Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

 

 

 

 DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il mostro di Parma.

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

LA GIUSTIZIA

SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Giustizia Ingiusta.

Giustizia solerte e giustizia inerte. C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. Augusto Minzolini su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. E il fatto che il Guardasigilli in questione abbia anche un passato da Pm, come Carlo Nordio, dimostra che non sono i ruoli che contano ma le persone che li ricoprono. Il ministro della Giustizia ha deciso su richiesta di Matteo Renzi (che ieri ha sollevato l'argomento nel question time al Senato) di vederci chiaro sulla decisione dei Pm di Firenze che hanno condotto l'indagine sulla vicenda «Open» basata sull'accusa di finanziamento illecito ai partiti: i magistrati, infatti, di fronte all'ordine dell'Alta Corte di distruggere il materiale sequestrato a Marco Carrai (grande amico del leader di Italia Viva) senza trattenerne copia perché l'acquisizione non era stata regolare, hanno fatto spallucce e lo hanno inviato ad un organismo parlamentare come il Copasir, cioè il comitato di controllo dei servizi segreti. Una decisione, quella dei pubblici ministeri fiorentini, priva di logica, che è sfociata solo in una dimostrazione di Potere, o meglio in una vera e propria sfida nei confronti non solo della Politica ma anche delle altre gerarchie togate: l'ennesimo messaggio in codice per dire agli altri Palazzi che i Pm possono tutto. Solo che questa volta ai Pm Nordio ha risposto da Pm e mezzo e senza scomporsi ha promosso un'indagine conoscitiva «rigorosa» e «con priorità assoluta» sull'accaduto. Insomma, conoscendo i suoi colleghi il Guardasigilli non si è fatto intimidire e ha risposto per le rime. Con decisione e in tempi rapidi, come si dovrebbe non solo per rispetto della Cassazione ma anche degli imputati.

Sempre ieri, invece, la Cedu, cioè la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Silvio Berlusconi e della Fininvest per le vicende delle quote che hanno in Mediolanum. Quote che con una decisione paradossale la Banca d'Italia ha chiesto di sequestrare perché il Cav avrebbe perso i requisiti di onorabilità per la condanna di frode fiscale; richiesta che il Consiglio di Stato avrebbe bocciato senza, però, dare attuazione alla sua decisione. La Cedu se ne è lavata le mani dicendo che la vicenda riguarda tutti, dall'Unione Europea alla Bce, meno che lei per cui i ricorrenti non possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato italiano. La Corte europea dei Diritti dell'Uomo, a quanto pare, decide su tutto, sui migranti, sulle Ong, ha dato ragione ad un terrorista come Abu Amar in poche settimane e in due anni è intervenuta in favore di un transessuale georgiano. Ma sulle scelte più delicate si tira indietro vestendo i panni, a seconda del momento, di don Abbondio o dell'Azzeccagarbugli. Ad esempio, il ricorso intentato dal Cav sull'assurda condanna per frode fiscale contro il giudice Esposito pende di fronte alla Corte di Strasburgo dal 2014. Insomma, sui «casi» più controversi la Cedu, che preferisce non essere tirata in mezzo nelle polemiche, usa la carta dell'inerzia. Forse ci sarà un giudice a Berlino ma sicuramente non a Strasburgo. Appunto, per la giustizia non bastano le toghe, contano soprattutto gli uomini che le indossano. E il loro coraggio: ieri i giudici della Consulta, che pure non sono dei cuor di leone, per rispetto e in ossequio al buonsenso, hanno risposto picche dando cinque schiaffoni ai ricorsi dei medici e dei professori «no vax».

Da Mannino a Stasi: ecco perché l’appello del pm è una forzatura del diritto. Impugnare un proscioglimento vuol dire forzare i principi del diritto internazionale. Tra i casi recenti, ci sono quelli clamorosi di De Girolamo e dell’ex primario di Montichiari, Mosca. Valentina Stella su Il Dubbio il 3 dicembre 2022.

Martedì prossimo in commissione Giustizia al Senato, nell’ambito del Dl "anti-rave", sarà messo ai voti anche l’emendamento di Pierantonio Zanettin sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione.

In realtà il tentativo di introdurre subito la riforma, pure inserita nel programma di centrodestra, sembrerebbe destinato a infrangersi su un nulla di fatto. Sarà quasi certamente così nonostante il ministro della Giustizia Carlo Nordio, in una intervista al Gazzettino resa lo scorso 24 ottobre, abbia detto: «Mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale». Ancor prima al Corriere del Veneto aveva dichiarato: «Se un giudice ha già dubitato al punto da assolvere, o quel magistrato è irragionevole, e va cacciato via, oppure è sbagliata la norma».

In realtà per l’Anm si tratta un falso problema, come ci aveva detto il presidente Giuseppe Santalucia in una intervista: «Il problema vero è quello dell’enorme quantità dei processi, su cui le impugnazioni del pm non incidono, attestandosi su una percentuale inferiore al 2%». Al di là delle percentuali, dietro le quali però si nascondono storie individuali, ci sono tre ragioni che vengono addotte a supporto dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione: «L’impugnazione del pm contro questo tipo di decisioni non può convivere con il principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio», ci disse il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza, in una intervista. Mentre il professor Paolo Ferrua ricorda spesso che se l’imputato venisse condannato per la prima volta in appello, subirebbe un grave pregiudizio, potendo esperire contro la sentenza solo il ricorso in Cassazione, tanto è vero che il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici prevede che "ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge".

Più voci sostengono che dopo una assoluzione non si può rimanere prigionieri del sistema giustizia per un tempo lungo o indeterminato. E a proposito di storie personali, diversi sono i casi di cronaca giudiziaria che si muovono tra gli scenari appena tracciati. Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche agricole, nel 2020 è stata assolta "perché il fatto non sussiste" dalle accuse di associazione a delinquere, concussione e voto di scambio. Il pm aveva chiesto 8 anni e 3 mesi di carcere. I giudici del Tribunale di Benevento non riconobbero l’impianto accusatorio riguardo quella che per la Procura sarebbe stata una «gestione opaca» del sistema sanitario sannita, con nomine, consulenze e appalti utilizzati per creare consenso elettorale. L’inchiesta Sanitopoli fu completamente smontata. Infatti insieme con De Girolamo furono assolti con la stessa formula tutti gli altri sette imputati. Eppure la Procura fece appello: quest’anno tutte le assoluzioni sono state confermate in secondo grado.

Nel dicembre 2020 la Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una "doppia conforme" assolutoria, i pg di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto.

E che dire di Alberto Stasi? Accusato per l’omicidio della fidanzata Chiara Poggi, avvenuto in una calda mattina di agosto a Garlasco, fu assolto con rito abbreviato in primo e secondo grado, poi la Cassazione annullò la sentenza di assoluzione e rinviò ad altro appello che lo condannò. Sentenza poi confermata dalla Cassazione bis. Risultato: 16 anni di carcere e un dubbio enorme sulla sua colpevolezza.Ci solo altre vicende che ancora non si sono concluse in via definitiva ma che comunque sono nel solco del tema trattato.

A gennaio di quest’anno la Corte d’assise del tribunale di Viterbo ha assolto Andrea Landolfi dalle accuse di omicidio volontario e omissione di soccorso, per cui il pm aveva chiesto una condanna a 25 anni. Era stato sbattuto su tutte le prime pagine come l’ennesimo autore di un femminicidio. Tutto falso per i giudici di primo grado. Nonostante questo la Procura ha fatto appello, iniziato da un mese. Altro caso recente è quello di Gianni Ghiotti. Nel 2020 si era presentato dai carabinieri dicendo che aveva soffocato con un cuscino la madre, anziana e gravemente malata, per mettere fine alle sue sofferenze. Il giudice di Asti però lo assolve perché stabilisce che la madre era morta per cause naturali. «Ha raccontato – scrive il giudice nella decisione – qualcosa di cui è intimamente convinto ma che non corrisponde alla realtà dei fatti». Due giorni fa invece la Corte di Appello di Torino lo ha condannato a 6 anni e 8 mesi accogliendo la tesi del Pg.

Altra vicenda: l’ex primario del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari Carlo Mosca era stato arrestato per omicidio volontario: secondo la Procura, nel pieno della pandemia (marzo 2020), l’uomo avrebbe somministrato farmaci poi risultati letali a due pazienti. La Corte d’assise di Brescia lo ha assolto motivando così: è stato vittima di "un’accusa calunniosa di omicidio, tanto più infamante in quanto rivolta a un medico, ossia a una persona avente vocazione salvifica e non certamente esiziale. Di enormi proporzioni è stata soprattutto l’afflizione arrecata all’imputato, che ha patito un’ingiusta e prolungata limitazione della libertà personale e rischiato di subire una condanna all’ergastolo, con gravissime ripercussioni sul piano sia umano che professionale, cui il verdetto assolutorio può porre solo parziale rimedio". Un mese fa la Procura ha annunciato il ricorso in appello.

Caos sul blocco della norma "Salvaladri". Ogni giudice la interpreta a suo modo. Luca Fazzo il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.

Altro che giustizia uguale per tutti. Da un tribunale all'altro, la legge contenuta nella riforma Cartabia è applicata discrezionalmente

«Io sono Dio e posso prendere tutto quello che mi serve»: arrestato mentre cercava di rubare, tranciando con i denti il cavo di sicurezza, un iPhone da un negozio milanese, un afgano di trent' anni si è giustificato così davanti al giudice. La commessa che aveva cercato di fermarlo lo ha denunciato. Ma il giudice Mariolina Panasiti ha deciso che non poteva tenerlo in carcere: merito (o colpa) del decreto «salvaladri» firmato in agosto dall'allora ex ministro della Giustizia Marta Cartabia. Un decreto di cui il nuovo governo ha deciso di rinviare l'entrata in vigore, ma che intanto ha dispiegato in parte i suoi effetti. Facendo uscire dal carcere qualche ladro, come l'afghano di cui sopra. E soprattutto aprendo uno scontro all'interno della magistratura, tra il politico e il dottrinale, su come comportarsi davanti a una norma congelata quando mancavano poche ore alla sua entrata in vigore.

A catapultare in orbita la faccenda è stato il giudice senese Simone Spina, che l'altro ieri - sospendendo il processo a un imputato di violenza privata - ha trasmesso alla Corte Costituzionale il provvedimento con cui il premier Giorgia Meloni e il suo ministro Carlo Nordio hanno stoppato l'entrata in vigore della riforma Cartabia: il provvedimento sarebbe addirittura incostituzionale. Ma in attesa che si pronunci la Consulta, e che il Parlamento a egemonia centrodestra ratifichi o modifichi il decreto «salvaladri», cosa fare delle migliaia di accusati di furto che non sono stati querelati dalle vittime, che la «Cartabia» avrebbe reso non punibili ma che attualmente si trovano in carcere?

Nei giorni scorsi sul tema è intervenuto il Massimario della Corte di Cassazione, l'ufficio che si occupa di evidenziare i principi di diritto contenuti nelle sentenze, e che stavolta si è addentrato in una analisi approfondita della situazione inedita creata dal blocco in extremis della riforma. Ebbene, secondo il Massimario non ci sarebbe dubbio: visto che le vittime dei reati hanno novanta giorni di tempo per sporgere querela, «in questo limbo di procedibilità la misura dovrebbe essere mantenuta». Chi è in carcere, insomma, dovrebbe restare in carcere. Il giudice milanese Marco Tremolada, coordinatore delle sezioni penali del tribunale meneghino, ha diramato a tutti i suoi colleghi la circolare del Massimario. Non c'è un obbligo di attenersi alle indicazioni, ma il messaggio è chiaro: per adesso non scarcerate. Peccato che ci siano giudici che non la pensano affatto così: come la Panasiti, il magistrato milanese che ha scarcerato il ladro afghano. La quale rimarca come il nuovo governo non abbia cancellato la riforma Cartabia, ma solo rinviato al 30 dicembre la sua entrata in vigore. «Appare di intuitiva evidenza - scrive -, che la imminenza dell'entrata in vigore del decreto legislativo» fa sì che il ladro quando verrà giudicato verrà assolto, e questo rende fin da subito impossibile tenerlo in carcere.

Capire chi ha ragione e chi torto risulta, davanti alla complessità tecnica della faccenda, praticamente impossibile. Di fatto, da un tribunale all'altro, e all'interno dello stesso tribunale, si stanno verificando interpretazioni diverse, e di conseguenza trattamenti diversi per imputati identici.

Il grande squilibrio dei poteri. Lo strapotere dei pm e le ingerenze nella politica sui migranti: le Procure indagano a loro piacimento. Gennaro De Falco su Il Riformista l’11 Novembre 2022

I recentissimi sbarchi di massa dalle navi della Ong di immigrati in corso in Italia non possono non indurre ad alcune riflessioni di ordine politico istituzionale. Non è questa la sede per affrontare il fenomeno in termini ideologici o etici su cui possono esistere ed esistono posizioni assolutamente divergenti e su cui non voglio entrare perché tutte le diverse sensibilità che esistono meritano comunque il massimo rispetto ed anche per non abusare dello spazio che mi viene assai generosamente concesso su queste pagine, ma è assolutamente un fatto che il fenomeno in tutto il bacino mediterraneo interessi in maniera assai massiccia soprattutto il nostro Paese.

È inoltre assolutamente un fatto che i governi “politici” che si sono susseguiti in questi anni ricevendo, piaccia o non piaccia, un ampio consenso elettorale proprio su questi temi hanno poi dovuto abdicare immediatamente lasciando scendere e rimanere in Italia tutti coloro che sono riusciti a giungere sulle nostre coste. È inoltre un fatto che anche la Chiesa, che in un primo momento ha esplicitamente sostenuto gli arrivi, ora sembra avere assunto un atteggiamento più prudente ma, nonostante il più o meno condivisibile atteggiamento chiaramente ostile dell’elettorato e delle forze politiche prevalenti, il fenomeno, giusto o non gusto che sia, si sta intensificando e sembra del tutto inarrestabile. A questo punto bisogna chiedersi le ragioni per le quali l’Italia, nonostante gli esiti elettorali, sia divenuta ormai stabilmente la porta di ingresso dell’Europa. A ben vedere la ragione è evidente e chiarissima e la si trova nelle intercettazioni emerse nella vicenda Palamara. Secondo quanto riportò La Verità nell’agosto 2018, a proposito della questione migranti e le presa di posizione di Salvini, il capo della Procura di Viterbo Paolo Auriemma (non indagato) disse a Palamara: «Salvini indagato per i migranti? Siamo indifendibili». Ma Palamara replicò: «No hai ragione, ma ora bisogna attaccarlo».

Queste conversazioni finite tutte nel dimenticatoio, come sempre accade in questo Paese quando un fatto è troppo grosso per poterlo affrontare, unitamente alle successive vicende giudiziarie e la sconcertante vicenda dello speronamento della motovedetta della Guardia di Finanza ci spiegano le ragioni del fenomeno che ci rende assolutamente unici in tutta Europa. Ripeto, in questa sede non voglio entrare nel merito di quanto è accaduto ed accade e dire se secondo me sia giusto o sbagliato ed anche se sia sostenibile dall’ Italia o dall’Europa ma solo comprendere ed interpretare le ragioni di questo stato di cose. Ebbene, secondo me la ragione di quanto accade, piaccia o non piaccia, sta soprattutto nella riforma legislativa che nel 1993 ha soppresso l’immunità parlamentare determinando il totale squilibrio dei poteri e nei poteri e svuotando di ogni contenuto reale la democrazia rappresentativa. Non nascondiamoci dietro un dito, la vera ragione di questo stato di cose è il fondato timore della politica di assumere iniziative di contrasto effettivo verso gli sbarchi per il timore di subire gli attacchi del potere giudiziario o meglio dei pm.

In effetti al giorno d’oggi i poteri dei singoli uffici di Procura sono amplissimi e sono acuiti dal fatto che le norme sulla competenza territoriale sono opinabilissime. In pratica ogni pm può indagare ed emettere provvedimenti a suo piacimento. Del resto mi pare che anche l’attuale ministro della giustizia ritenga necessario il ripristino proprio dell’immunità parlamentare, staremo a vedere. Si potrà dire che se ciò avvenisse la lotta alla corruzione si indebolirebbe; ora, a parte il fatto che non mi pare che con la riforma del ’93 il fenomeno della corruzione si sia ridotto, certamente si è molto ridotta la nostra libertà e, a questo punto, c’è da chiedersi quale è il prezzo che su questi temi ancora si vuole e si può pagare. Oggi è così con l’immigrazione ma se il fenomeno si consolidasse e ampliasse anche in ambito industriale, come del resto è già avvenuto a Taranto, cosa accadrebbe o magari accadrà? A me pare evidente, quale che sia l’atteggiamento verso le migrazioni, che un riequilibrio del rapporto tra e nei poteri dello Stato sia indispensabile ed urgente e che lo snodo fondamentale di questo riequilibrio non possa non essere il ripristino dell’immunità parlamentare e magari anche l’introduzione di rigide incompatibilità che regolino l’accesso in politica dei magistrati. Gennaro De Falco

Così le leggi d’emergenza hanno generato mostri… Mostri in carne e ossa. Erano gli anni del terrorismo e della repressione di uno Stato impaurito che si aggrappò a risposte che fecero vacillare lo Stato di diritto. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 12 novembre 2022.

Mi chiesero: «Lei è responsabile dei reati che le sono ascritti?» Risposi veloce: «Sì».

Non era vero, e lo sapevano anche loro – ma non importava. C’era il reato associativo e questo bastava. E con il “concorso morale”, di qualunque gesto fosse stato responsabile uno di noi, ne eravamo tutti colpevoli. D’altra parte, anche noi la pensavamo così: “loro” erano una associazione, “loro” erano tutti colpevoli, fosse anche per omissione, e quanto meno per concorso morale. Gli uni e gli altri, ci eravamo comportati di conseguenza.

Al primo processo a Napoli mi diedro 8 anni, era caduta l’accusa di banda armata

Il primo processo a Napoli – per associazione sovversiva e banda armata che aveva operato al Sud – mi diedero otto anni; era caduta l’accusa di banda armata: non eravamo così temibili, non c’erano gravi reati di sangue, qualche attentato, qualche rapina. Mi andò bene perché l’avvocato mi convinse a prendere parte a un riconoscimento: c’era un testimone. Io non ne avevo intenzione – non partecipavamo ai “riti del processo”, ma lui mi disse una cosa del tipo: “Che ti costa, tanto non ti riconosce”. Così andai, e in effetti il testimone disse che – no, non ero io l’affittuario del covo. Così evitai forse qualche anno in più, anche se invece lo diedero a un mio compagno che era rimasto fedele all’impegno di non accettare confronti e venne considerato, lui, l’affittuario del covo dove avevano trovato tutto il materiale che riconduceva ai vari attentati. Ero io, l’affittuario, ma andò così: a loro serviva uno qualunque.

Nel secondo processo a Roma, il primo costruito intorno ai “pentiti”, mi diedero 30 anni

Il secondo processo, a Roma, mi diedero invece trent’anni. Qui c’era un’altra banda armata e c’erano tanti reati, al nord, al sud e al centro: non c’erano morti, per fortuna. Fu il primo processo costruito intorno ai “pentiti”. Tutti venimmo considerati responsabili di tutto. Era il “concorso morale”, dispiegato in pieno; al di là anche di una mera considerazione “geografica”: che i meridionali fossero colpevoli dei reati al Sud, e i settentrionali di quelli a Nord – macché. Stavolta tutti avevamo degli avvocati – tutti quelli in aula, altri erano latitanti da anni. Ma erano come imbambolati, basiti – aspettavano che passasse la buriana. Ma il pm giocava sporco.

Durante l’interrogatorio di uno di noi il pm citò il processo di Napoli per costruire connessioni e responsabilità e aggravare un quadro fosco di pericolosità – a esempio, la quantità di armi a disposizione. Che era stata invece proprio la motivazione in sentenza per attenuare la nostra pericolosità. Dalla gabbia in aula, chiesi di intervenire e spiegai. La cosa irritò molto il pm. Irritò anche gli avvocati difensori – era una osservazione banale ma puntuale che avrebbe potuto fare uno qualunque di loro, ma non conoscevano la cosa e d’altronde quanti mai procedimenti avrebbero dovuto conoscere, quante migliaia di carte avrebbero dovuto sapere? Loro aspettavano che passasse la buriana.

Avevo scritto di aver “contribuito all’estinzione di quella organizzazione”, ma per il pm era “all’estensione dell’organizzazione”

A me avevano sequestrato in carcere dei fogli su cui stavo scrivendo una sorta di mia memoria difensiva. Nei carceri speciali – e io li ho girati quasi tutti – facevano di queste cose: servivano per le loro “prove”. Bene: avevo scritto che avevo “contribuito all’estinzione di quella organizzazione” – e era andata proprio così: ci eravamo sciolti, troppo militarismo e il rapporto con strutture di base di lotta, di cui ci consideravamo solo il braccio operativo, armato, si stava perdendo, si era perso. Non volevamo essere come le Br.

Il pm usò quei fogli per dire che io avevo contribuito “all’estensione dell’organizzazione”: un piccolo slittamento semantico che diceva proprio l’opposto: d’altronde, ero un “colonnello” – e quei gradi dovevano ben significare qualcosa. Lo feci notare, come prima; e come prima, il pm stizzito, gli avvocati impagliati. E così, arrivammo ai trent’anni.

In Cassazione il giudice Carnevale smontò il nostro “concorso morale”

In appello, divennero ventitrè. Non cambiava poi molto. Poi, finimmo in Cassazione, e qui trovammo il giudice Carnevale. Non sono in grado di dare un giudizio sull’uomo, che suscitò molte controversie e una campagna aggressiva, anche perché la sua “linea di condotta” non si applicò solo alla nostra sentenza ma, successivamente, a altre per associazione mafiosa; ma Carnevale smontò il nostro “concorso morale”. Fu la prima volta, il primo processo per il quale decadde – anche se la cosa non provocò un “ripensamento” dei legislatori. Così, noi tornammo in appello.

Avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni e io arrivai a pesare cinquantadue chili

Nel frattempo, era intervenuta la legge per la dissociazione – e io ne ero stato, nell’Area autonoma di Rebibbia, tra quelli che si era impegnato di più negli incontri con politici, dirigenti dell’amministrazione penitenziaria (con qualcuno sono ancora in contatto), personalità ecclesiastiche, giornalisti, per portarla avanti. Quasi tutti noi del secondo processo vi aderimmo. Ma io uscii per il mio stato di salute: ero prostrato e frustrato, anche per vicende personali. Ero stato arrestato a aprile del 1978 – in pieno sequestro Moro: eravamo finiti a Poggioreale, sparsi tra i padiglioni dei detenuti comuni; poi, avevano deciso di isolarci in un repartino, e lì avevamo iniziato uno sciopero della fame. Durò trentadue giorni, e io arrivai a pesare cinquantadue chili e un mio compagno perse un rene; ma dissero che ci avrebbero riportato nei padiglioni e intanto ci misero in quello sanitario per riprenderci; poi, di notte, ci impacchettarono e ci portarono negli speciali: il generale dalla Chiesa aveva deciso così, eravamo sulla sua lista. E iniziò il mio percorso nel “circuito dei camosci”: uscii a febbraio del 1985, ma agli arresti domiciliari, fino a novembre – altri nove mesi infernali. Poi, tra cumulo e legge della dissociazione finì che feci più carcere di quello che mi toccava. Capitava, con la giustizia forfettaria. Un tanto a chilo – che faccio, lascio? Lasci.

Le leggi di emergenza sono state mostruose

La legislazione d’emergenza è stata mostruosa e ha costruito mostri: non parlo solo delle “figure giuridiche” ma delle persone in carne e ossa. E dalla parte dei “combattenti” e dalla parte dello Stato. C’è un episodio emblematico. Siamo verso i colpi di coda del terrorismo – dopo le confessioni di Peci e le centinaia di arresti. Un gruppo che si era costruito intorno la figura di un ex- detenuto che si era politicizzato in carcere avvicinandosi alle Br e era poi uscito a fine pena – compie una rapina alla fine della quale uccide due guardie giurate, ormai disarmate e a terra, lasciando un volantino di “campagna contro la dissociazione” accusando un’altra terrorista, da poco arrestata, di essere in realtà un’infiltrata dei servizi segreti. Nell’aula di un processo che si svolgeva in quei giorni, viene letto un comunicato delle BRrche smentisce categoricamente che la terrorista accusata sia un’infiltrata – avevano fatto una “indagine interna”; implicitamente, prendono le distanze da quella azione. Il gruppo viene arrestato e succede che alcuni finiranno con chiedere la legge sulla dissociazione. È il caos totale.

Ci trovammo imprigionati tra leggi di emergenza e terrorismo

In un bel libro di Fernando Aramburu, Patria, i cui personaggi vivono in una cittadina dei Paesi Baschi dilaniata dalle azioni dell’Eta e dagli schieramenti, anche all’interno di una stessa famiglia, che esse provocano, un giovane militante accusato di gravi reati finisce all’ergastolo: è arrogante, rabbioso, fragile nella sua ideologia. Aramburu non ha tentennamenti nel mostrarci l’insensatezza delle azioni armate, l’alone di sostegno, convinto o forzato, e la scia di dolore che esse provocano – non ha neppure tentennamenti nell’additare la violenza dello Stato e del carcere e delle torture. Era quella stessa spirale di violenza in cui ci trovammo imprigionati qui – tra legislazione d’emergenza e terrorismo. Quando l’Eta dichiara finita la lotta armata, quelli rimasti in carcere erano i più refrattari, e chi mostrava dubbi o perplessità veniva ostracizzato, isolato. Tra loro, il giovane protagonista della storia, che intanto è invecchiato, che intanto si è staccato da tutto, dai suoi antichi compagni e anche da se stesso. Gli rimane solo un pezzo della sua famiglia.

In Italia mancò una soluzione politica al terrorismo: la “linea della fermezza” dal sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture

Quello che mancò anche in Italia – e che finì per caricare tutto sulle spalle discrezionali della magistratura, che assunse un ruolo di supplenza e salvifico, quindi con una sorta di “investitura” sociale e morale – fu una soluzione politica al terrorismo. Il che significa che una questione politica venne trattata solo come questione criminale – fatto questo che nella storia di questo paese non è propriamente del tutto nuovo. Mancò, quel ruolo, soprattutto quando le due principali organizzazioni della lotta armata, le Brigate rosse e Prima linea, l’avevano sostanzialmente dichiarata finita. Mancò, intendo, da parte delle principali forze politiche del paese: la “linea della fermezza” che era scesa in campo, con enorme sostegno della stampa, durante il sequestro Moro non ebbe più incrinature, ripensamenti, riletture. Non le ha mai più avute.

E in un modo e nell’altro – sempre lì si viene rimandati. Sono passati quarantaquattro anni dal 16 marzo 1978 – e la “soluzione biologica”, ovvero la naturale morte sta ormai prendendo il posto di ogni ipotesi di soluzione politica. Chissà, magari prima di arrivare a cinquanta se ne potrebbe riparlare. Giusto per dire, che ormai. Capita ripetutamente che negli istituti superiori dove qualche insegnante si avventura nei territori della storia contemporanea, alla domanda sui responsabili della strage di piazza Fontana la risposta degli studenti sia: le Brigate rosse. Nel buio della conoscenza, tutte le vacche sono nere.

Errore di battitura nell’accusa, l’indagato resta in carcere. Una svista, un semplice errore materiale - questa la spiegazione del giudice -, ma tale da condizionare il diritto di difesa di un uomo. Canestrini: «La libertà vale così poco?» Simona Musco su Il Dubbio il 24 novembre 2022.

«Una storiella di diritti e giochetti». L’avvocato Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, è letteralmente infuriato. Avvilito, verrebbe da dire, di fronte ad un caso tanto semplice quanto assurdo da raccontare.

La storia è quella di un 31enne arrestato per detenzione ai fini di spaccio di 30 grammi lordi di cocaina, il cui principio attivo risulta ancora sconosciuto. Una storia comune, una di quelle che affollano quotidianamente le aule di tribunale, se non fosse per un particolare: la contestazione è cambiata dopo l’udienza di convalida, di fatto impedendo al legale di poter difendere il proprio assistito adeguatamente. Una svista, un semplice errore materiale – questa la spiegazione del giudice -, ma tale da condizionare il diritto di difesa di un uomo che così è rimasto in carcere.

«Secondo il codice procedurale, l‘arresto deve essere convalidato da un giudice entro quattro giorni. In questo periodo, l’accusa deve anche decidere se chiedere una misura cautelare, cioè se ritiene che ci sono oltre gravi indizi di colpevolezza, anche pericolo di fuga o di reiterazione del reato o di inquinamento probatorio – racconta Canestrini in un post-sfogo su Facebook -. La Procura chiede dunque il carcere per l’arrestato, ma contesta il fatto di lieve entità (articolo 73 testo unico stupefacenti, comma 5)».

A seguito della sentenza della Corte costituzionale che dichiarò illegittime le previsioni della legge Fini-Giovanardi, infatti, il legislatore modificò, tra le altre cose, i limiti edittali contemplati dal comma 5, riconoscendo lo stesso articolo quale fattispecie autonoma di reato, modificando il precedente dl 146 del 2013 che lo concepiva quale mera circostanza attenuante. Le modifiche portarono ad una riduzione della pena e così si è passati dalla reclusione da uno a cinque anni alla reclusione da sei mesi a quattro anni, se la condotta criminosa, per i mezzi, le modalità o le circostanze ovvero per la quantità e qualità delle sostanze, è di lieve entità. La modifica incise anche sulle misure precautelari e cautelari, data l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e/o di disporre la custodia cautelare in carcere.

Da qui la chiara strategia difensiva di Canestrini, che con una breve memoria esplicativa – dopo aver visitato l’uomo in carcere di domenica e aver rassicurato la famiglia – si è opposto alla richiesta di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rovereto. Insomma, un caso semplice e subito chiuso, normalmente. Ma non nel caso in questione: «Incredibilmente il giudice, dopo aver interloquito con il pm dopo l’udienza (dato che in udienza in carcere il pm non si è presentato), espone la strabiliante tesi che la contestazione del comma 5 era un “errore materiale”, che al posto del “5” doveva leggersi “1”, dato che il comma 1 prevede lo spaccio grave che sorregge arresto e misura cautelare carceraria», afferma Canestrini.

Un errore rettificato dal pm solo successivamente all’udienza di convalida e che dunque ha impedito allo stesso difensore di preparare una strategia alternativa per la difesa del suo assistito, che, dunque, è rimasto in carcere. Il giudice parla di un «un evidente errore materiale di battitura», ravvisabile nel «riferimento al comma 5 dell’articolo 73 Dpr 309/1990, anziché al comma 1, relativo alle sostanze di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 del Dpr 309/1990, tra cui rientra la cocaina, alla quale sia nella parte in fatto dell’imputazione, così come nella parte motiva, vi è il chiaro e inequivoco riferimento, quale oggetto dell’illecita detenzione per cui è stato disposto l’arresto.

Trattasi dunque, in concreto, di fattispecie che rende non solo obbligatorio l’arresto in flagranza, ma che sorregge la misura cautelare detentiva in carcere a norma dell’articolo 280 del codice di procedura penale». E tanto basta, dunque. «La nostra libertà è quindi appesa alla possibilità che un 5 significhi in realtà un 1 – ha concluso il legale -. Ma la libertà è davvero così poco importante da meritarsi questo?».

Denuncia la figlia per errore, una vicenda assurda per una carta di credito “rubata” al padre. Alberto Cisterna su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Una storia come tante altre. Una carta di credito qualunque, l’avviso sul cellulare di un addebito. L’uomo che, preoccupato dall’importo, cerca di capire cosa sia accaduto e scopre subito l’acquisto di qualcosa di molto costoso in uno dei negozi dello shopping di lusso della Capitale. Di lì a chiamare i Carabinieri un attimo. Una pattuglia si fionda al negozio e chiede di visionare le telecamere di sicurezza. Si vedono due ragazze e un ragazzo intente all’acquisto di qualcosa. Si vede la borsa costosa finire impacchettata e una delle due ragazze accostarsi alla cassa per pagare con una carta di credito.

I Carabinieri, giustamente soddisfatti, avvisano l’uomo che può recarsi in caserma per denunciare l’accaduto, ci penseranno loro a identificare i tre mascalzoni. L’uomo torna a casa, racconta l’accaduto in famiglia e si accorge, però, che la carta di credito non era nel solito cassetto della sua scrivania, che qualcuno l’ha portata via. Corre in caserma e racconta l’accaduto ai militari i quali, a quel punto, mostrano il video al malcapitato che, con sgomento e sorpresa, scopre che la ragazza alla cassa intenta a pagare è sua figlia. Ovviamente lavata di capo, urla e strepiti. La ragazza, da poco maggiorenne, si era invaghita di un tizio belloccio che, insieme alla sua complice, aveva convinto la poverina al gesto ossia a fare un regalo alla tipa che l’accompagnava e così la frittata era stata fatta.

Il codice penale di Mussolini, quello che il ministro Nordio giura di voler modificare, in una norma di straordinaria saggezza prevede che il furto di denaro tra familiari conviventi non sia punibile. Persino il fascismo comprendeva che doveva evitare di mettere il naso tra le mura del focolare domestico e che se la moglie portava via soldi al marito o un figlio al padre erano pur cavoli loro. La morale fascista è un conto, ma la pace familiare è questione delicata da cui persino un regime totalitario preferiva stare alla larga. Tutto a posto, quindi. Manco a dirlo. Nel 2007, in ossequio ai soliti obblighi eurocomunitari, il legislatore aveva previsto un apposito reato – poi confluito nel Codice penale (art. 493.ter) – in forza del quale chiunque utilizza indebitamente «non essendone titolare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, o comunque ogni altro strumento di pagamento diverso dai contanti» è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 euro a 1.550 euro.

Vabbè e che importa? direbbe l’uomo qualunque, il saggio cittadino, la brava madre di famiglia. Se la figlia avesse prelevato il denaro in contanti dalla cassaforte o dal cassetto della camera da letto dei genitori non sarebbe stata punibile, a chi importa che, invece, abbia comprato la borsa di lusso con la carta di credito dell’ignaro genitore? Sempre soldi sono. In un paese normale il discorso non farebbe una piega. Anche in un ordinamento giuridico normale. Ma la Corte costituzionale, prima, e la Cassazione, dopo, hanno sempre negato che l’esclusione della punibilità, concepita dal ministro fascista Rocco nel lontano 1930 per la moneta contante rubata tra le mura di casa, si possa applicare alla moneta elettronica. Si dice con estrema e curiale precisione che l’art.493-ter ha natura «plurioffensiva» (una sorta di trappola definitoria che rappresenta uno dei caposaldi della cultura penale ipogarantista di questo paese) ossia tutela non solo il patrimonio personale del titolare della carta di credito (il padre), «ma anche gli interessi pubblici alla sicurezza delle transazioni commerciali e alla fiducia nell’utilizzazione di tali strumenti da parte dei consociati» (la finanza internazionale).

Siamo una nazione strana e sorprende che qualcuno si sorprenda di una norma come quella che punisce i rave party. Insomma, come dire, puniamo i rave party non solo perché minacciano la salute dei ragazzi, mettono spesso a rischio la loro incolumità personale, ma perché sono un pericolo per la sicurezza pubblica, per cui anche se non circolasse una goccia d’alcol o un grammo di droga (può essere), il delitto resta. Si celebra, quindi, il processo con la fedifraga figlia, poco più che diciottenne, come imputata e con il padre disperato nelle vesti di una riluttante parte offesa. La Corte costituzionale ha parlato chiaro, la Cassazione pure, la partita è chiusa c’è poco da discutere; fedina penale macchiata a vita e chissà quanti impicci.

Si dice che anche i carabinieri, presidio di saggezza in questa malcapitata patria, si fossero scusati col padre ignorando che, denunciando alla Procura i due truffatori, avrebbero messo nei guai anche la ragazza. Si racconta che il giudice, infischiandosene degli illustri precedenti, abbia assolto la pasticciona e allungato di qualche anno la vita al povero genitore assillato e tormentato dai sensi di colpa per aver fatto una denuncia al buio. Strano paese questo, in cui la giustizia – se vuole – non conosce alcun padrone se non quello della propria coscienza. Strano, ma a volte così bello. Alberto Cisterna

L’efficientismo non è giustizia. Reati e processi, la riforma della giustizia e le 12 proposte degli avvocati. Viviana Lanza su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

La riforma Cartabia, la sua entrata in vigore, il futuro della giustizia, le iniziative del nuovo governo. Sono tanti i temi sul tavolo del dibattito giudiziario. La Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Marco Campora, ha preso posizione rispetto a tali temi con un documento in cui si analizzano nel dettaglio le criticità della giustizia penale e si elencano proposte, sintetizzabili in dodici punti:

1) Seria e profonda depenalizzazione; 2) Amnistia e indulto; 3) Revisione del catalogo dei reati previsti dal codice penale e dalle leggi penali e delle relative pene; 4) Abrogazione della improcedibilità e ritorno alla prescrizione sostanziale ante-riforma; 5) Sancire con chiarezza, impedendo interpretazioni distorsive, la necessità che vi sia identità tra il giudice che ha assunto le prove e il giudice che emette la sentenza; 6) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, il rilascio di una nuova nomina al fine di proporre appello in caso di imputato dichiarato assente nel corso del giudizio di primo grado; 7) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, di allegare all’atto una nuova dichiarazione/elezione di domicilio dell’imputato; 8) Rivedere la norma in materia di intercettazioni nel rispetto dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale; 9) Ampliamento dei casi in cui è possibile accedere al patteggiamento; 10) Reintroduzione della possibilità di accedere al rito abbreviato per i delitti punibili con la pena dell’ergastolo; 11) Modifica delle disposizioni in tema di custodia cautelare sulla base della proposta contenuta nel recente quesito referendario; 12) Riforma dell’ordinamento accogliendo ed approvando le proposte della “Commissione Giostra”.

«La riforma Cartabia è divenuta legge e tra pochi giorni comincerà ad essere applicata nei Tribunali italiani – si legge nel documento firmato dal presidente Marco Campora e dal segretario Angelo Mastrocola –. Dopo l’incubo del triennio Bonafede, che ha rappresentato senz’altro il punto più basso della giustizia italiana in cui il mix esplosivo tra il più feroce populismo penale e la più grossolana insipienza ha prodotto guasti difficilmente emendabili, le attese erano alte e si auspicava un reale cambio di passo rispetto al nefasto recente passato». La riforma, per i penalisti napoletani, non è tutta da cassare ma non convince affatto. «In questa riforma – dicono i vertici dei penalisti napoletani – c’è sicuramente del buono e sarebbe sciocco non riconoscerlo. Il totem della pena detentiva e del carcere inizia ad essere scalfito dalla possibilità di applicare, già in fase di cognizione, le sanzioni sostitutive che da decenni noi penalisti indicavano quale strada maestra da seguire per assicurare la reale risocializzazione dei condannati, per ridurre i pericoli di recidiva e per dare respiro agli istituti penitenziari ridotti a luoghi crudeli, criminogeni e tecnicamente illegali».

Fiducia, poi, nella giustizia riparativa (sperando che però nei fatti venga realmente messa in atto); ok all’ampliamento del catalogo dei delitti procedibili a querela (anche se sarebbe meglio metterci più coraggio) e delle categorie di reato per le quali può applicarsi la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Ok anche alle modifiche del codice di rito che ampliano la democrazia all’interno del processo e potenzialmente attenuano il rischio di arbitrii nella fase investigativa. Ma i veri nodi della giustizia penale, quelli seri, non sono risolti. Un esempio. «La riforma, senza neppure intervenire in modo deciso sul patteggiamento, e cioè sul più laico dei riti alternativi, lungi dall’affrontare i nodi essenziali che ingabbiano e paralizzano la giustizia si limita (oltre ad auspicare che l’udienza preliminare e la nuova udienza pre-dibattimentale sfoltiscano sensibilmente il numero dei processi) a “sponsorizzare” come rito principe del nostro ordinamento il giudizio abbreviato (storicamente la tipologia di giudizio meno adeguata a far emergere una verità processuale che quantomeno tenda ad una verità sostanziale, fondandosi lo stesso su atti strictu sensu polizieschi); arrivando addirittura a prevedere – in aperta distonia con il principio in forza del quale l’imputato ha diritto ad un secondo grado di giudizio nel merito senza subire qualsiasi tipo di condizionamento – lo sconto di pena di un sesto per l’imputato che, condannato in primo grado a seguito di giudizio abbreviato, rinunzi a proporre impugnazione», dicono Campora e Mastrocola.

«La realtà è che la riforma mira a raggiungere un obiettivo (minor numero di processi, maggiore efficienza e più celerità) servendosi di mezzi a nostro parere inadeguati allo scopo. Si limita in gran parte, infatti, ad intervenire sul codice di rito, sulla procedura (che ha esclusivamente funzioni di garanzia e detta le regole del gioco) lasciando per lo più inalterato il codice penale e le migliaia di leggi in materia penale disseminate nelle più disparate disposizioni normative. Di contro, è evidente che l’unico mezzo per ridurre i processi senza diminuire le garanzie dei cittadini (imputati e parti offese) è quello di ridurre in modo significativo il catalogo dei reati attraverso una massiccia depenalizzazione. Vi sono, invero, nel nostro codice e soprattutto nelle cd. leggi speciali centinaia di fattispecie che ben potrebbero essere regolate e demandate ad altre branche dell’ordinamento. Così come – ed al netto dell’ovvia considerazione che per fare qualsiasi tipo di riforma è necessario il consenso della maggioranza parlamentare – sarebbe stato del tutto logico (come di regola è sempre avvenuto di fronte a riforme di una certa rilevanza), al fine di ridurre il cd. arretrato e per consentire alle nuove norme di esplicare i loro effetti, varare un provvedimento di amnistia e di indulto che avrebbe altresì consentito di porre un argine allo sfacelo che registriamo da decenni (ed in modo particolare nell’ultimo anno) negli istituti penitenziari».

Il ragionamento è: se l’intento della riforma è quello di modernizzare il diritto (e il processo) penale e renderlo più mite e meno terribile occorreva intervenire sulla tipologia delle pene e sui limiti edittali previsti dalle varie fattispecie del codice penale, «ancor oggi incentrato esclusivamente sulla pena detentiva in linea con l’ideologia imperante negli anni ‘30», osservano i vertici dei penalisti di Napoli, «limiti che continuano ad essere esorbitanti e che gioco-forza, considerata l’enorme posta in palio, impongono l’aumento progressivo delle garanzie e non già la loro progressiva erosione». «Banalizzando – aggiungono – per ridurre il numero dei processi, e dunque per migliorare l’efficienza e favorire una maggiore celerità, è necessario ridurre l’ambito di intervento del diritto penale a monte, apparendo una mera chimera il raggiungimento dell’obiettivo attraverso vie traverse (il sistema che si auto-regola e che blocca la trasformazione in processi delle centinaia di migliaia di notizie di reato) o peggio attraverso l’erosione delle garanzie e degli spazi di intervento del singolo imputato».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Arrestano la sposa per droga il giorno delle nozze. Poi la scoperta: "Un errore". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 29 Ottobre 2022

La sposa, 42 anni, stava per pronunciare il fatidico "sì" quando i carabinieri hanno interrotto la cerimonia con un mandato di arresto. Per fortuna, si è trattato solo di un equivoco ma le nozze sono saltate

"Nel bene e nel male, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà finché morte non ci separi", recita la formula del consenso al matrimonio. Oppure "finché mandato di arresto ci separi", dipende dai punti di vista. Lo sa bene una sposa 42enne di Seveso (Monza) che è stata arrestata il giorno delle sue nozze proprio mentre era ad un passo dal fatidico "sì". Per fortuna, si è trattato solo di un terribile equivoco ma la celebrazione è saltata.

La storia

A raccontarla non ci si crede. Eppure la storia è vera, verissima. Stando a quanto riporta l'Agenzia stampa Ansa, l'episodio è accaduto a Seveso, una piccola cittadina in provincia di Monza e Brianza, qualche giorno fa. Tutto pronto per la cerimonia: l'abito bianco, le fedi nuziali e la festa in famiglia. E invece, quella che doveva essere una giornata da sogno si è trasformata in un vero e proprio incubo. La sposa, con accanto anche il futuro marito, si è vista letteralmente piombare davanti i carabinieri. I militari dell'Arma le hanno notificato l'esecuzione di una misura cautelare in carcere per un cumulo di pene legato a reati di droga proprio mentre si stava celebrando il matrimonio con rito civile. Ma si trattava di un frainteso.

L'arresto

La sposa ha rischiato di finire in manette per via un errore di trascrizione. In buona sostanza, i carabinieri hanno interrotto le nozze per eseguire l'ordine di carcerazione, trasmesso alla Procura di Monza dal Tribunale brianzolo per una sentenza passata in giudicato, nonostante ci fosse stato il ricorso in Appello. A confermare l'equivoco è stato l'avvocato della donna che, interpellato sui fatti, ha mostrato ai militari dell'Arma un'anomalia nei documenti. Una volta accertato l'equivoco, la Procura ha immediatamente ritirato il provvedimento. Fatto sta che la festa è saltata comunque e gli sposi sono stati costretti a fissare una nuova data per le nozze.

Scatti di ordinaria “mala edilizia” giudiziaria. L'Anm ha pubblicato sul proprio sito centinaia di foto, raccolte dagli stessi protagonisti della giurisdizione: una mappa, da Nord a Sud, della condizione di aule e uffici giudiziari nei quali sono costretti a lavorare magistrati, avvocati e personale amministrativo. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 24 ottobre 2022.

Il nostro giornale lo dice da sempre. La giustizia non ha bisogno di proclami e di effetti speciali, se poi, scendendo sul pianeta terra, le aule e gli uffici frequentati dai magistrati, dagli avvocati e dai cittadini sembrano più a delle piccionaie o a dei tuguri. Per questo motivo l’Associazione nazionale magistrati ha voluto far conoscere lo stato in cui versa l’edilizia giudiziaria. Come? Nella maniera più semplice ed accessibile, pubblicando sul proprio sito (associazionemagistrati. it) centinaia di foto, scattate dagli stessi protagonisti della giurisdizione e quotidiani frequentatori dei Tribunali.

La galleria fotografica – in alcuni casi una vera e propria galleria degli orrori –, composta da otto sezioni, mostra da Nord a Sud, passando per la capitale, lo stato pietoso in cui versano le aule d’udienza e altri locali dei Tribunali italiani. Ogni galleria fotografica ha un titolo e i magistrati hanno dato adito al loro estro: le locuzioni utilizzate vanno da “Impressionismo giudiziario”, a “Vostro onore”, “Giustizia 6.0” e “Con gli occhi all’insù” per giungere alla “Raccolta differenziata”. Le altre gallerie si intitolano “Terzo potere”, “Lavori in corso” e “Il vizio della memoria”. Scatti non d’autore che non hanno la velleità di vincere premi fotografici, ma che intendono portare a conoscenza di tutti la realtà, senza filtri, senza infingimenti, senza, appunto, effetti speciali.

Nel suo saluto di commiato, rivolto ai dipendenti e a funzionari del ministero della Giustizia, Marta Cartabia, ha dichiarato che nei seicento giorni trascorsi in via Arenula ha voluto «contribuire a realizzare quel volto costituzionale della Giustizia». Chissà cosa ha pensato la ministra uscente sfogliando il dossier fotografico dell’Associazione nazionale magistrati.

“MALA EDILIZIA”

I componenti della VIII Commissione permanente di studio dell’Anm evidenziano le motivazioni che li hanno indotti a fare questo singolare viaggio nell’Italia della “mala edilizia” giudiziaria. «Per ottenere un quadro aggiornato della “salute” dei nostri palazzi di giustizia – spiegano abbiamo ritenuto utile effettuare un monitoraggio dell’edilizia giudiziaria, chiedendo a tutti i magistrati di documentare fotograficamente lo stato in cui versano gli uffici in cui quotidianamente prestano servizio e in cui, ogni giorno, migliaia di cittadini (personale amministrativo, avvocati, parti processuali), fanno ingresso. Grazie al contributo delle Giunte Esecutive Sezionali e di tanti colleghi abbiamo così realizzato un dossier fotografico sull’edilizia giudiziaria composto da circa 500 foto relative a più di 50 Tribunali e Procure della Repubblica».

L’edilizia giudiziaria è una sorta di specchio dell’Italia, secondo l’Associazione nazionale magistrati. «Quella che emerge da questa “istantanea” – affermano i componenti della VIII Commissione permanente di studio – è la fotografia di un Paese i cui palazzi di giustizia presentano strutture sovente inadeguate e uffici troppo spesso inospitali e, in alcuni casi, persino insalubri: insomma, luoghi di lavoro non dignitosi per quanti vi prestano servizio o anche solo li frequentano come utenti.

Al fine di evidenziare le situazioni di maggiore criticità che, a nostro giudizio, richiedono interventi urgenti, tra tutte le foto raccolte ne abbiamo selezionate alcune, che abbiamo suddiviso in otto categorie in base all’oggetto raffigurato e al contesto in cui la foto è stata scattata. L’intera raccolta fotografica, comprensiva di documenti e relazioni, suddivisa in base all’ufficio giudiziario da cui provengono, è, invece, consultabile navigando attraverso la cartina geografica».

A ROMA SPAZI INSUFFICIENTI E INADEGUATI

A denunciare questa situazione è il presidente del Tribunale, Roberto Reali, che si sofferma, in una relazione inviata al presidente della Giunta dell’Anm Lazio (Sezione di Roma) tanto sul settore civile quanto su quello penale, senza tralasciare l’Aula Bunker di Rebibbia.

Gli immobili in cui si svolgono le attività del civile si caratterizzano per la loro vetustà. Reali pone l’attenzione sull’immobile di via Lombroso, che ospita dal lontano 1977 l’Archivio di Stato Civile, concesso in uso gratuito per tre anni al Ministero di Grazia e Giustizia dalla Provincia di Roma. Sono trascorsi quarantacinque anni e la montagna di faldoni è ancora lì. La struttura «risulta inagibile e interdetta ai lavoratori» dal 2015 ed è incustodita.

La Città giudiziaria, situata in Piazzale Clodio, ospita il settore penale: necessita di interventi di ristrutturazione e di ampliamento. Servono, evidenzia il presidente del Tribunale di Roma, investimenti mirati per la «riqualificazione complessiva della Città giudiziaria» e l’ampliamento della tessa «mediante la costruzione di un nuovo Palazzo che possa affiancare i già esistenti Edifici A, B e C di Piazzale Clodio». Nell’Aula Bunker di Rebibbia avvocati, magistrati, parti processuali e forze dell’ordine nelle giornate di pioggia farebbero bene ad indossare l’impermeabile o ad usare l’ombrello a causa delle infiltrazioni di acqua piovana dalle coperture, denunciate dallo stesso Reali. Nella documentazione allegata al dossier si nota, inoltre, che nei pressi delle aule di udienza il problema dei rifiuti è di portata eccezionale. Decine di sacchi formano montagne di spazzatura.

Ambienti condivisi nella gallery di Cassino, dove spicca una foto di alcuni armadi e fascicolatori, pieni zeppi di faldoni, sistemati in un bagno. Nella stessa stanza in cui si trovano un lavabo e la carta per pulirsi.

PIEMONTE: TORINO RIDE, ALESSANDRIA PIANGE

Se il Palazzo di Giustizia di Torino, intitolato a Bruno Caccia (magistrato martire, ucciso dalla criminalità organizzata nel 1983) si presenta ordinato, non può dirsi lo stesso per le aule di udienza del Tribunale di Alessandria. Qui, le infiltrazioni che mangiano gli intonaci e i cavi volanti sono un pugno nell’occhio. In uno spazio ricavato alle spalle della postazione dei giudici, arredata con elementi di almeno settant’anni fa – poltrone comprese -, si nota un deposito in cui sono ammassate sedie, cartoni e addirittura alcuni televisori. Come il deposito di un rigattiere.

