccia alle streghe dei pm. Giovanni Varriale su Il Riformista l'1 Giugno 2022.
La riforma del processo penale voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia è stata a lungo discussa, soprattutto in riferimento alla volontà di ridurre drasticamente i tempi del processo penale che, da molti operatori del diritto, viene considerato lesivo dei diritti costituzionali. A ben vedere, tutti gli ultimi interventi legislativi in tema di giustizia hanno avuto quale fine ultimo quello di ridurre il numero di processi nelle aule di giustizia senza però pregiudicare la tutela dei diritti dei cittadini.
Proprio in quest’ottica, già con la riforma Orlando prima e con la riforma Bonafede poi, si era provato sia ad aumentare il numero dei reati procedibili a querela, così da subordinare l’azione penale alla volontà della persona offesa dal reato, sia a eliminare l’istituto della prescrizione, in modo da rendere praticamente sempre esigibile la eventuale pretesa di condanna da parte dello Stato. La riforma Cartabia, se possibile, cambia del tutto prospettiva. Infatti, se il fine ultimo resta quello di ridurre il carico di procedimenti pendenti nelle aule di giustizia, il modus agendi attraverso il quale ottenere tale risultato, è del tutto innovativo.
Invero lo scopo della attuale riforma è quello di intervenire sin dalle fasi delle indagini preliminari, nel corso della quale, alle Procure viene chiesto un lavoro di accurata valutazione rispetto ai procedimenti per i quali richiedere il rinvio a giudizio. Infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, le Procure saranno chiamate a svolgere un vaglio tra quei procedimenti che, così come recita la norma, possano giungere ad una sentenza di condanna e quelli, invece, destinati a una archiviazione. È chiaro come la ratio non sia quella di affidarsi alle capacità indovine dei Pm né tanto meno quella di pretendere che si svuotino le aule di giustizia, bensì l’intento della riforma appare quello di evitare che le Procure possano, magari ingolosite dal risalto mediatico che potrebbe avere un determinato processo, intraprendere, come per altro spesso successo, una caccia alle streghe.
Proprio, sulla scorta della necessità di responsabilizzare le Procure, viene introdotto un nuovo e rivoluzionario istituto, ovverosia quello della riparazione per ingiusta imputazione, che si affianca al già presente istituto della riparazione per ingiusta detenzione. L’introduzione del suddetto rimedio riparativo vede la sua essenza proprio nella necessità, percepita a buon diritto dal Legislatore, di tutelare coloro i quali si trovino ad affrontare ingiustamente un processo penale. Tale aspetto non può in alcun modo essere sottovalutato, poiché sono svariati i pregiudizi che un soggetto, seppur non detenuto, debba subire quando veste i panni dell’imputato. Infatti, si va dall’annoso problema del c.d. carico pendente che comporta una serie di limitazioni (non poter partecipare ad un concorso pubblico) o mere lungaggini burocratiche (es rilascio del passaporto), fino alla necessità di dover sopportare le annose spese legali.
Finalmente il Legislatore sembra aver empatizzato con i cittadini che, con troppa facilità, loro malgrado, si trovano avviluppati nel turbinio delle maglie di una giustizia spesso veloce nelle fasi di rinvio a giudizio e lenta nei momenti successivi. Aver quindi previsto l’istituto della riparazione per ingiusta imputazione appare, a parere di chi scrive, essere non solo dimostrazione di grande civiltà ma anche dimostrazione concreta di effettivo garantismo. In conclusione, il progetto di riforma appare particolarmente ambizioso ma interessante e soprattutto innovativo poiché richiede un cambiamento di approccio da parte degli operatori del diritto sin dall’iscrizione della notizia di reato. Giovanni Varriale
Cinque mesi in galera senza titolo, scarcerato Cirinnà. Il legale di Cirinnà, l’avvocato Cataldo Intrieri, aveva immediatamente presentato al giudice dell’esecuzione penale la richiesta di annullamento del decreto di revoca della sospensione della pena emesso dalla Procura. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 giugno 2022.
Ricordate il caso di Claudio Cirinnà, trattenuto in carcere sulla base di un atto del Tribunale di Sorveglianza di Roma annullato dalla Cassazione? Riassumiamo la storia per chi si fosse perso le scorse puntate.
In breve: l’11 novembre 2021 era stata rigettata la richiesta di misure alternative in relazione alla pena di un anno, un mese e 4 giorni di reclusione come residuo della maggiore pena a 2 anni e 8 mesi. Tuttavia l’ordinanza era stata annullata con rinvio dalla Cassazione lo scorso 11 maggio. Inoltre anche l’ufficio esecuzione della Procura capitolina aveva respinto la richiesta di sospensione della pena in carcere «non potendosi sospendere più di una volta l’esecuzione della stessa condanna».
Il legale di Cirinnà, l’avvocato Cataldo Intrieri, aveva immediatamente presentato al giudice dell’esecuzione penale la richiesta di annullamento del decreto di revoca della sospensione della pena emesso dalla Procura. Ebbene, ora il giudice gli ha dato ragione, argomentando come segue. «Condivise le argomentazioni esposte dalla difesa del condannato – si legge nel provvedimento – dovendosi ritenere nulla l’attività posta in essere a seguito di atto dichiarato nullo dispone la liberazione del condannato». E così abbiamo chiesto all’avvocato Cataldo Intrieri di fare un’analisi dell’accaduto e se è soddisfatto di quanto ottenuto. «Non si tratta di questo – ci dice – come avvocato sono stupito che sia successa una cosa del genere».
Per poi spiegare gli eventi. «Un cittadino ha subìto oltre cinque mesi di carcerazione senza titolo – continua l’avvocato – primo perché il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha sbagliato a decidere su di lui senza neanche avere le relazioni dei servizi sociali per valutare il suo comportamento dopo la commissione dei fatti; secondo per l’opposizione strenua della Procura della Repubblica di Roma, che è arrivata a negare ciò che non si poteva negare, ossia che la nullità dell’ordinanza rendesse impossibile far restare in galera il mio assistito».
Ma dal momento che la notizia è arrivata a poche ora dal fallimento dei cinque referendum sulla giustizia, tra cui quello che si poneva l’obiettivo di limitare l’abuso della custodia cautelare in carcere, ecco che la chiosa finale dell’avvocato Intrieri non si limita soltanto a fornire una visione delle cose ma non nasconde anche l’amarezza per lo stato dell’arte in Italia. «Alla luce anche del fiasco dei referendum – conclude infatti l’avvocato – fatti come questi dovrebbero invece far riflettere sull’uso del carcere in questo Paese».
Quella misura cautelare un sequestro legalizzato: storie di “ordinaria” ingiusta detenzione. Dieci giorni ai domiciliari, ma mancavano i presupposti. Il Dubbio il 22 maggio 2022.
L’ennesimo paradosso giudiziario si compie a Roma, dove un uomo si ritrova con una misura cautelare degli arresti domiciliari che non poteva e non doveva essere emessa.
Si avete capito bene, non c’erano i presupposti per emettere la misura. Una sorta di sequestro di persona “legalizzato”. La vicenda vede protagonisti tre giudici della Corte di appello di Roma, tutti con una certa esperienza, che ricevono una segnalazione da parte dei carabinieri di Acilia per una presunta violazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento. I tre giudici si riuniscono in camera di consiglio e dispongono di aggravare la misura con gli arresti domiciliari lontano dal nucleo familiare. G. I., padre di quattro figli, si vede i carabinieri in casa che gli intimano di uscire immediatamente e fornire un possibile domicilio alternativo per scontare gli arresti domiciliari altrimenti lo condurranno a “Regina Coeli”.
La realtà è ben diversa, in primo luogo la misura del divieto di avvicinamento era stata già revocata nel corso del giudizio di primo grado, inoltre il reato ipotizzato inizialmente di maltrattamenti era stato riqualificato, nel meno grave, di minacce che non prevede la possibilità di applicazione di alcuna misura cautelare, tutto questo sembra surreale, ma è avvenuto. Evidentemente i tre giudici non hanno letto gli atti del fascicolo che era a loro disposizione.
Dopo 9 giorni di arresti domiciliari senza titolo a G. I. viene revocata la misura a seguito dell’istanza del difensore che scrive ai giudici «attenzione, il vostro provvedimento è “palesemente erroneo in fatto e in diritto, tale da determinare un arresto privo delle condizioni di applicabilità e tale da determinare una futura richiesta di ingiusta detenzione”» . Ieri ( giovedì, ndr) il provvedimento di revoca che, beffa nella beffa, è stato eseguito nella giornata di oggi ( ieri, ndr).
I tre giudici si sono “giustificati” scrivendo, testuali parole: «L’aggravamento è stato disposto sulla base di erronei presupposti emersi unicamente dalla segnalazione fatta dai carabinieri».
Ma i giudici non dovrebbero leggere gli atti del fascicolo?
Come è possibile disporre della vita delle persone senza verificare e sincerarsi della bontà delle proprie decisioni?
Altro caso di ingiusta detenzione senza alcuna conseguenza per chi ha errato in maniera grossolana.
La follia della Giustizia che non riesce ad ammettere neanche lo sbaglio.
La magistratura continua a predicare per gli altri quello che non si applica per i suoi sodali: “Il maggior errore del giudice è di credersi immune dalla responsabilità del delitto per il quale un altro è condannato; è di credersi membro di una società migliore, di una società di eletti” ( Gustavo Zagrebelsky). Riccardo Radi, Avvocato
I dati della relazione annuale al Parlamento. Manette facili, a Napoli si ama sbattere le persone in carcere: record di ingiuste detenzioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Maggio 2022.
Se i numeri dicono qualcosa, quelli sulle ingiuste detenzioni contenuti nell’annuale relazione sulle misure cautelari presentata giorno in Parlamento dicono che si fa ancora ampio ricorso alle manette, che pm e gip ancora troppo facilmente firmano ordini di carcerazione preventiva, che la giustizia continua a non essere giusta e innocenti finiscono in cella. Perché? Sicuramente perché prevale una cultura giustizialista. perché di fronte a processi che hanno tempi lunghissimi si pensa di intervenire con la misura cautelare nella fase preliminare delle indagini come se si trattasse di un’anticipazione della condanna che si è convinti di ottenere al termine del processo.
Una distorsione del nostro sistema, il cortocircuito che brucia vita e diritti in un caso su tre. Sì, perché tanti, uno su tre, sono gli innocenti che ogni giorno finiscono in cella per una svista di chi indaga, per una lettura degli indizi errata, frettolosa o superficiale, perché le indagini finiscono per essere orientate a trovare il reato più che la prova di esso. Consideriamo poi che un arresto fa più notizia di un non arresto, una condanna più clamore di una assoluzione. Ed ecco che la gogna è servita. Se si è innocenti il calvario dura anni e anni, e i danni subiti nessuno li ripaga. I più preferiscono non ricorrere allo Stato per chiedere un risarcimento, tra quelli che invece lo fanno – decidendo di affrontare un nuovo iter giudiziario complesso e lungo quasi come quello che li aveva portati ingiustamente in carcere – non tutti alla fine ottengono l’indennizzo perché lo Stato ha previsto una serie di paletti per limitare al massimo i casi di risarcimento Assume, per questo, un valore ancora più emblematico il dato che emerge dalla relazione annuale presentata l’altro giorno in Parlamento.
Nel 2021 a Napoli si sono contati 178 provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione: il numero più alto tra le Corti di Appello d’Italia. Un numero su cui incide l’accelerazione allo smaltimento dei fascicoli data dai vertici degli uffici giudiziari, ma che sicuramente dà la misura di quanto sia ancora diffuso nel nostro distretto il problema della ingiusta detenzione. In tutta Italia i provvedimenti sopravvenuti nel 2021 sono stati 1.284, 178 dei quali provenienti dalla sola Corte di Appello di Napoli. Nell’anno appena trascorso, sempre a Napoli, sono stati 169 i procedimenti esauriti e 40 i provvedimenti accolti con ordinanze definite, con una media di accoglimento pari ad appena il 24%. Una media che cresce, seppure di poco, a livello nazionale: 33%. Quanto alle misure cautelari, la relazione annuale al Parlamento ha registrato, a livello nazionale, un complessivo calo delle misure coercitive rispetto al biennio che ha preceduto la pandemia.
Ma i numeri restano sempre alti: nel 2021 le misure coercitive sono state 81.102 mentre nel 2018 superavano la soglia delle 95mila. I dati contenuti nella relazione dicono anche che i 3/4 delle misure vengono emesse dalle sezioni gip mentre solo il restante 1/4 viene emesso dalle sezioni dibattimentali. Questo vuol dire che prevale la carcerazione preventiva nella fase delle indagini. Nel 2021, in Italia, il 73,2% delle misure cautelari sono state firmate da un gip (giudice delle indagini preliminari) mentre solo il 26,5% da un giudice del dibattimento. Il braccialetto elettronico è usato pochissimo. Il carcere resta la misura cautelare più diffusa, seguito dagli arresti domiciliari. E se a livello nazionale il carcere è la misura decisa nel 29,7% dei casi e gli arresti domiciliari nel 22,2%, seguite dalle altre misure (obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto di avvicinamento, divieto di dimora, obbligo di dimora, custodia cautelare in luogo di cura), è a Napoli che il carcere raggiunge la percentuale più alta (51,2%), il 26% delle misure emesse impone arresti domiciliari, solo il 9,6% l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.
Intanto le carceri sono strapiene e, nonostante si faccia un gran parlare di misure alternative, le celle continuano ad essere affollate e negli istituti di pena circa la metà della popolazione detenuta è in attesa di sentenza. Secondo dati del ministero della Giustizia, nelle carceri della Campania al 30 aprile erano presenti 6.806 detenuti a fronte di una capienza di 6.113 posti. A gennaio erano 6.702.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Manette facili, Napoli capitale degli innocenti in carcere. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Agosto 2022
Celle sovraffollate, strutture penitenziarie fatiscenti, educatori e psicologi in numero irrisorio, attività di rieducazione non per tutti, assistenza medica a singhiozzo, a singhiozzo e non per tutti anche i percorsi per detenuti con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. E poi, le celle chiuse, l’ozio forzato, la convivenza in ambienti angusti, lo spazio vitale non sempre assicurato, i detenuti stranieri che non hanno mediatori culturali, i detenuti malati che vengono curati a stento, quelli anziani che non ce la fanno a essere autonomi. E ancora, il caldo asfissiante, la penombra perenne, una stanza per quattro dove si vive in otto, una finestra con le sbarre troppo piccola per far passare luce e aria, l’acqua potabile che manca e i rubinetti da cui esce acqua marrone, l’acqua potabile che c’è ma dai rubinetti ne esce soltanto un filo. Si potrebbe continuare ancora e descrivere l’inferno senza fine che sono le carceri, un inferno ancora più inumano se si considera il numero di persone che ci restano recluse da innocenti. Numeri agghiaccianti che scivolano sulle coscienze dei più, pur descrivendo una realtà drammatica, ingiusta e per questo pesante come un macigno. Ma questo è ancora il Paese dove la polvere si nasconde sotto il tappeto, dove le situazioni si affrontano solo dopo che si verificano i disastri, dove le emergenze diventano l’ordinario, dove i problemi assumono valore solo per chi li vive in prima persona altrimenti si fanno spallucce. In particolare, poi se si affronta l’argomento carcere. I dati emersi dal rapporto di metà anno dell’associazione Antigone fotografano una realtà sempre più disastrosa ma per la quale quasi nessuno si scandalizza.
I numeri contenuti nel report presentato nei giorni scorsi sono scivolati rapidi nell’indifferenza collettiva, pur meritando ben altro clamore. Proviamo quindi a leggerli bene quei numeri, per comprendere quale realtà ci illustrano e quali emergenze la politica e l’opinione pubblica stanno continuando a trascurare. Nella prima parte dell’anno i dati confermano che circa il 29% dei detenuti non ha una condanna definitiva, il 15% è in attesa di primo giudizio mentre resta ampio il ricorso alla custodia cautelare. Poco conta che nel 2021 siano stati pagati 24 milioni di euro per indennizzi per ingiusta detenzione, la politica giustizialista, il panpenalismo la fanno ancora da padrone. A fronte di 54.841 presenze nei penitenziari del Paese, si contano ancora troppi detenuti in attesa del primo giudizio, quindi presunti innocenti a tutti gli effetti, persone solo sfiorate da un’indagine penale, raggiunte da accuse rispetto alle quali non c’è stata ancora nemmeno una sentenza. Difficile pensare che si tratti di tutti criminali pericolosissimi, del resto le statistiche dicono che la metà delle inchieste si risolvono in un nulla di fatto per cui almeno la metà dei detenuti in attesa di sentenza definitiva sono in carcere ingiustamente. In particolare, i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.329, gli appellanti cioè quelli condannati in primo grado e in attesa di processo d’appello sono 3.658, i ricorrenti in Cassazione 2.693. La percentuale dei detenuti definitivi – pari al 71% – è in aumento rispetto al semestre precedente. Quanto alla custodia cautelare e alle ingiuste detenzioni, nel dossier si riportano i dati ministeriali. «Dati sorprendenti – sottolinea Antigone provando a squarciare il velo di indifferenza che l’opinione pubblica e una gran parte della politica mette sul tema carcere -. Innanzitutto, colpisce il fatto che la più restrittiva delle misure cautelari personali, la custodia cautelare in carcere, è anche la più diffusa, adottata nel 29,7% dei casi in cui nel 2021 si è ritenuto che fosse necessario applicare una misura, e la seconda misura più restrittiva, gli arresti domiciliari, è anche seconda per diffusione, scelta nel 25,7% dei casi». Secondo Antigone sono «altrettanto sorprendenti le differenze di applicazione delle misure cautelari, e in particolare della custodia cautelare in carcere, guardando ai diversi tribunali».
E qui la lente si posa sulla realtà giudiziaria napoletana evidenziando quanto ampio sia il ricorso alle manette facili. «Se, come detto, in Italia in media si opta per la custodia cautelare nel 29,7% dei casi in cui si applica una misura, questa percentuale – sottolinea Antigone – a Napoli è del 51,2%, a Roma del 25,6%». Se si confronta il dato sulle misure cautelari emesse con il dato delle ingiuste detenzioni (circa cento ogni anno a Napoli solo tra le istanze arrivate a sentenza, ci sono quindi centinaia di altri casi non denunciati o ancora sub iudice) è chiaro che si è ancora in presenza di abusi della misura cautelare da parte di pm e giudici. Inoltre, in relazione agli indennizzi che lo Stato paga alle persone che sono state in custodia cautelare o agli arresti domiciliari per un procedimento per il quale sono state poi prosciolte o assolte, oppure nei casi in cui è accertato che la misura cautelare è stata adottata in violazione dei presupposti di legge, in Italia, nel 2021, sono stati pagati 24.506.190 euro (nel 2020 erano stati 36.958.291) per 565 indennizzi (750 nel 2020), per una cifra media di 43.374 euro per indennizzo (nel 2020 la cifra media era stata di 49.278 euro). Il fenomeno dietro questi numeri è ben più ampio, perché c’è un gran parte di casi non denunciati, centinaia di innocenti che escono stravolti dall’esperienza del carcere e non hanno la forza né psicologica né economica per affrontare altri processi. «Ventiquattro milioni possono in effetti sembrare molti – osserva infatti Antigone – ma il numero degli indennizzi riconosciuti è in effetti piuttosto basso»
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Il report annuale. Innocenti in carcere, a Napoli pochi risarcimenti e carriere dei pm salve. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Maggio 2022.
Una misura su dieci risulta emessa in un procedimento che ha avuto poi come esito l’assoluzione o il proscioglimento. Un innocente ogni tre finisce in carcere. Chi paga per le ingiuste detenzioni? Lo Stato qualche volta (a Napoli nel 24% dei casi, a fronte di una media nazionale del 33%), i magistrati mai. Dalla relazione annuale sulle misure cautelari, presentata l’altro giorno in Parlamento, emerge il divario tra i dati sulle ingiuste detenzioni e quelli relativi ai risarcimenti riconosciuti dalle Corti di Appello e alle azioni disciplinari intraprese e concluse nei confronti dei magistrati.
Ebbene, dalla relazione emerge che nel 2021 i pagamenti per riparazioni per ingiusta detenzione hanno raggiunto la cifra di 24.506.190 euro (erano quasi 37 milioni nel 2020). Questa somma fa riferimento a un totale di 565 ordinanze. A Napoli si sono contate 72 ordinanze per una spesa di due milioni e mezzo di euro (2.517.100 per l’esattezza). Il dato è in lieve calo rispetto al 2020 (101 ordinanze per una spesa di tre milioni e 100mila euro sempre con riferimento al distretto giudiziario napoletano) ma descrive una situazione di malagiustizia comunque ancora diffusa. Basti pensare che con 72 ordinanze in un anno Napoli è in cima alla classifica delle città italiane, seconda dopo Reggio Calabria. Bisogna anche considerare che, se a Napoli la percentuale delle richieste di risarcimento accolte è pari al 24%, il numero dei casi di innocenti in cella che si verificano sono molti molti di più. La tabella contenuta nella relazione annuale sulle misure cautelari, nel tracciare una panoramica dei risarcimenti accordati e pagati, quindi parliamo di quei risarcimenti che rientrano nel 24% accolti, evidenzia anche un altro fatto: gli esborsi di maggiore entità riguardano provvedimenti dell’area meridionale e i pagamenti più consistenti sono stati emessi dalla Corte di Appello di Reggio Calabria seguita da quella di Napoli.
Di fronte a tanti arresti infondati, a tanti innocenti in carcere, a tante vite devastate da inchieste che si sono rivelate poi flop finendo con assoluzioni o proscioglimenti, di fronte a tutto questo a farne le spese sono sempre e solo i cittadini. Nella relazione si sottolinea come la richiesta e l’applicazione di misure cautelari si basino su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale, e si specifica che «il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – cosi come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 643 c.p.p. – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto». Un paletto che diventa un muro, sicché nessun magistrato risulta responsabile per l’arresto di un innocente. Nei tre anni a cavallo tra il 2019 e il 2021, a fronte di centinaia di ingiuste detenzioni ogni anno, le azioni disciplinari a carico di magistrati sono state in totale 50 in tutta Italia e, tra assoluzioni e procedimenti in corso, nessuna si è conclusa con una sanzione.
Nel 2021, in particolare, sono state soltanto 5, di cui 3 promosse dal procuratore generale della Corte di cassazione e 2 dal ministro della Giustizia, e si sono risolte due in un’assoluzione, una in un non doversi procedere e due sono ancora in corso. Il dato, che pure è tra quelli contenuti nella relazione annuale sulle misure cautelari presentato al Parlamento dal ministero della Giustizia, è riferito – si badi – alle sole scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, senza prendere quindi in considerazione tutti gli altri casi, che sono poi quelli più gravi. Giudice non condanna giudice, viene da pensare. Eppure le storie degli innocenti in carcere parlano di indagini frettolose, di indizi mal valutati, di intercettazioni male interpretate, di un uso eccessivo della carcerazione preventiva tanto, in molti casi, da far parlare di abuso o di anticipazione della condanna, e di processi lunghissimi che finiscono per essere una pena accessoria. Tutto normale?
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Errori giudiziari, giustizia-show: mille innocenti in cella ogni anno. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Luglio 2022.
Confronto tra esperti del diritto e un docufilm per parlare del più grande male della giustizia: gli errori giudiziari. Il 4 luglio la Camera penale di Napoli nord, presieduta dall’avvocato Felice Belluomo, con l’associazione Nessuno Tocchi Caino, il Movimento forense, l’associazione Errorigiudiziari, Radio Radicale e con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli nord si confronteranno su questo spinoso e mai risolto problema della giustizia.
Dal 1992 al 31 dicembre 2021 si sono registrati 30.017 casi di errori giudiziari in Italia, numeri che stanno a indicare una media di circa mille innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera gli 819 milioni e 277mila euro in indennizzi, per una media di circa 27 milioni di euro all’anno, secondo le statistiche di Errorigiudiziari.com, il primo archivio digitale dei casi di malagiustizia. Nasce, quindi, da questi dati la necessità di confrontarsi, di parlare e di comprendere le ragioni di questi errori della giustizia che rovinano vite e distruggono carriere, che possono cambiare il corso della storia di una persona, di una collettività, di una città, di un Paese intero. Al convegno parteciperanno avvocati e magistrati, esponenti di associazioni che si occupano di giustizia e di carcere. L’evento sarà anche l’occasione per assistere alla proiezione del primo docufilm italiano sugli errori giudiziari “Non voltarti indietro”, che racconta cinque storie vere interpretate e raccontate dai diretti protagonisti attraverso un ritratto a più voci di chi è finito in carcere ingiustamente.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Parla il fondatore di Errorigiudiziari.com. “Troppe firme facili sull’ordinanza di custodia cautelare”, parla Benedetto Lattanzi di Errori giudiziari. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Maggio 2022.
Nascono da intercettazioni male interpretate, indagini definite con troppa fretta o superficialità, testimonianze fuorvianti, riscontri che mancano, sviste. Quel che è certo è che producono un effetto devastante. Condizionano il corso della storia, di quella personale, familiare o professionale di chi le subisce in prima persona ma anche di quella politica, economica o sociale di un determinato territorio. Le scuse non arrivano mai. Difficile anche vedersi riconosciuto un risarcimento. Parliamo degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, esempi di una giusta sempre meno giusta. Secondo le statistiche va in galera un innocente su tre.
Numeri da brividi, considerate le condizioni delle nostre carceri e i danni della gogna mediatico-giudiziaria a cui, nel nostro Paese, si espone facilmente chi subisce un’indagine, figurarsi un arresto. «Un po’ di tempo fa il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ci disse in un’intervista che il carcere è un veleno e va usato con il contagocce. Parole da scolpire negli uffici giudiziari e nelle aule di Tribunale insieme alla scritta “La legge è uguale per tutti”. Sulle ordinanze di custodia cautelare si mette troppo facilmente la firma. In Italia c’è un abuso della custodia cautelare», commenta Benedetto Lattanzi, giornalista e fondatore, con il collega Valentino Maimone, di Errorigiudiziari.com, un’associazione che da oltre anni raccoglie dati e storie di malagiustizia.
Come nacque l’idea? «Da oltre 25 anni, con Valentino Maimone, lavoriamo su questo tema. Abbiamo cominciato agli inizi degli anni ’90: da giovani cronisti avevamo appena assistito alla vicenda di Enzo Tortora, morto pochi anni prima per quella che lui stesso definì “la bomba al cobalto che mi è scoppiata dentro” con la sua vicenda giudiziaria. All’epoca avemmo la fortuna di incrociare sulla nostra strada professionale Roberto Martinelli, il numero uno dei cronisti giudiziari. Ci suggerì di approfondire le storie di errori giudiziari e noi seguimmo il suo consiglio: ci si aprì un mondo che fino ad allora in pochissimi avevano raccontato. In questi anni abbiamo raccolto centinaia di casi, che nel 1996 finirono in un (“Cento volte ingiustizia”), cento storie emblematiche di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Con l’avvento di Internet – racconta Lattanzi – decidemmo di fondare un database on line, aggiornato in tempo reale: nasceva così il primo archivio sul web di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, errorigiudiziari.com, unico nel suo genere in Italia e in Europa».
Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla giustizia, perché è importante? «La riforma Cartabia non è andata in profondità su diversi punti, per esempio la separazione delle carriere, che secondo noi servirebbe invece a dare una svolta al sistema giustizia. La questione è solo sfiorata, perché si parla di separazione delle funzioni. Il referendum è un’opportunità, andare a votare è importante anche per dare un segnale alla politica e al Parlamento che da troppo tempo su questi temi si dimostrano colpevolmente inerti».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Tre innocenti in cella al dì. E il Sistema teme le urne. Anna Maria Greco il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.
La convention dei Radicali sugli "orrori" giudiziari Salvini: "Con i cinque quesiti noi a mani nude contro tutti".
Errori, o meglio «orrori» giudiziari, che travolgono le vite di semplici impiegati e politici affermati, di amministratori locali, ambasciatori, giornalisti, imprenditori, avvocati, docenti universitari, architetti, commercianti...Tutti accusati, sbattuti in prigione, condannati ingiustamente, poi assolti. E nella sede romana del Partito Radicale 30 di queste storie sono protagoniste di una convention, aperta dall'intervento dell'avvocato Annamaria Bernardini de Pace, che vuole tenere alta l'attenzione sui referendum di giugno, quelli che potrebbero cambiare il sistema giustizia più radicalmente della riforma Cartabia.
I nomi delle vittime sono tanti, dall'ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo, assolto dall'accusa del 2015 di lesioni colpose per un pattinatore caduto in una buca a Marcello Pittella, ex presidente della Basilicata assolto per la Sanitopoli lucana, dopo le dimissioni per le accuse del 2018 che hanno portato la Regione al voto anticipato.
La Campagna per il Sì, dice Matteo Salvini, in questi 33 giorni «dobbiamo farcela da soli, a mani nude e contro tutti, gli spazi tv li hanno chiesti Radicali, Lega e socialisti, per tutti gli altri va bene così? Con 1000 errori giudiziari all'anno e 6 milioni di processi pendenti?». Il leader del Carroccio siede accanto alla radicale Irene Testa, che ha raccolto i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari nel libro «Il fatto non sussiste. Storie di orrori giudiziari», con la prefazione di Gaia Tortora.
L' appuntamento delle urne del 12 giugno ancora troppi neppure lo conoscono mentre, spiega Salvini, «non sarà una rivoluzione copernicana, ma un mattoncino per costruire la casa sì», perché quei 5 quesiti sono altrettante possibili «pacifiche rivoluzioni» del sistema giustizia. Se, «guarda caso», è stato bocciato il quesito sulla responsabilità civile delle toghe rimangono altri importanti, a cominciare da quello sulla separazione delle carriere.
Salvini crede ai referendum perché non crede alla riforma approvata dalla Camera e ora all'esame del Senato. «Abbiamo parlato con i partiti e con la ministra Cartabia, la cui riforma non passerà alla storia e abbiamo capito che aria tirava, così abbiamo deciso con i Radicali, portatori di idee sane, di fare la nostra parte». La battaglia sarà dura, in un momento particolare, tra guerra, coda della pandemia, crisi economica, in cui sui referendum è calato il silenzio. «Sarà difficile raggiungere il quorum del 51%? Sì. Sarà impossibile? No. E se milioni di italiani chiederanno il cambiamento, per il parlamento sarà difficile far finta di niente», dice il leader leghista. Salvini promette il suo impegno e raccomanda a tutti di informare sui quesiti. «Magari ci fossero i sostenitori del No - sbotta-, io li pagherei, invece ci sono i sostenitori del niente, del silenzio, che ammazza la democrazia».
Lui parla per esperienza, da imputato per le scelte da ministro sui migranti, raccontando dei processi nell'aula bunker dell' Ucciardone. «L'ultima udienza è durata 12 ore e capisci che la tua libertà è in mano a tre persone, le vedi lì, magari sono nervose, hanno i loro problemi. Ma decidere della vita e della libertà delle persone non è un mestiere come un altro. Quando Silvio Berlusconi parlava di test attitudinali per fare il giudice aveva ragione. Non basta un concorso, servono tante prove, non solo professionali. E invece sento di nomine in base all'appartenenza correntizia, a logiche politiche».
Tra le testimonianze di chi da innocente ha vissuto processi, carcere, gogna mediatica, «perché ormai i processi non si fanno in tribunale ma prima in tv», arriva il turno del vicepresidente leghista del Senato Roberto Calderoli, introdotto dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio. «Devo fare mea culpa su alcune valutazioni del passato sul diritto: ringrazio il partito radicale per aver trasformato un giustizialista in un garantista convinto. Ora dico che è meglio dichiararsi colpevole. Perché, se non hai fatto niente e qualcuno si è convinto del contrario, alla fine ti rovini la vita per sempre. Mi dichiaro colpevole di aver scritto i referendum, di aver raccolto le firme. Siamo più di 3, un'organizzazione a delinquere».
Parla il professore del collegio difensivo di Giuseppe Mussari. “Innocenti vittime di errori giudiziari? Avranno comunque la vita distrutta”, intervista a Tullio Padovani. Angela Stella su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
Il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, fa parte del collegio difensivo di Giuseppe Mussari, l’ex presidente di Mps, assolto qualche giorno fa dalla Corte di Appello di Milano. A partire da questa vicenda, tracciamo le distorsioni che riguardano in primis il potere di accusa nel nostro Paese.
“Questo è il disvelamento di come si esercita il terribile potere di accusa in Italia, dove, per fortuna, esiste ancora un giudice, immigrato da Berlino”. Così lei e i suoi colleghi Francesco Marenghi e Fabio Pisillo avete commentato la sentenza. Cosa intendevate dire?
Il potere di accusa, come ha sostenuto il grande magistrato francese Antoine Garapon, è “anomico e terribile”. Esso sfugge alle maglie della legalità proprio mentre è alla ricerca della legalità. Il potere di accusa può muovere da qualsiasi impulso. Il nostro codice dice che il pm procede alla ricerca della notizia di reato, non la riceve soltanto. In questa attività comincia a sviluppare i poteri di accusa che si rivolgono in mille direzioni – interrogatori, perquisizioni, sequestri – per diventare sempre più invasivo. Ad un certo punto la notizia deve essere pubblicata sul giornale: basta una perquisizione, atto non soggetto a divieto di pubblicazione, specialmente se compiuta alle prime luci dell’alba, col fragore di molte auto a sirene lanciate che si precipitano sotto la casa del malcapitato, e il gioco è fatto. L’indagato viene sbattuto sui giornali e la sua reputazione viene rovinata. Così il potere di accusa si è manifestato in forma devastante. Ma questo potere si giustifica invocando che è la legge che impone di perseguire ogni reato.
Però poi c’è il vaglio del Gip.
Sulla figura del Gip si potrebbe scrivere un romanzo non a lieto fine. Si prospetta una garanzia tanto lussureggiante quanto inconsistente. Ovviamente ci sono giudici impeccabili e pm scrupolosi. Ad esempio Carlo Nordio: quando faceva il pm poteva essere un modello per chiunque. Per questo non ha fatto carriera: gode di una stima che non è proporzionata alla dimensione professionale che un uomo come lui avrebbe dovuto assumere. Quindi le eccezioni ci sono, ma è il sistema che alla fine prevale. Ricordo un episodio lontano.
Prego.
Era appena entrato in vigore il Codice Vassalli che sembrava lasciare poco spazio al pm. Mi trovai ad un convegno sul lago di Garda, durante il quale molti magistrati lamentavano queste restrizioni alle funzioni del pm. Un alto magistrato, mio carissimo amico, mi disse: «Tullio, i miei colleghi non hanno capito nulla, non hanno capito che questo è in realtà il codice dei pubblici ministeri». Da allora miriade di processi, grandi o piccoli che siano stati, hanno testimoniato di come ci si debba inorridire nel vedere come quel potere dell’accusa sia stato esercitato.
Avete anche aggiunto: «L’avvocato Mussari non è più quel che era quando questa vicenda è iniziata, e nessuno gli restituirà nulla. Su questo, forse, dovremmo tutti riflettere».
L’avvocato Mussari impersona plasticamente e drammaticamente la figura del soggetto a cui io mi riferisco con una massima che sono solito ripetere ai miei assistiti innocenti, i quali versano in situazioni processuali prevedibilmente lunghe, logoranti, devastanti con una prospettiva secondo me certa di uscirne, ma dopo molti anni di patimenti: «Se tutto va bene lei è rovinato». Questo si realizza in Italia: dopo essere stati stritolati nel tritacarne giudiziario se ne esce annullati, senza alcuna consistenza, con una vita distrutta insieme ai rapporti familiari e professionali. Io ho una casistica per tutte le cose che affermo: la moglie ti abbandona, i figli ti rifiutano, un mio cliente è persino diventato barbone prima di essere assolto.
Chi si assume la responsabilità di questo?
Nessuno. A fronte di questo immenso potere non esiste alcuna responsabilità. Tra l’altro il nostro è un Paese che miniaturizza l’idea di errore giudiziario. Esso è considerato tale solo quando produce una condanna ingiusta rispetto alla quale c’è da risarcire una detenzione. Ma a mio parere siamo in presenza di un errore giudiziario ogni volta che si subisce un processo per poi essere assolto. I cittadini dovrebbero essere tenuti indenni, quantomeno sul piano delle conseguenze economiche. L’imputato dovrebbe essere immediatamente risarcito, perché sottoposto ingiustamente a processo. Anche se non sarò andato in carcere, la mia vita è stata rovinata. E nessuno neanche chiede scusa.
A proposito di responsabilità, l’Anm non condivide affatto la parte di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in cui si prevede di valutare il magistrato anche in base agli esiti.
Constato che esiste una massima eterna: chi ha un potere su cui non grava una corrispondente responsabilità non è mai disposto ad accettarla, perché significherebbe rinunciare a una fetta di quel potere e alla serenità di non dover render conto delle proprie azioni. Invece potere e responsabilità dovrebbero andare a braccetto, essere due facce della stessa medaglia. Altrimenti quel potere si trasforma in una sovranità assoluta.
Soprattutto quando quel potere può privare della libertà personale.
In questo caso la tecnica per deresponsabilizzarsi è ripartire il potere. Ad esempio, il pm sosterrà che ha fatto la richiesta di arresto, ma è il giudice che ha poi spedito la persona in galera. L’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) alla luce di quello che ci siamo detti fino ad ora va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale.
L’Anm lunedì prossimo sciopera, anche per questa questione del fascicolo di valutazione. Che pensa?
Lo sciopero è considerato un diritto intoccabile. In realtà il nostro sistema contempla ancora uno sciopero illegittimo. L’articolo 504 cp stabiliva che quando lo sciopero è commesso con lo scopo di costringere l’Autorità a dare o ad omettere un provvedimento, ovvero con lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa, si applica una certa pena. La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale nel 1983. La sentenza 165 la dichiarò costituzionalmente illegittima, salvando però l’ipotesi che lo sciopero sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale, ovvero ad impedire od ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare. E allora mi chiedo: l’Anm non intende forse influenzare l’attività parlamentare? Non sta chiedendo appunto che il Parlamento cambi indirizzo? Non è forse il tentativo di ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare? Ovviamente sono consapevole che per applicare l’articolo 504, nella forma residua dopo il vaglio costituzionale, ci vogliono magistrati, e cioè quegli stessi magistrati pronti a scioperare.
Ultima domanda: cosa ne pensa della decisione della Corte Costituzionale di rinviare la decisione sull’ergastolo ostativo?
In Italia la regola numero uno è quella del rinvio, la panacea di tutti i mali. Invece la Corte costituzionale, riconoscendo che la norma era illegittima, avrebbe dovuto subito dichiararne l’incostituzionalità. E il Governo avrebbe potuto intervenire con un decreto legge per dettare una disciplina costituzionalmente corretta. La soluzione c’era. Il sistema ha invece partorito questa situazione paradossale per cui l’incostituzionalità resta sospesa: non riesco proprio a capirlo. Lo stupore mi ha colto fin dalla vicenda Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ndr): sono rimasto esterrefatto nel leggere del rinvio anche in quel caso. E poi, come sappiamo, il Parlamento non ha fatto nulla. E così accadrà in questo caso. L’8 novembre non credo proprio che avremo una legge approvata in via definitiva. Nessuno se ne vorrà assumere la responsabilità, soprattutto a ridosso delle elezioni. Angela Stella
Palamara: «In Italia la legge non è uguale per tutti». L'ex pm di Roma: «È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po' la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia». Il Dubbio il 5 aprile 2022.
«In magistratura il manuale Cencelli, in Italia la legge non è uguale per tutti». Lo ha detto Luca Palamara al Congresso di Grande Nord a Milano. «Un auspicio di cambiamento è quello che mi ha caratterizzato nella mia esperienza professionale. Come tutte le vicende umane e che hanno a che fare con la politica, riproducono su se stesse le vicende della politica. È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po’ la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia», sottolinea.
«In magistratura – continua Palamara – c’è una parte più ideologizzata, quella che noi chiamiamo della sinistra giudiziaria, c’è poi una parte più attenta ai problemi del sindacato, e una parte che è moderata dall’interno» e «a torto o a ragione l’orientamento culturale della magistratura parte dalla sinistra giudiziaria, che crea un cortocircuito anche nel rapporto tra magistratura e politica».
«Qualcosa bisogna fare: ad esempio – spiega – stabilendo come si vuole organizzare internamente la magistratura. L’autonomia e l’indipendenza viene organizzata oggi attraverso questi gruppi associativi, queste correnti, e le correnti determinano la vita della magistratura. Stabiliscono chi diventa procuratore della Repubblica, chi diventa Presidente del Tribunale e chi diventa consigliere superiore della magistratura».
Laicità e sentenze. Alla giustizia italiana serve un Concilio Vaticano II per guardare negli occhi i reali bisogni della società. Alberto Cisterna su Il Riformista l'1 Maggio 2022.
Tra le pieghe delle riforme approntate dal ministro Cartabia e tra gli obiettivi del Pnrr sta lentamente erodendo spazi una profonda ristrutturazione della giustizia nel nostro paese. Persino l’emergenza pandemica sta spingendo in modo sostanziale perché il servizio giustizia assuma una collocazione, come dire, meno tolemaica e più periferica nel complesso sistema delle istituzioni democratiche.
L’introduzione dell’improcedibilità in appello e in cassazione; la prevista, massiccia erosione delle pendenze entro tempi rapidi; l’iniezione di un numero senza precedenti di collaboratori dei giudici per smaltire pratiche; due anni di trasformazione dei tribunali e delle corti in “sentenzifici” vuoti dalle aule deserte; e, ora, le pagelle di valutazione stanno inesorabilmente sospingendo gli apparati di giustizia verso l’angolo chiaroscurale di una posizione meno austera e appagante. Qualcuno lamenta, addirittura, che si vogliano privare i giudici di quarti di nobiltà istituzionale assimilandoli a una qualunque pubblica amministrazione. Senza neanche considerare che un processo è per ciascun cittadino né più né meno che una pratica di cui attende il disbrigo al pari di una licenza o di una concessione.
Le riforme, e lo spirito laicizzante che le sospinge per la prima volta a ranghi serrati tra la politica, sembrano condannare le toghe a scendere dai piani alti della Repubblica e a dover far di conto con le drammatiche urgenze della nazione; urgenze che, sinora, erano state nei fatti sempre postergate rispetto alla primaria necessità di conservare integre le guarentigie della giurisdizione. Mancano migliaia di giudici rispetto alla domanda di giustizia, ma la geografia dei tribunali è intangibile e sperpera risorse; l’obbligatorietà dell’azione penale produce milioni di processi spesso inutili e bagatellari; le sentenze devono essere cesellate e, quindi, sono rade; i carichi di lavoro non possono compromettere i riti e le movenze di liturgie processuali spesso barocche. Tutto questo prevale e precede ogni altra istanza o necessità, perché ciò che conta è piuttosto l’immutabilità e l’intangibilità dell’apparato ideologico che sorregge e giustifica la magistratura in Italia.
La giustizia avrebbe bisogno di un suo Concilio Vaticano II, di una rivoluzione che guardi ai “fedeli” e parli con essi per comprenderne le necessità e i bisogni. La Chiesa decise che l’officiante non avrebbe dato più le spalle ai credenti durante la celebrazione e che tutti gli altari sarebbero stati visibili e rivolti verso il popolo, costitutivo dell’Ecclesia e protagonista del mistero eucaristico. Un simbolo, ovvio, ma al pari la manifestazione tangibile di un cambiamento profondo. È di questo guardare negli occhi i reali bisogni di giustizia della società, di questo mettere da parte qualche decennio di pulsioni mitologiche e autocelebrative che il dibattito, entro e fuori la magistratura, ha una necessità estrema. Le discussioni sulla giustizia sono avvelenate da tre decenni dalla schizofrenia che tiene separate la declamazione astratta di principi che hanno al centro le istanze dei cittadini e la concreta conservazione iper-corporativa dello status quo.
Al profilarsi di ogni progetto di riforma si alza la cortina fumogena dell’attacco all’indipendenza, della necessità di preservare l’autonomia; il tutto come un riflesso condizionato in risposta a una politica infida e complottista. Per la giustizia è la conseguenza peso di anni di politiche miopi, predatorie, antagoniste per interessi personali ad aver inquinato i pozzi e a spingere anche il più tranquillo e pacato dei giudici a metter mano alla pistola se sente parlare di separazione delle carriere o di controllo sull’azione penale dei quali, in fondo, non gli importa granché, ma che considera costitutivi del proprio dna costituzionale. Occorrerebbe un Concilio. Un luogo di consiglio per la conciliazione.