A Biella, oltre ai muri scrostati e ad alcune cabine dalle quali debordano centinaia di cavi, spicca un vecchio telefono pubblico. Il pezzo da museo è sovrastato da un muro ridotto a gruviera. “Pronto, ministero della Giustizia?”. Non risponde nessuno. Stranamente…

A PAOLA L’ASCENSORE VA SOLO GIÙ

Il viaggio nella “mala edilizia” prosegue a Sud. La Giunta sezionale dell’Anm di Catanzaro, nei mesi scorsi, ha denunciato l’improvvisa rottura di un cavo dell’ascensore del Palazzo di Giustizia di Paola. L’impianto di sollevamento è precipitato nel vuoto. Il caso ha voluto che non ci fossero persone nell’ascensore. In Tribunale per lavorare non per rischiare la vita. A Crotone, invece, i magistrati hanno protestato per «le criticità strutturali del Tribunale» e hanno altresì rappresentato «la nocività degli ambienti di lavoro» a causa dell’umidità dei locali, delle perdite d’acqua al piano terra e al secondo piano. A ciò si aggiunge il blocco totale degli impianti di riscaldamento. Per il momento, viste le alte temperature delle “ottobrate” che si susseguono, il pericolo di congelamento non sussiste.

FOGGIA. UNA STANZA PER 4 NEL PENALE. MA NEL CIVILE VA PEGGIO

Nel Tribunale penale di Foggia i quattro giudici del dibattimento devono lavorare nella stessa stanza. Ma i conti non tornano. Ci sono tre scrivanie ed una sola postazione fissa dotata di computer. Forse, serve una calcolatrice in via Arenula. Nel Tribunale civile va peggio. Ben sette magistrati condividono la stessa stanza, sprovvista di computer e di telefono. E non hanno neppure distinte scrivanie. Insomma, nel capoluogo da uno si sperimenta il coworking giudiziario all’italiana.

BARI E I FASCICOLI NEI BAGNI

In piazza De Nicola, sede del Tribunale Civile, della Corte di Appello penale e civile, e del Tribunale di Sorveglianza si ricava spazio pure nei bagni per conservare i fascicoli. Al piano terra, nel sottoscala si trova invece di tutto: sedie e poltrone rotte, armadi inutilizzati, vecchie macchine da scrivere, monitor, stampanti fuori uso, fascicolatori metallici arrugginiti ed ammaccati. Dal rigattiere all’isola ecologica è un attimo (per la gioia dei ratti per possono insinuarsi ovunque).

TRANI. PALAZZI STORICI CHE RICHIEDONO MANUTENZIONE

Chi non vorrebbe fare udienza a due passi dal mare? A Trani la sede delle Esecuzioni mobiliari, ospitata nel Palazzo Gadaleta, si trova in una posizione felice. All’interno, però, i magistrati sono preoccupati. In alcune stanze le crepe evidenti non fanno immaginare niente di buono. Le cose non vanno meglio nella sede centrale del Tribunale, a Palazzo Torres, a due passi dalla splendida Cattedrale romanica. Lo stabile, risalente alla metà del XVI secolo, richiede di essere sottoposto ad urgenti interventi di ristrutturazione. Alcuni cornicioni sono pericolanti.

IL PALAZZO DI GIUSTIZIA DI CATANIA CADE A PEZZI

A riprova dell’emergenza edilizia giudiziaria vi è il crollo parziale, pochi giorni fa, nel Palazzo di Giustizia di Catania, del tetto della cancelleria del Giudice per le indagini preliminari. Fortunatamente, non ci sono stati feriti. La Giunta etnea dell’Associazione nazionale magistrati è ritornata a porre all’attenzione i gravi problemi che si affrontano nella città siciliana e ha espresso «ancora una volta la massima preoccupazione e il vivo allarme per le condizioni in cui versano gli uffici giudiziari catanesi».

L’Anm chiede con urgenza che vengano svolte attività di manutenzione ordinaria e straordinaria «per evitare tragedie che questa volta sono state solo sfiorate». «Non è ammissibile – si legge in una nota – che in un edificio pubblico, e a maggior ragione in un Palazzo di Giustizia, dove devono trovare tutela i diritti di ciascuno, i lavoratori che ivi operano debbano temere per la propria incolumità. Non è altresì ammissibile che, a seguito di tali eventi, alcuni magistrati dell’ufficio non dispongano attualmente di un ufficio dove poter celebrare le udienze e non siano pertanto messi in condizione di adempiere ai propri doveri».

Grande preoccupazione viene espressa da Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania. «Il crollo di un soffitto, verificatosi nel Palazzo di Giustizia – dice al Dubbio -, è un incidente che, purtroppo, non ci sorprende. Ricordiamo ancora il distacco della lastra di marmo dalla parete di un’aula d’udienza e le recenti piogge torrenziali all’interno dei locali. Da anni denunciamo i problemi strutturali del Palazzo di Giustizia e, più volte, abbiamo posto all’attenzione delle istituzioni le carenze dell’edilizia giudiziaria nella nostra città ». Silenzio di tomba da via Arenula. «Dagli uffici ministeriali – aggiunge il numero uno delle toghe etnee non sono pervenute risposte adeguate e vane sono pure rimaste le richieste loro inoltrate dai vertici giudiziari di Catania.

Così siamo arrivati a questo ennesimo episodio che poteva anche essere tragico. Adesso, a causa dell’inagibilità di un intero settore del Palazzo, ci sarà da fare i conti con una serie di inevitabili ritardi e disfunzioni nell’attività giudiziaria e di problemi organizzativi per gli uffici che si riverseranno sull’intera struttura giudiziaria, sui cittadini e sui difensori. Un altro duro colpo per noi avvocati, ancora alle prese con le restrizioni anti-Covid, e proprio nel momento in cui l’Ufficio per il processo iniziava ad avviarsi. Ci auguriamo che gli interventi di ripristino siano immediati e che questo ennesimo episodio sia uno sprone per affrontare e risolvere la questione dell’edilizia giudiziaria a Catania».

Sul crollo nell’ufficio del Gip intervengono pure Antonino La Lumia, presidente del Movimento Forense, e Giuseppe Casabianca, presidente della sezione di Catania di MF. «Secondo i primi accertamenti – affermano -, la causa sarebbe da individuare nelle recenti infiltrazioni d’acqua piovana. Solo la mera casualità, dunque, ha consentito di evitare una tragedia, perché nella notte nessuno era presente nei locali.

Ciò è inaccettabile: gli avvocati e tutti coloro che quotidianamente operano nei Tribunali non possono vedere la propria incolumità messa a rischio dalle pessime condizioni nelle quali versano gran parte degli edifici giudiziari in Italia. Il Movimento Forense, da anni, denuncia, anche attraverso ripetute mozioni congressuali, tale perdurante stato di degrado, inconcepibile in un ordinamento, che dovrebbe invece garantire l’efficienza e la funzionalità dell’intero sistema: una vera riforma della Giustizia, piuttosto che fermarsi esclusivamente ai profili del rito, deve partire da queste basi e non può trascurare seri e concreti investimenti». Gli esponenti del Movimento Forense chiedono «un intervento immediato da parte delle istituzioni, al fine di assicurare il regolare svolgimento di tutte le attività processuali e, nel contempo, di inserire il tema tra le priorità dell’agenda politica del nuovo governo».

Quando si trascurano i luoghi in cui si amministra la Giustizia, i diritti rischiano di essere abbandonati. Proprio come gli oggetti dei depositi improvvisati in alcuni Tribunali. Con buona pace del «volto costituzionale della Giustizia».

Sedici giudici per un solo processo: record choc a Roma. Nel corso del processo a carico del clan camorristico Moccia si sono avvicendati 16 magistrati in quindici udienze. La protesta dell'Unione delle Camere Penali: "Incompatibile con il principio del giusto processo". Rosa Scognamiglio il 25 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Sedici giudici in 15 udienze. È il caso da guiness world record che è esploso a Roma dove, nel corso del processo al clan camorristico Moccia, scaturito dall'operazione di settembre 2020 della Dda che portò al sequestro di alcuni locali nel cuore della Capitale, si sono avvicendati una lunga scia di magistrati. Al punto che la protesta da parte della categoria forense è stata inevitabile. "Una gravità inaudita", ha denunciato l'Unione delle Camere Penali attraverso le pagine del quotidiano Il Messaggero.

Il caso

La storia, raccontata dalla giornalista Valeria Di Corrado, è a dir poco paradossale. Al punto che gli stessi addetti ai lavori, quando lo scorso 5 ottobre (la data dell'ultima udienza) uno dei giudici è risultato "incompatibile", hanno ironizzato: "si è attinto a chi passava in corridoio", è stato il commento sarcastico dei legali. Del resto, è andata proprio così: è stato necessario l'intervento di un altro magistrato che stava celebrando un processo per direttissima in un'altra aula dello stesso Tribunale. Ed è stata proprio quella la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Tanto che la Camera Penale di Roma ha proclamato l'astensione in vista dell'udienza programmata per il prossimo 2 novembre "per manifestare la propria solidarietà al collegio difensivo in quello che si è trasformato nel funerale del processo accusatorio".

La protesta

L'Unione delle Camere Penali ha indetto una protesta a livello nazionale. Pare, infatti, che la misura fosse colma da un pezzo. A monte del problema ci sarebbe una carenza di organico nella magistratura che, a conti fatti, rischia non solo di inficiare il regolare svolgimento dei processi ma anche di diventare endemica. Un'emergenza che, come ben chiarisce la cronista de Il Messaggero, ha portato "il presidente del Tribunale di Roma a stabilire un tetto nel numero dei processi per mafia". In questo modo "si riduce la funzione giudiziaria a una mera formalità - ha commentato al quotidiano romano Vincenzo Comi, presidente della Camera penale di Roma - Il dibattimento dovrebbe essere il cuore del procedimento penale, invece così viene svilito. La sostituzione in corsa del magistrato non può essere la soluzione al deficit d'organico. E comunque dovrebbe essere l'eccezione, non la regola".

Il principio di immutabilità del giudice

Il "cambio in corsa" del magistrato dovrebbe essere un evento sporadico se non addirittura eccezionale. La sentenza Bajrami delle sezioni unite della Corte di Cassazione ha abrogato, nel 2019. il principio di immutabilità del giudice. "Immaginiamo di essere sotto processo e che la decisione sulla innocenza o colpevolezza la prenda un magistrato diverso da quello che ha seguito tutto il dibattimento. - ha concluso l'avvocato Comi - Non conosce nulla, arriva e decide. Si può chiamare processo rispettoso dei diritti fondamentali delle persone? È una giustizia credibile? Tutto questo nel tribunale più grande d'Europa".

Lede il diritto all’immediatezza del processo. Processi penali impazziti: l’assurdo turn over dei giudici. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 23 Ottobre 2022 

Abbiamo più volte ricordato quanto sia fondamentale una regola del processo penale che si chiama “immediatezza della deliberazione”: il giudice che emette la sentenza deve essere il medesimo che ha partecipato all’intero dibattimento, ha ascoltato i testimoni, i consulenti, i periti, ed ha acquisito (o non acquisito) documenti ed altre prove. Se il giudice cambia, occorre ripetere l’istruttoria (“a pena di nullità assoluta” proclama severamente la norma).

Abbiamo anche detto che questo elementare principio di civiltà, sancito senza equivoci dall’art. 525 del nostro codice di rito, è stato letteralmente sovvertito dalla interpretazione giurisprudenziale, con un significativo contributo, purtroppo, della stessa Corte Costituzionale. Di fatto, ora la situazione è l’opposto di quanto previsto dalla norma, formalmente ancora vigente: se cambia il giudice, pazienza. Il giudice nuovo si legga i verbali (se ne ha voglia), si faccia un’idea di quello che è successo, e pronunci la sentenza. La cosa più scandalosa – anche in questo ci ripetiamo, ma ne vale la pena, così comprenderete meglio il fatto che mi appresto a raccontarvi – è la logica che ha ispirato questo sovvertimento interpretativo.

Chi pretende di ripetere il processo per non essere giudicato da un giudice diverso da quello che ha raccolto la prova attenta alla ragionevole durata del processo, e mena il can per l’aia, secondo inveterato costume degli avvocati difensori. Invece, tutti zitti sulle ragioni per le quali il giudice cambia, che evidentemente sono considerate convenzionalmente nobilissime e comunque insindacabili. Peccato che, nel 90% dei casi, sono ragioni di carriera: voglio cambiare sezione, o funzione, o sede, e quindi arrangiatevi. Da quando le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente sancito questi principi, e queste priorità valoriali, in tutti i Tribunali italiani si è scatenata – complici ovviamente anche le croniche carenze di organico – una sarabanda che definire indecorosa è il minimo che si possa dire. Inizi i processi con un giudice (o tre, se il giudizio è collegiale) e da quel momento assisti inerme a un continuo modificarsi del giudicante.

Recentemente a Roma un nutrito gruppo di valorosi Colleghi ha denunciato un caso che ha davvero dell’incredibile. Si tratta di un processo a carico di numerosi imputati di gravi fatti di estorsione ed interposizione fittizia, aggravate dal metodo mafioso. Ebbene, in un processo di questa complessità, che prevede in caso di condanna pene davvero molto gravi, è accaduto in pratica che in nessuna udienza il collegio fosse il medesimo dell’udienza precedente. Ad ogni udienza almeno un giudice, ma a volte anche due, erano nuovi. Facciamo qualche esempio, in modo che la denunzia del fatto non scolori in una eccessiva genericità.

Il Collegio che ammette le prove è subito diverso da quello che inizia a raccoglierle. E sia. Ma si veda l’esame delle persone offese: due udienze, alla seconda cambia un giudice. Esame – ovviamente cruciale – della Polizia Giudiziaria che ha svolto le indagini, e degli altri testi dell’accusa: cinque udienze. Dopo la prima udienza, a quella successiva ne cambiano due; alla terza altri due; alla quarta altri due, alla quinta uno. Udienze per esame testi della difesa: quattro, ad ognuna è cambiato uno dei tre giudici. Ma l’acme si raggiunge nella fase della discussione. La requisitoria del Pubblico Ministero avviene in presenza di due giudici nuovi su tre (e parliamo di due nuovi giudici che non avevano mai partecipato nemmeno ad una delle udienze precedenti).

Alla udienza fissata per l’inizio delle arringhe difensive, cambia nuovamente uno dei tre giudici, che però si rende conto di versare in una condizione di incompatibilità; quindi l’udienza viene sospesa, e si va alla ricerca di un qualsivoglia altro giudice che possa comporre il collegio. Quando infine si è trovato il malcapitato (che non sa nulla di nulla del processo, ovviamente, e non ha nemmeno sentito la requisitoria del pm), i difensori sollevano tutte le eccezioni possibili, ma il Tribunale ritiene di superarle senza battere ciglio. La fine della storia la apprenderemo dalle cronache.

Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti. Mettetevi nei panni degli imputati, con onestà intellettuale, e ditemi cosa provereste ad essere giudicati in queste inaudite condizioni. Ecco, quando si parla di regole processuali noi avvocati siamo sempre gli azzeccagarbugli che piantano grane per non fare i processi. Ed usiamo termini di difficile comprensione, quali appunto quelli del diritto alla “immediatezza del processo”. Forse oggi avete capito un po’ meglio di cosa stiamo parlando; e cioè della libertà e dei diritti fondamentali di tutti e di ciascuno di noi. E di come essi siano oggi quotidianamente mortificati ed umiliati, nel generale disinteresse. Si tratta, tuttavia, di non mollare; e noi, statene certi, non molliamo.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Respinta la richiesta di alcune ore di libertà: "Non è affidabile". Domiciliari isolato: “Ha 70 anni, non può fare neanche spesa: aveva provato a rubare un maglione”. Vito Califano su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

La denuncia del suo avvocato descrive un uomo solo in casa, con problemi di salute, agli arresti domiciliari nella sua abitazione dopo una condanna per il tentato furto di un maglione in un grande magazzino. Così solo che anche fare la spesa può diventare un’impresa. Quell’uomo ha 70 anni, leccese, e vive questa situazione dallo scorso agosto. E agli arresti domiciliari l’uomo dovrebbe rimanere fino al prossimo giugno.

Il legale Giuseppe Russo ha reso noto il caso, preoccupato dalla situazione soprattutto dopo che il magistrato del Tribunale di Sorveglianza ha respinto l’istanza avanzata per far ottenere alcune ore di libertà all’uomo per permettergli di uscire e provvedere egli stesso alle proprie necessità oltre che per favorire al condannato un graduale reinserimento sociale.

“Il magistrato ha ritenuto al momento di non accogliere la richiesta ritenendo il mio assistito non affidabile“, ha spiegato l’avvocato a Il Corriere del Mezzogiorno Puglia. “La sua è una situazione al limite del paradosso. Non ha nessuno. L’unica figlia dopo aver provveduto per alcuni mesi a lui, ora con la riapertura delle scuole, non può più perché lavora ed è madre di quattro figli – ha aggiunto ancora Russo – Senza nessun aiuto, ultrasettantenne, che deve fare questa persona da sola chiusa in casa, in questo rione dove non c’è niente nel raggio di due chilometri e non può neppure chiedere ad un vicino di comprargli del pane e della pasta?”.

L’avvocato ha precisato che il 70enne aveva ottenuto l’affidamento in prova ai servizi sociali alla fine del processo ma dopo aver tenuto alcune condotte illecite – sorpreso una volta alla guida senza patente e in compagnia di persone con precedenti penali – era finito agli arresti domiciliari.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Così il processo diventò vittima collaterale dell’emergenza terrorismo. La lotta alla mafia e al terrorismo hanno determinato una torsione di diritti e garanzie. È così che la magistratura ha perseguito non più il reato ma il fenomeno. Giorgio Spangher su Il Dubbio il 17 ottobre 2022.

Credo sia difficile delineare – anche solo parzialmente – la direttrice lungo la quale si è venuto evolvendo il sistema della giustizia penale, anche se lo si volesse limitare al processo penale. Ciò non significa che, seppure con i riferiti limiti, qualche riflessione non possa essere sviluppata.

È dato acquisito che la bonifica del codice di procedura penale avviata dalla Corte costituzionale si sia in qualche modo arenata con il dispiegarsi del fenomeno terroristico di matrice domestica. In quel tempo è chiaramente emersa la consapevolezza che significativi risultati in termini di accertamento di responsabilità potevano ottenersi non tanto con l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) quanto attraverso lo strumento del processo. È la cosiddetta stagione dell’emergenza, alla quale deve riconoscersi (o attribuirsi) il fatto di essere stata l’incubatrice delle modifiche sostanziali, ma soprattutto processuali, relativamente ai reati di criminalità organizzata.

Nascono e si sviluppano in questa stagione – dello stragismo e del terrorismo – le espressioni “lotta”, “contrasto” e “fenomeni criminali”. Inevitabilmente il processo subisce una “torsione” finalistica. Certamente vengono ridefinite le ipotesi delittuose, man mano che i fatti criminali evidenziano significative manifestazioni fattuali, ma è il processo, rimodulato nei suoi sviluppi e nei suoi strumenti, ad assumere rilievo. È inevitabile che la tenuta democratica del Paese, e la stessa tenuta delle istituzioni, siano messe a dura prova da una criminalità così strutturata se anche lo Stato, la magistratura, gli organi investigativi, l’intelligence, operando in sinergia, non affrontano con la legalità (le leggi del Parlamento) le diffuse e radicate questioni criminali che rischiano di minare la stessa sopravvivenza del Paese.

È inevitabile che, fermi i confini invalidabili tracciati dalla Corte costituzionale, spetti al Parlamento affrontare l’emergenza con leggi che mettono in tensione princìpi e garanzie. Democrazia e diritti, processo e criminalità. Su questo elemento, in qualche modo fisiologico del rapporto tra criminalità e giustizia penale si è inserito, spesso molto al di là del dato “fisiologico”, un elemento finalistico: l’azione di lotta e di contrasto, tesa non già al solo accertamento, ma per così dire finalizzata a piegare il processo al risultato di argine, non già al reato, ma al fenomeno, in una dimensione che, collegando i due elementi oggettivo e soggettivo, altera la natura e l’essenza del processo penale, strumento di verifica di responsabilità e di esistenza del fatto delittuoso.

Certo il processo, nato per verificare fatti isolati, spesso oggetto di semplice accertamento di responsabilità, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa, nonché nell’espansione territoriale dei fatti che supera gli ambiti ristretti delle competenze storicamente ritagliate per una diversa tipologia di reati. Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la politica, il Parlamento, la legge. Della predisposizione di questo strumentario, votato all’acquisizione di questo arsenale (ancorché non sacro ma egualmente funzionale) si è impadronita la politica, una larga parte della politica, mossa da esigenze securitarie, definite anche sovraniste e populiste, in quanto originate e alimentate dal cortocircuito tra politica (parte della società) e popolo (parte di esso) che lo ha progressivamente esteso e ne fa fatto una prospettazione sempre più ampia. In altri termini, il meccanismo ha progressivamente contagiato larghi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità.

Non sono mancate lungo questo percorso che ha attraversato la fine e l’inizio di questo secolo anche delle controspinte, evidenziatesi da interventi sulla Costituzione (art. 111), sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, con varietà di effetti che non hanno alterato, tuttavia, il non marginale retrogusto di sapore autoritario della nostra legislazione e della sua interpretazione giurisprudenziale. È facile attribuire a queste situazioni – vere o comunque di non agevole quantificazione – la responsabilità di una progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase investigativa delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice delle indagini preliminari che troppo spesso asseconda la Procura avallandone acriticamente le iniziative.

Sarebbe, tuttavia, riduttivo in contesti così complessi, attribuire solo a questo elemento la matrice del progressivo indebolimento dell’impianto garantista, al di là del vulnus di sistema determinato dalle notissime decisioni della Corte costituzionale del 1992, figlie della ricordata stagione. In altri termini, non sono solo le spinte e le propensioni riferite, a incidere sul sistema delle garanzie, ma altre visioni della funzione delle regole finiscono per intaccare, erodendole, quelle forme consolidate di tutela dei diritti non solo individuali, ma che pur sotto questa dimensione incidono su aspetti di garanzia più ampi.

Il riferimento è alle istanze sempre più accentuate tese alla semplificazione, all’economicità, alla compressione temporale, alla dimensione sostanzialistica, alla smaterializzazione in una dimensione ispirata ad una logica di funzionalità della macchina giudiziaria. Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano un’agenda di riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici, attraverso azioni organizzative che non sono mai solo tali, essendovi sottese scelte processuali valoriali; governata dalla giurisprudenza cosiddetta creativa, finiscono per modellare il processo in termini di efficienza, pur nell’affermata esigenza, ritenuta però in qualche modo subvalente, delle garanzie. Invero, non è un elemento inedito, al quale sono funzionali istituti come le sanatorie, la mera irregolarità, il raggiungimento dello scopo, gli oneri a carico delle parti private, la natura ordinatoria dei termini, la sanzione di inammissibilità.

Sono tutte occasioni per adeguare il rito, come – ecco il riferimento al virus – nel caso dell’emergenza epidemiologica, colta quale occasione per adeguare i comportamenti alle mutate situazioni ambientali, per poi trasformare le eccezioni, destinate alla temporaneità, in regole permanenti. Al rispetto formale delle regole, si affianca una interpretazione meno rigorosa, sfocata che tende a fare del giudice il codificatore delle regole attraverso la prassi e i comportamenti formalmente non irrituali, spesso delineati attraverso correzioni attuate anche con la softlaw (normativa secondaria). La logica si attua anche attraverso percorsi processuali acognitivi e induzioni a comportamenti che pongono alternative da “soave inquisizione” suggerendo adesioni vantaggiose a fronte di incerti esiti processuali.

La logica dell’accertamento investigativo, del resto, non si innesta in una fase a forte connotazione garantista, come era alle origini del modello accusatorio, ma in un percorso ibrido, con accentuati recuperi del materiale d’accusa e da marcati interventi del giudicante. C’è sicuramente diversità tra una consapevole – ancorché agevolata – accettazione delle proprie responsabilità, alla quale non è estranea anche una funzione rieducativa, ed una scelta indotta da molteplici fattori condizionanti (economici, sociali), oltre a quelli più strettamente processuali. Inevitabilmente, l’accentuazione dell’autoritarismo favorisce logiche ispirate a deformare il processo dei suoi connotati storici per collocarlo in una dimensione efficientista, spesso ispirata ad altri modelli processuali dalle cui impostazioni siamo lontani per la forte diversità dei contesti storici, politici e strutturali di quelle giurisdizioni.

Entro questa tenaglia – da un lato pulsioni autoritarie e dall’altro propensioni efficientiste, anche variamente combinate tra loro – si snatura il senso “classico” e “storico” del processo penale, che spesso smarrisce la propria essenza. Per un verso, in relazione alle emergenze criminali (o presunte tali) si accentuano le spinte repressive; dall’altro, per la criminalità a medio-bassa intensità si pregiudica la sua natura sostanziale-qualitativa che le è propria, considerati i valori in gioco, per approdare a una burocratico-quantitativa di impostazione quasi aziendalista che dovrebbe esserle estranea, sempre considerati i beni coinvolti.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 12 ottobre 2022.

Cos' hanno in comune il tossicodipendente marocchino Youssef Fahmi e il grande imprenditore vinicolo ed ex monarca della Banca Popolare di Vicenza Gianni Zonin? 

L'immigrato disoccupato, sbandato e schiavo dell'eroina e l'imprenditore-banchiere sono stati condannati alla stessa pena: poco meno di quattro anni di carcere. Per l'esattezza, il tossico si è beccato tre anni e otto mesi per avere preso per il collo un ragazzo rubandogli nel marzo 2020 uno smartphone per strada, il banchiere a tre mesi in più (tre anni e undici mesi in appello: la metà della condanna in primo grado) perché ritenuto il principale responsabile del buco di oltre 6 miliardi di euro della Bpv che ridusse sul lastrico 127 mila risparmiatori italiani concentrati soprattutto nel mitico Nordest.

Due pesi e due misure così abissalmente sproporzionati da togliere il fiato. 

Tanto più davanti alla lettura degli atti della commissione d'inchiesta usciti proprio in questi giorni. Basti prendere la deposizione in Parlamento di Marino Smiderle, il cronista (oggi direttore del Giornale di Vicenza ) che più ha seguito tutta la vicenda. Dove si ricordano gli inaccettabili vuoti legislativi sulle responsabilità delle «società cooperative a responsabilità limitata non quotate, nel caso specifico, banche popolari non quotate» che permisero a chi le guidava «di rimanere al comando per decenni senza detenere quote di capitale significative» e costruire castelli di carta nel silenzio (se non talora tra gli elogi) di chi doveva controllare, inclusa Bankitalia.

Fino al crac di Lehman Brothers, quando le banche precipitarono e gli azionisti della Popolare berica esultavano: «Noi siamo sempre attorno ai 60 euro!» Una quotazione casareccia. Fasulla. Che per altri cinque anni illuse tutti, fino all'obbligo della trasformazione in Spa imposto dall'Europa e introdotto dall'oggi al domani da Renzi, e tutto crollò. Travolgendo i risparmiatori che, imbrogliati dai funzionari delle filiali Bpv (loro stessi imbrogliati e rovinati dai vertici) avevano addirittura finanziato nuovi aumenti di capitale convinti di aver messi «i schei» al sicuro come fossero depositati «nel "libretto" o, come la chiamava Zonin, nella "musina"». Cioè il salvadanaio di cui si fidavano ciecamente perché veneto: «nostro, de nialtri». Un'illusione tradita.

La classifica del Sole 24 Ore: la città è decima. Perché a Napoli i cittadini denunciano meno che nelle altre città: la storia del salumiere Scarciello. Francesca Sabella su Il Riformista il 4 Ottobre 2022. 

Il Sole 24 ore ha tracciato la “mappa del crimine” con informazioni estratte dalla banca dati interforze dal dipartimento di Pubblica Sicurezza del ministero dell’Interno relative all’anno 2021. Ebbene, con grande sorpresa, soprattutto di coloro che continuamente indicano Napoli come la città peggiore del Paese, è Milano la città nella quale si consumano più reati e si registra il maggior numero di denunce. Ora, frenate l’entusiasmo, siamo comunque alla decima posizione nella top ten delle grandi città con più reati, ma c’è da dire anche che qui i cittadini sono più restii a denunciare. Andiamo con ordine.

Milano, quindi, si conferma al vertice dell’Indice della criminalità, che entrerà nell’indagine della Qualità della Vita 2022 a fine anno, con 193.749 reati denunciati nel corso del 2021: 5.985 ogni 100mila abitanti. Per dare un peso al fenomeno, la cifra risulta pari alla somma di tutti i crimini denunciati nello stesso arco di tempo a L’Aquila, Pordenone e Oristano, le tre province con meno densità di illeciti che si posizionano in fondo alla classifica. E così tra le 107 province italiane Milano è quella con più furti rilevati ogni 100mila abitanti, in particolare nei negozi e nelle auto in sosta; è settima per denunce di violenze sessuali; seconda per rapine in pubblica via; terza per associazioni per delinquere. Seguono per densità di crimini le altre grandi città: tra le prime dieci classificate si incontrano – oltre a Milano – anche Torino (3ª), Bologna (4ª), Roma (5ª), Firenze (7ª) e Napoli (10ª).

Sì, la sorpresa: Napoli è in fondo alla classifica per densità di atti criminali. Ma è prima per furti con strappo e di motocicli, ma anche di contrabbando. Ma qui c’è un ragionamento importante da fare: più denunce, però, non significa per forza meno sicurezza. Ma anche perché i dati sulle denunce riflettono la propensione dei cittadini a presentarle, legata a diversi fattori: la differente “soglia del dolore” della cittadinanza verso il crimine; il grado di fiducia nelle forze dell’Ordine; la più o meno efficace presenza delle istituzioni sul territorio. Soffermiamoci sulla propensione dei cittadini di Napoli a sporgere denuncia, sono centinaia le storie degli imprenditori che raccontano della paura di denunciare e rimanere poi soli, abbandonati dallo Stato e preda della criminalità organizzata che si ha avuto il coraggio di denunciare.

L’omertà non è un problema solo del Sud, sia chiaro, ma che qui le istituzioni abbiano abbandonato fette delle città è altrettanto chiaro e che questo si rifletta in una sfiducia nei confronti di forze dell’ordine e politica, anche. La frase che centinaia di volte abbiamo sentito dire è “ma che denuncio a fare” oppure “se denuncio mi fanno pure qualcosa”. Sono frasi che fanno parte del quotidiano di questa città. La sfiducia nelle forze dell’ordine e nella giustizia c’è e ed è concreta. Certo il decimo posto fa piacere, ma bisogna considerare il perché Napoli va a guadagnarsi l’ultima posizione. Basti pensare che in città la metà dei cittadini non denuncia i reati di camorra per paura di ritorsioni. Parliamo di un numero enorme di reati che non compaiono nei database della Polizia e quindi nelle classifiche. E basta ricordare due storie che fanno parte di una lista lunghissima di imprenditori che hanno denunciato e poi sono rimasti soli.

Luigi Leonardi, denunciò la camorra che gli chiese il pizzo per il suo negozio di articoli di illuminazione, lasciato solo dallo Stato e poi addirittura sospettato lui stesso di aver commesso un reato. Lui come il salumiere Ciro Scarciello che dopo aver denunciato la camorra, fu costretto a chiudere il suo negozio a Forcella. Sono solo alcuni esempi. Una bella notizia il decimo posto per Napoli, ma guardiamo oltre i numeri.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Risarcimento del danno: tutto quello che c'è da sapere. Il risarcimento del danno, sia questo patrimoniale o non patrimoniale, ha una logica proprietaria che si estende al diritto penale come a quello civile. Ecco come funziona. Giuditta Mosca il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.

I criteri del risarcimento del danno hanno una natura variegata e complessa che vive di un lessico proprio e che va approfondita per carpirne la filosofia e gli obiettivi di fondo. Qui si parla delle responsabilità contrattuali ed extracontrattuali e delle pratiche risarcitorie in ambito penale e civile, proponendo al lettore le sentenze che evidenziano i principi e il funzionamento delle logiche attualmente applicate nell’ordinamento giuridico italiano. Partiamo dalla definizione di risarcimento del danno.

Il risarcimento del danno

È descritto all’articolo 2043 del Codice civile il quale sancisce come un atto doloso o colposo che arrechi un danno ingiusto debba essere risarcito da chi lo cagiona. Il medesimo articolo rimanda al capo 2058 che assume importanza, giacché prescrive che il danneggiato può chiedere la reintegrazione in forma specifica ma anche che il giudice possa decidere altrimenti se questa risulta insopportabile per chi deve risarcire il danno.

In parole più immediate, qualora fosse danneggiato un bene fisico, se ne può chiedere la sostituzione o l’equivalente in denaro per ripararlo. Il giudice può decidere per quest’ultima se il debitore non può affrontare il costo della sostituzione integrale. La legge è orientata a riconoscere la reintegrazione della forma specifica perché è quella che più tiene conto dell’interesse del danneggiato e del danneggiatore e che meglio incarna i principi di solidarietà descritti nell’articolo 2 della Costituzione.

Il danno può avere un’origine illecita contrattuale, extracontrattuale oppure precontrattuale. Nel primo caso ci si trova nell’ambito di una condotta che lede i principi stabiliti in un contratto mentre, nel secondo caso, vengono lesi i principi della convivenza della comunità. La responsabilità precontrattuale ricorre nel momento in cui, nella fase in cui si sta formando un contratto, una delle parti non rispetta gli obblighi eventualmente previsti. Per tutte queste tre condizioni valgono le sanzioni del codice civile, ossia il risarcimento del danno.

Responsabilità civile e responsabilità penale

Quando si lede una delle norme del diritto civile si creano i presupposti per l’omonima responsabilità. In questo ambito si situano, per esempio, la responsabilità medica, quella degli avvocati e dei professionisti in genere. La responsabilità civile prevede il risarcimento del danno che consta sia dei danni patrimoniali che di quelli non patrimoniali, ossia i danni alla persona.

A differenza di quanto si possa credere, la differenza tra responsabilità civile e penale non ha nulla a che vedere con la gravità del fatto, ma riguarda la natura delle norme violate e nelle sanzioni che queste comportano. Nei perimetri della causa civili si può ottenere un risarcimento del danno, nei confini della legge penale si situano invece le applicazioni delle pene.

L’indennizzo

Come scritto, il risarcimento del danno è il metodo usato per rimediare a una condotta illecita e ha il compito di ripristinare la situazione a come era prima che il danno fosse inferto. L’indennizzo esce da questo canone ed è di norma riconosciuto a chi ha subito un pregiudizio non proveniente da un atto illecito o da responsabilità civile. I libri di legge citano come esempio quello dell’espropriazione per pubblica utilità. Pure essendo del tutto lecita, chi perde la proprietà che possedeva riceve un indennizzo, ovvero una indennità.

I danni non patrimoniali

Quando il danno è facilmente quantificabile, per esempio la riparazione di un veicolo coinvolto in un incidente, la situazione è chiara e l’importo del risarcimento anche. Quando si entra nella complicata materia dei danni non patrimoniali, ossia i danni alla persona, la questione si fa più interessante.

Il danno non patrimoniale identifica i pregiudizi che susseguono la lesione dei diritti della persona e non hanno rilievo economico. Frase che merita un approfondimento e che non si esaurisce nelle disposizioni dell’articolo 2059 del Codice civile il quale è stato reinterpretato da quelle che sono note con il nome di “Sentenze di San Martino”, ovvero le sentenze 26972, 26973, 26974 e 26975 dell’11 novembre 2008 che hanno chiarito quali sono le voci che sottostanno al risarcimento in caso di danno alle persone. Il danno non patrimoniale è stato quindi circoscritto a quello biologico e quello morale ed esistenziale che meritano di essere quantificati come voci distinte e non più tutte insieme.

Il danno biologico è estensione dell’articolo 139 del Codice delle assicurazioni private e, pure riferendosi a lesioni di entità non superiori al 9% di invalidità causate da sinistri stradali, viene applicata a tutte le situazioni nelle quali un individuo subisce danni causati da condotte illecite. Rientra quindi nella sfera del danno biologico, per esempio, anche la responsabilità medica.

Si parla quindi di microlesioni che, per la disciplina, sono quelle temporanee o permanenti che hanno conseguenze sulle attività quotidiane e sulla vita relazionale di chi le ha subite. In questa definizione non sono però contemplate le ripercussioni che le lesioni hanno sulla capacità del danneggiato di produrre reddito.

Le lesioni superiori al 9% vengono quantificate in base alle “tabelle di Milano” le quali sono punto di riferimento in tutto il Paese.

Il danno esistenziale è argomento controverso, perché con il passare degli anni diverse sentenze della Cassazione hanno più volte corretto il tenore del danno esistenziale volendolo prima collegare a quello morale e poi ritornando a uno stato in cui le due tipologie di danno fossero da considerare ognuna per sé. Ciò che ne è emerso è che il danno esistenziale può essere riconosciuto a fronte di un fatto che lede i diritti inviolabili di una persona. Deve trattarsi di una lesione di un certo rilievo (per quanto il termine possa essere vago) e il danno non può essere una condizione di fastidio o di disagio.

Il danno morale riguarda una lesione fisica o la perdita di un congiunto o di una persona cara e si propone di riparare una sofferenza "interiore". Il danno morale veniva riconosciuto solo alle vittime di reati penali ma, con gli interventi della Cassazione, accompagna di norma il danno biologico e, anche in questo caso, non è collegato alla capacità del danneggiato di generare reddito. Per la Cassazione deve trattarsi di un dolore sofferto che non degeneri in conseguenze patologiche. Poiché il danno morale rimanda al danno biologico, non obbliga chi ne soffre di richiederne esplicitamente il risarcimento, è di fatto sufficiente aumentare l’importo del danno biologico.

Il risarcimento del danno patrimoniale

Riguarda gli impatti che un illecito extracontrattuale ha sul patrimonio del danneggiato. È disciplinato dagli articoli 1223, 1226 e 2056 del Codice civile e si suddivide in:

Danno emergente, ossia un danno immediato che impatta sulla diminuzione delle sostanze patrimoniali del danneggiato. Un esempio è riconducibile alle spese necessarie alla riparazione di una vettura in seguito a un sinistro ma anche ai costi di un intervento reso necessario da una prestazione male effettuata da un professionista.

Il lucro cessante è relativo al danno futuro di un mancato guadagno. Il risarcimento è riconosciuto dal giudice soltanto quando c’è la certezza oppure una prova rigorosa della sua probabilità.

I criteri per il risarcimento

Vigono tre criteri: il risarcimento in forma specifica, il risarcimento equivalente e la via equitativa.

Il risarcimento del danno in forma specifica permette di ripristinare la situazione a come era prima del danno. Se questa formula risulta onerosa per chi è chiamato a risarcire, il giudice può ricorrere al risarcimento equivalente che, peraltro, è la via più canonica mediante la quale un giudice individua una somma che traduca in denaro il valore il danno.

Infine, il risarcimento del danno in via equitativa, è la formula usata quando un danno è certo ma difficilmente quantificabile. Si applica sia alle violazioni di tipo contrattuale sia a quelle extracontrattuali e, nel valutare il risarcimento, occorre esaminare la specificità del singolo caso senza sovrastimarlo o sottostimarlo.

E nel processo penale?

La persona offesa può chiedere il risarcimento del danno cagionato da un reato e, per farlo, può:

Costituirsi parte civile nello svolgimento del procedimento penale.

Avviare un’azione risarcitoria in ambito civile. In questo caso il processo civile è del tutto scisso da quello penale e, per principio, l’esito di un procedimento non inficia sull’altro, a meno che sul fronte penale non si sia già giunti almeno alla sentenza di primo grado

Gli illeciti di natura penale danno accesso al risarcimento del danno morale.  

Settant’anni di processo per un’eredità: «Una vita persa a cercare giustizia». La denuncia: «Ormai non ne vale più nemmeno la pena: per pagare tutte le spese non basterebbe l’intera proprietà di cui stiamo discutendo ormai da una vita». Simona Musco su Il Dubbio l'1 settembre 2022.

«Ormai non ne vale più nemmeno la pena: per pagare tutte le spese non basterebbe non solo la mia parte, ma l’intera proprietà di cui stiamo discutendo ormai da una vita». Se mai servisse un esempio concreto della lunghezza dei processi civili in Italia, la storia di Antonietta Caparra e suo marito Vincenzo Crea sarebbe da manuale. I due, infatti, da 70 anni combattono in tribunale per poter finalmente mettere le mani sull’eredità lasciata alla donna dal padre, Salvatore Caparra, deceduto nel 1952. Antonietta, ultima sopravvissuta di 10 figli, ha infatti dovuto affrontare il giudizio di divisione ereditaria prima contro i quattro fratelli e poi contro gli eredi, «detentori a non domino dell’intero compendio ereditario».

Il giudizio, dopo 18 sentenze intermedie di tutte le giurisdizioni a favore della donna, si è inceppato per ben 14 anni davanti alla Corte d’appello di Catanzaro, che solo nel 2019 si è pronunciata, di fatto confermando la divisione decisa dal Tribunale di Crotone in primo grado nel 2005. Ma il 21 ottobre 2021, la Corte di Cassazione ha deciso di rinviare tutto di nuovo davanti ai giudici del capoluogo calabrese, dove ora inizierà un nuovo giudizio d’appello. A 87 anni, dunque, Antonietta Caparra nei suoi terreni non ha potuto piantare nemmeno una piantina. Così nel 2018 ha deciso di presentare un esposto al Csm, chiedendo di fare chiarezza sul comportamento dei giudici che si sono occupati del caso, rei, secondo la donna e il marito, di aver perso colpevolmente tempo. Quell’esposto, racconta oggi al Dubbio Vincenzo Crea, ex avvocato, è però finito nel nulla. «Ci è stato detto di rivolgerci all’autorità ordinaria», ha evidenziato l’uomo, che per risolvere la questione dovrebbe, dunque, rivolgersi ancora una volta ai giudici. Antonietta e suo marito le hanno provate tutte: dalla protesta con il presidente del tribunale a quella col giudice istruttore, passando per un appello al ministro della Giustizia. E nel frattempo hanno continuato a spendere soldi, osservando quel patrimonio farsi via via più esiguo, da dividere per un numero sempre crescente di eredi.

«Abbiamo già speso centinaia di migliaia di euro tra avvocati, perizie e viaggi. Ne avremo fatti almeno 400 – avevano protestato -. E nonostante tutto non abbiamo mai potuto mettere mano alle risorse che stiamo reclamando. Eppure ci sono diverse perizie a nostro favore. Non vogliamo niente di più rispetto a quello che ci tocca, solo la nostra parte». Anche perché, dicono i due, i giudici hanno più volte ribadito il diritto di tutti i figli all’eredità, disponendo la consulenza tecnica per determinare a chi assegnare cosa. La quota della signora Antonietta, però, nel frattempo è passata da 160 a 16 ettari. «Alla morte di mio padre ero appena tredicenne e quindi alla mercé dei miei fratelli, patologicamente attaccati alla terra», aveva segnalato nel suo esposto al Csm. Il processo d’appello, iniziato nel 2005, per anni è stato scandito da udienze interlocutorie ed inutili, «riservando le stesse domande platealmente infondate e più volte rigettate». Fino ad una sentenza interlocutoria «fuori del diritto», affermano, avendo escluso dalla collazione 533 ettari. «Esclusione illegale, non solo sotto il profilo costituzionale, ma anche perché le donazioni sono state concesse con la clausola donativa come “anticipata quota sulla futura quota legittima”, chiaramente implicante la collazione, totalmente ignorata in sentenza, come se non esistesse, dando luogo ad una sentenza antigiuridica e inqualificabile che favorisce i donatari, abusivi detentori dell’intero compendio dal 1952», si leggeva nell’esposto.

Una situazione che, dopo 50 anni di contenzioso, ha depauperato le risorse economiche della famiglia. Nel 2019, finalmente, la Corte d’appello di Catanzaro ha deciso la restituzione dei beni in conformità del progetto di divisione precedentemente approvato. E in nome del giusto processo e del principio di ragionevole durata, i giudici avevano applicato quanto previsto dal decreto legislativo numero 154 del 2013, contenente la disciplina transitoria della riforma della filiazione di cui alla legge numero 219 del 2012. Secondo i giudici di appello, dunque, la parificazione compiuta da tale legge tra i figli nati al di fuori del matrimonio e quelli invece nati all’interno del matrimonio era applicabile alla causa in questione, risolvendo la controversia in base alla norma sopravvenuta e, quindi, confermando quanto deciso in primo grado, circa la necessità di tenere conto anche delle donazioni ai fini della collazione. Secondo la Cassazione, però, la sentenza d’appello sarebbe errata «nel momento in cui, sia pur facendo richiamo all’intervento dello ius superveniens, ha disapplicato indebitamente le decisioni prese in punto di collazione con la precedente sentenza, in quanto in tal modo, ancorché motivando con il riferimento all’art. 111 Cost., ha riconosciuto un diritto senza che però fosse stata validamente proposta la domanda, in quanto la riforma della decisione non definitiva doveva avvenire tramite la sua impugnazione».

Insomma, come in un eterno gioco dell’oca, i protagonisti della vicenda sono costretti a tornare indietro di una casella, ancora una volta. «Mia moglie ha 87 anni e diverse patologie: in questo modo verrà privata della legittima, perché bisognerà rifare il progetto di divisione – spiega Crea -, il che richiederà anni. E la prima udienza è già stata rinviata al 6 dicembre». Un vero e proprio calvario per i due, che avevano denunciato l’irragionevole durata del processo a Palazzo dei Marescialli. «L’eccessivo tempo trascorso è di per sé dimostrativo di gravi responsabilità – aveva sottolineato Caparra -. La magistratura rappresenta un baluardo di legalità a cui nessun magistrato deve discostarsi».

Giustizia ingiusta. Prima in carcere e poi a processo: una persona su tre aspetta la sentenza dietro le sbarre. Viviana Lanza su Il Riformista il 28 Luglio 2022. 

Carcere, diritti, giustizia. Se ne tornerà a parlare durante la prossima campagna elettorale, c’è da aspettarselo. Questi argomenti sono in genere molto buoni per riempire di contenuti discorsi e proclami politici, salvo poi essere abbandonati nel deserto di iniziative che separa le parole dai fatti. Uno degli scogli più grandi da superare, per chi davvero volesse affrontare seriamente il tema carcere è quello della detenzione preventiva. Cioè, il ricorso alla custodia cautelare che da extrema ratio, da adottare in casi di conclamata e reale pericolosità sociale, è finita per essere una pratica molto usata dai pm.

Tutto questo, in un sistema giustizia che non funziona come dovrebbe e che ha tempi di definizione dei processi estremamente lunghi, biblici si direbbe, genera drammi e casi di malagiustizia. Perché? Perché in molti casi la custodia cautelare si tramuta in una sorta di anticipazione della condanna, a prescindere quindi dall’esito del processo: della serie, prima ti sbattiamo in carcere e poi verifichiamo se sei innocente o no. Nei paesi dell’Unione europea un detenuto su cinque si trova in cella pur non essendo stato condannato per alcun crimine. SI contano in totale oltre 98mila persone in detenzione detentiva. In Italia circa un terzo della popolazione è in carcere in via cautelare. In Campania idem: su 6.687 detenuti presenti nelle carceri della regione si contano 4.367 detenuti con almeno una condanna e 2.500 che sono invece in cella senza ancora una condanna definitiva.

Tutto questo – sottolinea Openpolis riportando i dati di un’inchiesta di Deutsche welle – accade «nonostante gli studi suggeriscano che la detenzione preventiva, nella maggior parte dei casi, non sia necessaria. Oltre al fatto che ricorrere a modalità alternative per gestire persone non ancora condannate aiuterebbe a contestare il sovraffollamento carcerario. Un problema sentito in tutti i Paesi dell’Unione europea». Già, il sovraffollamento quello che ogni politico in campagna elettorale promette di voler contrastare e che poi puntualmente ignora. È bene ricordare che quando si parla di detenzione preventiva si parla di presunti innocenti per i quali non c’è stata ancora una sentenza, non una condanna definitiva. «Come evidenzia l’ultimo report del Consiglio d’Europa – ricorda Openpolis – si tratta di quasi 100mila persone detenute senza condanna per periodi estremamente variabili, che possono essere di alcuni mesi come di più di un anno, a seconda del Paese». Secondo gli studi condotti sulla detenzione preventiva, la maggior parte delle persone detenute preventivamente sono accusate di aver commesso crimini minori e in prevalenza sono stranieri, disoccupati e senzatetto.

Dati che stridono enormemente, soprattutto in Italia, con i principi costituzionali per cui il carcere dovrebbe essere l’extrema ratio e non la soluzione ai drammi sociali e alle carenze delle istituzioni. Se si considera la condizione delle carceri in Europa, e in Italia (pensiamo, noi che siamo napoletani, a quel che sono Poggioreale, per esempio, carcere vecchio e superaffollato, o Santa Maria Capua Vetere, carcere senza acqua potabile), è chiaro che la detenzione preventiva si rivela particolarmente dura e devastante per una persona innocente fino a prova contraria. «Le persone possono essere rinchiuse per 23 ore al giorno e avere pochi contatti con il mondo esterno e poche attività a disposizione per trascorrere il tempo. Come mostra un recente studio – si legge nel report sulla detenzione preventiva – le misure di reintegrazione come il lavoro e i programmi sociali non sono messe a disposizione dei presunti innocenti, i quali sono inoltre esposti a una condizione di forte incertezza rispetto al proprio futuro». Una devastazione nella vita di troppi: dagli studi è emerso, infatti, che circa la metà dei casi di custodia cautelare terminano senza una condanna.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Vite sospese per anni, impigliate nell’attesa di un verdetto. Una malattia chiamata processo: quando tutto termina assolti o condannati resta un vuoto. Alberto Cisterna su Il Riformista il 21 Luglio 2022. 

Esistono i “nonluoghi” insegnava Marc Augè. Spazi in cui le vite degli uomini si incrociano, si sfiorano senza tessere tra loro alcuna relazione. Ambiti in cui non si consuma neppure l’apparenza di un rapporto, in cui le individualità si contano, si sommano, ma senza che ciascuna vita abbia la minima rilevanza in sé considerata per gli altri. Trovarsi imputato in un processo, rispondere di un reato per anni e anni crea un “nonluogo” dell’anima, uno spazio indeterminato in cui la vita fluttua nella sola attesa di un verdetto.

Certo non tutta la vita, ma una parte importante di essa resta come sospesa, impigliata: aspetta, spera, dispera, impreca, blandisce, teme, minaccia. Sentimenti sprecati, emozioni indotte, paure provocate, speranze ondivaghe.  Quando tutto termina, quando l’innocenza risuona si ha l’impressione di un vuoto da colmare, di nuove emozioni da sperimentare, di un guado da cercare nel fiume impetuoso della vita, forse, un po’ più a monte o, forse, un po’ più a valle e, comunque, altrove. Certo la malattia genera paesaggi interiori in gran parte simili. La guarigione lascia l’anima senza un obiettivo preciso da raggiungere e senza lo scopo verso il quale era proteso fino a poco prima ogni soffio vitale. La vita sanata dal male resta priva di quel velo di incertezza e di inquietudine che la rendeva, comunque, tenace, fragile, reattiva.

Poi tutto riprende a scorrere: un po’ più in là, in un altro punto. Nel punto in cui i rugosi e taglienti canali carsici della sofferenza restituiscono l’acqua alla luce del sole dopo averla imprigionata in mille meandri e dispersa per mille anfratti bui e tortuosi. Accettare il processo come si accetta una malattia, sperando in un’assoluzione che possa suonare come una guarigione. Ma assolti o guariti il problema resta lo stesso: dove guadare nuovamente il torrente dell’esistenza, a partire da quale roccia saltare gli argini per fare rientro a casa.  L’illusione di tornare indietro, di poter volgere lo sguardo a un passato divenuto irraggiungibile e che, quindi, è definitivamente seppellito. Peggio, crogiolarsi nella retorica dell’ingiustizia, dell’autocommiserazione affidandosi al vaticinio ingannatore di una ricompensa impossibile, credendo alle sirene di una riparazione che nessuno può dispensare.

Oppure tener dritto lo sguardo in avanti e riprendere la vita esattamente nel punto in cui era stata sfregiata; senza rievocare sogni e progetti, divenuti ormai fantasmi, ma anche senza rinunciare al tentativo di riannodare fili, di ricomporre la tela, di ultimare i dettagli di un bozzetto rimasto incompiuto e senza autore per un calcio sferrato alla tavolozza dei colori.  Quando uno dei più importanti intellettuali del secondo scorso, cacciato dal fascismo e privato della sua cattedra universitaria, fece ritorno – oltre venti anni dopo – nel suo ateneo trovò ad attenderlo i suoi nuovi studenti. Non erano, certo, quelli della sua ultima lezione bruscamente interrotta dai picchiatori in camicia nera. Erano altri, molti dei quali neppure nati al tempo dell’infamia. Il professore si accomodò sulla sua cattedra, la stessa di quel giorno di vergogna, sfogliò lentamente il libro di testo in un silenzio composto, alzò lo sguardo verso quei ragazzi e disse: «allora, se non sbaglio, eravamo rimasti a pagina…». Alberto Cisterna

La macchina della giustizia è in ginocchio: a forza di riforme non ci sono più giudici. Pensionamenti, stop ai concorsi, improcedibilità. Nell’organico mancano 1.442 magistrati e ci vorranno tre anni per vedere all’opera i nuovi assunti. E così i processi vanno al macero. Simone Alliva su L'Espresso il 18 Luglio 2022.