Per tornare a riflettere sul semplice fatto che quasi tutti, praticamente tutti, i processi civili e penali che si celebrano ogni giorno nelle aule di giustizia riguardano casi minuti, vicende importanti per i cittadini, talvolta vitali per loro, ma pressoché tutte saldamente al riparo da condizionamenti e pressioni di sorta. Ed esposte, invece, all’inefficienza o alla onerosità dei carichi. Si è costruito un modello ideologico e culturale che rappresenta la cittadella giudiziaria come assediata ogni giorno da poteri forti, da politici intrallazzatori, da pervicaci depistatori. Che pur ci sono, come l’affaire Palamara e altro dimostrano, ma quei processi costituiscono un infinitesimo degli affari di giustizia e né questa autonomia né questa indipendenza hanno impedito nefandezze, anzi.
Invece importa ai cittadini sempre, quasi sempre, una giustizia minuta che dovrebbe essere rapida, efficiente, sobria, mite, capace di risolvere i mille affanni della vita o di valutare con serenità devianze e errori. È facile obiettare che, in tanto questo “servizio” può essere reso, in quanto esista un corpus giudiziario autonomo, qualificato, indipendente. In realtà non accade quasi da nessuna parte in Occidente, ma è innegabile che questo assetto giovi a meglio garantire gli utenti. Tuttavia, ha un costo enorme che rischia di diventare insopportabile. La qualità della giustizia negli Stati uniti, nel Regno Unito, in Francia o in Germania è pessima se rapportata a quella italiana, ma nessuno in quei paesi si sogna di dire che pone un freno allo sviluppo economico e sociale di quelle nazioni o crea gabbie giustizialiste.
Già solo l’aver imposto la questione giustizia tra gli obiettivi del Pnrr dovrebbe far comprendere che la rinascita del paese non può avvenire in queste condizioni e, soprattutto, dovrebbe indurre a mettere da parte la solita litania corporativa, visto anche lo schiaffo assestato dall’Europa. Occorre, quindi, accettare gli aggiustamenti che l’efficienza complessiva del servizio impone e di cui ancora si parla pochissimo, presi come si è dalla fretta di approvare la nuova legge per l’elezione del Csm. Nel mare di questo vasto programma di riforme, le pagelle di professionalità dei giudici sono un affluente del tutto secondario.
Ammesso che mai funzioneranno, può anche darsi che saranno scritte sulla pelle di qualche magistrato colpito da un rating basso per i suoi insuccessi, ma il loro inchiostro rosso viene distillato dalla vita delle persone che subiscono ingiustizie, che vedono i loro diritti negati o finanche la loro libertà compromessa da qualche sprovveduto e superficiale. A quanti dicono che la pagella “frenerebbe” i pubblici ministeri o i giudici occorre ricordare che quei freni sono posti a tutela dei cittadini e che la carriera disturbata di qualche magistrato vale certo un’ingiustizia in meno. Alberto Cisterna
La polvere sotto il tappeto. Il diritto nel degrado e nessun Cicerone in vista. Otello Lupacchini su Il Riformista il 28 Aprile 2022.
Il cittadino appare sfiduciato e intuisce l’ostilità del sistema giudiziario nel suo complesso: il diritto è percepito come strumento di alterazione di tutto un contesto storico, al punto di negare se stesso e diventare strumento di legittimazione di menzogne istituzionali. A questo sconfortante risultato concorrono: la legislazione malamente concepita e coordinata che riduce il diritto a un discorso verboso, a disposizione di interpreti che cercano di forzarlo a vantaggio di interessi di parte; l’inefficienza del processo penale, conseguenza dell’«obbligatorietà» puramente nominale, ma pervertita di fatto in assoluta «arbitrarietà», dell’azione penale e delle complicazioni processuali, che produce impunità diffusa, frustrante per il cittadino onesto e osservante, ma anche «errori giudiziari», intesi come tali sia i deragliamenti della giurisdizione penale, costituiti dal fatto che il tribunale imputa una fattispecie che non si è affatto realizzata o la imputa a persona diversa da quella che l’ha posta in essere, sia l’inesatta qualificazione giuridica del fatto o in una non corretta applicazione delle norme di procedura; la formazione professionale difettosa, affidata a università che restituiscono alla società dei tecnici, ma non dei giuristi in grado di percepire i contesti socio-politici da cui le regole scaturiscono e a cui sono destinate; la magistratura costituzionalmente disegnata più come centro di potere che come potere di servizio, con un tasso di entratura in organi di garanzia eccessivo e sproporzionato; l’avvocatura a cui la Costituzione ha assegnato la funzione della difesa processuale, gravata, e quindi per questo delegittimata, dal «sospetto» di agire per sviare la retta applicazione della legge.
Ai fini dell’indispensabile e, al tempo stesso, indifferibile recupero di credibilità del diritto, perché non venga più percepito soltanto come strumento per giochi di potere e torni a essere, piuttosto, una scommessa sul futuro che tutti prendano sul serio, c’è bisogno, innanzi tutto, di operatori più dotti e più eticamente attrezzati, meno tecnici e meno formalisti; di una robusta opera di riacculturamento, insomma, che si generi a partire dalle facoltà giuridiche. Personalmente, mi intrigherebbe il ritorno alle magnifiche orazioni dei grandi avvocati dell’antichità, ma non vedo all’orizzonte novelli Cicerone, capaci di dipingere, come ad esempio nella difesa di Cluenzio, l’atmosfera torbida e corrotta delle classi ricche di una cittadina molisana al tempo della dominazione di Silla, capaci di narrare una serie di delitti, omicidi, avvelenamenti, procurati aborti, testamenti falsificati, facendo emergere a tinte fosche l’avidità rapace, e criminale, l’ossessione per il patrimonio, la tetra superstizione di personaggi in una esistenza provinciale; vedo piuttosto tanti epigoni di Euricio, accusatore falsario, negligente e svogliato, il quale mentre teneva l’arringa ogni tanto si interrompeva, per bisbigliare nell’orecchio di uno schiavo, per dettargli la lista del pranzo, di fronte a costoro, rifugiarsi nell’orgoglio della più classica oratoria forense è come andare all’assalto di un carro armato con una spada di legno.
Devo, dunque, prendere, e dare altresì, atto che per più di millecinquecento anni, in tutta Europa, ci si è affidati ai giuristi per la determinazione delle regole giuridiche del presente e del futuro, ma oggi non ne esistono più le condizioni: prudentes, iuris consulti, iuris periti, iuristae, padroneggiavano saperi oltre il diritto, come filosofia, retorica, storia, letteratura, di cui essi si avvalevano nella creazione delle forme giuridiche mediante le quali ordinavano, dopo averla conosciuta e analizzata, la complessità del sociale; con le codificazioni della modernità e la riduzione del diritto a legge, però, la figura del giurista «intellettuale» è progressivamente entrata in crisi e dentro l’universo giuridico è cominciato un processo di rarefazione culturale. Gli effetti di questo impoverimento epocale sono oggi evidentissimi nelle facoltà giuridiche e, giù per li rami, negli uffici di procura, negli studi legali, nelle aule dei tribunali, nelle camere di consiglio.
In queste condizioni, si fa fatica a conoscere quelle relazioni intersoggettive alla base di ogni sistema giuridico o, forse, non le si vuole neppure conoscere, sicché ci si ritrova nelle leggi dell’ultim’ora, casuali, raffazzonate, vuote di vita. Perso ogni significato sequenze metodiche del tipo esperienza, intuizione, sapienza, giustizia, la dura realtà è che sono spariti o vanno almeno sparendo i tradizionali iuristae: per dirla con il cardinale Giambattista De Luca (Il Dottor Volgare [proemio 7.10]), l’universo giuridico è ormai popolato da «puri testuali», i quali credono che esiste un’identità assoluta fra legge e diritto e che nella legge si trovi quel tutto che si dovrebbe conoscere e coltivare. Sol che abbia un po’ d’esperienza e qualche raccolta di sentenze sulla scrivania, un operatore mediamente diligente, non dovendo più scavare nei fatti sociali e individuarne la misura più corretta, riesce oggi a cavarsela nella maggior parte dei casi: leggi e codici ben redatti ne semplificano il lavoro e riducono la competenza richiesta nella ricerca della soluzione.
Se Benedetto Croce, citato da Piergiorgio Odifreddi (“La bellezza matematica nascosta nel mondo”, La Repubblica, 28 marzo 2014) poteva sostenere che, nella società, «comanda chi ha studiato greco e latino e lavora chi conosce le materie utili» e, addirittura, degradare la scienza a semplice suppellettile, sorta di libro di ricette di cucina: priva di valore conoscitivo, oggi, per quanto attiene al diritto, simili proposizioni non hanno più cittadinanza: per un verso, vi sono filosofi e letterati, come ad esempio Claudio Giunta (“Ripensare l’umanesimo”, in Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2011), per il quale l’Italia è un «paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio», che hanno espunto la giurisprudenza dal novero delle scienze umane; per altro verso, non manca chi sostiene, è il caso di Umberto Vincenti (Diritto e menzogna, Donzelli Editore, Roma 2013), che la iurisprentia abbia addirittura perso la qualità di scientia iuris, degradata com’è a pura tecnica: «Tecnica giuridica e non più giurisprudenza, ma anche tecnici del diritto e non più giuristi; tecno-diritto e non più (assolutamente) diritto».
Del resto, l’esperto legale dei nostri giorni, operando solo attraverso le parole della legge vigente, è appiattito sul presente: passato e futuro non gli interessano, fuoriuscendo dalla trama entro cui lavora; né è interessato a capire cosa ci sia dietro le regole scritte, la ragione storica di una singola disciplina o le idee che hanno determinato una certa opzione di regime; è altresì alieno alla critica all’assetto in vigore: poiché è il presente, non già i futuribili o il riformato, a garantirgli competenza e qualità di esperto, è di solito ostile ai cambiamenti. Complice di questo disastro lo sciagurato rinnovamento della scuola italiana, affidato a sbrigative potature come quelle abbattutesi sulle scienze umanistiche che taluni demodementi vorrebbero completare con l’ostracismo della filosofia dall’insegnamento universitario, punto di approdo del maldestro tentativo di impedire il formarsi dello spirito critico su cui si fonda, in una vera democrazia, la possibilità di esercitare forme di controllo tese a evitare che il potere si trasformi in arbitrio e che si nasconda nell’opacità.
Assunto, infatti, a unico bene da salvaguardare la velocità dei processi decisionali, l’esercizio dello spirito critico, implicante discussione, finisce inesorabilmente per rallentarli. Di qui, la riduzione degli spazi dove lo spirito critico può essere accettato, o benevolmente tollerato: spazi privati, ovviamente, dove rifugiarsi per praticare un irrilevante otium, che non inneschi alcuna forma di contagio. Immanuel Kant, nel saggio Il conflitto delle Facoltà (in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Miano 1989, p. 244) aveva indicato come compito della facoltà di Filosofia, quello che forse ancor più è il compito delle facoltà giuridiche: sviluppare e affinare «la capacità di giudicare con autonomia, vale a dire liberamente (…) poiché l’unica cosa importante è la verità»: innegabile che competa alla facoltà di Giurisprudenza tramettere i fondamenti del pensiero critico, l’attitudine alla problematizzazione, il sentimento e la consapevolezza della relatività di ogni ordinamento giuridico; devastante, dunque da combattere con ogni mezzo e in ogni sede, il tentativo di trasformare le università in scuole professionali o, peggio, di professioni legali, quali magistratura, notariato e avvocatura. È necessario, allora, pretendere che le facoltà giuridiche tornino a formare autentici giuristi, uomini di cultura raffinata, in possesso di una tecnica peculiare, ma in grado di leggere la realtà sub specie iuris, ispirata dal dubbio metodico.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
"Può reiterare il reato perché ha affinato le sue indiscusse capacità". Detenuto si laurea in carcere ma per i magistrati è più pericoloso… perché ha studiato: domiciliari negati. Redazione su Il Riformista il 3 Maggio 2022.
Studiare in carcere non è cosa ben gradita perché si rischia di affinare alcune peculiarità e reiterare condotte illecite. E’ quanto emerge dalle motivazioni del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha rigettato la richiesta di differimento della pena avanzata dal legale di un detenuto all’inizio del primo lockdown (2020). Istanza presentata a causa di motivi di salute e respinta dai magistrati del capoluogo emiliano con una frase che lascia interdetti: “La laurea conseguita durante la detenzione e la frequentazione di un master per giurista di impresa ove si consideri la sua personalità per come emerge dalle relazioni di sintesi, si ritiene possano aver affinato le sue indiscusse capacità e gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico, che possono essere svolte anche se ristretto in detenzione domiciliare”.
A raccontare la vicenda è il settimanale L’Espresso secondo cui il detenuto, complice anche l’inizio della pandemia, aveva richiesto un differimento della pena sulla base di un’asserita situazione di fragilità sanitaria che lo rendeva particolarmente esposto alle conseguenze di un eventuale contagio. Da qui la richiesta del passaggio agli arresti domiciliari, negata dal Tribunale di Sorveglianza che tra le motivazioni alla base del rigetto ha anche battuto sulla pericolosità dell’istruzione perché considerata come fattore potenzialmente pericoloso in grado di affinare la capacità criminale della persone detenuta, esperta in reati economico-finanziari.
Parole che hanno indignato il Dipartimento universitario dove il giovane detenuto ha studiato con giuristi e docenti. Ma non solo. Anche il presidente merito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, insieme all’avvocata Francesca Cancellaro, hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 2 del primo protocollo integrativo della Convenzione, che prevede il diritto allo studio, e di altri articoli.
Una cosa da cui ci si può difendere in tanti modi: una replica, una diffida. Tre toghe mi vogliono in galera per un apprezzamento sgradito. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 28 Aprile 2022.
L’altro giorno trovo nella cassetta delle lettere una busta verde con un cartiglio inequivocabile: “NOTIFICHE PENALI”. Tre magistrati mi hanno querelato. Dice: e allora? E allora niente, so bene che è routine (non per me, che non ho mai ricevuto querele): ma m’interessa capire che cosa spinge qualcuno a fare istanza affinché qualcun altro sia processato e sottoposto una sanzione penale, possibilmente la galera. E non perché il querelante lamenti una coltellata, o di essere passato pubblicamente per stupratore di bambini, ma perché si duole di un apprezzamento sgradito: che è una cosa da cui ci si può difendere in tanti modi (una replica, una richiesta di scuse, persino una diffida), senza che sia necessario reclamare la gattabuia per il presunto colpevole.
Inutile precisare che in materia ho un pregiudizio. Io sono per l’abolizione del carcere, persino per l’abolizione della pena: figurarsi, dunque, quanto sia lontana da me anche la sola idea che un mio simile, su mio impulso, possa finire in prigione. È una questione culturale, civile, di impostazione umana, e certamente non posso pretendere che sia condivisa. Nell’ambiente in cui ho cominciato, ahimè troppi anni fa, a fare il mestiere che faccio (sono avvocato, mi occupo di proprietà industriale), si guardava con compatimento, e forse con un po’ di disprezzo, ai colleghi che si affidavano al giudice penale per risolvere i casi della nostra materia. Non ci piaceva, anzi ci ripugnava proprio, che una lite su un marchio o su un brevetto finisse in perquisizioni e anni di prigione. Le norme penali esistevano, ma erano lasciate lì, inerti, e nessuno tra noi si sognava di farvi ricorso.
Ora non importa riferire chi siano i magistrati che mi hanno querelato (son tra quelli più noti, quelli sempre in Tv), né importa (se non a me) che abbiano querelato me: e piuttosto, come dicevo, mi interessa e credo sia di interesse capire come e con quale coscienza si possa richiedere che una persona sia processata e condannata alla privazione della libertà. Devo ritenere che il querelante ritenga giusto, civile, appropriato che un essere umano – non un soggetto pericoloso, non una persona che, se lasciata libera, potrebbe arrecare nocumento all’incolumità altrui – sia imprigionato. Voglio sperare che la risposta non stia nell’osservazione che tanto in galera non ci finisce mai nessuno, e che quindi chiedere il carcere è innocuo perché poi uno lo scampa.
Né ovviamente ci si può aspettare che certe meditazioni turbino gli intendimenti di chi si è fatto un nome mandando in galera la gente. Ma un fatto è certo: la giustizia di questo Paese sarebbe diversa, pur a norme invariate, se quelli che la amministrano non nutrissero la fede che invece dimostrano per il sistema penale; se non dimostrassero questa totale noncuranza nell’essere causa dell’afflizione altrui; se provassero pena per le pene che chiedono per gli altri. Infine: se sentissero il peso del male che sono chiamati a fare. Perché se lo sentissero, credo, tanto più rigorosamente eviterebbero di farne quando nemmeno vi sono chiamati. E non farebbero più querele, credo. Iuri Maria Prado
Processo in diretta. La logorrea televisiva dei magistrati e il silenzio di chi subisce i loro errori. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.
Nell’equilibrio dei palinsesti italiani si assiste allo strano fenomeno per cui i togati, che non sono persone qualsiasi, possono fare requisitorie televisive sul bene comune, e nel caso, dare la linea delle politiche giudiziarie. Forse si esagera nel dare loro spazio? Un rimedio ci sarebbe.
Bisogna sgomberare il campo da un piccolo fraintendimento quando si discute di giustizia e del diritto dei magistrati di occupare giornali e tv facendo il bello e il cattivo tempo nel dibattito pubblico. E il fraintendimento sta in questo: nell’idea, completamente sbagliata, che in quel modo il magistrato eserciti un diritto di parola equiparabile a quello del cittadino comune.
Perché questa, pressappoco, è l’idea: che il magistrato sia uno qualunque, e che non concedergli quotidiani ettari di interviste e intere maratone televisive equivalga a imbavagliarlo privandolo di un diritto elementare. Ma a parte il fatto che a uno qualunque non si concede nemmeno un centimetro della ribalta invece garantita all’eloquio togato, c’è che il magistrato non è per niente uno qualunque, ma un funzionario cui la società (non Dio) attribuisce il potere di applicare la legge, non quello di dare la linea delle politiche giudiziarie né tanto meno quello di fare requisitorie televisive sul bene comune.
C’è poi il fatto che quel potere (il potere di applicare la legge) implica il dettaglio della vita altrui, che può essere travolta da un tratto di penna: il che dovrebbe consigliare maggior cautela nel lasciar libero il magistrato di tracciare l’indirizzo politico del Paese in argomento di giustizia, proprio come non accetteremmo la conferenza stampa di un colonnello che con la pistola alla cintola contesta le politiche di governo per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il caso del manipolo di magistrati che chiama in adunata le televisioni e denuncia le malefatte della politica marcia ce lo ricordiamo bene; una junta di militari che allestisce in caserma un set analogo e reclama politiche dell’onestà invece non ce lo ricordiamo, e fino a prova contraria è un bene, ma sarebbe esattamente la stessa cosa. Con la differenza che il giorno dopo non intervisteremmo quei sediziosi per chiedergli come si fa a rimettere in riga la società corrotta.
Tutto questo per dire che ai magistrati dovrebbe essere impedito di parlare? No, per carità. Diciamo nella giusta misura: gli diamo lo spazio normalmente concesso ai destinatari dei loro provvedimenti sbagliati, i cittadini arrestati ingiustamente, quelli che hanno perso il lavoro, la famiglia, il patrimonio a causa degli errori e degli abusi del potere giudiziario. Sarebbe un’informazione magari un po’ meno scoppiettante, un po’ meno da far sognare il popolo dell’onestà, ma forse più civile, più giusta.
Toghe e informazione, il bavaglio non esiste. Armando Spataro su Il Corriere del Giorno il 4 Giugno 2022.
Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i "racconti" a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri cui si fonda la credibilità dell’amministrazione della giustizia, mentre a comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il CSM ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi.
Alcuni a partire da Paolo Colonnello su La Stampa hanno parlato un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedure penali. Non si può ovviamente alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. E’ innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte.
Ma l’allarme-bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezionali motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentano la creazione di magistrati icone, non caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.
Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici, ed i giornalisti. e’ virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato.
Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comune appartenenza partitica o per parentela ed amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge ! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazione inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.
Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo ? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo e diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili.
Infine un’ultima domanda: si continua a denunciare il rischio di bavaglio all’informazione sulla giustizia, ma non rilevo affatto che, dall’entrata in vigore del decreto sulla presunzione d’innocenza, tale informazione abbia patito penalizzazioni di qualsiasi tipo ! O sbaglio ? Riflettiamo tutti insieme, dunque, su informazione e giustizia, tra magistrati, avvocati e giornalisti, cercando di risolvere ogni criticità, ma si eviti per favore di denunciare un’inesistente bavaglio all’informazione come se vivessimo fuori da una democrazia.
No al decreto sciagurato che censura i nomi di arrestati e indagati. La tutela del diritto di cronaca: occorre rivedere la norma scritta troppo in fretta per evitare la procedura d’infrazione dall'Ue. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2022.
Le persone più attente avranno notato che dalle cronache giudiziarie vanno via via scomparendo i nomi di persone arrestate o accusate di reati. Apprendiamo che la tale Procura ha condotto un’indagine che ha portato all’arresto o alla denuncia di un certo numero di persone, ma non sappiamo chi sono. Fra loro potrebbe esserci il vicino di casa, un parente, l’insegnante accusato di pedofilia che è anche l’insegnante di nostra figlia. Ma non lo sapremo. O meglio non lo sapremo ufficialmente, perché la polizia giudiziaria e i Pm che conducono le indagini non possono più fornire notizie. Solo il Procuratore della Repubblica può interloquire con i giornalisti.
Sono gli effetti dello sciagurato decreto legislativo 188/2021 entrato in vigore il 14 dicembre scorso. Il decreto nasce per attuare la direttiva europea 2016/343 sulla presunzione d’innocenza. Si dirà: allora colpa della solita Europa. Nient’affatto, poiché la direttiva chiede ai Paesi membri solo di adeguare la loro legislazione in modo da proteggere la non colpevolezza dell’imputato fino a una sentenza e di evitare anticipazioni di condanna. L’Italia per cinque anni ha ignorato la questione ritenendo sufficiente quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione («L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») che risulta più garantista della direttiva Ue in quanto richiede una «condanna definitiva», mentre per la normativa europea – compresa la Convenzione per i diritti dell’uomo – è sufficiente che vi sia una condanna, quindi anche solo in primo grado.
Il decreto legislativo 188/2021 è rivolto alle autorità pubbliche (magistrati, forze di polizia) ma estende i suoi deleteri effetti sull’informazione e sui giornalisti. Al di là delle modifiche ad alcuni articoli del codice penale, introduce infatti il divieto per Pm e polizia giudiziaria di fornire notizie sulle attività di indagine. Può farlo solo il Procuratore della Repubblica che di volta in volta deve stabilire quali indagini o quali operazioni di Pg siano meritevoli di essere comunicate ai media. Lo potrà fare solo con comunicati stampa o, eccezionalmente, con conferenze stampa, trasformandosi così in addetto stampa del suo ufficio e caricandosi ogni volta l’onere di individuare quale sia l’interesse pubblico di un determinato fatto. I giornalisti, poiché non toccati direttamente dal decreto legislativo, possono continuare ad attingere notizie da tutte le altre fonti (avvocati, testimoni, parti lese eccetera) ma non potranno mai verificarle con l’unica fonte diretta e attendibile, cioè con chi ha condotto le indagini.
A prescindere dalle considerazioni di natura tecnica che si potrebbero fare circa il rischio di censura, la difficoltà di stabilire quale sia l’interesse pubblico e via di seguito, è sufficiente una considerazione pratica: come farà un Procuratore della Repubblica, che di solito non sta in ufficio a fare i cruciverba, a valutare ogni singola notizia, a stendere comunicati stampa e diffonderli, a indire e tenere conferenze stampa? Delle due l’una: o si trasforma in un bravo addetto stampa o fa il lavoro per il quale ha studiato, ha acquisito competenze ed è pagato. Il rischio, per non dire la certezza, è che dovrà fare scelte di comunicazione privilegiando inevitabilmente le indagini relative ai reati più gravi o di maggior impatto sociale e per evitare richieste di rettifica – che comportano ulteriore lavoro – tenderà a non fornire nomi se non in casi eccezionali. Ecco spiegato l’anonimato di molte cronache.
Non solo, ma cominciano a sparire le notizie relative a indagini o operazioni di polizia che riguardano reati forse minori, ma di grande impatto sul senso di sicurezza dei cittadini come furti, scippi, aggressioni, spaccio di droga. Un’assenza che porterà discredito su magistratura e polizia in quanto, visto che non se ne saprà nulla, la percezione pubblica sarà che nessuno fa niente per reprimere questi reati. Che fare? Semplicemente rivedere il decreto legislativo in questione, scritto troppo in fretta per evitare la procedura d’infrazione da parte dell’Europa. Il costume italico di fare le cose all’ultimo minuto spesso porta a non ponderare in maniera attenta gli effetti di certe scelte. Senza contare che questo dlgs non inciderà sui cosiddetti processi mediatici, che davvero possono compromettere la presunzione d’innocenza di un accusato, o sulla «gogna mediatica» cui è esposta una persona che a qualsiasi titolo «entri» in un’inchiesta.
Nell’impossibilità di verifiche, le notizie non solo saranno sempre più anonime, ma anche più incerte facendo riferimento non a fatti verificati ma a supposizioni, deduzioni, «soffiate» di vario genere. Avranno campo libero tutti i venditori di fumo e gli odiatori che attraverso i social potranno disinformare a gogo. Tanto nessuno li potrà smentire con dati certi provenienti da fonti note e attendibili. Col dlgs 188/2021 si amputa di fatto il diritto di cronaca poiché si impedisce al giornalista di attingere alle fonti – a tutte le fonti – che ritiene utili per fornire al pubblico notizie veritiere. Uno studioso come Glauco Giostra ha rilevato che in democrazia «è inconcepibile una giustizia segreta», che rischierebbe di diventare «torbido strumento di affermazione di parte», determinando una «gravissima involuzione civile e democratica».
Ben prima c’era stato tale Cesare Beccaria che aveva sentenziato che «Il segreto è il più forte scudo alla tirannia». In questo caso la tirannia sarà quella della informazione irresponsabile, delle ricostruzioni fantasiose e delle fake news. Con buona pace per la presunzione d’innocenza.
“Scarcerato il mostro…”. Così i giornali scatenano la gogna. Titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, mentre in realtà dopo anni scontano pene alternative. “Farla franca”, mentre invece sono stati assolti. Tanti gli articoli che non osservano i doveri deontologici del giornalismo sul tema penitenziario. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 luglio 2022.
Abbiamo la costituzione più bella del mondo, ma spesso i suoi ideali enunciati rimangono solo sulla carta. Così come abbiamo il testo unico dei doveri del giornalista, che se venisse rispettato avremmo una informazione che ci porterebbe al primo posto nel mondo per la qualità del giornalismo. Invece no. Basti pensare al tema penitenziario. I detenuti usufruiscono di misure alternative? La maggior parte dei giornali titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, dando così una percezione errata all’opinione pubblica, abbassandone il livello e alimentando il populismo penale. Teoricamente è vietato.
Le terminologie usate danno un valore negativo ai trattamenti penitenziari verso la libertà
Il giornalista ha il dovere di usare la giusta terminologia, ma non lo fa più nessuno. Anzi, alcune firme “rischiano” anche di vincere un premio o addirittura fare corsi di giornalismo. Sono tante le terminologie che imperversano in numerosi articoli di giornale e dove si fa anche una effettiva disinformazione dando come valore negativo il trattamento penitenziario che prevede – tra i vari benefici – l’affidamento al servizio sociale, la semilibertà o i permessi premi, e quindi una graduale proiezione verso la libertà.
Nel 2013 è stata approvata la “Carta di Milano’’, relativa ai diritti dei detenuti
In realtà nel 2013 il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha approvato all’unanimità la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano’’, relativa ai diritti dei detenuti, che diventa così un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La “Carta di Milano” ha una origine particolare: viene dal basso, non direttamente dall’Ordine dei giornalisti. È, infatti, il risultato di una lunga riflessione, nata dai giornalisti interni alle carceri, dagli operatori dell’amministrazione carceraria e dagli stessi detenuti a partire dal 2011.L’esigenza di uno strumento regolativo sull’informazione carceraria viene inizialmente maturata in tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre redazioni carcerarie promotrici della sua nascita erano state, rispettivamente, quella di Carte Bollate, periodico diretto da Susanna Ripamonti all’interno del carcere di Bollate, quella di Ristretti orizzonti, giornale diretto da Ornella Favero e promosso dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca e quella di Sosta forzata, rivista della Casa circondariale di Piacenza, diretta da Carla Chiappini.
Numerosi sono stati, in seguito, i seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, organizzati nei mesi di marzo e aprile 2011 dalla redazione di carte Bollate e rivolti sia agli allievi del Master di giornalismo dell’Università Iulm e dell’Università statale di Milano, sia ai giornalisti professionisti. L’obiettivo di questi incontri era quello di sensibilizzare maggiormente il bisogno di un’informazione deontologicamente corretta nei confronti di chi vive tutti i giorni nel mondo carcerario o a contatto con esso.
Nel corso del 2012 la Carta si è diffusa progressivamente in tutta Italia ed è stata sottoscritta anche dagli Ordini dei giornalisti di Toscana, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia. La Carta, però, era valida ancora solamente a livello regionale. La spinta definitiva alla sua approvazione a livello nazionale è avvenuta l’ 8 gennaio 2013, data in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti.
La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta
La sensibilità comune nei confronti delle condizioni degradanti del mondo carcerario, inoltre, è aumentata notevolmente in seguito al discorso pronunciato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della visita alla casa circondariale di San Vittore, avvenuta il 6 febbraio 2013. L’ 11 aprile 2013, con l’approvazione definitiva da parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la “Carta di Milano” è diventata ufficialmente un protocollo deontologico obbligatorio per tutti gli operatori dell’informazione. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea.
La Carta raccomanda ai giornali l’uso di termini appropriati
Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Tutto ciò non viene rispettato. Non solo. Si arrivano a riportare vere fake news, ma l’Ordine dei giornalisti che dovrebbe vigilare, non ha mai fatto nulla. La deontologia rimane così un optional e la cultura del nostro Paese scivola sempre più in basso.
Nel processo mediatico l’indagato è diventato “un colpevole in attesa di giudizio…” Nel prezioso saggio del professor Vittorio Manes le degenerazioni della nostra giustizia penale. Valentina Stella su Il Dubbio il 24 maggio 2022.
Dal 5 maggio è in libreria il nuovo saggio di Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, dal titolo Giustizia mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo (Il Mulino, pagine 168, euro 15). La premessa dell’autore non lascia dubbi: «La giustizia penale è diventata spettacolo». Non siamo dinanzi a pura e semplice informazione o cronaca giudiziaria, «ma anche autentico intrattenimento, sempre più incline al voyeurismo giudiziario». È il cosiddetto processo mediatico parallelo, senza tempo, senza spazio, senza regole rispetto a quello che si celebra nelle aule di tribunale, che condanna prima di una sentenza definitiva.
Infatti, scrive l’autore, l’indagato si trasforma in «un colpevole in attesa di giudizio» assoggettato «a un’immediata degradazione pubblica» e avviato «a un’irrefrenabile catàbasi personale e professionale». A venire profondamente lesa è dunque prima di tutto la garanzia della presunzione di innocenza. A causa della «curvatura inquisitoria» del trial by media, l’onere della prova si inverte: non sarà più il pm a dover provare la colpevolezza dell’imputato ma la difesa la sua innocenza. Il dubio pro reo si rovescia nel dubio pro republica. In questa mise en scene delle indagini e del dibattimento su stampa e in tv, ad essere coinvolti sono tutti i soggetti del processo.
La vittima, prendendo in prestito una definizione di Filippo Sgubbi, è per Manes «l’eroe moderno, ormai santificato», istituita come tale «ante iudicium, ma anche fortemente protagonizzata a scapito del presunto reo». Come co- protagonista troviamo il magistrato dell’accusa: «sedotto dall’ammaliante convinzione che vincere nei cuori della gente può essere – e molto spesso è più importante che vincere in aula» il pubblico ministero diviene «il tribuno dei diritti della vittima o comunque paladino delle aspettative pubbliche». E l’avvocato? Molto interessante la doppia rappresentazione che ci restituisce Manes: «Anche l’avvocato può occupare un ruolo di rilievo, anche se questo è molto diverso a seconda della posizione processuale rivestita e dalla parte che assiste, che può condurlo ad agire o patire il processo mediatico. Se tutela l’interesse della vittima – o se opera come patrono di parte civile – può fruire di riflesso del protagonismo di questa, e non di rado può lasciarsi irretire dalla forza seduttiva dei media sino a prendere parte a programmi di informazione, di infotainment o a talk show contribuendo bon gré mal gré alla spettacolare ricostruzione collaterale dei fatti. Al netto di ogni valutazione deontologica, quando l’avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve». Se viceversa tutela l’indagato l’avvocato «versa in una posizione decisamente scomoda: il rovesciamento della presunzione di innocenza lo colloca in posizione di ‘ minorata difesa’, se non sostanzialmente “fuori gioco”».
Non è immune al bombardamento mediatico persino il giudice che, nonostante il suo corredo professionale, si sentirà inevitabilmente chiamato a dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione o dalla parte degli indagati che la vox populi considera già presunti colpevoli. Ormai nel nostro sistema assolvere o derubricare un reato è divenuto un atto di coraggio.
Tutto questo ha pertanto delle ricadute sul piano processuale: oltre all’eclissi della presunzione di innocenza si assiste anche alla lesione del diritto di difendersi nel contraddittorio tra le parti. L’autore allude, ad esempio, «al rischio che la parodia televisiva eserciti una silenziosa manipolazione del ricordo nei soggetti chiamati a dare il loro contributo testimoniale, e che tale alterazione conduca a quella che è stata finemente descritta come una sorte di subornazione mediatica». Di fronte a tale scenario perde ogni efficacia maieutica lo strumento di verifica dell’attendibilità del teste, il cosiddetto contro esame.
Per non parlare poi del rischio di condizionamento irreversibile della stessa persona offesa. Come invertire la rotta? Manes suggerisce «un approccio rights-based» da parte della magistratura e della stampa che permetta di bilanciare, anche in linea con le disposizioni europee, l’interesse pubblico ad essere informati con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in una indagine e/ o processo.
Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. Parola di Salvi. Presunzione d’innocenza, il pg di Cassazione: «La comunicazione non va abbandonata alla disponibilità delle parti private, non hanno obbligo di correttezza nell’informazione». Simona Musco su Il Dubbio il 16 aprile 2022.
Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. A sostenerlo è il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, in un documento con il quale definisce gli orientamenti della Suprema corte in materia di comunicazione istituzionale sui procedimenti penali.
Ben vengano il rispetto della presunzione d’innocenza e della dignità della persona, afferma il pg – che, è bene ribadirlo, è anche il titolare dell’azione disciplinare a carico dei magistrati – ma la direttiva europea recepita dal governo italiano, che impone ai capi delle procure una comunicazione più sobria, avrebbe come effetto quello di lasciare tutto in mano alle parti private – gli avvocati, appunto –, con il rischio «che il processo si svolga non nelle aule di giustizia, ma in quelle dei mezzi di comunicazione di massa».
Il tutto, aggiunge Salvi, «senza alcun contraddittorio in grado di ripristinare, non si dice la parità delle armi, ma almeno la verità di quanto accertato nelle aule giudiziarie rispetto alle prospettazioni mediatiche delle parti».
Insomma, in 10 pagine Salvi ribadisce quanto già affermato al convegno di “Giustizia Insieme”, quando aveva evidenziato che «il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato».
Il suo pensiero, ora, viene condiviso con tutti i procuratori delle Corti d’Appello e tramite loro con i capi di tutti gli uffici inquirenti d’Italia, che useranno proprio questa circolare per applicare la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Salvi ha ricordato che informare l’opinione pubblica «non è un diritto di libertà del magistrato del pubblico ministero o del giudice, ma è un dovere preciso dell’Ufficio». Che dovrà, certamente, preoccuparsi di fornire un’informazione «corretta e imparziale», «rispettosa della dignità della persona», «completa ed efficace», oltre che rispettosa della segretezza di alcuni atti. Ma senza nessun altro limite.
E la presunzione di innocenza, dunque, «non deve comportare che la comunicazione sia interamente abbandonata nella disponibilità delle parti private, nel corso del procedimento; parti per le quali non è invece posto alcun obbligo di rispetto di canoni seppur minimi di correttezza nella informazione».
Il rischio è, appunto, il processo mediatico, del quale il pg dà la colpa ai soli avvocati, nonostante il loro ovvio interesse a garantire il rispetto della presunzione d’innocenza e nonostante siano stati proprio i magistrati, negli anni, a monopolizzare la comunicazione, sia sulla carta stampata sia nei salotti televisivi, spesso presentando come colpevoli i semplici indagati.
E Salvi critica anche «il sempre più frequente commento mediatico alla decisione del giudice, in termini spesso offensivi e aggressivi». Condotte che, se poste in essere dai magistrati, «costituiscono illecito disciplinare», mentre non esisterebbero «sanzioni analoghe» nei confronti dei difensori delle parti private. Da qui l’invito ai colleghi a segnalare ai Consigli di disciplina forense tali condotte «nei casi gravi».
La diffusione di informazioni sui procedimenti penali «è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico», ribadisce il pg. Sarà il procuratore a stabilire quando tale interesse sussista, sulla base di «circostanze fattuali, temporali, e territoriali che non possono essere univocamente previste». Di conseguenza la scelta «non può essere sindacata, se non nei casi di palese irragionevolezza».
Insomma, il margine d’azione rimane amplissimo, secondo l’interpretazione data da Salvi alla direttiva e al decreto che le dà attuazione. E se è necessario motivare la convocazione di una conferenza stampa, tale obbligo anche per i comunicati stampa sarebbe irragionevole, in quanto contrasterebbe non solo con la norma, ma anche «con la tutela dell’interesse pubblico all’informazione, avente certo rilievo costituzionale».
Non sono vietate le interviste, anche perché, «come per qualunque altro cittadino, la manifestazione del pensiero è libera e costituzionalmente garantita» dall’articolo 21 della Carta. «Ad essere regolamentata è soltanto la comunicazione “istituzionale”», afferma Salvi, ma va «evitata ogni indebita espressione di opinioni, considerazioni e notizie, che ove non trasfuse negli atti dell’indagine divenuti sino a quel momento pubblici, deve considerarsi illecita».
Ogni violazione della presunzione d’innocenza si trasformerebbe, comunque, in violazione degli scopi e della lettera della direttiva, «con ogni conseguenza». La comunicazione diretta con il giornalista è dunque lecita, ma «non deve trattare delle posizioni di singoli indagati», mentre sono “vietate” interviste, «specialmente in esclusiva, volte alla trattazione di questioni inerenti singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali».
Sarà possibile ancora consegnare ai giornalisti copie delle ordinanze di custodia cautelare, ma non gli atti di indagine. Ma nel redigere l’ordinanza, il giudice ha «il dovere della presentazione degli elementi indiziari a carico dell’indagato in termini tali da un lato, da giustificare l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, e dall’altro da lasciare impregiudicata la presunzione di innocenza».
Ci mancava pure la gelosia per i penalisti “esonerati” dal riserbo sulle indagini. Le nuove norme sulla presunzione d’innocenza sono sgradite ai pm anche perché non estese agli avvocati penalisti. Valentina Stella Il Dubbio l'11 aprile 2022.
Partiamo da alcuni dati: una ricerca condotta qualche anno fa da parte dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, presieduto ai tempi da Renato Borzone, in collaborazione con il dipartimento di Statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato che il contenuto degli articoli di cronaca giudiziaria «è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte di esso è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione». Inoltre, sempre quella ricerca ci disse che oltre il 60% delle notizie riguarda l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza. Quindi, a causa di una certa stampa “embedded” presso le Procure, in questi anni abbiamo assistito a un racconto unilaterale delle vicende giudiziarie, dimenticandoci della fase del dibattimento.
Sapete invece cosa teme ora parte della magistratura? Che saranno gli avvocati a prendersi la scena e/o a divenire le nuove fonti privilegiate della stampa, visto che la direttiva ha imposto dei limiti alla comunicazione della magistratura requirente e alla forze di polizia giudiziaria. La preoccupazione è emersa anche recentemente in un interessante convegno organizzato da “Giustizia Insieme”, la “piattaforma permanente dedicata al confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile”, dal titolo Processo mediatico e presunzione di innocenza (lo potete riascoltare su Radio radicale). Durante uno dei panel è stata sollevata, anche giustamente, la seguente questione dalla dottoressa Donatella Palumbo, pm alla Procura di Lecce: considerato che la norma si riferisce alle autorità pubbliche, le fonti del giornalista potrebbero ora essere in maniera prevalente le difese e/o le parti offese, che non rientrano in quella categoria. In pratica ci si è chiesto se non possa verificarsi una indiretta lesione della presunzione di innocenza.
In altri contesti altri magistrati hanno rilevato che, già prima dell’entrata in vigore della norma, a contattare i giornalisti sono stati spesso gli avvocati per farsi pubblicità. Pur di incassare una citazione su un giornale, alcuni difensori sarebbero capaci di danneggiare persino la reputazione dell’assistito, hanno detto. Siccome in ogni categoria c’è sempre qualcuno che agisce in maniera poco ortodossa, possiamo anche immaginare che in alcuni casi sia così. Ma di certo, come ha sottolineato recentemente in un altro convegno l’avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro studi giuridici “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere penali, «non è paragonabile il fenomeno delle conferenze stampa o delle veline delle Procure con i comportamenti deontologicamente scorretti tenuti in modo occasionale da avvocati spregiudicati. Il lettore del giornale o lo spettatore del tg sono certamente più influenzati dalla comunicazione ufficiale della pubblica autorità che non dalla notizia filtrata ai giornalisti da altre fonti». Anche perché nella fase interessata dalla normativa, ossia quella delle indagini preliminari, gli avvocati non hanno tutte le informazioni di cui dispone invece il pubblico ministero. Certo, un problema potrebbe essere generato dalla mediatizzazione delle parti civili e delle persone offese prima del processo.
Apriamo una parentesi: non ha torto il professore e avvocato Ennio Amodio quando sostiene che nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito accusatorio, in quanto la difesa deve giocare una partita contro l’accusa e contro la parte civile, avendo davanti a sé anche un giudice non sempre terzo e imparziale. Chiusa la parentesi, pensiamo ad esempio ai casi di violenza sessuale. Abbiamo visto tante trasmissioni televisive con le presunte vittime in studio a raccontare la loro esperienza e i loro avvocati in collegamento. Questa è sicuramente una profonda distorsione della comunicazione giudiziaria, tesa a ledere la presunzione di innocenza. Ma comunque: esiste davvero il rischio che oggi a condurre la narrazione giudiziaria ci siano altri protagonisti con lo stesso potere mediatico delle Procure? Ora andiamo verso una inversione di tendenza? Impossibile, per le ragioni che vi abbiamo esposto. Piuttosto, come ha sottolineato il direttore scientifico di “Giustizia Insieme”, il dottor Roberto Conti, occorre promuovere una «leale cooperazione» fra «i diversi attori nella rappresentazione della giustizia, lasciando ai margini atteggiamenti assolutistici, onniscenti, a volte supponenti e boriosi di coloro che, pur legittimamente espressivi di una di quelle verità, la contrabbandano come l’unica verità. Tutto questo impone dunque una grande dose di coraggio in tutti i protagonisti».
Eppure durante lo stesso convegno di “Giustizia Insieme”, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha tirato in ballo sempre l’avvocatura: «Per il magistrato informare è un dovere, non è un diritto. Resta ancora inaffrontato il tema del processo mediatico, perché il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato». Innanzitutto sarebbe interessante capire come si concilia il dovere comunicativo evocato da Salvi con le recenti parole del presidente della Repubblica, e del Csm, Sergio Mattarella: «A voi», ha detto rivolto ai giovani magistrati, «è chiesto di amministrare la giustizia con professionalità e con riserbo». Per il resto, la sensazione è che alla magistratura non solo dia fastidio questa nuova norma, come spesso vi abbiamo raccontato, ma che il fastidio aumenti perché ad esserne interessati sono solo i magistrati e non anche gli avvocati. Si sta guardando forse il dito e non la luna?