L’allarme lanciato dal Consiglio superiore della magistratura si dipana sotto silenzio, in tono minore. Scivola nella categoria “notizie smarrite”, quelle che circolano per un momento e poi si estinguono senza che nessuno le raccolga, sopraffatte dall’ondata delle altre. In tutta Italia mancano 1.442 magistrati rispetto quelli previsti in organico. Il tasso di scopertura a livello nazionale si avvicina ormai al 15 per cento.

L’enorme carico di lavoro vale bene un sotterfugio. I processi e la teoria della finzione: l’enorme carico di lavoro è solo un sotterfugio. Andrea R. Castaldo su Il Riformista il 17 Luglio 2022.

Make-believe è un’efficace espressione inglese che fotografa alla perfezione lo stato attuale della giustizia penale in Italia. Non esiste una parola corrispondente precisa in italiano, ma traducendo con ‘fare finta’ si rende bene l’idea. Come ben sanno attori e comprimari (avvocati, ma soprattutto imputati e vittime) che affollano quotidianamente i Tribunali, da anni va in scena lo spettacolo ormai rodato della finzione. E i segnali provenienti da differenti contesti non sono incoraggianti, al contrario inclinano al pessimismo. E allora proviamo a mettere ordine, quanto meno per dismettere quel velo di ipocrisia e retorica che peggiora la situazione.

Cominciando dalla definizione. Ora, la finzione ha un doppio volto e ciascuno di noi può scorgervi quello preferito. Nel linguaggio comune, la fictio viene convenzionalmente associata all’idea di menzogna, di inganno; ma nella versione nobile e più sofisticata assume contorni quasi positivi. Infatti, per i filosofi del finzionalismo la finzione svolge un ruolo fondamentale nell’individuazione della realtà, sino a costituirne una forma di manifestazione. Non resta che applicare il principio nella prassi. Entrando in un’aula di Tribunale qualsiasi in un giorno qualsiasi, l’incauto osservatore si troverà di fronte un ruolo di udienza particolarmente carico, anche di 30-40 processi. Una concezione meccanica della giustizia, che si muove per numeri e statistiche. Ma dietro l’assurdità delle cifre compaiono con prepotenza le persone e le loro storie, in un tessuto di sofferenze che coinvolge indifferentemente autore e vittima del reato. E dove lo sbocco finale inevitabilmente deluderà una parte. Ma la quantità non è l’unico problema, forse neppure quello maggiormente rilevante. Intanto è da considerare il peso. In senso fisico e virtuale.

Ogni fascicolo è composto da molte, troppe pagine, spesso da atti inutili. Un peso che si trasferisce sulle spalle del giudice, sotto forma di zavorra, che dovrà decidere. E per leggere (tutto?) occorre tempo e per comprendere e valutare ciò che si legge ne occorre di più. Peraltro, a ogni stazione della via crucis (le diverse fasi e i vari gradi del giudizio) il peso aumenta. Ora, bisogna compiere un ulteriore sforzo e dalla immaginazione calarsi nella realtà. Il nostro processo penale è (o almeno dovrebbe essere) imperniato sul modello accusatorio. In parole semplici, significa che la prova si forma nel contraddittorio tra le parti dinanzi a un giudice terzo, privilegiandosi oralità e celerità. Ma se il dibattimento si celebra a distanza di anni dai fatti, l’attendibilità dei testimoni è inevitabilmente compromessa e i ‘non ricordo’ vengono costantemente suppliti dalle precedenti dichiarazioni scritte. La finzione si autolegittima. Ma il giudice, dopo l’esame di quel teste, non si ritira in camera di consiglio; semplicemente, rinvia a una prossima udienza; che si terrà a distanza di mesi, o addirittura di un anno.

Con l’inevitabile conseguenza che il suo giudizio si fonderà sulla trascrizione fredda nei verbali e non nelle ‘sensazioni’ raccolte in presenza. La ciliegina sulla torta è che sarà molto probabile che il giudice (monocratico o collegiale) che emetterà la sentenza non sarà neppure colui che ha partecipato alle precedenti udienze. L’immutabilità del decisore, un principio di civiltà ancor prima che di diritto, è stata infatti sacrificata sull’altare del pragmatismo nell’orientamento giurisprudenziale attuale, ammettendosi in buona sostanza la deroga, sulla base del consenso delle parti e con qualche garanzia formale e non sostanziale. Di nuovo la teoria della finzione. Se si prova a trasferire questo desolante affresco nei processi di criminalità organizzata o con una molteplicità di imputati, o dalle contestazioni tecniche, il modello (concreto) che viene fuori è francamente impressionante. Eppure, è ciò che quotidianamente si avvera in Italia.

Con l’aggravante che le indagini replicano il sistema della pesca a strascico: prendere ogni carta possibile per la selezione futura. ‘Fare finta’ diventa dunque una necessità: il carico di lavoro per essere smaltito vale bene un sotterfugio. La finzione della conoscenza e dello studio si accompagna però sul versante psicologico all’alibi del principio di affidamento, noto soprattutto nel lavoro di équipe. Confidare cioè nella correttezza e diligenza professionale di terzi. Che si traduce nel processo penale nel neutralizzare il senso di colpa auspicando che qualcun altro nella cinghia di trasmissione del processo avrà tempo (e voglia) di leggere e studiare. Make-believe, per l’appunto. Andrea R. Castaldo

Milano, il paradosso del processo ai quattro operatori Amsa: stesse accuse, ma tre modalità di pena diverse. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.  

Due uomini e due donne hanno perso il posto perché filmati mentre portavano via alcuni oggetti destinati alla ricicleria di via Corelli. Ma due hanno avuto la libertà temporanea, una i servizi sociali e l’altra il carcere. 

Due condannati liberi in attesa della modalità di espiazione della pena, una in carcere ma poi liberata e ammessa ai servizi sociali, la quarta invece detenuta da aprile: eppure tutti e quattro sono accomunati dalla medesima condotta (aver trattenuto per sé nel 2019 qualche oggetto consegnato alla ricicleria dell’Amsa dove lavoravano in via Corelli, e aver accettato qualche mancia da cittadini che da soli facevano fatica a portare gli oggetti); dagli stessi reati («peculato» e «corruzione», essendo questi operatori ecologici ritenuti «incaricati di pubblico servizio»); dalla stessa pena patteggiata a 2 anni e 2 mesi; e pure dalla stessa «sfortuna» di dover fare i conti con la novità della legge cosiddetta «Spazzacorrotti». Cioè con le norme che ai condannati per reati contro la pubblica amministrazione impediscono l’espiazione della pena in misura alternativa al carcere, salvo prova di fattiva collaborazione. Eppure questo quartetto, in partenza analogo, si sfrangia in esiti tutti differenti sul sensibile tema della libertà personale.

La curiosa vicenda inizia quando Amsa, che evidentemente nutriva qualche sospetto, ingaggia una agenzia di polizia privata che filma i lavoratori mentre portano via magari lo schermo di un vecchio tv, cornici di quadri, vecchi notebook dismessi (presumibilmente venduti per poco a qualche mercatino), e mentre ricevono qualche spicciolo da cittadini (rimasti non identificati) che si facevano aiutare a portare in discarica oggetti ingombranti. Queste immagini vengono poste poi a base sia dei licenziamenti (sebbene infine tradottisi in una transazione con i lavoratori che accettano di perdere il posto a fronte al versamento da parte di Amsa di 10.000 euro), sia della denuncia alla Procura: la quale dai video trae le imputazioni di peculato (l’essersi appropriati in ragione del proprio ufficio di cose appartenenti alla pubblica amministrazione, quali sono i rifiuti una volta consegnati alle riciclatorìe) e corruzione (l’aver accettato denaro da chi si faceva aiutare).

I quattro lavoratori, due uomini e due donne, con il difensore Pasquale Cuomo scelgono di patteggiare 2 anni e 2 mesi senza sospensione condizionale. Ma in sede di esecuzione della pena la dea bendata della giustizia si rivela strabica. Ai due uomini, infatti, l’ufficio esecuzione della Procura (forse concentrato in quel momento sul rebus giuridico della tempistica della nuova legge) sospende l’ordine di carcerazione appena emesso, come se non ci fosse il problema dei reati ostativi. A una delle due donne, al contrario, l’ordine di carcerazione sempre della pm Adriana Blasco viene invece eseguito in forza appunto dell’obbligo dettato dalla «Spazzacorrotti», ma l’arrestata, quando da detenuta fa domanda di misura alternativa presso la Sacra Famiglia di Cesano Boscone e con donazione di 500 euro alla Caritas, viene ammessa dai giudici di sorveglianza ai servizi sociali anche senza collaborazione: perché? Perché «i fatti risultano integralmente accertati, e una eventuale collaborazione della detenuta non sembra essere utile e rilevante, visto che anche il pm non ha segnalato la necessità di svelare altre attività rimaste oscure». L’esatto contrario di quanto la quarta condannata legge invece nel provvedimento con il quale a inizio luglio altri giudici di sorveglianza rinviano la sua udienza a fine settembre, per chiedere ai pm se esistano «possibili spazi collaborativi» su «il denaro ricevuto da terze persone non identificate». Richiesta che pare ardua da esaudire, visto che nei video gli elargitori dei pochi euro non erano identificabili, i lavoratori non li conoscevano, e non vi furono indagini sul punto.

Gli italiani non credono più nella giustizia: crolla la fiducia nelle toghe. Il Rapporto Eurispes: per due cittadini su tre il sistema giudiziario non funziona. I mali principali? La lentezza dei processi e una legge che non è uguale per tutti... Simona Musco su Il Dubbio il 20 giugno 2022.

Sempre più giù. Il livello di fiducia dei cittadini nei confronti della giustizia è ai minimi storici. E chi pensa che i cittadini siano poco interessanti ai temi toccati dal referendum del 12 giugno, al netto dei risultati, probabilmente non ha un quadro chiaro della situazione. Perché se c’è una cosa sicura, almeno a guardare la fotografia scattata dal 34esimo rapporto Eurispes, è che una rivoluzione nel campo della giustizia al Paese non dispiacerebbe. Il rapporto è chiarissimo nella sua collezione di numeri e dati: due italiani su tre non sono soddisfatti del sistema giudiziario italiano.

I numeri sono sconfortanti: il 20,6% degli intervistati esprime un giudizio totalmente negativo, dichiarando di non avere per niente fiducia nella giustizia italiana. Ne ha poca, invece, il 45,3%, abbastanza il 28,2% e molta solo il 5,9%. Il dato più drammatico, però, riguarda l’identikit del cittadino disilluso: non solo adulti ormai inseriti nel mondo del lavoro e avvezzi a scandali come quello del caso Palamara o casi di malagiustizia storici, bensì giovani, soprattutto di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Ovvero coloro che rappresentano il futuro del Paese. In questa fascia “critica”, infatti, si trovano coloro che hanno poca (50,9%) o nessuna (22,4%) fiducia nella giustizia, giudizio negativo che va via via mitigandosi nelle fasce di età superiori, collocando i più fiduciosi tra coloro che hanno un’età compresa tra i 45 e i 65 anni. Una delle conseguenze più immediate è che se la fiducia scarseggia pensare di affidarsi alla giustizia sembra quasi una sciocchezza. Così più di un cittadino su quattro – il 27,3 per cento – preferisce non denunciare reati o illeciti. Il che non consente nemmeno di stilare statistiche affidabili sull’andamento dei reati nel nostro Paese.

Ma perché tanta riluttanza? L’11% confessa che i fastidi di un procedimento legale sono superiori ai vantaggi che potrebbe ottenere denunciando, il 10,1% dichiara di aver desistito dall’intento per non dover sostenere spese legali e il 6,2% perché sfiduciato nei confronti della giustizia.La sfiducia ha una gradazione diversa a seconda delle convinzioni politiche. I più disillusi sono coloro che non si sentono rappresentati da alcun partito (73,4%), ma la vera sorpresa è che anche gli elettori del Movimento 5 Stelle – partito iper giustizialista e da sempre idolatrante le toghe, a prescindere dai risultati – nutrono poca fiducia nel sistema, ovvero il 69,7%. Diffidenti anche gli elettori di sinistra (66,8%), mentre la diffidenza cala tra i sostenitori del centro (61,7%), della destra (58,9%), del centro-destra (57,5%) e del centro-sinistra (51,6%). A creare questa crepa tra cittadino e giustizia è soprattutto la lentezza cronica dei processi, lentezza sulla quale l’Europa ha puntato un faro, tant’è che i fondi del Pnrr sono legati a doppio filo alla capacità delle riforme in atto di ridurre i tempi elefantiaci della giustizia italiana.

Le lungaggini sono al primo posto in classifica per il 23% degli intervistati. Per il 19,8%, invece, il problema è un altro: a non convincere è che la legge sia uguale per tutti, lamentando, dunque, privilegi e ingiustizie a seconda di chi finisce nelle maglie della giustizia. Per il 13,6% il problema è nell’assenza di certezza della pena, mentre per l’11,9% le cause sono da ricercare nelle scelte sbagliate operate dai magistrati. L’11,6%, infine, sostiene che siano le leggi ad essere inadeguate. Solo l’8% è invece convinto che la giustizia in Italia funzioni bene. I temi del referendum vengono sfiorati nel capitolo che riguarda la responsabilità dei giudici e compiti della giustizia.

Secondo l’80,2% dei cittadini intervistati, i giudici dovrebbero essere giudicati con lo stesso sistema applicato a tutti i cittadini, affermazione che fa venire in mente il quesito – bocciato dalla Consulta – sulla responsabilità civile delle toghe. A sostenere il contrario è il 19,8%. Il che fa pensare che se tale domanda fosse stata ritenuta ammissibile dal giudice delle leggi, forse gli italiani si sarebbero precipitati a votare in massa. Per il 78,2% il primo compito della giustizia è garantire una pena adeguata per chi ha sbagliato, mentre al secondo posto, con il 60,5%, si piazza il recupero ed il reinserimento sociale di coloro che sono stati condannati per gli errori commessi – che vede contrario il 39,5% degli intervistati. Ma la sfiducia nel sistema giustizia è visibile anche nella convinzione manifestata dal 57,8% degli intervistati – secondo cui l’azione dei giudici sarebbe condizionata dall’appartenenza politica (è poco d’accordo con questa posizione il 31,1% e non lo è affatto l’11,1%).

Ma qual è la visione che gli italiani hanno della pena e delle sanzioni alternative? Il 29,5% afferma di non volere che coloro che si sono macchiati di colpe gravi abbiano l’opportunità di usufruire di misure alternative al carcere, come arresti domiciliari, affidamento ai servizi sociali, semilibertà, eccetera, il 27,3% è favorevole all’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi, il 24,7% si schiera a favore dell’abolizione dell’ergastolo e “solo” il 15,8% si dice favorevole alla reintroduzione della pena di morte. Sono contrari all’abolizione dell’ergastolo soprattutto i cittadini di destra (82,7%) e quanti non si sentono politicamente rappresentati (82,9%). Di destra anche la maggior parte di quanti si dicono d’accordo con l’abolizione degli sconti di pena per i reati più gravi e dei provvedimenti alternativi alla detenzione per i reati più gravi. La possibilità di reintrodurre nel nostro ordinamento la pena di morte vede più consensi espressi dai cittadini di centro-destra (20,1%), seguiti dai 5 Stelle (19,7%) e da quelli di destra (19%).

Magistratura, mancano i cancellieri: giudici e pm vadano a fare le fotocopie. Iuri Maria Pirado su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.

Pare che in alcuni tribunali manchino i cancellieri, per capirsi quelli che tengono in ordine i fascicoli, aggiornano le agende delle udienze, rilasciano le copie degli atti, insomma fanno andare avanti l'ufficio. Nell'attesa che il problema di organico sia risolto, si potrebbe forse immaginare che il corpo giudiziario contribuisca autonomamente a prestare un po' di servizio supplementare.

Non sarà un dramma né rappresenterebbe una degradazione intollerabile dedicare un'oretta al giorno a fare fotocopie, a sistemare i faldoni e magari perché no, se occorre? - a spolverare le scrivanie e a svuotare i cestini. Al giovane magistrato, vincitore del concorso che gli attribuisce il potere di arrestare la gente, di sequestrare patrimoni e di confiscare i beni altrui, si potrà ben richiedere di fare ciò che in qualunque azienda fa del tutto normalmente persino il titolare, il quale senza tante storie si mette a spostare gli scatoloni quando il magazziniere è in malattia.

Nulla di punitivo, per carità. Il potere di accusare le persone e di scrivere le sentenze non lo toglie nessuno, però accanto a quello si potrebbe prevedere il dovere di rassettare le aule, un po' come al militare si consegna un fucile ma gli si chiede di farsi la branda. Dopotutto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura potranno anche realizzarsi nell'uso del toner e dello strofinaccio.

Rossi: «Gli errori giudiziari devono allarmare tutti. Anche chi ne è estraneo». Intervista al direttore della rivista "Questione giustizia". «Il processo ha tre gradi proprio per ridurre al minimo la possibilità di errore». Valentina Stella su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Qualche giorno fa Nello Rossi, direttore della rivista di Magistratura Democratica “Questione giustizia”, ha pubblicato un articolo dal titolo “Md e il caso Tortora. Ma l’errore interroga tutti i magistrati”‘.

Perché ha sentito l’esigenza a partire dal quel caso di compiere una “operazione verità” sulla fisionomia di Md?

La tragica vicenda di Enzo Tortora deve essere sempre presente ai cittadini e ai magistrati. Nello scriverne ho voluto rievocare la posizione critica assunta da Md sul processo e sull’operato di alcuni magistrati e le veementi reazioni che suscitò in seno alla corporazione. Per ribadire che il garantismo di Md, spesso investita da polemiche pretestuose, ha radici lontane. Ma mi interessava ancora di più riproporre il tema, spinosissimo, dell’errore nel giudizio penale.

Quando parla di “polemiche pretestuose” si riferisce a quelle di Matteo Renzi?

Anche. Penso al tormentone sul preteso “cordone sanitario” di Md intorno a Renzi e “alle sue idee”. Solo il Dubbio, in una recente intervista, mi ha consentito di sgonfiare questo palloncino. Riportando “esattamente” la mia frase critica sulla visita di Renzi al despota saudita Bin Salman, indicato dall’intelligence americana come il mandante del barbaro omicidio del giornalista Khashoggi. Altri giornali non hanno ritenuto utile porre a Renzi le classiche domande: in che contesto, quando e perché?

Lei scrive: ‘ L’errore del giudice e l’errore giudiziario sono eventi diversi’. Non tutti gli errori giudiziari dipendono da un errore del giudice?

Tutti gli errori commessi nel processo penale hanno un drammatico impatto su beni fondamentali come la libertà, l’onore, la reputazione. Ed il processo è articolato in tre gradi proprio per ridurre al minimo la possibilità dell’errore. Ma a volte l’errore si ripete sino alla sentenza definitiva perché la disattenzione, la superficialità, lo spirito burocratico che l’hanno generato coinvolgono tutta la catena dei pm e dei giudici ( e magari anche dei difensori). Questo è l’errore giudiziario in senso tecnico: un fallimento del sistema che deve allarmare “tutti” i magistrati, anche quelli che non l’hanno commesso, e che può essere ridotto al minimo solo mettendo in campo un estremo rigore professionale e la cultura del dubbio.

Mille risarcimenti all’anno tra ingiusta detenzione ed errori giudiziari sono fisiologici o patologici?

Benvenuta nel labirinto del nostro processo penale. In altri ordinamenti la decisione del primo giudice o della giuria popolare è immediatamente esecutiva, l’appello solo eventuale, il giudizio di una Corte suprema è una ipotesi eccezionale. È una giustizia più rapida della nostra e che subisce meno smentite. Da noi molti errori vengono accertati nei diversi gradi di giudizio e grazie ai procedimenti di controllo sulle misure cautelari; e questo è un bene. Ma il meccanismo si scarica sulla lunghezza dei processi e questa, a sua volta, può stimolare il ricorso a misure cautelari, che comunque dovrebbero essere sempre applicate con mano tremante.

La sen. Giulia Bongiorno ha stigmatizzato una intercettazione di un vostro iscritto riportata nel libro di Palamara: ‘ Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione dicendo noi non siamo giudici imparziali, o meglio non siamo degli indifferenti, siamo di parte, siamo dalla parte del più debole perché questo è scritto nella Costituzione non perché questo è una rivoluzione’. In cosa consiste la vostra parzialità?

Potenza dei ruoli! In veste di avvocato la sen. Bongiorno avrebbe avuto vita facile nel demolire quell’intercettazione. Nessun appartenente ad Md direbbe mai che essa è nata “con una cultura della corporazione” ma, se mai, l’esatto contrario. Dunque il maresciallo ha capito male e trascritto peggio. E lo stesso vale per il più sofisticato discorso sulla non indifferenza rispetto ai valori e sulla imparzialità nel giudicare. Se anche fosse vuoto di idee e “atarassico”, un magistrato avrebbe comunque esperienze di vita ( un divorzio, un furto subito, una lite condominiale e così via). E su tutte queste materie potrebbe essere chiamato a giudicare. Quello che si può e si deve pretendere è che il magistrato sappia tendersi verso l’imparzialità all’atto del decidere, facendo la tara del proprio vissuto e delle proprie idee in vista della rigorosa applicazione della legge. Questa consapevole tensione verso l’imparzialità è la più alta prestazione professionale del magistrato.

Lei rivendica che Md “da decenni è il luogo nel quale, con più coerenza e ampiezza di riflessioni, si difendono le garanzie processuali ed i diritti dei cittadini”. Gli altri gruppi associativi non lo fanno o lo fanno meno?

Non si tratta di stilare graduatorie. Ma sul terreno del garantismo ribadisco quello che ho detto e sono aperto ad ogni confronto.

Ma voi non siete le famose “toghe rosse” politicizzate in lotta con Silvio Berlusconi?

Detesto la definizione giornalistica di toghe rosse; ma fa troppo caldo per protestare con la necessaria vivacità. Però, sul filo dell’ironia, le regalo una piccola chicca. Da Procuratore aggiunto a Roma ho chiesto, silenziosamente e con la dovuta rapidità, l’archiviazione di una denuncia – infondata – sporta contro l’on. Silvio Berlusconi per il reato di manipolazione del mercato nella vicenda Alitalia. Ho fatto solo il mio dovere; ma conosco pubblici ministeri che hanno tenuto in piedi per anni procedimenti nei confronti di uomini politici e che, quando hanno chiesto, magari tardivamente, l’archiviazione, sono stati colmati di elogi e presentati come campioni della “giustizia giusta”.

Sta parlando di Carlo Nordio e della sua inchiesta su D’Alema?

Personalizzare sarebbe ingiustificato e riduttivo. Parlo di fenomeni, di tendenze. Non è materia di battibecchi stizzosi. Ma su questi temi un dibattito pubblico approfondito, serio e sereno, ci starebbe tutto.

L’Unione Camere penali è mobilitata in difesa del principio di immutabilità del giudice. Concorda che sia un problema quello di essere giudicati da un giudice che non ha raccolto la prova?

È disperante dover rispondere in tre righe a questa domanda. Comunque ci provo. L’immutabilità del giudice o della giuria popolare è un dogma assoluto in un processo immediato e concentrato in poche udienze. Per intenderci quello che si vede nei film americani. Ma quando questa immediatezza è pressocchè impossibile (per il numero dei processi, i carichi di lavoro, i rinvii a lungo termine della udienze etc) il principio dell’immutabilità del giudice può e deve essere ragionevolmente contemperato con altri principi ed esigenze. La sentenza delle Sezioni Unite, Bajrami, ha percorso questa strada, a mio avviso con equilibrio.

Ritiene che il sistema del disciplinare dei magistrati vada cambiato per rendere accessibili a tutti le motivazioni delle archiviazioni in nome di una giustizia sempre più trasparente?

Francamente no. E sono in buona compagnia, se ha presente le pronunce sul punto di Tar e Consiglio di Stato.

Sì, ho presente. Ne ho scritto qualche giorno fa. Prego continui.

I magistrati lavorano immersi nei più aspri conflitti e spesso sono dei parafulmini. Rendere pubblici – attraverso le motivazioni delle archiviazioni – i contenuti di esposti non solo infondati ma spesso solo insinuanti, malevoli, ostili significherebbe aprire in quest’ambito una rincorsa senza fine di polemiche, di ricorsi, controricorsi; e magari di denunce per diffamazione.

 “Questione giustizia” rivendica quella stagione. Magistratura Democratica rivendica il caso Tortora e ne va fiera…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 3 Luglio 2022. 

Questione Giustizia, la rivista di Magistratura Democratica diretta da Nello Rossi, ha appena scelto di pubblicare alcuni interessanti documenti relativi al caso Tortora. Essi ricostruiscono con chiarezza la dura presa di posizione che assunse all’epoca MD nei confronti sia dei magistrati responsabili di quella sciagurata indagine, sia della decisione del CSM di archiviare ogni procedimento disciplinare sui medesimi. Presa di posizione pubblica di una tale durezza che portò addirittura alla crisi della Giunta di A.N.M., che dovette dimettersi.

La ragione di questa scelta editoriale, per molti versi sorprendente, è chiarissima, ed è d’altronde rivendicata nell’editoriale di questo importante numero della rivista. Si intende orgogliosamente rivendicare una precisa identità culturale e politica di quella parte della magistratura italiana, proprio in relazione al caso simbolo della malagiustizia italiana. La magistratura italiana, si vuole dire insomma, non è (o non è stata?) una indistinta espressione di desolanti riflessi corporativi. E le correnti, intese come espressione di pensiero e culture differenti all’interno della giurisdizione, sono (o sono state?) occasione di confronto, di crescita civile, di ricchezza culturale.

La provocazione è coraggiosa e feconda, e merita attenzione e rispetto. Intanto, vediamo i fatti che essa documenta. Siamo nel marzo del 1989. All’indomani della definitiva assoluzione di Enzo Tortora, Giovanni Palombarini e Franco Ippolito, rispettivamente Presidente e Segretario di MD, nonché Sandro Pennasilico, segretario della sezione napoletana di MD, convocano una clamorosa conferenza stampa a Napoli, per denunciare le inammissibili “storture” di quel processo, l’inconcepibile gestione dei pentiti, il rapporto ancillare dell’ufficio istruzione rispetto alla Procura, la gestione della informazione giudiziaria.

Tra l’altro, la denuncia contro gli uffici giudiziari napoletani viene estesa anche alla oscura gestione dell’inchiesta sull’omicidio del giovane giornalista Siani, in ordine alla quale ben 400 avvocati del Foro hanno chiesto la rimozione del Procuratore capo Vessia. MD chiede con forza che il CSM dia seguito a severi provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati resisi responsabili “del più dirompente caso della vita politico-istituzionale italiana” (così testualmente Palombarini). Denunciano l’assurdità che uno di essi, il dott. Felice di Persia, sia stato nel frattempo eletto proprio al CSM (in quota magistratura Indipendente). Sarà tutto inutile, il CSM archivierà ogni accusa (anzi, premierà quei magistrati, aggiungo io). MD, che guidava l’ANM insieme ad Unicost, si dimette e determina la crisi della Giunta. Lo scontro è durissimo, MD denuncia che “la logica corporativa non tollera che dall’interno della magistratura vengano critiche alla gestione degli uffici giudiziari o allo stesso CSM”. E molto altro, che suggerisco davvero di andare a leggere con attenzione.

Se questa iniziativa di “Questione Giustizia” e del suo direttore vuole rivendicare una nobiltà della storia del correntismo all’interno della magistratura, con noi penalisti sfonda una porta aperta. Da sempre diciamo: stiamo attenti a non replicare il tragico errore qualunquista e populista fatto con la politica (per enorme responsabilità proprio della magistratura, però, caro Direttore Rossi!), con la distruzione dei partiti ridotti ad icona di ogni nequizia. Il problema non sono “le correnti”, ma la loro degenerazione in meri luoghi di amministrazione del potere (giudiziario). Comprendo l’orgoglio per quella rivendicazione, ma ciò che dobbiamo domandarci oggi è cosa sia rimasto di quelle spinte ideali, di quella indipendenza di pensiero, e soprattutto di quella attenzione alle garanzie ed ai diritti nei processi; e semmai, come poterli recuperare. Il Paese ha attraversato anni di drammatica alterazione degli equilibri costituzionali, con una esondazione catastrofica del potere giudiziario in danno del potere politico.

Il potere ipertrofico ed incontrollato delle Procure ed il suo micidiale connubio con i media ha la responsabilità storica di avere spostato l’oggetto del giudizio sociale sui fatti penali dalla sentenza alla incriminazione. Possiamo davvero dire che almeno una parte della magistratura italiana sia stata attraversata da una riflessione critica ed autocritica su questi temi cruciali? O quella bella pagina “napoletana” è solo un lontano e sbiadito ricordo, da guardare con malinconica trepidazione, come si fa con gli album di famiglia? Parliamone, con lealtà e chiarezza: noi siamo pronti a farlo. Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Gli esami di maturità. Altro che Promessi Sposi, per spiegare la giustizia andrebbe spiegato come un magistrato perseguita un uomo. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

Nel suo dialogo con Liliana Segre, finito tra gli argomenti d’esame di Maturità e ripubblicato ieri dal Corriere della Sera, Gherardo Colombo dice: “Puoi immaginarti quanto si potrebbe trasmettere ai ragazzi in tema di giustizia illustrando loro I promessi sposi!”. Non c’è dubbio che dalla lettura di quel capolavoro i ragazzi possano ritrarre nobili motivi di meditazione “in tema di giustizia” (magari “tema” d’ora in poi lo aboliamo, che proprio non si può sentire): ma più e meglio si trasmetterebbe ai ragazzi illustrando loro le pagine meno romanzate della giustizia italiana, facendo loro conoscere le colonne infami recanti la lunga teoria dei nomi sconosciuti appartenenti alle vittime della giustizia.

Sarebbe lettura magari più noiosa, ma altrettanto istruttiva, quella che indugiasse sulle lapidi dei suicidi in carcere, i morti di galera imprigionati – spesso inutilmente, sempre ingiustamente – in nome del popolo italiano. Sarebbe conoscenza forse spiacevole, ma assai formativa, quella offerta da una ricognizione della vita negletta delle mogli, dei figli, dei fratelli e delle sorelle, dei genitori di chi senza motivo, senza necessità, senza diritto è stato rinchiuso in una cella. I ragazzi potrebbero imparare da questa storia clandestina come nel loro Paese – non nel secolo decimo settimo, ma in questo – un magistrato possa arrestare la libertà di chiunque, sequestrargli ogni bene e innanzitutto il primo, la vita, e privarlo di tutto, del patrimonio, della casa, della famiglia, del lavoro, della reputazione, della salute, senza risponderne in nessun modo e nemmeno nel caso che quello scempio sia oltretutto avvenuto per trascuratezza, per errore, per abuso.

Imparerebbero, i ragazzi, che tra le disgrazie che possono capitare a un essere umano – proprio come una malattia maledetta che se lo mangia, come un rovescio professionale che lo manda sotto a un ponte, come un’auto impazzita che lo investe – c’è quella di trovarsi soggetto al potere di un magistrato che decide di perseguitarlo, e lo perseguita, prendendo il corso normale della sua vita e stravolgendolo, violentandolo, lo immette con i sigilli di Stato in un buco nero di sopraffazione, di degradazione, di disperazione, mentre nel mondo di fuori risuona il verbo del collega togato che spiega che tutto questo è fisiologico. I ragazzi sarebbero così proficuamente indotti a farsi della giustizia di questo Paese un’idea un po’ più aderente. E a esprimerla, magari, al prossimo esame di Maturità. Iuri Maria Prado

Lo sciopero dei penalisti. Cambio del giudice a processo in corso, il malcostume italiano: l’esempio Johnny Depp-Amber Heard. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 18 Giugno 2022. 

Ci sono diritti che la gente non sa di avere, ed ancor meno sa quanto siano messi in pericolo. Come penalisti italiani abbiamo proclamato due giorni di astensione dalle udienze (26 e 27 giugno prossimi) in difesa di uno di questi, oggi di fatto praticamente vanificato nelle aule di giustizia del nostro Paese. Parlo del diritto – fondamentale- dell’imputato ad essere giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.

Per spiegare l’importanza della partita in gioco, mi avvalgo di una esemplificazione comprensibile per tutti. Prendete il processo Johnny Depp c. Amber Heard, che l’intero pianeta, piaccia o no, ha seguito con morbosa attenzione. Meglio, così capirete bene di cosa stiamo parlando. Dunque provate ad immaginare questo scenario: dopo decine di udienze nel corso delle quali il Giudice, o meglio la giuria popolare in questo caso, ha ascoltato i protagonisti e decine di testi e di consulenti, scrutando espressioni, sospiri, imbarazzi, contraddizioni, dei protagonisti avvicendatisi sullo scranno dei testimoni, il Giudice (la giuria popolare) cambia. Va via, per qualsivoglia ragione, e viene sostituito da altro giudice (giuria popolare). A pronunciare la sentenza sui fatti ricostruiti nelle lunghe e tumultuose udienze dibattimentali saranno persone diverse da quelle che hanno raccolto la prova per mesi. I nuovi giurati giudicheranno leggendo i verbali di tutte le udienze precedenti, alle quali ovviamente non hanno partecipato. Sono certo stiate tutti trasalendo: come sarebbe possibile un simile scempio?

Nessuna lettura di verbali potrà mai equivalere all’ascolto diretto, personale, fisico dei testimoni e dei protagonisti della vicenda. Insomma, è ovvio che il giudice che emette la sentenza debba essere lo stesso che ha raccolto la prova. Perciò, se cambia il giudice, il processo va ripetuto, non può esserci il minimo dubbio. Ed infatti, il nostro codice di procedura penale prevede esattamente questo: se cambia il giudice, il processo va ripetuto (salvo accordo tra le parti). Ora, dovete sapere che questa norma, espressiva di un diritto delle parti processuali talmente elementare che non dovrebbe essere oggetto della pur minima discussione, è entrata da subito nelle mire della magistratura italiana, che l’ha sempre vista come il fumo agli occhi, perché sarebbe una norma all’origine di inaccettabili rallentamenti del processo. Quindi è iniziata una giurisprudenza “interpretativa” di una norma invece chiarissima, che non lascia alcun margine di interpretazione.

Interpretazione culminata in una sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione che ha letteralmente riscritto quella norma, fissando il principio inverso. Se cambia il giudice, la regola è che il processo va avanti lo stesso: le parti possono eventualmente chiedere che questo o quel testimone, o un nuovo testimone, debba essere sentito, ma badino bene di motivarlo con chiarezza, altrimenti non se ne fa nulla. Incredibile, vero? Quella sentenza è andata non solo contro la inequivoca testualità della norma, ma anche contro un pronunciamento della stessa Corte Costituzionale, che almeno subordinava la legittimità del cambio del giudice alla esistenza, per esempio, di videoregistrazioni delle udienze, in modo che almeno il nuovo arrivato se le debba guardare. La riforma Cartabia del processo sta cercando di recuperare i principi fissati dalla Consulta (vedremo cosa stabiliranno i decreti delegati).

Il risultato di quella sentenza delle sezioni unite è un autentico disastro. Assistiamo ormai quotidianamente a collegi che cambiano in corso di giudizio, magari dopo decine di udienze e di testimoni escussi dal precedente giudice, e senza che nessuno sia tenuto ad alcuna giustificazione. Perché questo è l’aspetto più odioso: che le esigenze personali (di carriera, familiari, occasionali) del giudice prevalgono sul diritto dell’imputato ad essere giudicato dallo stesso giudice che ha raccolto la prova.

È un fatto di una gravità inaudita, un malcostume inaccettabile, una manifestazione di tracotanza corporativa davvero senza eguali. Perciò scioperiamo, chiedendo alla Ministra di intervenire in modo efficace nei decreti delegati, dove è sì inserita la videoregistrazione come condizione di legittimazione del cambio del giudice, ma al momento senza alcuna garanzia nemmeno che il nuovo giudice se la vada a vedere davvero. Il minimo che debba prevedersi è che ciò accada in una pubblica udienza. Così come occorre prevedere uno specifico intervento normativo che imponga al magistrato che voglia trasferirsi ad altro ufficio o ad altra sede di poterlo fare solo dopo aver esaurito il ruolo delle udienze che ha già iniziato. Quindi, di questo stiamo parlando, cioè – ancora una volta- di diritti fondamentali della persona: ed è una battaglia che vogliamo vincere.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Referendum giustizia, le assurde tesi di Letta e Conte. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 6 Giugno 2022.

A meno di una settimana dai referendum sulla giustizia, un settore della cosa pubblica da sempre ostile a qualunque tentativo di riforma, si segnala l’esilarante presa di posizione di Enrico Letta in versione cerchiobottista: “Il Pd non è una caserma e men che meno su questi temi. C’è la libertà dei singoli, essa rimane a maggior ragione per una materia come questa, così complessa, rispetto a quesiti molto diversi tra di loro”. “Tuttavia, – ha poi sottolineato il segretario del Pd – questi referendum aprirebbero più problemi di quanti ne risolverebbero”.

Ancora più netta la posizione di Giuseppe Conte, leader del partito più forcaiolo della storia patria: “I quesiti sono frammenti normativi che intervengono quasi come una vendetta della politica nei confronti della magistratura”.  La magistratura – ha proseguito il presidente del Movimento 5 Stelle – ha delle colpe, tra cui la deriva correntizia. Di qui ad assumere, da parte della politica, un atteggiamento punitivo, ne corre. Ecco perché noi siamo assolutamente contrari al referendum continueremo a lavorare per progetti di riforma organici e sistematici”.

Ergo, in merito forse al più significativo dei referendum, quello che tende ad imporre una rigida separazione tra funzione giudicante e funzione requirente, secondo Letta ciò provocherebbe ulteriori problemi, mentre per Conte questa elementare regola di civiltà giuridica sarebbe addirittura punitiva nei confronti dell’ordine giudiziario.

Eppure colpisce che questa difesa d’ufficio dei magistrati provenga da un avvocato, la cui categoria ha sempre combattuto per una riforma del giudizio penale in cui venisse affermata una volta per tutte la terzietà del giudice. Terzietà che con la disfunzionale commistione tra togati che svolgono mansioni tra loro incompatibili, i quali spesso lavorano a stretto contatto di gomito, rappresenta in molti casi una pura utopia. A tale proposito risultano piuttosto illuminanti le parole di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana che ha pubblicato un libro su uno dei casi più controversi della nostra giustizia spettacolo: il processo per l’uccisione della povera Sarah Scazzi. Scrive infatti Giangrande: “Come è possibile che a presiedere la Corte di Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio, nonché collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l’accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?”

Un dubbio più che legittimo che l’attuale normativa non sembra assolutamente in grado di tacitare, dal momento che attualmente, il passaggio tra i due ruoli è limitato a un massimo di quattro volte con alcune regole, tra cui l’impossibilità di svolgere entrambe le funzioni all’interno dello stesso distretto giudiziario. Tuttavia, se la riforma presentata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia dovesse venire approvata, il numero di passaggi possibili scenderebbe a uno.

Se poi a tutto questo ci aggiungiamo la deriva correntizia sottolineata dallo stesso Conte, la quale con il meccanismo della valutazione quadriennale dei magistrati, che uno dei referendum vorrebbe estendere anche agli avvocati e ai professori universitari di materie giuridiche – i quali attualmente svolgono solo un ruolo consultivo nel consiglio disciplinare – l’obbligo di raccogliere almeno 25 firme di magistrati per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura – obbligo che i promotori del referendum intenderebbero abolire -, dal punto di vista di un garantista si ha l’impressione di doversi confrontare con una casta quasi intoccabile.

D’altro canto, occorre ricordare, per decenni soprattutto dal versante politico e culturale della sinistra nella terminologia comune non si è mai fatta molta distinzione tra giudici e pubblici ministeri. Ricordo che durante il periodo oscuro di Mani pulite, in cui un avviso di garanzia equivaleva ad una condanna passata in giudicato, i membri della Procura di Milano venivano spesso e volentieri definiti giudici. Una confusione che ancora oggi ogni tanto si ripresenta nelle sue sinistre sembianze e che tende a rafforzare l’idea che nei fatti non siamo ancora usciti dal modello inquisitorio del processo penale, in cui la figura del giudice e del magistrato inquirente risultano ancora troppo sfumate nell’immaginario collettivo.

Ovviamente nell’acqua stagnante di una giustizia che continua a partorire mostri – pensiamo, ad esempio, ai cinque gradi di giudizio, con addirittura due assoluzioni, che hanno portato alla condanna definitiva di Alberto Stasi per il delitto di Garlasco – i cinque referendum rappresenterebbero solo un piccolo ma significativo passo nella direzione del tanto decantato “giusto processo”.  Per questo motivo è importante che il 12 giugno, andando a votare, venga sconfitta la cultura della forca, del sospetto e del giudizio sommario che sembra avere ancora molto seguito in questo disgraziato Paese. Claudio Romiti, 6 giugno 2022

In carcere senza richiesta del pm. Per una (sola) volta il gip paga. La Corte dei Conti ha evidenziato la mancanza di azioni di rivalsa per il recupero delle somme pagate per ingiuste detenzioni ed errori giudiziari. Riccardo Radi, (Avvocato), su Il Dubbio il 17 giugno 2022.

A fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per un danno erariale da 10mila euro nei confronti di una toga. La vicenda è accaduta a Salerno ed è stata “scoperta” leggendo la relazione della Corte dei Conti sulle spese sostenute dallo Stato per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari negli anni 2017- 2020.

Nella relazione si indica il caso in maniera generica senza entrare nei particolari. Noi siamo riusciti a ricostruire la storia giudiziaria recuperando anche l’atto di citazione per danno erariale, unico caso in Italia dal 1992 ad oggi, notificato dal ministero della Giustizia al giudice disattento che ha emesso una misura cautelare di arresti domiciliari senza che il pubblico ministero ne avesse fatto richiesta.

In pratica un giudice delle indagini preliminari, non di prima nomina, riceve una richiesta di misura cautelare per un signore accusato in concorso con la figlia di false fatturazioni. Non si sa come è perché, il Gip emette una misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti della figlia in assenza di una richiesta del pubblico ministero che la riguardasse. La polizia giudiziaria esegue la misura e arresta la donna, che solo in sede di interrogatorio di garanzia, su istanza difensiva, verrà liberata in “assenza dei presupposti di legge”. La malcapitata, di fatto sottoposta a un sequestro di persona, propone richiesta di risarcimento del danno per illegittima detenzione che viene accolta con la liquidazione della somma di euro 21.170,91.

La Corte dei Conti, sul presupposto della esistenza di danno erariale a carico del giudice che ha emesso la misura cautelare senza l’esistenza dei requisiti di legge, e a carico del pm che la ha comunque eseguita senza averla richiesta, notifica a entrambi una richiesta con contestazione del danno per i comportamenti tenuti.

La tragicomica avventura si è definita all’italiana. Il pubblico ministero ha evitato la richiesta di danno erariale sostenendo con particolare vigore la sua completa estraneità ai fatti accaduti. In pratica in sua discolpa ha dedotto: “Quando la misura cautelare gli è stata portata per la esecuzione, non aveva il relativo fascicolo, trattenuto dal Gip per gli adempimenti successivi (interrogatorio di garanzia). A sostegno della sua tesi ha depositato attestazione del cancelliere”. Vi chiederete: e allora? Come puoi chiedere la misura cautelare per un uomo e la ricevi emessa, e la esegui, nei confronti di una donna e ritieni che “non avendo il fascicolo” sei esente da ogni responsabilità?

Eppure la tesi difensiva ha funzionato, e il ministero della Giustizia ha ritenuto che le argomentazioni del pm consentono di “escludere la gravità della colpa”. Quindi è rimasto solo il Gip a dover rispondere del fattaccio, e il ministero non ha potuto esimersi, con linguaggio burocratico, dal sottolineare che “l’errore emerge laddove il Pm ha richiesto la applicazione della misura della custodia cautelare in carcere solo nei confronti di C. G.” e non della donna. Quindi la colpa grave è riscontrabile avendo emesso la “misura cautelare senza i presupposti di legge”. In conclusione il giudice ha definito la propria colpa grave pagando il 50% dell’iniziale richiesta di risarcimento, e con circa 10.000 euro ha “patteggiato” il danno erariale.

Possiamo concludere che l’episodio, più che un errore, sia un gesto simbolico del Gip che, facendo a meno del Pm, esprime la sua solidarietà alla battaglia dell’avvocatura per la separazione delle carriere? A parte il sarcasmo, proviamo a riflettere su un dato inquietante: in Italia dal 1992 al 31 dicembre 2021 ci sono stati 30.133 innocenti indennizzati dallo Stato per errori giudiziari o ingiuste detenzioni.

Badate bene che il numero rappresenta la punta di un immenso iceberg, in quanto solo il 24% delle domande di riparazione per ingiusta detenzione viene accolta. In ogni caso, per gli innocenti conclamati e indennizzati lo Stato ha pagato 894 milioni e spicci di euro. Su questi dati la Corte dei Conti ha posto l’attenzione, evidenziando la mancanza delle azioni di rivalsa dello Stato nei confronti dei magistrati per il recupero delle somme pagate per le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari. La magistratura risulta essere una sorta di isola felice in cui l’operosità e l’efficienza regnano sovrane, eppure la realtà e i dati dicono il contrario.

Ebbene, a fronte del pagamento di più di 894 milioni di euro, lo Stato ha intrapreso una sola azione di rivalsa per danno erariale nei confronti di un magistrato recuperando la somma di euro 10.425,68. Quali sono gli ostacoli legislativi e di sistema che impediscono alla magistratura contabile di intraprendere le azioni di rivalsa? Questo è il tema focale sotteso alla storia che abbiamo raccontato. È necessario gettare un faro sulla questione per individuare “casi nei quali possano ravvisarsi i presupposti per l’esercizio da parte dello Stato di un’azione di rivalsa nei confronti del soggetto al quale risulti imputabile l’errore giudiziario o l’ingiusta detenzione nei casi previsti”. Parole della Corte dei Conti. 

Abuso di potere. Abbiamo le prove della malagiustizia in Italia, manca solo il processo ai responsabili. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 6 Giugno 2022.

Ogni giorno assistiamo alla strage di diritti e di legalità senza che gli esecutori siano chiamati a renderne conto. Dagli innocenti nelle carceri al comportamento di alcuni magistrati che interferiscono nell’attività dei poteri legittimi.

Com’è che diceva quello? «Io so. Ma non ho le prove». Noi invece – oggi, ma non da oggi – le prove del crimine giudiziario le abbiamo. Non occorre provare che le carceri sono ricolme di innocenti. Non occorre provare che funzionari dello Stato, abusando del proprio potere, violentano le libertà private, distruggono l’immagine, i patrimoni, la vita altrui senza risponderne in nessun modo.

Non occorre provare che l’esistenza di centinaia, migliaia, decine di migliaia di persone è affidata al capriccio, all’arbitrio, alla noncuranza persecutoria di pubblici impiegati che fanno malgoverno della propria funzione riducendosi a sgherri di Stato, a teppisti di Stato, ad aguzzini di Stato.

Non occorre provare che una parte, ovviamente non tutta ma una significativa parte, della cerchia giudiziaria è gravemente contaminata dalla presenza di malversatori che, protetti dal proprio potere irresponsabile, coltivano e difendono interessi particolari in plateale conflitto con quelli generali.

Non occorre provare che fazioni influenti e aggressive del potere togato si sono costituite in una centrale di sistematico hackeraggio dell’organizzazione democratico-rappresentativa, un contro-governo di ammutinati che interferisce nell’attività dei poteri legittimi e pubblicamente li intimidisce, li ricatta, li minaccia.

Non serve nessuna prova per documentare tutto questo, perché la prova di tutto questo è quotidianamente disponibile, quotidianamente squadernata sulla scena della giustizia italiana. Una diuturna strage di diritti e di legalità si compie e prosegue senza che i responsabili siano chiamati a renderne conto. Ma non mancano le prove. Manca il processo.

 Riforma giustizia e la soppressione dei tribunali. Massimo Carugno, Scrittore, su Il Riformista il 9 Maggio 2022.

Erano gli ultimi giorni di agosto del 2011 quando Michele Vietti, avvocato e cattedratico, insediato sullo scranno di Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura dall’amico Pier Ferdinando Casini, lanciò un proclama che avrebbe avuto conseguenze negativissime nel panorama della giustizia italiana.

La grande crisi economica del 2009 aveva appena investito il pianeta e l’ansia di tutti i governi era quella di accelerarne l’uscita, affastellati tra uno spread crescente e le 3 A di un ranking, che cadevano come birilli, mentre a Wall Street si contavano i cocci dei fallimenti delle grandi banche stelle e strisce.

“Il riordino della geografia giudiziaria e la soppressione dei tribunali minori ci farà guadagnare 3 punti di P.I.L.”, disse l’uomo della politica neo-democristiana, fiero di essersi riempito la bocca del tema del momento e non sapendo, poverino, quel che stava per scatenare.

Il governo Berlusconi, il IV di questo nome, era alla frutta ma cercava disperatamente di resistere dando segnali a destra e a manca di efficienza e controllo della spesa e l’allora Ministro della Giustizia Francesco Nitto Palma, subentrato appena un mese prima al dimissionario Angelino Alfano, si affannò a presentare un decreto legge, convertito poi in una legge delega, che conteneva i criteri per la soppressione di numerosi tribunali. Era il 14 settembre del 2011 e la legge portava il numero 148.

Appena un anno dopo il Ministro Paola Severino, lanzichenecca nel governo Monti, il cui epinomo nel frattempo era subentrato a Palazzo Chigi nel tentativo di ridare credibilità al paese dopo i disastri dell’uomo di Arcore, varò il decreto legislativo 155/2012 con il quale furono cancellati 37 tribunali e 220 sezioni distaccate.

“Una svolta epocale,” la definì il Ministro, una dei tanti cattedratici di quel governo che dimostrarono, come sempre, che l’eccesso di teoria allontana dai problemi del paese reale.

E fa niente che poi di quel risparmio, del quale la politica aveva innalzato il vessillo, non si vide nulla, visto che le spese dei tribunali le pagavano i comuni che li ospitavano e il costo più rilevante, quello del personale, non era stato risparmiato perché non si potevano licenziare le persone.

“Ma ne miglioriamo l’efficienza” , si disse da più parti, specie dalla magistratura e da quei giudici che, fuggiti dalle aule dei processi, occupavano i posti tecnici del Ministero rappresentandone la vera volontà esecutiva a dispetto di quella politica.

Peccato che i monitoraggi e gli studi successivi, tra cui uno mirabile di un noto giornale finanziario, stimarono tra quelli più efficienti d’Italia proprio quei tribunali la cui soppressione, in esecuzione di quel provvedimento definito dalla Severino epocale, era in itinere.

Parliamo per esempio dei 4 tribunali abruzzesi, di Avezzano, Lanciano, Sulmona e Vasto, la cui cancellazione era stata congelata per i problemi legati alla Corte d’Appello di L’Aquila ancora precaria per il terremoto del 2009.

Perché l’efficienza proclamata dai boiardi del ministero è ben diversa da quella d’uso comune nel pensiero dominante della buona amministrazione.

In effetti verrebbe spontaneo pensare, per efficiente, a un tribunale che sia a dimensione d’uomo, che abbia una durata breve dei processi, dei tempi ristretti per l’accesso agli uffici e per il ritiro dei documenti, una evasione puntuale di fascicoli e processi. E ancora che sia vicino ai cittadini, moralmente e fisicamente, e che non si debbano fare ore di percorrenza per raggiungerlo da uno qualunque dei comuni del suo circondario, appesantiti da una orografia montana e da una viabilità tortuosa che per fare 40 chilometri richiede due ore di viaggio, magari anche allietati da ghiaccio e neve.

Ma dalle parti di via Arenula non la pensavano così, anzi, di tali considerazioni non gliene poteva fregà di meno (ci si perdoni il francesismo).

E già. Perché di questa storia dei Tribunali ne parlavano da tempo, anzi, loro ne stavano parlando da decenni. Solo che nella prima repubblica c’era una politica che governava la grande finanza e gli apparati amministrativi dello stato. Le repubbliche successive ( seconda e l’attuale terza) sono state, aimè, dominate dai poteri economici e tirannegiate da quelli tecnocratici (vedi i disastri dei governi tecnici). Dalle parti del Palazzo dei Marescialli infatti hanno sempre avuto in testa l’idea che un giudice non dovesse saltare dal civile al penale, dai divorzi ai decreti ingiuntivi, dai pignoramenti immobiliari all’ordinanza di custodia cautelare da comminare nell’udienza preliminare.

Questo cambio continuo di materie era robaccia da avvocati e non una palestra ove cimentarsi in esperienze nuove ed allargare il proprio scibile giuridico. Non era una opportunità formativa ma piuttosto un faticoso fastidio a cui dare rimedio. E venne fuori il concetto tutto particolare di efficienza  legata ovviamente a quello di  specializzazione. Si pensò quindi che i tribunali ideali fossero quelli composti da un numero tale di giudici (oltre una trentina) da permettere a ognuno di essi di dedicarsi ad un pezzettino della scienza giuridica e pronunciare ed emettere sentenze con i container (tanto sarebbero state tutte le stesse: solo da cambiare, con il copia/incolla, i nomi delle parti) e fare quello per tutta la vita.

E fa niente se una tale riforma avrebbe creato solo delle megalopoli giudiziarie che avrebbero investito il cittadino con una agilità elefantiaca, fa niente se si sarebbero create delle cattedrali nel deserto distanti mille miglia dal paese reale, fa niente se un povero sventurato, per muoversi all’interno di tali alveari di giudici e cancellieri, avrebbe avuto bisogno del navigatore e del GPS, fa niente se interi territori della penisola sarebbero rimasti sguarniti di presidi giudiziari ancorché fossero all’interno, o adiacenti, a zone ad alta densità criminale, fa niente se aree che ospitavano, e ospitano,  carceri importanti e ad alta sicurezza, si sarebbero trovate all’improvviso sguarnite di uffici giudiziari esponendosi ai rischi di lunghi e pericolosi trasferimenti per permettere a detenuti temutissimi di partecipare alle udienze.

Come si dice dalle mie parti “se sta bene Rocco, sta bene tutta la Rocca”.

Poi le cose sono cambiate, quella riforma, che giaceva nelle fantasie di qualcuno tra i corridoi grigi del Ministero ed è stata silente per anni perché sopita da una politica che teneva a guardia certe spinte corporative, con il degrado della autorevolezza della classe di governo è rispuntata fuori ed è stata prepotentemente adottata proprio sulla spinta della tecnocrazia dei giudici.

Ed oggi ce la troviamo adottata con tutte le negatività di cui abbiamo fatto cenno.

Si potrebbe fare lo stesso discorso anche per altri settori della amministrazione pubblica come la Sanità, anch’essa spettatrice inerme di gravosi tagli di presidi in nome del risparmio della spesa, lasciando poveri di essi territori e popolazioni.

Ci si dimentica che certi settori della vita pubblica come la Giustizia o la Sanità sono servizi e non aziende e rispondono al criterio del soddisfacimento dei bisogni della comunità e non al realizzo di un  profitto.

Sono comparti che devono andare incontro al cittadino e non obbligarlo a inseguirli.

In fondo lo dissero anche i padri costituenti quando, formulando l’art.5 della Carta, sancirono che la Repubblica avrebbe favorito e adottato il decentramento amministrativo.

Solo che di questi sani principi ce ne siamo presto dimenticati e oggi guardiamo, in maniera bolsa e miope, alla riforma della Cartabia, (che si occupa solo di come eleggere i giudici nel plenum del C.S.M.), come a l’unica possibile e necessaria.

Più che quella, il Ministro proveniente dal Palazzo della Consulta avrebbe dovuto fare tante altre cose.

Ne abbiamo fatto cenno in una precedente riflessione pubblicata su queste colonne. E tra esse riformare la riforma della geografia giudiziaria, anzi adottare una vera controriforma e, se proprio volessimo spingerci all’estremo, non solo riaprendo tutti i tribunali chiusi, ma istituendone di nuovi per avvicinare tali servizi ai cittadini e  i cittadini ai giudici con più fiducia e maggiore speranza di ottenere giustizia vera.

Ma questi sarebbero sogni e i sogni, si sa, non si avverano mai, o quasi.

La riforma giustizia. Ingiusta imputazione, un risarcimento per frenare la caccia alle streghe dei pm. Giovanni Varriale su Il Riformista l'1 Giugno 2022. 

La riforma del processo penale voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia è stata a lungo discussa, soprattutto in riferimento alla volontà di ridurre drasticamente i tempi del processo penale che, da molti operatori del diritto, viene considerato lesivo dei diritti costituzionali. A ben vedere, tutti gli ultimi interventi legislativi in tema di giustizia hanno avuto quale fine ultimo quello di ridurre il numero di processi nelle aule di giustizia senza però pregiudicare la tutela dei diritti dei cittadini.

Proprio in quest’ottica, già con la riforma Orlando prima e con la riforma Bonafede poi, si era provato sia ad aumentare il numero dei reati procedibili a querela, così da subordinare l’azione penale alla volontà della persona offesa dal reato, sia a eliminare l’istituto della prescrizione, in modo da rendere praticamente sempre esigibile la eventuale pretesa di condanna da parte dello Stato. La riforma Cartabia, se possibile, cambia del tutto prospettiva. Infatti, se il fine ultimo resta quello di ridurre il carico di procedimenti pendenti nelle aule di giustizia, il modus agendi attraverso il quale ottenere tale risultato, è del tutto innovativo.

Invero lo scopo della attuale riforma è quello di intervenire sin dalle fasi delle indagini preliminari, nel corso della quale, alle Procure viene chiesto un lavoro di accurata valutazione rispetto ai procedimenti per i quali richiedere il rinvio a giudizio. Infatti, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, le Procure saranno chiamate a svolgere un vaglio tra quei procedimenti che, così come recita la norma, possano giungere ad una sentenza di condanna e quelli, invece, destinati a una archiviazione. È chiaro come la ratio non sia quella di affidarsi alle capacità indovine dei Pm né tanto meno quella di pretendere che si svuotino le aule di giustizia, bensì l’intento della riforma appare quello di evitare che le Procure possano, magari ingolosite dal risalto mediatico che potrebbe avere un determinato processo, intraprendere, come per altro spesso successo, una caccia alle streghe.

Proprio, sulla scorta della necessità di responsabilizzare le Procure, viene introdotto un nuovo e rivoluzionario istituto, ovverosia quello della riparazione per ingiusta imputazione, che si affianca al già presente istituto della riparazione per ingiusta detenzione. L’introduzione del suddetto rimedio riparativo vede la sua essenza proprio nella necessità, percepita a buon diritto dal Legislatore, di tutelare coloro i quali si trovino ad affrontare ingiustamente un processo penale. Tale aspetto non può in alcun modo essere sottovalutato, poiché sono svariati i pregiudizi che un soggetto, seppur non detenuto, debba subire quando veste i panni dell’imputato. Infatti, si va dall’annoso problema del c.d. carico pendente che comporta una serie di limitazioni (non poter partecipare ad un concorso pubblico) o mere lungaggini burocratiche (es rilascio del passaporto), fino alla necessità di dover sopportare le annose spese legali.

Finalmente il Legislatore sembra aver empatizzato con i cittadini che, con troppa facilità, loro malgrado, si trovano avviluppati nel turbinio delle maglie di una giustizia spesso veloce nelle fasi di rinvio a giudizio e lenta nei momenti successivi. Aver quindi previsto l’istituto della riparazione per ingiusta imputazione appare, a parere di chi scrive, essere non solo dimostrazione di grande civiltà ma anche dimostrazione concreta di effettivo garantismo. In conclusione, il progetto di riforma appare particolarmente ambizioso ma interessante e soprattutto innovativo poiché richiede un cambiamento di approccio da parte degli operatori del diritto sin dall’iscrizione della notizia di reato. Giovanni Varriale

Cinque mesi in galera senza titolo, scarcerato Cirinnà. Il legale di Cirinnà, l’avvocato Cataldo Intrieri, aveva immediatamente presentato al giudice dell’esecuzione penale la richiesta di annullamento del decreto di revoca della sospensione della pena emesso dalla Procura. Valentina Stella su Il Dubbio il 15 giugno 2022.

Ricordate il caso di Claudio Cirinnà, trattenuto in carcere sulla base di un atto del Tribunale di Sorveglianza di Roma annullato dalla Cassazione? Riassumiamo la storia per chi si fosse perso le scorse puntate.

In breve: l’11 novembre 2021 era stata rigettata la richiesta di misure alternative in relazione alla pena di un anno, un mese e 4 giorni di reclusione come residuo della maggiore pena a 2 anni e 8 mesi. Tuttavia l’ordinanza era stata annullata con rinvio dalla Cassazione lo scorso 11 maggio. Inoltre anche l’ufficio esecuzione della Procura capitolina aveva respinto la richiesta di sospensione della pena in carcere «non potendosi sospendere più di una volta l’esecuzione della stessa condanna».

Il legale di Cirinnà, l’avvocato Cataldo Intrieri, aveva immediatamente presentato al giudice dell’esecuzione penale la richiesta di annullamento del decreto di revoca della sospensione della pena emesso dalla Procura. Ebbene, ora il giudice gli ha dato ragione, argomentando come segue. «Condivise le argomentazioni esposte dalla difesa del condannato – si legge nel provvedimento – dovendosi ritenere nulla l’attività posta in essere a seguito di atto dichiarato nullo dispone la liberazione del condannato». E così abbiamo chiesto all’avvocato Cataldo Intrieri di fare un’analisi dell’accaduto e se è soddisfatto di quanto ottenuto. «Non si tratta di questo – ci dice – come avvocato sono stupito che sia successa una cosa del genere».

Per poi spiegare gli eventi. «Un cittadino ha subìto oltre cinque mesi di carcerazione senza titolo – continua l’avvocato – primo perché il Tribunale di Sorveglianza di Roma ha sbagliato a decidere su di lui senza neanche avere le relazioni dei servizi sociali per valutare il suo comportamento dopo la commissione dei fatti; secondo per l’opposizione strenua della Procura della Repubblica di Roma, che è arrivata a negare ciò che non si poteva negare, ossia che la nullità dell’ordinanza rendesse impossibile far restare in galera il mio assistito».

Ma dal momento che la notizia è arrivata a poche ora dal fallimento dei cinque referendum sulla giustizia, tra cui quello che si poneva l’obiettivo di limitare l’abuso della custodia cautelare in carcere, ecco che la chiosa finale dell’avvocato Intrieri non si limita soltanto a fornire una visione delle cose ma non nasconde anche l’amarezza per lo stato dell’arte in Italia. «Alla luce anche del fiasco dei referendum – conclude infatti l’avvocato – fatti come questi dovrebbero invece far riflettere sull’uso del carcere in questo Paese».

Quella misura cautelare un sequestro legalizzato: storie di “ordinaria” ingiusta detenzione. Dieci giorni ai domiciliari, ma mancavano i presupposti. Il Dubbio il 22 maggio 2022.

L’ennesimo paradosso giudiziario si compie a Roma, dove un uomo si ritrova con una misura cautelare degli arresti domiciliari che non poteva e non doveva essere emessa.

Si avete capito bene, non c’erano i presupposti per emettere la misura. Una sorta di sequestro di persona “legalizzato”. La vicenda vede protagonisti tre giudici della Corte di appello di Roma, tutti con una certa esperienza, che ricevono una segnalazione da parte dei carabinieri di Acilia per una presunta violazione della misura cautelare del divieto di avvicinamento. I tre giudici si riuniscono in camera di consiglio e dispongono di aggravare la misura con gli arresti domiciliari lontano dal nucleo familiare. G. I., padre di quattro figli, si vede i carabinieri in casa che gli intimano di uscire immediatamente e fornire un possibile domicilio alternativo per scontare gli arresti domiciliari altrimenti lo condurranno a “Regina Coeli”.

La realtà è ben diversa, in primo luogo la misura del divieto di avvicinamento era stata già revocata nel corso del giudizio di primo grado, inoltre il reato ipotizzato inizialmente di maltrattamenti era stato riqualificato, nel meno grave, di minacce che non prevede la possibilità di applicazione di alcuna misura cautelare, tutto questo sembra surreale, ma è avvenuto. Evidentemente i tre giudici non hanno letto gli atti del fascicolo che era a loro disposizione.

Dopo 9 giorni di arresti domiciliari senza titolo a G. I. viene revocata la misura a seguito dell’istanza del difensore che scrive ai giudici «attenzione, il vostro provvedimento è “palesemente erroneo in fatto e in diritto, tale da determinare un arresto privo delle condizioni di applicabilità e tale da determinare una futura richiesta di ingiusta detenzione”» . Ieri ( giovedì, ndr) il provvedimento di revoca che, beffa nella beffa, è stato eseguito nella giornata di oggi ( ieri, ndr).

I tre giudici si sono “giustificati” scrivendo, testuali parole: «L’aggravamento è stato disposto sulla base di erronei presupposti emersi unicamente dalla segnalazione fatta dai carabinieri».

Ma i giudici non dovrebbero leggere gli atti del fascicolo?

Come è possibile disporre della vita delle persone senza verificare e sincerarsi della bontà delle proprie decisioni?

Altro caso di ingiusta detenzione senza alcuna conseguenza per chi ha errato in maniera grossolana.

La follia della Giustizia che non riesce ad ammettere neanche lo sbaglio.

La magistratura continua a predicare per gli altri quello che non si applica per i suoi sodali: “Il maggior errore del giudice è di credersi immune dalla responsabilità del delitto per il quale un altro è condannato; è di credersi membro di una società migliore, di una società di eletti” ( Gustavo Zagrebelsky). Riccardo Radi, Avvocato

I dati della relazione annuale al Parlamento. Manette facili, a Napoli si ama sbattere le persone in carcere: record di ingiuste detenzioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Se i numeri dicono qualcosa, quelli sulle ingiuste detenzioni contenuti nell’annuale relazione sulle misure cautelari presentata giorno in Parlamento dicono che si fa ancora ampio ricorso alle manette, che pm e gip ancora troppo facilmente firmano ordini di carcerazione preventiva, che la giustizia continua a non essere giusta e innocenti finiscono in cella. Perché? Sicuramente perché prevale una cultura giustizialista. perché di fronte a processi che hanno tempi lunghissimi si pensa di intervenire con la misura cautelare nella fase preliminare delle indagini come se si trattasse di un’anticipazione della condanna che si è convinti di ottenere al termine del processo.

Una distorsione del nostro sistema, il cortocircuito che brucia vita e diritti in un caso su tre. Sì, perché tanti, uno su tre, sono gli innocenti che ogni giorno finiscono in cella per una svista di chi indaga, per una lettura degli indizi errata, frettolosa o superficiale, perché le indagini finiscono per essere orientate a trovare il reato più che la prova di esso. Consideriamo poi che un arresto fa più notizia di un non arresto, una condanna più clamore di una assoluzione. Ed ecco che la gogna è servita. Se si è innocenti il calvario dura anni e anni, e i danni subiti nessuno li ripaga. I più preferiscono non ricorrere allo Stato per chiedere un risarcimento, tra quelli che invece lo fanno – decidendo di affrontare un nuovo iter giudiziario complesso e lungo quasi come quello che li aveva portati ingiustamente in carcere – non tutti alla fine ottengono l’indennizzo perché lo Stato ha previsto una serie di paletti per limitare al massimo i casi di risarcimento Assume, per questo, un valore ancora più emblematico il dato che emerge dalla relazione annuale presentata l’altro giorno in Parlamento.

Nel 2021 a Napoli si sono contati 178 provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione: il numero più alto tra le Corti di Appello d’Italia. Un numero su cui incide l’accelerazione allo smaltimento dei fascicoli data dai vertici degli uffici giudiziari, ma che sicuramente dà la misura di quanto sia ancora diffuso nel nostro distretto il problema della ingiusta detenzione. In tutta Italia i provvedimenti sopravvenuti nel 2021 sono stati 1.284, 178 dei quali provenienti dalla sola Corte di Appello di Napoli. Nell’anno appena trascorso, sempre a Napoli, sono stati 169 i procedimenti esauriti e 40 i provvedimenti accolti con ordinanze definite, con una media di accoglimento pari ad appena il 24%. Una media che cresce, seppure di poco, a livello nazionale: 33%. Quanto alle misure cautelari, la relazione annuale al Parlamento ha registrato, a livello nazionale, un complessivo calo delle misure coercitive rispetto al biennio che ha preceduto la pandemia.

Ma i numeri restano sempre alti: nel 2021 le misure coercitive sono state 81.102 mentre nel 2018 superavano la soglia delle 95mila. I dati contenuti nella relazione dicono anche che i 3/4 delle misure vengono emesse dalle sezioni gip mentre solo il restante 1/4 viene emesso dalle sezioni dibattimentali. Questo vuol dire che prevale la carcerazione preventiva nella fase delle indagini. Nel 2021, in Italia, il 73,2% delle misure cautelari sono state firmate da un gip (giudice delle indagini preliminari) mentre solo il 26,5% da un giudice del dibattimento. Il braccialetto elettronico è usato pochissimo. Il carcere resta la misura cautelare più diffusa, seguito dagli arresti domiciliari. E se a livello nazionale il carcere è la misura decisa nel 29,7% dei casi e gli arresti domiciliari nel 22,2%, seguite dalle altre misure (obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria, divieto di avvicinamento, divieto di dimora, obbligo di dimora, custodia cautelare in luogo di cura), è a Napoli che il carcere raggiunge la percentuale più alta (51,2%), il 26% delle misure emesse impone arresti domiciliari, solo il 9,6% l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

Intanto le carceri sono strapiene e, nonostante si faccia un gran parlare di misure alternative, le celle continuano ad essere affollate e negli istituti di pena circa la metà della popolazione detenuta è in attesa di sentenza. Secondo dati del ministero della Giustizia, nelle carceri della Campania al 30 aprile erano presenti 6.806 detenuti a fronte di una capienza di 6.113 posti. A gennaio erano 6.702.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Manette facili, Napoli capitale degli innocenti in carcere. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Agosto 2022 

Celle sovraffollate, strutture penitenziarie fatiscenti, educatori e psicologi in numero irrisorio, attività di rieducazione non per tutti, assistenza medica a singhiozzo, a singhiozzo e non per tutti anche i percorsi per detenuti con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. E poi, le celle chiuse, l’ozio forzato, la convivenza in ambienti angusti, lo spazio vitale non sempre assicurato, i detenuti stranieri che non hanno mediatori culturali, i detenuti malati che vengono curati a stento, quelli anziani che non ce la fanno a essere autonomi. E ancora, il caldo asfissiante, la penombra perenne, una stanza per quattro dove si vive in otto, una finestra con le sbarre troppo piccola per far passare luce e aria, l’acqua potabile che manca e i rubinetti da cui esce acqua marrone, l’acqua potabile che c’è ma dai rubinetti ne esce soltanto un filo. Si potrebbe continuare ancora e descrivere l’inferno senza fine che sono le carceri, un inferno ancora più inumano se si considera il numero di persone che ci restano recluse da innocenti. Numeri agghiaccianti che scivolano sulle coscienze dei più, pur descrivendo una realtà drammatica, ingiusta e per questo pesante come un macigno. Ma questo è ancora il Paese dove la polvere si nasconde sotto il tappeto, dove le situazioni si affrontano solo dopo che si verificano i disastri, dove le emergenze diventano l’ordinario, dove i problemi assumono valore solo per chi li vive in prima persona altrimenti si fanno spallucce. In particolare, poi se si affronta l’argomento carcere. I dati emersi dal rapporto di metà anno dell’associazione Antigone fotografano una realtà sempre più disastrosa ma per la quale quasi nessuno si scandalizza.

I numeri contenuti nel report presentato nei giorni scorsi sono scivolati rapidi nell’indifferenza collettiva, pur meritando ben altro clamore. Proviamo quindi a leggerli bene quei numeri, per comprendere quale realtà ci illustrano e quali emergenze la politica e l’opinione pubblica stanno continuando a trascurare. Nella prima parte dell’anno i dati confermano che circa il 29% dei detenuti non ha una condanna definitiva, il 15% è in attesa di primo giudizio mentre resta ampio il ricorso alla custodia cautelare. Poco conta che nel 2021 siano stati pagati 24 milioni di euro per indennizzi per ingiusta detenzione, la politica giustizialista, il panpenalismo la fanno ancora da padrone. A fronte di 54.841 presenze nei penitenziari del Paese, si contano ancora troppi detenuti in attesa del primo giudizio, quindi presunti innocenti a tutti gli effetti, persone solo sfiorate da un’indagine penale, raggiunte da accuse rispetto alle quali non c’è stata ancora nemmeno una sentenza. Difficile pensare che si tratti di tutti criminali pericolosissimi, del resto le statistiche dicono che la metà delle inchieste si risolvono in un nulla di fatto per cui almeno la metà dei detenuti in attesa di sentenza definitiva sono in carcere ingiustamente. In particolare, i detenuti in attesa di primo giudizio sono 8.329, gli appellanti cioè quelli condannati in primo grado e in attesa di processo d’appello sono 3.658, i ricorrenti in Cassazione 2.693. La percentuale dei detenuti definitivi – pari al 71% – è in aumento rispetto al semestre precedente. Quanto alla custodia cautelare e alle ingiuste detenzioni, nel dossier si riportano i dati ministeriali. «Dati sorprendenti – sottolinea Antigone provando a squarciare il velo di indifferenza che l’opinione pubblica e una gran parte della politica mette sul tema carcere -. Innanzitutto, colpisce il fatto che la più restrittiva delle misure cautelari personali, la custodia cautelare in carcere, è anche la più diffusa, adottata nel 29,7% dei casi in cui nel 2021 si è ritenuto che fosse necessario applicare una misura, e la seconda misura più restrittiva, gli arresti domiciliari, è anche seconda per diffusione, scelta nel 25,7% dei casi». Secondo Antigone sono «altrettanto sorprendenti le differenze di applicazione delle misure cautelari, e in particolare della custodia cautelare in carcere, guardando ai diversi tribunali».

E qui la lente si posa sulla realtà giudiziaria napoletana evidenziando quanto ampio sia il ricorso alle manette facili. «Se, come detto, in Italia in media si opta per la custodia cautelare nel 29,7% dei casi in cui si applica una misura, questa percentuale – sottolinea Antigone – a Napoli è del 51,2%, a Roma del 25,6%». Se si confronta il dato sulle misure cautelari emesse con il dato delle ingiuste detenzioni (circa cento ogni anno a Napoli solo tra le istanze arrivate a sentenza, ci sono quindi centinaia di altri casi non denunciati o ancora sub iudice) è chiaro che si è ancora in presenza di abusi della misura cautelare da parte di pm e giudici. Inoltre, in relazione agli indennizzi che lo Stato paga alle persone che sono state in custodia cautelare o agli arresti domiciliari per un procedimento per il quale sono state poi prosciolte o assolte, oppure nei casi in cui è accertato che la misura cautelare è stata adottata in violazione dei presupposti di legge, in Italia, nel 2021, sono stati pagati 24.506.190 euro (nel 2020 erano stati 36.958.291) per 565 indennizzi (750 nel 2020), per una cifra media di 43.374 euro per indennizzo (nel 2020 la cifra media era stata di 49.278 euro). Il fenomeno dietro questi numeri è ben più ampio, perché c’è un gran parte di casi non denunciati, centinaia di innocenti che escono stravolti dall’esperienza del carcere e non hanno la forza né psicologica né economica per affrontare altri processi. «Ventiquattro milioni possono in effetti sembrare molti – osserva infatti Antigone – ma il numero degli indennizzi riconosciuti è in effetti piuttosto basso»

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il report annuale. Innocenti in carcere, a Napoli pochi risarcimenti e carriere dei pm salve. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Maggio 2022. 

Una misura su dieci risulta emessa in un procedimento che ha avuto poi come esito l’assoluzione o il proscioglimento. Un innocente ogni tre finisce in carcere. Chi paga per le ingiuste detenzioni? Lo Stato qualche volta (a Napoli nel 24% dei casi, a fronte di una media nazionale del 33%), i magistrati mai. Dalla relazione annuale sulle misure cautelari, presentata l’altro giorno in Parlamento, emerge il divario tra i dati sulle ingiuste detenzioni e quelli relativi ai risarcimenti riconosciuti dalle Corti di Appello e alle azioni disciplinari intraprese e concluse nei confronti dei magistrati.

Ebbene, dalla relazione emerge che nel 2021 i pagamenti per riparazioni per ingiusta detenzione hanno raggiunto la cifra di 24.506.190 euro (erano quasi 37 milioni nel 2020). Questa somma fa riferimento a un totale di 565 ordinanze. A Napoli si sono contate 72 ordinanze per una spesa di due milioni e mezzo di euro (2.517.100 per l’esattezza). Il dato è in lieve calo rispetto al 2020 (101 ordinanze per una spesa di tre milioni e 100mila euro sempre con riferimento al distretto giudiziario napoletano) ma descrive una situazione di malagiustizia comunque ancora diffusa. Basti pensare che con 72 ordinanze in un anno Napoli è in cima alla classifica delle città italiane, seconda dopo Reggio Calabria. Bisogna anche considerare che, se a Napoli la percentuale delle richieste di risarcimento accolte è pari al 24%, il numero dei casi di innocenti in cella che si verificano sono molti molti di più. La tabella contenuta nella relazione annuale sulle misure cautelari, nel tracciare una panoramica dei risarcimenti accordati e pagati, quindi parliamo di quei risarcimenti che rientrano nel 24% accolti, evidenzia anche un altro fatto: gli esborsi di maggiore entità riguardano provvedimenti dell’area meridionale e i pagamenti più consistenti sono stati emessi dalla Corte di Appello di Reggio Calabria seguita da quella di Napoli.

Di fronte a tanti arresti infondati, a tanti innocenti in carcere, a tante vite devastate da inchieste che si sono rivelate poi flop finendo con assoluzioni o proscioglimenti, di fronte a tutto questo a farne le spese sono sempre e solo i cittadini. Nella relazione si sottolinea come la richiesta e l’applicazione di misure cautelari si basino su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale, e si specifica che «il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione – cosi come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’art. 643 c.p.p. – non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto». Un paletto che diventa un muro, sicché nessun magistrato risulta responsabile per l’arresto di un innocente. Nei tre anni a cavallo tra il 2019 e il 2021, a fronte di centinaia di ingiuste detenzioni ogni anno, le azioni disciplinari a carico di magistrati sono state in totale 50 in tutta Italia e, tra assoluzioni e procedimenti in corso, nessuna si è conclusa con una sanzione.

Nel 2021, in particolare, sono state soltanto 5, di cui 3 promosse dal procuratore generale della Corte di cassazione e 2 dal ministro della Giustizia, e si sono risolte due in un’assoluzione, una in un non doversi procedere e due sono ancora in corso. Il dato, che pure è tra quelli contenuti nella relazione annuale sulle misure cautelari presentato al Parlamento dal ministero della Giustizia, è riferito – si badi – alle sole scarcerazioni intervenute oltre i termini di legge, senza prendere quindi in considerazione tutti gli altri casi, che sono poi quelli più gravi. Giudice non condanna giudice, viene da pensare. Eppure le storie degli innocenti in carcere parlano di indagini frettolose, di indizi mal valutati, di intercettazioni male interpretate, di un uso eccessivo della carcerazione preventiva tanto, in molti casi, da far parlare di abuso o di anticipazione della condanna, e di processi lunghissimi che finiscono per essere una pena accessoria. Tutto normale?

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Errori giudiziari, giustizia-show: mille innocenti in cella ogni anno. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Luglio 2022. 

Confronto tra esperti del diritto e un docufilm per parlare del più grande male della giustizia: gli errori giudiziari. Il 4 luglio la Camera penale di Napoli nord, presieduta dall’avvocato Felice Belluomo, con l’associazione Nessuno Tocchi Caino, il Movimento forense, l’associazione Errorigiudiziari, Radio Radicale e con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Napoli nord si confronteranno su questo spinoso e mai risolto problema della giustizia.

Dal 1992 al 31 dicembre 2021 si sono registrati 30.017 casi di errori giudiziari in Italia, numeri che stanno a indicare una media di circa mille innocenti in custodia cautelare ogni anno. Il tutto per una spesa che supera gli 819 milioni e 277mila euro in indennizzi, per una media di circa 27 milioni di euro all’anno, secondo le statistiche di Errorigiudiziari.com, il primo archivio digitale dei casi di malagiustizia. Nasce, quindi, da questi dati la necessità di confrontarsi, di parlare e di comprendere le ragioni di questi errori della giustizia che rovinano vite e distruggono carriere, che possono cambiare il corso della storia di una persona, di una collettività, di una città, di un Paese intero. Al convegno parteciperanno avvocati e magistrati, esponenti di associazioni che si occupano di giustizia e di carcere. L’evento sarà anche l’occasione per assistere alla proiezione del primo docufilm italiano sugli errori giudiziari “Non voltarti indietro”, che racconta cinque storie vere interpretate e raccontate dai diretti protagonisti attraverso un ritratto a più voci di chi è finito in carcere ingiustamente.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Parla il fondatore di Errorigiudiziari.com. “Troppe firme facili sull’ordinanza di custodia cautelare”, parla Benedetto Lattanzi di Errori giudiziari. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Nascono da intercettazioni male interpretate, indagini definite con troppa fretta o superficialità, testimonianze fuorvianti, riscontri che mancano, sviste. Quel che è certo è che producono un effetto devastante. Condizionano il corso della storia, di quella personale, familiare o professionale di chi le subisce in prima persona ma anche di quella politica, economica o sociale di un determinato territorio. Le scuse non arrivano mai. Difficile anche vedersi riconosciuto un risarcimento. Parliamo degli errori giudiziari e delle ingiuste detenzioni, esempi di una giusta sempre meno giusta. Secondo le statistiche va in galera un innocente su tre.

Numeri da brividi, considerate le condizioni delle nostre carceri e i danni della gogna mediatico-giudiziaria a cui, nel nostro Paese, si espone facilmente chi subisce un’indagine, figurarsi un arresto. «Un po’ di tempo fa il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick, ci disse in un’intervista che il carcere è un veleno e va usato con il contagocce. Parole da scolpire negli uffici giudiziari e nelle aule di Tribunale insieme alla scritta “La legge è uguale per tutti”. Sulle ordinanze di custodia cautelare si mette troppo facilmente la firma. In Italia c’è un abuso della custodia cautelare», commenta Benedetto Lattanzi, giornalista e fondatore, con il collega Valentino Maimone, di Errorigiudiziari.com, un’associazione che da oltre anni raccoglie dati e storie di malagiustizia.

Come nacque l’idea? «Da oltre 25 anni, con Valentino Maimone, lavoriamo su questo tema. Abbiamo cominciato agli inizi degli anni ’90: da giovani cronisti avevamo appena assistito alla vicenda di Enzo Tortora, morto pochi anni prima per quella che lui stesso definì “la bomba al cobalto che mi è scoppiata dentro” con la sua vicenda giudiziaria. All’epoca avemmo la fortuna di incrociare sulla nostra strada professionale Roberto Martinelli, il numero uno dei cronisti giudiziari. Ci suggerì di approfondire le storie di errori giudiziari e noi seguimmo il suo consiglio: ci si aprì un mondo che fino ad allora in pochissimi avevano raccontato. In questi anni abbiamo raccolto centinaia di casi, che nel 1996 finirono in un (“Cento volte ingiustizia”), cento storie emblematiche di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Con l’avvento di Internet – racconta Lattanzi – decidemmo di fondare un database on line, aggiornato in tempo reale: nasceva così il primo archivio sul web di errori giudiziari e ingiuste detenzioni, errorigiudiziari.com, unico nel suo genere in Italia e in Europa».

Il 12 giugno si voterà per il referendum sulla giustizia, perché è importante? «La riforma Cartabia non è andata in profondità su diversi punti, per esempio la separazione delle carriere, che secondo noi servirebbe invece a dare una svolta al sistema giustizia. La questione è solo sfiorata, perché si parla di separazione delle funzioni. Il referendum è un’opportunità, andare a votare è importante anche per dare un segnale alla politica e al Parlamento che da troppo tempo su questi temi si dimostrano colpevolmente inerti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews). 

Tre innocenti in cella al dì. E il Sistema teme le urne. Anna Maria Greco il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

La convention dei Radicali sugli "orrori" giudiziari Salvini: "Con i cinque quesiti noi a mani nude contro tutti".

Errori, o meglio «orrori» giudiziari, che travolgono le vite di semplici impiegati e politici affermati, di amministratori locali, ambasciatori, giornalisti, imprenditori, avvocati, docenti universitari, architetti, commercianti...Tutti accusati, sbattuti in prigione, condannati ingiustamente, poi assolti. E nella sede romana del Partito Radicale 30 di queste storie sono protagoniste di una convention, aperta dall'intervento dell'avvocato Annamaria Bernardini de Pace, che vuole tenere alta l'attenzione sui referendum di giugno, quelli che potrebbero cambiare il sistema giustizia più radicalmente della riforma Cartabia.

I nomi delle vittime sono tanti, dall'ex sindaco di Terni Leopoldo Di Girolamo, assolto dall'accusa del 2015 di lesioni colpose per un pattinatore caduto in una buca a Marcello Pittella, ex presidente della Basilicata assolto per la Sanitopoli lucana, dopo le dimissioni per le accuse del 2018 che hanno portato la Regione al voto anticipato.

La Campagna per il Sì, dice Matteo Salvini, in questi 33 giorni «dobbiamo farcela da soli, a mani nude e contro tutti, gli spazi tv li hanno chiesti Radicali, Lega e socialisti, per tutti gli altri va bene così? Con 1000 errori giudiziari all'anno e 6 milioni di processi pendenti?». Il leader del Carroccio siede accanto alla radicale Irene Testa, che ha raccolto i casi di ingiuste detenzioni ed errori giudiziari nel libro «Il fatto non sussiste. Storie di orrori giudiziari», con la prefazione di Gaia Tortora.

L' appuntamento delle urne del 12 giugno ancora troppi neppure lo conoscono mentre, spiega Salvini, «non sarà una rivoluzione copernicana, ma un mattoncino per costruire la casa sì», perché quei 5 quesiti sono altrettante possibili «pacifiche rivoluzioni» del sistema giustizia. Se, «guarda caso», è stato bocciato il quesito sulla responsabilità civile delle toghe rimangono altri importanti, a cominciare da quello sulla separazione delle carriere.

Salvini crede ai referendum perché non crede alla riforma approvata dalla Camera e ora all'esame del Senato. «Abbiamo parlato con i partiti e con la ministra Cartabia, la cui riforma non passerà alla storia e abbiamo capito che aria tirava, così abbiamo deciso con i Radicali, portatori di idee sane, di fare la nostra parte». La battaglia sarà dura, in un momento particolare, tra guerra, coda della pandemia, crisi economica, in cui sui referendum è calato il silenzio. «Sarà difficile raggiungere il quorum del 51%? Sì. Sarà impossibile? No. E se milioni di italiani chiederanno il cambiamento, per il parlamento sarà difficile far finta di niente», dice il leader leghista. Salvini promette il suo impegno e raccomanda a tutti di informare sui quesiti. «Magari ci fossero i sostenitori del No - sbotta-, io li pagherei, invece ci sono i sostenitori del niente, del silenzio, che ammazza la democrazia».

Lui parla per esperienza, da imputato per le scelte da ministro sui migranti, raccontando dei processi nell'aula bunker dell' Ucciardone. «L'ultima udienza è durata 12 ore e capisci che la tua libertà è in mano a tre persone, le vedi lì, magari sono nervose, hanno i loro problemi. Ma decidere della vita e della libertà delle persone non è un mestiere come un altro. Quando Silvio Berlusconi parlava di test attitudinali per fare il giudice aveva ragione. Non basta un concorso, servono tante prove, non solo professionali. E invece sento di nomine in base all'appartenenza correntizia, a logiche politiche».

Tra le testimonianze di chi da innocente ha vissuto processi, carcere, gogna mediatica, «perché ormai i processi non si fanno in tribunale ma prima in tv», arriva il turno del vicepresidente leghista del Senato Roberto Calderoli, introdotto dal direttore di Radio Radicale Alessio Falconio. «Devo fare mea culpa su alcune valutazioni del passato sul diritto: ringrazio il partito radicale per aver trasformato un giustizialista in un garantista convinto. Ora dico che è meglio dichiararsi colpevole. Perché, se non hai fatto niente e qualcuno si è convinto del contrario, alla fine ti rovini la vita per sempre. Mi dichiaro colpevole di aver scritto i referendum, di aver raccolto le firme. Siamo più di 3, un'organizzazione a delinquere».

Parla il professore del collegio difensivo di Giuseppe Mussari. “Innocenti vittime di errori giudiziari? Avranno comunque la vita distrutta”, intervista a Tullio Padovani. Angela Stella su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Il professore avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, fa parte del collegio difensivo di Giuseppe Mussari, l’ex presidente di Mps, assolto qualche giorno fa dalla Corte di Appello di Milano. A partire da questa vicenda, tracciamo le distorsioni che riguardano in primis il potere di accusa nel nostro Paese.

“Questo è il disvelamento di come si esercita il terribile potere di accusa in Italia, dove, per fortuna, esiste ancora un giudice, immigrato da Berlino”. Così lei e i suoi colleghi Francesco Marenghi e Fabio Pisillo avete commentato la sentenza. Cosa intendevate dire?

Il potere di accusa, come ha sostenuto il grande magistrato francese Antoine Garapon, è “anomico e terribile”. Esso sfugge alle maglie della legalità proprio mentre è alla ricerca della legalità. Il potere di accusa può muovere da qualsiasi impulso. Il nostro codice dice che il pm procede alla ricerca della notizia di reato, non la riceve soltanto. In questa attività comincia a sviluppare i poteri di accusa che si rivolgono in mille direzioni – interrogatori, perquisizioni, sequestri – per diventare sempre più invasivo. Ad un certo punto la notizia deve essere pubblicata sul giornale: basta una perquisizione, atto non soggetto a divieto di pubblicazione, specialmente se compiuta alle prime luci dell’alba, col fragore di molte auto a sirene lanciate che si precipitano sotto la casa del malcapitato, e il gioco è fatto. L’indagato viene sbattuto sui giornali e la sua reputazione viene rovinata. Così il potere di accusa si è manifestato in forma devastante. Ma questo potere si giustifica invocando che è la legge che impone di perseguire ogni reato.

Però poi c’è il vaglio del Gip.

Sulla figura del Gip si potrebbe scrivere un romanzo non a lieto fine. Si prospetta una garanzia tanto lussureggiante quanto inconsistente. Ovviamente ci sono giudici impeccabili e pm scrupolosi. Ad esempio Carlo Nordio: quando faceva il pm poteva essere un modello per chiunque. Per questo non ha fatto carriera: gode di una stima che non è proporzionata alla dimensione professionale che un uomo come lui avrebbe dovuto assumere. Quindi le eccezioni ci sono, ma è il sistema che alla fine prevale. Ricordo un episodio lontano.

Prego.

Era appena entrato in vigore il Codice Vassalli che sembrava lasciare poco spazio al pm. Mi trovai ad un convegno sul lago di Garda, durante il quale molti magistrati lamentavano queste restrizioni alle funzioni del pm. Un alto magistrato, mio carissimo amico, mi disse: «Tullio, i miei colleghi non hanno capito nulla, non hanno capito che questo è in realtà il codice dei pubblici ministeri». Da allora miriade di processi, grandi o piccoli che siano stati, hanno testimoniato di come ci si debba inorridire nel vedere come quel potere dell’accusa sia stato esercitato.

Avete anche aggiunto: «L’avvocato Mussari non è più quel che era quando questa vicenda è iniziata, e nessuno gli restituirà nulla. Su questo, forse, dovremmo tutti riflettere».

L’avvocato Mussari impersona plasticamente e drammaticamente la figura del soggetto a cui io mi riferisco con una massima che sono solito ripetere ai miei assistiti innocenti, i quali versano in situazioni processuali prevedibilmente lunghe, logoranti, devastanti con una prospettiva secondo me certa di uscirne, ma dopo molti anni di patimenti: «Se tutto va bene lei è rovinato». Questo si realizza in Italia: dopo essere stati stritolati nel tritacarne giudiziario se ne esce annullati, senza alcuna consistenza, con una vita distrutta insieme ai rapporti familiari e professionali. Io ho una casistica per tutte le cose che affermo: la moglie ti abbandona, i figli ti rifiutano, un mio cliente è persino diventato barbone prima di essere assolto.

Chi si assume la responsabilità di questo?

Nessuno. A fronte di questo immenso potere non esiste alcuna responsabilità. Tra l’altro il nostro è un Paese che miniaturizza l’idea di errore giudiziario. Esso è considerato tale solo quando produce una condanna ingiusta rispetto alla quale c’è da risarcire una detenzione. Ma a mio parere siamo in presenza di un errore giudiziario ogni volta che si subisce un processo per poi essere assolto. I cittadini dovrebbero essere tenuti indenni, quantomeno sul piano delle conseguenze economiche. L’imputato dovrebbe essere immediatamente risarcito, perché sottoposto ingiustamente a processo. Anche se non sarò andato in carcere, la mia vita è stata rovinata. E nessuno neanche chiede scusa.

A proposito di responsabilità, l’Anm non condivide affatto la parte di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario in cui si prevede di valutare il magistrato anche in base agli esiti.

Constato che esiste una massima eterna: chi ha un potere su cui non grava una corrispondente responsabilità non è mai disposto ad accettarla, perché significherebbe rinunciare a una fetta di quel potere e alla serenità di non dover render conto delle proprie azioni. Invece potere e responsabilità dovrebbero andare a braccetto, essere due facce della stessa medaglia. Altrimenti quel potere si trasforma in una sovranità assoluta.

Soprattutto quando quel potere può privare della libertà personale.

In questo caso la tecnica per deresponsabilizzarsi è ripartire il potere. Ad esempio, il pm sosterrà che ha fatto la richiesta di arresto, ma è il giudice che ha poi spedito la persona in galera. L’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”) alla luce di quello che ci siamo detti fino ad ora va riletto così: L’Italia è una Repubblica giudiziaria, fondata sull’esercizio dell’azione penale. La sovranità appartiene ai pubblici ministeri, che la esercitano in modo discrezionale.

L’Anm lunedì prossimo sciopera, anche per questa questione del fascicolo di valutazione. Che pensa?

Lo sciopero è considerato un diritto intoccabile. In realtà il nostro sistema contempla ancora uno sciopero illegittimo. L’articolo 504 cp stabiliva che quando lo sciopero è commesso con lo scopo di costringere l’Autorità a dare o ad omettere un provvedimento, ovvero con lo scopo di influire sulle deliberazioni di essa, si applica una certa pena. La norma è stata sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale nel 1983. La sentenza 165 la dichiarò costituzionalmente illegittima, salvando però l’ipotesi che lo sciopero sia diretto a sovvertire l’ordinamento costituzionale, ovvero ad impedire od ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare. E allora mi chiedo: l’Anm non intende forse influenzare l’attività parlamentare? Non sta chiedendo appunto che il Parlamento cambi indirizzo? Non è forse il tentativo di ostacolare il libero esercizio dei poteri legittimi nei quali si esprime la sovranità popolare? Ovviamente sono consapevole che per applicare l’articolo 504, nella forma residua dopo il vaglio costituzionale, ci vogliono magistrati, e cioè quegli stessi magistrati pronti a scioperare.

Ultima domanda: cosa ne pensa della decisione della Corte Costituzionale di rinviare la decisione sull’ergastolo ostativo?

In Italia la regola numero uno è quella del rinvio, la panacea di tutti i mali. Invece la Corte costituzionale, riconoscendo che la norma era illegittima, avrebbe dovuto subito dichiararne l’incostituzionalità. E il Governo avrebbe potuto intervenire con un decreto legge per dettare una disciplina costituzionalmente corretta. La soluzione c’era. Il sistema ha invece partorito questa situazione paradossale per cui l’incostituzionalità resta sospesa: non riesco proprio a capirlo. Lo stupore mi ha colto fin dalla vicenda Cappato (tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ndr): sono rimasto esterrefatto nel leggere del rinvio anche in quel caso. E poi, come sappiamo, il Parlamento non ha fatto nulla. E così accadrà in questo caso. L’8 novembre non credo proprio che avremo una legge approvata in via definitiva. Nessuno se ne vorrà assumere la responsabilità, soprattutto a ridosso delle elezioni. Angela Stella

Palamara: «In Italia la legge non è uguale per tutti». L'ex pm di Roma: «È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po' la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia». Il Dubbio il 5 aprile 2022.

«In magistratura il manuale Cencelli, in Italia la legge non è uguale per tutti». Lo ha detto Luca Palamara al Congresso di Grande Nord a Milano. «Un auspicio di cambiamento è quello che mi ha caratterizzato nella mia esperienza professionale. Come tutte le vicende umane e che hanno a che fare con la politica, riproducono su se stesse le vicende della politica. È giusto dirlo: la magistratura è una comunità composta da 10.000 magistrati che riflette un po’ la vita politica, sociale, istituzionale dell’Italia», sottolinea.

«In magistratura – continua Palamara – c’è una parte più ideologizzata, quella che noi chiamiamo della sinistra giudiziaria, c’è poi una parte più attenta ai problemi del sindacato, e una parte che è moderata dall’interno» e «a torto o a ragione l’orientamento culturale della magistratura parte dalla sinistra giudiziaria, che crea un cortocircuito anche nel rapporto tra magistratura e politica».

«Qualcosa bisogna fare: ad esempio – spiega – stabilendo come si vuole organizzare internamente la magistratura. L’autonomia e l’indipendenza viene organizzata oggi attraverso questi gruppi associativi, queste correnti, e le correnti determinano la vita della magistratura. Stabiliscono chi diventa procuratore della Repubblica, chi diventa Presidente del Tribunale e chi diventa consigliere superiore della magistratura».

Laicità e sentenze. Alla giustizia italiana serve un Concilio Vaticano II per guardare negli occhi i reali bisogni della società. Alberto Cisterna su Il Riformista l'1 Maggio 2022. 

Tra le pieghe delle riforme approntate dal ministro Cartabia e tra gli obiettivi del Pnrr sta lentamente erodendo spazi una profonda ristrutturazione della giustizia nel nostro paese. Persino l’emergenza pandemica sta spingendo in modo sostanziale perché il servizio giustizia assuma una collocazione, come dire, meno tolemaica e più periferica nel complesso sistema delle istituzioni democratiche.

L’introduzione dell’improcedibilità in appello e in cassazione; la prevista, massiccia erosione delle pendenze entro tempi rapidi; l’iniezione di un numero senza precedenti di collaboratori dei giudici per smaltire pratiche; due anni di trasformazione dei tribunali e delle corti in “sentenzifici” vuoti dalle aule deserte; e, ora, le pagelle di valutazione stanno inesorabilmente sospingendo gli apparati di giustizia verso l’angolo chiaroscurale di una posizione meno austera e appagante. Qualcuno lamenta, addirittura, che si vogliano privare i giudici di quarti di nobiltà istituzionale assimilandoli a una qualunque pubblica amministrazione. Senza neanche considerare che un processo è per ciascun cittadino né più né meno che una pratica di cui attende il disbrigo al pari di una licenza o di una concessione.

Le riforme, e lo spirito laicizzante che le sospinge per la prima volta a ranghi serrati tra la politica, sembrano condannare le toghe a scendere dai piani alti della Repubblica e a dover far di conto con le drammatiche urgenze della nazione; urgenze che, sinora, erano state nei fatti sempre postergate rispetto alla primaria necessità di conservare integre le guarentigie della giurisdizione. Mancano migliaia di giudici rispetto alla domanda di giustizia, ma la geografia dei tribunali è intangibile e sperpera risorse; l’obbligatorietà dell’azione penale produce milioni di processi spesso inutili e bagatellari; le sentenze devono essere cesellate e, quindi, sono rade; i carichi di lavoro non possono compromettere i riti e le movenze di liturgie processuali spesso barocche. Tutto questo prevale e precede ogni altra istanza o necessità, perché ciò che conta è piuttosto l’immutabilità e l’intangibilità dell’apparato ideologico che sorregge e giustifica la magistratura in Italia.

La giustizia avrebbe bisogno di un suo Concilio Vaticano II, di una rivoluzione che guardi ai “fedeli” e parli con essi per comprenderne le necessità e i bisogni. La Chiesa decise che l’officiante non avrebbe dato più le spalle ai credenti durante la celebrazione e che tutti gli altari sarebbero stati visibili e rivolti verso il popolo, costitutivo dell’Ecclesia e protagonista del mistero eucaristico. Un simbolo, ovvio, ma al pari la manifestazione tangibile di un cambiamento profondo. È di questo guardare negli occhi i reali bisogni di giustizia della società, di questo mettere da parte qualche decennio di pulsioni mitologiche e autocelebrative che il dibattito, entro e fuori la magistratura, ha una necessità estrema. Le discussioni sulla giustizia sono avvelenate da tre decenni dalla schizofrenia che tiene separate la declamazione astratta di principi che hanno al centro le istanze dei cittadini e la concreta conservazione iper-corporativa dello status quo.

Al profilarsi di ogni progetto di riforma si alza la cortina fumogena dell’attacco all’indipendenza, della necessità di preservare l’autonomia; il tutto come un riflesso condizionato in risposta a una politica infida e complottista. Per la giustizia è la conseguenza peso di anni di politiche miopi, predatorie, antagoniste per interessi personali ad aver inquinato i pozzi e a spingere anche il più tranquillo e pacato dei giudici a metter mano alla pistola se sente parlare di separazione delle carriere o di controllo sull’azione penale dei quali, in fondo, non gli importa granché, ma che considera costitutivi del proprio dna costituzionale. Occorrerebbe un Concilio. Un luogo di consiglio per la conciliazione.

Per tornare a riflettere sul semplice fatto che quasi tutti, praticamente tutti, i processi civili e penali che si celebrano ogni giorno nelle aule di giustizia riguardano casi minuti, vicende importanti per i cittadini, talvolta vitali per loro, ma pressoché tutte saldamente al riparo da condizionamenti e pressioni di sorta. Ed esposte, invece, all’inefficienza o alla onerosità dei carichi. Si è costruito un modello ideologico e culturale che rappresenta la cittadella giudiziaria come assediata ogni giorno da poteri forti, da politici intrallazzatori, da pervicaci depistatori. Che pur ci sono, come l’affaire Palamara e altro dimostrano, ma quei processi costituiscono un infinitesimo degli affari di giustizia e né questa autonomia né questa indipendenza hanno impedito nefandezze, anzi.

Invece importa ai cittadini sempre, quasi sempre, una giustizia minuta che dovrebbe essere rapida, efficiente, sobria, mite, capace di risolvere i mille affanni della vita o di valutare con serenità devianze e errori. È facile obiettare che, in tanto questo “servizio” può essere reso, in quanto esista un corpus giudiziario autonomo, qualificato, indipendente. In realtà non accade quasi da nessuna parte in Occidente, ma è innegabile che questo assetto giovi a meglio garantire gli utenti. Tuttavia, ha un costo enorme che rischia di diventare insopportabile. La qualità della giustizia negli Stati uniti, nel Regno Unito, in Francia o in Germania è pessima se rapportata a quella italiana, ma nessuno in quei paesi si sogna di dire che pone un freno allo sviluppo economico e sociale di quelle nazioni o crea gabbie giustizialiste.

Già solo l’aver imposto la questione giustizia tra gli obiettivi del Pnrr dovrebbe far comprendere che la rinascita del paese non può avvenire in queste condizioni e, soprattutto, dovrebbe indurre a mettere da parte la solita litania corporativa, visto anche lo schiaffo assestato dall’Europa. Occorre, quindi, accettare gli aggiustamenti che l’efficienza complessiva del servizio impone e di cui ancora si parla pochissimo, presi come si è dalla fretta di approvare la nuova legge per l’elezione del Csm. Nel mare di questo vasto programma di riforme, le pagelle di professionalità dei giudici sono un affluente del tutto secondario.