La polvere sotto il tappeto. I pm demagoghi contro la presunzione d’innocenza, l’assurdo argomento che qualcuno vuole “tappargli la bocca”. Otello Lupacchini su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Aristotele, nei Topici [VIII 164b], raccomanda di non discutere con chiunque, perché, in realtà, quando si discute con certe persone, le argomentazioni divengono necessariamente scadenti: quando ci si trova di fronte a un interlocutore, che cerca con ogni mezzo di uscire indenne dalla discussione, lo sforzarsi di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante. Per questa ragione, dunque, eviterò di confrontarmi con faciloneria coi primi venuti, poiché non intendo giungere a discussioni velenose e voglio evitare confronti agonistici. In fondo, che senso avrebbe, per esempio, opporre a chi polemizza a proposito del d.l.gs 188/2021 sulla presunzione di innocenza, arrivando ad affermare, con buona pace della necessità incontrovertibile di tutelare gli imputati, che non possono definirsi colpevoli fino alla sentenza definitiva, che la nuova legge «A me non (…) chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto.
Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa», che uniche danneggiate dalla legge stessa sarebbero «certe Procure, che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, che è quanto ci possa essere di più pericoloso, incivile, illiberale e arbitrario per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa»? Nessuno, se non magari quello di radicalizzare le posizioni senza costrutto. Il primo ribadirebbe, infatti: «non ho alcun dubbio sugli effetti negativi della legge sulla presunzione di innocenza (…), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali». Il vero problema, aggiungerebbe, è che la rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ed esternerebbe, finalmente, il timore che «non parlandone, la ’ndrangheta e Cosa Nostra non esistano»; la paura che «di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio»; non senza aggiungere: «Se la ’ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste». A questo punto, occorrerebbe involgersi in faticose spiegazioni di teoria generale del processo, peraltro con poco profitto per l’interlocutore, che, ne sono convinto, s’annoierebbe moltissimo.
Il problema, piuttosto, è un altro. Non vi è giorno, infatti, in cui non sia dato di constatare l’organizzazione scientifica della ciarlataneria. Le ragioni che inducono a una così cupa constatazione sono le più svariate, non ultima, se non addirittura la prima fra tutte, che l’uomo non sa più tacere: se il silenzio è d’oro, parrebbe proprio che questo prezioso metallo sia scomparso dalla circolazione spirituale come da quella monetaria. Nel Vangelo si rinviene l’ammonimento che, «nel giorno del giudizio, gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detta» (Mt., 12, 36). E anche Martin Heidegger, uno dei più forti pensatori dell’esistenzialismo tedesco, si richiama alla parola, allorché distingue fra la vita autentica, quella cioè di chi vive nella contemplazione della morte, e la vita non autentica, che è quella di chi volge gli occhi da un’altra parte, non osando pensare alla sua fine: nel descrivere questo secondo tipo di vita, non degna d’essere vissuta, il filosofo ricorre a una parola francese, di non facile traduzione nella nostra lingua, il «bavardage». In sostanza, «bavarder» vuol dire ciarlare, ma l’idea precisamente è quella che si legge nel Vangelo: parlare ozioso. Per pensare si deve essere in due e le parole servono a far pensare; oziose, dunque, sono le parole che non riescono a far pensare, a produrre delle idee, le quali, per essere tali, devono consentire di scoprire qualcosa di nuovo nel mondo. Quelle provocate dal bavardage sono, pertanto, pseudo-idee: esse non fanno procedere d’un passo la conoscenza; dopo un’ora di ciarle, infatti, le persone si lasciano più vuote di prima.
Le parole oziose, pur non facendo pensare, non impediscono di pensare. Occorre chiedersi, però, se ci siano parole che impediscono di pensare; se l’abuso della parola possa arrivare al punto di cavarne il risultato contrario a quello per cui è stata creata; se, insomma, la parola strumento di libertà possa stravolgersi in parola strumento di servitù. Che la parola sia strumento di libertà, muovendo dalla libertà di chi parla e sollecitando la libertà di chi ascolta, è espresso dal verbo latino «suadere», che in italiano si rafforza e diventa persuadere, parole che evocano la «suavitas». Non è, dunque, un caso che al fine d’ottenere l’effetto persuasivo occorra soavità: la scelta e il tono delle parole, là dove si voglia sollecitare e non sopprimere la libertà dell’altro, giovano più di quanto non si creda. Il mezzo del persuadere è suggerire; offrire cioè un’idea, che l’altro possa far propria se gli piace o respingere se non gli piace; ma quest’idea dev’essere offerta in modo così discreto che neppure s’adombri un’offesa alla libertà dell’altro, il quale la possa far sua come s’egli stesso l’avesse pensata. L’uomo non pensa che il pensiero proprio; se il proprio coincide con l’altrui, ciò non può avvenire se non in quanto l’altrui sia liberamente accettato. Se non pensare, l’uomo può agire in virtù del pensiero altrui.
Così avviene quando il costringere prende il posto del persuadere. Il problema è, allora, se si possa costringere con le parole. L’esperienza della nostra realtà contemporanea è lì a dimostrare che si può abusare delle parole; e questo è uno dei suoi aspetti più sconcertanti e pericolosi. Nulla è più lontano dal persuadere che il discorso di uno dei quei venditori sulle piazze, ai quali si dà il nome di ciarlatani. La differenza fra il discorso del ciarlatano e un discorso persuasivo è la stessa che corre fra il rumore e l’accordo. Arthur Schopenhauer, per sostenere che «la vista è un senso attivo e l’udito un senso passivo», ha scritto che «i suoni agiscono disturbando e agitando il nostro spirito (…) distraggono tutti i pensieri, sconvolgono momentaneamente la forza del nostro pensiero». L’osservazione, evidentemente sbagliata per il suono, è giusta comunque per il rumore, che quando raggiunge la misura del fracasso impedisce di pensare. La ciarlataneria, rispetto al passato, ha oggi assunto nuove forme: i Dulcamara non s’incontrano più neppure sui mercati di campagna e quella che un tempo si chiamava «réclame» si è via via meglio truccata sotto il nome di «propaganda», la cui tecnica è oggi fondata sulla ripetizione.
L’essenza del ciarlatano, infatti, non è più il rumore, ma il ronzio, che di quello è di gran lunga peggiore: qui non si tratta più di suggerimento, ma di suggestione. La propaganda, portando un attentato alla libertà dell’uomo è pur sempre un male. Piccolo, magari, se riguarda la scelta di una merce, ma intollerabile quando riguarda la scelta delle forme e delle norme della struttura sociale, essenziali alla nostra vita, perché, come diceva Heidegger, il nostro «Sein» è «Mit-sein», il nostro essere è essere insieme. E questo esige una regola, un regime o meglio sarebbe dire un reggimento, che risulti dall’accordo di tutti quanti costituiscono l’insieme. L’accordo di tutti presuppone la libertà di ciascuno. E questo vuol dire democrazia, la quale esigendo che ognuno pensi con la propria testa, favorisce sì l’eloquenza e la persuasione, ma rifiuta la propaganda, poiché essa offende la libertà. In linea d’abuso della parola, il bavardage, la ciarla, il pettegolezzo non costituiscono il danno più grave: il ciarliero è meno nocivo del ciarlatano, poiché il primo, che si limita a non pensare, rovina sé stesso, mentre il secondo rovina gli altri, ai quali impedisce di pensare. E fino a quando non si sentirà l’esigenza di liberarsi degli imbonitori da fiera, lasciando finalmente spazio soltanto a indicazioni sobrie e decorose, rispettose della dignità dei contendenti e della libertà dei cittadini, la democrazia non potrà essere che un’illusione.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Il sistema da cambiare. Errori giudiziari, vite distrutte e 50 euro di risarcimenti ogni minuto. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Aprile 2022.
Il dilemma sulla giustizia, la riforma da approvare, il sistema da cambiare, i privilegi da azzerare, i diritti da tutelare. In questo periodo si fa un gran parlare di giustizia, diritti e magistratura. Si discute di referendum, di riforma della giustizia, di interessi di casta (quella dei magistrati), di aspetti da modificare o da conservare. E intanto, ogni minuto che passa, dalle casse dell’Erario escono 50,28 euro per risarcire chi ha subìto una custodia cautelare da innocente. «Non è poco, vero? Ma allora perché invece di pagare e basta non si cercano soluzioni concrete ed efficaci per ridurre il problema all’origine?», si legge sulla pagina dell’associazione Errorigiudiziari.com, l’associazione fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni si occupano di raccogliere dati e storie su casi di malagiustizia.
Come non concordare con questa loro osservazione… Perché non si cercano soluzioni? E perché di errori e vittime di ingiustizie si parla così poco, quasi per nulla? Nel dibattito sulla giustizia, infatti, tra i temi centrali non c’è quello relativo agli errori giudiziari. Come se le migliaia di vite distrutte da indagini frettolose o sbagliate, da accuse poi rivelatesi infondate, da misure cautelari applicate senza che ve fosse effettivo bisogno non fossero un macigno per la nostra giustizia. Già di per sé la custodia cautelare preventiva è una condanna anticipata che contiene il seme dell’ingiustizia, perché tra i presupposti su cui si fonda c’è quello del rischio di reiterazione del reato. Vuol dire che si fonda su un sospetto che a sua volta si basa su un altro sospetto. Perché immaginare che una persona indagata possa reiterare il reato di cui è sospettata equivale a dare per scontato che quel reato sia stato commesso e quindi che può essere commesso di nuovo. E questo – è evidente – va contro la presunzione di innocenza prevista dalla nostra Costituzione, perché una persona indagata non è detto che sia colpevole.
La statistica giudiziaria ci dice che non lo è nell’oltre il 40% dei casi. Basterebbe poi ricordare quante ingiuste detenzioni ci sono ogni anno per capire le proporzioni del fenomeno e i motivi per cui dovrebbe essere un tema tutt’altro che da ignorare nelle riflessioni su giustizia e riforma. Secondo le statistiche elaborate da Errorigiudiziari.com sulla base di dati ministeriali, negli ultimi trentuno anni le persone innocenti, risarcite o indennizzate in quanto vittime di ingiuste detenzioni o di errori giudiziari, sono state in Italia 30.231. «Tanti da riempire fino all’ultimo strapuntino lo stadio di Torino», sottolinea l’associazione Errorigiudiziari.com per rendere meglio l’idea di ciò di cui si parla. Dal 1992 al 2020 la media annua di cittadini che sono finiti in carcere da innocenti oppure che sono stati processati e condannati da innocenti è di 1.015 casi. Per niente pochi. Volendo puntare la lente su Napoli e provincia bisogna calcolare che le statistiche locali si aggirano attorno al 10% del dato nazionale. Negli ultimi anni la media delle sole vittime di ingiuste detenzioni a Napoli non è scesa al di sotto dei 100 casi.
Più numerose che in altre città italiane. Ora, è vero che Napoli e il suo distretto giudiziario fanno riferimento ad aree ad alto tasso criminale ed è quindi vero che paragonare i processi di Napoli con quelli di Firenze per esempio non ha senso perché si tratta di processi con una complessità e un numero di imputati tato diversi da non poter essere equiparati, ma è anche vero che un innocente in carcere è uguale in qualsiasi parte del mondo e che un innocente in carcere è un peso che la magistratura spesso si scrolla troppo facilmente di dosso. Un peso che invece finisce per essere un macigno sulle spalle delle vittime, le quali patiscono tutte le conseguenze delle loro vite stravolte da arresti o processi ingiusti, e un fardello per la comunità, che si trova a pagare il costo sociale ed economico di queste conseguenze. Secondo recenti statistiche, nell’ultimo anno i casi di ingiusta detenzione sono stati 565 nel nostro Paese per una spesa complessiva e già liquidata in indennizzi pari a 24.506.190 euro.
Un numero che appare in calo, se confrontato con quelli degli anni precedenti, ma che va letto anche tenendo conto degli effetti della pandemia che hanno rallentato un po’ tutta la macchina giudiziaria, incluso il lavoro delle Corti d’appello incaricate di definire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Per quanto riguarda, invece, gli errori giudiziari, e quindi i casi di processi che si sono definiti con condanne poi annullate in seguito a una revisione che ha stabilito l’infondatezza delle accuse su cui si basavano, nell’ultimo anno si sono contati sette casi, nove in meno rispetto all’anno precedente. Un numero che finalmente inverte la tendenza degli ultimi anni quando la media degli errori giudiziari non era mai al di sotto dei dieci casi annui. E di fronte a tutti questi numeri, vale ricordare che le valutazioni di professionalità positiva dei magistrati si attestano ancora attorno al 99,2%. Un record.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Errori giudiziari, un’ecatombe intollerabile in uno Stato di Diritto. C’è una media annuale di mille indennizzi per ingiusta detenzione, ma sarebbero più del doppio considerando chi per legge non ne ha diritto. Mimmo Gangemi su Il Dubbio il 31 marzo 2022.
“Ci sarà pure un giudice a Berlino”. La frase, attribuita a Bertolt Brecht, è l’accorata speranza di un uomo qualunque che confida in una giustizia imparziale. Lui, un mugnaio, la trovò, in Federico II il Grande, re di Prussia. E la trovò nel XVIII secolo. Nel XXI troppo spesso non succede. E imperversa l’errore giudiziario. Che è argomento tabù, con la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di chi – pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica – presume d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, si crede investito della missione di anticipare in terra il giudizio divino.
Numerose le Procure nelle quali sono incrostate sacche di resistenza, con personaggi per nulla intenzionati a schiodarsi dalla destra del Padre, che pure tira calci per non averceli al fianco, e ossessionati dalla smania malaticcia di ottenere risultati, meglio se eclatanti, su nomi di rilievo, in grado di smuovere carriere che altrimenti stenterebbero. L’errore giudiziario merita approfondimenti. Occorre ripristinare la verità completa, correggendo i numeri, fin qui calcolati per difetto.
I dati
Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24 mila rimborsi per ingiusta detenzione e che la cifra corrisposta fu di 648 milioni di euro, con la maggiore incidenza in Calabria. Il dato si è mantenuto pressoché costante, come si evince dalle relazioni annuali del ministero della Giustizia al Parlamento. E la media annuale di 1.000 indennizzi riparatori, comunque allarmante, porta a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. Sbagliato. Perché è lontana da quella reale che, a occhio ma non tanto, si attesta almeno al doppio, essendoci i respingimenti e le mancate richieste, pur a fronte di assoluzioni piene.
Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti, in seguito riconosciuti estranei ai delitti contestati, nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 2.500. Ecco che i 28 mila si trasformano in 60 mila, 70 mila. È tollerabile una simile ecatombe in una democrazia, in uno Stato di diritto? No. Eppure, nonostante Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, per il quale “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”, mai compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto, un vago rimprovero, un distinguo, e la dice lunga che la Consulta abbia bocciato il referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati.
E chi incorre nell’obbrobrio sistematico di incarcerare innocenti a bizzeffe fischietta indifferente, tanto la coscienza è un optional, tanto gli applausi dell’ignavia e della morbosità scrosciano ugualmente, tanto le stellette guadagnate su meriti fasulli non verranno restituite. Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai – e questo è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema?
Beh, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, o se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano molte delle grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora la dea bendata, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra, quella benda se l’è tolta per poter strizzare complice l’occhio, allora si è in presenza di un crollo, o di una devianza voluta, della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani, allora si è di fronte a una giustizia arruffona, frettolosa, sommaria, cinica, allora ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime legalizzato che puzza di Stato di polizia, allora occorre riflettere sulle perplessità di Sabino Cassese, grande giurista e accademico, già ministro del governo Ciampi e giudice della Corte Costituzionale – “se ci sono tanti innocenti (riconosciuti tali nei processi, ndr) questo è veramente l’esercizio di un potere autoritario e arbitrario”; “noi vogliamo che i procuratori siano magistrati; se si comportano da Robin Hood, non sono più magistrati” – allora tornano di cruda attualità le parole di Gaetano Salvemini: “se ti accusano d’aver stuprato la statua della Madonnina appollaiata sul Duomo di Milano, intanto devi riparare all’estero, poi si vede”.
E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo.
Errori giudiziari ma anche "Far parti uguali tra diseguali". Carcere, assoluzione e nuova imputazione, la storia dell’eroe perseguitato dai giudici perché vive accanto ai “ribelli”. Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
«La Legge è il Potere dei senza potere», si diceva una volta. Sempre più spesso da qualche tempo l’ignavia del giudicante, e quindi di chi rappresenta la legge nella sua attuazione, fa gravi danni non solo al singolo ma alla speranza dei tanti poveri che potrebbero intraprendere eroicamente la dritta via. L’ignavia del Giudicante (ovviamente non tutti, ma purtroppo neanche pochissimi) può danneggiare gravemente anche il faticoso, prezioso e spesso straordinario lavoro del volontariato che tanto si spende per supplire alle carenze ataviche dello Stato nei quartieri più degradati.
Non si tratta solo di errori giudiziari, dunque, ma degli effetti nefasti che tale ignavia può produrre in danno della collettività più indifesa ed innocente. Alla vigilia di riforme della Giustizia, divenute improvvisamente necessarie ed inderogabili solo per incassare denari dalla Comunità Europea, ecco un esempio di ignavia tratto da un processo come tanti, neanche raccontato dai media. Nei quartieri più poveri e degradati, grazie all’azione incessante di parrocchie e volontari, vivono piccoli eroi contemporanei accanto a tantissimi “ribelli”. Eroi che crescono fianco a fianco di furfanti e disperati, spacciatori e potenziali killer in quartieri abbandonati dallo Stato come in una riserva di espunti predestinati. Sovente i nostri pochissimi eroi ed i tantissimi “ribelli” abitano negli stessi palazzoni che affacciano direttamente sui reclusori, presagio di una predestinazione che disintegra senza ipocrisia la chimera del libero arbitrio. In tali contesti delle periferie metropolitane più degradate, dove fino a due decenni fa perfino la Chiesa era assente, costoro, come rare stelle in un cielo plumbeo, riescono eroicamente a prendere le distanze da tutto ciò che è già loro “addosso” fin dalla nascita riuscendo a distinguersi talvolta anche nella gestualità e nell’estetica, pur costretti a convivere con tutto ciò che è la diversa “normalità” dell’intero quartiere.
Questi piccoli eroi riescono miracolosamente a trovare perfino un lavoro stabile con regolare contratto, mediando faticosamente con tutto il resto attorno che inizia a guardarli con sussiego se non addirittura con sospetto. Una bella mattina, proprio il giorno dopo che in tv si discute delle grandi trasformazioni della criminalità organizzata mimetizzatasi ormai nei trust e nei capitali internazionali, un blitz di arresti per camorra e piccolo spaccio di stupefacenti deflagra sul quartiere, coinvolgendo anche il nostro piccolo eroe ed azzerando così ogni segno di diversità attraverso una sbrigativa omologazione giudiziaria contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare che lo deporta dal balcone di casa direttamente all’interno del reclusorio sottostante, avverando così ogni sinistra profezia. La prassi attuale è che – di regola e salvo lodevoli eccezioni – nelle aule dei tribunali penali, la tragica povertà di lingua e di contesti degradati, invece di provocare indulgenza e commozione, sovente amplifica crudelmente l’entità di pene da infliggere a corpi incatenati senza valutarne la storia ed il tasso di libero arbitrio che ne ha determinato le condotte. Ed è sotto l’egida de “La legge è uguale per tutti” che ogni giorno si compie l’ingiustizia più grande secondo Don Milani: «Far parti uguali tra diseguali».
Se questa è la tragica tendenza culturale che avanza nei tribunali, ancor più difficile sarà in tale clima operare le giuste distinzioni riuscendo ad individuare immediatamente l’innocenza del nostro piccolo eroe. Ed invero, soltanto dopo due anni di terribile reclusione, il nostro eroe viene assolto. Ometto ogni considerazione sull’essere imprigionati da innocenti, perché non è questo il senso di ciò che intendo evidenziare. Il nostro piccolo eroe cambia abitazione, si trasferisce nel quartiere accanto, allontanandosi dalle case dei coimputati tra cui vi erano inevitabilmente anche parenti e conoscenti, e riprende subito a lavorare. Dopo un anno, un nuovo blitz, fortunatamente meno cruento perché non vi sono arresti: associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di marchi di borse di gran moda, questa volta fortunatamente senza aggravanti camorristiche. Il nostro eroe immediatamente si presenta dinanzi all’autorità giudiziaria, dichiarando la sua estraneità ai fatti e fornendo tutte le spiegazioni del caso.
Spiegazioni che dovrebbero risultare ancor più convincenti considerato che, già nel corso del precedente processo ed a seguito di indagini lunghe ed invasive, era emersa la sua assoluta onestà ed estraneità da ambienti criminali. Nel corso dell’indagine preliminare, questa volta dinanzi ad un giudice che dovrebbe essere imparziale perché terzo rispetto all’indagine del pm, insiste nel difendersi rendendo ulteriori dichiarazioni ed esibendo orgogliosamente, come reliquie – ma evidentemente non percepite come tali – le numerose buste paga e certificazioni lavorative che si susseguono nel tempo senza soluzione di continuità. Al giudice si era chiesta con insistenza ancora più attenzione, pur sempre dovuta, giacché la posizione dell’eroe era sacra, perché sacra è la busta paga del suo lavoro in quei contesti di rovine. Contro di lui tecnicamente da un punto di vista indiziario, c’è lo zero assoluto, e si può affermare con certezza assoluta che il ragazzo – se rinviato a giudizio – sarà sicuramente assolto per non aver commesso il fatto. Tra 6 o 7 anni, ovviamente. Ma l’ignavia trionfa: il giudice rinvia tutti a giudizio, senza alcuna distinzione.
In tal caso, non è in evidenza la pena dell’inutilissimo processo. È in evidenza invece uno stuolo di adolescenti borderline che, anche da tale vicenda fallimentare del nostro eroe, capiranno che non c’è speranza, che è tutto uguale, che il capitombolo dal balcone al carcere è ineluttabile. Ed inizieranno ad armarsi. Ma quand’è che in primis la politica e le istituzioni, e poi anche le tante meritorie associazioni di volontariato si interrogheranno più a fondo sui guasti provocati anche dall’ignavia di alcuni giudicanti? Domenico Ciruzzi
Le domande di risarcimento. Ti sbattono in carcere da innocente e non ti risarciscono perché la colpa è tua: non hai parlato durante l’interrogatorio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Marzo 2022.
Quanti sono ogni anno i cittadini italiani arrestati ingiustamente? Più del doppio di quello che ci dice il ministero e che vengono risarciti dallo Stato. Senza che mai alcuna toga paghi per i propri errori. Ci vorrebbe una scossa, come quella del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, e anche una riforma del codice di procedura penale, sul risarcimento per ingiusta detenzione. Una scossa che dia la sveglia allo stanco rituale per cui ogni anno in primavera per un giorno qualche quotidiano (non tutti, quest’anno pochissimi) ci racconta il carcere degli innocenti, con il numero delle ingiuste detenzioni e le cifre esorbitanti che lo Stato ha versato per mettere una pezza, almeno sul piano economico, sugli errori delle sue toghe.
Sui processi sbagliati, sugli innocenti prima sbattuti in galera e poi assolti. Per la cronaca, se quest’anno abbiamo saputo che nel 2021 lo Stato ha dovuto sborsare ben 25 milioni di euro per errori giudiziari e detenzioni ingiuste, lo dobbiamo soltanto a un’interrogazione del deputato Enrico Costa e alla risposta in aula alla Camera della sottosegretaria all’economia Alessandra Sartore. Nel silenzio del Ministero di giustizia, che avrebbe il dovere ogni anno di fornire al Parlamento tutti i dati sull’amministrazione della giustizia entro il 31 gennaio. Ma il tema delle toghe che sbagliano, non sempre in buona fede, è molto spinoso, negli uffici di via Arenula dove ha sede il ministero di Marta Cartabia. Perché il luogo è affollato di magistrati, soprattutto nelle posizioni apicali. Sono la gran parte dei famosi 200 fuori ruolo, cioè distaccati dai tribunali in organi amministrativi. Così ogni anno il rituale si svolge in primavera. E la stessa sottosegretaria del Ministero all’economia, che poi è quello destinato ad aprire i cordoni della borsa, si è lamentata non poco, nell’aula di Montecitorio, per essere stata costretta, il 9 febbraio, a sollecitare ai colleghi della giustizia i dati del 2021, che sono infine arrivati il 22 febbraio. Lentezza o resistenza rispetto a una ferita aperta che la magistratura non vuole neppure vedere?
La contraddizione è del resto palese. Se anche nell’anno della pandemia in cui si è arrestato di meno, anche su sollecitazione dello stesso procuratore generale Cesare Salvi, ancora seicento persone (contro le mille degli anni precedenti) sono finite in galera da innocenti, come mai il Csm “assolve” sempre il 99% dei magistrati colpiti da azioni disciplinari? È dunque il fato a mettere erroneamente le manette ai polsi di un numero così impressionante di persone che poi verranno assolte? In particolare nei distretti come quello di Catanzaro dove i blitz di 300 persone vengono poi sconfessati dai giudici? Un vulnus esiste però anche nella legge, e qui occorre chiamare il causa il Parlamento. A volte noi osservatori ci domandiamo se in questa legislatura esistano solo il deputato Enrico Costa e pochi altri a occuparsi di giustizia. Un’occhiata andrebbe data per esempio all’articolo 314 del codice di procedura penale, laddove sancisce che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile…ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
Questo principio, che comunque andrebbe meglio precisato con un’opportuna riforma, è stato interpretato liberamente nel modo più ampio dai magistrati. Prima di tutto ha consentito alle corti d’appello di bocciare le richieste di riparazione a tutti coloro che, magari nel primo interrogatorio, quando erano ancora sconvolti per l’arresto, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande. Un diritto, appunto. Non un’astuzia (che sarebbe masochistica, oltre a tutto) per dirottare il pubblico ministero nelle indagini. Ma non solo. Ci sono stati casi di persone accusate di reati di terrorismo, come Giulio Petrilli, che aveva subito una lunghissima carcerazione e che due anni fa organizzò anche una manifestazione di protesta e una petizione all’Unione europea, che si sono visti negare l’erogazione del risarcimento per motivi ideologici.
Una sorta di giudizio morale sulle sue frequentazioni giovanili. O più di recente il caso di Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega ed ex sottosegretario, che dopo sei mesi di ingiusto carcere preventivo e un enorme danno finanziario, si è visto respingere la richiesta di risarcimento dalla corte d’appello di Genova perché le sue dichiarazioni negli interrogatori sarebbero state “caratterizzate da notevole opacità”. Questi casi sono tantissimi, abbiamo calcolato che almeno i due terzi delle domande vengono rigettate con questo tipo di argomentazioni. Quindi occorre più che raddoppiare i dati del ministero.
Una luce è però spuntata alla fine di questo tunnel, fatto di argomentazioni capziose e non disinteressate. Perché ogni magistrato ha il timore che qualche seria riforma della giustizia lo porti a rispondere a qualcuno -che non sia il Csm dei 99 “perdoni” su 100- delle sue azioni, del suo lavoro, delle sue capacità professionali. Stiamo parlando di quella sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della cassazione (v. Il Riformista, 23-3-2022) che ha considerato il silenzio dell’ indagato non ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione, proprio sulla base del decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza. Giurisprudenza destinata a fare scuola o a essere scacciata come un fastidioso moscerino?
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Quelle ingiuste detenzioni che non basta risarcire con un assegno. La riparazione economica non compensa la perdita del lavoro, degli amici, della credibilità, della fiducia. Riccardo Radi su Il Dubbio il 21 agosto 2022.
È bene chiarire preliminarmente che quanto si afferma è certificato dai dati della relazione che prende in considerazione soltanto i procedimenti penali conclusi ( con sentenza sia definitiva che non definitiva) nello stesso anno di emissione della misura ( i cosiddetti procedimenti “cautelati”).
Il campione complessivo è costituito da 32.805 casi.
Interessa rilevare, per i fini propri di questa riflessione, che il 5,4% dei procedimenti in questione si è concluso con assoluzione non definitiva, l’ 1,5% con assoluzione definitiva e il 2% con sentenze di proscioglimento a vario titolo. La percentuale complessiva di questi ammonta all’ 8,9% ( era il 9,1% nel 2020, il 10% nel 2019 e il 10,2% nel 2018).
C’è poi un secondo insieme ed è quello costituito dai procedimenti conclusi con condanna ( definitiva e non definitiva) a pena sospesa. Nel 2021 il loro totale è stato del 14,4% ( era il 14,5% nel 2020, il 14,8% nel 2019 e il 14,1% nel 2018).
Si può dunque affermare che, relativamente all’anno 2021, nell’ 8,9% dei casi la sentenza ha escluso la fondatezza dell’accusa o ha comunque riconosciuto la presenza di una causa estintiva) e nel 14,4% dei casi le caratteristiche del fatto- reato e della personalità dell’autore hanno consentito una prognosi favorevole tale da escludere la commissione futura di nuovi reati.
È chiaro che questa seconda tipologia di esiti ha bisogno talvolta della pienezza del giudizio perché ne emergano i presupposti ma il buon senso suggerisce che il più delle volte il quadro è completo già al momento della domanda di misura cautelare. Il che è come dire che in un numero rilevante di procedimenti conclusi con condanna a pena sospesa ben si sarebbe potuto fare a meno di qualsiasi misura, tanto più tenendo conto del disposto dell’art. 275, comma 2- bis, cod. proc. pen., a norma del quale «non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena».
Non è quindi azzardato affermare che, complessivamente ed alla luce dei fatti, in 2 casi su 10 il potere cautelare è stato esercitato in contesti che avrebbero suggerito ben maggiore prudenza valutativa di quella dimostrata.
Questi numeri sono vite sconvolte dove la maggior parte di queste persone viene arrestata in piena notte, condotta in carcere senza troppe spiegazioni, proiettata in prima pagina o sui titoli dei giornali, per poi vedersi dichiarare «ingiusta» la privazione della libertà.
La riparazione per ingiusta detenzione non basta, non può bastare. Prima che la vicenda processuale sia conclusa, dopo diversi anni, la vittima spesso ha perso il lavoro, gli amici, qualche volta perfino la famiglia, sempre la credibilità e la fiducia altrui.
Quale somma potrebbe mai risarcire un’esperienza capace di incidere così pesantemente nella mente e nel corpo, fino a causare conseguenze difficilmente eliminabili? Chi è stato in carcere da innocente racconta di essere stato soggetto a crisi di panico, notti insonni e difficoltà relazionali anche a distanza di anni.
Una riflessione appare necessaria: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi) ?
Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare.
I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare o restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera.
Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che – non va dimenticato – in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone.
Nelle scorse settimane era stato presentato alla Camera un progetto di legge che pare destinato a riproporsi nella prossima legislatura e che prevede di introdurre sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale.
Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: «Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli». Riccardo Radi
Errori giudiziari e ingiuste detenzioni: soldi (e vite) buttati. Il deputato Costa (Azione): «Lo Stato ha speso 25 milioni di euro in risarcimenti e i dati vengono forniti con regolare ritardo». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2022.
Nel 2021 lo Stato ha speso per riparazione da errore giudiziario 1.271.914,90 euro, relativamente a sette ordinanze di Corti d’appello; mentre quelli relativi alla riparazione per ingiusta detenzione sono stati ben 24.506.190,41 euro e riguardano 565 ordinanze di Corti d’appello. In totale più di 25 milioni.
Lo ha comunicato ieri nell’Aula della Camera la sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Alessandra Sartore, rispondendo ad una interpellanza urgente dell’onorevole di Azione Enrico Costa. Tuttavia la questione che forse fa più discutere è un’altra: sempre la sottosegretaria Sartore ha puntualizzato che «per l’anno 2021, si evidenzia che il Ministero della Giustizia ha chiesto i dati al Ministero dell’Economia e delle finanze in data 9 febbraio 2022 e gli stessi sono stati forniti in data 16 febbraio 2022». In pratica, il Ministero della Giustizia avrebbe dovuto rendere noti i numeri sull’esito dei processi con arresti, sulle ingiuste detenzioni, sulle azioni disciplinari a chi ha sbagliato attraverso una Relazione al Parlamento da presentare entro il 31 gennaio di quest’anno, come prevede la legge, ma incredibilmente solo il 9 febbraio, quindi quando i termini erano già scaduti, si è preoccupato di chiedere i dati al Mef.
Per il vicesegretario di Azione, ciò dimostra «il totale disinteresse da parte del Ministero della Giustizia rispetto a un tema che è di civiltà giuridica. Se una persona è stata arrestata e poi assolta, è giusto che si chiarisca perché ciò è accaduto. Il problema nel nostro Paese è che quando accadono queste vicende, lo Stato si volta dall’altro lato senza comprendere le vere ragioni, senza verificare le motivazioni dietro quegli errori e senza sanzionare chi sbaglia». Costa poi si è soffermato anche sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Ieri vi avevamo raccontato che il suo emendamento per la responsabilità civile diretta dei magistrati avrebbe profili di incostituzionalità e quindi sarebbe da bandire.
Ma lui non ci sta e in Aula attacca: «Allora, colgo l’occasione per chiedere al Governo, che è stato così attento ai profili e alle sfumature di costituzionalità, se sia coerente con il nostro assetto costituzionale, di fronte ai numeri che ci sono stati dati (565 persone arrestate ingiustamente e lo Stato che paga 24.206.000 euro per indennizzi), che nessuno paghi, che paghi solo lo Stato, che non ci sia un magistrato che subisca un’azione disciplinare, visto che il Governo è attento alle sfumature sugli emendamenti parlamentari. E chiedo ancora al Governo: è coerente con la Costituzione che il 99 per cento delle valutazioni di professionalità abbia un esito positivo? È coerente con questi numeri, che sono stati appena resi, un 99 per cento di magistrati che sono bravi, bravissimi? È coerente con la Costituzione un correntismo strabordante, in cui c’è una giustizia domestica, in cui i magistrati si giudicano fra di loro e nessuno sanziona nessuno? È coerente con la Costituzione un sistema che, in dodici anni, dal 2010 al 2022, ha visto otto condanne – otto! – per responsabilità civile, di fronte a 664 cause intentate e a 154 sentenze definitive? 664 cause e otto condanne! Nell’ultimo anno, 25 sentenze definitive, zero condanne! Io lo chiedo al Governo: è coerente con la Costituzione?».
E conclude: «L’auspicio è che nel quadro della riforma al Csm venga finalmente approvata la mia proposta di sanzione disciplinare – una norma di civiltà giuridica – per chi ha concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione».
Ingiusta detenzione, tutti gli alibi dello Stato per ridurre o non riconoscere un indennizzo. Viviana Lanza Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022.
Avvalersi della facoltà di non rispondere è un diritto riconosciuto dalla legge ma può diventare un boomerang se poi, a processo finito e ad errore giudiziario accertato o ingiusta detenzione subita, si prova a chiedere un risarcimento allo Stato. Perché? Perché lo Stato può dirti che appellandoti a quel tuo diritto hai contributo a far cadere nell’errore gli inquirenti. Sembra assurdo, eppure è una delle motivazioni a cui si ricorre per ridurre o negare il risarcimento a chi, ingiustamente detenuto, chiede un indennizzo per il danno patito.
L’associazione Errorigiudiziari.com, fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni raccolgono dati su casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari, ha messo insieme storie, testimonianze, provvedimenti svolgendo un’analisi delle decisioni più frequentemente adottate dalle Corti d’appello e dalla Cassazione. E si scopre che una “colpa lieve” che non dà diritto a un pieno risarcimento può essere l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere al momento dell’interrogatorio, l’avere frequentazioni poco raccomandabili oppure il fatto di non possedere una memoria di ferro per ricordare, con minuziosa precisione, date e orari che interessano alla tesi accusatoria. Della serie, non basta dire che si è innocenti. Perché si potrebbe essere accusati di «non essere pienamente collaborativi» e quindi avere diritto a un risarcimento decurtato. Ma come si può collaborare se non si conosce quel dato fatto, se non si è commesso quel tale reato? Ah, saperlo!
Anche essere già stato in carcere in passato o avere precedenti penali, oppure avere una personalità ritenuta «negativa» può essere una colpa lieve che contribuisce a far ridurre la percentuale dell’indennizzo o a non averlo proprio. Addirittura, bisogna stare attenti all’avvocato che si sceglie come difensore appena si viene arrestati, perché al momento di richiedere un indennizzo per ingiusta detenzione si potrebbe vedere l’importo del proprio indennizzo tagliato del 25% perché secondo lo Stato, che comunque non avrebbe dovuto arrestarti, ti sei fatto difendere da un avvocato poco preparato. Sembra assurdo ma è la realtà. Ed è una realtà che si confronta con grandi numeri. Basti pensare che, facendo una media dei casi dal 1992 al 2020, nel nostro Paese si stimano 1.015 vittime di malagiustizia all’anno (più di cento solo a Napoli) e si spendono in media due milioni e mezzo di euro in risarcimenti ogni anno. E dire che circa il 70% delle richieste di risarcimento non viene accolto, il che vuol idre che le dimensioni del fenomeno sono ben più ampie.
Ci sarebbero circa 20mila casi di ingiusta detenzione non dichiarati negli ultimi anni, perché spesso chi subisce un arresto o un processo ingiusto poi non ha la forza economica o psicologica per ingaggiare una nuova battaglia giudiziaria per il risarcimento. Dunque, a fronte dei dati ufficiali sottoposti all’attenzione ministeriale secondo cui ammonterebbero a circa 30 mila le vittime di ingiusta detenzione negli ultimi trent’anni, ci sono dei dati reali che danno al fenomeno una proporzione ben più ampia. Inoltre, secondo i dati diffusi da Errorigiudiziari.com, su 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati presentate tra il 2020 e il 2021, solo 129 sono andate a sentenza finora e di queste solo 8 si sono concluse con una condanna.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
C’è un giudice a Trapani, rubò provola e pancetta per fame: assolta. L'ammontare complessivo del furto di alimenti non superava 10 euro. Ma il pm di Trapani aveva chiesto una condanna a quattro mesi di carcere. su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Il giudice del Tribunale di Trapani Francesco Giarrusso ha assolto una donna di 69 anni di Trapani che era finita nel 2020 sotto processo per aver rubato alcuni generi alimentari da un supermercato della città. Come scrive il Giornale di Sicilia nelle pagine provinciali di Trapani, la signora, due anni addietro, aveva conservato nella sua borsa mozzarella, provola e pancetta, alimenti dal valore non superiore a 10 euro. A scoprirla erano stati gli addetti alla sicurezza che l’avevano denunciata.
L’imputata non era in aula, a seguire l’udienza. Era presente la figlia. Il giudice, alla fine, ha accolto la tesi dell’avvocato Josemaria Ingrassia. Nella sua arringa difensiva, il legale ha chiesto l’assoluzione, affermando che la sua assistita, con la fedina penale «immacolata» aveva rubato non perché fosse abituata a compiere furti ma solo per fame. Il pubblico ministero Marta Martinelli aveva chiesto la condanna a 4 mesi di reclusione.
Da lastampa.it il 20 febbraio 2022.
Il giudice del Tribunale di Trapani Francesco Giarrusso ha assolto una donna di 69 anni di Trapani che era finita nel 2020 sotto processo per aver rubato alcuni generi alimentari da un supermercato della città. Come scrive il Giornale di Sicilia nelle pagine provinciali di Trapani, la signora, due anni addietro, aveva conservato nella sua borsa mozzarella, provola e pancetta, alimenti dal valore non superiore a 10 euro. A scoprirla erano stati gli addetti alla sicurezza che l'avevano denunciata.
L'imputata non era in aula, a seguire l'udienza. Era presente la figlia. Il giudice, alla fine, ha accolto la tesi dell'avvocato Josemaria Ingrassia. Nella sua arringa difensiva, il legale ha chiesto l'assoluzione, affermando che la sua assistita, con la fedina penale "immacolata" aveva rubato non perché fosse abituata a compiere furti ma solo per fame. Il pubblico ministero Marta Martinelli aveva chiesto la condanna a 4 mesi di reclusione.
M.Ser. per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.
La piccola rivincita di Renato Vallanzasca contro lo Stato è stata confermata anche dalla corte d'Appello. Che, anzi, ha condannato il ministero dell'Interno a rimborsargli le spese legali. Il conto è di 12 mila euro, che si sommano alle 5 mila 800 già sborsate dopo il primo grado, per un totale di 17 mila 800 euro.
Il bel René e la moglie Antonella D'Agostino erano stati trascinati in Tribunale dall'avvocatura generale per conto del ministero che, dal 1978, cerca di farsi risarcire dall'ex bandito della Comasina, condannato al carcere a vita, per l'omicidio dell'agente Bruno Lucchesi dopo l'evasione dal carcere di Spoleto.
Un debito di 425 mila euro mai saldato. Quando, nel 2009, Vallanzasca ha ceduto i diritti della sua storia (ne sono nati due libri e il film Gli angeli del male), la moglie Antonella ha incassato dalla Cosmo Production 278 mila euro. Denaro su cui lo Stato avrebbe voluto mettere le mani, sostenendo che quei soldi fossero in realtà dell'ex re della mala. Niente da fare: dopo la sconfitta in primo grado anche l'Appello ha respinto ricorso e condannato il ministero a pagare le spese legali.
Misure cautelari, ogni anno un terzo bocciate in modificate dal Riesame. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.
Il Riesame è il primo banco di prova di un’inchiesta in campo penale. Misure cautelari personali e reali, decise dai gip su richiesta dei pubblici ministeri, vengono poi valutate in sede di Riesame. Analizzando gli esiti delle decisioni di questo Tribunale, in composizione collegiale, con un presidente e due giudici a latere, si può fare una sorta di screening della tenuta delle indagini.
Considerando che in ogni bilancio giudiziario, da alcuni anni a questa parte, si evidenzia la sproporzione tra numero di indagini che vengono avviate e numero di procedimenti che giungono a definizione, con un netto sbilanciamento a favore dei primi decisamente più numerosi, e considerato che da tempo è sotto i riflettori il tema dello bilanciamento del sistema giudiziario e mediatico tradizionalmente a favore dell’accusa, osservare il trend delle inchieste che arrivano al vaglio del Riesame o Tribunale delle Libertà come dir si voglia, analizzare gli esiti delle pronunce, può essere utile a inquadrare meglio lo stato generale di salute della nostra giudiziaria. Ebbene, nel 2021 sono state vagliate dal Tribunale del Riesame di Napoli 5.945 misure cautelari.
Di queste 3.589 hanno avuto conferma, le altre hanno ottenuto sorti varie. Dal bilancio relativo all’ultimo anno di attività giudiziaria emerge infatti che 470 sono state completamente annullate, 615 sono state parzialmente riformate, 25 sono state dichiarate inefficaci, 1.007 sono state dichiarate inammissibili. Tra riunioni con altre misure e altre modalità si classificano le restanti decisioni adottate dal Riesame nell’ultimo anno. Sono state, inoltre, 2.397 le istanze di appello di parte su misure cautelari personali, nessuna da parte del pm..
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Tre innocenti al giorno finiscono in carcere. I pm si autoassolvono ma i loro errori costano 40 milioni ogni anno. Massimo Malpica il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Nel suo discorso di insediamento Mattarella ha puntato il dito anche "sulle decisioni arbitrarie o imprevedibili in contrasto con la certezza del diritto". Da Zamparini a Melis: ecco i casi più eclatanti di malagiustizia.
«I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l'Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati».
Parole del vecchio/nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento non ha risparmiato critiche alla giustizia, dedicando un passaggio importante agli errori giudiziari, a quelle «decisioni arbitrarie o imprevedibili» che, purtroppo, sono ancora numerose ogni anno. Così l'appello di Mattarella è un registro dei desiderata, non la proiezione della realtà, se solo nel biennio 2019/2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1.750, con un esborso per lo Stato di oltre 80 milioni di euro. E a fronte di questa messe di provvedimenti ingiusti che lo Stato ha riconosciuto come tali, sono state promosse solo 45 azioni disciplinari contro i magistrati: di queste 7 si sono concluse con l'assoluzione, 13 con il non doversi procedere (per esempio perché il magistrato incolpato ha lasciato la toga) e 25 erano ancora in corso al momento dell'ultima relazione al Parlamento del ministero della Giustizia. Finora, insomma, per 1.750 errori conclamati, 283 dei quali non più impugnabili, non c'è stata una sola censura, un solo ammonimento: per trovarne tocca risalire al 2018, anno in cui a fronte di 509 indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti sono stati sottoposti ad azione disciplinare 16 magistrati, quattro dei quali censurati.
Malagiustizia e scarsa incisività dell'azione disciplinare, insomma, che giustificano, quando meno, l'opportunità del richiamo del capo dello Stato. E in fondo per capire come gli errori giudiziari non siano microscopiche macchioline in un sistema altrimenti perfetto basta scorrere le cronache. Anche quelle recenti, se appena a inizio settimana Pietro Grasso, ex presidente del Senato e già procuratore nazionale Antimafia, ha ricordato su Repubblica lo scomparso Maurizio Zamparini, ex presidente del Palermo, sostenendo che l'imprenditore era diventato «un obiettivo di chi aveva deciso che dovesse lasciare» il capoluogo siciliano, e che quell'obiettivo era stato «raggiunto anche attraverso l'azione della magistratura» che «credo ha proseguito Grasso abbia risentito dell'atmosfera che si respirava in città e che era portatrice della volontà di fargli lasciare il club». Obiettivo riuscito alla fine del 2018, con conseguenze disastrose anche per la squadra, fallita poco dopo e costretta a ripartire dalla serie D. Ma di storie ce ne sono tante, così tante che ad alcune tra le più eclatanti Stefano Zurlo ha dedicato «Il libro nero delle ingiuste detenzioni», uscito lo scorso autunno per Baldini e Castoldi, raccontando nove odissee giudiziarie di vittime della malagiustizia, scelte tra quelle delle 30mila persone che, come ricorda il deputato di Azione Enrico Costa, tra 1991 e 2020 sono finite in cella per poi vedersi assolvere o prosciogliere. Ecco dunque il caso di Pietro Paolo Melis, allevatore del Nuorese, arrestato nel 1997 da incensurato per un sequestro che non aveva commesso, condannato a 30 anni a causa di una intercettazione coperta da «un rilevante e continuo rumore di fondo» sciattamente ed erroneamente attribuita a lui dai giudici, e tornato libero solo 18 anni, sei mesi e cinque giorni più tardi, il 15 luglio 2016, quando di anni ne aveva 56. O quello di Angelo Massaro, finito dietro le sbarre dal 15 maggio 1996 al 23 febbraio 2017 perché sette giorni dopo la sparizione di un suo amico e sodale viene intercettato mentre dice alla moglie una frase in dialetto: lui dice di aver detto «muerse» (pesante), riferendosi a una pala meccanica, per gli inquirenti ha detto invece «muerte», riferendosi appunto alla morte dello scomparso. Quanto basta, insieme alle dichiarazioni de relato di un pentito, per condannarlo e buttare via la chiave fino a quando a salvarlo arriva la revisione del processo, e una nuova sentenza che, nel 2017, gli restituisce la libertà. Non quei 21 anni rubati. Massimo Malpica
Mille innocenti in cella ogni anno: «Ora le toghe paghino i loro errori». Dopo il monito di Mattarella sulla giustizia, i fondatori dell’Associazione Errori giudiziari rispolverano il tema della responsabilità civile dei magistrati: «Dignità è anche riuscire a ridurre i mille innocenti arrestati ingiustamente e risarciti ogni anno, sono 3 al giorno, uno ogni otto ore». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.
Se il monito di Mattarella sulle riforme ha sollevato un gran rumore attorno alla Giustizia, di certo più tiepido è stato il favore con cui si è accolto il richiamo, nel suo discorso di insediamento, al sovraffollamento nelle carceri e alla tutela della dignità. «Mattarella ha pronunciato 18 volte la parola dignità: ci sarebbe piaciuto che ci fosse una diciannovesima volta riferita agli innocenti. Dignità è anche riuscire a ridurre i mille innocenti arrestati ingiustamente e risarciti ogni anno, sono 3 al giorno, uno ogni otto ore. Dignità per un cittadino innocente è anche che quel numero venga ridotto», sottolineano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, giornalisti e fondatori dell’Associazione Errori giudiziari, che pure si uniscono agli applausi con cui sono state accolte le parole del Presidente.
«È stato un intervento più vigoroso del solito – concordano i due giornalisti – che ci convince e ci trova assolutamente d’accordo, in particolare il passaggio sulla riforma del Csm che, al di là del discorso delle correnti, speriamo sia effettivamente fatta: ora la palla passa al legislatore, si può applaudire Mattarella cento volte ma se poi non lavori come devi tutto resta sulla carta». «Ci aspettiamo che all’interno della riforma del Csm sia introdotta la responsabilità dei magistrati. Oggi la valutazione dei magistrati supera il 99% dei giudizi positivi, e così perde ogni efficacia e ogni validità. Inserendo nella riforma del Csm una concreta responsabilità professionale dei magistrati per quanto riguarda il tema degli errori giudiziari e delle vittime di ingiusta detenzione sarebbe un aspetto importante», ribadiscono i fondatori dell’Associazione, estensori di quel “rapporto degli orrori” sui numeri della malagiustizia pubblicato nell’aprile scorso insieme ad Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione. Parliamo di quasi trentamila persone ingiustamente dietro le sbarre dal 1992 al 31 dicembre 2020. Quasi mille ogni anno, uno sproposito, così come i soldi che lo Stato ha dovuto sborsare per riparare i propri errori: 870milioni. Con indennizzi per 46 milioni solo nel 2020.
Il rapporto: 30mila innocenti in carcere in 30 anni
Dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi di errore giudiziario sono stati 29.659, errori che sono costati agli italiani, tra indennizzi e risarcimenti, 869.754.850 euro, ovvero più di 28 milioni e 990 mila euro l’anno. Partendo da una doverosa distinzione tra vittime di ingiusta detenzione e vittime di errore giudiziario, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone hanno snocciolato i casi città per città. La parte più corposa delle ingiustizie riguarda proprio coloro che finiti in carcere o ai domiciliari si sono visti poi riconoscere innocenti all’esito dei processi.
In 28 anni è toccato a 29.452 persone, 1015 se si considera la media del singolo anno. A loro lo Stato ha versato un totale di 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, poco più di 27.405.915 euro l’anno. Solo nel 2020 sono state 750 le persone che hanno subito una custodia cautelare poi rivelatasi ingiusta, per una spesa di 36.958.648,64 euro. Numeri più bassi rispetto al 2019 ( 250 casi in meno), ciò anche a causa del Covid, con il conseguente rallentamento dell’attività giudiziaria, comprese le istanze di riparazione per ingiusta detenzione.
Gli errori giudiziari veri e propri sono invece 207 in tutto, per un totale di 74.983.300,01 euro di risarcimenti, 2 milioni e mezzo circa l’anno. Una cifra altissima, che comprende i casi più eclatanti, ovvero quelli che hanno visto innocenti scontare pene per reati mai compiuti prima di riuscire a far valere la verità. Ci sono, ovvero, casi come quello di Giuseppe Gullotta, condannato per la strage di Alcamo e che ha passato ingiustamente 22 anni in carcere, o Angelo Massaro, anche lui rimasto in cella per un ventennio per un omicidiomai commesso. Nel solo 2020 sono stati 16 i casi di errore giudiziario. Numeri che portano la spesa complessiva del 2020 a 46 milioni.
Le città che hanno speso di più in risarcimenti sono Reggio Calabria ( 7.907.008 euro), Catanzaro ( 5.584.529 euro) e Palermo ( 4.399.761 euro), mentre le città con più casi di indennizzo sono Napoli ( 101 casi, per i quali ha speso 3.105.219 euro), Reggio Calabria ( 90 casi) e Roma ( 77 casi). Nella Capitale i risarcimenti ammontano a 3.566.075 euro, mentre Milano, con 39 casi di indennizzo, ha speso 1.327.207 euro. Il distretto di Napoli è rimasto tra le prime tre posizioni per 9 anni consecutivi. E per ben sei volte su nove è stato al primo posto, detenendo il record di casi raggiunti in un anno: 211 nel 2013.
Giu.Sca. per "il Messaggero" il 28 gennaio 2022.
«Un giorno in carcere da innocente vale per lo Stato 235 euro di risarcimento». Valentino Maimone, 55 anni, giornalista e fondatore dell'associazione Errorigiudiziari.com (assieme al collega Benedetto Lattanzi) è tra i massimi esperti in Italia di ingiuste detenzioni. Tradotto, si tratta di persone finite in carcere da innocenti.
Uomini e donne che si sono ritrovati rinchiusi in una cella o ai domiciliari salvo poi essere assolti da ogni imputazione.
«Abbiamo un database che aggiorniamo costantemente, adesso abbiamo in tutto 840 casi»
Quanti casi di ingiuste detenzioni si registrano ogni anno in Italia?
«Negli ultimi 30 anni la media è di mille all'anno. Abbiamo superato quota 30mila».
Quali sono le principali città?
«La prima è Napoli, poi Reggio Calabria, terza è Roma. Napoli è nei primi tre posti da nove anni consecutivi. La Calabria, da sola, assorbe un terzo di tutti gli indennizzi che ogni anno vengono versati a chi è stato vittima di ingiusta detenzione»
La cifra media che paga lo Stato qual è?
«Per un giorno in custodia cautelare in carcere solo 235 euro al giorno. Per i domiciliari la metà. Ad ogni modo c'è un limite nel risarcimento, non si possono superare i 516mila euro, il vecchio miliardo in lire»
Come fare per ottenere il risarcimento?
«Entro due anni dall'assoluzione è necessario presentare la domanda per istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Quasi l'80% delle richieste di risarcimento vengono respinte, ne passano in media un 20-25%».
Quanto spende lo Stato ogni anno per risarcire?
«Ventinove milioni di euro in media. Il totale è 890 milioni di euro negli ultimi 30 anni»
Cosa accade agli inquirenti che sbagliano le inchieste mandando in carcere persone che si rivelano essere innocenti. Pagano per i loro errori?
«In Italia esiste una legge sulla responsabilità civile dei magistrati, è la legge Vassalli. Questa legge prevede che non ci si possa rivalere direttamente sui magistrati. In pratica si fa una causa allo Stato e in seconda battuta, in caso di risarcimento, lo Stato si rifà sul magistrato. Devo dire che, negli ultimi 15 anni, le toghe che alla fine hanno pagato per i loro errori si contano sulle dita di una mano».
«Tra assoluzioni e prescrizioni numeri sconvolgenti: siamo oltre il 60%». Cristiana Valentini, avvocato e professore, commenta i numeri della giustizia emersi dalla Relazione del Primo Presidente di Cassazione Pietro Curzio all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Valentina Stella Il Dubbio il 28 gennaio 2022.
L’avvocato Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara, ha scritto per “Archivio penale” un articolo intitolato “Riforme, statistiche e altri demoni”, frutto di una ricerca dell’Università, condotta insieme al professore di statistica, Simone Di Zio. Sono stati mossi dalla convinzione che senza conoscenza dei dati offerti dal mondo reale non è possibile alcun reale cambiamento. A maggior ragione quando si parla di giustizia, tanto è vero che la ministra Cartabia, durante la sua relazione al Parlamento, ha annunciato l’istituzione del Dipartimento del ministero che si occuperà della transizione digitale e della statistica.
Stiamo vivendo un periodo di riforme nel campo della giustizia. Eppure molti dati riguardanti la sua amministrazione sono sconosciuti.
Credo che la giustizia penale sia stata per troppo tempo un campo oscuro, in cui molte cose, troppe, navigano al riparo della formula del segreto, declinato in varie misture. Lo Stato ha il dovere di agire in modo trasparente: nel campo del diritto amministrativo, le discipline dell’accesso agli atti hanno portato doverosa luce negli incunaboli dell’apparato; nel settore specifico del processo penale, poi, la Corte europea ripete che (perfino) le indagini devono essere trasparenti. Epperò in questo Paese la trasparenza sembra per molti versi ancora un sogno ingenuo e non è cosa che dovrebbe accadere in uno Stato di diritto. Ecco, la prima forma di trasparenza dovrebbe iniziare dalle statistiche sul processo penale. Una vera democrazia non dovrebbe tollerare che l’attività dei suoi organi sia scarsamente decifrabile e ben poco pubblica.
Quindi ben venga il nuovo dipartimento annunciato dalla Guardasigilli?
Certo. Ma è fondamentale che ci sia piena e totale trasparenza sul metodo usato e sulla totalità dei dati raccolti.
Nel suo articolo lei analizza anche le relazioni dell’anno giudiziario in Cassazione. Rispetto alle ultime: per il Primo Presidente Curzio circa il 50% dei processi di primo si conclude con l’assoluzione, mentre per il Procuratore Generale Salvi solo il 21%.
Ho letto i dati a cui lei fa riferimento. Per quanto questo tipo di analisi sia cosa delicata, posso dire, in via di prima approssimazione, che, anche sulla scorta degli studi da noi condotti sulla base dei dati ufficiali della Direzione Generale di statistica e analisi organizzativa del Ministero, sono corretti i numeri sui proscioglimenti indicati dal Primo Presidente. E sono numeri sconvolgenti. Se lei aggiunge a quel 50,50% di esiti assolutori da parte del giudice monocratico adito a citazione diretta, i numeri delle prescrizioni, si arriva sicuramente – lo dico a spanne – attorno al 60%, forse di più. Ripeto, mi sembrano numeri sconvolgenti, che sarebbero degni della più grande attenzione, e invece non è stato così da parte di nessuna delle recenti riforme. Si è preferito “manganellare” il giudizio d’appello, che – purtroppo per l’efficienza delle riforme in questione – si colloca a valle della maggior parte delle declaratorie di prescrizione.
Questi dati ci dicono forse, come lei ha scritto, che “l’azione penale viene troppo spesso esercitata in assenza dei corretti requisiti”. Anche Curzio ha bacchettato pm e gup in tal senso.
Qui devo scomodare una molteplicità di concetti noti: il processo penale è una pena in sé, un tormento autentico per l’imputato; sottoporre un innocente ad un processo che potrebbe essere evitato semplicemente con indagini più accurate o anche semplicemente condotte nel rispetto dell’art. 358 c.p.p.(cioè anche a favore dell’indagato) è un’abitudine radicalmente contrastante con la presunzione d’innocenza, oltre ad essere uno scempio etico. È la famosa “azione penale apparente” da cui ci mise inutilmente in guardia anni fa la Corte costituzionale: fenomeno gravissimo, che conosce molte sfaccettature, che giungono fino ai casi – frequentissimi nella prassi, come ben sanno i difensori – di azione penale esercitata sulla scorta della mera querela e poco altro. D’altra parte, quando osserviamo il fenomeno nella prospettiva della vittima del reato, il risultato è simile: la Cedu insegna da tempo che la vittima ha diritto ad indagini complete e di qualità, perché si arrivi non ad un responsabile purchessia, ma all’effettivo responsabile. Infine, un pensiero che potrebbe apparire brutale, ma è solo schietto: la giustizia è un bene prezioso e non va sprecato; sprecarlo significa assumerci le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti, ovvero una giustizia sommersa dai numeri e troppo spesso priva di qualità.
Una commissione ministeriale sta lavorando ai decreti attuativi della riforma del processo penale. Il suo articolo “ha eletto ad oggetto d’analisi la gestione delle indagini preliminari e dell’alternativa tra agire e archiviare”. Che consigli ha da dare a chi dovrà riformare questa parte?
Un suggerimento che mi sento di fare a cuor leggero, e che dovrebbero senz’altro seguire, è l’abbandono della circolare Pignatone come modello per la disciplina dell’iscrizione della notizia di reato e del modello 45.
Intende gli atti non costituenti notizia di reato, che riposano nel “limbo” della non sicura definibilità?
Esatto. È un terreno delicatissimo e il modello Pignatone riporta il nostro codice a forme di autogestione della notizia di reato da parte delle Procure che ricordano molto la struttura del codice Rocco, prima della riforma urgente realizzata dopo la caduta del regime fascista. Quel modello trasforma la notizia di reato in una creatura gestibile ad libitum dalle Procure e nella più totale mancanza di trasparenza: Tizio viene perseguito e va a giudizio, Caio, invece, viene “salvato” grazie al modello 45. Immagini di trovarsi a difendere una persona cui vengono addossate responsabilità spettanti in realtà ad altro soggetto, la cui posizione è stata semplicemente cestinata con un tratto di penna e senza controllo giudiziale. Un incubo che esiste già oggi e che s’intende allargare a dismisura. Stento davvero a comprendere come sia possibile, in questo momento storico, fornire alle Procure poteri del genere, che riescono ad eclissare senza rumore persino notizie di reato provenienti dagli organi di polizia giudiziaria. Forse, poi, esistono margini anche per eliminare un altro buco nero del nostro codice, ovvero la stentata disciplina delle investigazioni difensive, che allo stato consente al pubblico ministero di ignorare bellamente le indagini della difesa, anzi persino di ostacolarle.
A proposito di Pignatone, qualche giorno fa ha scritto un articolo in cui ha detto che la giustizia è lenta a causa dei troppi gradi di giudizio, dei troppi avvocati e del divieto della riforma in peggio.
Sono discorsi già fatti, mi stupisce che si continui a proporre riforme simili ad onta della loro inconsistenza pratica e dell’insostenibilità scientifica. La storia dei troppi avvocati mi fa sinceramente sorridere: mica parliamo di processo civile dove l’azione è esercitata dagli avvocati? Il lavoro agli avvocati, qui, sono le Procure a fornirlo. Forse sotto simili assunti si sottende che gli avvocati “inducono” i loro assistiti ad impugnare; insomma, non sono discorsi da farsi. Piuttosto direi che sono i magistrati ad essere in numero nettamente inferiore rispetto al necessario. Quanto al tema del divieto di riforma in peius, mi sembra costituzionalmente disdicevole ed evoca nuovamente un istituto caro al legislatore fascista; senza dire che avrebbe la stessa inesistente efficacia deflattiva dell’art. 96 c.p.c., privo di effetti apprezzabili, come ben sanno i civilisti. Quanto all’argomento dei troppi gradi di giudizio, mi limiterò a dire che prima di sfiorare – anche solo sfiorare, ripeto – un tema del genere, andrebbe assicurata una reale qualità nell’amministrazione della giustizia; vogliamo parlare dei numeri degli errori giudiziari? Aggiungo invece questo: sono anni che si scarica la responsabilità dei ritardi del processo penale sulle povere Corti d’appello. Anche qui, però, i dati statistici dimostrano che i veri problemi stanno altrove. Ma su questo tornerò nella prossima tranche della nostra ricerca.
Indagini in fumo. Crisi magistratura e caos processi, il bilancio nero della magistratura: “Uno su tre va in prescrizione”. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.
La crisi di credibilità della magistratura (dopo, e non solo con, il caso Palamara), la riforma strutturale mancata, il numero elevatissimo di processi, il numero ridottissimo delle forze in campo, le lacune, le sproporzioni, il coraggio delle scelte che in alcuni è mancato, l’impegno di chi nonostante tutto ha provato a fare la propria parte. E poi, i processi prescritti (uno su tre in appello, il 6% in primo grado) e gli effetti della pandemia sull’andamento della giustizia e dei reati.
L’annuale bilancio in previsione dell’anno giudiziario ripropone i temi di sempre, meglio sarebbe dire le criticità di sempre. «A fronte di un risultato positivo del settore civile e lavoro deve rilevarsi ancora una volta la situazione sempre più drammatica in cui versa il settore penale ordinario della Corte che ha subìto maggiormente le difficoltà di celebrazione dei processi determinate dalla pandemia», dichiara il presidente della Corte d’appello Giuseppe De Carolis di Prossedi, illustrando i dati dell’ultimo anno di attività nel distretto di Napoli: 10.170 processi definiti (più del 2020 in ogni caso) ma con una sopravvenienza di 12.255 (la più alta d’Italia) e una pendenza passata da 55.409 a 57.293. «Provate a fare 57mila processi in secondo grado in due anni con 39 giudici – afferma –. Già sappiamo che la gran parte di questi processi diventeranno improcedibili». Il riferimento è ai paletti sui tempi del processo d’appello posti dalla riforma Cartabia. «Con il Pnrr l’Italia si è impegnata con l’Unione europea a ridurre entro il 30 giugno 2026 il cosiddetto disposition time del 25% per il penale e del 40% per il civile, nonché a ridurre l’arretrato civile del 90% rispetto ai valori del 31 dicembre 2019. Il disposition time – spiega – è la misura della durata media dei procedimenti utilizzata in contesto europeo». A Napoli questo parametro è 1.660 nel settore penale, 768 in quello civile.
«Paradossalmente può essere un vantaggio perché si abbatte l’arretrato, ma in realtà non si fa giustizia, si eliminano solo le carte». E a proposito di tempi del processo, la prescrizione riguarda un processo su tre in Appello, il 6% di quelli definiti in primo grado. «Se lavoriamo sulla qualità, se facciamo i maxi processi alla camorra, è difficile fare anche i numeri come si chiede con il disposition time e le prescrizioni sono inevitabili, pur essendo una cosa molto triste – commenta De Carolis – perché così si finisce per avere una giustizia solo formale. Si mettono a posto le carte, a discapito dell’effettività della giustizia». Quanto al nodo risorse, «abbiamo – spiega il presidente – una situazione di totale sproporzione tra le forze in campo». «Abbiamo un alto numero di pm, 107 solo a Napoli e circa 200 in tutto il distretto, e circa 240 giudici penali in organico mentre dovrebbero essere almeno il doppio, altrimenti non si sta dietro al lavoro della Procura che rischia di essere vanificato – sottolinea De Carolis -.
In secondo grado poi abbiamo in pieno organico una cinquantina di giudici, ma essendo in sotto organico si arriva ad appena 39. Per cui tutte le sentenze che fanno i giudici penali del distretto vanno a finire sulle spalle di 39 magistrati divisi in 13 collegi. È come se versassimo ogni anno damigiane in un bicchierino». A ciò si aggiunga la crisi di credibilità della magistratura, una questione morale che dura da molti anni. «Non basta aver mandato via Palamara per ritenere risolti tutti i problemi della categoria – afferma il procuratore generale Luigi Riello -. C’è un cedimento valoriale che riguarda pochi magistrati, ma non pochissimi. Non illudiamoci». E aggiunge: «Il circuito di governo autonomo non si esaurisce nel Csm, al di là del suo funzionamento buono o cattivo, delle sue cadute o non cadute di stile, ma deve coinvolgere i capi degli uffici.
Nel corso del 2021 ho fatto sì che due magistrati del distretto fossero colpiti da provvedimento cautelare di trasferimento d’ufficio. Dobbiamo metterci in gioco in maniera piena: se c’è qualcosa di negativo bisogna scriverlo e assumersi la responsabilità, non possiamo lamentarci di ciò che accade se noi a capo degli uffici per primi non ci assumiamo le nostre responsabilità. Chi non ha il coraggio di scrivere le cose negative su colleghi quando purtroppo con amarezza bisogna farlo, non faccia domanda, si faccia da parte e se ne vada».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Dal "Corriere della Sera" il 17 gennaio 2022.
Golfo dei Poeti, La Spezia. Succede che una famiglia, marito e moglie, fra i tanti problemi ne abbia uno che non li fa dormire: lo sciacquone del wc dei vicini. Troppo rumoroso.
La loro camera da letto confina con un nuovo bagno realizzato dai quattro fratelli che abitano nell'appartamento adiacente. La coppia si rivolge al Tribunale di La Spezia per eliminare lo scarico e chiede un risarcimento del danno per le notti insonni. Ma niente da fare: causa bocciata.
La coppia è però tenace e ricorre in appello a Genova. Viene disposta una perizia nella quale tecnici sottoscrivono che effettivamente siamo di fronte a un caso di «superamento della normale tollerabilità e di spregiudicato uso del bene comune, posto che la cassetta del wc era stata installata nel muro divisorio di cm 22». Il che condizionerebbe la vita dei due.
Codice alla mano significa «lesione del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiana, diritti costituzionalmente garantiti e tutelati dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo».
Conclusione: sciacquone da ricollocare e risarcimento di 500 euro all'anno a decorrere dal 2003, anno in cui è stato piazzato il nuovo scarico. Ma i fratelli non ci stanno e si rivolgono alla Cassazione, che però respinge il ricorso: tre decibel di troppo «rispetto agli standard previsti dalla normativa specifica».
La Corte Suprema ha riconosciuto così il «pregiudizio al diritto al riposo» e confermato la condanna dei quattro «rumorosi» fratelli.
Giustizia, se l'abuso del diritto viene eretto a sistema: le leggi "sgradite" e il pessimo vizio della sinistra. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 gennaio 2022.
Si dice, non del tutto a torto, che esiste un garantismo classista per cui ci si indigna quando l'ingiustizia molesta la gente "perbene", mentre se il malcapitato è un poveraccio, tanto più se immigrato, ci vuole il randello e altro che presunzione di innocenza e diritti della difesa. Il rilievo avrebbe un senso se non fosse fatto dai responsabili di un pregiudizio opposto, e cioè quello per cui il privilegio economico e sociale costituisce un titolo sufficiente a "meritare" una giustizia cattiva: che è un atteggiamento identicamente classista.
Ma non basta. Perché ad opporsi al primo pregiudizio (che tanto per intenderci chiameremo di destra) non c'è soltanto quello di segno contrario per cui è giusto che "anche i ricchi piangano", ma un impedimento sistematico: e cioè la completa estraneità, anzi l'avversione, ai criteri dello Stato di diritto. È da lì, da sinistra, che viene a tradizione delle sentenze “costituzionalmente orientate”, in buona sostanza le decisioni con cui ci si mette sotto i tacchi la legge che non piace, ola si rivolta come un calzino, per l’affermazione di una giustizia più confacente alle rimasticature ideologiche con cui si pretende di modellare la società per via giudiziaria.
È da lì, da sinistra, che viene l’idea di degradare a faccenda trascurabile, a cavillo, la principale garanzia in qualsiasi sistema di diritto: e cioè il diritto individuale di protestare la propria innocenza contro la pretesa punitiva dello Stato reclamando che esso rispetti anche l’ultima virgola della propria legalità. Lo Stato di diritto sta esattamente in questo: nel rispetto della punteggiatura. E se da destra può venire una punteggiatura sbagliata (è comunque una colpa), da sinistra viene la licenza del testo arbitrario e rimaneggiabile a capriccio, vale a dire l’abuso eretto a sistema. C’è dunque a destra e a manca il garantismo farlocco. Ma uno avrebbe qualche possibilità di emendarsi. L’altro no.
Zaleuco sulla scia di Licurgo Dalla Locride il primo nomoteta. Un libro del magistrato Condemi ripercorre la storia dell'inventore del diritto. LUIGI MARIANO GUZZO su Il Quotidiano del Sud il 16 Gennaio 2022.
“I magistrati non siano ostinati, non giudichino per fare oltraggio, e nel dare le sentenze non abbiano presente né l’amicizia né l’inimicizia, ma la giustizia. In tal guisa daranno giudizi giustissimi e si mostreranno degni del loro posto”. Parole, queste, per davvero attuali, specie ai nostri giorni, in cui assistiamo ad una crisi, anche etica, della magistratura. Si tratta di una sentenza normativa da far risalire intorno al settimo secolo avanti Cristo, attribuita a Zaleuco, il “primo legislatore del mondo occidentale”, come leggiamo in una targa marmorea affissa all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Locri.
La recente pubblicazione “Gerace e Zaleuco. Da alba della civiltà a patrimonio dell’umanità” (Academ Editore, 2021) di Luigi Condemi di Fragastò, magistrato della Corte dei Conti di Roma e docente universitario, ha il grande il merito di far riemergere dall’oblio dei tempi contemporanei la figura di Zaleuco, legislatore e giudice, contestualizzandola nei territori della Locride, tra Gerace e Locri Epizefiri, dove il “nomoteta” (cioè, colui che stabilisce la legge, il legislatore) sarebbe nato, avrebbe compiuto gli studi giuridici e avrebbe operato. Con questo libro di Condemi, l’Academ Editore, sotto l’intuizione e la direzione dei giornalisti Roberto Messina e Carmelo Lentino, inaugura una collana di studi giuridici dedicata ai grandi protagonisti del diritto.
La vita di Zaleuco rimane sospesa tra la storia e la leggenda. Come sottolinea Condemi, la stessa indicazione di “primo legislatore” non è del tutto corretta se pensiamo a Licurgo, vissuto tra il dodicesimo e il decimo secolo prima di Cristo. A parte ciò, non vi è dubbio che le leggi di Zaleuco – delle quali ad oggi non ci rimane, purtroppo, un corpo organico – abbiano inciso notevolmente nell’elaborazione giuridica della Magna Graecia. Peraltro, si tratta di leggi “scritte” e non consegnate, quindi, alla indeterminatezza della tradizione orale. Inoltre, la prescrizione del comportamento è spesso accompagnata, in caso di violazione, dalla previsione di una sanzione. In tal modo, queste leggi sono molto efficaci e, soprattutto, sottratte alla discrezionalità dei giudici. “Le sue leggi furono particolarmente apprezzate, tanto che vennero copiate da Caronda, legislatore di Katane (Catania), che le diffuse in altre polis della Magna Grecia (Reggio Calabria, Turi), oltre che in Atene, dove rimasero in vigore per ben duecento anni”, scrive Condemi nel suo libro.
La concezione del diritto che ritroviamo in Zaleuco è ovviamente di origine sacrale, in quanto si ritiene che le leggi siano state dettate direttamente da Minerva. Ciò comporta anche un’attitudine a considerare il corpo normativo come immutabile, a meno di non adottare la procedura del “laccio al collo”: il cittadino che chiede la modifica di una legge deve presentarsi davanti all’Assemblea dei Mille con un cappio al collo, con la conseguenza che, nel caso in cui la variazione non sia accettata, il proponente finisce soffocato: “colui che proponga al Senato la riforma o la sostituzione di una legge vigente deve tenere un ‘laccio al collo’ pronto a strozzarlo se la proposta non venga approvata”, leggiamo in una delle regole di Zaleuco, arrivata fino a noi e riportata nel libro di Condemi. Questa procedura – tramandataci da Demostene – ci può apparire, con gli occhi di oggi, particolarmente brutale (e certamente lo è!), ma sta comunque a significare la tendenza a mantenere il diritto pressoché immutato e immutabile, “permanente”. Infatti, i locresi erano convinti che dalla stabilità del diritto dipendesse la stabilità politica. Un insegnamento, quest’ultimo, di grande ispirazione ai nostri giorni, in cui, al contrario, assistiamo in Italia ad un’attività di iperlegificazione, con una continua sedimentazione di leggi su leggi, a fronte del principio della certezza del diritto. Ciò è ben messo in evidenza nella introduzione dell’avvocato Vincenzo Fulvio Attisani, il quale scrive: “Le aule di Giustizia sono quotidianamente testimoni di un Diritto oggi a tratti farraginoso, istericamente complesso, frammentato in miriadi di disposizioni normative, spesso disarmonicamente sparse qua e là tra migliaia di leggi. Locri Epizefiri fu invece antesignana di un indirizzo culturale ben differente, in cui la “Norma”, divenendo via via più complessa per adeguarsi a una società in crescita, veniva comunque organizzata e compendiata, sì da essere agevolmente conosciuta e riconosciuta da tutti”.
Inoltre, l’attualità delle leggi di Zaleuco è data anche dal fatto che il diritto si configura come limite al potere politico, allorché – leggiamo – “nessuno deve stimarsi superiore ad esse [le leggi]”. Tant’è che, “il decoro e l’utile è posto nel credersi inferiore e nello seguire il comando”. Certo siamo ben lontani da una piena eguaglianza davanti alla legge: nelle città greche rimane affermata la distinzione tra cittadini liberi e schiavi, nonché l’esclusione delle donne dalla vita pubblica. Così come, in fin dei conti, alla base della produzione normativa penale di Zaleuco vi è la “regola del taglione”: “dev’essere cavato un occhio a chi ne cavò un altro” (vale a dire: occhio per occhio, dente per dente!). Ma nelle tesi di Zaleuco pare comunque riecheggiare una sorta di ispirazione che – utilizzando le nostre categorie giuridiche – potremmo definire giusnaturalistica, per la quale la legge diventa un argine all’arbitrarietà del potere politico. D’altra parte, Zaleuco è giudice imparziale, al punto – secondo quanto ci è stato tramandato – da decidere di far cavare l’occhio al figlio, colpevole di adulterio: la scena è mirabilmente rappresentata nell’affresco di Perin del Vaga “La Giustizia di Zaleuco” (1521), oggi esposto a Gli Uffizi. Ma, secondo un’ulteriore versione della storia, Zaleuco si fa cavare lui stesso l’occhio per non accecare del tutto il figlio (un occhio per lui e un occhio per il figlio).
Insomma, il libro di Condemi ci permette di riscoprire la figura di Zaleuco, che tanto, davvero tanto, ha da dire alla civiltà giuridica contemporanea. E la Calabria può così ritenersi culla, tra le altre, del diritto occidentale.
Il giudice che collezionava strumenti di tortura. E ci nascondeva le mazzette…Una storia di giustizia tormentata scritta da un giudice. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come a fatti di cronaca accaduti. Roberto Oliveri del Castillo su Il Dubbio l'8 gennaio 2022.
Il Tribunale di Belvirate era non era veramente un tribunale. Sembrava più un museo, visto che in passato era stato un carcere in epoca austroungarica, con le sue segrete sotterranee collegate al vicino castello veneziano, eretto su un più antico fortilizio bizantino, posto a protezione del lato est del territorio imperiale, a guardia dall’arrivo dei mongoli. Da queste parti li hanno attesi per secoli, a volte sembrava che stessero arrivando, si intravvedevano polveroni all’orizzonte, cavalieri e carri, soprattutto all’imbrunire, giusto per mettere in allarme le sentinelle del castello sul poggio ad est, poi più niente per giorni e giorni, per mesi lo sguardo perso nell’attesa.
Non era veramente un tribunale, incastonato com’era tra l’antico Duomo gotico trecentesco, di fronte al piazzale, e il palazzo della Curia, risalente al XVI secolo, a destra, eretto ai tempi della controriforma, con annesso museo medioevale. Alle spalle del tribunale si apriva poi l’ampio piazzale che conduceva al castello con le sue massicce torri quadrate. E infine, a ridosso dell’intero complesso, i vicoli del quartiere ebraico, con ben due sinagoghe, testimonianza di una delle più floride e ricche comunità dell’est. Chiudevano il piazzale a sinistra il palazzo della Dogana, e il vecchio monastero di San Giovanni, che secondo la leggenda non solo sarebbe passato di qua, ma avrebbe anche scritto proprio da queste parti ampi stralci della sua Apocalisse, forse sentendo la presenza del Maligno.
Ma non era veramente un tribunale anche perché i capi degli uffici facevano i magistrati “a tempo perso”, come un Presidente del Consiglio di qualche anno fa, sorpreso con alcune dame di compagnia nella villa di famiglia, a cui confidava che il ponderoso peso del governo era per lui, in realtà, un ameno passatempo. E facevano i magistrati “a tempo perso” perché la loro occupazione principale era occuparsi delle loro aziende. Sia il Procuratore Malerba sia il Presidente Adduce avevano chi una azienda agricola, chi un resort a quattro stelle con annessa spa, e quindi erano molto più interessati alle vicende delle loro imprese piuttosto che allo stato dei rispettivi uffici giudiziari.
Quando arrivai qui, qualche anno fa, trasferito dal Tribunale di Valdifiori nelle serre calabresi come seconda sede, fui ricevuto da entrambi, e mi dissero che potevo fare domanda tranquillamente, perché “si stava bene”. Questo mi doveva mettere in allarme: che voleva dire, infatti, che “si stava bene”? Si riferiva alla vita? Al lavoro? Al rapporto con gli avvocati? Può esistere un luogo di lavoro di giudice dove “si sta bene”? O invece questo lavoro è per definizione un lavoro dove “si sta male”, alle prese com’è con i mali della vita, decisioni, anche la più banale, sempre impegnativa e difficile perché riguarda la vita degli altri? Invece non ci feci caso, e ammaliato dalla bellezza del posto, ad un passo dalle montagne innevate dell’est, estrema propaggine verso i sempre attesi barbari, decisi di stabilirmi proprio qui, tra i vicoli del quartiere ebraico. Non immaginavo che barbari erano già arrivati, e si erano già da tempo impossessati della città.
Qui lavorava da sempre il giudice Bretella. Questo non era il suo vero nome, ma il suo soprannome, poiché aveva una vera passione per le bretelle, che ostentava in vari colori e fantasie. Ne aveva, si diceva, centinaia. Era costui un vecchietto magro e leggermente ricurvo, naso aquilino, su cui poggiavano degli occhialetti tondi a molla, molto retrò, capelli bianchi tirati all’indietro, il volto scavato incorniciava degli occhietti piccoli e di un celeste slavato. Vestito sempre con completi stile anni ’30 del 1900, a passeggio sempre con l’inseparabile bastone col pomello argentato, abitava con l’anziana governante, ed era conosciuto da tutti in città, oltre che per le doti di fine giurista, proprio per la sua passione per il collezionismo. Quelle che erano note e palesi erano due: bretelle e francobolli.
La sua bella casa, un attico in un palazzetto dell’ottocento nel centro moderno, limitrofo alla centralissima piazza della Repubblica, aveva una stanza adibita ad esposizione, con mobili alle pareti dalle ante trasparenti dove alloggiavano infiniti album di francobolli divisi e sistemati per provenienza geografica, mentre le bretelle erano in un luogo più riservato, prossimo alla capiente cabina-armadio. Una volta che lo andai a trovare, mi mostrò orgoglioso l’intera collezione delle une e degli altri. Per i francobolli era in grado di precisare provenienza ed epoca di alcuni pezzi pregiati, il cui costo, a me non appassionato del settore, mi parve esorbitante.
In giro, però, si parlava di un’altra passione che lo rendeva strano: collezionava strumenti di tortura, trovati in giro per il mondo, e che secondo qualcuno erano collocati in alcuni scantinati del palazzo, adibiti a esposizione in un luogo che poteva essere considerata una camera degli orrori della storia giudiziaria. Una volta, visti i buoni rapporti di colleganza, gli chiesi di vederla, ma lui negò di possedere una siffatta collezione. Eppure qualcuno parlava della “Sedia di Giuda”, o della “Sedia delle streghe”, degli “Strappaseni”, della “Vergine di ferro”, e di tutta una serie di diavolerie usate dall’Inquisizione per strappare confessioni. “Dicerie”, mi disse, chi mai collezionerebbe roba del genere? Se vuoi un giorno ti mostrerò invece la mia collezione di pistole moderne, ne ho varie decine, e alcune di cui vado molto fiero, soprattutto alcuni modelli della seconda guerra mondiale, tra cui una Luger cal.9 appartenuta ad un ufficiale nazista, e una Walter PPK simile a quella usata da James Bond nei romanzi di Fleming”. “Si mi piacerebbe molto”, risposi convinto, le pistole erano una mia passione fin da quando frequentavo il poligono di tiro, quando ero giù in Calabria, anche se non fino al punto da collezionarle.
Un giorno, tuttavia, successe l’imprevisto. Alcuni pentiti, che da mesi stavano rivelando una serie di particolari su alcune assoluzioni sospette dei giudici del Tribunale di Belvirate, avevano tirato in ballo il giudice Bretella e alcuni suoi provvedimenti. Ebbene, le osservazioni, le intercettazioni e le rivelazioni di alcuni pentiti avevano condotto gli inquirenti a sospettare che quei provvedimenti di assoluzione fossero stati oggetto di compravendita da parte del giudice. Il suo arresto, in virtù di inequivocabili riprese dove si notavano gli scambi e i passaggi di buste negli stessi uffici giudiziari, e in particolare nella stanza del giudice incriminato, fu un vero terremoto, anche se qualcuno ricordava che alcuni pentiti di camorra già nei primi anni 2000 avevano parlato di scambi di favori, ma non erano stati ritenuti credibili. L’ambiente era scosso, avvocati e magistrati si trincerarono dietro le solite dichiarazioni di circostanza circa “la necessità da parte dei cittadini di continuare a mantenere la fiducia nelle istituzioni così gravemente colpite, e considerare il lavoro onesto e indefesso di tanti professionisti, magistrati, avvocati e cancellieri, che ogni giorno fanno il loro lavoro con onestà e dedizione”.
Sarà indubbiamente così, ma al Tribunale di Belvirate quello che era successo non sembrava proprio un’eccezione. Qualche anno addietro, infatti, erano stati arrestati, sempre per corruzione, alcuni magistrati della Procura, che in combutta con un giudice per le indagini preliminari, arrestavano cittadini innocenti per poi chiedere denaro per la revoca degli arresti in carcere. Gli inquirenti, anche qui grazie a pentiti e intercettazioni, avevano scoperto che i magistrati corrotti avevano un vero e proprio tariffario delle scarcerazioni, che dipendeva dal tipo di misura cautelare e dalle possibilità economiche del malcapitato, per lo più un imprenditore o un facoltoso professionista.Un’altra modalità estorsiva escogitata dal gruppetto di malavitosi in toga era far giungere tramite un avvocato compiacente alla vittima una copia informale di una ordinanza di custodia cautelare, dicendo “vedi, domani devi essere arrestato. Se paghi 10.000,00 euro questa la stracciamo”. E questi fatti erano andati avanti per anni, nella assoluta, colpevole inconsapevolezza dei capi degli uffici.
A Belvirate, quindi, secondo me, c’erano parecchi magistrati collezionisti, ma non collezionisti di bretelle, francobolli, di armi, di orologi o quant’altro, no: collezionisti di soldi, che infatti erano poi stati trovati nelle loro abitazioni, stipati nei luoghi più impensati, in notevole quantità. Al giudice Bretella, ad esempio, molti pacchi di banconote erano state trovati all’interno degli strumenti di tortura, quasi come se il denaro, lo sterco del diavolo, e gli strumenti fossero accomunati nella diabolicità della tentazione alla quale il giudice aveva ceduto, e nella sua nemesi punitoria. Mi sembrava quasi di vedere in questo accostamento quello che Kafka descriveva nella sua colonia penale, ovvero come l’erpice che scrive la pena sulla pelle del condannato, fino a determinarne la morte, così qui il denaro nascosto negli strumenti di tortura finiva con l’anticipare per il suo possessore l’infausto esito detentivo e la sua moderna gogna mediatica, provocato dal suo illecito procacciamento e per il mercimonio della funzione giudiziaria di cui Bretella si era macchiato.
Si erano al contempo aperte delle indagini ministeriali, per verificare come era potuto accadere che questi fatti gravissimi avvenissero senza che alcuno denunciasse alcunché. Anche io fui sentito da un funzionario, forse si riteneva non necessario che ad istruire la pratica fosse un magistrato. Devo dire che mi feci un po’ prendere dal nervosismo, e fui molto brusco con il povero incaricato. Quando mi fu chiesto se avevo sentito dire qualcosa su queste vicende, sbottai “Ma mi scusi, lei dice sul serio? Lei mi chiede se avessi sentore di ciò che accadeva? Certo che avevo sentore, e che avrei dovuto fare? Denunciare le voci? Il sentito dire? Per essere denunciato per qualunque e pagare anche cospicui risarcimenti? O non siete voi, qui al Ministero, ad avere in tutti questi anni ignorato tutto ciò che accadeva all’ombra del Castello, tra capi degli uffici promossi nonostante aziende e interessi economici rilevanti, a volte condotte da prestanomi; non li avete nominati voi? E come dovevano interessarsi degli uffici se avevano da badare ai loro interessi imprenditoriali? Costoro, affaristi senza scrupoli, hanno prosperato nell’ignavia e nel disinteresse dei magistrati cd. “perbene”, che sentivano la puzza, ma si giravano dall’altra parte. Ma come avete fatto? Con tutti i procedimenti che si aprivano in tre o quattro procure competenti per territorio, le indagini e i rinvii a giudizio che puntualmente si leggevano anche sui giornali, a fare finta che non accadesse niente, quando la giustizia, una giustizia con la g minuscola e mortificata, era oggetto di mercimonio e corruttela? Dove eravate, voi che avete consentito per vent’anni a questi cialtroni di spadroneggiare? Non li avete messi voi nel posto che hanno oltraggiato con le loro condotte? Lo sapete che parenti e sodali sono tutti ben inseriti nelle amministrazioni locali? Che loro congiunti figurano nelle municipalizzate e in tutto il territorio del circondario del tribunale? E non potreste accertarlo da soli di chi si tratta, facendo partire accertamenti e indagini a tappeto acquisendo per prima cosa informazioni sui processi pendenti, in modo almeno da allontanarli dagli uffici pubblici trasformati in studi professionali con parenti e amici? E ve lo dovrei dire io? Addio, non ho altro tempo da perdere …Vi auguro buona fortuna con le vostre indagini!”.
Alla fine, se non me ne fossi andato sbattendo la porta, avrei potuto avanzare una proposta, avrei suggerito di sopprimerlo questo Tribunale, e fargli riprendere le sue antiche funzioni di museo, magari allocando in un ala dello stesso palazzo l’esibizione degli strumenti di tortura sequestrati al giudice Bretella, e nello stesso tempo cominciare a scegliere come capi degli uffici magistrati normali, con una storia di dedizione al lavoro, piuttosto che capi degli uffici, “a tempo perso”, scelti solo perché amici delle persone giuste, che in quel momento hanno il potere di decidere.