Ammesso che mai funzioneranno, può anche darsi che saranno scritte sulla pelle di qualche magistrato colpito da un rating basso per i suoi insuccessi, ma il loro inchiostro rosso viene distillato dalla vita delle persone che subiscono ingiustizie, che vedono i loro diritti negati o finanche la loro libertà compromessa da qualche sprovveduto e superficiale. A quanti dicono che la pagella “frenerebbe” i pubblici ministeri o i giudici occorre ricordare che quei freni sono posti a tutela dei cittadini e che la carriera disturbata di qualche magistrato vale certo un’ingiustizia in meno. Alberto Cisterna

La polvere sotto il tappeto. Il diritto nel degrado e nessun Cicerone in vista. Otello Lupacchini su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

Il cittadino appare sfiduciato e intuisce l’ostilità del sistema giudiziario nel suo complesso: il diritto è percepito come strumento di alterazione di tutto un contesto storico, al punto di negare se stesso e diventare strumento di legittimazione di menzogne istituzionali. A questo sconfortante risultato concorrono: la legislazione malamente concepita e coordinata che riduce il diritto a un discorso verboso, a disposizione di interpreti che cercano di forzarlo a vantaggio di interessi di parte; l’inefficienza del processo penale, conseguenza dell’«obbligatorietà» puramente nominale, ma pervertita di fatto in assoluta «arbitrarietà», dell’azione penale e delle complicazioni processuali, che produce impunità diffusa, frustrante per il cittadino onesto e osservante, ma anche «errori giudiziari», intesi come tali sia i deragliamenti della giurisdizione penale, costituiti dal fatto che il tribunale imputa una fattispecie che non si è affatto realizzata o la imputa a persona diversa da quella che l’ha posta in essere, sia l’inesatta qualificazione giuridica del fatto o in una non corretta applicazione delle norme di procedura; la formazione professionale difettosa, affidata a università che restituiscono alla società dei tecnici, ma non dei giuristi in grado di percepire i contesti socio-politici da cui le regole scaturiscono e a cui sono destinate; la magistratura costituzionalmente disegnata più come centro di potere che come potere di servizio, con un tasso di entratura in organi di garanzia eccessivo e sproporzionato; l’avvocatura a cui la Costituzione ha assegnato la funzione della difesa processuale, gravata, e quindi per questo delegittimata, dal «sospetto» di agire per sviare la retta applicazione della legge.

Ai fini dell’indispensabile e, al tempo stesso, indifferibile recupero di credibilità del diritto, perché non venga più percepito soltanto come strumento per giochi di potere e torni a essere, piuttosto, una scommessa sul futuro che tutti prendano sul serio, c’è bisogno, innanzi tutto, di operatori più dotti e più eticamente attrezzati, meno tecnici e meno formalisti; di una robusta opera di riacculturamento, insomma, che si generi a partire dalle facoltà giuridiche. Personalmente, mi intrigherebbe il ritorno alle magnifiche orazioni dei grandi avvocati dell’antichità, ma non vedo all’orizzonte novelli Cicerone, capaci di dipingere, come ad esempio nella difesa di Cluenzio, l’atmosfera torbida e corrotta delle classi ricche di una cittadina molisana al tempo della dominazione di Silla, capaci di narrare una serie di delitti, omicidi, avvelenamenti, procurati aborti, testamenti falsificati, facendo emergere a tinte fosche l’avidità rapace, e criminale, l’ossessione per il patrimonio, la tetra superstizione di personaggi in una esistenza provinciale; vedo piuttosto tanti epigoni di Euricio, accusatore falsario, negligente e svogliato, il quale mentre teneva l’arringa ogni tanto si interrompeva, per bisbigliare nell’orecchio di uno schiavo, per dettargli la lista del pranzo, di fronte a costoro, rifugiarsi nell’orgoglio della più classica oratoria forense è come andare all’assalto di un carro armato con una spada di legno.

Devo, dunque, prendere, e dare altresì, atto che per più di millecinquecento anni, in tutta Europa, ci si è affidati ai giuristi per la determinazione delle regole giuridiche del presente e del futuro, ma oggi non ne esistono più le condizioni: prudentes, iuris consulti, iuris periti, iuristae, padroneggiavano saperi oltre il diritto, come filosofia, retorica, storia, letteratura, di cui essi si avvalevano nella creazione delle forme giuridiche mediante le quali ordinavano, dopo averla conosciuta e analizzata, la complessità del sociale; con le codificazioni della modernità e la riduzione del diritto a legge, però, la figura del giurista «intellettuale» è progressivamente entrata in crisi e dentro l’universo giuridico è cominciato un processo di rarefazione culturale. Gli effetti di questo impoverimento epocale sono oggi evidentissimi nelle facoltà giuridiche e, giù per li rami, negli uffici di procura, negli studi legali, nelle aule dei tribunali, nelle camere di consiglio.

In queste condizioni, si fa fatica a conoscere quelle relazioni intersoggettive alla base di ogni sistema giuridico o, forse, non le si vuole neppure conoscere, sicché ci si ritrova nelle leggi dell’ultim’ora, casuali, raffazzonate, vuote di vita. Perso ogni significato sequenze metodiche del tipo esperienza, intuizione, sapienza, giustizia, la dura realtà è che sono spariti o vanno almeno sparendo i tradizionali iuristae: per dirla con il cardinale Giambattista De Luca (Il Dottor Volgare [proemio 7.10]), l’universo giuridico è ormai popolato da «puri testuali», i quali credono che esiste un’identità assoluta fra legge e diritto e che nella legge si trovi quel tutto che si dovrebbe conoscere e coltivare. Sol che abbia un po’ d’esperienza e qualche raccolta di sentenze sulla scrivania, un operatore mediamente diligente, non dovendo più scavare nei fatti sociali e individuarne la misura più corretta, riesce oggi a cavarsela nella maggior parte dei casi: leggi e codici ben redatti ne semplificano il lavoro e riducono la competenza richiesta nella ricerca della soluzione.

Se Benedetto Croce, citato da Piergiorgio Odifreddi (“La bellezza matematica nascosta nel mondo”, La Repubblica, 28 marzo 2014) poteva sostenere che, nella società, «comanda chi ha studiato greco e latino e lavora chi conosce le materie utili» e, addirittura, degradare la scienza a semplice suppellettile, sorta di libro di ricette di cucina: priva di valore conoscitivo, oggi, per quanto attiene al diritto, simili proposizioni non hanno più cittadinanza: per un verso, vi sono filosofi e letterati, come ad esempio Claudio Giunta (“Ripensare l’umanesimo”, in Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2011), per il quale l’Italia è un «paese di avvocaticchi con le loro plaquettes di poesie pubblicate in proprio», che hanno espunto la giurisprudenza dal novero delle scienze umane; per altro verso, non manca chi sostiene, è il caso di Umberto Vincenti (Diritto e menzogna, Donzelli Editore, Roma 2013), che la iurisprentia abbia addirittura perso la qualità di scientia iuris, degradata com’è a pura tecnica: «Tecnica giuridica e non più giurisprudenza, ma anche tecnici del diritto e non più giuristi; tecno-diritto e non più (assolutamente) diritto».

Del resto, l’esperto legale dei nostri giorni, operando solo attraverso le parole della legge vigente, è appiattito sul presente: passato e futuro non gli interessano, fuoriuscendo dalla trama entro cui lavora; né è interessato a capire cosa ci sia dietro le regole scritte, la ragione storica di una singola disciplina o le idee che hanno determinato una certa opzione di regime; è altresì alieno alla critica all’assetto in vigore: poiché è il presente, non già i futuribili o il riformato, a garantirgli competenza e qualità di esperto, è di solito ostile ai cambiamenti. Complice di questo disastro lo sciagurato rinnovamento della scuola italiana, affidato a sbrigative potature come quelle abbattutesi sulle scienze umanistiche che taluni demodementi vorrebbero completare con l’ostracismo della filosofia dall’insegnamento universitario, punto di approdo del maldestro tentativo di impedire il formarsi dello spirito critico su cui si fonda, in una vera democrazia, la possibilità di esercitare forme di controllo tese a evitare che il potere si trasformi in arbitrio e che si nasconda nell’opacità.

Assunto, infatti, a unico bene da salvaguardare la velocità dei processi decisionali, l’esercizio dello spirito critico, implicante discussione, finisce inesorabilmente per rallentarli. Di qui, la riduzione degli spazi dove lo spirito critico può essere accettato, o benevolmente tollerato: spazi privati, ovviamente, dove rifugiarsi per praticare un irrilevante otium, che non inneschi alcuna forma di contagio. Immanuel Kant, nel saggio Il conflitto delle Facoltà (in Scritti di filosofia della religione, Mursia, Miano 1989, p. 244) aveva indicato come compito della facoltà di Filosofia, quello che forse ancor più è il compito delle facoltà giuridiche: sviluppare e affinare «la capacità di giudicare con autonomia, vale a dire liberamente (…) poiché l’unica cosa importante è la verità»: innegabile che competa alla facoltà di Giurisprudenza tramettere i fondamenti del pensiero critico, l’attitudine alla problematizzazione, il sentimento e la consapevolezza della relatività di ogni ordinamento giuridico; devastante, dunque da combattere con ogni mezzo e in ogni sede, il tentativo di trasformare le università in scuole professionali o, peggio, di professioni legali, quali magistratura, notariato e avvocatura. È necessario, allora, pretendere che le facoltà giuridiche tornino a formare autentici giuristi, uomini di cultura raffinata, in possesso di una tecnica peculiare, ma in grado di leggere la realtà sub specie iuris, ispirata dal dubbio metodico.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

"Può reiterare il reato perché ha affinato le sue indiscusse capacità". Detenuto si laurea in carcere ma per i magistrati è più pericoloso… perché ha studiato: domiciliari negati. Redazione su Il Riformista il 3 Maggio 2022. 

Studiare in carcere non è cosa ben gradita perché si rischia di affinare alcune peculiarità e reiterare condotte illecite. E’ quanto emerge dalle motivazioni del Tribunale di Sorveglianza di Bologna che ha rigettato la richiesta di differimento della pena avanzata dal legale di un detenuto all’inizio del primo lockdown (2020). Istanza presentata a causa di motivi di salute e respinta dai magistrati del capoluogo emiliano con una frase che lascia interdetti: “La laurea conseguita durante la detenzione e la frequentazione di un master per giurista di impresa ove si consideri la sua personalità per come emerge dalle relazioni di sintesi, si ritiene possano aver affinato le sue indiscusse capacità e gli strumenti giuridici a sua disposizione per reiterare condotte illecite in ambito finanziario ed economico, che possono essere svolte anche se ristretto in detenzione domiciliare”.

A raccontare la vicenda è il settimanale L’Espresso secondo cui il detenuto, complice anche l’inizio della pandemia, aveva richiesto un differimento della pena sulla base di un’asserita situazione di fragilità sanitaria che lo rendeva particolarmente esposto alle conseguenze di un eventuale contagio. Da qui la richiesta del passaggio agli arresti domiciliari, negata dal Tribunale di Sorveglianza che tra le motivazioni alla base del rigetto ha anche battuto sulla pericolosità dell’istruzione perché considerata come fattore potenzialmente pericoloso in grado di affinare la capacità criminale della persone detenuta, esperta in reati economico-finanziari.

Parole che hanno indignato il Dipartimento universitario dove il giovane detenuto ha studiato con giuristi e docenti. Ma non solo. Anche il presidente merito della Corte Costituzionale, Giovanni Maria Flick, insieme all’avvocata Francesca Cancellaro, hanno presentato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 2 del primo protocollo integrativo della Convenzione, che prevede il diritto allo studio, e di altri articoli.

Una cosa da cui ci si può difendere in tanti modi: una replica, una diffida. Tre toghe mi vogliono in galera per un apprezzamento sgradito. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

L’altro giorno trovo nella cassetta delle lettere una busta verde con un cartiglio inequivocabile: “NOTIFICHE PENALI”. Tre magistrati mi hanno querelato. Dice: e allora? E allora niente, so bene che è routine (non per me, che non ho mai ricevuto querele): ma m’interessa capire che cosa spinge qualcuno a fare istanza affinché qualcun altro sia processato e sottoposto una sanzione penale, possibilmente la galera. E non perché il querelante lamenti una coltellata, o di essere passato pubblicamente per stupratore di bambini, ma perché si duole di un apprezzamento sgradito: che è una cosa da cui ci si può difendere in tanti modi (una replica, una richiesta di scuse, persino una diffida), senza che sia necessario reclamare la gattabuia per il presunto colpevole.

Inutile precisare che in materia ho un pregiudizio. Io sono per l’abolizione del carcere, persino per l’abolizione della pena: figurarsi, dunque, quanto sia lontana da me anche la sola idea che un mio simile, su mio impulso, possa finire in prigione. È una questione culturale, civile, di impostazione umana, e certamente non posso pretendere che sia condivisa. Nell’ambiente in cui ho cominciato, ahimè troppi anni fa, a fare il mestiere che faccio (sono avvocato, mi occupo di proprietà industriale), si guardava con compatimento, e forse con un po’ di disprezzo, ai colleghi che si affidavano al giudice penale per risolvere i casi della nostra materia. Non ci piaceva, anzi ci ripugnava proprio, che una lite su un marchio o su un brevetto finisse in perquisizioni e anni di prigione. Le norme penali esistevano, ma erano lasciate lì, inerti, e nessuno tra noi si sognava di farvi ricorso.

Ora non importa riferire chi siano i magistrati che mi hanno querelato (son tra quelli più noti, quelli sempre in Tv), né importa (se non a me) che abbiano querelato me: e piuttosto, come dicevo, mi interessa e credo sia di interesse capire come e con quale coscienza si possa richiedere che una persona sia processata e condannata alla privazione della libertà. Devo ritenere che il querelante ritenga giusto, civile, appropriato che un essere umano – non un soggetto pericoloso, non una persona che, se lasciata libera, potrebbe arrecare nocumento all’incolumità altrui – sia imprigionato. Voglio sperare che la risposta non stia nell’osservazione che tanto in galera non ci finisce mai nessuno, e che quindi chiedere il carcere è innocuo perché poi uno lo scampa.

Né ovviamente ci si può aspettare che certe meditazioni turbino gli intendimenti di chi si è fatto un nome mandando in galera la gente. Ma un fatto è certo: la giustizia di questo Paese sarebbe diversa, pur a norme invariate, se quelli che la amministrano non nutrissero la fede che invece dimostrano per il sistema penale; se non dimostrassero questa totale noncuranza nell’essere causa dell’afflizione altrui; se provassero pena per le pene che chiedono per gli altri. Infine: se sentissero il peso del male che sono chiamati a fare. Perché se lo sentissero, credo, tanto più rigorosamente eviterebbero di farne quando nemmeno vi sono chiamati. E non farebbero più querele, credo. Iuri Maria Prado

Processo in diretta. La logorrea televisiva dei magistrati e il silenzio di chi subisce i loro errori. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.  

Nell’equilibrio dei palinsesti italiani si assiste allo strano fenomeno per cui i togati, che non sono persone qualsiasi, possono fare requisitorie televisive sul bene comune, e nel caso, dare la linea delle politiche giudiziarie. Forse si esagera nel dare loro spazio? Un rimedio ci sarebbe.

Bisogna sgomberare il campo da un piccolo fraintendimento quando si discute di giustizia e del diritto dei magistrati di occupare giornali e tv facendo il bello e il cattivo tempo nel dibattito pubblico. E il fraintendimento sta in questo: nell’idea, completamente sbagliata, che in quel modo il magistrato eserciti un diritto di parola equiparabile a quello del cittadino comune.

Perché questa, pressappoco, è l’idea: che il magistrato sia uno qualunque, e che non concedergli quotidiani ettari di interviste e intere maratone televisive equivalga a imbavagliarlo privandolo di un diritto elementare. Ma a parte il fatto che a uno qualunque non si concede nemmeno un centimetro della ribalta invece garantita all’eloquio togato, c’è che il magistrato non è per niente uno qualunque, ma un funzionario cui la società (non Dio) attribuisce il potere di applicare la legge, non quello di dare la linea delle politiche giudiziarie né tanto meno quello di fare requisitorie televisive sul bene comune.

C’è poi il fatto che quel potere (il potere di applicare la legge) implica il dettaglio della vita altrui, che può essere travolta da un tratto di penna: il che dovrebbe consigliare maggior cautela nel lasciar libero il magistrato di tracciare l’indirizzo politico del Paese in argomento di giustizia, proprio come non accetteremmo la conferenza stampa di un colonnello che con la pistola alla cintola contesta le politiche di governo per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il caso del manipolo di magistrati che chiama in adunata le televisioni e denuncia le malefatte della politica marcia ce lo ricordiamo bene; una junta di militari che allestisce in caserma un set analogo e reclama politiche dell’onestà invece non ce lo ricordiamo, e fino a prova contraria è un bene, ma sarebbe esattamente la stessa cosa. Con la differenza che il giorno dopo non intervisteremmo quei sediziosi per chiedergli come si fa a rimettere in riga la società corrotta.

Tutto questo per dire che ai magistrati dovrebbe essere impedito di parlare? No, per carità. Diciamo nella giusta misura: gli diamo lo spazio normalmente concesso ai destinatari dei loro provvedimenti sbagliati, i cittadini arrestati ingiustamente, quelli che hanno perso il lavoro, la famiglia, il patrimonio a causa degli errori e degli abusi del potere giudiziario. Sarebbe un’informazione magari un po’ meno scoppiettante, un po’ meno da far sognare il popolo dell’onestà, ma forse più civile, più giusta.

Toghe e informazione, il bavaglio non esiste. Armando Spataro su Il Corriere del Giorno il 4 Giugno 2022.  

Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i "racconti" a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni.

Il corretto rapporto tra giustizia ed informazione-comunicazione è oggi uno dei pilastri cui si fonda la credibilità dell’amministrazione della giustizia, mentre a comunicazione scorretta ed impropria genera tra i cittadini errate aspettative e distorte visioni della giustizia, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura. Infatti il CSM ha più volte emanato linee guida per gli uffici giudiziari “ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, anche se quelle determinate in passato da vari magistrati non sono certo le uniche criticità che ormai si manifestano sul terreno dei rapporti tra giustizia ed informazione. L’approvazione del decreto legislativo n.188/2021 ha determinato commenti negativi. 

Alcuni a partire da Paolo Colonnello su La Stampa hanno parlato un inaccettabile bavaglio che si vorrebbe imporre al dovere-diritto di informazione su vicende e procedure penali. Non si può ovviamente alcuna forma di censura sulla diffusione di notizie di pubblico interesse per i cittadini, ma non condivido tali critiche le quali, innanzitutto, non considerano che, al di là di marginali aspetti critici, la normativa è imposta da una precisa direttiva europea. E’ innanzitutto corretto che sia vietato per le autorità pubbliche (quindi non solo la magistratura) indicare pubblicamente come colpevoli indagati o imputati non definitivamente condannati, così come correggere la propalazione di notizie inesatte.

Ma l’allarme-bavaglio riguarda soprattutto il divieto di conferenze stampa (salvo eccezionali motivate) in favore della prassi di comunicati. Condivido totalmente questa previsione poiché conferenze stampa teatrali e comunicati stampa per proclami hanno inquinato l’immagine della giustizia e alimentano la creazione di magistrati icone, non caso tra i primi a lamentarsi della scelta legislativa. Sono preferibili comunicati stampa sobri ed essenziali che hanno il pregio di diffondere parole e notizie precise, senza possibilità di interpretazioni forzate, come accade con i “racconti” a voce. Vanno evitati però eccessi comunicativi anche della polizia giudiziaria (spesso dovuti al fine di acquisire titoli utili per la progressione in carriera, mediante visibilità e impatto mediatico delle proprie attività) o anticipate diffusioni di notizie che possono determinare il rischio di pregiudicare il buon esito delle operazioni. 

Sono pure condivisibili le disposizioni riguardanti la tecnica di redazione degli atti giudiziari destinati a diventare pubblici, quali decreti di perquisizione, avvisi di garanzia, provvedimenti cautelari, decreti penali e sentenze, che coerentemente non possono essere motivati in modo ultroneo rispetto ai fini cui sono diretti tra i quali non rientra la loro amplificazione mediatica. I protagonisti della comunicazione relativa alla giustizia non sono però solo i magistrati e la polizia giudiziaria ma anche gli avvocati, i politici, ed i giornalisti. e’ virtuoso il protagonismo di magistrati ed avvocati civilmente impegnati a fornire corrette informazioni ai cittadini nell’interesse della amministrazione della giustizia e della sua credibilità, ma non si può tacere in ordine a certi comportamenti di non pochi avvocati che sfruttano la risonanza mediatica delle inchieste in cui sono coinvolti i loro assistiti, ed anzi le amplificano. Anche grazie a tale propensione si afferma il processo mediatico, che – maggiormente deprimente se vi partecipano magistrati diventa spesso più importante ed efficace di quello che si celebra nelle Aule di Giustizia e della sentenza cui è finalizzato. 

Quanto al comportamento di alcuni politici, con incarichi governativi o meno, non si può tacere su quanti sono ben attenti a sfruttare le modalità di comunicazione che i tempi moderni hanno imposto, specie a proposito di procedimenti che vedono indagati o imputati coloro che per comune appartenenza partitica o per parentela ed amicizia, sono a loro vicine. Il brand utilizzato continua ad essere sempre eguale: si tratta di processi frutto dell’orientamento politico dei magistrati che non rispettano la legge ! I giornalisti, ovviamente, dovrebbero essere gli osservanti più scrupolosi delle regole della corretta informazione. E fortunatamente molti lo sono. Ma anche per questa categoria la modernità ha imposto “anti-regole” pericolose ed inaccettabili, mentre dovrebbero valere quelle del giornalismo d’inchiesta senza cedimenti alle logiche del captare attenzione e scatenare interesse sulla base di informazione inesatte o superficiali. Condivido, comunque, la necessità di disciplinare legislativamente l’accesso agli atti, per evitare dipendenza da fonti portatrici di interesse e per esaltare la libertà e professionalità dei giornalisti.

Ma è giusto anche che le conferenze stampa siano limitate ai fatti di pubblico interesse e che sia il procuratore a deciderlo: si potrebbe mai operare una simile scelta d’intesa con organismi rappresentativi del giornalismo ? Se tutto avviene correttamente e nello spirito della legge, i giornalisti non vedranno mai depotenziato il loro ruolo e diritto di selezionare le notizie di interesse: le indagini non nascono per tale fine, bensì per accertare i reati consumati e toccherà ai giornalisti ricercare le notizie correttamente, attraverso le fonti possibili. 

Infine un’ultima domanda: si continua a denunciare il rischio di bavaglio all’informazione sulla giustizia, ma non rilevo affatto che, dall’entrata in vigore del decreto sulla presunzione d’innocenza, tale informazione abbia patito penalizzazioni di qualsiasi tipo ! O sbaglio ? Riflettiamo tutti insieme, dunque, su informazione e giustizia, tra magistrati, avvocati e giornalisti, cercando di risolvere ogni criticità, ma si eviti per favore di denunciare un’inesistente bavaglio all’informazione come se vivessimo fuori da una democrazia.

No al decreto sciagurato che censura i nomi di arrestati e indagati. La tutela del diritto di cronaca: occorre rivedere la norma scritta troppo in fretta per evitare la procedura d’infrazione dall'Ue. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2022.

Le persone più attente avranno notato che dalle cronache giudiziarie vanno via via scomparendo i nomi di persone arrestate o accusate di reati. Apprendiamo che la tale Procura ha condotto un’indagine che ha portato all’arresto o alla denuncia di un certo numero di persone, ma non sappiamo chi sono. Fra loro potrebbe esserci il vicino di casa, un parente, l’insegnante accusato di pedofilia che è anche l’insegnante di nostra figlia. Ma non lo sapremo. O meglio non lo sapremo ufficialmente, perché la polizia giudiziaria e i Pm che conducono le indagini non possono più fornire notizie. Solo il Procuratore della Repubblica può interloquire con i giornalisti.

Sono gli effetti dello sciagurato decreto legislativo 188/2021 entrato in vigore il 14 dicembre scorso. Il decreto nasce per attuare la direttiva europea 2016/343 sulla presunzione d’innocenza. Si dirà: allora colpa della solita Europa. Nient’affatto, poiché la direttiva chiede ai Paesi membri solo di adeguare la loro legislazione in modo da proteggere la non colpevolezza dell’imputato fino a una sentenza e di evitare anticipazioni di condanna. L’Italia per cinque anni ha ignorato la questione ritenendo sufficiente quanto previsto dall’articolo 27 della Costituzione («L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva») che risulta più garantista della direttiva Ue in quanto richiede una «condanna definitiva», mentre per la normativa europea – compresa la Convenzione per i diritti dell’uomo – è sufficiente che vi sia una condanna, quindi anche solo in primo grado.

Il decreto legislativo 188/2021 è rivolto alle autorità pubbliche (magistrati, forze di polizia) ma estende i suoi deleteri effetti sull’informazione e sui giornalisti. Al di là delle modifiche ad alcuni articoli del codice penale, introduce infatti il divieto per Pm e polizia giudiziaria di fornire notizie sulle attività di indagine. Può farlo solo il Procuratore della Repubblica che di volta in volta deve stabilire quali indagini o quali operazioni di Pg siano meritevoli di essere comunicate ai media. Lo potrà fare solo con comunicati stampa o, eccezionalmente, con conferenze stampa, trasformandosi così in addetto stampa del suo ufficio e caricandosi ogni volta l’onere di individuare quale sia l’interesse pubblico di un determinato fatto. I giornalisti, poiché non toccati direttamente dal decreto legislativo, possono continuare ad attingere notizie da tutte le altre fonti (avvocati, testimoni, parti lese eccetera) ma non potranno mai verificarle con l’unica fonte diretta e attendibile, cioè con chi ha condotto le indagini.

A prescindere dalle considerazioni di natura tecnica che si potrebbero fare circa il rischio di censura, la difficoltà di stabilire quale sia l’interesse pubblico e via di seguito, è sufficiente una considerazione pratica: come farà un Procuratore della Repubblica, che di solito non sta in ufficio a fare i cruciverba, a valutare ogni singola notizia, a stendere comunicati stampa e diffonderli, a indire e tenere conferenze stampa? Delle due l’una: o si trasforma in un bravo addetto stampa o fa il lavoro per il quale ha studiato, ha acquisito competenze ed è pagato. Il rischio, per non dire la certezza, è che dovrà fare scelte di comunicazione privilegiando inevitabilmente le indagini relative ai reati più gravi o di maggior impatto sociale e per evitare richieste di rettifica – che comportano ulteriore lavoro – tenderà a non fornire nomi se non in casi eccezionali. Ecco spiegato l’anonimato di molte cronache.

Non solo, ma cominciano a sparire le notizie relative a indagini o operazioni di polizia che riguardano reati forse minori, ma di grande impatto sul senso di sicurezza dei cittadini come furti, scippi, aggressioni, spaccio di droga. Un’assenza che porterà discredito su magistratura e polizia in quanto, visto che non se ne saprà nulla, la percezione pubblica sarà che nessuno fa niente per reprimere questi reati. Che fare? Semplicemente rivedere il decreto legislativo in questione, scritto troppo in fretta per evitare la procedura d’infrazione da parte dell’Europa. Il costume italico di fare le cose all’ultimo minuto spesso porta a non ponderare in maniera attenta gli effetti di certe scelte. Senza contare che questo dlgs non inciderà sui cosiddetti processi mediatici, che davvero possono compromettere la presunzione d’innocenza di un accusato, o sulla «gogna mediatica» cui è esposta una persona che a qualsiasi titolo «entri» in un’inchiesta.

Nell’impossibilità di verifiche, le notizie non solo saranno sempre più anonime, ma anche più incerte facendo riferimento non a fatti verificati ma a supposizioni, deduzioni, «soffiate» di vario genere. Avranno campo libero tutti i venditori di fumo e gli odiatori che attraverso i social potranno disinformare a gogo. Tanto nessuno li potrà smentire con dati certi provenienti da fonti note e attendibili. Col dlgs 188/2021 si amputa di fatto il diritto di cronaca poiché si impedisce al giornalista di attingere alle fonti – a tutte le fonti – che ritiene utili per fornire al pubblico notizie veritiere. Uno studioso come Glauco Giostra ha rilevato che in democrazia «è inconcepibile una giustizia segreta», che rischierebbe di diventare «torbido strumento di affermazione di parte», determinando una «gravissima involuzione civile e democratica».

Ben prima c’era stato tale Cesare Beccaria che aveva sentenziato che «Il segreto è il più forte scudo alla tirannia». In questo caso la tirannia sarà quella della informazione irresponsabile, delle ricostruzioni fantasiose e delle fake news. Con buona pace per la presunzione d’innocenza.

“Scarcerato il mostro…”. Così i giornali scatenano la gogna. Titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, mentre in realtà dopo anni scontano pene alternative. “Farla franca”, mentre invece sono stati assolti. Tanti gli articoli che non osservano i doveri deontologici del giornalismo sul tema penitenziario. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Abbiamo la costituzione più bella del mondo, ma spesso i suoi ideali enunciati rimangono solo sulla carta. Così come abbiamo il testo unico dei doveri del giornalista, che se venisse rispettato avremmo una informazione che ci porterebbe al primo posto nel mondo per la qualità del giornalismo. Invece no. Basti pensare al tema penitenziario. I detenuti usufruiscono di misure alternative? La maggior parte dei giornali titolano “Scarcerati assassini e spacciatori”, dando così una percezione errata all’opinione pubblica, abbassandone il livello e alimentando il populismo penale. Teoricamente è vietato.

Le terminologie usate danno un valore negativo ai trattamenti penitenziari verso la libertà

Il giornalista ha il dovere di usare la giusta terminologia, ma non lo fa più nessuno. Anzi, alcune firme “rischiano” anche di vincere un premio o addirittura fare corsi di giornalismo. Sono tante le terminologie che imperversano in numerosi articoli di giornale e dove si fa anche una effettiva disinformazione dando come valore negativo il trattamento penitenziario che prevede – tra i vari benefici – l’affidamento al servizio sociale, la semilibertà o i permessi premi, e quindi una graduale proiezione verso la libertà.

Nel 2013 è stata approvata la “Carta di Milano’’, relativa ai diritti dei detenuti

In realtà nel 2013 il Consiglio nazionale dell’ordine dei giornalisti ha approvato all’unanimità la “Carta del carcere e della pena” o più semplicemente la “Carta di Milano’’, relativa ai diritti dei detenuti, che diventa così un protocollo deontologico obbligatorio per tutti i giornalisti italiani. La “Carta di Milano” ha una origine particolare: viene dal basso, non direttamente dall’Ordine dei giornalisti. È, infatti, il risultato di una lunga riflessione, nata dai giornalisti interni alle carceri, dagli operatori dell’amministrazione carceraria e dagli stessi detenuti a partire dal 2011.L’esigenza di uno strumento regolativo sull’informazione carceraria viene inizialmente maturata in tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. Le tre redazioni carcerarie promotrici della sua nascita erano state, rispettivamente, quella di Carte Bollate, periodico diretto da Susanna Ripamonti all’interno del carcere di Bollate, quella di Ristretti orizzonti, giornale diretto da Ornella Favero e promosso dalla Casa di reclusione di Padova e dall’Istituto di Pena Femminile della Giudecca e quella di Sosta forzata, rivista della Casa circondariale di Piacenza, diretta da Carla Chiappini.

Numerosi sono stati, in seguito, i seminari sulla rappresentazione mediatica del carcere, organizzati nei mesi di marzo e aprile 2011 dalla redazione di carte Bollate e rivolti sia agli allievi del Master di giornalismo dell’Università Iulm e dell’Università statale di Milano, sia ai giornalisti professionisti. L’obiettivo di questi incontri era quello di sensibilizzare maggiormente il bisogno di un’informazione deontologicamente corretta nei confronti di chi vive tutti i giorni nel mondo carcerario o a contatto con esso.

Nel corso del 2012 la Carta si è diffusa progressivamente in tutta Italia ed è stata sottoscritta anche dagli Ordini dei giornalisti di Toscana, Basilicata, Liguria, Sardegna e Sicilia. La Carta, però, era valida ancora solamente a livello regionale. La spinta definitiva alla sua approvazione a livello nazionale è avvenuta l’ 8 gennaio 2013, data in cui la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel trattamento dei detenuti.

La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta

La sensibilità comune nei confronti delle condizioni degradanti del mondo carcerario, inoltre, è aumentata notevolmente in seguito al discorso pronunciato dall’allora presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della visita alla casa circondariale di San Vittore, avvenuta il 6 febbraio 2013. L’ 11 aprile 2013, con l’approvazione definitiva da parte del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, la “Carta di Milano” è diventata ufficialmente un protocollo deontologico obbligatorio per tutti gli operatori dell’informazione. La Carta riafferma il dovere fondamentale di rispettare la persona detenuta e la sua dignità, contro ogni forma di discriminazione, tenendo ben presente i principi fissati dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Costituzione italiana e dalla normativa europea.

La Carta raccomanda ai giornali l’uso di termini appropriati

Raccomanda l’uso di termini appropriati in tutti i casi in cui il detenuto usufruisca di misure alternative al carcere o di benefici penitenziari, un corretto riferimento alle leggi che disciplinano il procedimento penale, una aggiornata e precisa documentazione del contesto carcerario, un responsabile rapporto con il cittadino condannato non sempre consapevole delle dinamiche mediatiche, una completa informazione circa eventuali sentenze di proscioglimento e tenere conto dell’interesse collettivo ricordando, quando è possibile, i dati statistici che confermano la validità delle misure alternative e il loro basso margine di rischio. Tutto ciò non viene rispettato. Non solo. Si arrivano a riportare vere fake news, ma l’Ordine dei giornalisti che dovrebbe vigilare, non ha mai fatto nulla. La deontologia rimane così un optional e la cultura del nostro Paese scivola sempre più in basso.

Nel processo mediatico l’indagato è diventato “un colpevole in attesa di giudizio…” Nel prezioso saggio del professor Vittorio Manes le degenerazioni della nostra giustizia penale. Valentina Stella su Il Dubbio il 24 maggio 2022.

Dal 5 maggio è in libreria il nuovo saggio di Vittorio Manes, avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, dal titolo Giustizia mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo (Il Mulino, pagine 168, euro 15). La premessa dell’autore non lascia dubbi: «La giustizia penale è diventata spettacolo». Non siamo dinanzi a pura e semplice informazione o cronaca giudiziaria, «ma anche autentico intrattenimento, sempre più incline al voyeurismo giudiziario». È il cosiddetto processo mediatico parallelo, senza tempo, senza spazio, senza regole rispetto a quello che si celebra nelle aule di tribunale, che condanna prima di una sentenza definitiva.

Infatti, scrive l’autore, l’indagato si trasforma in «un colpevole in attesa di giudizio» assoggettato «a un’immediata degradazione pubblica» e avviato «a un’irrefrenabile catàbasi personale e professionale». A venire profondamente lesa è dunque prima di tutto la garanzia della presunzione di innocenza. A causa della «curvatura inquisitoria» del trial by media, l’onere della prova si inverte: non sarà più il pm a dover provare la colpevolezza dell’imputato ma la difesa la sua innocenza. Il dubio pro reo si rovescia nel dubio pro republica. In questa mise en scene delle indagini e del dibattimento su stampa e in tv, ad essere coinvolti sono tutti i soggetti del processo.

La vittima, prendendo in prestito una definizione di Filippo Sgubbi, è per Manes «l’eroe moderno, ormai santificato», istituita come tale «ante iudicium, ma anche fortemente protagonizzata a scapito del presunto reo». Come co- protagonista troviamo il magistrato dell’accusa: «sedotto dall’ammaliante convinzione che vincere nei cuori della gente può essere – e molto spesso è più importante che vincere in aula» il pubblico ministero diviene «il tribuno dei diritti della vittima o comunque paladino delle aspettative pubbliche». E l’avvocato? Molto interessante la doppia rappresentazione che ci restituisce Manes: «Anche l’avvocato può occupare un ruolo di rilievo, anche se questo è molto diverso a seconda della posizione processuale rivestita e dalla parte che assiste, che può condurlo ad agire o patire il processo mediatico. Se tutela l’interesse della vittima – o se opera come patrono di parte civile – può fruire di riflesso del protagonismo di questa, e non di rado può lasciarsi irretire dalla forza seduttiva dei media sino a prendere parte a programmi di informazione, di infotainment o a talk show contribuendo bon gré mal gré alla spettacolare ricostruzione collaterale dei fatti. Al netto di ogni valutazione deontologica, quando l’avvocato si presta a questo gioco lo fa però a suo rischio e pericolo, perché difficilmente governerà le correnti di opinione che si agitano nel vortice mediatico, dove il passo dai Campi Elisi alle paludi dello Stige può essere davvero breve». Se viceversa tutela l’indagato l’avvocato «versa in una posizione decisamente scomoda: il rovesciamento della presunzione di innocenza lo colloca in posizione di ‘ minorata difesa’, se non sostanzialmente “fuori gioco”».

Non è immune al bombardamento mediatico persino il giudice che, nonostante il suo corredo professionale, si sentirà inevitabilmente chiamato a dire da che parte sta, se dalla parte della pubblica opinione o dalla parte degli indagati che la vox populi considera già presunti colpevoli. Ormai nel nostro sistema assolvere o derubricare un reato è divenuto un atto di coraggio.

Tutto questo ha pertanto delle ricadute sul piano processuale: oltre all’eclissi della presunzione di innocenza si assiste anche alla lesione del diritto di difendersi nel contraddittorio tra le parti. L’autore allude, ad esempio, «al rischio che la parodia televisiva eserciti una silenziosa manipolazione del ricordo nei soggetti chiamati a dare il loro contributo testimoniale, e che tale alterazione conduca a quella che è stata finemente descritta come una sorte di subornazione mediatica». Di fronte a tale scenario perde ogni efficacia maieutica lo strumento di verifica dell’attendibilità del teste, il cosiddetto contro esame.

Per non parlare poi del rischio di condizionamento irreversibile della stessa persona offesa. Come invertire la rotta? Manes suggerisce «un approccio rights-based» da parte della magistratura e della stampa che permetta di bilanciare, anche in linea con le disposizioni europee, l’interesse pubblico ad essere informati con il rispetto dei diritti fondamentali delle persone coinvolte in una indagine e/ o processo.

Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. Parola di Salvi. Presunzione d’innocenza, il pg di Cassazione: «La comunicazione non va abbandonata alla disponibilità delle parti private, non hanno obbligo di correttezza nell’informazione». Simona Musco su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Il processo mediatico? Colpa degli avvocati. A sostenerlo è il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, in un documento con il quale definisce gli orientamenti della Suprema corte in materia di comunicazione istituzionale sui procedimenti penali.

Ben vengano il rispetto della presunzione d’innocenza e della dignità della persona, afferma il pg – che, è bene ribadirlo, è anche il titolare dell’azione disciplinare a carico dei magistrati – ma la direttiva europea recepita dal governo italiano, che impone ai capi delle procure una comunicazione più sobria, avrebbe come effetto quello di lasciare tutto in mano alle parti private – gli avvocati, appunto –, con il rischio «che il processo si svolga non nelle aule di giustizia, ma in quelle dei mezzi di comunicazione di massa».

Il tutto, aggiunge Salvi, «senza alcun contraddittorio in grado di ripristinare, non si dice la parità delle armi, ma almeno la verità di quanto accertato nelle aule giudiziarie rispetto alle prospettazioni mediatiche delle parti».

Insomma, in 10 pagine Salvi ribadisce quanto già affermato al convegno di “Giustizia Insieme”, quando aveva evidenziato che «il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato».

Il suo pensiero, ora, viene condiviso con tutti i procuratori delle Corti d’Appello e tramite loro con i capi di tutti gli uffici inquirenti d’Italia, che useranno proprio questa circolare per applicare la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Salvi ha ricordato che informare l’opinione pubblica «non è un diritto di libertà del magistrato del pubblico ministero o del giudice, ma è un dovere preciso dell’Ufficio». Che dovrà, certamente, preoccuparsi di fornire un’informazione «corretta e imparziale», «rispettosa della dignità della persona», «completa ed efficace», oltre che rispettosa della segretezza di alcuni atti. Ma senza nessun altro limite.

E la presunzione di innocenza, dunque, «non deve comportare che la comunicazione sia interamente abbandonata nella disponibilità delle parti private, nel corso del procedimento; parti per le quali non è invece posto alcun obbligo di rispetto di canoni seppur minimi di correttezza nella informazione».

Il rischio è, appunto, il processo mediatico, del quale il pg dà la colpa ai soli avvocati, nonostante il loro ovvio interesse a garantire il rispetto della presunzione d’innocenza e nonostante siano stati proprio i magistrati, negli anni, a monopolizzare la comunicazione, sia sulla carta stampata sia nei salotti televisivi, spesso presentando come colpevoli i semplici indagati.

E Salvi critica anche «il sempre più frequente commento mediatico alla decisione del giudice, in termini spesso offensivi e aggressivi». Condotte che, se poste in essere dai magistrati, «costituiscono illecito disciplinare», mentre non esisterebbero «sanzioni analoghe» nei confronti dei difensori delle parti private. Da qui l’invito ai colleghi a segnalare ai Consigli di disciplina forense tali condotte «nei casi gravi».

La diffusione di informazioni sui procedimenti penali «è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico», ribadisce il pg. Sarà il procuratore a stabilire quando tale interesse sussista, sulla base di «circostanze fattuali, temporali, e territoriali che non possono essere univocamente previste». Di conseguenza la scelta «non può essere sindacata, se non nei casi di palese irragionevolezza».

Insomma, il margine d’azione rimane amplissimo, secondo l’interpretazione data da Salvi alla direttiva e al decreto che le dà attuazione. E se è necessario motivare la convocazione di una conferenza stampa, tale obbligo anche per i comunicati stampa sarebbe irragionevole, in quanto contrasterebbe non solo con la norma, ma anche «con la tutela dell’interesse pubblico all’informazione, avente certo rilievo costituzionale».

Non sono vietate le interviste, anche perché, «come per qualunque altro cittadino, la manifestazione del pensiero è libera e costituzionalmente garantita» dall’articolo 21 della Carta. «Ad essere regolamentata è soltanto la comunicazione “istituzionale”», afferma Salvi, ma va «evitata ogni indebita espressione di opinioni, considerazioni e notizie, che ove non trasfuse negli atti dell’indagine divenuti sino a quel momento pubblici, deve considerarsi illecita».

Ogni violazione della presunzione d’innocenza si trasformerebbe, comunque, in violazione degli scopi e della lettera della direttiva, «con ogni conseguenza». La comunicazione diretta con il giornalista è dunque lecita, ma «non deve trattare delle posizioni di singoli indagati», mentre sono “vietate” interviste, «specialmente in esclusiva, volte alla trattazione di questioni inerenti singoli procedimenti o specifiche posizioni processuali».

Sarà possibile ancora consegnare ai giornalisti copie delle ordinanze di custodia cautelare, ma non gli atti di indagine. Ma nel redigere l’ordinanza, il giudice ha «il dovere della presentazione degli elementi indiziari a carico dell’indagato in termini tali da un lato, da giustificare l’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale, e dall’altro da lasciare impregiudicata la presunzione di innocenza».

Ci mancava pure la gelosia per i penalisti “esonerati” dal riserbo sulle indagini. Le nuove norme sulla presunzione d’innocenza sono sgradite ai pm anche perché non estese agli avvocati penalisti. Valentina Stella Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Partiamo da alcuni dati: una ricerca condotta qualche anno fa da parte dell’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali, presieduto ai tempi da Renato Borzone, in collaborazione con il dipartimento di Statistica dell’Università di Bologna, ha rilevato che il contenuto degli articoli di cronaca giudiziaria «è fondato essenzialmente su fonti di carattere accusatorio (circa il 70% degli articoli non riporta la difesa quale fonte di informazione), e comunque larga parte di esso è, ancora una volta, modellato sulle tesi d’accusa, siano esse oggetto di apprezzamento e consenso o di mera esposizione». Inoltre, sempre quella ricerca ci disse che oltre il 60% delle notizie riguarda l’arresto e le indagini preliminari, solo l’11% la sentenza. Quindi, a causa di una certa stampa “embedded” presso le Procure, in questi anni abbiamo assistito a un racconto unilaterale delle vicende giudiziarie, dimenticandoci della fase del dibattimento.

Sapete invece cosa teme ora parte della magistratura? Che saranno gli avvocati a prendersi la scena e/o a divenire le nuove fonti privilegiate della stampa, visto che la direttiva ha imposto dei limiti alla comunicazione della magistratura requirente e alla forze di polizia giudiziaria. La preoccupazione è emersa anche recentemente in un interessante convegno organizzato da “Giustizia Insieme”, la “piattaforma permanente dedicata al confronto tra magistrati, avvocati, studiosi del diritto e società civile”, dal titolo Processo mediatico e presunzione di innocenza (lo potete riascoltare su Radio radicale). Durante uno dei panel è stata sollevata, anche giustamente, la seguente questione dalla dottoressa Donatella Palumbo, pm alla Procura di Lecce: considerato che la norma si riferisce alle autorità pubbliche, le fonti del giornalista potrebbero ora essere in maniera prevalente le difese e/o le parti offese, che non rientrano in quella categoria. In pratica ci si è chiesto se non possa verificarsi una indiretta lesione della presunzione di innocenza.

In altri contesti altri magistrati hanno rilevato che, già prima dell’entrata in vigore della norma, a contattare i giornalisti sono stati spesso gli avvocati per farsi pubblicità. Pur di incassare una citazione su un giornale, alcuni difensori sarebbero capaci di danneggiare persino la reputazione dell’assistito, hanno detto. Siccome in ogni categoria c’è sempre qualcuno che agisce in maniera poco ortodossa, possiamo anche immaginare che in alcuni casi sia così. Ma di certo, come ha sottolineato recentemente in un altro convegno l’avvocato Lorenzo Zilletti, responsabile del Centro studi giuridici “Aldo Marongiu” dell’Unione Camere penali, «non è paragonabile il fenomeno delle conferenze stampa o delle veline delle Procure con i comportamenti deontologicamente scorretti tenuti in modo occasionale da avvocati spregiudicati. Il lettore del giornale o lo spettatore del tg sono certamente più influenzati dalla comunicazione ufficiale della pubblica autorità che non dalla notizia filtrata ai giornalisti da altre fonti». Anche perché nella fase interessata dalla normativa, ossia quella delle indagini preliminari, gli avvocati non hanno tutte le informazioni di cui dispone invece il pubblico ministero. Certo, un problema potrebbe essere generato dalla mediatizzazione delle parti civili e delle persone offese prima del processo.

Apriamo una parentesi: non ha torto il professore e avvocato Ennio Amodio quando sostiene che nel processo penale la presenza della parte civile costituisce un aspetto incompatibile con il rito accusatorio, in quanto la difesa deve giocare una partita contro l’accusa e contro la parte civile, avendo davanti a sé anche un giudice non sempre terzo e imparziale. Chiusa la parentesi, pensiamo ad esempio ai casi di violenza sessuale. Abbiamo visto tante trasmissioni televisive con le presunte vittime in studio a raccontare la loro esperienza e i loro avvocati in collegamento. Questa è sicuramente una profonda distorsione della comunicazione giudiziaria, tesa a ledere la presunzione di innocenza. Ma comunque: esiste davvero il rischio che oggi a condurre la narrazione giudiziaria ci siano altri protagonisti con lo stesso potere mediatico delle Procure? Ora andiamo verso una inversione di tendenza? Impossibile, per le ragioni che vi abbiamo esposto. Piuttosto, come ha sottolineato il direttore scientifico di “Giustizia Insieme”, il dottor Roberto Conti, occorre promuovere una «leale cooperazione» fra «i diversi attori nella rappresentazione della giustizia, lasciando ai margini atteggiamenti assolutistici, onniscenti, a volte supponenti e boriosi di coloro che, pur legittimamente espressivi di una di quelle verità, la contrabbandano come l’unica verità. Tutto questo impone dunque una grande dose di coraggio in tutti i protagonisti».

Eppure durante lo stesso convegno di “Giustizia Insieme”, il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi ha tirato in ballo sempre l’avvocatura: «Per il magistrato informare è un dovere, non è un diritto. Resta ancora inaffrontato il tema del processo mediatico, perché il pubblico ministero e il giudice devono contrastare le informazioni errate e fuorvianti che vengono fornite dalle parti che non hanno obbligo di verità, non hanno obblighi specifici di correttezza. Anche questa è una cosa che dobbiamo discutere: il difensore ha obbligo di verità? Ha obbligo di correttezza? Non so, è un tema però che forse va posto, perché non è possibile che la disciplina sia solo quella del magistrato». Innanzitutto sarebbe interessante capire come si concilia il dovere comunicativo evocato da Salvi con le recenti parole del presidente della Repubblica, e del Csm, Sergio Mattarella: «A voi», ha detto rivolto ai giovani magistrati, «è chiesto di amministrare la giustizia con professionalità e con riserbo». Per il resto, la sensazione è che alla magistratura non solo dia fastidio questa nuova norma, come spesso vi abbiamo raccontato, ma che il fastidio aumenti perché ad esserne interessati sono solo i magistrati e non anche gli avvocati. Si sta guardando forse il dito e non la luna?

La polvere sotto il tappeto. I pm demagoghi contro la presunzione d’innocenza, l’assurdo argomento che qualcuno vuole “tappargli la bocca”. Otello Lupacchini su Il Riformista il 3 Aprile 2022. 

Aristotele, nei Topici [VIII 164b], raccomanda di non discutere con chiunque, perché, in realtà, quando si discute con certe persone, le argomentazioni divengono necessariamente scadenti: quando ci si trova di fronte a un interlocutore, che cerca con ogni mezzo di uscire indenne dalla discussione, lo sforzarsi di concludere la dimostrazione sarà certo giusto, ma non risulterà comunque elegante. Per questa ragione, dunque, eviterò di confrontarmi con faciloneria coi primi venuti, poiché non intendo giungere a discussioni velenose e voglio evitare confronti agonistici. In fondo, che senso avrebbe, per esempio, opporre a chi polemizza a proposito del d.l.gs 188/2021 sulla presunzione di innocenza, arrivando ad affermare, con buona pace della necessità incontrovertibile di tutelare gli imputati, che non possono definirsi colpevoli fino alla sentenza definitiva, che la nuova legge «A me non (…) chiude la bocca. Sono una persona che non ha timore di niente e di nessuno, dico sempre quello che penso e se non posso dire la verità è perché non posso dimostrarla. Continueremo a parlare e a spiegare all’opinione pubblica, che ne ha diritto.

Ancora in Italia non è stato negato il diritto di informazione della stampa», che uniche danneggiate dalla legge stessa sarebbero «certe Procure, che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, che è quanto ci possa essere di più pericoloso, incivile, illiberale e arbitrario per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa»? Nessuno, se non magari quello di radicalizzare le posizioni senza costrutto. Il primo ribadirebbe, infatti: «non ho alcun dubbio sugli effetti negativi della legge sulla presunzione di innocenza (…), che vieta a pm e polizia giudiziaria di “indicare come colpevole” l’indagato o l’imputato fino a sentenza definitiva, e impone ai procuratori di parlare con la stampa solo tramite comunicati ufficiali». Il vero problema, aggiungerebbe, è che la rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà. Ed esternerebbe, finalmente, il timore che «non parlandone, la ’ndrangheta e Cosa Nostra non esistano»; la paura che «di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio»; non senza aggiungere: «Se la ’ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato. Molte notizie, anche su politici e funzionari pubblici, verranno così nascoste». A questo punto, occorrerebbe involgersi in faticose spiegazioni di teoria generale del processo, peraltro con poco profitto per l’interlocutore, che, ne sono convinto, s’annoierebbe moltissimo.

Il problema, piuttosto, è un altro. Non vi è giorno, infatti, in cui non sia dato di constatare l’organizzazione scientifica della ciarlataneria. Le ragioni che inducono a una così cupa constatazione sono le più svariate, non ultima, se non addirittura la prima fra tutte, che l’uomo non sa più tacere: se il silenzio è d’oro, parrebbe proprio che questo prezioso metallo sia scomparso dalla circolazione spirituale come da quella monetaria. Nel Vangelo si rinviene l’ammonimento che, «nel giorno del giudizio, gli uomini renderanno conto di ogni parola oziosa che avranno detta» (Mt., 12, 36). E anche Martin Heidegger, uno dei più forti pensatori dell’esistenzialismo tedesco, si richiama alla parola, allorché distingue fra la vita autentica, quella cioè di chi vive nella contemplazione della morte, e la vita non autentica, che è quella di chi volge gli occhi da un’altra parte, non osando pensare alla sua fine: nel descrivere questo secondo tipo di vita, non degna d’essere vissuta, il filosofo ricorre a una parola francese, di non facile traduzione nella nostra lingua, il «bavardage». In sostanza, «bavarder» vuol dire ciarlare, ma l’idea precisamente è quella che si legge nel Vangelo: parlare ozioso. Per pensare si deve essere in due e le parole servono a far pensare; oziose, dunque, sono le parole che non riescono a far pensare, a produrre delle idee, le quali, per essere tali, devono consentire di scoprire qualcosa di nuovo nel mondo. Quelle provocate dal bavardage sono, pertanto, pseudo-idee: esse non fanno procedere d’un passo la conoscenza; dopo un’ora di ciarle, infatti, le persone si lasciano più vuote di prima.