Attendiamo tutta una vita i barbari, abbiamo la guardia alta verso il nemico all’orizzonte, e spesso non ci accorgiamo che questo è già penetrato nella nostra cittadella, ce l’abbiamo affianco, davanti, ci andiamo a pranzo o a cena, ci scherziamo prendendo il caffè in ufficio, mentre questi, silenzioso come un topo in un sotterraneo, rode le fondamenta dell’edificio dei nostri valori e del nostro lavoro, fino a farlo crollare, seppellendoci tutti. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come eventuali riferimenti a fatti di cronaca effettivamente accaduti.
Roberto Oliveri del Castillo, Magistrato della corte d’appello di Bari, ex gip a Trani
La polvere sotto il tappeto. Alice nel paese delle meraviglie è lo specchio della giustizia italiana: sono la stessa cosa. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Gennaio 2022.
Giudicare è compito necessario, non potendo una società lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza; ma anche impossibile, non potendosi mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità, là dove è proprio su questa che si fonda la rettitudine della convivenza civile. È da tale contraddizione che nasce l’esigenza del «processo», quale metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta che si sia pronti ad accettare pro veritate. Varcata la soglia del tribunale, tuttavia, si entra in un mondo di apparenze che spesso coprono l’inganno o, anche, l’autoinganno: le leggi, i magistrati e i burocrati possono simulare e far prevalere la menzogna. Gli sfondi culturali sono ormai jeux de mode: il pubblico chiede del feuilleton, biascicamenti gergali, filosofemi da Luna Park, effusioni umide et similia; tutto beve, purché sia nero, stupido, sanguinolento.
Sembrerà magari audace che ricordi, dunque, due situazioni esulanti dal repertorio consueto delle immagini distorte o delle satire dell’amministrazione della giustizia, dove il processo è guardato «dal basso», con gli occhi delle vittime impaurite, o «dall’alto», con quelli dello spettatore divertito o sdegnato. Vale a dire, i comportamenti di Alice e di Josef K., i quali esprimono la superiorità e il disprezzo di chi, indipendentemente dal ruolo provvisoriamente assunto, la prima come avvocato difensore e il secondo quale imputato, credendo si trattasse di processi veri, constatando, tuttavia, ben presto, la sgangherata sovversione di ogni regola processuale e logica, ha il potere di annientarli. Josef K. abbandona sdegnato la strana udienza nella quale si è fatto coinvolgere, una domenica mattina, in un quartiere proletario della città: «Pezzenti (Lumpen). Teneteveli i vostri verbali!». Gesto teatrale che sembra consapevolmente ricalcato su quello di Alice, quando questa tronca l’assurdo processo al Fante di Cuori gettando in aria le carte da gioco che popolano Wonderland ed esclamando: «Chi vi bada? … Non siete altro che un mazzo di carte!». Poco importa se quest’ultimo episodio costituisca o meno, in termini narrativi, il modello, se non certo dell’intero romanzo kafkiano, almeno di qualche suo episodio.
Esso offre, infatti, il destro per proporre un istruttivo giro nell’universo letterario di Lewis Carroll, dove ci s’imbatte in alcuni processi che si prestano a essere considerati, oggi più che mai, quando la crisi senza fine dell’amministrazione della giustizia cade sotto gli occhi di tutti, in una prospettiva assai meno superficiale di semplici manifestazioni letterarie dello stupore, dell’ilarità e della diffidenza che il funzionamento delle istituzioni giudiziarie ha sempre e dovunque suscitato tra i profani, nella consapevolezza, esatta da Friedrich Nietzsche, che al mondo si può solo alludere indirettamente tramite simboli e metafore. Il primo lo troviamo in Alice in Wonderland, nel «racconto in forma di coda» che il Topo fa ad Alice, per giustificare la propria avversione per i cani, ma anche per i gatti. Un cane di nome Fury incontra per caso un topo e, «non avendo niente da fare», lo invita a partecipare con lui ad un processo, precisando che egli vi assumerà il ruolo di accusatore e il topo quello dell’accusato. Quest’ultimo obietta impaurito: che processo potrà mai essere senza giudice né giuria? «“Son giudice e giuria!” fu del can la follia: “son io tutta la legge e ti condanno a morte”», risponde il cane.
Il secondo, che si celebra presso la «corte» dei reali di Cuori, lo si trova nell’undicesimo e nel dodicesimo capitolo dello stesso libro. Imputato è il Fante, accusato di aver rubato dei dolci preparati dalla Regina, la quale è a un tempo parte lesa, coadiutrice del giudice e componente, con il Re stesso, dell’ufficio della pubblica accusa. La giuria è composta da dodici animaletti di varia specie, disorientati e ottusi. Araldo, usciere, cancelliere e in genere maestro di cerimonie è il Coniglio Bianco. Di avvocati difensori, nel testo non vi è traccia. Dopo la solenne lettura del capo d’imputazione, il re invita subito la giuria a pronunciare il verdetto, ma il Coniglio Bianco gli fa presente la necessità di assumere prima di tutto le prove. Vengono allora sentiti, in veste di testimoni, il Cappellaio Matto, la cuoca della Duchessa e, finalmente, Alice. Esaurita, senza alcun esito apprezzabile, l’escussione dei testimoni, il Re torna a sollecitare il verdetto della giuria; ma è ancora una volta il Coniglio Bianco a impedirlo, segnalando al Re un documento decisivo, che si suppone provenga dall’imputato, quantunque non rechi traccia della sua calligrafia.
Il documento, letto con la consueta solennità dal Coniglio Bianco, risulta contenere una poesia nonsense, come tale incomprensibile; ma ciò non impedisce al Re di esultare, fregandosi le mani. È a questo punto che si accende una vivace disputa ermeneutica fra il Re e la Regina da una parte e dall’altra Alice, erettasi a tutrice del senso comune e indirettamente a difensore del Fante, la quale ribadisce la futilità della prova raccolta, mentre gli altri insistono nel ravvisare nel documento un’inconfutabile dimostrazione di colpevolezza dell’imputato. Il Re tronca la discussione, invitando per la terza volta la giuria a pronunciare il verdetto. Questo ennesimo sovvertimento delle regole processuali eccede la sopportazione di Alice, che, contestando drammaticamente la serietà e la realtà stessa della corte, pone fine repentinamente sia al processo sia al sogno in cui esso s’inserisce.
Anche il terzo processo carrolliano si colloca in una dimensione onirica, nel sesto «sussulto» di The Hunting of the Snark: un Barrister, facente parte di un equipaggio salpato per dare la caccia allo Snark, mostro la cui identità e il cui aspetto non saranno mai rivelati, a un certo punto si addormenta e sogna di trovarsi «in una corte ombrosa», dove proprio lo Snark (in toga e parrucca) è apparentemente impegnato nella difesa di un maiale. Nessuno enuncia chiaramente il capo d’imputazione: si arguisce l’accusa mossa all’imputato solo dopo che il mostro «inimmaginabile» e perciò non ritraibile parla già da tre ore. Eloquente e puntiglioso, lo Snark indica la legge su cui si fonda l’accusa; allega la marginale partecipazione del suo assistito al delitto; ne sostiene la perfetta solvibilità; si richiama alla prova di un alibi, tanto più ridicola in quanto al maiale parrebbe contestarsi il reato di allontanamento dalla stiva; si rimette alla clemenza della giuria indicando al giudice come riferirsi alle sue annotazioni «per sintetizzare il caso». Poiché, tuttavia, il giudice ammette candidamente di non aver mai sintetizzato prima le risultanze di una causa, a ciò provvede ancora lo Snark, che opera una sintesi così perfetta da ricomprendere anche quanto mai detto dai testimoni. Quando tocca ai giurati pronunciare il verdetto, anch’essi declinano il compito, essendosi imbrogliati, a loro dire, nel sillabare le parole; tuttavia, osano sperare che sia sempre lo Snark ad assolvere quel dovere. Sebbene esausto per la fatica, il mostro provvede all’incombente e quando pronuncia «Colpevole!», dalla giuria si leva un lungo gemito e qualcuno cade addirittura svenuto.
Essendo il giudice troppo emozionato per pronunciare la sentenza, è necessario provveda anche a questo lo Snark e se quando commina la pena i giurati non nascondono la loro gioia il giudice resta invece dubbioso. Ma ecco che compare il carceriere, per comunicare, in lacrime, che il maiale è ormai morto da alcuni anni, sicché la sentenza non potrà essere eseguita. Alla notizia, il giudice s’allontana disgustato, mentre lo Snark, riassunto l’originario ruolo di difensore, riprende imperterrito la sua arringa, sui cui echi roboanti il Barrister si sveglia. Nei tre processi carrolliani, le caratteristiche del due process of law, del «giusto processo», sono ignorate, calpestate e derise quanto lo sono la logica, il senso comune, le regole del linguaggio, sicché, all’esito della lettura, si è più angosciati che divertiti: il Topo è tratto a giudizio senza nessun’altra giustificazione che la noia e il capriccio del suo accusatore, che in più si arroga la funzione di giudice e di giuria e gli preannuncia una condanna a morte; il Fante di Cuori, accusato di furto, si ritrova a dover fronteggiare, senza avvocato difensore, un giudice prevenuto e subordinato alla parte lesa, una giuria di animali stupidi e ignoranti e una serie di elementi probatori tanto più temibili e schiaccianti quanto meno sono razionali; il maiale patrocinato dallo Snark, se la morte non lo avesse già sottratto a ogni problema, subirebbe una condanna durissima, per un reato incerto e risibile, ad opera del suo stesso avvocato inopinatamente investito di funzioni giudicanti. Nihil sub sole novi.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
La polvere sotto il tappeto. Quel magistrato inquisitore degno erede di Torquemada. Otello Lupacchini su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.
Ancora sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, vigente il codice Rocco, dunque non senza una qualche ipocrisia, risuonava l’avvertimento che il processo penale è e deve restare, in ogni tempo e in ogni luogo, un «sistema di garanzie», senza cedimenti che ne possano alterare o snaturare l’essenza: solo il rigoroso rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, entrate a far parte del nostro Ordinamento, può assicurare un processo penale degno di un Paese civile, moderno e democratico.
La riforma del rito penale, entrata in vigore nel 1989, fu salutata come una svolta epocale nella realizzazione di un meccanismo processuale penale realmente «accusatorio», all’altezza delle impellenti aspettative del cosiddetto fronte garantista. Pia illusione. Il sistema accusatorio, fondato sulla formazione delle prove nel contraddittorio, non esiste ormai più, tendendo queste a formarsi nel corso delle indagini preliminari condotte dal pubblico ministero. E con esso si avvia irrimediabilmente verso il definitivo tramonto l’esperienza del «giusto processo», sebbene assurto ad autonomo valore costituzionale, con buona pace della riforma cosiddetta Cartabia, volta com’era, almeno nelle intenzioni, poi purtroppo in larga misura tradite, a incidere profondamente sulla prescrizione, sul rinvio a giudizio, sulle priorità in materia d’esercizio dell’azione penale, sul rinnovato vigore del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, dall’iscrizione della persona indagata sino al vaglio della Cassazione.
La marcia à rebours verso il progressivo abbandono della strada dell’ipocrisia del processo penale come «sistema di garanzie», era iniziata, peraltro, già con l’epifania, tra le fattispecie premiali, della collaborazione processuale, apparsa, sul piano dei risultati pratici, strumento efficace per smantellare le organizzazioni terroristiche, ma, sul piano degli orientamenti politico-criminali e degli effetti di ripercussione sul sistema punitivo e nel suo complesso, anche tale da suscitare le maggiori perplessità, non fosse che per la sua inevitabile e grave ripercussione sulla dialettica processuale. Per un verso, infatti, la collaborazione processuale si era ben presto trasformata in un paradigma normativo sostanzialmente obbligatorio, essendo la mancata cooperazione sanzionata non solo dalla persistenza degli effetti punitivi eccezionali stabiliti per i reati commessi per finalità di terrorismo, ma, in termini processuali, dal regime e dalla pratica della custodia cautelare, ricalcato sulla falsariga della collaborazione e dalla sua entità.
Mentre, per altro verso, il «pentito», che pagava in anticipo il prezzo del premio, per la riscossione doveva attendere, tuttavia, la valutazione di un giudice diverso, con un duplice ordine di conseguenze: la posizione del pubblico ministero non poteva che essere caratterizzata dall’assenza di conflittualità con l’imputato collaboratore e, per contrappeso, dall’aumento di conflittualità con l’imputato raggiunto dalla chiamata di correo; il giudice del dibattimento, dal canto suo, o assecondava il polarizzarsi del contraddittorio nel senso promosso dal pubblico ministero ovvero assumeva il compito di attuare contro quella logica la più genuina funzione del contraddittorio, rischiando, dunque, per questo di essere trascinato in un rapporto conflittuale con l’imputato collaboratore; in entrambi i casi ne sarebbe restata compromessa la propria funzione di «terzietà». Nell’impossibilità o incapacità di risolvere altrimenti la vicenda terroristica, il legislatore aveva anche finito per delegare il relativo compito ai giudici, dotandoli dei poteri necessari, spesso estranei alla funzione giusdicente.
Un ruolo vicario penetrato, da allora, nell’istituzione come messaggio e come costume, ben oltre i limiti a esso assegnati: non v’è quasi più processo di una qualche importanza dove non compaia il collaboratore di turno o dove la sua presenza non sia sollecitata nello svolgimento delle indagini, e la mancanza di cooperazione sia stigmatizzata come «omertosa» e, talvolta, addirittura «sanzionata» sul piano della custodia cautelare o del trattamento penitenziario, con buona pace dei diritti costituzionali e convenzionali. Nell’originaria formulazione, peraltro, la cooperazione aveva una sua logica: i terroristi negano il sistema politico nel modo in cui un cataro negava l’ecclesiastico; l’opposizione assume figure fobiche, da guerra teologale: i settari oppongono un dogmatismo visionario all’onnivoro pragmatismo, talvolta cinico, dell’istituto ecclesiastico. Su un cataro-terrorista può darsi abbia, dunque, senso l’esorcismo allestito dalla legge 29 maggio 1982, con quell’abiura imposta dall’art. 1: chiesa e setta contendono sulle anime; genuina o simulata, la confessione serve ai dominanti; equivale a un autodafé la «piena confessione» richiesta dagli artt. 2 e 3. Per quanto perversa, questa logica, saltò, comunque, quando gli ambiti operativi e le finalità della collaborazione processuale furono estesi a situazioni dove non vi erano da promuovere soltanto processi disgregativi già in atto per fronteggiare l’emergenza terroristico-eversiva, quanto piuttosto di fare i conti con fenomeni di marca diversa, i cui protagonisti e i cui gregari non hanno progetti politici implicanti l’abbandono di ideologie da ripudiare, ma faide da compiere, prezzi da riscuotere o, peggio, ordini da eseguire.
Ecco, in proposito, cosa scrisse il Giudice istruttore di Palermo, nel 1986, sui motivi che avrebbero indotto Tommaso Buscetta alla scelta di collaborazione: «Egli, mafioso di vecchio stampo, si era reso conto che i principi ispiratori di Cosa nostra erano stati ormai irrimediabilmente travolti dalla bieca ferocia dei suoi nemici, che avevano trasformato l’organizzazione in un’associazione criminale della peggior specie in cui egli non si riconosceva più. Non aveva, pertanto, più senso prestare ossequio alle regole di un’organizzazione in cui egli non credeva, non aveva più senso tenere fede alla legge dell’omertà. Egli doveva operare per la distruzione della “nuova mafia”, doveva vendicarsi dei tanti lutti subiti, ma la soverchiante superiorità dei suoi nemici non gli lasciava molte speranze; non gli restava altra via che rivolgersi alla Giustizia dello Stato per consumare la sua vendetta e per salvare la sua vita». Insomma, sul terreno della criminalità comune, sono venute a mancare le alternative politico-teologali ed esistono limiti obiettivi al narrabile: il business ignora l’anima e le abiure vi suonano male; l’autodafé scade, magari non sempre, ma comunque assai spesso, a farsa dialettale, guastando l’effetto scenico complementare al lavorio istruttorio. Inutile che l’inquirente cerchi mirabilia in materie sordidamente banali, essendo improbabile ve ne siano.
Tutti sanno che esiste una connection altolocata, notoria, visibile, penalmente inafferrabile: qualunque sia la fonte da cui colano, delitto incluso, denaro e potenza psicagogica influiscono sugli alambicchi dei poteri costituiti, venendo utili, ad esempio, nelle partite elettorali. Là dove si voglia colpire i nodi perversi, è necessario, dunque, individuare i punti in cui li alimenta il metabolismo collettivo. Mosse simili esigono, comunque, una perfetta analisi del groviglio, fantasia intellettuale, norme idonee, mani pulite e abili, ossia complesse condizioni tecniche, più una costosa volontà politica. Ma è proprio qui che, purtroppo, spesso casca l’asino. I filosofi hanno sempre cercato di stabilire la certezza della conoscenza, il «punto d’appoggio» archimedico di tutta l’umana conoscenza. E il pensatore che meglio ha rappresentato l’anelito a questa prima certezza filosofica, anche se paradossalmente espresso all’inizio sotto forma di dubbio totale su tutto ciò che ci circonda, è Cartesio. Per questo filosofo, infatti, almeno una volta nella vita si dovrebbero mettere in discussione tutte le conoscenze che ci sono state trasmesse, facendo passare tutte le informazioni attraverso il provvidenziale setaccio della critica sistematica, con l’obiettivo non già di approdare allo scetticismo, bensì il contrario: cercare di arrivare a un punto indiscutibile, a partire dal quale possano conseguire tutte le conoscenze future.
E il dubito, ergo sum dovrebbe essere l’abito mentale del magistrato. Eppure, mi sono recentemente imbattuto in un documento veicolante il testo di un interrogatorio approdato, qualche tempo fa, solo Dio sa come, nella redazione di un giornale on-line, presentato con un titolo nel quale si esalta l’«astuzia» dell’inquisitore per smascherare un falso aspirante collaboratore, di cui stigmatizza la «farsa». Questo l’anatema, tutt’altro che cartesiano, dell’inquisitore, degno erede, al netto dell’evidente scarto culturale rispetto a taluni di essi, dei vari Robert le Bougre, Tomas de Torquemada, Joseph Goebbels, Andrej Višinskij e altri consimili: «Noi oggi le abbiamo fatto domande su omicidi dove abbiamo la prova di come sono andati i fatti, non i gravi indizi di colpevolezza, la prova, per questo sono salito qua oggi. Non siamo qui per parlare di cose nuove o inedite, noi stiamo parlando di cose acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale e siamo pronti a chiedere la condanna, ci sono persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose. E lei qui capo crimine, sta a fare le pulci a ogni frase che dice (il pubblico ministero Tizio) o a ogni frase che dice (il pubblico ministero Caio).
Ma stiamo scherzando?! Ma qua c’è gente, c’è l’ultimo della ’ndrangheta, l’ultimo dei garzoni di ’ndrangheta che si siede qui dove è seduto lei. Sa quanta gente abbiamo sentito qua? Che parlano come l’Ave Maria! E lei qua è da stamattina che stiamo facendo il braccio di ferro… Si comporta non da capo crimine, ma da spettatore». Al di là dell’attendibilità del narrante e della credibilità della narrazione, tutte da accertare, naturalmente, ma brutalmente liquidate opponendo l’autorità di precedenti giudicati, dove è noto a chiunque sia minimamente educato al diritto che la «verità legale» ben possa divergere dalla «verità naturale», sorge spontanea la domanda se e quale «verità» cercasse di attingere dal suo interlocutore l’astuto inquisitore.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
La polvere sotto il tappeto. L’astuto inquisitore e l’ignoranza delle regole minime…Otello Lupacchini su Il Riformista il 30 Gennaio 2022.
Tempi bui, giornate tristi, fiori, campane a morto. I notiziari sono bollettini di guerra: la conta delle vittime non ha fine. Per dirla con Bertolt Brecht (Lob der Dialektik, 1932): «Das Unrecht geht heute einher mit sicherem Schritt», l’ingiustizia, insomma, oggi cammina con passo sicuro. Ogni parola è ormai un rumore inutile: meglio sarebbe il silenzio, per chi sia inetto all’entertainment e, vagolando magari dalla filologia romanza ai labirinti medievali, da François Rabelais a Franz Kafka, da Hans Kelsen a Carl Schmitt, arroti una lingua distante dalle dolcezze colloquiali dei tanto affabili poligrafi, se non analfabeti comunque più spesso semianalfabeti, che spopolano nell’odierno panorama (pseudo)culturale.
Parafrasando il professor Francesco Muzioli, caduti tutti gli steccati e tutti i muri nella confusione postmoderna, non ci sono più distinzioni di settore e neppure uno straccio di competenza specifica, ed è possibile transitare liberamente, senza passaporto di sorta, attraverso i confini che un tempo separavano la letteratura dalla logica filosofica o dalla teoria politica economica, essendo ridotto qualunque argomentare in amabile intrattenimento, tipo «conversazione», essendo tutti quanti, siano essi letterati e filosofi, letterati-filosofi, giuristi semianalfabeti o, addirittura, analfabeti tout court, nient’altro che «scrittori», da valutare non secondo metodi e tradizioni proprie, ma vagliati già da sé davanti all’unico giudice insindacabile che è il Mercato.
Vi sono, per fortuna, ancora dei limiti all’indecenza, che impongono ai «competenti», di far sentire la propria voce, per quanto sia loro consentito ed essa possa risultare, più che sgradevole, sgradita, di fronte allo scempio che vien fatto del diritto e del processo, a opera di taluni «menanti» dall’inadeguata professionalità, la cui impreparazione giuridica favorisce una «informazione spettacolo», tendente a presentare i fatti in forma personalistica e sensazionalistica, con grave adulterazione, dunque, del valore di taluni atti o di taluni momenti dell’accertamento giurisdizionale, bisognoso, invece, di un’accorta mediazione tecnica. È, infatti, il professor Glauco Giostra a segnalare che, «una profonda consapevolezza dell’effettivo significato processuale dell’attività giudiziaria permetterebbe al giornalista di affrancarsi dalla sua fonte, nel senso che gli consentirebbe di non esserne il passivo megafono, ma di valutare, apprezzare e correlare ad altre conoscenze in suo possesso le notizie che gli vengono non disinteressatamente fornite».
Il mio pensiero, in proposito, corre, e non è la prima volta, avendovi fatto cenno in una mia precedente riflessione, a quel verbale d’interrogatorio che, secondo il «menante» venutone, solo dio sa come, in possesso, avrebbe condotto a emersione l’«astuzia» dell’inquisitore, impegnato nella partita capitale la cui posta era lo smascheramento di un asseritamente falso aspirante allo status di collaboratore di giustizia. Quel «menante», forse proprio perché gravemente carente di preparazione specialistica o, magari, soltanto per sensazionalistica superficialità, non ha sottoposto alla doverosa critica il discorso dell’«astuto» inquisitore. Se lo avesse fatto, avrebbe colto l’assurdità del negare in radice, oltretutto affatto aprioristicamente, sia l’attendibilità dell’aspirante collaboratore sia la credibilità di quanto da costui narrato, adducendo l’autorità di precedenti «giudicati».
La «logica», absit iniuria verbis, sottesa a questa «astuzia» è la stessa che indusse altro alumbrado a manifestare, in un verbale di coordinamento delle indagini redatto presso la Dna di Palermo il 22 aprile del 2009, «la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione (nei confronti di Gaspare Spatuzza, «aiutante boia di Brancaccio», n.d.r.) sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno (sic!), sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».
Eppure, sia detto per inciso, proprio grazie alle asseverazioni di Gaspare Spatuzza fu possibile acclarare come le indagini dei pubblici ministeri che, coordinati dal procuratore capo di Caltanissetta, nei primi anni Novanta del secolo scorso, seguivano le indagini del gruppo investigativo «Falcone/Borsellino» guidato da Arnaldo La Barbera, fossero inquinate dalle false dichiarazioni, fra gli altri, del «superpentito» Vincenzo Scarantino, indottrinato per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio. Il medesimo «menante», a dimostrazione dell’«astuzia» dell’inquisitore, ne riporta la seguente proposizione rivolta all’aspirante collaboratore: «Noi oggi le abbiamo fatto domande su omicidi dove abbiamo la prova di come sono andati i fatti, non i gravi indizi di colpevolezza, la prova, per questo sono salito qua oggi».
Mossa sommamente incauta, in quanto evidenzia i limiti tecnico-giuridici dell’astuto inquisitore: non è paradosso l’idea che ci troviamo difronte a un problema d’igiene linguistica, circolando troppe parole equivocamente adoperabili. Secondo i grandi maestri della retorica, da Aristotele a Ermagora di Temmo, a Cicerone, a Quintiliano, tra gli strumenti per la formazione del giudizio di fatto la distinzione fondamentale era quella tra le «probationes inartificiales», che si presentavano al giudice così com’erano, senza alcuna elaborazione da parte del retore, quali le testimonianze e i documenti, e le «probationes artificiales», costruite o «inventate» dal retore, secondo lo schema argomentativo identificabile con quello della prova presuntiva o indiziaria di cui parlano gli articoli 2727 e 2729 del codice civile, nonché l’articolo 192 comma 2 del codice di procedura penale.
Quando il fatto «principale», oggetto della controversia o dell’accusa non può essere provato «direttamente», con inspectio ocularis, testimonianze, confessioni o altro, si individuano come oggetto fatti diversi, «secondari», cioè indizi, dai quali, in concorso tra loro, possa inferirsi il fatto principale, in applicazione di una «regola d’esperienza», che può avere natura logica o scientifica, ma corrispondente, più spesso, semplicemente a un criterio di normalità, secondo l’id quod plerumque accidit. Se sia più efficace, in sede di valutazione da parte del giudice, la prova «diretta» o la prova «indiziaria», è problema diversamente risolto a seconda della più moderna concezione «dimostrativa» della prova o di quella «persuasiva» dei retori classici: nel primo caso, la prova indiziaria vale di regola meno di quella diretta; nel secondo caso, era vero il contrario: «Apud bonum iudicem argumenta plus quam testes valent», diceva Cicerone (De republica, I. 38).
Per giustificare questa affermazione apparentemente paradossale, senza affrontare qui il tema fin troppo impegnativo delle due diverse concezioni di «verità» sottese alla contrapposizione di opinioni sulla prevalenza della prova «diretta» o della prova «indiziaria», basti evidenziare che l’argumentum è un prodotto finito elaborato e perfezionato dall’arte del retore e da lui tradotto in un linguaggio conosciuto dal giudice; là dove, invece, la prova «diretta», ivi compresa la stessa «inspectio ocularis», è un materiale grezzo, o tutt’al più un semilavorato, che si presenta al giudice con tutte le sue asperità e tutti i suoi difetti, potendo il narrante mentire, ricordare male, esprimersi confusamente; il documento essere di difficile lettura o interpretazione; il giudice fraintendere ciò che vede con i suoi occhi; e, quindi, essere, in definitiva, più ingannevole. Come, allora, ognun vede, la mossa astuta riposa su un’analisi a dir poco corriva, eccessivamente approssimativa, sbagliata del fenomeno probatorio.
Da altra proposizione dell’astuto inquisitore («Non siamo qui per parlare di cose nuove o inedite, noi stiamo parlando di cose acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale e siamo pronti a chiedere la condanna, ci sono persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose»), emerge, peraltro, che quella che costui sbandiera è una prova narrativa, che cola da «persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose», in contrasto con altra prova narrativa, che cola dall’aspirante collaboratore di giustizia. In simile contesto, dove si contrappongono due prove «dirette», parlare a vanvera di «prova» e di «gravi indizi», evocando la formula dell’articolo 273 comma 1 del codice di procedura penale, segnala l’ignoranza delle minime regole semantiche e logico-giuridiche di chi si crede fin troppo furbo.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 10 gennaio 2022.
Se si trattasse solo di dare una notizia, sarebbe questa: le accuse dei pubblici ministeri, nei processi italiani, vengono sconfessate nel 36 per cento dei casi, i quali salgono approssimativamente al 50 per cento se comprendiamo le prescrizioni. Il problema è che pioverebbero smentite e repliche non tutte in cattiva fede, visto che ciascuno si appella a dati diversi e spesso visti da un'angolatura ancor più diversa.
Il punto è che parlando del disastro della giustizia italiana - da mesi, da anni - ci sono tre domande a cui nessuno sembrava saper rispondere, o alle quali ciascun soggetto dava una risposta troppo difforme da quelle altrui perché suonasse credibile.
Le domande erano: che cosa può o vuole fare, seriamente, l'annunciata riforma del Ministro Cartabia?; soprattutto, quali sono, di preciso, le lagnanze della Commissione Europea (Cedu) sulle disfunzioni della nostra Giustizia?; perché, infine, i dati sui tempi, sui proscioglimenti e sulle disfunzioni della giustizia italiana non quadrano mai coi dati opposti dalla magistratura, come per esempio ha ribadito il Procuratore Generale Giovanni Salvi nella sua Relazione annuale sulla giustizia medesima?
Bene, ora una risposta un po' più seria ce l'abbiamo, anche se siamo costretti a condensarla nei limiti di un articolo senza che tuttavia non cambia percezione finale, che è una sola: è impressionante.
Dobbiamo la possibilità di rispondere a uno studio - impressionante a sua volta: per accuratezza e complessità - pubblicato sull'ultimo numero di Archivio Penale e curato dalla nota giurista Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale, la quale dimostra quanto mal riposto fosse l'ottimismo del Procuratore Generale Giovanni Salvi quando disse che «le assoluzioni depurate degli esiti non di merito sono in realtà inferiori al 20 per cento del totale».
Il procuratore rispondeva a quanti rilevavano una distonia tra l'esercizio dell'azione penale e i suoi esiti dibattimentali, cioè processuali: «Questa discussione si basa in realtà su di una non corretta informazione, derivante dalla imperfezione della raccolta e dell'analisi del dato, causata da una storica sottovalutazione dell'aspetto conoscitivo del sistema giudiziario».
E su questo aveva senz'altro ragione. Il problema è che è lo studio di Cristiana Valentini ha preso in esame ogni procedimento penale sin dalla «scaturigine» (la notizia di reato e la sua gestione) e fino al suo epilogo.
I dati di Salvi (i dati in generale) per esempio non tengono mai conto anche delle denunce iscritte a "modello 46", ossia le notizie da fonte anonima (soffermandosi perlopiù sulle notizie di reato iscritte a "modello 21", registro noti) e tantomeno le notizie iscritte nel registro "modello 45", ossia gli atti non costituenti notizia di reato, che non compaiono in nessuna statistica ministeriale (la Valentini ha dovuto procurarseli per conto proprio) e che per l'anno 2019, l'ultimo disponibile, ammontavano a oltre 1.198.000.
Ora: al modello 45 - questo lo aggiungiamo noi - il cittadino mediamente istruito sa che un pm tenda a ricorrere quando ritiene appunto che non esista notizia di reato, come nel caso di denunce presentate da pazzi con manie di persecuzione, insomma, è una forma di archiviazione: ma un qualsiasi avvocato praticone sa che non è vero, come spiego Antonio Di Pietro nel 1997 credendosi al riparo da orecchie indiscrete: spiegò che il modello 44 e 45 servivano provvisoriamente a guadagnare tempo visto che i tempi delle indagini preliminari in teoria duravano solo sei mesi.
La Valentini traduce così: «Una minima esperienza empirica in possesso di qualsivoglia avvocato insegna che a registro degli atti non costituenti notizia di reato finisce ben altro dei deliri immaginifici del soggetto psichiatrico di turno».
In sostanza i "modelli 45" testimoniano che la cifra reale della discrezionalità (incontrollata) dei pubblici ministeri è molto più alta di quanto si sospetti. $ un mare magnum di apparenti «non notizie di reato» che non prevedono limiti di tempo, pronte da ripescare a piacimento, magari a carico di «finti» ignoti che quest' ultimi, di fatto indagati o persone offese, secondo una logica fuori legge, consente vere e proprie «istruttorie occulte».
$ anche una specialità siciliana- aggiungiamo noi anche questo - a cui ricorsero per esempio nella fallita inchiesta «sistemi criminali» o in un'altra dove gli indagati vennero celato sotto le sigle «XXXXX» e «YYYYY», e che si ossequia criteri selettivi misteriosi quanto incontrollabili dove l'unico a fungere da nocchiero è il pubblico ministero.
Ecco, di queste notizie di reato nascoste, iscritte a "modello 45", non è a conoscenza neppure la volenterosa Commissione Lattanzi messa in piedi dal ministro Cartabia, per capirci. Ma sono bel altri, ed esulano dai limiti di questo articolo, gli esempi di come i pubblici ministeri possano ampliare i loro poteri discrezionali e incontrollabili in modo che sfugga all'occhio ma soprattutto alla statistica, nascosto nelle pieghe oscure del sistema.
Se a tutto questo aggiungiamo i controversi e confusi numeri (comunque bassissimi) di ricorso ai riti alternativi da parte dei pm, dei quali mancano dati completi relativamente alle richieste di rinvio a giudizio e ai proscioglienti, giungiamo infine alla risposta che più si temeva, ossia quella sul che cosa possa effettivamente fare la ministra Marta Cartabia assieme a Giorgio Lattanzi (ottimo ex presidente della Corte costituzionale) in tema di riforma della Giustizia.
La risposta è niente. L'imprinting dato alla sua Commissione in fondo non è diverso da quello affidato al peggior ministro Guardasigilli della storia italiana, Alfonso Bonafede: assicurare una ragionevole durata del processo e recuperare una miglior efficienza ed efficacia dell'amministrazione della giustizia. Parole.
Le ingiuste detenzioni nodo irrisolto della giustizia. “Ancora troppi casi come quello di Enzo Tortora”, parla l’avvocato Giovanni Palumbo. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Gennaio 2022.
«Mi domando cara Silvia che cosa posso insegnarti dalle mura di Regina Coeli. Fra le mura della 16 bis dove fa un caldo atroce. Siamo in sei disperati e fuori si vede il cielo. Che posso insegnarti, mi chiedo, perché a te, devi saperlo, è a te che il mio cuore più spesso vola…». Era l’estate del 1983, Enzo Tortora aveva da poco iniziato il terribile calvario giudiziario che lo portò in cella da innocente. Silvia, sua figlia, è morta ieri a Roma. Aveva 59 anni, come suo padre quando morì. E come suo padre, era una giornalista che aveva scelto di raccontare la verità dei fatti e si è spesa in nome del garantismo.
La notizia della sua morte ha aggiunto dolore e amarezza al ricordo di una delle pagine più dolorose della storia giudiziaria napoletana, oltre che nazionale. Enzo Tortora fu ingiustamente detenuto e processato. «Mai più» si disse dopo lo scandalo giudiziario che lo travolse. E invece cosa è cambiato in questi quasi quarant’anni? Napoli continua ad essere la capitale delle ingiuste detenzioni, e sebbene sia un distretto giudiziario molto ampio con numeri ben superiori a quelli di altri distretti è pur vero che detiene questo triste primato da quasi dieci anni.
Le ingiuste detenzioni sono state 101 nel 2020, a febbraio si conosceranno i casi del 2021 e ai dati ufficiali bisognerà aggiungere un centinaio o più di innocenti invisibili che non hanno avuto accesso al risarcimento per l’ingiusta detenzione per un “cavillo” (è accaduto che il risarcimento, per esempio, sia stato negato a chi da indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere, perché pur avvalendosi di un proprio diritto avrebbe contribuito all’errore degli inquirenti che lo avevano messo in carcere per accuse poi rivelatesi infondate) oppure per una scelta personale (sono molti quelli che dopo anni di processo vissuti da innocenti ingiustamente detenuti non hanno più né la forza economica né quella mentale di intraprendere un nuovo percorso giudiziario seppure per vedersi riconosciuto un proprio diritto, cioè quello al risarcimento per il danno subìto dalla detenzione ingiusta).
L’ingiusta detenzione è una delle più dolorose piaghe del nostro sistema giustizia. «Il mio compito- scriveva Tortora dopo il suo arresto del 17 giugno 1983, in una delle tante lettere inviate alla compagna Francesca Scapelliti – è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza, ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali». Il processo a Enzo Tortora si svolse a Napoli negli anni del post-terremoto, dei magistrati che si giocavano la carriera anche sulle indagini sulla camorra e dei primi collaboratori di giustizia. Il processo seguiva il vecchio codice penale e ai pentiti Gianni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra i pubblici ministeri dell’epoca diedero credito al punto da mandare in galera un innocente. Tortora fu ritenuto coinvolto in un giro di droga che riguardava uomini della Nco di Raffaele Cutolo. Tutto falso. L’avvocato Giovanni Palumbo era all’epoca un giovane penalista e affiancava suo padre, l’avvocato Tommaso Palumbo, nella difesa di due imputati che secondo la fantasiosa ricostruzione dei pentiti avrebbero fornito droga al famoso giornalista. «Ricordo ogni udienza, era chiaro sin dal primo momento che ai pentiti si era dato troppo spazio creando confusione tra falsità e verità ma ci vollero anni per dimostrarlo».
Le parole di Tortora rivolte ai giudici prima che andassero in camera di consiglio («Devo concludere dicendo: ho fiducia. Io sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io spero, dal profondo del cuore che lo siate anche voi») sono il momento che l’avvocato Palumbo ricorda con maggiore commozione. E di fronte ai dati, ancora oggi impietosi, sugli innocenti in cella commenta: «Non ci sarà nessuna riforma veramente efficace finché nel nostro sistema non sarà attuata una vera svolta culturale e abbandonata del tutto quella mentalità di tipo inquisitorio che ancora resiste».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
La malagiustizia. Innocenti in carcere: un detenuto su tre vittima di ingiusta detenzione. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.
Le statistiche dicono che in Campania, e il dato è in linea con quello nazionale, un detenuto su tre è innocente. Le chiamano ingiuste detenzioni, sono quanto di peggio possa capitare ad una persona che, per un caso o per un errore di un pm o un investigatore, si ritrova ad essere rinchiuso in una cella, con persone sconosciute, per giorni, settimane, mesi. Persino anni quando ci si imbatte in pubblici ministeri convinti della propria tesi di partenza e per niente disposti a tornare sui propri passi. Ci sono ricostruzioni accusatorie che vengono portate avanti nonostante le lacune e le contraddizioni che emergono nel corso di accertamenti successivi, nonostante le alternative e i chiarimenti forniti dalla difesa, nonostante una pronuncia diversa da parte di un giudice.
Il tutto, nei tempi dilatati della giustizia, con l’incertezza di non sapere mai se ci vorranno mesi oppure anni per arrivare a ristabilire la verità. Spesso si dice che la custodia preventiva è una sorta di anticipazione sulla condanna, ma quando la condanna non c’è perché non ci deve essere, perché si stabilisce che la persona arrestata e messa sotto accusa è innocente, quella carcerazione preventiva diventa soltanto tortura. E non possono certo i soldi del risarcimento (riconosciuto dopo un percorso giudiziario altrettanto lungo e niente affatto scontato, perché lo Stato può anche negarlo) cancellare come un colpo di spugna i danni di una detenzione ingiusta. C’è chi perde il lavoro quando finisce coinvolto in un’inchiesta e non lo ritrova quando, dopo anni di processo, viene assolto. C’è perde anche gli affetti. Ci sono famiglie e vite rovinate da arresti e accuse che non hanno ragion d’essere, che magari sono solo il frutto di un convincimento sbagliato di un pm o di testimonianze che alla fine vengono ritrattate o di indizi che non poggiano su alcuna prova. Negli ultimi trent’anni, in Italia, si sono contati quasi 30 mila errori giudiziari, con risarcimenti per quasi 900 milioni di euro.
Napoli e la Campania hanno registrato negli ultimi dieci anni numeri da record. Nel solo distretto di Napoli, che comunque è tra i più grandi distretti giudiziari del Paese, si stimano più di cento casi all’anno. Nel 2012 si registrava un caso di ingiusta detenzione al giorno, poi il ricorso alle manette facili, seppure a fasi alterne, è stato ridimensionato ma non a sufficienza perché risulti sempre applicato il principio in base al quale la reclusione preventiva in carcere deve essere l’extrema ratio. Nel 2020 si sono registrati 101 casi di innocenti ingiustamente arrestati, ma se si considera che questi accertati sono soltanto il 30% delle cause di risarcimento per ingiusta detenzione proposte è chiaro che il fenomeno ha proporzioni ben più ampie. A fine mese il ministero della Giustizia dovrebbe rendere noti i dati più aggiornati del 2021. Nel discorso di Natale, la ministra Marta Cartabia ha affrontato anche il tema degli errori giudiziari, delle lettere per i risarcimenti che arrivano al Ministero, “dietro ogni lettera ci sono sempre singole persone, vite in carne ed ossa”. Bisognerebbe ricordarlo sempre, in ogni istante. E tutti.
La ministra ha ricordato, tra quelle che l’hanno più colpita, la storia del professor Francesco Addeo, oggi 80enne, nel 2001 scienziato di fama internazionale finito al centro di un’inchiesta penale e persino in carcere per quattro mesi e ai domiciliari per altri due a seguito di dichiarazioni di due imprenditori che nel corso del processo non si sono rivelate fondate. Di qui la sua assoluzione ma un danno nell’anima che resta indelebile. E storie come questa si ripetono a centinaia ogni anno. L’associazione Errorigiudiziari.com da venticinque anni raccoglie dati e storie di vittime di malagiustizia. Puntando la lente su Napoli si scopre l’incubo di un 35enne, sposato con una figlia di tre anni, che un pomeriggio di maggio di quattro anni fa viene convocato dai carabinieri per una generica comunicazione di servizio e si ritrova in manette, dopo che gli viene notificata un’ordinanza di custodia cautelare, per accuse gravi come rapina aggravata e violenza sessuale. Gli viene concessa una telefonata alla moglie e viene portato a Poggioreale. La vittima dice di aver riconosciuto in lui l’autore dell’aggressione subita mesi prima. E tanto basta.
Il 35enne resta in cella per tre giorni e ne trascorre altri 141 agli arresti domiciliari. In primo grado viene condannato a otto anni di reclusione, in appello la sentenza viene ribaltata e il 35enne viene assolto. L’assoluzione diventa definitiva ma ci vorranno due anni di calvario giudiziario. Ora il 35enne è in attesa che venga accolta la sua richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione sofferta. Iter più o meno simili hanno segnato le storie di altre vittime della giustizia, dal camionista scambiato per narcotrafficante all’imprenditore mandato in carcere come presunto killer e tenuto in cella per ottocento giorni e in sospeso, legato al filo esile della giustizia, per oltre quattro anni in attesa che nel processo si accertasse il grave errore dovuto a un’intercettazione male interpretata dagli investigatori. Si può finire in carcere davvero per poco. Più lungo e difficile il percorso per uscirne, anche se si è innocenti.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Il bilancio dell'anno giudiziario 2021. Io, avvocato a Napoli, vi racconto i paradossi di una giustizia che non c’è. Gennaro De Falco su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. Ieri ho chiuso l’anno giudiziario 2021 con la prima udienza per fatti del 2010 di un processo che ancora non si sa neppure chi deciderà e che per ragioni prettamente biologiche concluderanno, se avranno fortuna, i miei nipoti se per sventura dovessero fare il mio stesso lavoro (e poi dicono che i processi si prescrivono per colpa degli avvocati) . Se e quando il processo dovesse finire, gli imputati saranno ampiamente morti per vecchiaia. Dirà il mio eventuale lettore: «Ma come può essere possibile? Sarà un caso?». Ed io non potrò che dirgli: «Sbagli mio caro, è quasi la regola e non solo a Napoli ti assicuro». Sfogliando l’agenda vedo un altro processo su cui pure ci sarebbe tantissimo da scrivere. L’imputato risponde di aver venduto ben 27 Cd contraffatti nel 2004 – sì, nel 2004 avete letto bene! -. Diciotto anni per stabilire se e quale pena dovrà essere inflitta all’ormai canuto imputato che tanti anni fa si è imbattuto in questo ormai altrettanto canuto difensore che ancora aspetta la definizione di tante vicende anche molto più assurde di quelle che ho appena accennato. Ad esempio, aspetto ancora la fissazione, o meglio il pervenimento in Cassazione, di un altro processo per fatti del 2003 (diciannove anni fa) in cui tre dei quattro imputati sono stati assolti da gravissime imputazioni associative.
Il pm ha ritenuto di impugnare la sentenza assolutoria (confondendo nei suoi motivi di appello anche la sede dove operava e indicando un Tribunale per un altro). Il processo è quindi arrivato in appello dove si è ibernato per circa dieci anni e poi la Corte di appello, alla fine di tutto, ha confermato la decisione assolutoria del Tribunale dichiarando, e vorrei pure vedere, la prescrizione dei reati minori per l’unico tapino condannato che ancora aspetta da 19 anni di conoscere la sua sorte. Il tutto mentre i tre assolti sono stati per 19 anni senza dormire la notte, in attesa che la loro assoluzione venisse confermata anche in appello. Ma, nel frattempo, uno con un carico pendente di questo tipo come fa a trovare lavoro, come campa? E non continuo questo elenco disperato non perché non abbia da scrivere ancora. Se potessi, potrei riempire l’intero giornale con storie anche peggiori di queste, solo che alla fine sarei tanto noioso e ripetitivo che nessuno leggerebbe. Non diversa è la sorte delle denunce e, soprattutto, delle querele dove la disperazione di noi avvocati raggiunge, se possibile, ulteriori vette di dolorosa impotenza.
Ormai, forse anche per il palese ingolfamento degli uffici quasi tutte le denunce, anche per fatti davvero gravissimi e con rilevanti conseguenze economiche, vengono archiviate con motivazioni davvero sconcertanti e solo il clamore della stampa riesce, in qualche rarissimo caso, a farle fortunosamente rivivere. Tempo fa depositai una denuncia per maltrattamenti ed altro in favore di una donna marocchina cui il marito, di stretta osservanza islamica, tra l’altro voleva imporre di non uscire di casa e di indossare il velo, e solo una vivacissima campagna di stampa che stava per provocare una mezza crisi diplomatica ha spinto il pm a revocare la sua richiesta.
In quella denuncia la donna, che logicamente non ha un euro, chiese anche di essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato ma ad oggi non le hanno neppure risposto. E io, nel frattempo, ho dovuto anticipare spese vive e lavoro che non so se e quando mi verranno rimborsati. Io, che ho un animo missionario e posso permettermelo, l’ho difesa ugualmente e continuerò a farlo ma chi non dispone di queste possibilità o magari vuole solo essere pagato per il lavoro che fa? Come può sostenere questa situazione e poi è giusto che accada? È vero, per questa vicenda sono stato a cena con diversi ambasciatori che mi hanno anche applaudito e premiato, che un eminentissimo Monsignore mi ha degnato della sua benedizione e che mi hanno anche accompagnato in albergo in una splendida limousine con targa diplomatica, che qualche giorno dopo mi hanno anche invitato alla cena degli ambasciatori ma a me tutto ciò appare assolutamente surreale.
Lo smarrimento si acuisce quando si vedono invece processi per fatti del 2020 che vanno speditissimi e in cui si contesta l’appropriazione indebita di «2 mazzole, 2 scalpelli, 2 metri da misura, 2 tenaglie, un martello da carpentiere, tre lenze ed una livella» che l’imputato non ha restituito agli operai di cui si era servito. In questi termini mi pare evidente che l’istituzione giudiziaria nel suo complesso sia un mero costo per la collettività senza alcuna utilità apprezzabile. Gennaro De Falco
Investe un cinghiale in strada: “Ora paga”. L’incredibile processo a Terni. Il Dubbio il 06 gennaio 2022. Pubblichiamo il racconto esilarante di un avvocato su un automobilista citato in giudizio perché ritenuto "corresponsabile" dell'animale selvatico per danni alla circolazione
C’è nella tradizione tedesca una storia condensabile nella famosa frase: “Ci sarà pure un Giudice a Berlino!”, che si dice sia citata anche da Bertolt Brecht, il quale non l’ha invece scritta da nessuna parte. Si tratta, comunque, delle vicissitudini del mugnaio Arnold il quale traeva la sua unica fonte di reddito dall’uso di un mulino ad acqua a Sans-Souci, nei pressi di Postdam, finché un nobile proprietario del terreno a monte, non aveva deciso di deviare per suo diletto le acque del ruscello che avevano così cessato di alimentare il frantoio a valle. Ridotto in miseria, il povero Arnold aveva provato a reagire al sopruso affrontando senza alcun successo numerosissimi gradi di giudizio, finché non aveva trovato “un giudice a Berlino”, che gli aveva dato al postutto piena ragione.
Personalmente non so se ci sia ancora “un giudice a Berlino”, ma so che non ce n’è uno qui, nel circondario di Terni, per Tizio, come risulterà evidente dalla storia “vera” che vado a raccontare. Tutto è iniziato in una sera di maggio del 2020, quando Tizio stava percorrendo l’affascinante Valnerina alla guida della propria vettura e, giunto nei pressi del piccolo ma intrigante paese di Ferentillo, si è trovato di fronte un bel cinghialone che gli ha attraversato all’improvviso la strada, rendendo inevitabile l’urto. La bestia, di notevole stazza e possanza, non moriva però sul colpo, ma caracollava in avanti per un centinaio di metri, fino ad urtare l’auto di Caio che stava sopraggiungendo nell’opposto senso di marcia. Così descritto brevemente il fatto, la risposta alla domanda “chi paga?” è una sola: paga la Regione che risponde dei danni causati alla circolazione stradale dai cinghiali, quale proprietaria della fauna selvatica, proprio come avviene per il privato il cui animale d’affezione provochi danni alla circolazione stradale, sfuggendo al controllo del padrone. Tutto molto semplice, quindi, ma evidentemente fin troppo elementare se l’avvocato di Caio – credendosi erede del genio italico – si è andato inventando la strampalata tesi che il danno alla vettura del suo assistito non l’aveva provocato il cinghiale, da cui era stata materialmente colpita, ma Tizio che dopo aver urtato con la sua auto l’animale, lo aveva fatto letteralmente volare – e non caracollare – per 100 metri, scaraventandolo addosso a quella di Caio. Tant’è che lo citava in giudizio – quale artefice, appunto, del “cinghiale volante”-, al posto della Regione, unica responsabile per legge e per nomofilachia – e non per capriccio ermeneutico -, del sinistro causato dall’animale di sua proprietà.
Ebbene, raccontata in giro questa storia, gli addetti ai lavori si sono messi le mani nei capelli, i meno esperti di infortunistica stradale hanno riso di gusto e i bambini, amanti per loro natura delle favole, hanno battuto le manine immaginando lo sventurato cinghialotto che volava grugnendo per 100 metri ed atterrava senza paracadute e con le orecchie al vento sull’auto di Caio. Il bello – si fa per dire! – è che non ha invece riso un Giudice di Pace di Terni, che si è al contrario invaghita del dissennato ghiribizzo ed ha battuto le mani proprio all’idea di poter accollare a Tizio la responsabilità dei danni causati da quel cinghiale maldestro, che invece di morire sul colpo – come ogni animale di buoni costumi e di sano rigore morale dovrebbe fare! -, era andato ad impattare con la vettura di Caio. Di tal che, a prescindere dalle cennate considerazioni giuridiche che non paiono appassionare i due operatori del diritto, il brocardo di fondo sarebbe, ad summam: “Se adeguatamente sollecitato, un cinghiale di 80 chili, può volare per 100 metri”. A ciò si aggiunga – e l’addendum non è certo di poco momento -, che il Giudice ritiene di poter valutare una corresponsabilità di Tizio ai sensi dell’articolo 2054 del codice civile, quando unica legittimata ad eccepire tale eventuale concorso – quale esimente totale o parziale della propria responsabilità -, sarebbe stata semmai la Regione, la quale non è però parte in causa. Cosicché, incredibile dictu, si arriverebbe a sentenziare un concorso di colpa di Tizio con il povero cinghiale – privo, ahinoi, di difesa processuale! – nella causazione del danno, con conseguente “meritata” lesione anche dei diritti di Caio – in quanto maldestro artefice dell’autolesionistico inguacchio -, il quale vedrebbe limitata del 50% la sua pretesa risarcitoria!
E allora, cari amici, se doveste mai imbattervi – viaggiando nel territorio ternano – in un cinghiale che dopo avervi attraversato la strada sbucando all’improvviso dalla boscaglia, non dovesse morire subito lì, sotto le ruote della vostra auto, ma proseguire caracollando – o persino volando – la sua corsa fino a causare danni in giro anche a centinaia di metri di distanza, fate una novena a Sant’Antonio a che gli eventuali danneggiati siano assistiti da un avvocato meno “estroso e geniale” del Nostro e raccomandatevi a tutti gli altri Santi del calendario, affinché la potenziale causa non venga affidata al prefato Giudice di Pace.
Sandro Tomassini, Avvocato del Foro di Terni
Indagine: spingere la selvaggina (e la verità) nella rete. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2022.
Indagine è una parola che si è conquistata nel tempo uno spettro talmente ampio di significati da aver bisogno spesso di un aggettivo qualificativo per evitare equivoci. Eppure, nasce con una origine che non si presta a nessun fraintendimento, anzi oltre a spiegarla magnificamente la illumina eliminando ogni zona d’ombra. Una tecnica precisa. Indagine è una parola latina composta da indu (variazione antica di in- per indicare «in, dentro») e il verbo agere, «spingere». Il risultato indicava una azione tipica della caccia: spingere la selvaggina verso le reti per poterla comodamente catturare. Premessa che rende molto più chiara l’indagine che faremo sui moderni significati, che non hanno perso del tutto la specificità della caccia. Niente è lasciato al caso. Il dizionario di Tullio De Mauro riporta come primo significato «ricerca sistematica per conoscere, scoprire qualcosa». Non una ricerca qualsiasi ma una «attività diligente e sistematica volta alla scoperta della verità intorno a fatti determinati» (Treccani). Andiamo molto oltre una semplice ricerca, identificando il frutto di coscienziosi e seri accertamenti. La rosa dei campi. Per i motivi che abbiamo visto l’indagine si è prestata a costruire un fiorire di locuzioni che ne spiegassero la particolare natura. Tra le più conosciute l’indagine di mercato, una ricerca di statistica economica che studia i prodotti, i gusti dei consumatori e la distribuzione, per incrementare le vendite. Ma l’indagine può essere nutrizionale (sui comportamenti alimentari di un determinato soggetto), o più in generale statistica, linguistica, filologica, storica, sociologica. E così via. Due esempi particolari. Esistono due tipi di indagine che per la loro stessa natura ci aiutano a comprendere la serietà e la profondità di questa ricerca. La prima è l’indagine pilota, una rilevazione preliminare che si svolge su un campione ristretto ma rappresentativo, per consentire di raccogliere tutte le informazioni utili a svolgere un’indagine completa. Il secondo esempio è ancora più esplicito: chiamiamo indagine conoscitiva una speciale attività di ricerca e raccolta dati che viene disposta dalle commissioni parlamentari per acquisire informazioni e dati utili al lavoro del parlamento. Il plurale apre un altro scenario. «Le» indagini ci accompagnano a scoprire un mondo intero di investigazioni giudiziarie e degli organi di polizia. «Le» indagini hanno l’obiettivo di fare luce su episodi di reato, crimini compiuti o sospetti. «Le» indagini preliminari sono appunto le attività svolte dalla polizia giudiziaria in base a un’informazione di reato, allo scopo di determinare l’eventuale esercizio dell’azione penale. Questa attività viene coordinata da un pubblico ministero e verificata da un giudice, il «giudice delle indagini preliminari» (GIP). L’obiettivo non cambia. Anche in questo ambito giudiziario il significato profondo dell’indagine non cambia: ci troviamo di fronte alla ricerca scrupolosa della verità, a maggior ragione se si tratta di episodi criminosi con delle vittime e dei presunti colpevoli. In fondo perfino l’immagine iniziale acquista nuova luce: l’indagine non è altro che un insieme di accertamenti capace di spingere i colpevoli nella rete della giustizia. Noir, fantasy, storici. Non può stupire che l’indagine sia uno dei pilastri centrali di ogni opera letteraria, dalla narrativa alla saggistica. E sarebbe davvero riduttivo pensare che riguardi solo i noir, o i «gialli» (la letteratura d’inchiesta è sempre colorata, ma questa è tutta un’altra storia). Ogni saggio che si rispetti è frutto di una accurata indagine. Ogni tesi di laurea è un’indagine. Ogni articolo serio, ogni inchiesta giornalistica, dovrebbe esserlo. Ma tutta la letteratura, dalle fiabe ai poemi omerici, non è che l’insieme dell’indagine sul significato della vita, che accompagna la civiltà umana. Almeno per gli uomini civili. Per gli incivili non c’è speranza.
Troppo lavoro, così i fascicoli giudiziari finiscono nella spazzatura: il caso a Napoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Aprile 2022.
L’ultima inchiesta, in ordine di tempo, della Procura di Napoli contiene un dettaglio che, se confermato, è l’ennesima spia di come disfunzioni e ritardi generino affanni, ansie, persino comportanti esasperati o illeciti. Tra le righe di questa inchiesta viene fuori, infatti, che una funzionaria giudiziaria pro tempore della quarta sezione della Corte d’appello di Napoli avrebbe, tra febbraio e marzo 2021, distrutto, soppresso e occultato atti giudiziari, interi fascicoli di processi penali ancora in corso o già conclusi. In almeno cinquanta circostanze pezzi di vita processuale di persone, anche ignare della soppressione delle carte che le riguardavano, sono spartiti.
Nelle stanze della Torre del palazzo di Giustizia al centro direzionale quei fascicoli erano diventati arretrati da smaltire, in qualunque modo. La funzionaria è agli arresti domiciliari da ieri, insieme a un assistente giudiziario della Corte d’appello di Napoli. La funzionaria deve difendersi dalle accuse di soppressione e distruzione di atti; l’assistente giudiziario dai reati di corruzione, accesso abusivo a un sistema informatico e truffa in danno dell’amministrazione perché sospettato di aver rivelato notizie e informazioni ritenute non ostensibili, in alcuni casi anche in cambio di somme di denaro tra cinquanta e cento euro. Ma è soprattutto la storia della funzionaria a colpire e ad accedere un faro sulla situazione in cui versa la nostra giustizia e in cui si trova chi per essa lavora.
Dalle intercettazioni al cuore dell’inchiesta, gli stessi inquirenti sottolineano come la funzionaria avesse manifestato a terzi «preoccupazione sia per la mole di lavoro in capo al suo ufficio – a suo dire eccessivamente elevata – sia per la circostanza che alcuni fascicoli risulterebbero smarriti», peraltro «…con il silenzio di altri appartenenti all’amministrazione giudiziaria». In un passaggio emerge addirittura il disappunto di un addetto alle pulizie che, di fronte alla mole di carte da buttare che riempiono il cestino nell’ufficio della funzionaria, si lamenta. Dentro ci sono fascicoli, buste, cartelle, documenti che sistematicamente la funzionaria è accusata di aver fatto sparire gettandoli nel contenitore della raccolta differenziata della carta. Non in cambio di soldi, ma – almeno questo è il sospetto – per smaltire il troppo lavoro. Se così fosse il fatto sarebbe comunque grave, perché tra quelle carte distrutte ci sono pezzi di storia giudiziaria che hanno richiesto poi tempo per essere ricostruiti e forse riguardano innocenti ingiustamente finiti sotto processo. Ma sarebbe un fatto grave anche sotto un altro profilo: la giustizia è troppo in affanno.
La Corte di appello di Napoli è un ufficio grande, che accoglie i processi di primo grado che arrivano dai vari tribunali del distretto e parliamo di distretti altrettanto grandi, basti pensare a Napoli, Torre Annunziata, Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere. Questo significa che in Appello confluiscono migliaia di processi, da quelli con un solo imputato ai maxiprocessi di criminalità organizzata con decine di posizioni da valutare. Atti e fascicoli non si contano. Dalle immagini video catturate dai finanzieri durante la fase delle indagini saltano agli occhi le stanze piene di documenti. Anche la stanza dove lavorava la funzionaria da ieri agli arresti domiciliari era sommersa dalle carte. Lei, intercettata, si lamentava che in ufficio erano in pochi. Non è una novità, le carenze di organico nel personale amministrativo del Palazzo di Giustizia di Napoli sono da anni segnalate al Ministero che però ancora non ha trovato il modo di risolvere il problema, con la conseguenza che pure a voler compiere i più ardui e leciti sforzi organizzativi gli arretrati si sono accumulati di anno in anno, fino a raggiungere i 50mila processi arretrati. Troppi, evidentemente. Per tutti. percorsi della giustizia tradizionale.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Termini di durata delle indagini preliminari, possibili proroghe e rimedi in caso di inerzia del pubblico ministero. Beatrice Alba su dirittoconsenso.it il 25 giugno 2021.
Introduzione
Il libro V del codice di procedura penale si occupa delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare. Ai sensi dell’art. 326 c.p.p., “il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”.
Da questa norma è possibile ricavare lo scopo delle indagini preliminari: esse sono finalizzate unicamente ad acquisire elementi di prova al fine di mettere il pubblico ministero nella condizione di decidere se esercitare o meno l’azione penale.
Gli atti di indagine preliminare sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini.
Il codice fissa la durata massima delle indagini preliminari. Questa previsione risponde a due esigenze:
quella di ridurre i tempi delle indagini, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., in modo contenere i costi dell’amministrazione della giustizia e rendere più proficua la successiva attività di acquisizione dibattimentale della prova; e
quella di garantire l’osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fissando il momento nel quale sarà necessario attivare i rimedi per sopperire all’inerzia del pubblico ministero.
Durata delle indagini preliminari
La durata delle indagini preliminari è di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato viene iscritto nel registro delle notizie di reato, a pena di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine.
Il termine è, invece, di un anno se si procede per uno dei gravi delitti indicati nell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p..
Se è necessaria la querela, l’istanza o la richiesta di procedimento, il termine decorre dal momento in cui queste pervengono al pubblico ministero.
Se è necessaria l’autorizzazione a procedere, il decorso del termine è sospeso dal momento della richiesta a quella in cui l’autorizzazione perviene al pubblico ministero.
La Corte Costituzionale si è occupata della questione relativa al contrasto del limite cronologico fissato per le indagini preliminari con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 Cost. Pensiamo all’ipotesi in cui alla vigilia della scadenza dell’ultimo termine prorogato per le indagini preliminari emerga la necessità di ulteriori indagini. In questo caso delle due l’una: o il P.M. rinuncia ad effettuarle oppure risulteranno inutilizzabili (anche se da esse emerga la necessità di esperire l’azione penale) a causa del decorso del termine per le indagini preliminari.
La Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 436/1991 ha escluso l’illegittimità della normativa che fissa la durata massima delle indagini preliminari e prevede l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza dei termini sulla base di plurime considerazioni. Tra queste, la più importante è data dal rilievo che l’impossibilità di compiere altre indagini preliminari per scadenza dei termini e la conseguente eventuale impossibilità di esercitare l’azione penale alla stregua delle indagini compiute non preclude in un secondo momento l’esercizio dell’azione penale posto che, dopo l’emanazione del decreto di archiviazione, il pubblico ministero può, adducendo la necessità di nuove investigazioni, chiedere la riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., effettuare le nuove indagini e, se del caso, esercitare l’azione penale.
Proroga dei termini di durata delle indagini preliminari
La ricezione di una richiesta di proroga delle indagini è spesso la prima informazione per l’indagato dell’esistenza di un’indagine penale nei suoi confronti. L’avviso di garanzia, infatti, spetta solo in caso di arresto, perquisizione e sequestro.
Il termine di sei mesi o di un anno può essere prolungato nel caso in cui il pubblico ministero ne richieda al giudice la proroga per giusta causa. Con tale dizione il legislatore ha voluto riferirsi a ragioni oggettive riconducibili alla natura del procedimento e non a ragioni di ordine generale, strutturali, personali od organizzative.
La richiesta contiene l’indicazione della notizia di reato, senza che siano necessarie indicazioni temporali e spaziali del fatto né delle norme che si intendono violate in concreto, e l’esposizione dei motivi che giustificano la proroga, i quali costituiscono l’oggetto del contraddittorio. I motivi addotti dal P.M. per giustificare la sua richiesta sono quindi il vero oggetto del contraddittorio. Non è possibile, invece, avere notizie sull’origine del procedimento penale né sugli elementi raccolti.
Ai sensi dell’art. 393 c.p.p. è possibile avanzare istanza di proroga anche nel caso in cui il P.M. o la persona offesa ne facciano richiesta per eseguire l’incidente probatorio. In questo caso il giudice provvede con decreto motivato, concedendo la proroga per il tempo indispensabile all’assunzione della prova quando risulta che la richiesta di incidente probatorio non avrebbe potuto essere formulata anteriormente.
La proroga non può avere durata superiore a sei mesi. Una volta ottenuta la prima, le seguenti richieste di proroga necessitano di una motivazione più stringente, in quanto possono essere chieste solo nei casi di particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato.
La proroga può essere concessa più di una volta, ma i termini delle indagini preliminari non possono comunque superare i diciotto mesi, o i due anni se le indagini riguardano i delitti indicati nell’art. 407 comma 2 c.p.p..
Per i reati contemplati dagli artt. 572, 589 c. 2, 589-bis, 590 c. 3, 590-bis, 612-bis c.p., la proroga può essere concessa solo una volta.
La richiesta di proroga deve essere notificata, fatte salve le ipotesi di cui all’art. 406 comma 5 bis), a cura del giudice alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di voler esserne informata. La finalità della notifica è quella di consentire agli interessati di presentare memorie entro cinque giorni dalla notifica. Si instaura così un contraddittorio di tipo cartolare, caratterizzato dalla limitata conoscenza che le parti possono vantare circa gli atti di indagine.
Il giudice deve decidere circa la concessione o meno della proroga entro dieci giorni dal termine per la presentazione delle memorie.
Nell’ipotesi in cui il giudice conceda la proroga provvede con ordinanza emessa in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori. L’ordinanza non è impugnabile.
In caso contrario, ovvero qualora ritenga che la proroga non debba essere concessa, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa notificare avviso al pubblico ministero, alla persona offesa dal reato che ne abbia fatto richiesta e alla persona sottoposta alle indagini. Nella stessa ordinanza che respinge la richiesta di proroga il giudice, se il termine per le indagini preliminari è scaduto, ne stabilisce uno non superiore a dieci giorni per consentire al pubblico ministero di formulare la richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio.
Gli atti di indagine compiuti dopo la presentazione della richiesta di proroga e prima della comunicazione del provvedimento del giudice sono comunque utilizzabili, sempre che, nel caso di provvedimento negativo, non siano successivi alla data di scadenza del termine originariamente previsto per le indagini.
Inerzia del P.M.
Il comma 3 dell’art. 407 c.p.p. stabilisce l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza.
Il comma successivo, inserito dalla legge 103/2017, impone al P.M. di esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata.
L’unico rimedio all’inerzia protratta dal pubblico ministero è quello dell’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale della Corte d’appello. Il potere di avocazione combina il principio costituzionale della buona amministrazione dell’ufficio e della ragionevole durata del processo (art. 111 c. 2 Cost.) con quello di indipendenza del pubblico ministero (art. 107 c. 4 Cost.).
L’avocazione è una funzione del procuratore generale presso la Corte d’appello che avoca a sé, ovvero autoassume, un procedimento gestito da un procuratore della repubblica. I casi di avocazione sono espressamente previsti dalla legge. In breve, consistono nelle ipotesi in cui il P.M. abbia omesso di compiere un’attività doverosa oppure il procedimento penale rischi una paralisi per inerzia dello stesso.
Informazioni
Bibliografia G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, 2017
Beatrice Alba. Ciao, sono Beatrice. Classe 1997, sono nata in uno dei borghi più belli d’Italia, Cefalù, e vivo nella città dei gianduiotti. Mi piace dire che probabilmente nelle mie vene scorre l’inchiostro perché amo la scrittura, la carta e le parole. Mi piacciono anche i romanzi, il cioccolato e il diritto. Ho una laurea magistrale in Giurisprudenza che ho conseguito nel 2021 discutendo una tesi dedicata al viaggio della Corte Costituzionale turca tra la libertà di espressione e l’indipendenza della magistratura. Il lavoro di ricerca per la redazione dell’elaborato mi ha portato a viaggiare, a conoscere da vicino la realtà turca, dalla quale sono rimasta affascinata. Ho iniziato a collaborare con DirittoConsenso nel 2020 perché amo spiegare il “legalese” ai non esperti del settore.
Il bilancio della Procura partenopea. Quanto durano le indagini: oltre settemila giorni di inchieste e vite sospese. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Marzo 2022.
Quanto può durare un’indagine? Non si contano le volte in cui si è sentito parlare di «ragionevole durata del procedimento», una definizione che racchiude in poche parole il senso di una giustizia, ma anche quello di una giustizia che non c’è. Perché è proprio sui tempi della giustizia che il nostro Paese, e Napoli in particolare (considerando la mole di processi e di indagini che ci sono ogni anno in questo distretto giudiziario), detengono un triste primato. Si può arrivare ad attendere anni per una sentenza, e mica parliamo necessariamente di un verdetto definitivo, l’attesa è lunga, lunghissima, anche per una semplice sentenza di primo grado. Ci sono processi a Napoli che durano da dieci anni.
Ma cosa accade durante la fase delle indagini? Per quanto tempo si resta sospesi all’esito dell’attività investigativa di un pubblico ministero? Anche questo è un settore della giustizia dove per anni lungaggini e faldoni su faldoni hanno reso i tempi dilatati e le attese estenuanti. Essere indagato vuol dire vivere sospeso in una bolla di incertezze, ancor di più se si è totalmente estranei ai fatti per i quali si è indagati. La nuova disciplina legale dell’avocazione ha comportato la necessità di rafforzare il monitoraggio della durata delle indagini e il controllo del rischio di stasi non giustificate. Già, le stasi non giustificate. Quei faldoni lasciati negli armadietti in attesa di indizi o chissà. A Napoli un’indagine, per i reati più vari, può durare dai 73 ai 7.208 giorni, calcolando il periodo compreso tra la data di iscrizione del procedimento alla conclusione del pubblico ministero. I tempi variano anche a seconda della richiesta con cui il pubblico ministero conclude le indagini preliminari: azione penale o archiviazione. La Procura di Napoli, nel suo bilancio sociale, ha calcolato la durata delle indagini nell’ultimo anno.
Certo, a seconda della tipologia di reato cambia anche la durata delle indagini. È facile intuire che ci sono reati per i quali le indagini sono più elaborate per via del numero di persone coinvolte o delle ipotesi di reato che gli inquirenti contestano. Ad ogni modo facciamo un esempio. Prendiamo come riferimento il reato di associazione a delinquere semplice e un’indagine a carico di persone note (nel 2021, per questo particolare reato, ne sono state definite quasi 883): l’inchiesta è durata in media 646 giorni quando la Procura ha concluso con una richiesta di rinvio a giudizio, 1.089,12 giorni nel caso di un’archiviazione nel merito, 2.887,32 giorni nel caso di un’archiviazione per prescrizione. Altro esempio. Prendiamo in considerazione un reato di pubblica amministrazione come l’abuso di ufficio. Nel 2021 i tempi che hanno scandito la durata e l’esito delle indagini, facendo la media dei 557 casi definiti nell’anno, sono stati questi: 470 giorni per concludere l’inchiesta con una richiesta di rinvio a giudizio, 535 per archiviarla nel merito, stabilendo quindi che non vi sono prove a carico dell’iniziale ipotesi accusatoria, e ben 7.208 giorni per archiviare per prescrizione.
Significa che per tutto questo tempo un cittadino, destinato ad uscire dall’indagine senza accuse visto che l’esito sarà un’archiviazione, resta in attesa. Un’attesa che spesso genera drammi, traumi, gogne mediatiche e giudiziarie, stronca carriere, spezza famiglie, costringe a scelte che non si sarebbero mai fatte. Tenendo la lente su Napoli e sulla Procura partenopea, parliamo di un numero di indagini molto elevato. Nel 2021, solo a modello 21 e quindi per indagini a carico di persone note (escludendo quindi le indagini a carico di ignoti), si sono registrati 2.875 procedimenti sopraggiunti, 2.427 procedimenti iscritti, 2.979 definiti e, a fronte di una pendenza di 2.473 fascicoli, il 2021 si è chiuso con una pendenza di 1.743 procedimenti. Si tratta di migliaia di vite sospese.
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
Procure e tribunali, medici legali in fuga: tariffe ferme da 20 anni e onorari in ritardo. «Così i giovani scappano». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.
Un’autopsia viene pagata 67,66 euro come nel 2002. L’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti: «Così si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico». Cristina Cattaneo, antropologa e patologa forense: «Servono riforme».
Un ladro ucciso mentre prova ad entrare in un appartamento. Anno 2014. Caso complesso. Gli accertamenti medico-legali (come quasi sempre accade) sono decisivi: autopsia, sopralluoghi, approfondita consulenza tecnica per il pubblico ministero (e intorno, una forte attenzione dell’opinione pubblica). Tralasciando la vicenda giudiziaria, è interessante oggi sapere come, e quanto, è stato liquidato il lavoro di quel professionista: 1.400 euro (ovviamente lordi), ma soprattutto pagati nel 2021. Basterebbe questo esempio per rendersi conto di quanto sia profonda la crisi che sta allontanando dalle Procure e dai Tribunali tutti i professionisti di maggior livello di cui la giustizia ha invece un bisogno sempre più massiccio. Pagati con onorari «indecorosi». In più: pagati in ritardo, anche macroscopico. E, non di rado, coi compensi tagliati al momento della liquidazione. Nei mesi scorsi il Corriere si è occupato di informatici forensi, ingegneri, criminologi. Stessi problemi. L’ambito della medicina legale può avere però ricadute sociali ancora più pesanti. Basta valutare l’aspetto che ha minor rilevanza mediatica, ma che tocca invece un numero enorme di persone: e cioè tutte le controversie su contributi pubblici per invalidità o inabilità, gli infortuni sul lavoro. Se i professionisti chiamati a fare accertamenti su queste controversie sono superficiali, da una parte si può sprecare denaro pubblico, dall’altra si può rovinare una persona che avrebbe pieno diritto a un aiuto e non lo ottiene. «La medicina legale in questi ambiti ha riflessi sociali enormi», riflette Carlo Bernabei, professionista che ha lavorato a lungo per studi legali e uffici giudiziari soprattutto a Milano, Como, Varese e Genova, su delitti, colpe mediche e risarcimenti.
Il listino dei compensi
Tornando all’ambito penale, bisogna partire dal listino dei compensi, fermo al 2002: per l’autopsia, 67,66 euro; per l’autopsia su «cadavere esumato», 96,58 euro; per una consulenza tecnica con «accertamenti medici, diagnostici, identificazione di agenti patogeni», da 38,03, a 290,77 euro. Quando i lavori si prolungano (e si prolungano sempre, come è intuitivo) i pagamenti passano «a vacazione» (una vacazione equivale a due ore e viene liquidata con 8,15 euro (tariffa che Milano ha raddoppiato). «Anche per questo l’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti. Chiediamo che siano rivisti gli onorari, non per diventare ricchi, ma per poter continuare a lavorare al servizio della giustizia con un compenso decoroso», continua Bernabei. E Riccardo Zoja, direttore dell’Istituto di medicina legale della Statale e fino a pochi mesi fa presidente della Società italiana di medicina legale, analizza: «Nell’ambito della giustizia cercano tutti di fare miracoli ma le procedure burocratiche sono lentissime. Le tempistiche della retribuzione sono migliorate leggermente, ma arrivano oggi pagamenti del 2017: non è sostenibile. Oltre ai ritardi c’è anche il fatto che gli onorari sono fermi dal 2002. Una retribuzione iniqua rispetto all’impegno della prestazione. In questo contesto si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico. E anche i medici legali esperti svolgono per il pubblico le prestazioni solo su casi interessanti, ma devono compensare con quote crescenti di lavoro nel privato».
L’effetto sui processi
Non serve sottolineare che in casi di omicidio o lesioni gravi la qualità del lavoro dei periti medico-legali può fare la differenza tra un assassino in carcere o libero, tra una vittima che ottiene giustizia o no. «Da libero professionista — aggiunge Bernabei — è però diventato di fatto impossibile lavorare per la Procura o il giudice: tutte le verifiche accessorie legate a un’autopsia (dagli esami tossicologici, ai tecnici di laboratorio) le anticipa di tasca propria il professionista, e le paga subito. A fronte di un compenso che arriverà dopo anni». C’è qualche eccezione, ad esempio il Tribunale di Monza. Ma Milano e il resto d’Italia stanno iniziando a vedere ricadute sempre più marcate. Riflette Cristina Cattaneo, medico e antropologo, professore di medicina legale alla Statale e direttore del Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense: «La medicina legale italiana, quella delle autopsie, ha bisogno di riforme serie, come hanno fatto i francesi 15 anni fa, e di accreditamento. Bisogna riconquistare la fiducia della società, tra cui anche le Procure, relativamente al fatto che sia fondamentale per tutelare giustizia e società. Ma paradossalmente le richieste di autopsie da parte della giustizia, e anche dei servizi di salute pubblica, sono sempre meno: non certo perché sono diminuiti i crimini, ma perché c’è l’idea che la medicina forense non sia in grado di produrre risultati tangibili in termini di giustizia e salute pubblica, e dunque su quelle si risparmia».
I risparmi gli accertamenti legali
Che peso può avere, in un sistema democratico, se la giustizia risparmia sugli accertamenti e che provoca un’emorragia continua di professionalità? È un tema sul quale insiste anche Zoja: «Sono diminuite drasticamente le richieste di autopsie, non se ne fanno quasi più. C’è una scarsa fiducia nell’utilità di analisi approfondite, ma anche un tema economico, che pesa nella decisione di non farne molte. In questo modo però si ha un minor controllo della situazione sociale ed epidemiologica».
L’albo dei consulenti certificati
In alcuni ambiti Milano ha un’organizzazione avanzata, come ad esempio sulle colpe professionali, con una Sezione dedicata in Tribunale e anche un albo di consulenti «certificati», per i quali una commissione ha verificato la competenza. Il problema però è sempre lo stesso, e cioè che poi questi medici accettino il lavoro al servizio del pubblico. Proprio sulle colpe mediche rischia di generarsi (in parte è già così) una delle distorsioni più gravi: se una persona con pochi mezzi ha avuto un gravissimo danno dopo un intervento sbagliato e denuncia l’ospedale, dalla sua parte avrà spesso solo il perito del magistrato, e se questo è di livello non adeguato, nel processo sarà sempre in difficoltà. Perché di fronte si troverà i periti di più alto livello sul mercato, pagati dalla parte. E dunque, questo è il tema chiave che investe il senso stesso della giustizia, le due parti non saranno ad armi pari di fronte al giudice. È anche per questo che si sono moltiplicate società che si fanno pubblicità e si offrono di assistere vittime di potenziali errori medici. Propongono di assistere la vittima: se perde, la società non avrà compensi; se vince, incasserà una percentuale sul risarcimento. È un sistema molto criticato nell’ambiente, ma che in realtà rappresenta un correttivo rispetto a uno squilibrio.
· Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.
Io son io e voi non siete un cazzo!
Presso la Sezione Penale del Tribunale di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, al ruolo A bis, si tiene il processo n. 238/19 R.G.N.R, n. 1399/19 R.G.T. tenuto dalla D,ssa Annalisa Palamara a carico di Latino Giandomenico difeso dall’Avv. Antonino Napoli.
L’Avv. Antonino Napoli ha pensato di citare come testimone al processo il dr. Antonio Giangrande, di Avetrana, del versante orientale della provincia di Taranto, ai confini con Lecce, noto saggista e presidente nazionale dell’associazione antiracket ed antiusura denominata “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
Il citato dr. Antonio Giangrande non conosce fatti, atti e parti del processo in corso. In udienza si scopre che è un artifizio per far rendere dichiarazioni incriminanti su un articolo pubblicato dall’imputato contenete un’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Dossier contenete altri articoli in cui si parla di incompatibilità ambientale dei magistrati. Nello stesso foro praticano magistrati e loro familiari, in qualità di togati ed avvocati. L’indicazione erronea del nome di uno di questi ha sortito una richiesta di rettifica, effettuata. Ciononostante vi fosse prova di mancanza di dolo, è partita la querela. In questo caso si è guardato il dito e non la luna.
L’avv. Antonino Napoli cita con atto di citazione testi il dr Antonio Giangrande a presenziare per l'udienza del 28 giugno 2021 ore 12 e ss con Racc. A.R. del 04/06/2021 ricevuta il 09/06/2021.
Avviso congruo inviato 24 giorni prima e ricevuto 19 prima l’udienza.
Il Dr Antonio Giangrande in data 23 giugno 2021 con fax personale all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale giustifica l’impedimento a presenziare in udienza per i postumi del Long Covid, residui di una lunga degenza in ospedale per un’infezione grave ai polmoni e ad altri organi .
Il Dr Antonio Giangrande per maggiore sicurezza fa inviare dal suo Avvocato di fiducia del Foro di Taranto, Mirko Giangrande, al Tribunale di Palmi e all’avvocato Antonino Napoli la stessa giustifica.
Mandato speciale rilasciato per quel singolo atto. Oltretutto non essendo imputato.
Giustifica accettata dal Tribunale.
Dopodichè l’avv. Antonino Napoli rinnova la citazione testi al Dr Antonio Giangrande per l’udienza di lunedì 14 marzo 2022, ore 13:00.
Citazione testi che il dr Antonio Giangrande, teste, non ha mai ricevuto, perché inviata dall’avv. Antonino Napoli con pec nel week end, ossia sabato 12 marzo 2022, ore 13:53 all’indirizzo dell’avvocato Mirko Giangrande, non legittimato a riceverla.
Avv. Mirko Giangrande che, intanto, aveva sospeso la professione, in quanto aveva vinto il concorso ed operava come addetto all’Ufficio del Processo presso il Tribunale Penale di Parma.
Avv. Mirko Giangrande che, nel momento in cui ha ricevuto l’errata citazione, nella stessa data la contesta presso il mittente, rilevando la sua nullità.
Da notare:
Destinatario non legittimato a ricevere la notifica, né egli è dovuto a comunicare la stessa al vero destinatario, che ad onor del vero nel week end ed a circa mille chilometri era irrintracciabile.
Termini non congrui tra la notifica e l’udienza: due giorni prima, anzi 47 ore prima, contenuti tra festivi e pre festivi. Come dire: si notifica con un fischio. Oltretutto non congrui per organizzare la trasferta di quasi mille chilometri per un covidizzato, i cui postumi sono difficoltà respiratorie e prostatite.
Si pensava fosse finita così, invece…
In data 30 maggio 2022 il dr Antonio Giangrande riceve una chiamata sul cellulare personale: erano i carabinieri di Avetrana, che sollecitavano la notifica di un atto.
Da autore di inchieste, ci si aspettava, come tutti i migliori saggisti o giornalisti, un procedimento per diffamazione a mezzo stampa.
Invece in caserma veniva presentato un accompagnamento coattivo teste emesso con ordinanza del giudice Annalisa Palamara del 14 marzo 2022, che avallava la versione dell’avvocato Antonino Napoli di regolare notifica nello stesso giorno dell’udienza citata e mai notificata, nonostante all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale si fosse prodotta prova contraria per pec della mancata notifica da parte dell’avv. Mirko Giangrande.
In questo caso la nuova notifica è avvenuta il 30 maggio 2022 per l’udienza del 13 giugno 2022.
Nota bene: 14 giorni prima. In questo caso: Termini congrui.
Al giudice Annalisa Palamara bastava far rinnovare, nei termini congrui ed al legittimo destinatario, la citazione all’avvocato Antonino Napoli, ove assumesse l’onere dell’errore precedente, invece l’accompagnamento coattivo sa di punizione oltraggiosa. Essere considerato reticente è offensivo.
Da esercente la professione forense come praticante avvocato con patrocinio il dr Antonio Giangrande sa cosa significa accompagnamento coattivo e quanto sia umiliante e degradante.
Da presidente antimafia, inoltre, ci si aspettava la scorta, non gli accompagnatori coattivi per testimoniare su cose e su persone di cui nulla si è a conoscenza.
Quasi mille chilometri per andare in capo al mondo senza vie di collegamento degne di un paese civile, tanto da alleviare la trasferta: né autobus, né treni, salvo lunghe ed estenuanti attese per cambi e coincidenze.
Laddove il Maresciallo Vincenzo Caliandro, luogotenente della caserma dei carabinieri di Avetrana, mi avesse invitato a firmare una liberatoria, affinchè si esentasse l’arma dei Carabinieri ad accompagnarmi dietro l’impegno del buon esito della trasferta, la sollecitazione sarebbe stata declinata in quanto lungo il tragitto di centinaia di chilometri tutto può succedere per impedire la presenza in udienza ed ove non si fornisse prova certa e legittima di impedimento, potrebbe prospettarsi l’incriminazione di reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti previsto nell’art. 366 c.p. . In ogni caso ai sensi dell’art. 255 cpc in caso di ulteriore mancata comparizione il giudice dispone l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva e lo condanna ad una sanzione pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro.
Ergo:
Un accompagnamento coattivo infondato oltraggioso ed offensivo.
Un’auto obbligatoria per il teste ed un’auto dei carabinieri al seguito come accompagnamento coattivo, come capopattuglia il brigadiere Biagio Blaiotta, per controllare che l’auto che precede arrivi al Tribunale di Palmi. (In verità è avvenuto il contrario. I carabinieri a precedere tutto spiano e l’auto del testimone costretta a seguire alla stessa velocità!)
Un onere umano ed economico incalcolabile ed uno spreco enorme, per il privato e per il pubblico, oltretutto con il presente caro-carburante.
Si scongiura la denuncia querela presso l’autorità giudiziaria competente e l’esposto presso le autorità amministrative e giudiziarie di controllo, contro i responsabili del falso e dell’abuso, perché il giudice Palamara con buon senso chiede scusa, riconoscendo l’errore del suo ufficio.
Roma: Figlia Giudice monocratico, padre Pubblico Ministero.
Giulia Cavallone, 36 anni, giovane magistrato del Tribunale capitolino e figlia dell'attuale procuratore generale della Corte di appello di Roma, Roberto Cavallone (che da pm aveva seguito l'indagine bis sulla morte di Simonetta Cesaroni a via Poma). […] Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.
La donna, che si era occupata come giudice monocratico del processo a carico di 8 carabinieri accusati, a vario titolo, di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi, si è spenta il 17 aprile del 2020 appunto a soli 36 anni dopo aver lottato a lungo con la malattia che non le aveva dato scampo. (…) Estratto dell’articolo di Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.
Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.
Scambia un melanoma per una verruca durante un controllo di routine. Una dermatologa, Carla V., è stata condannata dal giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Perugia a 8 mesi di reclusione con l'accusa di omicidio colposo per aver causato la morte di Giulia Cavallone, 36 anni, giovane magistrato del Tribunale capitolino e figlia dell'attuale procuratore generale della Corte di appello di Roma, Roberto Cavallone (che da pm aveva seguito l'indagine bis sulla morte di Simonetta Cesaroni a via Poma). […]
È il 4 novembre del 2013, la vittima, insospettita da un neo comparso su un polpaccio, prenota una visita presso lo studio privato della dermatologa, dalla quale si reca ancora una volta il 18 giugno del 2014. Nel corso di entrambe le visite, la dottoressa la tranquillizza, dicendole che si tratta di una verruca seborroica, «nonostante la presenza di elementi di sospetto», si legge ne capo di imputazione. Inoltre, «ometteva di ricorrere a un esame strumentale più approfondito della lesione e, comunque, di avviare con urgenza la paziente alla competenza di un esperto».
Dunque, non viene prelevato nessun campione dalla lesione, al fine di esaminarlo istologicamente. A luglio del 2014, otto mesi dopo la prima visita, però, alla vittima viene fatta una diagnosi del tutto inaspettata presso l'Ospedale San Camillo. I medici asportano d'urgenza la lesione sospetta e concludono che non si tratta di una verruca, come stabilito dalla collega, bensì di un melanoma modulare maligno ulcerato.
Una risposta che, però, è arrivata troppo tardi: il melanoma è al quarto stadio. L'asportazione del tessuto, un intervento successivo e le cure con i farmaci non hanno impedito la sua evoluzione. Le metastasi si diffondono nel corpo della donna arrivando a colpire cervello, polmoni, cuore, fegato e intestino: non c'è più niente da fare. Il giudice muore il 17 aprile del 2020. Un epilogo, che, come emerso nel corso dell'udienza preliminare davanti al giudice di Perugia si poteva evitare con un'asportazione tempestiva della lesione. […]
Giudice morta a 36 anni per un tumore, otto mesi alla dermatologa: «Non ha riconosciuto il melanoma». Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.