Le parole oziose, pur non facendo pensare, non impediscono di pensare. Occorre chiedersi, però, se ci siano parole che impediscono di pensare; se l’abuso della parola possa arrivare al punto di cavarne il risultato contrario a quello per cui è stata creata; se, insomma, la parola strumento di libertà possa stravolgersi in parola strumento di servitù. Che la parola sia strumento di libertà, muovendo dalla libertà di chi parla e sollecitando la libertà di chi ascolta, è espresso dal verbo latino «suadere», che in italiano si rafforza e diventa persuadere, parole che evocano la «suavitas». Non è, dunque, un caso che al fine d’ottenere l’effetto persuasivo occorra soavità: la scelta e il tono delle parole, là dove si voglia sollecitare e non sopprimere la libertà dell’altro, giovano più di quanto non si creda. Il mezzo del persuadere è suggerire; offrire cioè un’idea, che l’altro possa far propria se gli piace o respingere se non gli piace; ma quest’idea dev’essere offerta in modo così discreto che neppure s’adombri un’offesa alla libertà dell’altro, il quale la possa far sua come s’egli stesso l’avesse pensata. L’uomo non pensa che il pensiero proprio; se il proprio coincide con l’altrui, ciò non può avvenire se non in quanto l’altrui sia liberamente accettato. Se non pensare, l’uomo può agire in virtù del pensiero altrui.

Così avviene quando il costringere prende il posto del persuadere. Il problema è, allora, se si possa costringere con le parole. L’esperienza della nostra realtà contemporanea è lì a dimostrare che si può abusare delle parole; e questo è uno dei suoi aspetti più sconcertanti e pericolosi. Nulla è più lontano dal persuadere che il discorso di uno dei quei venditori sulle piazze, ai quali si dà il nome di ciarlatani. La differenza fra il discorso del ciarlatano e un discorso persuasivo è la stessa che corre fra il rumore e l’accordo. Arthur Schopenhauer, per sostenere che «la vista è un senso attivo e l’udito un senso passivo», ha scritto che «i suoni agiscono disturbando e agitando il nostro spirito (…) distraggono tutti i pensieri, sconvolgono momentaneamente la forza del nostro pensiero». L’osservazione, evidentemente sbagliata per il suono, è giusta comunque per il rumore, che quando raggiunge la misura del fracasso impedisce di pensare. La ciarlataneria, rispetto al passato, ha oggi assunto nuove forme: i Dulcamara non s’incontrano più neppure sui mercati di campagna e quella che un tempo si chiamava «réclame» si è via via meglio truccata sotto il nome di «propaganda», la cui tecnica è oggi fondata sulla ripetizione.

L’essenza del ciarlatano, infatti, non è più il rumore, ma il ronzio, che di quello è di gran lunga peggiore: qui non si tratta più di suggerimento, ma di suggestione. La propaganda, portando un attentato alla libertà dell’uomo è pur sempre un male. Piccolo, magari, se riguarda la scelta di una merce, ma intollerabile quando riguarda la scelta delle forme e delle norme della struttura sociale, essenziali alla nostra vita, perché, come diceva Heidegger, il nostro «Sein» è «Mit-sein», il nostro essere è essere insieme. E questo esige una regola, un regime o meglio sarebbe dire un reggimento, che risulti dall’accordo di tutti quanti costituiscono l’insieme. L’accordo di tutti presuppone la libertà di ciascuno. E questo vuol dire democrazia, la quale esigendo che ognuno pensi con la propria testa, favorisce sì l’eloquenza e la persuasione, ma rifiuta la propaganda, poiché essa offende la libertà. In linea d’abuso della parola, il bavardage, la ciarla, il pettegolezzo non costituiscono il danno più grave: il ciarliero è meno nocivo del ciarlatano, poiché il primo, che si limita a non pensare, rovina sé stesso, mentre il secondo rovina gli altri, ai quali impedisce di pensare. E fino a quando non si sentirà l’esigenza di liberarsi degli imbonitori da fiera, lasciando finalmente spazio soltanto a indicazioni sobrie e decorose, rispettose della dignità dei contendenti e della libertà dei cittadini, la democrazia non potrà essere che un’illusione.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il sistema da cambiare. Errori giudiziari, vite distrutte e 50 euro di risarcimenti ogni minuto. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Aprile 2022. 

Il dilemma sulla giustizia, la riforma da approvare, il sistema da cambiare, i privilegi da azzerare, i diritti da tutelare. In questo periodo si fa un gran parlare di giustizia, diritti e magistratura. Si discute di referendum, di riforma della giustizia, di interessi di casta (quella dei magistrati), di aspetti da modificare o da conservare. E intanto, ogni minuto che passa, dalle casse dell’Erario escono 50,28 euro per risarcire chi ha subìto una custodia cautelare da innocente. «Non è poco, vero? Ma allora perché invece di pagare e basta non si cercano soluzioni concrete ed efficaci per ridurre il problema all’origine?», si legge sulla pagina dell’associazione Errorigiudiziari.com, l’associazione fondata da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni si occupano di raccogliere dati e storie su casi di malagiustizia.

Come non concordare con questa loro osservazione… Perché non si cercano soluzioni? E perché di errori e vittime di ingiustizie si parla così poco, quasi per nulla? Nel dibattito sulla giustizia, infatti, tra i temi centrali non c’è quello relativo agli errori giudiziari. Come se le migliaia di vite distrutte da indagini frettolose o sbagliate, da accuse poi rivelatesi infondate, da misure cautelari applicate senza che ve fosse effettivo bisogno non fossero un macigno per la nostra giustizia. Già di per sé la custodia cautelare preventiva è una condanna anticipata che contiene il seme dell’ingiustizia, perché tra i presupposti su cui si fonda c’è quello del rischio di reiterazione del reato. Vuol dire che si fonda su un sospetto che a sua volta si basa su un altro sospetto. Perché immaginare che una persona indagata possa reiterare il reato di cui è sospettata equivale a dare per scontato che quel reato sia stato commesso e quindi che può essere commesso di nuovo. E questo – è evidente – va contro la presunzione di innocenza prevista dalla nostra Costituzione, perché una persona indagata non è detto che sia colpevole.

La statistica giudiziaria ci dice che non lo è nell’oltre il 40% dei casi. Basterebbe poi ricordare quante ingiuste detenzioni ci sono ogni anno per capire le proporzioni del fenomeno e i motivi per cui dovrebbe essere un tema tutt’altro che da ignorare nelle riflessioni su giustizia e riforma. Secondo le statistiche elaborate da Errorigiudiziari.com sulla base di dati ministeriali, negli ultimi trentuno anni le persone innocenti, risarcite o indennizzate in quanto vittime di ingiuste detenzioni o di errori giudiziari, sono state in Italia 30.231. «Tanti da riempire fino all’ultimo strapuntino lo stadio di Torino», sottolinea l’associazione Errorigiudiziari.com per rendere meglio l’idea di ciò di cui si parla. Dal 1992 al 2020 la media annua di cittadini che sono finiti in carcere da innocenti oppure che sono stati processati e condannati da innocenti è di 1.015 casi. Per niente pochi. Volendo puntare la lente su Napoli e provincia bisogna calcolare che le statistiche locali si aggirano attorno al 10% del dato nazionale. Negli ultimi anni la media delle sole vittime di ingiuste detenzioni a Napoli non è scesa al di sotto dei 100 casi.

Più numerose che in altre città italiane. Ora, è vero che Napoli e il suo distretto giudiziario fanno riferimento ad aree ad alto tasso criminale ed è quindi vero che paragonare i processi di Napoli con quelli di Firenze per esempio non ha senso perché si tratta di processi con una complessità e un numero di imputati tato diversi da non poter essere equiparati, ma è anche vero che un innocente in carcere è uguale in qualsiasi parte del mondo e che un innocente in carcere è un peso che la magistratura spesso si scrolla troppo facilmente di dosso. Un peso che invece finisce per essere un macigno sulle spalle delle vittime, le quali patiscono tutte le conseguenze delle loro vite stravolte da arresti o processi ingiusti, e un fardello per la comunità, che si trova a pagare il costo sociale ed economico di queste conseguenze. Secondo recenti statistiche, nell’ultimo anno i casi di ingiusta detenzione sono stati 565 nel nostro Paese per una spesa complessiva e già liquidata in indennizzi pari a 24.506.190 euro.

Un numero che appare in calo, se confrontato con quelli degli anni precedenti, ma che va letto anche tenendo conto degli effetti della pandemia che hanno rallentato un po’ tutta la macchina giudiziaria, incluso il lavoro delle Corti d’appello incaricate di definire le istanze di riparazione per ingiusta detenzione. Per quanto riguarda, invece, gli errori giudiziari, e quindi i casi di processi che si sono definiti con condanne poi annullate in seguito a una revisione che ha stabilito l’infondatezza delle accuse su cui si basavano, nell’ultimo anno si sono contati sette casi, nove in meno rispetto all’anno precedente. Un numero che finalmente inverte la tendenza degli ultimi anni quando la media degli errori giudiziari non era mai al di sotto dei dieci casi annui. E di fronte a tutti questi numeri, vale ricordare che le valutazioni di professionalità positiva dei magistrati si attestano ancora attorno al 99,2%. Un record.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Errori giudiziari, un’ecatombe intollerabile in uno Stato di Diritto. C’è una media annuale di mille indennizzi per ingiusta detenzione, ma sarebbero più del doppio considerando chi per legge non ne ha diritto. Mimmo Gangemi su Il Dubbio il 31 marzo 2022.

“Ci sarà pure un giudice a Berlino”. La frase, attribuita a Bertolt Brecht, è l’accorata speranza di un uomo qualunque che confida in una giustizia imparziale. Lui, un mugnaio, la trovò, in Federico II il Grande, re di Prussia. E la trovò nel XVIII secolo. Nel XXI troppo spesso non succede. E imperversa l’errore giudiziario. Che è argomento tabù, con la valenza del reato di lesa maestà nei confronti di chi – pochi e tuttavia incidenti sull’opinione pubblica – presume d’essere alle dirette dipendenze del Padreterno, si crede investito della missione di anticipare in terra il giudizio divino.

Numerose le Procure nelle quali sono incrostate sacche di resistenza, con personaggi per nulla intenzionati a schiodarsi dalla destra del Padre, che pure tira calci per non averceli al fianco, e ossessionati dalla smania malaticcia di ottenere risultati, meglio se eclatanti, su nomi di rilievo, in grado di smuovere carriere che altrimenti stenterebbero. L’errore giudiziario merita approfondimenti. Occorre ripristinare la verità completa, correggendo i numeri, fin qui calcolati per difetto.

I dati

Uno studio del Corriere della Sera ha determinato che dal 1992 al 2016 in Italia si sono verificati 24 mila rimborsi per ingiusta detenzione e che la cifra corrisposta fu di 648 milioni di euro, con la maggiore incidenza in Calabria. Il dato si è mantenuto pressoché costante, come si evince dalle relazioni annuali del ministero della Giustizia al Parlamento. E la media annuale di 1.000 indennizzi riparatori, comunque allarmante, porta a ritenere che 1.000 siano stati anche gli arresti ingiustificati. Sbagliato. Perché è lontana da quella reale che, a occhio ma non tanto, si attesta almeno al doppio, essendoci i respingimenti e le mancate richieste, pur a fronte di assoluzioni piene.

Non hanno infatti diritto al risarcimento quanti, in seguito riconosciuti estranei ai delitti contestati, nella fase istruttoria si sono avvalsi della facoltà di non rispondere e quanti avevano solide premesse di colpevolezza, indizi a sfavore da aver indotto gli inquirenti alla valutazione scorretta, con quest’ultimo che è un elemento soggettivo, in teoria applicabile a chiunque. Ed ecco che i 1.000 diventano 2.000, 2.500. Ecco che i 28 mila si trasformano in 60 mila, 70 mila. È tollerabile una simile ecatombe in una democrazia, in uno Stato di diritto? No. Eppure, nonostante Francesco Carnelutti, insigne giurista e accademico, per il quale “La sentenza di assoluzione è la confessione di un errore giudiziario”, mai compaiono colpe da contestare, provvedimenti sanzionatori, nemmeno un buffetto, un vago rimprovero, un distinguo, e la dice lunga che la Consulta abbia bocciato il referendum sulla responsabilità diretta dei magistrati.

E chi incorre nell’obbrobrio sistematico di incarcerare innocenti a bizzeffe fischietta indifferente, tanto la coscienza è un optional, tanto gli applausi dell’ignavia e della morbosità scrosciano ugualmente, tanto le stellette guadagnate su meriti fasulli non verranno restituite. Naturalmente, perfezione pretenderebbe che l’errore giudiziario non si verificasse mai – e questo è umanamente e obiettivamente impossibile. Ma fin dove esso è fisiologico? Qual è il confine entro cui si mantengono applicate le garanzie costituzionali? Da che punto in poi si trasforma in una stortura del sistema?

Beh, se l’incidenza del carcere su estranei al delitto assume proporzioni vistose, se i malcapitati finiscono con il sommergere per numero i colpevoli, o se i colpevoli non ci sono affatto, se le anomalie riguardano molte delle grandi e strombazzate inchieste con arresti a raffica, allora la dea bendata, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra, quella benda se l’è tolta per poter strizzare complice l’occhio, allora si è in presenza di un crollo, o di una devianza voluta, della capacità investigativa e di una pericolosa sospensione dei diritti umani, allora si è di fronte a una giustizia arruffona, frettolosa, sommaria, cinica, allora ci si accosta a una deriva autoritaria, a una sorta di regime legalizzato che puzza di Stato di polizia, allora occorre riflettere sulle perplessità di Sabino Cassese, grande giurista e accademico, già ministro del governo Ciampi e giudice della Corte Costituzionale – “se ci sono tanti innocenti (riconosciuti tali nei processi, ndr) questo è veramente l’esercizio di un potere autoritario e arbitrario”; “noi vogliamo che i procuratori siano magistrati; se si comportano da Robin Hood, non sono più magistrati” – allora tornano di cruda attualità le parole di Gaetano Salvemini: “se ti accusano d’aver stuprato la statua della Madonnina appollaiata sul Duomo di Milano, intanto devi riparare all’estero, poi si vede”.

E non può valere l’assunto che in guerra qualsiasi mezzo sia lecito e che gli agnelli debbano farsi una ragione d’essere finiti in bocca al lupo.

Errori giudiziari ma anche "Far parti uguali tra diseguali". Carcere, assoluzione e nuova imputazione, la storia dell’eroe perseguitato dai giudici perché vive accanto ai “ribelli”. Domenico Ciruzzi su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

«La Legge è il Potere dei senza potere», si diceva una volta. Sempre più spesso da qualche tempo l’ignavia del giudicante, e quindi di chi rappresenta la legge nella sua attuazione, fa gravi danni non solo al singolo ma alla speranza dei tanti poveri che potrebbero intraprendere eroicamente la dritta via. L’ignavia del Giudicante (ovviamente non tutti, ma purtroppo neanche pochissimi) può danneggiare gravemente anche il faticoso, prezioso e spesso straordinario lavoro del volontariato che tanto si spende per supplire alle carenze ataviche dello Stato nei quartieri più degradati.

Non si tratta solo di errori giudiziari, dunque, ma degli effetti nefasti che tale ignavia può produrre in danno della collettività più indifesa ed innocente. Alla vigilia di riforme della Giustizia, divenute improvvisamente necessarie ed inderogabili solo per incassare denari dalla Comunità Europea, ecco un esempio di ignavia tratto da un processo come tanti, neanche raccontato dai media. Nei quartieri più poveri e degradati, grazie all’azione incessante di parrocchie e volontari, vivono piccoli eroi contemporanei accanto a tantissimi “ribelli”. Eroi che crescono fianco a fianco di furfanti e disperati, spacciatori e potenziali killer in quartieri abbandonati dallo Stato come in una riserva di espunti predestinati. Sovente i nostri pochissimi eroi ed i tantissimi “ribelli” abitano negli stessi palazzoni che affacciano direttamente sui reclusori, presagio di una predestinazione che disintegra senza ipocrisia la chimera del libero arbitrio. In tali contesti delle periferie metropolitane più degradate, dove fino a due decenni fa perfino la Chiesa era assente, costoro, come rare stelle in un cielo plumbeo, riescono eroicamente a prendere le distanze da tutto ciò che è già loro “addosso” fin dalla nascita riuscendo a distinguersi talvolta anche nella gestualità e nell’estetica, pur costretti a convivere con tutto ciò che è la diversa “normalità” dell’intero quartiere.

Questi piccoli eroi riescono miracolosamente a trovare perfino un lavoro stabile con regolare contratto, mediando faticosamente con tutto il resto attorno che inizia a guardarli con sussiego se non addirittura con sospetto. Una bella mattina, proprio il giorno dopo che in tv si discute delle grandi trasformazioni della criminalità organizzata mimetizzatasi ormai nei trust e nei capitali internazionali, un blitz di arresti per camorra e piccolo spaccio di stupefacenti deflagra sul quartiere, coinvolgendo anche il nostro piccolo eroe ed azzerando così ogni segno di diversità attraverso una sbrigativa omologazione giudiziaria contenuta nell’ordinanza di custodia cautelare che lo deporta dal balcone di casa direttamente all’interno del reclusorio sottostante, avverando così ogni sinistra profezia. La prassi attuale è che – di regola e salvo lodevoli eccezioni – nelle aule dei tribunali penali, la tragica povertà di lingua e di contesti degradati, invece di provocare indulgenza e commozione, sovente amplifica crudelmente l’entità di pene da infliggere a corpi incatenati senza valutarne la storia ed il tasso di libero arbitrio che ne ha determinato le condotte. Ed è sotto l’egida de “La legge è uguale per tutti” che ogni giorno si compie l’ingiustizia più grande secondo Don Milani: «Far parti uguali tra diseguali».

Se questa è la tragica tendenza culturale che avanza nei tribunali, ancor più difficile sarà in tale clima operare le giuste distinzioni riuscendo ad individuare immediatamente l’innocenza del nostro piccolo eroe. Ed invero, soltanto dopo due anni di terribile reclusione, il nostro eroe viene assolto. Ometto ogni considerazione sull’essere imprigionati da innocenti, perché non è questo il senso di ciò che intendo evidenziare. Il nostro piccolo eroe cambia abitazione, si trasferisce nel quartiere accanto, allontanandosi dalle case dei coimputati tra cui vi erano inevitabilmente anche parenti e conoscenti, e riprende subito a lavorare. Dopo un anno, un nuovo blitz, fortunatamente meno cruento perché non vi sono arresti: associazione per delinquere finalizzata alla falsificazione di marchi di borse di gran moda, questa volta fortunatamente senza aggravanti camorristiche. Il nostro eroe immediatamente si presenta dinanzi all’autorità giudiziaria, dichiarando la sua estraneità ai fatti e fornendo tutte le spiegazioni del caso.

Spiegazioni che dovrebbero risultare ancor più convincenti considerato che, già nel corso del precedente processo ed a seguito di indagini lunghe ed invasive, era emersa la sua assoluta onestà ed estraneità da ambienti criminali. Nel corso dell’indagine preliminare, questa volta dinanzi ad un giudice che dovrebbe essere imparziale perché terzo rispetto all’indagine del pm, insiste nel difendersi rendendo ulteriori dichiarazioni ed esibendo orgogliosamente, come reliquie – ma evidentemente non percepite come tali – le numerose buste paga e certificazioni lavorative che si susseguono nel tempo senza soluzione di continuità. Al giudice si era chiesta con insistenza ancora più attenzione, pur sempre dovuta, giacché la posizione dell’eroe era sacra, perché sacra è la busta paga del suo lavoro in quei contesti di rovine. Contro di lui tecnicamente da un punto di vista indiziario, c’è lo zero assoluto, e si può affermare con certezza assoluta che il ragazzo – se rinviato a giudizio – sarà sicuramente assolto per non aver commesso il fatto. Tra 6 o 7 anni, ovviamente. Ma l’ignavia trionfa: il giudice rinvia tutti a giudizio, senza alcuna distinzione.

In tal caso, non è in evidenza la pena dell’inutilissimo processo. È in evidenza invece uno stuolo di adolescenti borderline che, anche da tale vicenda fallimentare del nostro eroe, capiranno che non c’è speranza, che è tutto uguale, che il capitombolo dal balcone al carcere è ineluttabile. Ed inizieranno ad armarsi. Ma quand’è che in primis la politica e le istituzioni, e poi anche le tante meritorie associazioni di volontariato si interrogheranno più a fondo sui guasti provocati anche dall’ignavia di alcuni giudicanti? Domenico Ciruzzi 

Le domande di risarcimento. Ti sbattono in carcere da innocente e non ti risarciscono perché la colpa è tua: non hai parlato durante l’interrogatorio. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Quanti sono ogni anno i cittadini italiani arrestati ingiustamente? Più del doppio di quello che ci dice il ministero e che vengono risarciti dallo Stato. Senza che mai alcuna toga paghi per i propri errori. Ci vorrebbe una scossa, come quella del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, e anche una riforma del codice di procedura penale, sul risarcimento per ingiusta detenzione. Una scossa che dia la sveglia allo stanco rituale per cui ogni anno in primavera per un giorno qualche quotidiano (non tutti, quest’anno pochissimi) ci racconta il carcere degli innocenti, con il numero delle ingiuste detenzioni e le cifre esorbitanti che lo Stato ha versato per mettere una pezza, almeno sul piano economico, sugli errori delle sue toghe.

Sui processi sbagliati, sugli innocenti prima sbattuti in galera e poi assolti. Per la cronaca, se quest’anno abbiamo saputo che nel 2021 lo Stato ha dovuto sborsare ben 25 milioni di euro per errori giudiziari e detenzioni ingiuste, lo dobbiamo soltanto a un’interrogazione del deputato Enrico Costa e alla risposta in aula alla Camera della sottosegretaria all’economia Alessandra Sartore. Nel silenzio del Ministero di giustizia, che avrebbe il dovere ogni anno di fornire al Parlamento tutti i dati sull’amministrazione della giustizia entro il 31 gennaio. Ma il tema delle toghe che sbagliano, non sempre in buona fede, è molto spinoso, negli uffici di via Arenula dove ha sede il ministero di Marta Cartabia. Perché il luogo è affollato di magistrati, soprattutto nelle posizioni apicali. Sono la gran parte dei famosi 200 fuori ruolo, cioè distaccati dai tribunali in organi amministrativi. Così ogni anno il rituale si svolge in primavera. E la stessa sottosegretaria del Ministero all’economia, che poi è quello destinato ad aprire i cordoni della borsa, si è lamentata non poco, nell’aula di Montecitorio, per essere stata costretta, il 9 febbraio, a sollecitare ai colleghi della giustizia i dati del 2021, che sono infine arrivati il 22 febbraio. Lentezza o resistenza rispetto a una ferita aperta che la magistratura non vuole neppure vedere?

La contraddizione è del resto palese. Se anche nell’anno della pandemia in cui si è arrestato di meno, anche su sollecitazione dello stesso procuratore generale Cesare Salvi, ancora seicento persone (contro le mille degli anni precedenti) sono finite in galera da innocenti, come mai il Csm “assolve” sempre il 99% dei magistrati colpiti da azioni disciplinari? È dunque il fato a mettere erroneamente le manette ai polsi di un numero così impressionante di persone che poi verranno assolte? In particolare nei distretti come quello di Catanzaro dove i blitz di 300 persone vengono poi sconfessati dai giudici? Un vulnus esiste però anche nella legge, e qui occorre chiamare il causa il Parlamento. A volte noi osservatori ci domandiamo se in questa legislatura esistano solo il deputato Enrico Costa e pochi altri a occuparsi di giustizia. Un’occhiata andrebbe data per esempio all’articolo 314 del codice di procedura penale, laddove sancisce che “chiunque è stato prosciolto con sentenza irrevocabile…ha diritto a un’equa riparazione, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.

Questo principio, che comunque andrebbe meglio precisato con un’opportuna riforma, è stato interpretato liberamente nel modo più ampio dai magistrati. Prima di tutto ha consentito alle corti d’appello di bocciare le richieste di riparazione a tutti coloro che, magari nel primo interrogatorio, quando erano ancora sconvolti per l’arresto, si erano avvalsi della facoltà di non rispondere alle domande. Un diritto, appunto. Non un’astuzia (che sarebbe masochistica, oltre a tutto) per dirottare il pubblico ministero nelle indagini. Ma non solo. Ci sono stati casi di persone accusate di reati di terrorismo, come Giulio Petrilli, che aveva subito una lunghissima carcerazione e che due anni fa organizzò anche una manifestazione di protesta e una petizione all’Unione europea, che si sono visti negare l’erogazione del risarcimento per motivi ideologici.

Una sorta di giudizio morale sulle sue frequentazioni giovanili. O più di recente il caso di Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega ed ex sottosegretario, che dopo sei mesi di ingiusto carcere preventivo e un enorme danno finanziario, si è visto respingere la richiesta di risarcimento dalla corte d’appello di Genova perché le sue dichiarazioni negli interrogatori sarebbero state “caratterizzate da notevole opacità”. Questi casi sono tantissimi, abbiamo calcolato che almeno i due terzi delle domande vengono rigettate con questo tipo di argomentazioni. Quindi occorre più che raddoppiare i dati del ministero.

Una luce è però spuntata alla fine di questo tunnel, fatto di argomentazioni capziose e non disinteressate. Perché ogni magistrato ha il timore che qualche seria riforma della giustizia lo porti a rispondere a qualcuno -che non sia il Csm dei 99 “perdoni” su 100- delle sue azioni, del suo lavoro, delle sue capacità professionali. Stiamo parlando di quella sentenza numero 1684 della quarta sezione penale della cassazione (v. Il Riformista, 23-3-2022) che ha considerato il silenzio dell’ indagato non ostativo alla riparazione per ingiusta detenzione, proprio sulla base del decreto legislativo sulla presunzione d’innocenza. Giurisprudenza destinata a fare scuola o a essere scacciata come un fastidioso moscerino?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Quelle ingiuste detenzioni che non basta risarcire con un assegno. La riparazione economica non compensa la perdita del lavoro, degli amici, della credibilità, della fiducia. Riccardo Radi su Il Dubbio il 21 agosto 2022.

È bene chiarire preliminarmente che quanto si afferma è certificato dai dati della relazione che prende in considerazione soltanto i procedimenti penali conclusi ( con sentenza sia definitiva che non definitiva) nello stesso anno di emissione della misura ( i cosiddetti procedimenti “cautelati”).

Il campione complessivo è costituito da 32.805 casi.

Interessa rilevare, per i fini propri di questa riflessione, che il 5,4% dei procedimenti in questione si è concluso con assoluzione non definitiva, l’ 1,5% con assoluzione definitiva e il 2% con sentenze di proscioglimento a vario titolo. La percentuale complessiva di questi ammonta all’ 8,9% ( era il 9,1% nel 2020, il 10% nel 2019 e il 10,2% nel 2018).

C’è poi un secondo insieme ed è quello costituito dai procedimenti conclusi con condanna ( definitiva e non definitiva) a pena sospesa. Nel 2021 il loro totale è stato del 14,4% ( era il 14,5% nel 2020, il 14,8% nel 2019 e il 14,1% nel 2018).

Si può dunque affermare che, relativamente all’anno 2021, nell’ 8,9% dei casi la sentenza ha escluso la fondatezza dell’accusa o ha comunque riconosciuto la presenza di una causa estintiva) e nel 14,4% dei casi le caratteristiche del fatto- reato e della personalità dell’autore hanno consentito una prognosi favorevole tale da escludere la commissione futura di nuovi reati.

È chiaro che questa seconda tipologia di esiti ha bisogno talvolta della pienezza del giudizio perché ne emergano i presupposti ma il buon senso suggerisce che il più delle volte il quadro è completo già al momento della domanda di misura cautelare. Il che è come dire che in un numero rilevante di procedimenti conclusi con condanna a pena sospesa ben si sarebbe potuto fare a meno di qualsiasi misura, tanto più tenendo conto del disposto dell’art. 275, comma 2- bis, cod. proc. pen., a norma del quale «non può essere applicata la misura della custodia cautelare in carcere o quella degli arresti domiciliari se il giudice ritiene che con la sentenza possa essere concessa la sospensione condizionale della pena».

Non è quindi azzardato affermare che, complessivamente ed alla luce dei fatti, in 2 casi su 10 il potere cautelare è stato esercitato in contesti che avrebbero suggerito ben maggiore prudenza valutativa di quella dimostrata.

Questi numeri sono vite sconvolte dove la maggior parte di queste persone viene arrestata in piena notte, condotta in carcere senza troppe spiegazioni, proiettata in prima pagina o sui titoli dei giornali, per poi vedersi dichiarare «ingiusta» la privazione della libertà.

La riparazione per ingiusta detenzione non basta, non può bastare. Prima che la vicenda processuale sia conclusa, dopo diversi anni, la vittima spesso ha perso il lavoro, gli amici, qualche volta perfino la famiglia, sempre la credibilità e la fiducia altrui.

Quale somma potrebbe mai risarcire un’esperienza capace di incidere così pesantemente nella mente e nel corpo, fino a causare conseguenze difficilmente eliminabili? Chi è stato in carcere da innocente racconta di essere stato soggetto a crisi di panico, notti insonni e difficoltà relazionali anche a distanza di anni.

Una riflessione appare necessaria: di fronte a tali situazioni che colpiscono le famiglie, l’attività lavorativa, la credibilità di soggetti che entrano nel sistema carcerario o la cui libertà personale viene ingiustamente limitata, può essere ammissibile che a pagare per gli errori del magistrato, in sede di valutazione dei presupposti per l’applicazione delle misure detentive, sia sempre e soltanto lo Stato (cioè, in ultima analisi, i cittadini stessi) ?

Se lo Stato riconosce che c’è stata un’ingiustizia, è corretto che affronti e valuti che cosa non ha funzionato: se qualcuno ha sbagliato, se l’errore è stato inevitabile, se c’è stata negligenza o superficialità, se chi ha sbagliato deve essere chiamato a una valutazione disciplinare.

I magistrati oggi non rispondono degli errori commessi. Troppo spesso, infatti, accade che le ragioni che hanno determinato errori, anche gravi, non siano rilevate, come occorrerebbe, sul piano disciplinare o restino prive di conseguenze in sede di decisione sugli avanzamenti di carriera.

Il tema sotteso a questa riflessione è la necessità di abbandonare la cultura della comoda deresponsabilizzazione a favore di un più diretto e penetrante controllo sull’operato del magistrato, che – non va dimenticato – in questa materia applica misure che incidono sui più importanti diritti costituzionali delle persone.

Nelle scorse settimane era stato presentato alla Camera un progetto di legge che pare destinato a riproporsi nella prossima legislatura e che prevede di introdurre sulla disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, tra gli illeciti disciplinari il fatto di aver concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione ai sensi degli articoli 314 e 315 del codice di procedura penale.

Il tutto per sfatare l’aforisma di Borges: «Per aver paura dei magistrati non bisogna essere necessariamente colpevoli». Riccardo Radi

Errori giudiziari e ingiuste detenzioni: soldi (e vite) buttati. Il deputato Costa (Azione): «Lo Stato ha speso 25 milioni di euro in risarcimenti e i dati vengono forniti con regolare ritardo». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 marzo 2022.

Nel 2021 lo Stato ha speso per riparazione da errore giudiziario 1.271.914,90 euro, relativamente a sette ordinanze di Corti d’appello; mentre quelli relativi alla riparazione per ingiusta detenzione sono stati ben 24.506.190,41 euro e riguardano 565 ordinanze di Corti d’appello. In totale più di 25 milioni.

Lo ha comunicato ieri nell’Aula della Camera la sottosegretaria al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Alessandra Sartore, rispondendo ad una interpellanza urgente dell’onorevole di Azione Enrico Costa. Tuttavia la questione che forse fa più discutere è un’altra: sempre la sottosegretaria Sartore ha puntualizzato che «per l’anno 2021, si evidenzia che il Ministero della Giustizia ha chiesto i dati al Ministero dell’Economia e delle finanze in data 9 febbraio 2022 e gli stessi sono stati forniti in data 16 febbraio 2022». In pratica, il Ministero della Giustizia avrebbe dovuto rendere noti i numeri sull’esito dei processi con arresti, sulle ingiuste detenzioni, sulle azioni disciplinari a chi ha sbagliato attraverso una Relazione al Parlamento da presentare entro il 31 gennaio di quest’anno, come prevede la legge, ma incredibilmente solo il 9 febbraio, quindi quando i termini erano già scaduti, si è preoccupato di chiedere i dati al Mef.

Per il vicesegretario di Azione, ciò dimostra «il totale disinteresse da parte del Ministero della Giustizia rispetto a un tema che è di civiltà giuridica. Se una persona è stata arrestata e poi assolta, è giusto che si chiarisca perché ciò è accaduto. Il problema nel nostro Paese è che quando accadono queste vicende, lo Stato si volta dall’altro lato senza comprendere le vere ragioni, senza verificare le motivazioni dietro quegli errori e senza sanzionare chi sbaglia». Costa poi si è soffermato anche sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Ieri vi avevamo raccontato che il suo emendamento per la responsabilità civile diretta dei magistrati avrebbe profili di incostituzionalità e quindi sarebbe da bandire.

Ma lui non ci sta e in Aula attacca: «Allora, colgo l’occasione per chiedere al Governo, che è stato così attento ai profili e alle sfumature di costituzionalità, se sia coerente con il nostro assetto costituzionale, di fronte ai numeri che ci sono stati dati (565 persone arrestate ingiustamente e lo Stato che paga 24.206.000 euro per indennizzi), che nessuno paghi, che paghi solo lo Stato, che non ci sia un magistrato che subisca un’azione disciplinare, visto che il Governo è attento alle sfumature sugli emendamenti parlamentari. E chiedo ancora al Governo: è coerente con la Costituzione che il 99 per cento delle valutazioni di professionalità abbia un esito positivo? È coerente con questi numeri, che sono stati appena resi, un 99 per cento di magistrati che sono bravi, bravissimi? È coerente con la Costituzione un correntismo strabordante, in cui c’è una giustizia domestica, in cui i magistrati si giudicano fra di loro e nessuno sanziona nessuno? È coerente con la Costituzione un sistema che, in dodici anni, dal 2010 al 2022, ha visto otto condanne – otto! – per responsabilità civile, di fronte a 664 cause intentate e a 154 sentenze definitive? 664 cause e otto condanne! Nell’ultimo anno, 25 sentenze definitive, zero condanne! Io lo chiedo al Governo: è coerente con la Costituzione?».

E conclude: «L’auspicio è che nel quadro della riforma al Csm venga finalmente approvata la mia proposta di sanzione disciplinare – una norma di civiltà giuridica – per chi ha concorso, con negligenza o superficialità, anche attraverso la richiesta di applicazione della misura della custodia cautelare, all’adozione dei provvedimenti di restrizione della libertà personale per i quali sia stata disposta la riparazione per ingiusta detenzione».

Ingiusta detenzione, tutti gli alibi dello Stato per ridurre o non riconoscere un indennizzo. Viviana Lanza Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

Avvalersi della facoltà di non rispondere è un diritto riconosciuto dalla legge ma può diventare un boomerang se poi, a processo finito e ad errore giudiziario accertato o ingiusta detenzione subita, si prova a chiedere un risarcimento allo Stato. Perché? Perché lo Stato può dirti che appellandoti a quel tuo diritto hai contributo a far cadere nell’errore gli inquirenti. Sembra assurdo, eppure è una delle motivazioni a cui si ricorre per ridurre o negare il risarcimento a chi, ingiustamente detenuto, chiede un indennizzo per il danno patito.

L’associazione Errorigiudiziari.com, fondata dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone che da oltre vent’anni raccolgono dati su casi di ingiusta detenzione ed errori giudiziari, ha messo insieme storie, testimonianze, provvedimenti svolgendo un’analisi delle decisioni più frequentemente adottate dalle Corti d’appello e dalla Cassazione. E si scopre che una “colpa lieve” che non dà diritto a un pieno risarcimento può essere l’essersi avvalso della facoltà di non rispondere al momento dell’interrogatorio, l’avere frequentazioni poco raccomandabili oppure il fatto di non possedere una memoria di ferro per ricordare, con minuziosa precisione, date e orari che interessano alla tesi accusatoria. Della serie, non basta dire che si è innocenti. Perché si potrebbe essere accusati di «non essere pienamente collaborativi» e quindi avere diritto a un risarcimento decurtato. Ma come si può collaborare se non si conosce quel dato fatto, se non si è commesso quel tale reato? Ah, saperlo!

Anche essere già stato in carcere in passato o avere precedenti penali, oppure avere una personalità ritenuta «negativa» può essere una colpa lieve che contribuisce a far ridurre la percentuale dell’indennizzo o a non averlo proprio. Addirittura, bisogna stare attenti all’avvocato che si sceglie come difensore appena si viene arrestati, perché al momento di richiedere un indennizzo per ingiusta detenzione si potrebbe vedere l’importo del proprio indennizzo tagliato del 25% perché secondo lo Stato, che comunque non avrebbe dovuto arrestarti, ti sei fatto difendere da un avvocato poco preparato. Sembra assurdo ma è la realtà. Ed è una realtà che si confronta con grandi numeri. Basti pensare che, facendo una media dei casi dal 1992 al 2020, nel nostro Paese si stimano 1.015 vittime di malagiustizia all’anno (più di cento solo a Napoli) e si spendono in media due milioni e mezzo di euro in risarcimenti ogni anno. E dire che circa il 70% delle richieste di risarcimento non viene accolto, il che vuol idre che le dimensioni del fenomeno sono ben più ampie.

Ci sarebbero circa 20mila casi di ingiusta detenzione non dichiarati negli ultimi anni, perché spesso chi subisce un arresto o un processo ingiusto poi non ha la forza economica o psicologica per ingaggiare una nuova battaglia giudiziaria per il risarcimento. Dunque, a fronte dei dati ufficiali sottoposti all’attenzione ministeriale secondo cui ammonterebbero a circa 30 mila le vittime di ingiusta detenzione negli ultimi trent’anni, ci sono dei dati reali che danno al fenomeno una proporzione ben più ampia. Inoltre, secondo i dati diffusi da Errorigiudiziari.com, su 544 cause contro lo Stato per responsabilità civile dei magistrati presentate tra il 2020 e il 2021, solo 129 sono andate a sentenza finora e di queste solo 8 si sono concluse con una condanna.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

C’è un giudice a Trapani, rubò provola e pancetta per fame: assolta. L'ammontare complessivo del furto di alimenti non superava 10 euro. Ma il pm di Trapani aveva chiesto una condanna a quattro mesi di carcere. su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Il giudice del Tribunale di Trapani Francesco Giarrusso ha assolto una donna di 69 anni di Trapani che era finita nel 2020 sotto processo per aver rubato alcuni generi alimentari da un supermercato della città. Come scrive il Giornale di Sicilia nelle pagine provinciali di Trapani, la signora, due anni addietro, aveva conservato nella sua borsa mozzarella, provola e pancetta, alimenti dal valore non superiore a 10 euro. A scoprirla erano stati gli addetti alla sicurezza che l’avevano denunciata.

L’imputata non era in aula, a seguire l’udienza. Era presente la figlia. Il giudice, alla fine, ha accolto la tesi dell’avvocato Josemaria Ingrassia. Nella sua arringa difensiva, il legale ha chiesto l’assoluzione, affermando che la sua assistita, con la fedina penale «immacolata» aveva rubato non perché fosse abituata a compiere furti ma solo per fame. Il pubblico ministero Marta Martinelli aveva chiesto la condanna a 4 mesi di reclusione.

Da lastampa.it il 20 febbraio 2022.

Il giudice del Tribunale di Trapani Francesco Giarrusso ha assolto una donna di 69 anni di Trapani che era finita nel 2020 sotto processo per aver rubato alcuni generi alimentari da un supermercato della città. Come scrive il Giornale di Sicilia nelle pagine provinciali di Trapani, la signora, due anni addietro, aveva conservato nella sua borsa mozzarella, provola e pancetta, alimenti dal valore non superiore a 10 euro. A scoprirla erano stati gli addetti alla sicurezza che l'avevano denunciata.

L'imputata non era in aula, a seguire l'udienza. Era presente la figlia. Il giudice, alla fine, ha accolto la tesi dell'avvocato Josemaria Ingrassia. Nella sua arringa difensiva, il legale ha chiesto l'assoluzione, affermando che la sua assistita, con la fedina penale "immacolata" aveva rubato non perché fosse abituata a compiere furti ma solo per fame. Il pubblico ministero Marta Martinelli aveva chiesto la condanna a 4 mesi di reclusione.

M.Ser. per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

La piccola rivincita di Renato Vallanzasca contro lo Stato è stata confermata anche dalla corte d'Appello. Che, anzi, ha condannato il ministero dell'Interno a rimborsargli le spese legali. Il conto è di 12 mila euro, che si sommano alle 5 mila 800 già sborsate dopo il primo grado, per un totale di 17 mila 800 euro. 

Il bel René e la moglie Antonella D'Agostino erano stati trascinati in Tribunale dall'avvocatura generale per conto del ministero che, dal 1978, cerca di farsi risarcire dall'ex bandito della Comasina, condannato al carcere a vita, per l'omicidio dell'agente Bruno Lucchesi dopo l'evasione dal carcere di Spoleto.

Un debito di 425 mila euro mai saldato. Quando, nel 2009, Vallanzasca ha ceduto i diritti della sua storia (ne sono nati due libri e il film Gli angeli del male), la moglie Antonella ha incassato dalla Cosmo Production 278 mila euro. Denaro su cui lo Stato avrebbe voluto mettere le mani, sostenendo che quei soldi fossero in realtà dell'ex re della mala. Niente da fare: dopo la sconfitta in primo grado anche l'Appello ha respinto ricorso e condannato il ministero a pagare le spese legali.

Misure cautelari, ogni anno un terzo bocciate in modificate dal Riesame. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Febbraio 2022.  

Il Riesame è il primo banco di prova di un’inchiesta in campo penale. Misure cautelari personali e reali, decise dai gip su richiesta dei pubblici ministeri, vengono poi valutate in sede di Riesame. Analizzando gli esiti delle decisioni di questo Tribunale, in composizione collegiale, con un presidente e due giudici a latere, si può fare una sorta di screening della tenuta delle indagini.

Considerando che in ogni bilancio giudiziario, da alcuni anni a questa parte, si evidenzia la sproporzione tra numero di indagini che vengono avviate e numero di procedimenti che giungono a definizione, con un netto sbilanciamento a favore dei primi decisamente più numerosi, e considerato che da tempo è sotto i riflettori il tema dello bilanciamento del sistema giudiziario e mediatico tradizionalmente a favore dell’accusa, osservare il trend delle inchieste che arrivano al vaglio del Riesame o Tribunale delle Libertà come dir si voglia, analizzare gli esiti delle pronunce, può essere utile a inquadrare meglio lo stato generale di salute della nostra giudiziaria. Ebbene, nel 2021 sono state vagliate dal Tribunale del Riesame di Napoli 5.945 misure cautelari.

Di queste 3.589 hanno avuto conferma, le altre hanno ottenuto sorti varie. Dal bilancio relativo all’ultimo anno di attività giudiziaria emerge infatti che 470 sono state completamente annullate, 615 sono state parzialmente riformate, 25 sono state dichiarate inefficaci, 1.007 sono state dichiarate inammissibili. Tra riunioni con altre misure e altre modalità si classificano le restanti decisioni adottate dal Riesame nell’ultimo anno. Sono state, inoltre, 2.397 le istanze di appello di parte su misure cautelari personali, nessuna da parte del pm..

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Tre innocenti al giorno finiscono in carcere. I pm si autoassolvono ma i loro errori costano 40 milioni ogni anno. Massimo Malpica il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel suo discorso di insediamento Mattarella ha puntato il dito anche "sulle decisioni arbitrarie o imprevedibili in contrasto con la certezza del diritto". Da Zamparini a Melis: ecco i casi più eclatanti di malagiustizia.

«I cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l'Ordine giudiziario. Neppure devono avvertire timore per il rischio di decisioni arbitrarie o imprevedibili che, in contrasto con la certezza del diritto, incidono sulla vita delle persone. Va sempre avvertita la grande delicatezza della necessaria responsabilità che la Repubblica affida ai magistrati».

Parole del vecchio/nuovo presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel suo discorso di insediamento non ha risparmiato critiche alla giustizia, dedicando un passaggio importante agli errori giudiziari, a quelle «decisioni arbitrarie o imprevedibili» che, purtroppo, sono ancora numerose ogni anno. Così l'appello di Mattarella è un registro dei desiderata, non la proiezione della realtà, se solo nel biennio 2019/2020 le ordinanze di riparazione per ingiusta detenzione sono state 1.750, con un esborso per lo Stato di oltre 80 milioni di euro. E a fronte di questa messe di provvedimenti ingiusti che lo Stato ha riconosciuto come tali, sono state promosse solo 45 azioni disciplinari contro i magistrati: di queste 7 si sono concluse con l'assoluzione, 13 con il non doversi procedere (per esempio perché il magistrato incolpato ha lasciato la toga) e 25 erano ancora in corso al momento dell'ultima relazione al Parlamento del ministero della Giustizia. Finora, insomma, per 1.750 errori conclamati, 283 dei quali non più impugnabili, non c'è stata una sola censura, un solo ammonimento: per trovarne tocca risalire al 2018, anno in cui a fronte di 509 indennizzi per ingiusta detenzione riconosciuti sono stati sottoposti ad azione disciplinare 16 magistrati, quattro dei quali censurati.

Malagiustizia e scarsa incisività dell'azione disciplinare, insomma, che giustificano, quando meno, l'opportunità del richiamo del capo dello Stato. E in fondo per capire come gli errori giudiziari non siano microscopiche macchioline in un sistema altrimenti perfetto basta scorrere le cronache. Anche quelle recenti, se appena a inizio settimana Pietro Grasso, ex presidente del Senato e già procuratore nazionale Antimafia, ha ricordato su Repubblica lo scomparso Maurizio Zamparini, ex presidente del Palermo, sostenendo che l'imprenditore era diventato «un obiettivo di chi aveva deciso che dovesse lasciare» il capoluogo siciliano, e che quell'obiettivo era stato «raggiunto anche attraverso l'azione della magistratura» che «credo ha proseguito Grasso abbia risentito dell'atmosfera che si respirava in città e che era portatrice della volontà di fargli lasciare il club». Obiettivo riuscito alla fine del 2018, con conseguenze disastrose anche per la squadra, fallita poco dopo e costretta a ripartire dalla serie D. Ma di storie ce ne sono tante, così tante che ad alcune tra le più eclatanti Stefano Zurlo ha dedicato «Il libro nero delle ingiuste detenzioni», uscito lo scorso autunno per Baldini e Castoldi, raccontando nove odissee giudiziarie di vittime della malagiustizia, scelte tra quelle delle 30mila persone che, come ricorda il deputato di Azione Enrico Costa, tra 1991 e 2020 sono finite in cella per poi vedersi assolvere o prosciogliere. Ecco dunque il caso di Pietro Paolo Melis, allevatore del Nuorese, arrestato nel 1997 da incensurato per un sequestro che non aveva commesso, condannato a 30 anni a causa di una intercettazione coperta da «un rilevante e continuo rumore di fondo» sciattamente ed erroneamente attribuita a lui dai giudici, e tornato libero solo 18 anni, sei mesi e cinque giorni più tardi, il 15 luglio 2016, quando di anni ne aveva 56. O quello di Angelo Massaro, finito dietro le sbarre dal 15 maggio 1996 al 23 febbraio 2017 perché sette giorni dopo la sparizione di un suo amico e sodale viene intercettato mentre dice alla moglie una frase in dialetto: lui dice di aver detto «muerse» (pesante), riferendosi a una pala meccanica, per gli inquirenti ha detto invece «muerte», riferendosi appunto alla morte dello scomparso. Quanto basta, insieme alle dichiarazioni de relato di un pentito, per condannarlo e buttare via la chiave fino a quando a salvarlo arriva la revisione del processo, e una nuova sentenza che, nel 2017, gli restituisce la libertà. Non quei 21 anni rubati. Massimo Malpica

Mille innocenti in cella ogni anno: «Ora le toghe paghino i loro errori». Dopo il monito di Mattarella sulla giustizia, i fondatori dell’Associazione Errori giudiziari rispolverano il tema della responsabilità civile dei magistrati: «Dignità è anche riuscire a ridurre i mille innocenti arrestati ingiustamente e risarciti ogni anno, sono 3 al giorno, uno ogni otto ore». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

Se il monito di Mattarella sulle riforme ha sollevato un gran rumore attorno alla Giustizia, di certo più tiepido è stato il favore con cui si è accolto il richiamo, nel suo discorso di insediamento, al sovraffollamento nelle carceri e alla tutela della dignità. «Mattarella ha pronunciato 18 volte la parola dignità: ci sarebbe piaciuto che ci fosse una diciannovesima volta riferita agli innocenti. Dignità è anche riuscire a ridurre i mille innocenti arrestati ingiustamente e risarciti ogni anno, sono 3 al giorno, uno ogni otto ore. Dignità per un cittadino innocente è anche che quel numero venga ridotto», sottolineano Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, giornalisti e fondatori dell’Associazione Errori giudiziari, che pure si uniscono agli applausi con cui sono state accolte le parole del Presidente.

«È stato un intervento più vigoroso del solito – concordano i due giornalisti – che ci convince e ci trova assolutamente d’accordo, in particolare il passaggio sulla riforma del Csm che, al di là del discorso delle correnti, speriamo sia effettivamente fatta: ora la palla passa al legislatore, si può applaudire Mattarella cento volte ma se poi non lavori come devi tutto resta sulla carta». «Ci aspettiamo che all’interno della riforma del Csm sia introdotta la responsabilità dei magistrati. Oggi la valutazione dei magistrati supera il 99% dei giudizi positivi, e così perde ogni efficacia e ogni validità. Inserendo nella riforma del Csm una concreta responsabilità professionale dei magistrati per quanto riguarda il tema degli errori giudiziari e delle vittime di ingiusta detenzione sarebbe un aspetto importante», ribadiscono i fondatori dell’Associazione, estensori di quel “rapporto degli orrori” sui numeri della malagiustizia pubblicato nell’aprile scorso insieme ad Enrico Costa, deputato e responsabile Giustizia di Azione. Parliamo di quasi trentamila persone ingiustamente dietro le sbarre dal 1992 al 31 dicembre 2020. Quasi mille ogni anno, uno sproposito, così come i soldi che lo Stato ha dovuto sborsare per riparare i propri errori: 870milioni. Con indennizzi per 46 milioni solo nel 2020.

Il rapporto: 30mila innocenti in carcere in 30 anni

Dal 1991 al 31 dicembre 2020 i casi di errore giudiziario sono stati 29.659, errori che sono costati agli italiani, tra indennizzi e risarcimenti, 869.754.850 euro, ovvero più di 28 milioni e 990 mila euro l’anno. Partendo da una doverosa distinzione tra vittime di ingiusta detenzione e vittime di errore giudiziario, Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone hanno snocciolato i casi città per città. La parte più corposa delle ingiustizie riguarda proprio coloro che finiti in carcere o ai domiciliari si sono visti poi riconoscere innocenti all’esito dei processi.

In 28 anni è toccato a 29.452 persone, 1015 se si considera la media del singolo anno. A loro lo Stato ha versato un totale di 794 milioni e 771 mila euro in indennizzi, poco più di 27.405.915 euro l’anno. Solo nel 2020 sono state 750 le persone che hanno subito una custodia cautelare poi rivelatasi ingiusta, per una spesa di 36.958.648,64 euro. Numeri più bassi rispetto al 2019 ( 250 casi in meno), ciò anche a causa del Covid, con il conseguente rallentamento dell’attività giudiziaria, comprese le istanze di riparazione per ingiusta detenzione.

Gli errori giudiziari veri e propri sono invece 207 in tutto, per un totale di 74.983.300,01 euro di risarcimenti, 2 milioni e mezzo circa l’anno. Una cifra altissima, che comprende i casi più eclatanti, ovvero quelli che hanno visto innocenti scontare pene per reati mai compiuti prima di riuscire a far valere la verità. Ci sono, ovvero, casi come quello di Giuseppe Gullotta, condannato per la strage di Alcamo e che ha passato ingiustamente 22 anni in carcere, o Angelo Massaro, anche lui rimasto in cella per un ventennio per un omicidiomai commesso. Nel solo 2020 sono stati 16 i casi di errore giudiziario. Numeri che portano la spesa complessiva del 2020 a 46 milioni.

Le città che hanno speso di più in risarcimenti sono Reggio Calabria ( 7.907.008 euro), Catanzaro ( 5.584.529 euro) e Palermo ( 4.399.761 euro), mentre le città con più casi di indennizzo sono Napoli ( 101 casi, per i quali ha speso 3.105.219 euro), Reggio Calabria ( 90 casi) e Roma ( 77 casi). Nella Capitale i risarcimenti ammontano a 3.566.075 euro, mentre Milano, con 39 casi di indennizzo, ha speso 1.327.207 euro. Il distretto di Napoli è rimasto tra le prime tre posizioni per 9 anni consecutivi. E per ben sei volte su nove è stato al primo posto, detenendo il record di casi raggiunti in un anno: 211 nel 2013.

Giu.Sca. per "il Messaggero" il 28 gennaio 2022.

«Un giorno in carcere da innocente vale per lo Stato 235 euro di risarcimento». Valentino Maimone, 55 anni, giornalista e fondatore dell'associazione Errorigiudiziari.com (assieme al collega Benedetto Lattanzi) è tra i massimi esperti in Italia di ingiuste detenzioni. Tradotto, si tratta di persone finite in carcere da innocenti. 

Uomini e donne che si sono ritrovati rinchiusi in una cella o ai domiciliari salvo poi essere assolti da ogni imputazione.

«Abbiamo un database che aggiorniamo costantemente, adesso abbiamo in tutto 840 casi»

Quanti casi di ingiuste detenzioni si registrano ogni anno in Italia?

«Negli ultimi 30 anni la media è di mille all'anno. Abbiamo superato quota 30mila». 

Quali sono le principali città?

«La prima è Napoli, poi Reggio Calabria, terza è Roma. Napoli è nei primi tre posti da nove anni consecutivi. La Calabria, da sola, assorbe un terzo di tutti gli indennizzi che ogni anno vengono versati a chi è stato vittima di ingiusta detenzione»

La cifra media che paga lo Stato qual è?

«Per un giorno in custodia cautelare in carcere solo 235 euro al giorno. Per i domiciliari la metà. Ad ogni modo c'è un limite nel risarcimento, non si possono superare i 516mila euro, il vecchio miliardo in lire» 

Come fare per ottenere il risarcimento?

«Entro due anni dall'assoluzione è necessario presentare la domanda per istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Quasi l'80% delle richieste di risarcimento vengono respinte, ne passano in media un 20-25%». 

Quanto spende lo Stato ogni anno per risarcire?

«Ventinove milioni di euro in media. Il totale è 890 milioni di euro negli ultimi 30 anni» 

Cosa accade agli inquirenti che sbagliano le inchieste mandando in carcere persone che si rivelano essere innocenti. Pagano per i loro errori?

«In Italia esiste una legge sulla responsabilità civile dei magistrati, è la legge Vassalli. Questa legge prevede che non ci si possa rivalere direttamente sui magistrati. In pratica si fa una causa allo Stato e in seconda battuta, in caso di risarcimento, lo Stato si rifà sul magistrato. Devo dire che, negli ultimi 15 anni, le toghe che alla fine hanno pagato per i loro errori si contano sulle dita di una mano». 

«Tra assoluzioni e prescrizioni numeri sconvolgenti: siamo oltre il 60%». Cristiana Valentini, avvocato e professore, commenta i numeri della giustizia emersi dalla Relazione del Primo Presidente di Cassazione Pietro Curzio all'inaugurazione dell'anno giudiziario. Valentina Stella Il Dubbio il 28 gennaio 2022.

L’avvocato Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche e Sociali dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Chieti-Pescara, ha scritto per “Archivio penale” un articolo intitolato “Riforme, statistiche e altri demoni”, frutto di una ricerca dell’Università, condotta insieme al professore di statistica, Simone Di Zio. Sono stati mossi dalla convinzione che senza conoscenza dei dati offerti dal mondo reale non è possibile alcun reale cambiamento. A maggior ragione quando si parla di giustizia, tanto è vero che la ministra Cartabia, durante la sua relazione al Parlamento, ha annunciato l’istituzione del Dipartimento del ministero che si occuperà della transizione digitale e della statistica.

Stiamo vivendo un periodo di riforme nel campo della giustizia. Eppure molti dati riguardanti la sua amministrazione sono sconosciuti.

Credo che la giustizia penale sia stata per troppo tempo un campo oscuro, in cui molte cose, troppe, navigano al riparo della formula del segreto, declinato in varie misture. Lo Stato ha il dovere di agire in modo trasparente: nel campo del diritto amministrativo, le discipline dell’accesso agli atti hanno portato doverosa luce negli incunaboli dell’apparato; nel settore specifico del processo penale, poi, la Corte europea ripete che (perfino) le indagini devono essere trasparenti. Epperò in questo Paese la trasparenza sembra per molti versi ancora un sogno ingenuo e non è cosa che dovrebbe accadere in uno Stato di diritto. Ecco, la prima forma di trasparenza dovrebbe iniziare dalle statistiche sul processo penale. Una vera democrazia non dovrebbe tollerare che l’attività dei suoi organi sia scarsamente decifrabile e ben poco pubblica.

Quindi ben venga il nuovo dipartimento annunciato dalla Guardasigilli?

Certo. Ma è fondamentale che ci sia piena e totale trasparenza sul metodo usato e sulla totalità dei dati raccolti.

Nel suo articolo lei analizza anche le relazioni dell’anno giudiziario in Cassazione. Rispetto alle ultime: per il Primo Presidente Curzio circa il 50% dei processi di primo si conclude con l’assoluzione, mentre per il Procuratore Generale Salvi solo il 21%.

Ho letto i dati a cui lei fa riferimento. Per quanto questo tipo di analisi sia cosa delicata, posso dire, in via di prima approssimazione, che, anche sulla scorta degli studi da noi condotti sulla base dei dati ufficiali della Direzione Generale di statistica e analisi organizzativa del Ministero, sono corretti i numeri sui proscioglimenti indicati dal Primo Presidente. E sono numeri sconvolgenti. Se lei aggiunge a quel 50,50% di esiti assolutori da parte del giudice monocratico adito a citazione diretta, i numeri delle prescrizioni, si arriva sicuramente – lo dico a spanne – attorno al 60%, forse di più. Ripeto, mi sembrano numeri sconvolgenti, che sarebbero degni della più grande attenzione, e invece non è stato così da parte di nessuna delle recenti riforme. Si è preferito “manganellare” il giudizio d’appello, che – purtroppo per l’efficienza delle riforme in questione – si colloca a valle della maggior parte delle declaratorie di prescrizione.

Questi dati ci dicono forse, come lei ha scritto, che “l’azione penale viene troppo spesso esercitata in assenza dei corretti requisiti”. Anche Curzio ha bacchettato pm e gup in tal senso.

Qui devo scomodare una molteplicità di concetti noti: il processo penale è una pena in sé, un tormento autentico per l’imputato; sottoporre un innocente ad un processo che potrebbe essere evitato semplicemente con indagini più accurate o anche semplicemente condotte nel rispetto dell’art. 358 c.p.p.(cioè anche a favore dell’indagato) è un’abitudine radicalmente contrastante con la presunzione d’innocenza, oltre ad essere uno scempio etico. È la famosa “azione penale apparente” da cui ci mise inutilmente in guardia anni fa la Corte costituzionale: fenomeno gravissimo, che conosce molte sfaccettature, che giungono fino ai casi – frequentissimi nella prassi, come ben sanno i difensori – di azione penale esercitata sulla scorta della mera querela e poco altro. D’altra parte, quando osserviamo il fenomeno nella prospettiva della vittima del reato, il risultato è simile: la Cedu insegna da tempo che la vittima ha diritto ad indagini complete e di qualità, perché si arrivi non ad un responsabile purchessia, ma all’effettivo responsabile. Infine, un pensiero che potrebbe apparire brutale, ma è solo schietto: la giustizia è un bene prezioso e non va sprecato; sprecarlo significa assumerci le conseguenze che oggi sono sotto gli occhi di tutti, ovvero una giustizia sommersa dai numeri e troppo spesso priva di qualità.

Una commissione ministeriale sta lavorando ai decreti attuativi della riforma del processo penale. Il suo articolo “ha eletto ad oggetto d’analisi la gestione delle indagini preliminari e dell’alternativa tra agire e archiviare”. Che consigli ha da dare a chi dovrà riformare questa parte?

Un suggerimento che mi sento di fare a cuor leggero, e che dovrebbero senz’altro seguire, è l’abbandono della circolare Pignatone come modello per la disciplina dell’iscrizione della notizia di reato e del modello 45.

Intende gli atti non costituenti notizia di reato, che riposano nel “limbo” della non sicura definibilità?

Esatto. È un terreno delicatissimo e il modello Pignatone riporta il nostro codice a forme di autogestione della notizia di reato da parte delle Procure che ricordano molto la struttura del codice Rocco, prima della riforma urgente realizzata dopo la caduta del regime fascista. Quel modello trasforma la notizia di reato in una creatura gestibile ad libitum dalle Procure e nella più totale mancanza di trasparenza: Tizio viene perseguito e va a giudizio, Caio, invece, viene “salvato” grazie al modello 45. Immagini di trovarsi a difendere una persona cui vengono addossate responsabilità spettanti in realtà ad altro soggetto, la cui posizione è stata semplicemente cestinata con un tratto di penna e senza controllo giudiziale. Un incubo che esiste già oggi e che s’intende allargare a dismisura. Stento davvero a comprendere come sia possibile, in questo momento storico, fornire alle Procure poteri del genere, che riescono ad eclissare senza rumore persino notizie di reato provenienti dagli organi di polizia giudiziaria. Forse, poi, esistono margini anche per eliminare un altro buco nero del nostro codice, ovvero la stentata disciplina delle investigazioni difensive, che allo stato consente al pubblico ministero di ignorare bellamente le indagini della difesa, anzi persino di ostacolarle.

A proposito di Pignatone, qualche giorno fa ha scritto un articolo in cui ha detto che la giustizia è lenta a causa dei troppi gradi di giudizio, dei troppi avvocati e del divieto della riforma in peggio.

Sono discorsi già fatti, mi stupisce che si continui a proporre riforme simili ad onta della loro inconsistenza pratica e dell’insostenibilità scientifica. La storia dei troppi avvocati mi fa sinceramente sorridere: mica parliamo di processo civile dove l’azione è esercitata dagli avvocati? Il lavoro agli avvocati, qui, sono le Procure a fornirlo. Forse sotto simili assunti si sottende che gli avvocati “inducono” i loro assistiti ad impugnare; insomma, non sono discorsi da farsi. Piuttosto direi che sono i magistrati ad essere in numero nettamente inferiore rispetto al necessario. Quanto al tema del divieto di riforma in peius, mi sembra costituzionalmente disdicevole ed evoca nuovamente un istituto caro al legislatore fascista; senza dire che avrebbe la stessa inesistente efficacia deflattiva dell’art. 96 c.p.c., privo di effetti apprezzabili, come ben sanno i civilisti. Quanto all’argomento dei troppi gradi di giudizio, mi limiterò a dire che prima di sfiorare – anche solo sfiorare, ripeto – un tema del genere, andrebbe assicurata una reale qualità nell’amministrazione della giustizia; vogliamo parlare dei numeri degli errori giudiziari? Aggiungo invece questo: sono anni che si scarica la responsabilità dei ritardi del processo penale sulle povere Corti d’appello. Anche qui, però, i dati statistici dimostrano che i veri problemi stanno altrove. Ma su questo tornerò nella prossima tranche della nostra ricerca.

Indagini in fumo. Crisi magistratura e caos processi, il bilancio nero della magistratura: “Uno su tre va in prescrizione”. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Gennaio 2022. 

La crisi di credibilità della magistratura (dopo, e non solo con, il caso Palamara), la riforma strutturale mancata, il numero elevatissimo di processi, il numero ridottissimo delle forze in campo, le lacune, le sproporzioni, il coraggio delle scelte che in alcuni è mancato, l’impegno di chi nonostante tutto ha provato a fare la propria parte. E poi, i processi prescritti (uno su tre in appello, il 6% in primo grado) e gli effetti della pandemia sull’andamento della giustizia e dei reati.

L’annuale bilancio in previsione dell’anno giudiziario ripropone i temi di sempre, meglio sarebbe dire le criticità di sempre. «A fronte di un risultato positivo del settore civile e lavoro deve rilevarsi ancora una volta la situazione sempre più drammatica in cui versa il settore penale ordinario della Corte che ha subìto maggiormente le difficoltà di celebrazione dei processi determinate dalla pandemia», dichiara il presidente della Corte d’appello Giuseppe De Carolis di Prossedi, illustrando i dati dell’ultimo anno di attività nel distretto di Napoli: 10.170 processi definiti (più del 2020 in ogni caso) ma con una sopravvenienza di 12.255 (la più alta d’Italia) e una pendenza passata da 55.409 a 57.293. «Provate a fare 57mila processi in secondo grado in due anni con 39 giudici – afferma –. Già sappiamo che la gran parte di questi processi diventeranno improcedibili». Il riferimento è ai paletti sui tempi del processo d’appello posti dalla riforma Cartabia. «Con il Pnrr l’Italia si è impegnata con l’Unione europea a ridurre entro il 30 giugno 2026 il cosiddetto disposition time del 25% per il penale e del 40% per il civile, nonché a ridurre l’arretrato civile del 90% rispetto ai valori del 31 dicembre 2019. Il disposition time – spiega – è la misura della durata media dei procedimenti utilizzata in contesto europeo». A Napoli questo parametro è 1.660 nel settore penale, 768 in quello civile.

«Paradossalmente può essere un vantaggio perché si abbatte l’arretrato, ma in realtà non si fa giustizia, si eliminano solo le carte». E a proposito di tempi del processo, la prescrizione riguarda un processo su tre in Appello, il 6% di quelli definiti in primo grado. «Se lavoriamo sulla qualità, se facciamo i maxi processi alla camorra, è difficile fare anche i numeri come si chiede con il disposition time e le prescrizioni sono inevitabili, pur essendo una cosa molto triste – commenta De Carolis – perché così si finisce per avere una giustizia solo formale. Si mettono a posto le carte, a discapito dell’effettività della giustizia». Quanto al nodo risorse, «abbiamo – spiega il presidente – una situazione di totale sproporzione tra le forze in campo». «Abbiamo un alto numero di pm, 107 solo a Napoli e circa 200 in tutto il distretto, e circa 240 giudici penali in organico mentre dovrebbero essere almeno il doppio, altrimenti non si sta dietro al lavoro della Procura che rischia di essere vanificato – sottolinea De Carolis -.

In secondo grado poi abbiamo in pieno organico una cinquantina di giudici, ma essendo in sotto organico si arriva ad appena 39. Per cui tutte le sentenze che fanno i giudici penali del distretto vanno a finire sulle spalle di 39 magistrati divisi in 13 collegi. È come se versassimo ogni anno damigiane in un bicchierino». A ciò si aggiunga la crisi di credibilità della magistratura, una questione morale che dura da molti anni. «Non basta aver mandato via Palamara per ritenere risolti tutti i problemi della categoria – afferma il procuratore generale Luigi Riello -. C’è un cedimento valoriale che riguarda pochi magistrati, ma non pochissimi. Non illudiamoci». E aggiunge: «Il circuito di governo autonomo non si esaurisce nel Csm, al di là del suo funzionamento buono o cattivo, delle sue cadute o non cadute di stile, ma deve coinvolgere i capi degli uffici.

Nel corso del 2021 ho fatto sì che due magistrati del distretto fossero colpiti da provvedimento cautelare di trasferimento d’ufficio. Dobbiamo metterci in gioco in maniera piena: se c’è qualcosa di negativo bisogna scriverlo e assumersi la responsabilità, non possiamo lamentarci di ciò che accade se noi a capo degli uffici per primi non ci assumiamo le nostre responsabilità. Chi non ha il coraggio di scrivere le cose negative su colleghi quando purtroppo con amarezza bisogna farlo, non faccia domanda, si faccia da parte e se ne vada».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dal "Corriere della Sera" il 17 gennaio 2022.

Golfo dei Poeti, La Spezia. Succede che una famiglia, marito e moglie, fra i tanti problemi ne abbia uno che non li fa dormire: lo sciacquone del wc dei vicini. Troppo rumoroso. 

La loro camera da letto confina con un nuovo bagno realizzato dai quattro fratelli che abitano nell'appartamento adiacente. La coppia si rivolge al Tribunale di La Spezia per eliminare lo scarico e chiede un risarcimento del danno per le notti insonni. Ma niente da fare: causa bocciata.

La coppia è però tenace e ricorre in appello a Genova. Viene disposta una perizia nella quale tecnici sottoscrivono che effettivamente siamo di fronte a un caso di «superamento della normale tollerabilità e di spregiudicato uso del bene comune, posto che la cassetta del wc era stata installata nel muro divisorio di cm 22». Il che condizionerebbe la vita dei due.

Codice alla mano significa «lesione del diritto alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiana, diritti costituzionalmente garantiti e tutelati dall'articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo».

Conclusione: sciacquone da ricollocare e risarcimento di 500 euro all'anno a decorrere dal 2003, anno in cui è stato piazzato il nuovo scarico. Ma i fratelli non ci stanno e si rivolgono alla Cassazione, che però respinge il ricorso: tre decibel di troppo «rispetto agli standard previsti dalla normativa specifica». 

La Corte Suprema ha riconosciuto così il «pregiudizio al diritto al riposo» e confermato la condanna dei quattro «rumorosi» fratelli.

Giustizia, se l'abuso del diritto viene eretto a sistema: le leggi "sgradite" e il pessimo vizio della sinistra. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 gennaio 2022.

Si dice, non del tutto a torto, che esiste un garantismo classista per cui ci si indigna quando l'ingiustizia molesta la gente "perbene", mentre se il malcapitato è un poveraccio, tanto più se immigrato, ci vuole il randello e altro che presunzione di innocenza e diritti della difesa. Il rilievo avrebbe un senso se non fosse fatto dai responsabili di un pregiudizio opposto, e cioè quello per cui il privilegio economico e sociale costituisce un titolo sufficiente a "meritare" una giustizia cattiva: che è un atteggiamento identicamente classista. 

Ma non basta. Perché ad opporsi al primo pregiudizio (che tanto per intenderci chiameremo di destra) non c'è soltanto quello di segno contrario per cui è giusto che "anche i ricchi piangano", ma un impedimento sistematico: e cioè la completa estraneità, anzi l'avversione, ai criteri dello Stato di diritto. È da lì, da sinistra, che viene a tradizione delle sentenze “costituzionalmente orientate”, in buona sostanza le decisioni con cui ci si mette sotto i tacchi la legge che non piace, ola si rivolta come un calzino, per l’affermazione di una giustizia più confacente alle rimasticature ideologiche con cui si pretende di modellare la società per via giudiziaria. 

È da lì, da sinistra, che viene l’idea di degradare a faccenda trascurabile, a cavillo, la principale garanzia in qualsiasi sistema di diritto: e cioè il diritto individuale di protestare la propria innocenza contro la pretesa punitiva dello Stato reclamando che esso rispetti anche l’ultima virgola della propria legalità. Lo Stato di diritto sta esattamente in questo: nel rispetto della punteggiatura. E se da destra può venire una punteggiatura sbagliata (è comunque una colpa), da sinistra viene la licenza del testo arbitrario e rimaneggiabile a capriccio, vale a dire l’abuso eretto a sistema. C’è dunque a destra e a manca il garantismo farlocco. Ma uno avrebbe qualche possibilità di emendarsi. L’altro no.

Zaleuco sulla scia di Licurgo Dalla Locride il primo nomoteta. Un libro del magistrato Condemi ripercorre la storia dell'inventore del diritto. LUIGI MARIANO GUZZO su Il Quotidiano del Sud il 16 Gennaio 2022.  

“I magistrati non siano ostinati, non giudichino per fare oltraggio, e nel dare le sentenze non abbiano presente né l’amicizia né l’inimicizia, ma la giustizia. In tal guisa daranno giudizi giustissimi e si mostreranno degni del loro posto”. Parole, queste, per davvero attuali, specie ai nostri giorni, in cui assistiamo ad una crisi, anche etica, della magistratura. Si tratta di una sentenza normativa da far risalire intorno al settimo secolo avanti Cristo, attribuita a Zaleuco, il “primo legislatore del mondo occidentale”, come leggiamo in una targa marmorea affissa all’ingresso del Palazzo di Giustizia di Locri.

La recente pubblicazione “Gerace e Zaleuco. Da alba della civiltà a patrimonio dell’umanità” (Academ Editore, 2021) di Luigi Condemi di Fragastò, magistrato della Corte dei Conti di Roma e docente universitario, ha il grande il merito di far riemergere dall’oblio dei tempi contemporanei la figura di Zaleuco, legislatore e giudice, contestualizzandola nei territori della Locride, tra Gerace e Locri Epizefiri, dove il “nomoteta” (cioè, colui che stabilisce la legge, il legislatore) sarebbe nato, avrebbe compiuto gli studi giuridici e avrebbe operato. Con questo libro di Condemi, l’Academ Editore, sotto l’intuizione e la direzione dei giornalisti Roberto Messina e Carmelo Lentino, inaugura una collana di studi giuridici dedicata ai grandi protagonisti del diritto.

La vita di Zaleuco rimane sospesa tra la storia e la leggenda. Come sottolinea Condemi, la stessa indicazione di “primo legislatore” non è del tutto corretta se pensiamo a Licurgo, vissuto tra il dodicesimo e il decimo secolo prima di Cristo. A parte ciò, non vi è dubbio che le leggi di Zaleuco – delle quali ad oggi non ci rimane, purtroppo, un corpo organico – abbiano inciso notevolmente nell’elaborazione giuridica della Magna Graecia. Peraltro, si tratta di leggi “scritte” e non consegnate, quindi, alla indeterminatezza della tradizione orale. Inoltre, la prescrizione del comportamento è spesso accompagnata, in caso di violazione, dalla previsione di una sanzione. In tal modo, queste leggi sono molto efficaci e, soprattutto, sottratte alla discrezionalità dei giudici. “Le sue leggi furono particolarmente apprezzate, tanto che vennero copiate da Caronda, legislatore di Katane (Catania), che le diffuse in altre polis della Magna Grecia (Reggio Calabria, Turi), oltre che in Atene, dove rimasero in vigore per ben duecento anni”, scrive Condemi nel suo libro.

La concezione del diritto che ritroviamo in Zaleuco è ovviamente di origine sacrale, in quanto si ritiene che le leggi siano state dettate direttamente da Minerva. Ciò comporta anche un’attitudine a considerare il corpo normativo come immutabile, a meno di non adottare la procedura del “laccio al collo”: il cittadino che chiede la modifica di una legge deve presentarsi davanti all’Assemblea dei Mille con un cappio al collo, con la conseguenza che, nel caso in cui la variazione non sia accettata, il proponente finisce soffocato: “colui che proponga al Senato la riforma o la sostituzione di una legge vigente deve tenere un ‘laccio al collo’ pronto a strozzarlo se la proposta non venga approvata”, leggiamo in una delle regole di Zaleuco, arrivata fino a noi e riportata nel libro di Condemi. Questa procedura – tramandataci da Demostene – ci può apparire, con gli occhi di oggi, particolarmente brutale (e certamente lo è!), ma sta comunque a significare la tendenza a mantenere il diritto pressoché immutato e immutabile, “permanente”. Infatti, i locresi erano convinti che dalla stabilità del diritto dipendesse la stabilità politica. Un insegnamento, quest’ultimo, di grande ispirazione ai nostri giorni, in cui, al contrario, assistiamo in Italia ad un’attività di iperlegificazione, con una continua sedimentazione di leggi su leggi, a fronte del principio della certezza del diritto. Ciò è ben messo in evidenza nella introduzione dell’avvocato Vincenzo Fulvio Attisani, il quale scrive: “Le aule di Giustizia sono quotidianamente testimoni di un Diritto oggi a tratti farraginoso, istericamente complesso, frammentato in miriadi di disposizioni normative, spesso disarmonicamente sparse qua e là tra migliaia di leggi. Locri Epizefiri fu invece antesignana di un indirizzo culturale ben differente, in cui la “Norma”, divenendo via via più complessa per adeguarsi a una società in crescita, veniva comunque organizzata e compendiata, sì da essere agevolmente conosciuta e riconosciuta da tutti”.

Inoltre, l’attualità delle leggi di Zaleuco è data anche dal fatto che il diritto si configura come limite al potere politico, allorché – leggiamo – “nessuno deve stimarsi superiore ad esse [le leggi]”. Tant’è che, “il decoro e l’utile è posto nel credersi inferiore e nello seguire il comando”. Certo siamo ben lontani da una piena eguaglianza davanti alla legge: nelle città greche rimane affermata la distinzione tra cittadini liberi e schiavi, nonché l’esclusione delle donne dalla vita pubblica. Così come, in fin dei conti, alla base della produzione normativa penale di Zaleuco vi è la “regola del taglione”: “dev’essere cavato un occhio a chi ne cavò un altro” (vale a dire: occhio per occhio, dente per dente!). Ma nelle tesi di Zaleuco pare comunque riecheggiare una sorta di ispirazione che – utilizzando le nostre categorie giuridiche – potremmo definire giusnaturalistica, per la quale la legge diventa un argine all’arbitrarietà del potere politico. D’altra parte, Zaleuco è giudice imparziale, al punto – secondo quanto ci è stato tramandato – da decidere di far cavare l’occhio al figlio, colpevole di adulterio: la scena è mirabilmente rappresentata nell’affresco di Perin del Vaga “La Giustizia di Zaleuco” (1521), oggi esposto a Gli Uffizi. Ma, secondo un’ulteriore versione della storia, Zaleuco si fa cavare lui stesso l’occhio per non accecare del tutto il figlio (un occhio per lui e un occhio per il figlio).

Insomma, il libro di Condemi ci permette di riscoprire la figura di Zaleuco, che tanto, davvero tanto, ha da dire alla civiltà giuridica contemporanea. E la Calabria può così ritenersi culla, tra le altre, del diritto occidentale.

Il giudice che collezionava strumenti di tortura. E ci nascondeva le mazzette…Una storia di giustizia tormentata scritta da un giudice. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come a fatti di cronaca accaduti. Roberto Oliveri del Castillo su Il Dubbio l'8 gennaio 2022.

Il Tribunale di Belvirate era non era veramente un tribunale. Sembrava più un museo, visto che in passato era stato un carcere in epoca austroungarica, con le sue segrete sotterranee collegate al vicino castello veneziano, eretto su un più antico fortilizio bizantino, posto a protezione del lato est del territorio imperiale, a guardia dall’arrivo dei mongoli. Da queste parti li hanno attesi per secoli, a volte sembrava che stessero arrivando, si intravvedevano polveroni all’orizzonte, cavalieri e carri, soprattutto all’imbrunire, giusto per mettere in allarme le sentinelle del castello sul poggio ad est, poi più niente per giorni e giorni, per mesi lo sguardo perso nell’attesa.

Non era veramente un tribunale, incastonato com’era tra l’antico Duomo gotico trecentesco, di fronte al piazzale, e il palazzo della Curia, risalente al XVI secolo, a destra, eretto ai tempi della controriforma, con annesso museo medioevale. Alle spalle del tribunale si apriva poi l’ampio piazzale che conduceva al castello con le sue massicce torri quadrate. E infine, a ridosso dell’intero complesso, i vicoli del quartiere ebraico, con ben due sinagoghe, testimonianza di una delle più floride e ricche comunità dell’est. Chiudevano il piazzale a sinistra il palazzo della Dogana, e il vecchio monastero di San Giovanni, che secondo la leggenda non solo sarebbe passato di qua, ma avrebbe anche scritto proprio da queste parti ampi stralci della sua Apocalisse, forse sentendo la presenza del Maligno.

Ma non era veramente un tribunale anche perché i capi degli uffici facevano i magistrati “a tempo perso”, come un Presidente del Consiglio di qualche anno fa, sorpreso con alcune dame di compagnia nella villa di famiglia, a cui confidava che il ponderoso peso del governo era per lui, in realtà, un ameno passatempo. E facevano i magistrati “a tempo perso” perché la loro occupazione principale era occuparsi delle loro aziende. Sia il Procuratore Malerba sia il Presidente Adduce avevano chi una azienda agricola, chi un resort a quattro stelle con annessa spa, e quindi erano molto più interessati alle vicende delle loro imprese piuttosto che allo stato dei rispettivi uffici giudiziari.

Quando arrivai qui, qualche anno fa, trasferito dal Tribunale di Valdifiori nelle serre calabresi come seconda sede, fui ricevuto da entrambi, e mi dissero che potevo fare domanda tranquillamente, perché “si stava bene”. Questo mi doveva mettere in allarme: che voleva dire, infatti, che “si stava bene”? Si riferiva alla vita? Al lavoro? Al rapporto con gli avvocati? Può esistere un luogo di lavoro di giudice dove “si sta bene”? O invece questo lavoro è per definizione un lavoro dove “si sta male”, alle prese com’è con i mali della vita, decisioni, anche la più banale, sempre impegnativa e difficile perché riguarda la vita degli altri? Invece non ci feci caso, e ammaliato dalla bellezza del posto, ad un passo dalle montagne innevate dell’est, estrema propaggine verso i sempre attesi barbari, decisi di stabilirmi proprio qui, tra i vicoli del quartiere ebraico. Non immaginavo che barbari erano già arrivati, e si erano già da tempo impossessati della città.

Qui lavorava da sempre il giudice Bretella. Questo non era il suo vero nome, ma il suo soprannome, poiché aveva una vera passione per le bretelle, che ostentava in vari colori e fantasie. Ne aveva, si diceva, centinaia. Era costui un vecchietto magro e leggermente ricurvo, naso aquilino, su cui poggiavano degli occhialetti tondi a molla, molto retrò, capelli bianchi tirati all’indietro, il volto scavato incorniciava degli occhietti piccoli e di un celeste slavato. Vestito sempre con completi stile anni ’30 del 1900, a passeggio sempre con l’inseparabile bastone col pomello argentato, abitava con l’anziana governante, ed era conosciuto da tutti in città, oltre che per le doti di fine giurista, proprio per la sua passione per il collezionismo. Quelle che erano note e palesi erano due: bretelle e francobolli.

La sua bella casa, un attico in un palazzetto dell’ottocento nel centro moderno, limitrofo alla centralissima piazza della Repubblica, aveva una stanza adibita ad esposizione, con mobili alle pareti dalle ante trasparenti dove alloggiavano infiniti album di francobolli divisi e sistemati per provenienza geografica, mentre le bretelle erano in un luogo più riservato, prossimo alla capiente cabina-armadio. Una volta che lo andai a trovare, mi mostrò orgoglioso l’intera collezione delle une e degli altri. Per i francobolli era in grado di precisare provenienza ed epoca di alcuni pezzi pregiati, il cui costo, a me non appassionato del settore, mi parve esorbitante.

In giro, però, si parlava di un’altra passione che lo rendeva strano: collezionava strumenti di tortura, trovati in giro per il mondo, e che secondo qualcuno erano collocati in alcuni scantinati del palazzo, adibiti a esposizione in un luogo che poteva essere considerata una camera degli orrori della storia giudiziaria. Una volta, visti i buoni rapporti di colleganza, gli chiesi di vederla, ma lui negò di possedere una siffatta collezione. Eppure qualcuno parlava della “Sedia di Giuda”, o della “Sedia delle streghe”, degli “Strappaseni”, della “Vergine di ferro”, e di tutta una serie di diavolerie usate dall’Inquisizione per strappare confessioni. “Dicerie”, mi disse, chi mai collezionerebbe roba del genere? Se vuoi un giorno ti mostrerò invece la mia collezione di pistole moderne, ne ho varie decine, e alcune di cui vado molto fiero, soprattutto alcuni modelli della seconda guerra mondiale, tra cui una Luger cal.9 appartenuta ad un ufficiale nazista, e una Walter PPK simile a quella usata da James Bond nei romanzi di Fleming”. “Si mi piacerebbe molto”, risposi convinto, le pistole erano una mia passione fin da quando frequentavo il poligono di tiro, quando ero giù in Calabria, anche se non fino al punto da collezionarle.

Un giorno, tuttavia, successe l’imprevisto. Alcuni pentiti, che da mesi stavano rivelando una serie di particolari su alcune assoluzioni sospette dei giudici del Tribunale di Belvirate, avevano tirato in ballo il giudice Bretella e alcuni suoi provvedimenti. Ebbene, le osservazioni, le intercettazioni e le rivelazioni di alcuni pentiti avevano condotto gli inquirenti a sospettare che quei provvedimenti di assoluzione fossero stati oggetto di compravendita da parte del giudice. Il suo arresto, in virtù di inequivocabili riprese dove si notavano gli scambi e i passaggi di buste negli stessi uffici giudiziari, e in particolare nella stanza del giudice incriminato, fu un vero terremoto, anche se qualcuno ricordava che alcuni pentiti di camorra già nei primi anni 2000 avevano parlato di scambi di favori, ma non erano stati ritenuti credibili. L’ambiente era scosso, avvocati e magistrati si trincerarono dietro le solite dichiarazioni di circostanza circa “la necessità da parte dei cittadini di continuare a mantenere la fiducia nelle istituzioni così gravemente colpite, e considerare il lavoro onesto e indefesso di tanti professionisti, magistrati, avvocati e cancellieri, che ogni giorno fanno il loro lavoro con onestà e dedizione”.

Sarà indubbiamente così, ma al Tribunale di Belvirate quello che era successo non sembrava proprio un’eccezione. Qualche anno addietro, infatti, erano stati arrestati, sempre per corruzione, alcuni magistrati della Procura, che in combutta con un giudice per le indagini preliminari, arrestavano cittadini innocenti per poi chiedere denaro per la revoca degli arresti in carcere. Gli inquirenti, anche qui grazie a pentiti e intercettazioni, avevano scoperto che i magistrati corrotti avevano un vero e proprio tariffario delle scarcerazioni, che dipendeva dal tipo di misura cautelare e dalle possibilità economiche del malcapitato, per lo più un imprenditore o un facoltoso professionista.Un’altra modalità estorsiva escogitata dal gruppetto di malavitosi in toga era far giungere tramite un avvocato compiacente alla vittima una copia informale di una ordinanza di custodia cautelare, dicendo “vedi, domani devi essere arrestato. Se paghi 10.000,00 euro questa la stracciamo”. E questi fatti erano andati avanti per anni, nella assoluta, colpevole inconsapevolezza dei capi degli uffici.

A Belvirate, quindi, secondo me, c’erano parecchi magistrati collezionisti, ma non collezionisti di bretelle, francobolli, di armi, di orologi o quant’altro, no: collezionisti di soldi, che infatti erano poi stati trovati nelle loro abitazioni, stipati nei luoghi più impensati, in notevole quantità. Al giudice Bretella, ad esempio, molti pacchi di banconote erano state trovati all’interno degli strumenti di tortura, quasi come se il denaro, lo sterco del diavolo, e gli strumenti fossero accomunati nella diabolicità della tentazione alla quale il giudice aveva ceduto, e nella sua nemesi punitoria. Mi sembrava quasi di vedere in questo accostamento quello che Kafka descriveva nella sua colonia penale, ovvero come l’erpice che scrive la pena sulla pelle del condannato, fino a determinarne la morte, così qui il denaro nascosto negli strumenti di tortura finiva con l’anticipare per il suo possessore l’infausto esito detentivo e la sua moderna gogna mediatica, provocato dal suo illecito procacciamento e per il mercimonio della funzione giudiziaria di cui Bretella si era macchiato.

Si erano al contempo aperte delle indagini ministeriali, per verificare come era potuto accadere che questi fatti gravissimi avvenissero senza che alcuno denunciasse alcunché. Anche io fui sentito da un funzionario, forse si riteneva non necessario che ad istruire la pratica fosse un magistrato. Devo dire che mi feci un po’ prendere dal nervosismo, e fui molto brusco con il povero incaricato. Quando mi fu chiesto se avevo sentito dire qualcosa su queste vicende, sbottai “Ma mi scusi, lei dice sul serio? Lei mi chiede se avessi sentore di ciò che accadeva? Certo che avevo sentore, e che avrei dovuto fare? Denunciare le voci? Il sentito dire? Per essere denunciato per qualunque e pagare anche cospicui risarcimenti? O non siete voi, qui al Ministero, ad avere in tutti questi anni ignorato tutto ciò che accadeva all’ombra del Castello, tra capi degli uffici promossi nonostante aziende e interessi economici rilevanti, a volte condotte da prestanomi; non li avete nominati voi? E come dovevano interessarsi degli uffici se avevano da badare ai loro interessi imprenditoriali? Costoro, affaristi senza scrupoli, hanno prosperato nell’ignavia e nel disinteresse dei magistrati cd. “perbene”, che sentivano la puzza, ma si giravano dall’altra parte. Ma come avete fatto? Con tutti i procedimenti che si aprivano in tre o quattro procure competenti per territorio, le indagini e i rinvii a giudizio che puntualmente si leggevano anche sui giornali, a fare finta che non accadesse niente, quando la giustizia, una giustizia con la g minuscola e mortificata, era oggetto di mercimonio e corruttela? Dove eravate, voi che avete consentito per vent’anni a questi cialtroni di spadroneggiare? Non li avete messi voi nel posto che hanno oltraggiato con le loro condotte? Lo sapete che parenti e sodali sono tutti ben inseriti nelle amministrazioni locali? Che loro congiunti figurano nelle municipalizzate e in tutto il territorio del circondario del tribunale? E non potreste accertarlo da soli di chi si tratta, facendo partire accertamenti e indagini a tappeto acquisendo per prima cosa informazioni sui processi pendenti, in modo almeno da allontanarli dagli uffici pubblici trasformati in studi professionali con parenti e amici? E ve lo dovrei dire io? Addio, non ho altro tempo da perdere …Vi auguro buona fortuna con le vostre indagini!”.

Alla fine, se non me ne fossi andato sbattendo la porta, avrei potuto avanzare una proposta, avrei suggerito di sopprimerlo questo Tribunale, e fargli riprendere le sue antiche funzioni di museo, magari allocando in un ala dello stesso palazzo l’esibizione degli strumenti di tortura sequestrati al giudice Bretella, e nello stesso tempo cominciare a scegliere come capi degli uffici magistrati normali, con una storia di dedizione al lavoro, piuttosto che capi degli uffici, “a tempo perso”, scelti solo perché amici delle persone giuste, che in quel momento hanno il potere di decidere.

Attendiamo tutta una vita i barbari, abbiamo la guardia alta verso il nemico all’orizzonte, e spesso non ci accorgiamo che questo è già penetrato nella nostra cittadella, ce l’abbiamo affianco, davanti, ci andiamo a pranzo o a cena, ci scherziamo prendendo il caffè in ufficio, mentre questi, silenzioso come un topo in un sotterraneo, rode le fondamenta dell’edificio dei nostri valori e del nostro lavoro, fino a farlo crollare, seppellendoci tutti. Ogni riferimento a fatti reali è puramente casuale, così come eventuali riferimenti a fatti di cronaca effettivamente accaduti.

Roberto Oliveri del Castillo, Magistrato della corte d’appello di Bari, ex gip a Trani

La polvere sotto il tappeto. Alice nel paese delle meraviglie è lo specchio della giustizia italiana: sono la stessa cosa. Otello Lupacchini su Il Riformista il 9 Gennaio 2022.  

Giudicare è compito necessario, non potendo una società lasciare senza conseguenze comportamenti incompatibili con la sua ordinata sopravvivenza; ma anche impossibile, non potendosi mai avere la certezza di riuscire a conseguire la verità, là dove è proprio su questa che si fonda la rettitudine della convivenza civile. È da tale contraddizione che nasce l’esigenza del «processo», quale metodo meno imperfetto per pronunciare una decisione giusta che si sia pronti ad accettare pro veritate. Varcata la soglia del tribunale, tuttavia, si entra in un mondo di apparenze che spesso coprono l’inganno o, anche, l’autoinganno: le leggi, i magistrati e i burocrati possono simulare e far prevalere la menzogna. Gli sfondi culturali sono ormai jeux de mode: il pubblico chiede del feuilleton, biascicamenti gergali, filosofemi da Luna Park, effusioni umide et similia; tutto beve, purché sia nero, stupido, sanguinolento.

Sembrerà magari audace che ricordi, dunque, due situazioni esulanti dal repertorio consueto delle immagini distorte o delle satire dell’amministrazione della giustizia, dove il processo è guardato «dal basso», con gli occhi delle vittime impaurite, o «dall’alto», con quelli dello spettatore divertito o sdegnato. Vale a dire, i comportamenti di Alice e di Josef K., i quali esprimono la superiorità e il disprezzo di chi, indipendentemente dal ruolo provvisoriamente assunto, la prima come avvocato difensore e il secondo quale imputato, credendo si trattasse di processi veri, constatando, tuttavia, ben presto, la sgangherata sovversione di ogni regola processuale e logica, ha il potere di annientarli. Josef K. abbandona sdegnato la strana udienza nella quale si è fatto coinvolgere, una domenica mattina, in un quartiere proletario della città: «Pezzenti (Lumpen). Teneteveli i vostri verbali!». Gesto teatrale che sembra consapevolmente ricalcato su quello di Alice, quando questa tronca l’assurdo processo al Fante di Cuori gettando in aria le carte da gioco che popolano Wonderland ed esclamando: «Chi vi bada? … Non siete altro che un mazzo di carte!». Poco importa se quest’ultimo episodio costituisca o meno, in termini narrativi, il modello, se non certo dell’intero romanzo kafkiano, almeno di qualche suo episodio.

Esso offre, infatti, il destro per proporre un istruttivo giro nell’universo letterario di Lewis Carroll, dove ci s’imbatte in alcuni processi che si prestano a essere considerati, oggi più che mai, quando la crisi senza fine dell’amministrazione della giustizia cade sotto gli occhi di tutti, in una prospettiva assai meno superficiale di semplici manifestazioni letterarie dello stupore, dell’ilarità e della diffidenza che il funzionamento delle istituzioni giudiziarie ha sempre e dovunque suscitato tra i profani, nella consapevolezza, esatta da Friedrich Nietzsche, che al mondo si può solo alludere indirettamente tramite simboli e metafore. Il primo lo troviamo in Alice in Wonderland, nel «racconto in forma di coda» che il Topo fa ad Alice, per giustificare la propria avversione per i cani, ma anche per i gatti. Un cane di nome Fury incontra per caso un topo e, «non avendo niente da fare», lo invita a partecipare con lui ad un processo, precisando che egli vi assumerà il ruolo di accusatore e il topo quello dell’accusato. Quest’ultimo obietta impaurito: che processo potrà mai essere senza giudice né giuria? «“Son giudice e giuria!” fu del can la follia: “son io tutta la legge e ti condanno a morte”», risponde il cane.

Il secondo, che si celebra presso la «corte» dei reali di Cuori, lo si trova nell’undicesimo e nel dodicesimo capitolo dello stesso libro. Imputato è il Fante, accusato di aver rubato dei dolci preparati dalla Regina, la quale è a un tempo parte lesa, coadiutrice del giudice e componente, con il Re stesso, dell’ufficio della pubblica accusa. La giuria è composta da dodici animaletti di varia specie, disorientati e ottusi. Araldo, usciere, cancelliere e in genere maestro di cerimonie è il Coniglio Bianco. Di avvocati difensori, nel testo non vi è traccia. Dopo la solenne lettura del capo d’imputazione, il re invita subito la giuria a pronunciare il verdetto, ma il Coniglio Bianco gli fa presente la necessità di assumere prima di tutto le prove. Vengono allora sentiti, in veste di testimoni, il Cappellaio Matto, la cuoca della Duchessa e, finalmente, Alice. Esaurita, senza alcun esito apprezzabile, l’escussione dei testimoni, il Re torna a sollecitare il verdetto della giuria; ma è ancora una volta il Coniglio Bianco a impedirlo, segnalando al Re un documento decisivo, che si suppone provenga dall’imputato, quantunque non rechi traccia della sua calligrafia.

Il documento, letto con la consueta solennità dal Coniglio Bianco, risulta contenere una poesia nonsense, come tale incomprensibile; ma ciò non impedisce al Re di esultare, fregandosi le mani. È a questo punto che si accende una vivace disputa ermeneutica fra il Re e la Regina da una parte e dall’altra Alice, erettasi a tutrice del senso comune e indirettamente a difensore del Fante, la quale ribadisce la futilità della prova raccolta, mentre gli altri insistono nel ravvisare nel documento un’inconfutabile dimostrazione di colpevolezza dell’imputato. Il Re tronca la discussione, invitando per la terza volta la giuria a pronunciare il verdetto. Questo ennesimo sovvertimento delle regole processuali eccede la sopportazione di Alice, che, contestando drammaticamente la serietà e la realtà stessa della corte, pone fine repentinamente sia al processo sia al sogno in cui esso s’inserisce.

Anche il terzo processo carrolliano si colloca in una dimensione onirica, nel sesto «sussulto» di The Hunting of the Snark: un Barrister, facente parte di un equipaggio salpato per dare la caccia allo Snark, mostro la cui identità e il cui aspetto non saranno mai rivelati, a un certo punto si addormenta e sogna di trovarsi «in una corte ombrosa», dove proprio lo Snark (in toga e parrucca) è apparentemente impegnato nella difesa di un maiale. Nessuno enuncia chiaramente il capo d’imputazione: si arguisce l’accusa mossa all’imputato solo dopo che il mostro «inimmaginabile» e perciò non ritraibile parla già da tre ore. Eloquente e puntiglioso, lo Snark indica la legge su cui si fonda l’accusa; allega la marginale partecipazione del suo assistito al delitto; ne sostiene la perfetta solvibilità; si richiama alla prova di un alibi, tanto più ridicola in quanto al maiale parrebbe contestarsi il reato di allontanamento dalla stiva; si rimette alla clemenza della giuria indicando al giudice come riferirsi alle sue annotazioni «per sintetizzare il caso». Poiché, tuttavia, il giudice ammette candidamente di non aver mai sintetizzato prima le risultanze di una causa, a ciò provvede ancora lo Snark, che opera una sintesi così perfetta da ricomprendere anche quanto mai detto dai testimoni. Quando tocca ai giurati pronunciare il verdetto, anch’essi declinano il compito, essendosi imbrogliati, a loro dire, nel sillabare le parole; tuttavia, osano sperare che sia sempre lo Snark ad assolvere quel dovere. Sebbene esausto per la fatica, il mostro provvede all’incombente e quando pronuncia «Colpevole!», dalla giuria si leva un lungo gemito e qualcuno cade addirittura svenuto.

Essendo il giudice troppo emozionato per pronunciare la sentenza, è necessario provveda anche a questo lo Snark e se quando commina la pena i giurati non nascondono la loro gioia il giudice resta invece dubbioso. Ma ecco che compare il carceriere, per comunicare, in lacrime, che il maiale è ormai morto da alcuni anni, sicché la sentenza non potrà essere eseguita. Alla notizia, il giudice s’allontana disgustato, mentre lo Snark, riassunto l’originario ruolo di difensore, riprende imperterrito la sua arringa, sui cui echi roboanti il Barrister si sveglia. Nei tre processi carrolliani, le caratteristiche del due process of law, del «giusto processo», sono ignorate, calpestate e derise quanto lo sono la logica, il senso comune, le regole del linguaggio, sicché, all’esito della lettura, si è più angosciati che divertiti: il Topo è tratto a giudizio senza nessun’altra giustificazione che la noia e il capriccio del suo accusatore, che in più si arroga la funzione di giudice e di giuria e gli preannuncia una condanna a morte; il Fante di Cuori, accusato di furto, si ritrova a dover fronteggiare, senza avvocato difensore, un giudice prevenuto e subordinato alla parte lesa, una giuria di animali stupidi e ignoranti e una serie di elementi probatori tanto più temibili e schiaccianti quanto meno sono razionali; il maiale patrocinato dallo Snark, se la morte non lo avesse già sottratto a ogni problema, subirebbe una condanna durissima, per un reato incerto e risibile, ad opera del suo stesso avvocato inopinatamente investito di funzioni giudicanti. Nihil sub sole novi.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

La polvere sotto il tappeto. Quel magistrato inquisitore degno erede di Torquemada. Otello Lupacchini su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.

Ancora sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso, vigente il codice Rocco, dunque non senza una qualche ipocrisia, risuonava l’avvertimento che il processo penale è e deve restare, in ogni tempo e in ogni luogo, un «sistema di garanzie», senza cedimenti che ne possano alterare o snaturare l’essenza: solo il rigoroso rispetto dei principi fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione e dalle Convenzioni internazionali, entrate a far parte del nostro Ordinamento, può assicurare un processo penale degno di un Paese civile, moderno e democratico.

La riforma del rito penale, entrata in vigore nel 1989, fu salutata come una svolta epocale nella realizzazione di un meccanismo processuale penale realmente «accusatorio», all’altezza delle impellenti aspettative del cosiddetto fronte garantista. Pia illusione. Il sistema accusatorio, fondato sulla formazione delle prove nel contraddittorio, non esiste ormai più, tendendo queste a formarsi nel corso delle indagini preliminari condotte dal pubblico ministero. E con esso si avvia irrimediabilmente verso il definitivo tramonto l’esperienza del «giusto processo», sebbene assurto ad autonomo valore costituzionale, con buona pace della riforma cosiddetta Cartabia, volta com’era, almeno nelle intenzioni, poi purtroppo in larga misura tradite, a incidere profondamente sulla prescrizione, sul rinvio a giudizio, sulle priorità in materia d’esercizio dell’azione penale, sul rinnovato vigore del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, dall’iscrizione della persona indagata sino al vaglio della Cassazione.

La marcia à rebours verso il progressivo abbandono della strada dell’ipocrisia del processo penale come «sistema di garanzie», era iniziata, peraltro, già con l’epifania, tra le fattispecie premiali, della collaborazione processuale, apparsa, sul piano dei risultati pratici, strumento efficace per smantellare le organizzazioni terroristiche, ma, sul piano degli orientamenti politico-criminali e degli effetti di ripercussione sul sistema punitivo e nel suo complesso, anche tale da suscitare le maggiori perplessità, non fosse che per la sua inevitabile e grave ripercussione sulla dialettica processuale. Per un verso, infatti, la collaborazione processuale si era ben presto trasformata in un paradigma normativo sostanzialmente obbligatorio, essendo la mancata cooperazione sanzionata non solo dalla persistenza degli effetti punitivi eccezionali stabiliti per i reati commessi per finalità di terrorismo, ma, in termini processuali, dal regime e dalla pratica della custodia cautelare, ricalcato sulla falsariga della collaborazione e dalla sua entità.

Mentre, per altro verso, il «pentito», che pagava in anticipo il prezzo del premio, per la riscossione doveva attendere, tuttavia, la valutazione di un giudice diverso, con un duplice ordine di conseguenze: la posizione del pubblico ministero non poteva che essere caratterizzata dall’assenza di conflittualità con l’imputato collaboratore e, per contrappeso, dall’aumento di conflittualità con l’imputato raggiunto dalla chiamata di correo; il giudice del dibattimento, dal canto suo, o assecondava il polarizzarsi del contraddittorio nel senso promosso dal pubblico ministero ovvero assumeva il compito di attuare contro quella logica la più genuina funzione del contraddittorio, rischiando, dunque, per questo di essere trascinato in un rapporto conflittuale con l’imputato collaboratore; in entrambi i casi ne sarebbe restata compromessa la propria funzione di «terzietà». Nell’impossibilità o incapacità di risolvere altrimenti la vicenda terroristica, il legislatore aveva anche finito per delegare il relativo compito ai giudici, dotandoli dei poteri necessari, spesso estranei alla funzione giusdicente.