La macchia che aveva Giulia Cavallone scambiata per una verruca seborroica. Rongioletti, primario al San Raffaele: «Condanna eccessiva, ma doveva asportare e fare l’istologico». Cos’è un melanoma.
Otto mesi di reclusione per omicidio colposo alla dermatologa accusata di avere definito come «verruca seborroica» un neo sul polpaccio e che in realtà era un «melanoma nodulare maligno ulcerato» da cui è partita la forma tumorale che ha causato la morte del giudice al tribunale di Roma Giulia Cavallone, 36 anni. È quanto deciso oggi dal gup di Perugia. La donna, che si era occupata come giudice monocratico del processo a carico di 8 carabinieri accusati, a vario titolo, di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi, si è spenta il 17 aprile del 2020 appunto a soli 36 anni dopo aver lottato a lungo con la malattia che non le aveva dato scampo.
La diagnosi sbagliata
La famiglia sta portando avanti questa battaglia già iniziata dalla Cavallone quando era ancora in vita per impedire che quanto accaduto «non abbia a ripetersi in futuro». L’errata valutazione di quel neo — secondo il capo d’imputazione — non è stata risolta dall’asportazione di un’ampia zona di derma nell’area interessata dalla formazione cancerosa, e poi da «un intervento linfoadenectomia inguinale ed iliaco-otturatoria sinistra». Nulla hanno potuto neanche le cure con «farmaci immunomodulanti e a bersaglio molecolare». Perché così è arrivata la fine con «metastasi cerebrali, polmonari, cardiache, epatiche, gastrointestinali e linfonodali». Non aver diagnosticato correttamente il melanoma alla Cavallone è stato per la giudice un errore fatale. «Purtroppo può succedere perché sia il melanoma che la verruca seborroica si presentano come due macchie scure — spiega Franco Rongioletti, 64 anni, primario di dermatologia clinica dell’Ospedale San Raffaele e ordinario di dermatologia all’Università Vita-salute San Raffaele —. Nel 90% dei casi si distinguono soprattutto se il dermatologo usa il dermatoscopio che ingrandisce la lesione e permette di vedere anche in profondità ma rimangono comunque dei casi dove la distinzione non è semplice. La cosa migliore rimane sempre quella di asportare e fare l’esame istologico che non dà margini di errore».
«Una condanna eccessiva»
Sulla decisione del gup umbro hanno espresso «soddisfazione» gli avvocati di parte civile, Stefano Maccioni e Nicola Di Mario. «Attendiamo di leggere le motivazioni per un più attento esame — hanno detto —. È stata riconosciuta una condotta colposa della dermatologa e il nesso di causalità tra questa e il decesso della dottoressa Giulia Cavallone». I difensori dell’imputata, avvocati Alberto Biffani e Myriam Caroleo Grimaldi, precisano invece che «la nostra assistita aveva inviato la paziente a un chirurgo oncologo per l’asportazione della lesione. Attenderemo il deposito delle motivazioni per comprendere il ragionamento seguito dal GUP e proporre appello».
Sulla condanna, si esprime ancora il professor Rongioletti. «Una pena eccessiva perché ha fatto un errore che può succedere. Anche a me è capitato di vedere delle lesioni che mi sembravano delle verruche seborroiche solo che ho fatto l’asportazione e l’esame istologico mi ha fatto capire che si trattava di un melanoma. Ecco, la dermatologa sotto processo avrebbe dovuto procedere anche lei così». Il primario di dermatologia dell’ospedale San Raffaele di Milano tiene però a chiarire che «la paziente è morta di melanoma e non per un neo». «Un chiarimento doveroso perché parliamo di due cose completamente diverse — spiega — . Il neo è una lesione benigna, un tumore benigno dei melanociti mentre il melanoma è una lesione maligna, un tumore dei melanociti maligno che può portare alla morte. Se si toglie un neo non si muore mai. Ancora oggi, quando per prevenzione consiglio l’asportazione di nei dalle caratteristiche brutte mi sento dire dai pazienti che non lo vogliono fare perché “togliendo i nei si può morire”. Niente di più falso. Si può morire invece quando si toglie un melanoma troppo tardi ma se lo si toglie nella fase iniziale e superficiale la guarigione è praticamente del 100%».
Ogni anno 100.000 nuovi casi di melanoma nel mondo
Ogni anno nel mondo sono più di 100.000 i nuovi casi di melanoma. Secondo i dati Airtum , l’Associazione Italiana Registri Tumori, la sua incidenza nel nostro Paese è raddoppiata negli ultimi dieci anni e nel 2020 sono stati diagnosticati circa 14.900 nuovi casi di cui 8.100 nei maschi e 6.700 nelle donne. Prevenire la formazione di un melanoma e intervenire per tempo è possibile, effettuando innanzitutto la cosiddetta «mappatura» dei nei, meglio con un video-dermatoscopio, e regolando l’esposizione della pelle al sole. Spiega Rongioletti: «Noi dermatologi consigliamo la mappatura una volta l’anno però ci possono essere delle eccezioni, come quando vediamo dei pazienti con nevi displastici o atipici caratterizzati da un colore diverso, bordi irregolari o note di asimmetria (caratteristiche che possono simulare un melanoma), oppure pazienti con molti nei. Il numero critico è tra i 50 e i 100 nei, allora è meglio fare la mappatura ogni sei mesi». Relazione tra neo e melanoma? «Nel 70% dei casi il melanoma nasce già melanoma, solo che quando è di un millimetro è difficile riconoscerlo. Il 30% invece nasce da un nevo, o neo, preesistente. In questo caso quindi un neo può essere un precursore del melanoma». Altri consigli? «L’esposizione solare è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo del melanoma. Non bisognerebbe esporsi nelle ore in cui ci sono gli ultravioletti più dannosi, dalle 11, 12 del mattino alle 16, 17 del pomeriggio. Bisogna comunque usare sempre una protezione con fattore di protezione 50+ (30 è il minimo). Soprattutto se le persone sono bionde, o rosse, con la pelle e gli occhi chiari, di tipo anglosassone. Un ulteriore fattore di rischio è il melanoma familiare, se qualcuno cioè dei parenti stretti ha avuto dei melanomi, il controllo deve essere almeno annuale. L’aumento del numero dei casi di melanoma è in aumento progressivo e si pensa che sia legato proprio al fatto che le persone tendono a esporsi sempre più al sole rispetto a qualche anno fa».
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.
Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.
Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.
Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”. Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.
Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.
Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.
Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.
Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.
Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.
Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.
E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.
Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.
Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.
Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.
Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.
VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.
Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.
TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati. L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana».
Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.
Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato D.rio D’Isa, figlio del magistrato di cassazione C.dio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato D.rio D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione C.dio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pastette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. D.rio D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. D.rio D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!
Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso.
Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.
Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.
LE PARENTELE PERICOLOSE
Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.
Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.
Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.
Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.
Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.
Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.
Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.
Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.
La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.
La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.
La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.
GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE
Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.
Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.
Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.
Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.
La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.
Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.
Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.
Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.
Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.
La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.
Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.
CHE COSA SIGNIFICA
Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
L'INCHIESTA DI M. SCHINELLA SULLA PARENTOPOLI DI MESSINA: LE CATTEDRE DI FAMIGLIA. TUTTI I NOMI DI TUTTE LE FACOLTA'! Scrive il 18 novembre 2008 "Stampalibera.it". Identico cognome. Identico luogo di nascita. Il 50% dei 1500 docenti dell’Ateneo di Messina, uno ogni 20 iscritti, ha almeno un omonimo. Ed è accomunato ai colleghi dallo stesso luogo di nascita, la città di Messina. Il dato statistico, rapportato alla esigua popolazione della città, è l’indizio che la parentopoli nell’Università peloritana non teme confronti neanche con gli altri Atenei siciliani. Un indizio che diventa prova non appena si va oltre le omonimie. Altro che Palermo. Del “dovere morale di sistemare mio figlio”, come dice Battesimo Macrì, ordinario e preside di Medicina Veterinaria impegnato a fine 2006 a far vincere a tutti i costi un posto di associato al figlio Francesco, che benchè già ricercatore è considerato dalla commissione “carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, di scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica”, all’Università di Messina nel reclutamento dei docenti ma anche degli amministrativi, si è fatto un larghissimo uso. L’Ateneo da luogo del sapere si è trasformato in azienda in cui sistemare i familiari. E se molti hanno scalato i gradini accademici con sacrifici e dopo anni di gavetta, i numeri sono impietosi: sono legati da parentela 27 dei 75 docenti di Giurisprudenza. A Palermo sono 21 su 132. A Medicina e Chirurgia i rapporti di parentela diretta uniscono 90 dei 531. A Palermo, per rimanere al confronto, 58 su 440. A Medicina Veterinaria, dei 63 docenti 23 sono legati da un rapporto che non va oltre a quello che intercorre tra nonno e nipote. Gruppi familiari si sono impadroniti di intere facoltà. E quando i rampolli da piazzare sono stati troppi o i posti pochi sono stati dirottati su altre. Chi a Messina ha fatto carriera universitaria ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta: Navarra, Carini, Vermiglio, Saitta, Galletti, Tommasini, Falzea, Dugo, Tigano, Teti, Resta, Guarnieri, Basile, Trimarchi, Germanà. O ha avuto un padre ordinario: decine sono i cattedratici che non sono riusciti ad insediare l’intera famiglia ma prima di abbandonare si sono assicurati un erede. Un risultato frutto di valutazioni comparative che di comparativo hanno avuto poco: tra la fine del 2006 e l’inizio 2007, l’Università ha bandito74 concorsi per ricercatore. Nel 60% di questi la valutazione ha avuto un solo candidato, il vincitore. Gli altri si sono ritirati anzitempo. «Che il fenomeno fosse imponente lo sospettavo. Ma il problema più grosso è che i figli di qualcuno hanno comunque, anche se i concorsi fossero regolari, molte più opportunità dei figli di nessuno», dice Andrea Romano, preside di Scienze politiche, una delle facoltà meno colpita. Adesso l’Università ha pronto un codice etico: lo ha preparato Antonio Ruggeri, docente di Diritto costituzionale e prorettore. Prevede che il figlio del cattedratico, se vuole seguire le orme del padre nella stessa disciplina debba emigrare in altri atenei. Ironia della sorte, la chiamata nello stesso dipartimento, alla cattedra di procedura penale, del figlio trentenne di Ruggeri, Stefano, associato (l’idoneità l’aveva conseguita all’Università privata Kore di Enna), la cui madre, Carmela Russo, è ordinario nella stessa facolta di Istituzione di diritto romano, determinò nel corso del Consiglio di facoltà del 21 dicembre 2007, una mezza sollevazione. Il segno che in una delle Facoltà più prestigiose dell’Ateneo il livello di guardia fosse stato superato, lo sintetizzò Sara Domianello, ordinario di diritto Ecclesiastico: «Da questo momento mi rifiuterò di esprimere un giudizio su conferimenti di incarichi a persone legate a colleghi da vincoli di parentela od affinità fino al quarto grado», affermò nello stupore generale la docente. Centonove, è andato a caccia dei vincoli di parentela.
GIURISPRUDENZA – La Domianello, allieva del preside, Salvatore Berlingò, ha presieduto la commissione che ha attribuito l’idoneità di associato a Marta Tigano, figlia di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo. Che si ritrova come collaboratrice la figlia di Berlingò, Vittoria, ricercatrice di diritto amministrativo. E nel corpo docente vanta 2 nipoti, Francesco Martines, e Valeria Tigano, entrambi ricercatori. Nello stesso dipartimento gomito a gomito lavorano Giuseppe Giuffrida, ordinario di diritto agrario, e la figlia Marianna, ordinario anch’ella, della stessa disciplina del padre. All’Istituto di diritto privato impera Raffaele Tommasini, ordinario di Lavoro e Civile, un numero di incarichi compendiato in un elenco che riempirebbe un’intera pagina, che si avvale nel proprio dipartimento della figlia Alessandra. E del genero, Antonino Astone, associato. L’altra figlia Maria, è associato, sempre della stessa disciplina, alla facoltà di Economia. L’altro genero, Orazio Pellegrino, è ricercatore a Ingegneria. Nello stesso settore, diritto privato, in cui opera anche Francesca Panuccio, associata figlia di Vincenzo, una vita da ordinario, muove i primi passi da cattedratico, Francesco Rende, figlio di Ciraolo Clorinda, associato nella stessa disciplina, e di Mario Rende, assistente ad Economia. Vincenzo Michele Trimarchi, era stato anche giudice della Corte costituzionale, il figlio Mario, è ordinario di privato, (la moglie di questi, Renata Altavilla, è associato nello stesso dipartimento), il nipote Francesco è ordinario a Medicina.
MEDICINA E CHIRURGIA – Trecentoventi dei 540 docenti della Facoltà, secondo il Ministero dell’Università, sono di troppo ma l’Ateneo di Messina fa finta di nulla e continua a bandire concorsi (7 nell’ultima tornata) per ricercatori, associati e ordinari. Che vanno quasi sempre ai soliti figli di cattedratico. Come quello del 2005 per ricercatore di Chirurgia, andato a Giuseppinella Melita, figlia di Paolo, ordinario. O a Rocco Caminiti, figlio di un ordinario in pensione. La dinastia dei Galletti regna all’Otorinolaringoiatria: Cosimo Galletti è stato il capostipite, il figlio Franco, ordinario, e Bruno, associato, i suoi eredi. L’ultimo figlio Claudio si è spostato ad Anestesiologia, dove è ricercatore. Massimo, invece, è divenuto associato di diritto privato a Giurisprudenza. Al defunto chirurgo Salvatore Navarra, è succeduto in sala operatoria uno dei 3 figli, Giuseppe, diventato ordinario giovanissimo. Pietro, è ordinario ad Economia (e prorettore). Michele è associato a Scienze. La Dermatologia porta il nome di Guarnieri: Biagio è ordinario, i figli Claudio e Fabrizio, ricercatori. Diana Teti, patologo, e Giuseppe Teti, microbiologo, entrambi ordinari, hanno raccolto lʼeredità del padre, Mario, ordinario di microbiologia in pensione. Diana si è sposata con Matteo Venza, ordinario a Scienze. Un’unione che ha dato a Medicina altri due ricercatori: Mario e Isabella Venza. L’oculista Giuseppe Ferreri, ordinario, lavora fianco a fianco della figlia Felicia, ricercatrice. Cosi come Gaetano Barresi, ordinario, con la figlia, Valeria, ricercatrice. Ci lavoravano fino alla scorsa settimana Giuseppe Romeo, ordinario di Chirurgia pediatrica, e il figlio Carmelo, ordinario delle stessa disciplina. Corrado Messina, ordinario di Neurologia ha una figlia Maria Francesca, ricercatrice in altro settore. Maurizio Monaco, ordinario, figlio dell’ex Prefetto di Messina, ha il figlio Francesco ricercatore. Hanno avuto un padre o la madre, ordinario o associato nella stessa o in disciplina affine, solo per fare degli esempi, Eugenio Cucinotta, Antonio D’Aquino, Marcello Longo, Massimo Marullo, Filippo De Luca, Antonino Germanò, Ignazio Barberi, Giorgio Ascenti, Michele Colonna, Impallomeni Carlo, Giuseppe Santoro, Antonella Terranova.
MEDICINA VETERINARIA – Giovanni Germanà, ordinario di Fisiologia, ha lasciato il segno. Nello stesso settore è associato il figlio Antonino e la nipote Germana. Un’altra nipote, Maria Beatrice Levanti, è ricercatrice, sempre nello stesso settore. Luigi Chiofalo era ordinario di Zootecnia, Vincenzo, il figlio, attuale preside di Facoltà ne ha preso il posto, Biagina, l’altra figlia è ricercatrice, così come il marito, Luigi Liotta: tutti nello stesso settore. Ma a Veterinaria nello stesso settore, Sanità pubblica, operano Antonio Pugliese, ordinario e la figlia Michela che si è aggiudicata un posto di ricercatrice in un concorso in cui era unica candidata, per le pressioni, secondo la Procura di Messina, del padre su concorrenti più titolati. E Battesimo Macrì, e il figlio ricercatore, Francesco, la cui ascesa è stata interrotta dalla magistratura. Sono figli di cattedratici ormai in pensione una schiera di docenti: Anna Maria Passantino, associato, figlia di Michele; Bianca Orlandella, ricercatrice, figlia di Vittorio; Antonio Panebianco, diventato ordinario senza salire per gli scalini intermedi; Antonio Ajello e Adriana Ferlazzo, (moglie di Alberto Calatroni, ordinario a Medicina) sorelle entrambe ordinario, figlie di Aldo, ordinario, invece, di Pediatria. Pippo Cucinotta, ordinario di Chirurgia, infacoltà non ha parenti, ma da Claudia Interlandi, associato dello stessa disciplina ha avuto 2 figli.
SCIENZEMATEMATICHE E FISICHE – La fisica e la matematica a Messina parla Carini. Giovanni, il capostipite, era ordinario di Fisica Matematica. E ha sdoppiato i geni scientifici: il figlio Giuseppe, è ordinario di Fisica; la figlia Luisa, associato di Matematica è moglie di Giuseppe Magazzù, ordinario a Medicina. Il primo ha 2 figli, Manuela, già ricercatrice di Matematica all’Università della Calabria. L’altro figlio Giovanni è assegnista di ricerca. I fratelli Dugo, Giacomo e Giovanni, sono entrambi ordinari. Giovanni, nello stesso Dipartimento a Farmacia ha una figlia, Paola, associato, moglie di Luigi Mondello, ordinario nello stesso dipartimento del suocero. Laura, figlia di Giovanni, ha già ottenuto un dottorato di ricerca e si prepara a seguire le orme del padre. Come Giuseppe Gattuso, ricercatore di chimica, figlio di Mario, ordinario della stessa disciplina, di Marisa Ziino, ordinario a Scienze. E Armando Ciancio, figlio di Vincenzo, ordinario di Matematica e delegato del rettore, che si è aggiudicato un recente concorso di ricercatore dello stesso settore del padre, bandito, però, dalla Facoltà di Medicina. Ed è in attesa di chiamata. Nella facoltà di Scienze operano come associati, Enza Marilena Crupi, il padre era ordinario nella stessa facoltà. Cosi come lo era il padre dell’ordinario Viviana Bruni, Augusto, docente per decenni di Microbiologia. E il padre di Ulderico Wanderling, associato, figlio di Franco, ordinario. Di cui è nipote Rita Giordano, associato sempre di Fisica. La figlia di Rita De Pasquale, ordinario a Farmacia e prorettore, Chiara Costa, figlia anche di Giovanni, ordinario di farmacologia, si è aggiudicata un posto da ricercatrice a Medicina. Carlo Caccamo, ordinario, ha potenziato il corredo genetico sposandosi con Maria Caltabiano, ordinario a Lettere: la figlia Daniela è ricercatrice di biologia a Medicina.
ECONOMIA – Lavorano nella stessa Facoltà, ma in dipartimenti diversi, Antonino Accordino, ordinario, e la figlia Patrizia, ricercatrice. E’ figlia d’arte anche Maria Teresa Calapso, ordinario di Matematica: il padre Pasquale Calapso, era ordinario di matematica seppure a Scienze. Così come Paolo Cubiotti, ordinario di analisi matematica, cui ha trasferito i geni scientifici il padre Gaetano, ex ordinario di Fisica. E Filippo Grasso, associato, figlio dell’ordinario a Fisica, Vincenzo.
LETTERE – L’attuale preside, Vincenzo Fera, ha una figlia Maria Teresa, che ha intrapreso la carriera medica ed è associato. L’ex preside Gianvito Resta ha passato il testimone alla figlia Caterina, ordinario nella facoltà del padre. L’altra figlia, Maria Letizia è associato a Medicina. L’ordinario Angelo Sindoni, prorettore, ha una figlia, Maria Grazia, uscita di recente vincitrice di un concorso per ricercatrice. Lavora, invece, a Scienze politiche, nello stesso dipartimento del padre, Mario Centorrino, ordinario ed ex prorettore, Marco, benchè il posto di ricercatore lo avesse bandito la facoltà di Lettere.
TRAVERSALITA’ – Francesco Basile, ordinario, è stato preside di Scienze. Non si può dire che i suoi figli nel mondo accademico non abbiano fatto strada: Maurizio, ordinario a Medicina, Massimo, ordinario di diritto a Scienze politiche, Fabio, ordinario a Ingegneria. La figlia di quest’ultimo, Rosa, ha appena vinto un concorso di ricercatrice in diritto costituzionale a Giurisprudenza. Dopo il ritiro degli altri candidati è rimasta da sola. A presiedere la commissione Antonio Saitta, ordinario, ex sindaco di Messina, appartenente ad una delle famiglie che all’Ateneo ha dato molto. E’ figlio di Emilio, che fu ordinario a Medicina. E nipote di Nazzareno, ordinario a Giurisprudenza, il cui figlio Fabio è docente a Catanzaro, e di Gaetano, ordinario a Ingegneria. Sono solo cugini tra di loro ma i Vermiglio si sono fatto valere: uno, Mario Vermiglio, è vincitore di un concorso di ordinario a Medicina, sempre a Medicina c’è Giuseppe, associato di Fisica, la moglie Maria Giulia Tripepi, è associato dello stesso settore. Franco è invece ordinario ad Economia. L’eredità di Diego Cuzzocrea, ordinario di Chirurgia, ed ex rettore dell’Università, l’hanno raccolta, Salvatore, associato a Medicina e Francesca, ricercatrice a Scienze della Formazione. Del precedente rettore Guglielmo Stagno D’alcontres, ordinario di Chimica, sono nipoti Francesco, deputato nazionale, ordinario di Chirurgia plastica a Messina e Alberto, ordinario di diritto commerciale a Palermo. MICHELE SCHINELLA – CENTONOVE 07-11-08
Se il rettore non può firmare. I casi in cui il Magnifico deve ricorrere al vicario. Da Gaetano Silvestri a Franco Tomasello. Il concorso ad un posto di ricercatore in diritto amministrativo si è celebrato nel giugno del 2008. Francesco Martines, figlio di Maria Chiara Aversa, ordinario alla facoltà di Scienze, delegato del rettore per la ricerca, nipote di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo, e genero del rettore Franco Tomasello, di cui ha sposato la figlia, si è aggiudicato il posto. Ed è rimasto in attesa della chiamata della facoltà di Scienze politiche. A firmare il decreto di approvazione degli atti del concorso non è stato il suocero, come succede in tutti gli altri casi: per prassi consolidata, infatti, lo fa il rettore vicario. Non è la prima volta che il rettore vicario debba intervenire per firmare gli atti di un concorso vinto da un parente stretto di Tomasello. Lo fece già per il figlio Dario, vincitore nel 2005, del concorso di associato alla Facoltà di Lettere. E non è il primo rettore vicario dell’Università di Messina. Toccò anche al predecessore. Durante il rettorato di Gaetano Silvestri, la moglie di quest’ultimo, Marcella Fortino, divenne docente ordinario. Insegna a Scienze politiche. (M.S.)
Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...», scrive Nino Luca il 18 novembre 2008 su "Il Corriere della Sera". «Non ci dormivo la notte. I finanziamenti "ad hoc " sono la prassi accettata da tutti». Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore». Sommersi dalle email. Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all'individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all'estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un'autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola "cultura" dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».
LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».
I DUBBI - «Io invece - prosegue Lucia - mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: "Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana".
IL RISCATTO - Di lì a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall'Università di... con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un'altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.
IL CAMBIAMENTO - Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell'ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l'unico vero giudice dell'operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo. Cordialmente, Lucia».
Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.
Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La norma nel codice disciplinare dei magistrati. No ai rapporti tra toghe e condannati: il divieto che rinnega la Costituzione. Massimo Donini su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. L’articolo 3, comma 1, lettera b) del codice disciplinare dei magistrati (D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) vieta al magistrato di «frequentare persona …. che a questi consta… aver subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni… ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone». L’illecito è equiparato espressamente a quello di frequentare un delinquente abituale o professionale. Ora dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello dei rapporti tra le persone o per il giudizio “storico” sui fatti. E qual è comunque il suo valore morale, se conduce a impedire quei rapporti perfino a chi pronunci “di mestiere” condanne a una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua emarginazione sociale? Il magistrato non è il rappresentante di una moralità superiore – è quasi ironico il doverlo ricordare oggi, anche se lo abbiamo sempre pensato – ma deve solo rispettare disciplinatamente e con onore i pubblici uffici (art. 54 Cost.). Ebbene, come può la sua condotta non apparire portatrice di un’ipocrisia legalistica se si deve allontanare dall’umanità delle relazioni e non è neppure ammesso a provare, se rinviato al Csm per una violazione disciplinare, che aveva il diritto fondamentale di frequentare un condannato, perché nessuna ragione antigiuridica di pubblico interesse era sottesa a quelle relazioni? Certo, esistono doveri di stato che toccano a determinate persone in ragione della peculiare funzione, per come devono “apparire” e non solo essere, e che non riguardano altri. Ma qui si tratta di presunzioni assolute di non frequentabilità e di divieti che neppure ammettono prove contrarie e che sono assistite da diritti scriminanti. Non si può sanzionare la sola apparenza antievangelica di frequentare i pubblicani. In uno “storico” incontro svoltosi qualche anno fa a Scandicci, nel 2016, per la Formazione dei magistrati, dedicato alla giustizia riparativa, alcuni organizzatori ebbero la malaugurata idea di invitare a relazionare al pubblico due ex terroristi rossi, condannati all’ergastolo e poi rimessi in libertà dopo aver scontato interamente la pena, e avere anche attivato percorsi di mediazione e condotte riparatorie a favore di vittime vicarie, sostitutive di quelle reali, ma per offese di analogo significato subìte. Il giorno precedente l’incontro si sollevò una reazione da parte di giornalisti, politici, opinion makers della giustizia, alti magistrati, contrariati per questa iniziativa che metteva “in cattedra” autori di gravi o efferati delitti, per lo più imperdonabili. La “testimonianza” degli ex terroristi saltò e le lezioni si limitarono a quelle svolte da professori e magistrati. Ora sono trascorsi alcuni anni, e la Scuola Superiore della magistratura ospita iniziative anche internazionali in tema di giustizia riparativa, anche con limitate esperienze testimoniali di autori di reato. Forse proprio da quella esperienza di esclusione ha preso avvio un percorso selezionato di ascolto. Per i normali relatori, peraltro, che svolgano anche un’ora di didattica alla Scuola, è stato introdotto l’obbligo di presentare una autocertificazione dalla quale risulti che sono incensurati o se abbiano carichi pendenti. Tutto questo non solo è umiliante, ma profondamente contrario allo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., perché fa intendere che la condanna penale o anche l’essere indagato rende “infetta” la persona, inadatta all’insegnamento a questo pubblico. E come potrà quel magistrato, cioè ogni magistrato, rispettare la lettera, e non solo lo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., se è egli stesso diseducato da queste regole o prassi ordinamentali e persino “disciplinari”? Oggi la recente legge delega n. 134/2021, la c.d. riforma Cartabia, prevede l’introduzione di una “riforma organica della giustizia riparativa”, dove in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia possibile accedere a forme di mediazione volte ad assicurare la ricostituzione del rapporto fra autore e vittima e a promuovere programmi strutturati a quell’obiettivo, «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità». (art. 1, co. 18, lett. c). Questo importante supporto statale alla mediazione penale, debitamente finanziato, rimarrà peraltro una vicenda parallela a quella processuale, dove altre numerosissime forme di “riparazione dell’offesa” già esistono, ma producono specifici e concreti benefici. Invece, l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa di tipo mediatorio potrà, eventualmente, essere valutato nel procedimento penale o nell’esecuzione (art. 1, co. 18, lett. e). Un obiettivo molto spirituale, dunque, direi evangelico e senza vera contropartita utilitaristica, domina questi istituti, che si affiancano al diritto penale più duro di contrasto alla criminalità. In questa antinomia di logiche, che andranno a coesistere nel sistema, una novità specificamente rieducativa è data dalla previsione standardizzata per i condannati a pena che si mantenga entro i quattro anni di detenzione in concreto (anche per delitti gravi in astratto), di limitare detta pena a forme extracarcerarie, se utili alla rieducazione, e in particolare alle pene sostitutive di semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria (art. 1, co. 17). Dunque, riassumendo: programmi umanistici senza utilitarismo per recuperare il rapporto tra autore e vittima, rieducazione extracarceraria per pene detentive entro i quattro anni, inclusione e non esclusione. Ma al contempo, per i gestori di questi programmi, divieto di frequentare condannati ad almeno tre anni di reclusione, rifiuto o permanente difficoltà di ascoltare a lezione di formazione testimonianze di docenti-testimoni spiccatamente “qualificati dal reato”, divieto per i relatori della loro formazione di presentarsi senza autocertificare un pedigree specchiato di mancanza di precedenti e carichi pendenti. La domanda è ovvia: quale “cultura” ci aspettiamo che abbiano questi magistrati quando devono applicare le norme rieducatrici? Da dove prenderanno i basamenti professionali della loro visione del mondo, del loro giudizio, e della discrezionalità che esso richiede? Siamo tutti abituati ad antinomie giuridiche e conflitti di coscienza anche dentro alle istituzioni. Però viene il momento in cui queste contraddizioni esplodono e devono produrre prima un malessere, poi una resistenza, e infine una decisione di libertà e di coerenza. Le più recenti riforme, per quanto interessate anche alla difesa sociale, stanno introducendo una cura per la persona umana che è ora richiesta in misura maggiore anche al magistrato: è questo il primo dovere disciplinare della sua etica del lavoro. Altrimenti la persona da non frequentare, per un gioco di specchi, potrebbe diventare proprio lui. Massimo Donini
Art. 29. Modifiche agli articoli 18 e 19 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12
1. Gli articoli 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto n. 12 del 1941, e successive modificazioni, sono sostituiti dai seguenti:
(Il presente articolo prima modificato dall’ art. 7, D.Lgs. 19.02.1998, n. 51, è stato, poi, così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità di sede per parentela o affinità con professionisti) - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali ordinari, non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore, né, comunque, ad uffici giudiziari avanti i quali i loro parenti od affini nei gradi indicati esercitano abitualmente la professione di avvocato o di procuratore.”.)
"Art. 18 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense). - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, gli affini in primo grado, il coniuge o il convivente, esercitano la professione di avvocato.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei seguenti criteri:
a) rilevanza della professione forense svolta dai soggetti di cui al primo comma avanti all'ufficio di appartenenza del magistrato, tenuto, altresì, conto dello svolgimento continuativo di una porzione minore della professione forense e di eventuali forme di esercizio non individuale dell'attività da parte dei medesimi soggetti;
b) dimensione del predetto ufficio, con particolare riferimento alla organizzazione tabellare;
c) materia trattata sia dal magistrato che dal professionista, avendo rilievo la distinzione dei settori del diritto civile, del diritto penale e del diritto del lavoro e della previdenza, ed ancora, all'interno dei predetti e specie del settore del diritto civile, dei settori di ulteriore specializzazione come risulta, per il magistrato, dalla organizzazione tabellare;
d) funzione specialistica dell'ufficio giudiziario.
Ricorre sempre una situazione di incompatibilità con riguardo ai Tribunali ordinari organizzati in un'unica sezione o alle Procure della Repubblica istituite presso Tribunali strutturati con un'unica sezione, salvo che il magistrato operi esclusivamente in sezione distaccata ed il parente o l'affine non svolga presso tale sezione alcuna attività o viceversa.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti e requirenti sono sempre in situazione di incompatibilità di sede ove un parente o affine eserciti la professione forense presso l'Ufficio dagli stessi diretto, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali ordinari organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale.
Il rapporto di parentela o affinità con un praticante avvocato ammesso all'esercizio della professione forense, e' valutato ai fini dell'articolo 2, comma 2, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, e successive modificazioni, tenuto conto dei criteri di cui al secondo comma.
Art. 19 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
(Il presente articolo è stato così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede) - I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al terzo grado non possono far parte della stessa corte o dello stesso tribunale o dello stesso ufficio giudiziario. Questa disposizione non si applica quando, a giudizio del Ministro di grazia e giustizia, per il numero dei componenti il collegio o l’ufficio giudiziario, sia da escludere qualsiasi intralcio al regolare andamento del servizio. Tuttavia non possono far parte come giudici dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali ordinari i parenti e gli affini sino al quarto grado incluso.”.)
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.".
Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. Luca Rinaldi il 3 Agosto 2015 su L'inchiesta. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari. A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all’atto dell’incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell’incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l’onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l’istituzione di una apposita commissione d’inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse. Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte – spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus – per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l’anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture. Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli – dice ancora Franceschini – nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».
Csm, arriva la stretta sui procuratori: regole rigide sugli incarichi e le indagini. Liana Milella su La Repubblica il 10 dicembre 2020. Oggi il Consiglio vara il decalogo di comportamento per i vertici delle procure. Ogni incarico dovrà essere documentato e soprattutto motivato. Decalogo (obbligatorio) del Csm per i procuratori della Repubblica. Sono i potenti titolari dell'azione penale a cui adesso l'organo di governo autonomo della magistratura toglie decisamente un po' di discrezionalità dettando rigide regole di comportamento su ogni aspetto dell'organizzazione dell'ufficio e la conduzione delle indagini. Ci ha lavorato tutta la settima commissione del Consiglio (Pepe, Donati, Basile, D'Amato, Suriano, Ciambellini) e tra gli estensori figurano anche Micciché e Dal Moro. Tutte le correnti insomma. E dovrebbe finire anche con un voto all'unanimità, anche se Nino Di Matteo propone delle modifiche che si riserva di illustrare e motivare durante la discussione. Ma in cosa consiste la riforma? Detto in due parole, per capirci, potremmo chiamarla il vademecum di cosa può fare, e cosa non può fare, un procuratore della Repubblica nel suo ufficio. Più brutalmente: il Csm stabilisce come deve comportarsi il capo di una procura, automaticamente delimitando i suoi compiti, e quindi anche i suoi poteri. Sicuramente aggrava la sua rendicontazione burocratica. Ma lo obbliga anche, con i suoi vice, a fare indagini e non solo a guidare i colleghi. Perché, "seppure compatibilmente con le dimensioni dell'ufficio e dei compiti di direzione e coordinamento nonché dei carichi di lavoro", anche i capi e i vice capi non potranno essere sganciati dal lavoro ordinario. Per loro ci sarà "un'obbligatoria riserva di lavoro giudiziario". Una mossa, quella del Csm, che anticipa sui tempi il Guardasigilli Alfonso Bonafede che, sullo stesso tema, ha scritto un capitolo nella sua legge sulla riforma del processo penale che marcia con tempi biblici alla Camera, i cui scopi però sono già sunteggiati, e quindi ritenuti strategici, nel piano dell'Italia per guadagnare e spendere i 196 miliardi di euro del recovery fund. Ma partiamo da un parterre di giudizi. Ecco quello di Giuseppe Marra, il consigliere "davighiano" di Autonomia e indipendenza. "È un testo molto importante perché, in estrema sintesi, detta regole più stringenti per l'attività dirigenziale dei procuratori, che non potranno più fare, senza motivazione adeguate, il bello e il cattivo tempo nei loro uffici, anche se la legge gli riconosce la titolarità dell'azione penale". Un parere che non è affatto diverso la quello di Antonio D'Amato, componente della settimana commissione, toga di Magistratura indipendente, componente della commissione, alle prese con piccoli aggiusti del testo: "Abbiamo voluto ancorare le scelte del procuratore a criteri di trasparenza e conseguente motivazione, allorquando individua i suoi collaboratori fra i sostituti per affidargli degli incarichi. In questo modo si è voluto scongiurare il rischio delle cosiddette medagliette costruite su sostituti “vicini” allo stesso procuratore per favorirli nel percorso professionale, trattandosi di medagliette utili in sede di successiva valutazione per possibili incarichi direttivi o semidirettivi". Due giudizi che confermano quanto il decalogo sarà impegnativo e destinato a cambiare la vita degli uffici. Ma leggiamo cosa c'è scritto nella relazione che accompagna il testo, definito come una "rivisitazione e parziale riformulazione" di quello del novembre 2017 che, a sua volta, integrava i precedenti del 2007 e del 2009, tutti figli della riforma dell'ordinamento giudiziario del governo Berlusconi, allora Guardasigilli il leghista Roberto Castelli, poi diventato legge con il successore, l'ex Dc Clemente Mastella. Il Csm ci rimette mano perché "sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali". Cosa cambia e cosa dovranno fare da domani i procuratori in base al vademecum che si risolve in oltre 60 pagine di nuove regole? La mossa del Csm impone ai capi degli uffici una totale e maggiore trasparenza in tutte le scelte, da quella dei procuratori aggiunti, a quella di indicare uno piuttosto che un altro pubblico ministero per seguire un'indagine, nonché anche per costituire i singoli gruppi di lavoro. Il capo dovrà ricorrere al cosiddetto "interpello", cioè sentire democraticamente tutti prima di costituire un gruppo. E qualora dovesse fare una scelta anomala, una deroga rispetto alle regole in vigore, dovrà motivarlo per iscritto e dettagliatamente al Csm. Dovrà spiegare, insomma, perché ha privilegiato un collega piuttosto che un altro. Una regola che, evidentemente, limita l'autonomia del procuratore in ogni sua mossa. Come non bastasse questo procuratore, nonché i suoi vice, dovranno anche lavorare alle indagini, cioè non basterà fare "il capo", bisognerò anche fare concretamente delle indagini. Tutto questo perché, come scrive la settima commissione, "l'organizzazione degli uffici di Procura deve essere finalizzata a garantire l'esercizio imparziale dell'azione penale, la speditezza del procedimento e del processo, l'effettività? dell'azione penale, l'esplicazione piena dei diritti di difesa dell'indagato e la pari dignità? dei magistrati che cooperano all'esercizio della giurisdizione: beni giuridici costituzionalmente rilevanti la cui effettiva tutela si realizza immancabilmente attraverso un uso imparziale e consapevole della leva organizzativa che deve essere utilizzata secondo criteri trasparenti e verificabili". Per essere espliciti, il Csm vuole vederci chiaro sul perché un procuratore si batte per un procuratore aggiunto - che comunque viene scelto dal Csm - o affida una certa indagine, perché se è vero che "la responsabilità? delle scelte organizzative compete al procuratore", è altrettanto vero che "la verifica della rispondenza delle opzioni in concreto adottate alle ragioni di quella attribuzione e? compito irrinunciabile del governo autonomo". Per tutte queste ragioni il Csm chiede ai procuratori di presentare "documenti chiari, trasparenti, articolati" rispetto alle assemblee interne e soprattutto che le assemblee stesse si svolgano veramente, visto che da alcuni verbali mandati a Roma sembra trapelare invece che prese d'atto e accettazioni sarebbero giunte solo a cose fatte. La regola aurea per scegliere i magistrati sarò l'interpello, una sorta di consultazione interna su "chi vuole fare cosa". Ugualmente il capo dell'ufficio non sarà più il sovrano unico delle assegnazioni dei singoli pm alle Direzioni antimafia, i gruppi che lavorano sulla criminalità organizzata. Anche in questo caso, scrive il Csm, il procuratore che "rinnova o non rinnova" un incarico dovrà "motivarlo espressamente" e "comunicarlo a tutti i magistrati dell'ufficio" che, se bocciati ed esclusi, potranno presentare le loro contro deduzioni. Ovviamente di tutto questo dovrà essere informato il Consiglio giudiziario, la longa manus del Csm in sede locale, che potrà esprimere il proprio parere. Infine il procuratore, nell'organizzare l'ufficio, dovrà guardare anche oltre le sue stanze, verso quelle dei tribunali dove i suoi processi poi andranno in udienza.
Csm, la pm fa le valigie: "Non può lavorare insieme al marito, è incompatibile". Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 28 agosto 2021. Dopo un anno e mezzo, il Consiglio superiore di magistratura ribalta il suo iniziale verdetto e dichiara l'incompatibilità tra due procuratori aggiunti sposati. Nunzia D'Elia trasloca presso la Corte d'Appello. Poco più di un anno fa, per il Csm, il fatto che marito e moglie lavorassero nello stesso ufficio non rappresentava un profilo di incompatibilità. Ma quello che per l'organo di autogoverno della magistratura valeva nel 2020 oggi non vale più. Così, accade a Roma, nel più grande tribunale d'Europa, che uno dei due coniugi oggi sia costretto a fare le valigie. E in quelle valigie chiudere i successi di questi anni. Dalla sparatoria in cui rimase paralizzato Manuel Bortuzzo all'omicidio Cerciello, passando per quello di Luca Sacchi. Dalle inchieste su Ama, Flambus e sugli alberi che con il maltempo cadono nelle strade di Roma perché non viene fatta la manutenzione alla strana morte di Maddalena Urbani prima e, da ultimo, di Libero De Rienzo. Riavvolgiamo il nastro. A Roma, tra i nove procuratori aggiunti (al momento ce ne sono 8, uno è da nominare) c'è una coppia. Nunzia D'Elia e Stefano Pesci sono sposati da anni. Lo erano anche quando facevano entrambi i sostituti in quella stessa procura e quando lei, qualche anno fa, è rientrata dal Latina per fare l'aggiunto. Stando alle circolari vigenti sul regime delle incompatibilità, la nomina del marito in quello stesso ruolo poteva sollevare qualche dubbio, ma palazzo dei Marescialli ha deciso comunque di conferire al dottor Pesci lo stesso incarico semi-direttivo. Era il 13 febbraio del 2020. Al Csm erano a conoscenza della situazione che, per altro, era stata sollevata, ma hanno deciso di procedere chiarendo che un'eventuale incompatibilità andava valutata in concreto. Così, il 2 marzo, Stefano Pesci ha preso possesso. Un anno dopo, il Consiglio, una volta ricevuta dichiarazione di eventuale incompatibilità inviata dai diretti interessati (seppur già esistente e già valutata in sede di nomina), ha deciso di riprendere in mano la questione. I due magistrati sono stati sentiti personalmente. Il capo della procura Michele Prestipino, invece, non è stato convocato. "Preciso - ha scritto in una nota il numero uno dei pm romani - che il procuratore aggiunto dottoressa D'Elia coordina i gruppi "Reati causati da responsabilità professionale", "Reati in materia di infortuni-alimenti-incolumità pubblica", e "Reati in materia di ecologia e tutela dell'ambiente" dal 20/7/2016 e il procuratore aggiunto dottor Stefano Pesci coordina la struttura Sdas1 dal 6/3/2020 e il gruppo "Reati tributari" dal 26/5/2020 e durante tale periodo non si sono manifestate situazioni di possibile incompatibilità. Anche in precedenza la dottoressa D'Elia e il dottor Pesci hanno prestato servizio entrambi presso questo Ufficio, l'una quale procuratore aggiunto e l'altro quale sostituto, non facendo registrare alcuna situazione di incompatibilità potenziale né tantomeno concreta". D'accordo col procuratore anche il Consiglio Giudiziario presso la Corte d'Appello di Roma, il "Csm locale" che ha escluso ripercussioni sulla vita dell'ufficio. Ma da piazza Indipendenza non hanno sentito ragioni. Sarà per il riassetto degli equilibri tra le correnti, sarà per un certo rigorismo dopo la bufera del caso Palamara, ma dopo appena un anno dalla decisione di segno opposto, la Prima Commissione ha ribaltato il tavolo e deciso che Pesci e D'Elia siano incompatibili. E che uno dei due deve lasciare l'incarico. Per questo, dopo sei anni di inchieste importanti, Nunzia D'Eliha lasciato in questi giorni la procura di Roma per andare in procura generale presso la Corte d'Appello. Qualcuno ha detto che si tratta di una scelta d'amore. Di scelta sicuramente non si può parlare.
La circolare del Csm nasce dalle modifiche volute dall'ex ministro Roberto Castelli. Altre ai vincoli di parentela, matrimonio e affini riconosce le convivenze. Coppie di fatto "incompatibili" tra le toghe. Il divieto anche tra investigatori e pm. Entro il 31 dicembre i magistrati dovranno autodenunciarsi al Consiglio superiore. La verde Balducci: "E' un provvedimento contrario alla privacy". Claudia Fusani su La Repubblica il 25 maggio 2007. Invece di arrivare diritti, arrivano doveri. E limitazioni. Succede alle coppie di fatto, se hanno la toga, di magistrato o di avvocato, a cui il Consiglio superiore della magistratura ha fatto pervenire l'ultima novità: la convivenza fa scattare la incompatibilità. O meglio, "la stabile coabitazione determinata da rapporti sentimentali", fa s� che un magistrato e un avvocato, o due magistrati, o uno dei due se divide lo stesso tetto con ufficiali o agenti di polizia giudiziaria non possono lavorare nello stesso ufficio. Anche Palazzo dei Marescialli, quindi, deve confrontarsi con la realtà delle convivenze. Che sono talmente "riconosciute" da diventare per legge causa di incompatibilità. Mercoledì la Prima Commissione dell'organo di autogoverno della magistratura ha deliberato sul più generale capitolo delle incompatibilità. Un passaggio necessario per adeguare il regolamento alla nuova legge su illeciti disciplinari e trasferimenti voluta dall'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. La circolare contiene alcune importanti novità. La prima è che se finora, per legge, l'incompatibilità professionale scattava solo per parenti, coniugi e affini (a parte alcune circolari che prevedevano anche qualche caso di convivenza), adesso, per legge, l'impossibilità di lavorare nello stesso ufficio scatta anche per i conviventi. Si legge al punto 5 della circolare: "La convivenza è rilevante laddove si sostanzi in un rapporto di stabile coabitazione". In una prima versione era anche scritto "assimilabile a quello matrimoniale". Nelle versione definitiva è passata una definizione più soft: la coabitazione deve cioè "essere determinata da rapporti sentimentali". Critica il deputato dei verdi Paola Balducci, avvocato penalista e membro della Commissione Giustizia: "Da una parte - osserva ironica - mi compiaccio nel constatare che la convivenza è un dato di fatto cos� rilevante da provocare una incompatibilità per legge. Dall'altra - continua - lo Stato, e neppure il Csm - si deve preoccupare di definire il tipo di convivenza tra due persone. E' inopportuno e va contro i principi della privacy. Cosa succede adesso? Entro il 31 dicembre 2007 magistrati e avvocati che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposati devono specificare la tipologia della loro coabitazione?". Infine, aggiunge Balducci, "per quello che riguarda la terzietà di giudizio, a me avvocato non interessa sapere il tipo di rapporto tra i due conviventi. Basta il fatto che convivano, anche solo per dividere le spese, per farmi dubitare sulla imparzialità di giudizio". La seconda novità della circolare riguarda poliziotti e agenti di polizia giudiziaria. Al punto 42, infatti, viene introdotto un terzo tipo di incompatibilità. Non solo quando il rapporto di parentela, affinità, coniugio e convivenza è tra magistrati, o tra magistrati e avvocati, ma anche quando riguarda "magistrati addetti agli uffici di procura e ufficiali o agenti di polizia giudiziaria". In sintesi tra inquirente e investigatore. Entro il 31 dicembre di quest'anno ci deve essere l'autodenuncia, su apposito modulo informatico. Il regime delle incompatibilità per i magistrati è regolato da due articoli (18 e 19) dell'Ordinamento giudiziario che è stato modificato dall'ex Guardasigilli. Il codice di procedura penale, invece, regola i casi di astensione e ricusazione del giudice. L'incompatibilità è totale quando la sede giudiziaria è piccola. In quelle più grandi scatta ogni volta che le funzioni - giudice, pm, avvocato o investigatore - rischiano di incrociarsi.
Convocati a Roma i presidenti del tribunale e dell’Ordine degli avvocati. Famiglie in toga: Indaga Csm Stretta sulle incompatibilità. Segnalati 23 casi di parentele nello stesso distretto tra giudici, pm e legali. Tratto da “la Repubblica” 3.04.2008 di a.z.. L’INCOMPATIBILITA viene risolta a colpi di astensione. Ma quando cominciano ad essere troppi i giudici che chiedono di spogliarsi di processi in cui sono coinvolti, come altra parte, mariti, mogli o figli, allora l’impasse comincia a diventare difficile da superare. Sarà anche per questo che il Consiglio superiore della magistratura ha rimesso all’ordine del giorno l’annosa questione della “parentopoli” al Palazzo di giustizia di Palermo che, a quanto sembra, in Italia è uno di quelli che conta il più alto numero di coppie incompatibili tra giudici, magistrati e avvocati. Sono ben 23 i magistrati in servizio a Palermo sui quali la prima commissione dell’organo di autogoverno della magistratura ha deciso di svolgere accertamenti, mettendo in calendario le prime audizioni: quelle del presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Enrico Sanseverino, convocato per il 14 aprile. E del presidente del tribunale Giovanni Puglisi, peraltro toccato personalmente dalla questione visto che le sue figlie, una avvocato e una al tribunale dei minorenni, lavorano nello stesso distretto così come una nipote, anche lei giudice a Palermo. Il caso della famiglia Puglisi era già stato esaminato dal Csm e archiviato in base alle vecchie norme dell’ordinamento giudiziario ma adesso gli articoli 18 e 19 stabiliscono regole più severe sull’incompatibilità di funzioni nello stesso distretto giudiziario. Il presidente del tribunale, per la verità, ha sempre minimizzato la questione ritenendo i casi superabili ma adesso il Consiglio superiore della magistratura intende valutare se sia il caso di chiedere il cambio di mansioni per qualcuno dei magistrati coinvolti. “Situazioni critiche sotto il profilo dell’incompatibilità parentale”, le definisce il Csm. A Palermo i casi a rischio di cambio di funzioni sono quelli di tre coppie di coniugi in cui uno lavora nella magistratura inquirente, l’altro nella giudicante: è così per il pm della Dda Lia Sava, moglie del giudice Antonio Tricoli, è così per il sostituto procuratore Sergio De Montis sposato con il giudice delle indagini preliminari Rachele Monfredi, ed è così per il pm Domenico Gozzo, anche lui sposato con un gip, Antonella Consiglio. Tra i nomi finiti sotto la lente di ingrandimento del Csm anche quelli del presidente di sezione del tribunale Antonio Prestipino, sposato con il sostituto procuratore generale Rosalia Cammà, e delle sorelle Antonina e Vincenza Sabatino, la prima presidente di sezione ad Agrigento, la seconda sostituto in Procura generale. Nell’elenco all’attenzione del Csm anche i nomi di altri magistrati sposati o in grado di stretta parentela con avvocati del foro di Palermo: il pm Emanuele Ravaglioli, il presidente Salvatore Virga, i giudici Maisano, Scaduti, Soffientini, Laudani e Piraino. a.z.
L’assurdo caso caso del Gup “contestato” per “colpa” del padre avvocato che difese il Cav. Il magistrato sarà chiamato a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 maggio 2021. La Camera penale di Napoli è intervenuta sulla polemica che ha coinvolto in questi giorni la giudice Ambra Cerabona. Il magistrato sarà chiamata a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Repubblica fa notare che la Cerabona è la «figlia di uno storico legale di Berlusconi a Napoli: Michele Cerabona, difensore dell’ex premier in tanti procedimenti e oggi membro laico al Consiglio Superiore della magistratura, nominato ovviamente in quota Forza Italia. Un profilo di inopportunità su cui, si apprende solo ieri addirittura dall’udienza, era arrivato anche un esposto negli uffici giudiziari […] Come se la giustizia italiana non incrociasse, in questa triste stagione, sufficienti profili di disagio e di auspicabile autocritica, ecco un nuovo potenziale caso di imbarazzo». Il ragionamento sarebbe grossomodo questo: siccome il padre del giudice ha difeso Silvio Berlusconi e poiché è stato eletto al C.S.M. su proposta di Forza Italia, la figlia non sarebbe compatibile a giudicare il processo citato poiché in esso sono imputati i fratelli di un senatore di FI. La giudice avrebbe chiesto di potersi astenere ma la richiesta è stata respinta. «A noi un sospetto così articolato – scrive la giunta dei penalisti napoletani, presieduta dall’avvocato Marco Campora – appare incomprensibile stante l’assoluta lontananza ed evanescenza del collegamento, laddove mai è stato neppure ipotizzato che la Dott.ssa Cerabona abbia una sia pur minima conoscenza e/o rapporto con i fratelli Cesaro. Ed allora, i dubbi insinuanti avanzati nell’occasione sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia ed indipendenza di giudizio; di indurlo a dovere fornire la prova positiva (ed intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati. Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Tutti i giudici sono, sino a prova contraria, autonomi ed indipendenti. Questa è la regola su cui si fonda il nostro ordinamento, eliminata la quale l’intero sistema è inesorabilmente destinato a crollare». E poi la critica all’esposto anonimo: «Sinora, le parti di quel processo – le uniche a ciò legittimate – non hanno inteso avanzare alcuna istanza di ricusazione, evidentemente ritenendo la Dott.ssa Cerabona del tutto idonea a svolgere la funzione di giudicante nel processo. L’irruzione nelle aule di giustizia di esposti anonimi è invece operazione degradante, vile e molto pericolosa, atteso che l’esposto anonimo è per sua natura un mezzo utilizzato unicamente per depistare, sviare, colpire chi si ritiene nemico. Su questo occorre essere chiari: l’esposto anonimo non ha alcun diritto di cittadinanza in un ordinamento democratico (dunque a tutti i livelli: politico, giudiziario, poliziesco …) e va sempre trattato per quello che è: una gravissima calunnia anonima che ha sempre la finalità di colpire qualcuno, di mestare nel torbido, di avvelenare la democrazia e le istituzioni». E il finale contro il complottismo: «L’unica colpa – l’unico elemento di sospetto avanzato – della dott.ssa Cerabona è quella di essere figlia di un noto e stimatissimo avvocato. Ora, si può anche stabilire per legge che un giudice, nel luogo in cui esercita la funzione, non debba avere rapporti familiari, affettivi, sentimentali e amicali con soggetti che operano nel medesimo settore (fuor di metafora: con altri giudici, pubblici ministeri, avvocati e cronisti giudiziari). È operazione difficilmente praticabile, ed infatti così – per fortuna – non è. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra di loro, con pubblici ministeri e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pubblici ministeri o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pubblici ministeri ed avvocati. Giudici amanti di giudici, pubblici ministeri ed avvocati. È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. Ed allora, smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese».
Alone di ingiustificato sospetto. Processo ai fratelli Cesaro, “Basta complottismo”. I penalisti si schierano con Cerabona. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Maggio 2021. «Smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese», tuona l’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli firmando un documento con cui i penalisti prendono posizione di fronte al caso sollevato dall’edizione partenopea del quotidiano Repubblica: a giudicare il processo in cui sono coinvolti, tra gli altri, i fratelli Cesaro (Luigi Cesaro è senatore di Forza Italia) sarà il giudice Ambra Cerabona (figlia dell’avvocato Michele, attuale componente del Consiglio superiore della magistratura e in passato difensore del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi). «Non si tratta di esprimere solidarietà al giudice Cerabona, che non ne ha bisogno, essendosi attenuta al completo rispetto delle norme codicististiche e avendo dimostrato anche grande saggezza e prudenza – spiega Campora facendo riferimento alla notizia che la giudice avrebbe presentato una richiesta di astensione non accolta dalla presidente del Tribunale – Il tema che riteniamo rilevante è un altro e attiene proprio all’alone di ingiustificato sospetto che si è creato nei confronti del gup Cerabona per l’unica ragione di essere figlia di Michele Cerabona che in passato ha difeso anche l’ex presidente del Consiglio e di Forza Italia Silvio Berlusconi». Un esposto anonimo avrebbe innescato il sospetto che, in quanto figlia dell’ex difensore di Berlusconi, il giudice Cerabona non sarebbe compatibile a giudicare il processo Cesaro. «A noi – aggiunge il presidente dei penalisti napoletani – un sospetto così articolato appare incomprensibile». «I dubbi insinuati – osserva Campora – sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia e indipendenza di giudizio, di indurlo a dovere fornire la prova positiva (e intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati». «Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale», aggiunge Campora. E poi c’è un’altra considerazione dei penalisti napoletani: «Appare opportuno evidenziare che i veri o presunti rapporti personali divengono, per taluni, forieri di sospetto in ambito giudiziario solo quando è coinvolto un avvocato. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra loro, con pm e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pm o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pm e avvocati. Giudici amanti di giudici, pm e avvocati. È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. E allora – conclude il leader dei penalisti partenopei – smettiamola con questo complottismo».
Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).
"ECCO QUANDO SI PUO' VIOLARE L' ALCOVA". Franco Coppola il 25 maggio 1996 su La Repubblica. Un pubblico ministero e una giudice delle indagini preliminari (o una pm e un gip) che non sono marito e moglie ma che convivono possono esercitare nello stesso tribunale? Giriamo la domanda a due magistrati, Edmondo Bruti Liberati, sostituto procuratore generale a Milano, segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, esponente storico di "Magistratura democratica", e Stefano Erbani, dell'ufficio studi dello stesso Csm. Spiega Erbani: "La legge del ' 41 sull' ordinamento giudiziario prevedeva i casi di parentela sia tra magistrati e avvocati della stessa città, sia tra magistrati dello stesso collegio giudicante. Nel primo caso, c'era il trasferimento d' ufficio del magistrato, nel secondo era il dirigente dell'ufficio ad evitare di far operare i due interessati nello stesso settore. Naturalmente, se uno lavorava al penale e l'altro al civile, il problema non esisteva. Se poi, uno dei due, ad esempio, era un giudice istruttore che si era occupato di un certo caso e l'altro faceva parte del tribunale a cui il caso veniva successivamente affidato era prevista l'astensione del secondo e, in caso di mancata astensione, la ricusazione da parte dei difensori". Insomma, più o meno quello che succede ora, dopo le due sentenze della corte costituzionale che vietano al giudice del tribunale della libertà e al gip di far poi parte di collegi giudicanti che debbano esaminare la posizione dello stesso imputato. "Esattamente". E per quanto riguarda il caso di marito e moglie? "Fino al ' 67 non esistevano donne magistrato, quindi il caso era limitato al marito magistrato e alla moglie avvocato. Anche in quel caso scattava l'incompatibilità e quindi il trasferimento del marito. Dopo è potuto accadere che ci fossero un marito e una moglie magistrati. Un caso non previsto dalla normativa, ma che per analogia porterebbe alle stesse conseguenze che ho già illustrato: trasferimento d' ufficio o astensione o ricusazione". E se il pm e la gip (o la pm e il gip) fossero non marito e moglie ma conviventi? Risponde Bruti Liberati: "Non credo sia mai accaduto: comunque, bisogna distinguere: se si tratta di una convivenza notoria, si crea un problema di opportunità e, se non è uno degli interessati a chiedere il trasferimento, provvederà il Csm. Se invece - ad esempio, in seguito all' esposto di un avvocato - fosse una cosa tutta da accertare, il Csm dovrebbe intromettersi nella vita privata di due magistrati e credo che questo non sia accettabile". Aggiunge Erbani: "Il Csm è un organo amministrativo che ha anche poteri di indagine. Certo, sarebbe una cosa molto delicata e tutta da valutare". "A Milano", conclude Bruti Liberati, "ricordo che si ricorreva ad un trucco tra gli avvocati che avevano parenti tra i giudici. Si iscrivevano al foro di Monza, ma di fatto esercitavano a Milano. Così, formalmente erano a posto".
Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato D.rio D’Isa, figlio del magistrato di cassazione C.dio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato D.rio D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione C.dio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pastette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. D.rio D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. D.rio D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!
Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso.
Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.
Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.
Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.
Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.
Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.
LE PARENTELE PERICOLOSE
Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.
Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.
Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.
Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.
Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.
Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.
Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.
Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.
La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.
La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.
La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.
GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE
Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.
Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.
Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.
Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.
La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.
Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.
Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.
Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.
Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.
La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.
Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.
CHE COSA SIGNIFICA
Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.
Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.
Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede).
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.
La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.
I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.
I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.
I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.
Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.
I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?
A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.
«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).
Padre giudice e figlia avvocato: c'è incompatibilità? Annamaria Villafrate il 25 nov 2020 su studiocataldi.it. Per il Tar Lazio, un magistrato può ricoprire il ruolo direttivo presso un Tar monosezione se la figlia avvocato rinuncia a praticare il diritto amministrativo. Il magistrato può assumere l'incarico direttivo presso il TAR mono-sezione se la figlia che esercita la professione forense si impegna ad astenersi dal compiere attività giudiziali e stragiudiziali in diritto amministrativo. L'art. 18 dell'ordinamento giudiziario dispone che l'incompatibilità deve essere valutata caso per caso e il CPGA può farlo grazie al proprio potere discrezionale. Questo in sostanza quanto emerge dalla sentenza n. 11551/2020 del Tar Lazio (sotto allegata) che si è trovato a dover decidere la seguente e ingarbugliata vicenda. Un magistrato amministrativo ricorre al Tar, impugnando alcuni atti relativi alla sua nomina, di cui chiede l'annullamento per eccesso di potere e violazione di legge. Il magistrato espone di aver presentato domanda per il conferimento di un incarico direttivo. La commissione incaricata dello scrutinio ha respinto la proposta di una relatrice "di rilevare la ricorrenza della causa di incompatibilità prevista dall'art. 18 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), applicabile ai magistrati amministrativi ai sensi dell'art. 28 della legge 27 aprile 1982, n. 186, posto che la figlia del ricorrente esercita la professione forense presso la sede marchigiana." Rigettata detta questione la Commissione propone la nomina del Magistrato al Plenum, ma la dottoressa incaricata di redigere la relazione di accompagnamento alla proposta solleva nuovamente il problema dell'incompatibilità a causa della professione svolta dalla figlia, la quale ha dichiarato di impegnarsi per il futuro a non svolgere nessun tipo di attività presso il TAR, fatta eccezione per le attuali pendenze, in numero di cinque o sei ricorsi con un mandato congiunto con altro difensore e di tre come unico avvocato". La Commissione però nomina il Magistrato, accogliendone la richiesta in merito alla presidenza della III sezione esterna del Tar Lazio.
Le censure del magistrato amministrativo. Il Magistrato però censura gli atti di nomina per le seguenti ragioni. Prima di tutto ricorda che la figlia ha dichiarato che, contrariamente a quanto rilevato in Commissione, avrebbe dismesso il mandato in relazione alle 9 cause amministrative pendenti in caso di nomina del padre. In secondo luogo denuncia "eccesso di potere: disparità di trattamento; difetto di istruttoria; motivazione carente o comunque insufficiente; manifesta ingiustizia", perché, in occasione di precedenti delibere applicative dell'art. 18 ord. Giud., il CPGA ha escluso la ricorrenza della incompatibilità, proprio in ragione dell'impegno del parente del magistrato ad astenersi da ogni attività di fronte al giudice amministrativo di primo grado." Denuncia poi il mancato espletamento da parte del Plenum di una completa istruttoria sulle circostanze rilevanti ai fini della incompatibilità e il fatto che lo stesso non è tenuto ad applicare in modo automatico le cause di incompatibilità previste dall'ordinamento giudiziario, dovendo tenere conto della specificità della magistratura amministrativa. Rileva inoltre come nel caso di specie la rinuncia a svolgere la professione forense di fronte all'ufficio giudiziario a cui è preposto il magistrato esclude l'incompatibilità, stante l'insussistenza di un conflitto di interessi. L'Avvocatura di Stato per i convenuti evidenzia come la circolare del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) del 12 ottobre 2006 metta in evidenza come tra i fattori preponderanti per valutare l'incompatibilità del magistrato c'è quello della dimensione del Foro.
Il CPGA tenga conto della rinuncia della figlia. Dopo aver analizzato e deciso le questioni preliminari il Tar, passando al merito della questione, chiarisce che: "in sede di apprezzamento di profili di incompatibilità parentale del magistrato, il CPGA applica direttamente gli artt. 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, perché ciò è previsto dall'art. 28 della legge n. 186 del 1982" naturalmente purché compatibili con la specificità della giurisdizione amministrativa, ricordando altresì come "la incompatibilità trova la sua essenza nel pregiudizio che, in difetto di essa, potrebbe essere arrecato al requisito costituzionale dell'imparzialità della magistratura." Occorre però, come sottolineato dalla circolare del CSM n. 6750 del 19 luglio 1985, un "concreto accertamento" della incompatibilità, principio che ha segnato la strada per la formulazione dell'attuale art. 18 dell'ordinamento giudiziario da cui emerge l'opzione del legislatore per "un meccanismo di bilanciamento degli interessi confliggenti, tale da costituire il vero e proprio principio informatore della materia." Analizzando l'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, attorno al quale ruota la soluzione della vicenda, il Tar precisa che: "E' perciò l'art. 18, comma 4, ord. giud. a disciplinare il profilo di incompatibilità che rileva nella presente causa." Da questa norma si può trarre infatti il principio secondo cui salvo fattispecie eccezionali e tassativamente indicate, il rilievo di una causa di incompatibilità esige "un riscontro caso per caso delle singole situazioni implicanti la impossibilità di svolgimento di attività incompatibili in base alla legge" (Cons. Stato, sez. IV , n. 1818 del 2008). Ora, il ricorrente ritiene che la sua nomina in un Tar mono-sezionale sia ostacolata proprio dalla formulazione dell'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, poiché solo in presenza di più sezioni l'incompatibilità da rigida può diventare più flessibile. Vero però che nelle intenzioni del legislatore la pluralità delle sezioni non è dirimente, se non accompagnata da una pluralità di materie, solo a queste condizioni l'incompatibilità assoluta viene meno." Dell'art. 18 ord. giud., in altri termini, non è direttamente applicabile la porzione prescrittiva, la cui lettera si riferisce inequivocabilmente alla sola giurisdizione ordinaria, attinente alla pluralità di sezioni civili e penali." La prassi della CPGA tuttavia tende sempre e comunque a valutare caso per caso e concretamente la sussistenza dell'incompatibilità, anche se il magistrato viene assegnato a un ufficio mono-sezionale. Occorre però evidenziare che nel caso di specie, come in altri precedenti, l'impegno assunto dal professionista di astenersi da ogni attività in grado di interferire con la giurisdizione amministrativa esclude la sussistenza di una causa di incompatibilità ambientale, almeno quando l' avvocato non eserciti in uno studio associato e quando non siano percepibili circostanze eccezionali di segno contrario." Alla luce delle suddette considerazioni e di altre successive il Tar dispone quindi che il CPGA avvii un nuovo procedimento, e che nel pronunciarsi sui profili di incompatibilità ambientale segnalati si attenga al seguente principio di diritto: "l'impegno del parente del magistrato (quand'anche preposto, o da preporre, alla presidenza di un TAR mono-sezionale) ad astenersi da ogni attività anche stragiudiziale, nel campo del diritto amministrativo, in linea di massima e ove provenga da un professionista che esercita l' attività in forma individuale, rimuove lo stato di incompatibilità ambientale, salvo casi eccezionali."
· Il Diritto di Difesa vale meno…
Antonio Giangrande: Il nostro cavallo di battaglia è l’istituzione del difensore civico giudiziario che possa operare con i poteri giudiziari, contro gli abusi e le omissioni dei magistrati e degli avvocati e degli apparati ministeriali a tutela dei cittadini. Sposiamo la causa e divulghiamo l’iniziativa concreta.
Il giudice zittisce l’imputato per non offendere i carabinieri: avvocati in sciopero. Francesca Sabella su Il Riformista il 25 Novembre 2022
In un’aula di giustizia del Tribunale di Nola, un acceso scambio di battute tra avvocato e giudice è proseguito fra relazioni ed esposti, che hanno portato a prese di posizione delle organizzazioni di appartenenza e addirittura alla proclamazione di uno sciopero da parte della camera penale per il 5 dicembre.
E’ accaduto nel corso di un processo per minacce con l’uso di armi con un unico imputato. La tensione è esplosa tra il difensore di quest’ultimo, Paola Caruso, iscritta al Foro di Nola, e il giudice onorario Rossana Ferraro, che peraltro è anche avvocato iscritto al Foro di Santa Maria Capua Vetere, nell’udienza del 14 novembre scorso, durante l’esame dell’imputato, quando quest’ultimo ha iniziato a parlare, su domanda del legale, della perquisizione effettuata a casa sua dai carabinieri che cercavano (e non hanno trovato) l’arma usata.
Il giudice, come emerge dalla relazione di servizio, ha stoppato l’imputato, e con ordinanza istruttoria ha disposto che non si parlasse della perquisizione, essendo circostanza che esulava dal capo di imputazione, ma anche per evitare affermazioni “sconvenienti” e “offensive” verso l’Arma, memore di quanto accaduto in un’udienza precedente, quella del 13 giugno, in cui il giudice riferisce – stando alla relazione di servizio – che l’imputato aveva già offeso i carabinieri a proposito della perquisizione, tanto che nell’udienza del 14 novembre – annota il giudice – l’imputato chiede poi scusa.
Lo stop imposto dal giudice all’imputato fa infuriare l’avvocato Caruso, che secondo quanto riportato nella nota della Camera Penale di Nola (affissa e pubblicata in tutti i palazzi di giustizia italiani e inviata alle sedi istituzionali), “tenta di spiegare le ragioni della rilevanza delle argomentazioni, ma viene zittito dal giudice che, con toni concitati e fare dispotico, non ha permesso di concludere una serena interlocuzione”.
Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.
Sotto processo a vita. Storie di ordinario “sequestro”. La ragionevole durata, prevista dalla Costituzione e dalla Cedu, e regolata dalla Legge Pinto, è spesso disattesa. Vittime illustri e semplici cittadini accomunati da una stessa sorte. Il caso record di Giuseppe Gulotta: in carcere per 22 anni. Valentina Stella su Il Dubbio il 31 ottobre 2022.
Il tema della ragionevole durata del processo è oggetto di due importanti precetti sovraordinati: l’art. 111, comma 2, Costituzione secondo cui la «La legge assicura la ragionevole durata » e l’art. 6, par. 1, Cedu in base al quale «Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge». Inoltre secondo la Legge Pinto il termine di durata ragionevole del processo si considera rispettato se il processo non eccede la durata di: tre anni in primo grado, due anni in secondo grado, un anno nel giudizio di legittimità. O comunque se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.
Eppure nel nostro Paese esistono diverse storie di persone che per veder concluso l’iter giudiziario che le coinvolgeva hanno dovuto aspettare anni ed anni, trasformandole in dei veri e propri “sequestrati dalla giustizia”. Tanto è vero che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è ripetutamente pronunciata nei confronti dell’Italia sul rispetto del diritto alla ragionevole durata del processo. Una delle più note e recenti sentenze riguarda la “Causa Verrascina e altri c. Italia” del 28 aprile di quest’anno.
Il signor Antonio Verrascina è stato sottoposto a giudizio per 18 anni e 8 mesi. L’inizio del procedimento fu al Tribunale di Modena nel 1997. Si concluse in Cassazione nel luglio 2017. La sua causa era stata riunita ad altre: pensate che per il signor Salvatore Giardina primo grado e appello sono durati 24 anni e 2 mesi. Il processo era iniziato al Tribunale di Mistretta nel 1991 e si era concluso alla Corte di Appello di Messina nel maggio 2016. Ma di casi ce ne sono molti altri, pur senza essere arrivati all’attenzione della Cedu. A gennaio di quest’anno la Corte d’Appello di Catania ha assolto l’ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale.
Alla lettura della sentenza l’ex Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie si era detto «molto felice e sollevato per l’assoluzione. Sono stati 12 anni da incubo, la sentenza mi ripaga di tante sofferenze. La mia è una vicenda umana e giudiziaria incredibile». Per uno dei politici più influenti della Sicilia è stata una vera e propria odissea giudiziaria: una condanna, un’assoluzione, un annullamento dell’assoluzione con rinvio. Tre sentenze, tutte diverse l’una dall’altra. E quest’anno la quarta sentenza: ancora una assoluzione. Nel dicembre 2020 la Corte di Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato.
L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una “doppia assolutoria” i procuratori generale di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto. L’uomo per 8 anni è stato prigioniero di una accanita (in)giustizia. Come non dimenticare il calvario di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, la cui vita è rimasta sospesa per 16 anni.
Lo scorso anno si è visto confermare l’assoluzione già rimediata in primo grado quattro anni prima. Un processo e un’inchiesta lunghissimi, senza esser mai stato sentito dai pm che lo accusavano di aver fatto carte false sfruttando il suo ruolo. Tutto era partito nel 2005 con un blitz della Guardia di Finanza nelle sue proprietà. Da quel momento la sua vita cambiò radicalmente, a partire dalle dimissioni da presidente di Enoteca Piemonte ed Enoteca d’Italia.
Invece Rocco Femia, di professione professore, ex sindaco di Marina di Gioiosa, è rimasto ostaggio della giustizia per 11 anni. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Ma era innocente, non faceva parte di una cosca di ‘ndrangheta. Lo ha definitivamente deciso quest’anno la Cassazione. «Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino» aveva detto alla collega Simona Musco.
Ma poi c’è la storia di Ciccio Addeo, riportata alla luce dalla nostra firma Alessandro Barbano ma in questo caso sull’Huffington post: «La mattina del 23 marzo 2001, in cui entrò a Poggioreale, era ancora un luminare all’apice della sua carriera. Cinquantotto anni, capo del Cnr di Avellino, ordinario di agraria alla Federico II, presidente del consorzio per la mozzarella di bufala, direttore di centri di ricerca sperimentale a Lodi e in Corsica, Addeo era considerato uno de massimi esperti in Europa in materia lattiero-casearia». Le accuse? Associazione per delinquere, falso in atto pubblico, truffa aggravata.
Il chimico veniva accusato di aver falsamente garantito la genuinità del burro sofisticato, che dall’Italia si immetteva nel mercato francese. Rimase in carcere quattro mesi, altri quattro ai domiciliari. Dopo sette anni la sentenza di primo grado che lo assolse da quasi tutti i reati. Rinunciò alla prescrizione, altri sette anni per la sentenza di secondo grado, che ricopiò integralmente quella del primo, e altri due per quella di Cassazione, che annullò i due giudizi, “dimostrando il gravissimo travisamento delle prove di cui si erano macchiati, rinviando gli atti alla Corte d’appello per un definitivo pronunciamento di assoluzione”. Che arrivò a febbraio 2021, a venti anni esatti di distanza dall’inizio della vicenda.
Un’altra storia drammatica è quella che vi abbiamo raccontato qualche giorno fa e che riguarda Vincenzo Nespoli, ex sindaco di Afragola e senatore del Pdl dal 2008 al 2013. Ad inizio ottobre la Cassazione ha annullato con rinvio per la seconda volta la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Napoli nei confronti dell’ex sindaco, accusato di bancarotta in relazione al fallimento di una società di vigilanza di Afragola. Processo da rifare, dunque, mentre la carriera politica di Nespoli, nel frattempo, è naufragata. «Un processo di 15 anni confisca il bene più importante per un uomo, la progettualità – ha commentato il suo avvocato Vittorio Manes -. Travolge destini politici, fortune imprenditoriali, rapporti familiari e sociali». Prima assolto, poi condannato, poi un nuovo processo d’appello con condanna e infine l’assoluzione in Cassazione.
Si è concluso quest’anno un incubo per un pensionato residente nella Bassa Reggiana, accusato oltre 11 anni fa di violenza sessuale per presunte molestie alla nipotina, che all’epoca aveva 7-8 anni. L’anziano aveva scontato anche dei periodi in carcere e agli arresti domiciliari. Sempre quest’anno e sempre dopo 11 anni l’ex sindaco di Pagani, Alberico Gambino, è stato assolto pienamente nel processo “Criniera”, il cui impianto accusatorio si fondava su intrecci tra imprenditori, classe politica – l’amministrazione retta dall’allora sindaco – e il clan a Pagani. «Credo che vada fatta una riflessione precisa, visto questo processo così lungo e due anni – tra domiciliari e carcere – di custodia cautelare, quando Gambino non era responsabile di niente. La necessità di un’indagine è una necessità istituzionale, però la vita di un politico è stata fortemente danneggiata e certe verità obbligano dopo 11 anni una persona a urlare al mondo la propria innocenza», aveva detto il suo legale Giovanni Annunziata.
Invece ci sono voluti 9 anni per vedere confermata in appello l’assoluzione di primo grado per l’ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo e per altri cinque imputati. L’ipotesi accusatoria era quella di concussione, consumata e tentata, nell’ambito di una inchiesta partita nel 2013 e relativa all’esistenza di quello che gli inquirenti all’epoca definirono “un direttorio politico-partitico”che avrebbe influenzato la gestione dell’Asl sannita. Un mese fa un cinquantenne è stato assolto dopo 10 anni e quattro gradi di giudizio dalla Corte di appello di Perugia “perché il fatto non sussiste” dalla pesantissima accusa di aver violentato le figlie.
A questi casi possiamo aggiungere altri ancora più sconvolgenti, ossia quando la giustizia arriva dopo la revisione del processo. Ricordate Hashi Omar Hassan, condannato e poi assolto per l’omicidio Alpi – Hrovatin e ucciso da una bomba lo scorso luglio a Mogadiscio? Hassan fu assolto in primo grado, condannato in secondo grado e in Cassazione per aver fatto parte del commando che uccise i giornalisti italiani, ma un successivo ricorso portò all’assoluzione dopo oltre 16 anni di reclusione. Lo Stato Italiano lo ha risarcito con 3 milioni.
E cosa vogliamo dire nel caso di Angelo Massaro? Ha trascorso in carcere da innocente 21 dei suoi 54 anni, dal 1996 al 2017, accusato dell’omicidio del suo miglior amico. Tutto a causa di un’intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio. Ma a battere ogni record Giuseppe Gulotta che ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana.
L’odissea dell’innocente che patteggiò per paura: assolta dopo 6 anni. Dopo 3 mesi di carcere, davanti allo spettro di un lungo processo per favoreggiamento in omicidio, la donna si arrende, poi il presunto omicida viene assolto e arriva la revisione della sentenza. Avv. RICCARDO RADI su Il Dubbio il 24 ottobre 2022.
L’intervento che segue è un ampio estratto dell’articolo pubblicato dall’avvocato Riccardo Radi sul blog “Terzultima fermata” (terzultimafermatablog8460979 35.wordpress.com/), lo spazio on line curato dallo stesso Radi insieme con Vincenzo Giglio.
Storia di una innocente che si dichiara colpevole pur di non avere più nulla a che fare con la giustizia. Giustizia che non le ha creduto quando lei, l’innocente, raccontava il vero e che l’ha imprigionata fino a “convincerla” a dire il falso. D’altra parte, anche un ex ministro della Giustizia dichiarò alla stampa che “gli innocenti non finiscono in carcere”.
Nella storia che racconto ci sono due innocenti che finiscono in carcere nello stesso procedimento per delle accuse infamanti: il primo, accusato dell’omicidio di una ragazza, si farà 30 mesi di carcerazione preventiva, e la seconda 3 mesi per favoreggiamento. In tanti “credono” che gli assolti siano persone che la fanno franca, noi raccontiamo di innocenti che sono stati stritolati dal sistema giustizia.
Nelle aule dei Tribunali accade anche che una persona che patteggia la pena, quindi si dichiara colpevole, venga successivamente assolta perché il fatto non sussiste! Infatti, parleremo di un caso che nella prassi giudiziaria raramente accade: la revisione di una sentenza di patteggiamento.
La vicenda ha per protagonista la signora V.G., una tranquilla badante moldava che viene chiamata dalla polizia per testimoniare in merito alla presenza nella sua abitazione di un indagato per omicidio. La signora V.G. ricorda chiaramente la circostanza e riferisce in maniera dettagliata orari e riferimenti precisi relativi al fatto che effettivamente il signor A.C. fosse il giorno 1° dicembre del 2008, dalle ore 10.30 alle ore 16.00, presso la sua abitazione per svolgere un lavoro di riparazione e per fermarsi poi a mangiare. La Procura della Repubblica di Roma non le crede, e per ben tre volte la convoca, e sempre più insistentemente la mette alle strette. Gli inquirenti acquisiscono i tabulati telefonici delle utenze dell’indagato e della V.G., e raccolgono le dichiarazioni delle altre due persone che avrebbero dovuto parzialmente riscontrare l’alibi.
Dalla lettura dei verbali delle testimoni risultano parziali differenze nell’indicazione degli orari, differenze che però sembrano scaturire dalla non perfetta conoscenza della lingua italiana. Sia la V.G. che le altre due donne ascoltate non sono italiane, ma non vengono esaminate in presenza di un interprete perché tutte dichiarano di parlare e comprendere la lingua italiana. Errore fatale! L’incalzare delle domande, l’uso di un linguaggio tecnico e il riferimento a orari scanditi da minuti rendono le dichiarazioni delle tre donne poco lineari e poco concordanti tra loro. Si arriva alla svolta: la mattina dell’8 ottobre 2010, alle 5.00, la Polizia giudiziaria suona al campanello e notifica una ordinanza di custodia cautelare per il presunto omicida e per la signora moldava, accusata di favoreggiamento, ed entrambi vengono trasferiti in carcere. In sede di interrogatorio di garanzia si dichiarano innocenti, ma non vengono creduti, in virtù del fatto che i tabulati telefonici dimostrerebbero che l’omicida si sarebbe trattenuto solo per una ora nell’abitazione. Quindi avrebbe avuto tutto il tempo per spostarsi e uccidere la giovanissima vittima e di conseguenza la moldava avrebbe mentito.
Il Tribunale della Libertà conferma l’ordinanza e la signora V.G dopo 3 mesi di carcerazione preventiva viene scarcerata per scadenza termini. La Procura della Repubblica procede alla richiesta di rinvio a giudizio e all’udienza preliminare il presunto omicida è in stato di detenzione carceraria e la V.G libera con l’accusa di favoreggiamento. La prospettiva è quella che il processo si svolga in Corte di Assise, ma dopo tre mesi di carcerazione la prospettiva di subire un processo lungo e costoso e le ristrettezze economiche, in seguito dell’arresto, per aver perso il lavoro sono tutti buoni motivi per lasciarsi alle spalle la triste storia. Davanti al Giudice dell’udienza preliminare di Roma si patteggia una pena di nove mesi di reclusione, pena sospesa.
La signora VG, però, non rinuncia a testimoniare nel processo per l’omicidio e grazie al suo atto di coraggio civico e alle sorprendenti circostanze che in realtà l’attento esame dei tabulati telefonici confermano l’alibi dell’omicida: la vittima sarebbe morta per cause naturali. Si i arriva così alla svolta. L’imputato AC viene assolto perché il fatto non sussiste dopo 2 anni 5 mesi e 7 giorni di carcerazione preventiva. Per questo orrore giudiziario si riesce a ottenere il 24 gennaio 2017 dalla Corte di appello di Roma il risarcimento di 260mila euro, ma questa è un’altra storia.
Illustrata la vicenda ora è necessario entriamo nel particolare della posizione della signora V. G. La revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, comporta una valutazione di quest’ultime, alla luce della regola di giudizio posta, per il rito alternativo. Le nuove prove devono consistere in elementi tali da dimostrare che l’interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 c.p.p., così come applicabile nel patteggiamento. Tale differenza rispetto ai parametri utilizzati nella revisione delle sentenze “ordinarie” trova la sua spiegazione nella peculiarità della pronuncia emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in cui il controllo giudiziale è appunto limitato ad escludere la sussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
Questa regola è stata ribadita dalla Cassazione – sezione sesta penale – con sentenza n. 25308 del 9 giugno 2015. Per i giudici di piazza Cavour, l’estensione del rimedio straordinario alla sentenza di patteggiamento, ad opera della L. n. 234 del 2003, risulta notevolmente più contratta rispetto alla revisione ordinaria. Infatti nel caso delle pronunce ex art. 444 c.p.p., il giudice viene chiamato a stabilire se le prove sopravvenute alla sentenza definitiva e quelle scoperte successivamente siano tali da dimostrare “da sole” la necessità di un proscioglimento oppure se siano autonomamente in grado di gettare una nuova luce e di fornire una chiave di letture radicalmente alternativa degli atti del procedimento concluso con il patteggiamento, atti che di per sé non erano tali da reclamare l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p.
In caso contrario, – conclude la Corte – “la revisione cesserebbe di essere un mezzo di impugnazione straordinaria e diverrebbe, in relazione al patteggiamento, strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stessa richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e della responsabilità” (così, Sez. 6, 24 maggio 2011, n. 31374; Sez. 3 sent. 13032/14 e 23050/13; sez. 4 sent. 26000/13).
Ed ancora più recentemente, la Cassazione sezione 2 sentenza numero 24365 del 23 giugno 2022, ha chiarito: “è ammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con l’accertamento compiuto in giudizio nei confronti di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente ma è, tuttavia, necessario che l’inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione”.
Principio ribadito tra le tante da (Sez. 1, n. 15088 del 08/01/2021, Elia, Rv. 281188 – 02; Sez. 5, n. 10405 del 13/01/2015, Rv. 262731 – 01); – in ogni caso, «in tema di giudizio di revisione, nel caso in cui la richiesta si fondi sull’inconciliabilità tra giudicati ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il giudizio sull’ammissibilità o meno della domanda di revoca della sentenza non può prescindere da una pur sommaria valutazione e comparazione tra le due sentenze che si assumono in contrasto, non potendo il giudice limitarsi a verificare esclusivamente l’irrevocabilità della decisione che avrebbe introdotto il fatto antagonista e la mera pertinenza di tale sentenza ai fatti oggetto del giudizio di condanna» (Sez. 2, n. 29373 del 18/09/2020, Nocerino, Rv. 280002 – 01). Nel caso in esame c’è una sentenza definitiva di assoluzione per l’omicidio che rende inconciliabile la sentenza di patteggiamento. In base a questo presupposto viene redatta la richiesta di revisione alla Corte di appello di Perugia che, in data 22 aprile 2016, ha revocato la sentenza emessa in data 15 luglio 2011 dal Gup di Roma ed ha assolto la Signora V.G. perché il fatto non sussiste!
Finalmente, dopo circa 6 anni dall’arresto si arriva a mettere un punto sulla triste storia che ha segnato in maniera indelebile la Signora VG, la quale ancora oggi non riesce a parlare della sua odissea. Pochi giorni fa mi ha riferito di avere ancora gli incubi e di sognare di risvegliarsi in carcere e provare l’umiliazione di non essere creduta.
Un giudice emette sentenza senza aver mai ascoltato la difesa. Per il Csm è solo una marachella. Per il Csm questa incredibile vicenda non rappresenta la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 25 settembre 2022.
Giudice condanna a 11 anni senza ascoltare l’imputato, il Csm gli dà un buffetto sulla guancia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Settembre 2022
Forse qualcuno ricorderà la incredibile vicenda accaduta tempo fa al Tribunale di Asti. Si celebrava un delicato processo di violenza sessuale (di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito). Giunti alla conclusione della istruttoria dibattimentale, discute il pm, che chiede una pena molto dura; discutono i due difensori della madre, e si rinvia ad altra udienza per la discussione del difensore del padre, imputato principale. Discussione che però non avverrà mai perché alla udienza successiva il Tribunale legge solennemente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli sbalorditi astanti, compreso lo stesso pm, fanno garbatamente presente al Presidente che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso. Il Presidente si dice dispiaciuto dell’incidente, accartoccia il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato, e dà la parola al secondo difensore. Il quale ovviamente si rifiuta, eccependo l’abnormità di quanto accaduto.
Il Tribunale deposita egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello. Insorge la Camera penale del Piemonte occidentale, con modalità giudicate da Anm e Procuratore Generale, come dire, esagerate: con il risultato di spostare il focus dalla gravissima, incredibile condotta di quel Collegio giudicante, al tono ed ai modi della protesta. La vicenda fu segnalata al Csm, che – apprendiamo oggi da dettagliate notizie di stampa – dopo la bellezza di oltre due anni e mezzo, ha concluso con la sanzione della censura, per di più – e qui siamo al mistero più profondo – nei riguardi del solo Presidente; prosciolte le due giudici a latere.
Non sono ancora depositate, a quanto pare, le motivazioni della bizzarra (è un eufemismo) decisione, ma c’è davvero poco da approfondire. La censura è poco più di una tirata di orecchie, ed è ovvio che la entità della sanzione irrogata fotografa impietosamente la considerazione che il Csm nutre delle questioni di principio messe in discussione in quella incredibile vicenda. Nel dare notizia di questo stupefacente esito, l’articolo viene così titolato: «Sanzionato il giudice che ha letto la sentenza di condanna prima dell’arringa del difensore»; un titolo che la dice lunga su quanto sia indietro questo nostro Paese in termini di comprensione dei principi fondamentali che regolano il processo penale.
Qui non si tratta di “aver letto la sentenza di condanna prima dell’arringa”; quanto invece del fatto che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza della ipotesi accusatoria o invece di quella difensiva, e deciso la irrogazione della pena di 11 anni di reclusione (undici anni, dico) senza avere mai ascoltato il difensore (unico difensore, per di più) dell’imputato principale. Il fatto non può ovviamente avere spiegazioni alternative all’unica sensata: la totale indifferenza di quel giudice collegiale alle argomentazioni in difesa di quell’imputato.
Converrete con me che un giudice che ritenga di pronunziare sentenza nei confronti di