Un ruolo vicario penetrato, da allora, nell’istituzione come messaggio e come costume, ben oltre i limiti a esso assegnati: non v’è quasi più processo di una qualche importanza dove non compaia il collaboratore di turno o dove la sua presenza non sia sollecitata nello svolgimento delle indagini, e la mancanza di cooperazione sia stigmatizzata come «omertosa» e, talvolta, addirittura «sanzionata» sul piano della custodia cautelare o del trattamento penitenziario, con buona pace dei diritti costituzionali e convenzionali. Nell’originaria formulazione, peraltro, la cooperazione aveva una sua logica: i terroristi negano il sistema politico nel modo in cui un cataro negava l’ecclesiastico; l’opposizione assume figure fobiche, da guerra teologale: i settari oppongono un dogmatismo visionario all’onnivoro pragmatismo, talvolta cinico, dell’istituto ecclesiastico. Su un cataro-terrorista può darsi abbia, dunque, senso l’esorcismo allestito dalla legge 29 maggio 1982, con quell’abiura imposta dall’art. 1: chiesa e setta contendono sulle anime; genuina o simulata, la confessione serve ai dominanti; equivale a un autodafé la «piena confessione» richiesta dagli artt. 2 e 3. Per quanto perversa, questa logica, saltò, comunque, quando gli ambiti operativi e le finalità della collaborazione processuale furono estesi a situazioni dove non vi erano da promuovere soltanto processi disgregativi già in atto per fronteggiare l’emergenza terroristico-eversiva, quanto piuttosto di fare i conti con fenomeni di marca diversa, i cui protagonisti e i cui gregari non hanno progetti politici implicanti l’abbandono di ideologie da ripudiare, ma faide da compiere, prezzi da riscuotere o, peggio, ordini da eseguire.

Ecco, in proposito, cosa scrisse il Giudice istruttore di Palermo, nel 1986, sui motivi che avrebbero indotto Tommaso Buscetta alla scelta di collaborazione: «Egli, mafioso di vecchio stampo, si era reso conto che i principi ispiratori di Cosa nostra erano stati ormai irrimediabilmente travolti dalla bieca ferocia dei suoi nemici, che avevano trasformato l’organizzazione in un’associazione criminale della peggior specie in cui egli non si riconosceva più. Non aveva, pertanto, più senso prestare ossequio alle regole di un’organizzazione in cui egli non credeva, non aveva più senso tenere fede alla legge dell’omertà. Egli doveva operare per la distruzione della “nuova mafia”, doveva vendicarsi dei tanti lutti subiti, ma la soverchiante superiorità dei suoi nemici non gli lasciava molte speranze; non gli restava altra via che rivolgersi alla Giustizia dello Stato per consumare la sua vendetta e per salvare la sua vita». Insomma, sul terreno della criminalità comune, sono venute a mancare le alternative politico-teologali ed esistono limiti obiettivi al narrabile: il business ignora l’anima e le abiure vi suonano male; l’autodafé scade, magari non sempre, ma comunque assai spesso, a farsa dialettale, guastando l’effetto scenico complementare al lavorio istruttorio. Inutile che l’inquirente cerchi mirabilia in materie sordidamente banali, essendo improbabile ve ne siano.

Tutti sanno che esiste una connection altolocata, notoria, visibile, penalmente inafferrabile: qualunque sia la fonte da cui colano, delitto incluso, denaro e potenza psicagogica influiscono sugli alambicchi dei poteri costituiti, venendo utili, ad esempio, nelle partite elettorali. Là dove si voglia colpire i nodi perversi, è necessario, dunque, individuare i punti in cui li alimenta il metabolismo collettivo. Mosse simili esigono, comunque, una perfetta analisi del groviglio, fantasia intellettuale, norme idonee, mani pulite e abili, ossia complesse condizioni tecniche, più una costosa volontà politica. Ma è proprio qui che, purtroppo, spesso casca l’asino. I filosofi hanno sempre cercato di stabilire la certezza della conoscenza, il «punto d’appoggio» archimedico di tutta l’umana conoscenza. E il pensatore che meglio ha rappresentato l’anelito a questa prima certezza filosofica, anche se paradossalmente espresso all’inizio sotto forma di dubbio totale su tutto ciò che ci circonda, è Cartesio. Per questo filosofo, infatti, almeno una volta nella vita si dovrebbero mettere in discussione tutte le conoscenze che ci sono state trasmesse, facendo passare tutte le informazioni attraverso il provvidenziale setaccio della critica sistematica, con l’obiettivo non già di approdare allo scetticismo, bensì il contrario: cercare di arrivare a un punto indiscutibile, a partire dal quale possano conseguire tutte le conoscenze future.

E il dubito, ergo sum dovrebbe essere l’abito mentale del magistrato. Eppure, mi sono recentemente imbattuto in un documento veicolante il testo di un interrogatorio approdato, qualche tempo fa, solo Dio sa come, nella redazione di un giornale on-line, presentato con un titolo nel quale si esalta l’«astuzia» dell’inquisitore per smascherare un falso aspirante collaboratore, di cui stigmatizza la «farsa». Questo l’anatema, tutt’altro che cartesiano, dell’inquisitore, degno erede, al netto dell’evidente scarto culturale rispetto a taluni di essi, dei vari Robert le Bougre, Tomas de Torquemada, Joseph Goebbels, Andrej Višinskij e altri consimili: «Noi oggi le abbiamo fatto domande su omicidi dove abbiamo la prova di come sono andati i fatti, non i gravi indizi di colpevolezza, la prova, per questo sono salito qua oggi. Non siamo qui per parlare di cose nuove o inedite, noi stiamo parlando di cose acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale e siamo pronti a chiedere la condanna, ci sono persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose. E lei qui capo crimine, sta a fare le pulci a ogni frase che dice (il pubblico ministero Tizio) o a ogni frase che dice (il pubblico ministero Caio).

Ma stiamo scherzando?! Ma qua c’è gente, c’è l’ultimo della ’ndrangheta, l’ultimo dei garzoni di ’ndrangheta che si siede qui dove è seduto lei. Sa quanta gente abbiamo sentito qua? Che parlano come l’Ave Maria! E lei qua è da stamattina che stiamo facendo il braccio di ferro… Si comporta non da capo crimine, ma da spettatore». Al di là dell’attendibilità del narrante e della credibilità della narrazione, tutte da accertare, naturalmente, ma brutalmente liquidate opponendo l’autorità di precedenti giudicati, dove è noto a chiunque sia minimamente educato al diritto che la «verità legale» ben possa divergere dalla «verità naturale», sorge spontanea la domanda se e quale «verità» cercasse di attingere dal suo interlocutore l’astuto inquisitore.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

La polvere sotto il tappeto. L’astuto inquisitore e l’ignoranza delle regole minime…Otello Lupacchini su Il Riformista il 30 Gennaio 2022. 

Tempi bui, giornate tristi, fiori, campane a morto. I notiziari sono bollettini di guerra: la conta delle vittime non ha fine. Per dirla con Bertolt Brecht (Lob der Dialektik, 1932): «Das Unrecht geht heute einher mit sicherem Schritt», l’ingiustizia, insomma, oggi cammina con passo sicuro. Ogni parola è ormai un rumore inutile: meglio sarebbe il silenzio, per chi sia inetto all’entertainment e, vagolando magari dalla filologia romanza ai labirinti medievali, da François Rabelais a Franz Kafka, da Hans Kelsen a Carl Schmitt, arroti una lingua distante dalle dolcezze colloquiali dei tanto affabili poligrafi, se non analfabeti comunque più spesso semianalfabeti, che spopolano nell’odierno panorama (pseudo)culturale.

Parafrasando il professor Francesco Muzioli, caduti tutti gli steccati e tutti i muri nella confusione postmoderna, non ci sono più distinzioni di settore e neppure uno straccio di competenza specifica, ed è possibile transitare liberamente, senza passaporto di sorta, attraverso i confini che un tempo separavano la letteratura dalla logica filosofica o dalla teoria politica economica, essendo ridotto qualunque argomentare in amabile intrattenimento, tipo «conversazione», essendo tutti quanti, siano essi letterati e filosofi, letterati-filosofi, giuristi semianalfabeti o, addirittura, analfabeti tout court, nient’altro che «scrittori», da valutare non secondo metodi e tradizioni proprie, ma vagliati già da sé davanti all’unico giudice insindacabile che è il Mercato.

Vi sono, per fortuna, ancora dei limiti all’indecenza, che impongono ai «competenti», di far sentire la propria voce, per quanto sia loro consentito ed essa possa risultare, più che sgradevole, sgradita, di fronte allo scempio che vien fatto del diritto e del processo, a opera di taluni «menanti» dall’inadeguata professionalità, la cui impreparazione giuridica favorisce una «informazione spettacolo», tendente a presentare i fatti in forma personalistica e sensazionalistica, con grave adulterazione, dunque, del valore di taluni atti o di taluni momenti dell’accertamento giurisdizionale, bisognoso, invece, di un’accorta mediazione tecnica. È, infatti, il professor Glauco Giostra a segnalare che, «una profonda consapevolezza dell’effettivo significato processuale dell’attività giudiziaria permetterebbe al giornalista di affrancarsi dalla sua fonte, nel senso che gli consentirebbe di non esserne il passivo megafono, ma di valutare, apprezzare e correlare ad altre conoscenze in suo possesso le notizie che gli vengono non disinteressatamente fornite».

Il mio pensiero, in proposito, corre, e non è la prima volta, avendovi fatto cenno in una mia precedente riflessione, a quel verbale d’interrogatorio che, secondo il «menante» venutone, solo dio sa come, in possesso, avrebbe condotto a emersione l’«astuzia» dell’inquisitore, impegnato nella partita capitale la cui posta era lo smascheramento di un asseritamente falso aspirante allo status di collaboratore di giustizia. Quel «menante», forse proprio perché gravemente carente di preparazione specialistica o, magari, soltanto per sensazionalistica superficialità, non ha sottoposto alla doverosa critica il discorso dell’«astuto» inquisitore. Se lo avesse fatto, avrebbe colto l’assurdità del negare in radice, oltretutto affatto aprioristicamente, sia l’attendibilità dell’aspirante collaboratore sia la credibilità di quanto da costui narrato, adducendo l’autorità di precedenti «giudicati».

La «logica», absit iniuria verbis, sottesa a questa «astuzia» è la stessa che indusse altro alumbrado a manifestare, in un verbale di coordinamento delle indagini redatto presso la Dna di Palermo il 22 aprile del 2009, «la sua contrarietà alla richiesta di piano provvisorio di protezione (nei confronti di Gaspare Spatuzza, «aiutante boia di Brancaccio», n.d.r.) sia perché essa attribuirebbe alla dichiarazione di Spatuzza una connotazione di attendibilità che ancora non hanno (sic!), sia perché le dichiarazioni di Spatuzza, sebbene non ancora completamente riscontrate, potrebbero rimettere in discussione le ricostruzioni e le responsabilità delle stragi, oramai consacrate in sentenze irrevocabili, sia perché l’attribuzione, allo stato, di una connotazione di attendibilità alle dichiarazioni di Spatuzza potrebbe indurre l’opinione pubblica a ritenere che la ricostruzione dei fatti e le responsabilità di essi, accertate con sentenze irrevocabili, siano state affidate alle dichiarazioni di falsi pentiti protetti dallo Stato, e potrebbe, per tale ultima ragione, gettare discredito sulle Istituzioni dello Stato, sul sistema di protezione dei collaboratori di giustizia e sugli stessi collaboratori di giustizia».

Eppure, sia detto per inciso, proprio grazie alle asseverazioni di Gaspare Spatuzza fu possibile acclarare come le indagini dei pubblici ministeri che, coordinati dal procuratore capo di Caltanissetta, nei primi anni Novanta del secolo scorso, seguivano le indagini del gruppo investigativo «Falcone/Borsellino» guidato da Arnaldo La Barbera, fossero inquinate dalle false dichiarazioni, fra gli altri, del «superpentito» Vincenzo Scarantino, indottrinato per allontanare la verità sulla strage di via D’Amelio. Il medesimo «menante», a dimostrazione dell’«astuzia» dell’inquisitore, ne riporta la seguente proposizione rivolta all’aspirante collaboratore: «Noi oggi le abbiamo fatto domande su omicidi dove abbiamo la prova di come sono andati i fatti, non i gravi indizi di colpevolezza, la prova, per questo sono salito qua oggi».

Mossa sommamente incauta, in quanto evidenzia i limiti tecnico-giuridici dell’astuto inquisitore: non è paradosso l’idea che ci troviamo difronte a un problema d’igiene linguistica, circolando troppe parole equivocamente adoperabili. Secondo i grandi maestri della retorica, da Aristotele a Ermagora di Temmo, a Cicerone, a Quintiliano, tra gli strumenti per la formazione del giudizio di fatto la distinzione fondamentale era quella tra le «probationes inartificiales», che si presentavano al giudice così com’erano, senza alcuna elaborazione da parte del retore, quali le testimonianze e i documenti, e le «probationes artificiales», costruite o «inventate» dal retore, secondo lo schema argomentativo identificabile con quello della prova presuntiva o indiziaria di cui parlano gli articoli 2727 e 2729 del codice civile, nonché l’articolo 192 comma 2 del codice di procedura penale.

Quando il fatto «principale», oggetto della controversia o dell’accusa non può essere provato «direttamente», con inspectio ocularis, testimonianze, confessioni o altro, si individuano come oggetto fatti diversi, «secondari», cioè indizi, dai quali, in concorso tra loro, possa inferirsi il fatto principale, in applicazione di una «regola d’esperienza», che può avere natura logica o scientifica, ma corrispondente, più spesso, semplicemente a un criterio di normalità, secondo l’id quod plerumque accidit. Se sia più efficace, in sede di valutazione da parte del giudice, la prova «diretta» o la prova «indiziaria», è problema diversamente risolto a seconda della più moderna concezione «dimostrativa» della prova o di quella «persuasiva» dei retori classici: nel primo caso, la prova indiziaria vale di regola meno di quella diretta; nel secondo caso, era vero il contrario: «Apud bonum iudicem argumenta plus quam testes valent», diceva Cicerone (De republica, I. 38).

Per giustificare questa affermazione apparentemente paradossale, senza affrontare qui il tema fin troppo impegnativo delle due diverse concezioni di «verità» sottese alla contrapposizione di opinioni sulla prevalenza della prova «diretta» o della prova «indiziaria», basti evidenziare che l’argumentum è un prodotto finito elaborato e perfezionato dall’arte del retore e da lui tradotto in un linguaggio conosciuto dal giudice; là dove, invece, la prova «diretta», ivi compresa la stessa «inspectio ocularis», è un materiale grezzo, o tutt’al più un semilavorato, che si presenta al giudice con tutte le sue asperità e tutti i suoi difetti, potendo il narrante mentire, ricordare male, esprimersi confusamente; il documento essere di difficile lettura o interpretazione; il giudice fraintendere ciò che vede con i suoi occhi; e, quindi, essere, in definitiva, più ingannevole. Come, allora, ognun vede, la mossa astuta riposa su un’analisi a dir poco corriva, eccessivamente approssimativa, sbagliata del fenomeno probatorio.

Da altra proposizione dell’astuto inquisitore («Non siamo qui per parlare di cose nuove o inedite, noi stiamo parlando di cose acquisite nel corso dell’istruttoria dibattimentale e siamo pronti a chiedere la condanna, ci sono persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose»), emerge, peraltro, che quella che costui sbandiera è una prova narrativa, che cola da «persone che hanno spiegato per filo e per segno come stanno le cose», in contrasto con altra prova narrativa, che cola dall’aspirante collaboratore di giustizia. In simile contesto, dove si contrappongono due prove «dirette», parlare a vanvera di «prova» e di «gravi indizi», evocando la formula dell’articolo 273 comma 1 del codice di procedura penale, segnala l’ignoranza delle minime regole semantiche e logico-giuridiche di chi si crede fin troppo furbo.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 10 gennaio 2022.

Se si trattasse solo di dare una notizia, sarebbe questa: le accuse dei pubblici ministeri, nei processi italiani, vengono sconfessate nel 36 per cento dei casi, i quali salgono approssimativamente al 50 per cento se comprendiamo le prescrizioni. Il problema è che pioverebbero smentite e repliche non tutte in cattiva fede, visto che ciascuno si appella a dati diversi e spesso visti da un'angolatura ancor più diversa. 

Il punto è che parlando del disastro della giustizia italiana - da mesi, da anni - ci sono tre domande a cui nessuno sembrava saper rispondere, o alle quali ciascun soggetto dava una risposta troppo difforme da quelle altrui perché suonasse credibile. 

 Le domande erano: che cosa può o vuole fare, seriamente, l'annunciata riforma del Ministro Cartabia?; soprattutto, quali sono, di preciso, le lagnanze della Commissione Europea (Cedu) sulle disfunzioni della nostra Giustizia?; perché, infine, i dati sui tempi, sui proscioglimenti e sulle disfunzioni della giustizia italiana non quadrano mai coi dati opposti dalla magistratura, come per esempio ha ribadito il Procuratore Generale Giovanni Salvi nella sua Relazione annuale sulla giustizia medesima? 

Bene, ora una risposta un po' più seria ce l'abbiamo, anche se siamo costretti a condensarla nei limiti di un articolo senza che tuttavia non cambia percezione finale, che è una sola: è impressionante. 

Dobbiamo la possibilità di rispondere a uno studio - impressionante a sua volta: per accuratezza e complessità - pubblicato sull'ultimo numero di Archivio Penale e curato dalla nota giurista Cristiana Valentini, ordinario di procedura penale, la quale dimostra quanto mal riposto fosse l'ottimismo del Procuratore Generale Giovanni Salvi quando disse che «le assoluzioni depurate degli esiti non di merito sono in realtà inferiori al 20 per cento del totale». 

Il procuratore rispondeva a quanti rilevavano una distonia tra l'esercizio dell'azione penale e i suoi esiti dibattimentali, cioè processuali: «Questa discussione si basa in realtà su di una non corretta informazione, derivante dalla imperfezione della raccolta e dell'analisi del dato, causata da una storica sottovalutazione dell'aspetto conoscitivo del sistema giudiziario».  

E su questo aveva senz'altro ragione. Il problema è che è lo studio di Cristiana Valentini ha preso in esame ogni procedimento penale sin dalla «scaturigine» (la notizia di reato e la sua gestione) e fino al suo epilogo. 

I dati di Salvi (i dati in generale) per esempio non tengono mai conto anche delle denunce iscritte a "modello 46", ossia le notizie da fonte anonima (soffermandosi perlopiù sulle notizie di reato iscritte a "modello 21", registro noti) e tantomeno le notizie iscritte nel registro "modello 45", ossia gli atti non costituenti notizia di reato, che non compaiono in nessuna statistica ministeriale (la Valentini ha dovuto procurarseli per conto proprio) e che per l'anno 2019, l'ultimo disponibile, ammontavano a oltre 1.198.000. 

Ora: al modello 45 - questo lo aggiungiamo noi - il cittadino mediamente istruito sa che un pm tenda a ricorrere quando ritiene appunto che non esista notizia di reato, come nel caso di denunce presentate da pazzi con manie di persecuzione, insomma, è una forma di archiviazione: ma un qualsiasi avvocato praticone sa che non è vero, come spiego Antonio Di Pietro nel 1997 credendosi al riparo da orecchie indiscrete: spiegò che il modello 44 e 45 servivano provvisoriamente a guadagnare tempo visto che i tempi delle indagini preliminari in teoria duravano solo sei mesi.  

La Valentini traduce così: «Una minima esperienza empirica in possesso di qualsivoglia avvocato insegna che a registro degli atti non costituenti notizia di reato finisce ben altro dei deliri immaginifici del soggetto psichiatrico di turno». 

In sostanza i "modelli 45" testimoniano che la cifra reale della discrezionalità (incontrollata) dei pubblici ministeri è molto più alta di quanto si sospetti. $ un mare magnum di apparenti «non notizie di reato» che non prevedono limiti di tempo, pronte da ripescare a piacimento, magari a carico di «finti» ignoti che quest' ultimi, di fatto indagati o persone offese, secondo una logica fuori legge, consente vere e proprie «istruttorie occulte».  

$ anche una specialità siciliana- aggiungiamo noi anche questo - a cui ricorsero per esempio nella fallita inchiesta «sistemi criminali» o in un'altra dove gli indagati vennero celato sotto le sigle «XXXXX» e «YYYYY», e che si ossequia criteri selettivi misteriosi quanto incontrollabili dove l'unico a fungere da nocchiero è il pubblico ministero.

Ecco, di queste notizie di reato nascoste, iscritte a "modello 45", non è a conoscenza neppure la volenterosa Commissione Lattanzi messa in piedi dal ministro Cartabia, per capirci. Ma sono bel altri, ed esulano dai limiti di questo articolo, gli esempi di come i pubblici ministeri possano ampliare i loro poteri discrezionali e incontrollabili in modo che sfugga all'occhio ma soprattutto alla statistica, nascosto nelle pieghe oscure del sistema. 

 Se a tutto questo aggiungiamo i controversi e confusi numeri (comunque bassissimi) di ricorso ai riti alternativi da parte dei pm, dei quali mancano dati completi relativamente alle richieste di rinvio a giudizio e ai proscioglienti, giungiamo infine alla risposta che più si temeva, ossia quella sul che cosa possa effettivamente fare la ministra Marta Cartabia assieme a Giorgio Lattanzi (ottimo ex presidente della Corte costituzionale) in tema di riforma della Giustizia. 

La risposta è niente. L'imprinting dato alla sua Commissione in fondo non è diverso da quello affidato al peggior ministro Guardasigilli della storia italiana, Alfonso Bonafede: assicurare una ragionevole durata del processo e recuperare una miglior efficienza ed efficacia dell'amministrazione della giustizia. Parole. 

Le ingiuste detenzioni nodo irrisolto della giustizia. “Ancora troppi casi come quello di Enzo Tortora”, parla l’avvocato Giovanni Palumbo. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Gennaio 2022.  

«Mi domando cara Silvia che cosa posso insegnarti dalle mura di Regina Coeli. Fra le mura della 16 bis dove fa un caldo atroce. Siamo in sei disperati e fuori si vede il cielo. Che posso insegnarti, mi chiedo, perché a te, devi saperlo, è a te che il mio cuore più spesso vola…». Era l’estate del 1983, Enzo Tortora aveva da poco iniziato il terribile calvario giudiziario che lo portò in cella da innocente. Silvia, sua figlia, è morta ieri a Roma. Aveva 59 anni, come suo padre quando morì. E come suo padre, era una giornalista che aveva scelto di raccontare la verità dei fatti e si è spesa in nome del garantismo.

La notizia della sua morte ha aggiunto dolore e amarezza al ricordo di una delle pagine più dolorose della storia giudiziaria napoletana, oltre che nazionale. Enzo Tortora fu ingiustamente detenuto e processato. «Mai più» si disse dopo lo scandalo giudiziario che lo travolse. E invece cosa è cambiato in questi quasi quarant’anni? Napoli continua ad essere la capitale delle ingiuste detenzioni, e sebbene sia un distretto giudiziario molto ampio con numeri ben superiori a quelli di altri distretti è pur vero che detiene questo triste primato da quasi dieci anni.

Le ingiuste detenzioni sono state 101 nel 2020, a febbraio si conosceranno i casi del 2021 e ai dati ufficiali bisognerà aggiungere un centinaio o più di innocenti invisibili che non hanno avuto accesso al risarcimento per l’ingiusta detenzione per un “cavillo” (è accaduto che il risarcimento, per esempio, sia stato negato a chi da indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere, perché pur avvalendosi di un proprio diritto avrebbe contribuito all’errore degli inquirenti che lo avevano messo in carcere per accuse poi rivelatesi infondate) oppure per una scelta personale (sono molti quelli che dopo anni di processo vissuti da innocenti ingiustamente detenuti non hanno più né la forza economica né quella mentale di intraprendere un nuovo percorso giudiziario seppure per vedersi riconosciuto un proprio diritto, cioè quello al risarcimento per il danno subìto dalla detenzione ingiusta).

L’ingiusta detenzione è una delle più dolorose piaghe del nostro sistema giustizia. «Il mio compito- scriveva Tortora dopo il suo arresto del 17 giugno 1983, in una delle tante lettere inviate alla compagna Francesca Scapelliti – è uno: far sapere. E non gridare solo la mia innocenza, ma battermi perché queste inciviltà procedurali, questi processi che onorano, per paradosso, il fascismo vengano a cessare. Perché un uomo sia rispettato, sentito, prima di essere ammanettato come un animale e gettato in carcere. Su delazioni di pazzi criminali». Il processo a Enzo Tortora si svolse a Napoli negli anni del post-terremoto, dei magistrati che si giocavano la carriera anche sulle indagini sulla camorra e dei primi collaboratori di giustizia. Il processo seguiva il vecchio codice penale e ai pentiti Gianni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra i pubblici ministeri dell’epoca diedero credito al punto da mandare in galera un innocente. Tortora fu ritenuto coinvolto in un giro di droga che riguardava uomini della Nco di Raffaele Cutolo. Tutto falso. L’avvocato Giovanni Palumbo era all’epoca un giovane penalista e affiancava suo padre, l’avvocato Tommaso Palumbo, nella difesa di due imputati che secondo la fantasiosa ricostruzione dei pentiti avrebbero fornito droga al famoso giornalista. «Ricordo ogni udienza, era chiaro sin dal primo momento che ai pentiti si era dato troppo spazio creando confusione tra falsità e verità ma ci vollero anni per dimostrarlo».

Le parole di Tortora rivolte ai giudici prima che andassero in camera di consiglio («Devo concludere dicendo: ho fiducia. Io sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io spero, dal profondo del cuore che lo siate anche voi») sono il momento che l’avvocato Palumbo ricorda con maggiore commozione. E di fronte ai dati, ancora oggi impietosi, sugli innocenti in cella commenta: «Non ci sarà nessuna riforma veramente efficace finché nel nostro sistema non sarà attuata una vera svolta culturale e abbandonata del tutto quella mentalità di tipo inquisitorio che ancora resiste».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La malagiustizia. Innocenti in carcere: un detenuto su tre vittima di ingiusta detenzione. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Le statistiche dicono che in Campania, e il dato è in linea con quello nazionale, un detenuto su tre è innocente. Le chiamano ingiuste detenzioni, sono quanto di peggio possa capitare ad una persona che, per un caso o per un errore di un pm o un investigatore, si ritrova ad essere rinchiuso in una cella, con persone sconosciute, per giorni, settimane, mesi. Persino anni quando ci si imbatte in pubblici ministeri convinti della propria tesi di partenza e per niente disposti a tornare sui propri passi. Ci sono ricostruzioni accusatorie che vengono portate avanti nonostante le lacune e le contraddizioni che emergono nel corso di accertamenti successivi, nonostante le alternative e i chiarimenti forniti dalla difesa, nonostante una pronuncia diversa da parte di un giudice.

Il tutto, nei tempi dilatati della giustizia, con l’incertezza di non sapere mai se ci vorranno mesi oppure anni per arrivare a ristabilire la verità. Spesso si dice che la custodia preventiva è una sorta di anticipazione sulla condanna, ma quando la condanna non c’è perché non ci deve essere, perché si stabilisce che la persona arrestata e messa sotto accusa è innocente, quella carcerazione preventiva diventa soltanto tortura. E non possono certo i soldi del risarcimento (riconosciuto dopo un percorso giudiziario altrettanto lungo e niente affatto scontato, perché lo Stato può anche negarlo) cancellare come un colpo di spugna i danni di una detenzione ingiusta. C’è chi perde il lavoro quando finisce coinvolto in un’inchiesta e non lo ritrova quando, dopo anni di processo, viene assolto. C’è perde anche gli affetti. Ci sono famiglie e vite rovinate da arresti e accuse che non hanno ragion d’essere, che magari sono solo il frutto di un convincimento sbagliato di un pm o di testimonianze che alla fine vengono ritrattate o di indizi che non poggiano su alcuna prova. Negli ultimi trent’anni, in Italia, si sono contati quasi 30 mila errori giudiziari, con risarcimenti per quasi 900 milioni di euro.

Napoli e la Campania hanno registrato negli ultimi dieci anni numeri da record. Nel solo distretto di Napoli, che comunque è tra i più grandi distretti giudiziari del Paese, si stimano più di cento casi all’anno. Nel 2012 si registrava un caso di ingiusta detenzione al giorno, poi il ricorso alle manette facili, seppure a fasi alterne, è stato ridimensionato ma non a sufficienza perché risulti sempre applicato il principio in base al quale la reclusione preventiva in carcere deve essere l’extrema ratio. Nel 2020 si sono registrati 101 casi di innocenti ingiustamente arrestati, ma se si considera che questi accertati sono soltanto il 30% delle cause di risarcimento per ingiusta detenzione proposte è chiaro che il fenomeno ha proporzioni ben più ampie. A fine mese il ministero della Giustizia dovrebbe rendere noti i dati più aggiornati del 2021. Nel discorso di Natale, la ministra Marta Cartabia ha affrontato anche il tema degli errori giudiziari, delle lettere per i risarcimenti che arrivano al Ministero, “dietro ogni lettera ci sono sempre singole persone, vite in carne ed ossa”. Bisognerebbe ricordarlo sempre, in ogni istante. E tutti.

La ministra ha ricordato, tra quelle che l’hanno più colpita, la storia del professor Francesco Addeo, oggi 80enne, nel 2001 scienziato di fama internazionale finito al centro di un’inchiesta penale e persino in carcere per quattro mesi e ai domiciliari per altri due a seguito di dichiarazioni di due imprenditori che nel corso del processo non si sono rivelate fondate. Di qui la sua assoluzione ma un danno nell’anima che resta indelebile. E storie come questa si ripetono a centinaia ogni anno. L’associazione Errorigiudiziari.com da venticinque anni raccoglie dati e storie di vittime di malagiustizia. Puntando la lente su Napoli si scopre l’incubo di un 35enne, sposato con una figlia di tre anni, che un pomeriggio di maggio di quattro anni fa viene convocato dai carabinieri per una generica comunicazione di servizio e si ritrova in manette, dopo che gli viene notificata un’ordinanza di custodia cautelare, per accuse gravi come rapina aggravata e violenza sessuale. Gli viene concessa una telefonata alla moglie e viene portato a Poggioreale. La vittima dice di aver riconosciuto in lui l’autore dell’aggressione subita mesi prima. E tanto basta.

Il 35enne resta in cella per tre giorni e ne trascorre altri 141 agli arresti domiciliari. In primo grado viene condannato a otto anni di reclusione, in appello la sentenza viene ribaltata e il 35enne viene assolto. L’assoluzione diventa definitiva ma ci vorranno due anni di calvario giudiziario. Ora il 35enne è in attesa che venga accolta la sua richiesta di risarcimento per l’ingiusta detenzione sofferta. Iter più o meno simili hanno segnato le storie di altre vittime della giustizia, dal camionista scambiato per narcotrafficante all’imprenditore mandato in carcere come presunto killer e tenuto in cella per ottocento giorni e in sospeso, legato al filo esile della giustizia, per oltre quattro anni in attesa che nel processo si accertasse il grave errore dovuto a un’intercettazione male interpretata dagli investigatori. Si può finire in carcere davvero per poco. Più lungo e difficile il percorso per uscirne, anche se si è innocenti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il bilancio dell'anno giudiziario 2021. Io, avvocato a Napoli, vi racconto i paradossi di una giustizia che non c’è. Gennaro De Falco su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. Ieri ho chiuso l’anno giudiziario 2021 con la prima udienza per fatti del 2010 di un processo che ancora non si sa neppure chi deciderà e che per ragioni prettamente biologiche concluderanno, se avranno fortuna, i miei nipoti se per sventura dovessero fare il mio stesso lavoro (e poi dicono che i processi si prescrivono per colpa degli avvocati) . Se e quando il processo dovesse finire, gli imputati saranno ampiamente morti per vecchiaia. Dirà il mio eventuale lettore: «Ma come può essere possibile? Sarà un caso?». Ed io non potrò che dirgli: «Sbagli mio caro, è quasi la regola e non solo a Napoli ti assicuro». Sfogliando l’agenda vedo un altro processo su cui pure ci sarebbe tantissimo da scrivere. L’imputato risponde di aver venduto ben 27 Cd contraffatti nel 2004 – sì, nel 2004 avete letto bene! -. Diciotto anni per stabilire se e quale pena dovrà essere inflitta all’ormai canuto imputato che tanti anni fa si è imbattuto in questo ormai altrettanto canuto difensore che ancora aspetta la definizione di tante vicende anche molto più assurde di quelle che ho appena accennato. Ad esempio, aspetto ancora la fissazione, o meglio il pervenimento in Cassazione, di un altro processo per fatti del 2003 (diciannove anni fa) in cui tre dei quattro imputati sono stati assolti da gravissime imputazioni associative.

Il pm ha ritenuto di impugnare la sentenza assolutoria (confondendo nei suoi motivi di appello anche la sede dove operava e indicando un Tribunale per un altro). Il processo è quindi arrivato in appello dove si è ibernato per circa dieci anni e poi la Corte di appello, alla fine di tutto, ha confermato la decisione assolutoria del Tribunale dichiarando, e vorrei pure vedere, la prescrizione dei reati minori per l’unico tapino condannato che ancora aspetta da 19 anni di conoscere la sua sorte. Il tutto mentre i tre assolti sono stati per 19 anni senza dormire la notte, in attesa che la loro assoluzione venisse confermata anche in appello. Ma, nel frattempo, uno con un carico pendente di questo tipo come fa a trovare lavoro, come campa? E non continuo questo elenco disperato non perché non abbia da scrivere ancora. Se potessi, potrei riempire l’intero giornale con storie anche peggiori di queste, solo che alla fine sarei tanto noioso e ripetitivo che nessuno leggerebbe. Non diversa è la sorte delle denunce e, soprattutto, delle querele dove la disperazione di noi avvocati raggiunge, se possibile, ulteriori vette di dolorosa impotenza.

Ormai, forse anche per il palese ingolfamento degli uffici quasi tutte le denunce, anche per fatti davvero gravissimi e con rilevanti conseguenze economiche, vengono archiviate con motivazioni davvero sconcertanti e solo il clamore della stampa riesce, in qualche rarissimo caso, a farle fortunosamente rivivere. Tempo fa depositai una denuncia per maltrattamenti ed altro in favore di una donna marocchina cui il marito, di stretta osservanza islamica, tra l’altro voleva imporre di non uscire di casa e di indossare il velo, e solo una vivacissima campagna di stampa che stava per provocare una mezza crisi diplomatica ha spinto il pm a revocare la sua richiesta.

In quella denuncia la donna, che logicamente non ha un euro, chiese anche di essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato ma ad oggi non le hanno neppure risposto. E io, nel frattempo, ho dovuto anticipare spese vive e lavoro che non so se e quando mi verranno rimborsati. Io, che ho un animo missionario e posso permettermelo, l’ho difesa ugualmente e continuerò a farlo ma chi non dispone di queste possibilità o magari vuole solo essere pagato per il lavoro che fa? Come può sostenere questa situazione e poi è giusto che accada? È vero, per questa vicenda sono stato a cena con diversi ambasciatori che mi hanno anche applaudito e premiato, che un eminentissimo Monsignore mi ha degnato della sua benedizione e che mi hanno anche accompagnato in albergo in una splendida limousine con targa diplomatica, che qualche giorno dopo mi hanno anche invitato alla cena degli ambasciatori ma a me tutto ciò appare assolutamente surreale.

Lo smarrimento si acuisce quando si vedono invece processi per fatti del 2020 che vanno speditissimi e in cui si contesta l’appropriazione indebita di «2 mazzole, 2 scalpelli, 2 metri da misura, 2 tenaglie, un martello da carpentiere, tre lenze ed una livella» che l’imputato non ha restituito agli operai di cui si era servito. In questi termini mi pare evidente che l’istituzione giudiziaria nel suo complesso sia un mero costo per la collettività senza alcuna utilità apprezzabile. Gennaro De Falco

Investe un cinghiale in strada: “Ora paga”. L’incredibile processo a Terni. Il Dubbio il 06 gennaio 2022.  Pubblichiamo il racconto esilarante di un avvocato su un automobilista citato in giudizio perché ritenuto "corresponsabile" dell'animale selvatico per danni alla circolazione

C’è nella tradizione tedesca una storia condensabile nella famosa frase: “Ci sarà pure un Giudice a Berlino!”, che si dice sia citata anche da Bertolt Brecht, il quale non l’ha invece scritta da nessuna parte. Si tratta, comunque, delle vicissitudini del mugnaio Arnold il quale traeva la sua unica fonte di reddito dall’uso di un mulino ad acqua a Sans-Souci, nei pressi di Postdam, finché un nobile proprietario del terreno a monte, non aveva deciso di deviare per suo diletto le acque del ruscello che avevano così cessato di alimentare il frantoio a valle. Ridotto in miseria, il povero Arnold aveva provato a reagire al sopruso affrontando senza alcun successo numerosissimi gradi di giudizio, finché non aveva trovato “un giudice a Berlino”, che gli aveva dato al postutto piena ragione.

Personalmente non so se ci sia ancora “un giudice a Berlino”, ma so che non ce n’è uno qui, nel circondario di Terni, per Tizio, come risulterà evidente dalla storia “vera” che vado a raccontare. Tutto è iniziato in una sera di maggio del 2020, quando Tizio stava percorrendo l’affascinante Valnerina alla guida della propria vettura e, giunto nei pressi del piccolo ma intrigante paese di Ferentillo, si è trovato di fronte un bel cinghialone che gli ha attraversato all’improvviso la strada, rendendo inevitabile l’urto. La bestia, di notevole stazza e possanza, non moriva però sul colpo, ma caracollava in avanti per un centinaio di metri, fino ad urtare l’auto di Caio che stava sopraggiungendo nell’opposto senso di marcia. Così descritto brevemente il fatto, la risposta alla domanda “chi paga?” è una sola: paga la Regione che risponde dei danni causati alla circolazione stradale dai cinghiali, quale proprietaria della fauna selvatica, proprio come avviene per il privato il cui animale d’affezione provochi danni alla circolazione stradale, sfuggendo al controllo del padrone. Tutto molto semplice, quindi, ma evidentemente fin troppo elementare se l’avvocato di Caio – credendosi erede del genio italico – si è andato inventando la strampalata tesi che il danno alla vettura del suo assistito non l’aveva provocato il cinghiale, da cui era stata materialmente colpita, ma Tizio che dopo aver urtato con la sua auto l’animale, lo aveva fatto letteralmente volare – e non caracollare – per 100 metri, scaraventandolo addosso a quella di Caio. Tant’è che lo citava in giudizio – quale artefice, appunto, del “cinghiale volante”-, al posto della Regione, unica responsabile per legge e per nomofilachia – e non per capriccio ermeneutico -, del sinistro causato dall’animale di sua proprietà.

Ebbene, raccontata in giro questa storia, gli addetti ai lavori si sono messi le mani nei capelli, i meno esperti di infortunistica stradale hanno riso di gusto e i bambini, amanti per loro natura delle favole, hanno battuto le manine immaginando lo sventurato cinghialotto che volava grugnendo per 100 metri ed atterrava senza paracadute e con le orecchie al vento sull’auto di Caio. Il bello – si fa per dire! – è che non ha invece riso un Giudice di Pace di Terni, che si è al contrario invaghita del dissennato ghiribizzo ed ha battuto le mani proprio all’idea di poter accollare a Tizio la responsabilità dei danni causati da quel cinghiale maldestro, che invece di morire sul colpo – come ogni animale di buoni costumi e di sano rigore morale dovrebbe fare! -, era andato ad impattare con la vettura di Caio. Di tal che, a prescindere dalle cennate considerazioni giuridiche che non paiono appassionare i due operatori del diritto, il brocardo di fondo sarebbe, ad summam: “Se adeguatamente sollecitato, un cinghiale di 80 chili, può volare per 100 metri”. A ciò si aggiunga – e l’addendum non è certo di poco momento -, che il Giudice ritiene di poter valutare una corresponsabilità di Tizio ai sensi dell’articolo 2054 del codice civile, quando unica legittimata ad eccepire tale eventuale concorso – quale esimente totale o parziale della propria responsabilità -, sarebbe stata semmai la Regione, la quale non è però parte in causa. Cosicché, incredibile dictu, si arriverebbe a sentenziare un concorso di colpa di Tizio con il povero cinghiale – privo, ahinoi, di difesa processuale! – nella causazione del danno, con conseguente “meritata” lesione anche dei diritti di Caio – in quanto maldestro artefice dell’autolesionistico inguacchio -, il quale vedrebbe limitata del 50% la sua pretesa risarcitoria!

E allora, cari amici, se doveste mai imbattervi – viaggiando nel territorio ternano – in un cinghiale che dopo avervi attraversato la strada sbucando all’improvviso dalla boscaglia, non dovesse morire subito lì, sotto le ruote della vostra auto, ma proseguire caracollando – o persino volando – la sua corsa fino a causare danni in giro anche a centinaia di metri di distanza, fate una novena a Sant’Antonio a che gli eventuali danneggiati siano assistiti da un avvocato meno “estroso e geniale” del Nostro e raccomandatevi a tutti gli altri Santi del calendario, affinché la potenziale causa non venga affidata al prefato Giudice di Pace.

Sandro Tomassini, Avvocato del Foro di Terni

·        La durata delle indagini.

Indagine: spingere la selvaggina (e la verità) nella rete. Paolo Fallai  su Il Corriere della Sera il 19 luglio 2022.  

Indagine è una parola che si è conquistata nel tempo uno spettro talmente ampio di significati da aver bisogno spesso di un aggettivo qualificativo per evitare equivoci. Eppure, nasce con una origine che non si presta a nessun fraintendimento, anzi oltre a spiegarla magnificamente la illumina eliminando ogni zona d’ombra. Una tecnica precisa. Indagine è una parola latina composta da indu (variazione antica di in- per indicare «in, dentro») e il verbo agere, «spingere». Il risultato indicava una azione tipica della caccia: spingere la selvaggina verso le reti per poterla comodamente catturare. Premessa che rende molto più chiara l’indagine che faremo sui moderni significati, che non hanno perso del tutto la specificità della caccia. Niente è lasciato al caso. Il dizionario di Tullio De Mauro riporta come primo significato «ricerca sistematica per conoscere, scoprire qualcosa». Non una ricerca qualsiasi ma una «attività diligente e sistematica volta alla scoperta della verità intorno a fatti determinati» (Treccani). Andiamo molto oltre una semplice ricerca, identificando il frutto di coscienziosi e seri accertamenti. La rosa dei campi. Per i motivi che abbiamo visto l’indagine si è prestata a costruire un fiorire di locuzioni che ne spiegassero la particolare natura. Tra le più conosciute l’indagine di mercato, una ricerca di statistica economica che studia i prodotti, i gusti dei consumatori e la distribuzione, per incrementare le vendite. Ma l’indagine può essere nutrizionale (sui comportamenti alimentari di un determinato soggetto), o più in generale statistica, linguistica, filologica, storica, sociologica. E così via. Due esempi particolari. Esistono due tipi di indagine che per la loro stessa natura ci aiutano a comprendere la serietà e la profondità di questa ricerca. La prima è l’indagine pilota, una rilevazione preliminare che si svolge su un campione ristretto ma rappresentativo, per consentire di raccogliere tutte le informazioni utili a svolgere un’indagine completa. Il secondo esempio è ancora più esplicito: chiamiamo indagine conoscitiva una speciale attività di ricerca e raccolta dati che viene disposta dalle commissioni parlamentari per acquisire informazioni e dati utili al lavoro del parlamento. Il plurale apre un altro scenario. «Le» indagini ci accompagnano a scoprire un mondo intero di investigazioni giudiziarie e degli organi di polizia. «Le» indagini hanno l’obiettivo di fare luce su episodi di reato, crimini compiuti o sospetti. «Le» indagini preliminari sono appunto le attività svolte dalla polizia giudiziaria in base a un’informazione di reato, allo scopo di determinare l’eventuale esercizio dell’azione penale. Questa attività viene coordinata da un pubblico ministero e verificata da un giudice, il «giudice delle indagini preliminari» (GIP). L’obiettivo non cambia. Anche in questo ambito giudiziario il significato profondo dell’indagine non cambia: ci troviamo di fronte alla ricerca scrupolosa della verità, a maggior ragione se si tratta di episodi criminosi con delle vittime e dei presunti colpevoli. In fondo perfino l’immagine iniziale acquista nuova luce: l’indagine non è altro che un insieme di accertamenti capace di spingere i colpevoli nella rete della giustizia. Noir, fantasy, storici. Non può stupire che l’indagine sia uno dei pilastri centrali di ogni opera letteraria, dalla narrativa alla saggistica. E sarebbe davvero riduttivo pensare che riguardi solo i noir, o i «gialli» (la letteratura d’inchiesta è sempre colorata, ma questa è tutta un’altra storia). Ogni saggio che si rispetti è frutto di una accurata indagine. Ogni tesi di laurea è un’indagine. Ogni articolo serio, ogni inchiesta giornalistica, dovrebbe esserlo. Ma tutta la letteratura, dalle fiabe ai poemi omerici, non è che l’insieme dell’indagine sul significato della vita, che accompagna la civiltà umana. Almeno per gli uomini civili. Per gli incivili non c’è speranza.

Troppo lavoro, così i fascicoli giudiziari finiscono nella spazzatura: il caso a Napoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

L’ultima inchiesta, in ordine di tempo, della Procura di Napoli contiene un dettaglio che, se confermato, è l’ennesima spia di come disfunzioni e ritardi generino affanni, ansie, persino comportanti esasperati o illeciti. Tra le righe di questa inchiesta viene fuori, infatti, che una funzionaria giudiziaria pro tempore della quarta sezione della Corte d’appello di Napoli avrebbe, tra febbraio e marzo 2021, distrutto, soppresso e occultato atti giudiziari, interi fascicoli di processi penali ancora in corso o già conclusi. In almeno cinquanta circostanze pezzi di vita processuale di persone, anche ignare della soppressione delle carte che le riguardavano, sono spartiti.

Nelle stanze della Torre del palazzo di Giustizia al centro direzionale quei fascicoli erano diventati arretrati da smaltire, in qualunque modo. La funzionaria è agli arresti domiciliari da ieri, insieme a un assistente giudiziario della Corte d’appello di Napoli. La funzionaria deve difendersi dalle accuse di soppressione e distruzione di atti; l’assistente giudiziario dai reati di corruzione, accesso abusivo a un sistema informatico e truffa in danno dell’amministrazione perché sospettato di aver rivelato notizie e informazioni ritenute non ostensibili, in alcuni casi anche in cambio di somme di denaro tra cinquanta e cento euro. Ma è soprattutto la storia della funzionaria a colpire e ad accedere un faro sulla situazione in cui versa la nostra giustizia e in cui si trova chi per essa lavora.

Dalle intercettazioni al cuore dell’inchiesta, gli stessi inquirenti sottolineano come la funzionaria avesse manifestato a terzi «preoccupazione sia per la mole di lavoro in capo al suo ufficio – a suo dire eccessivamente elevata – sia per la circostanza che alcuni fascicoli risulterebbero smarriti», peraltro «…con il silenzio di altri appartenenti all’amministrazione giudiziaria». In un passaggio emerge addirittura il disappunto di un addetto alle pulizie che, di fronte alla mole di carte da buttare che riempiono il cestino nell’ufficio della funzionaria, si lamenta. Dentro ci sono fascicoli, buste, cartelle, documenti che sistematicamente la funzionaria è accusata di aver fatto sparire gettandoli nel contenitore della raccolta differenziata della carta. Non in cambio di soldi, ma – almeno questo è il sospetto – per smaltire il troppo lavoro. Se così fosse il fatto sarebbe comunque grave, perché tra quelle carte distrutte ci sono pezzi di storia giudiziaria che hanno richiesto poi tempo per essere ricostruiti e forse riguardano innocenti ingiustamente finiti sotto processo. Ma sarebbe un fatto grave anche sotto un altro profilo: la giustizia è troppo in affanno.

La Corte di appello di Napoli è un ufficio grande, che accoglie i processi di primo grado che arrivano dai vari tribunali del distretto e parliamo di distretti altrettanto grandi, basti pensare a Napoli, Torre Annunziata, Napoli Nord, Santa Maria Capua Vetere. Questo significa che in Appello confluiscono migliaia di processi, da quelli con un solo imputato ai maxiprocessi di criminalità organizzata con decine di posizioni da valutare. Atti e fascicoli non si contano. Dalle immagini video catturate dai finanzieri durante la fase delle indagini saltano agli occhi le stanze piene di documenti. Anche la stanza dove lavorava la funzionaria da ieri agli arresti domiciliari era sommersa dalle carte. Lei, intercettata, si lamentava che in ufficio erano in pochi. Non è una novità, le carenze di organico nel personale amministrativo del Palazzo di Giustizia di Napoli sono da anni segnalate al Ministero che però ancora non ha trovato il modo di risolvere il problema, con la conseguenza che pure a voler compiere i più ardui e leciti sforzi organizzativi gli arretrati si sono accumulati di anno in anno, fino a raggiungere i 50mila processi arretrati. Troppi, evidentemente. Per tutti. percorsi della giustizia tradizionale.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Termini di durata delle indagini preliminari, possibili proroghe e rimedi in caso di inerzia del pubblico ministero. Beatrice Alba su dirittoconsenso.it il 25 giugno 2021.

Introduzione

Il libro V del codice di procedura penale si occupa delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare. Ai sensi dell’art. 326 c.p.p., “il pubblico ministero e la polizia giudiziaria svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale”. 

Da questa norma è possibile ricavare lo scopo delle indagini preliminari: esse sono finalizzate unicamente ad acquisire elementi di prova al fine di mettere il pubblico ministero nella condizione di decidere se esercitare o meno l’azione penale.

Gli atti di indagine preliminare sono coperti dal segreto fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini.

Il codice fissa la durata massima delle indagini preliminari. Questa previsione risponde a due esigenze:

quella di ridurre i tempi delle indagini, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., in modo contenere i costi dell’amministrazione della giustizia e rendere più proficua la successiva attività di acquisizione dibattimentale della prova; e

quella di garantire l’osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale, fissando il momento nel quale sarà necessario attivare i rimedi per sopperire all’inerzia del pubblico ministero. 

Durata delle indagini preliminari

La durata delle indagini preliminari è di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato viene iscritto nel registro delle notizie di reato, a pena di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine.

Il termine è, invece, di un anno se si procede per uno dei gravi delitti indicati nell’art. 407 comma 2 lett. a) c.p.p..

Se è necessaria la querela, l’istanza o la richiesta di procedimento, il termine decorre dal momento in cui queste pervengono al pubblico ministero.

Se è necessaria l’autorizzazione a procedere, il decorso del termine è sospeso dal momento della richiesta a quella in cui l’autorizzazione perviene al pubblico ministero.

La Corte Costituzionale si è occupata della questione relativa al contrasto del limite cronologico fissato per le indagini preliminari con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sancito dall’art. 112 Cost.  Pensiamo all’ipotesi in cui alla vigilia della scadenza dell’ultimo termine prorogato per le indagini preliminari emerga la necessità di ulteriori indagini. In questo caso delle due l’una: o il P.M. rinuncia ad effettuarle oppure risulteranno inutilizzabili (anche se da esse emerga la necessità di esperire l’azione penale) a causa del decorso del termine per le indagini preliminari.

La Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 436/1991 ha escluso l’illegittimità della normativa che fissa la durata massima delle indagini preliminari e prevede l’inutilizzabilità degli atti compiuti dopo la scadenza dei termini sulla base di plurime considerazioni. Tra queste, la più importante è data dal rilievo che l’impossibilità di compiere altre indagini preliminari per scadenza dei termini e la conseguente eventuale impossibilità di esercitare l’azione penale alla stregua delle indagini compiute non preclude in un secondo momento l’esercizio dell’azione penale posto che, dopo l’emanazione del decreto di archiviazione, il pubblico ministero può, adducendo la necessità di nuove investigazioni, chiedere la riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p., effettuare le nuove indagini e, se del caso, esercitare l’azione penale. 

Proroga dei termini di durata delle indagini preliminari

La ricezione di una richiesta di proroga delle indagini è spesso la prima informazione per l’indagato dell’esistenza di un’indagine penale nei suoi confronti. L’avviso di garanzia, infatti, spetta solo in caso di arresto, perquisizione e sequestro.

Il termine di sei mesi o di un anno può essere prolungato nel caso in cui il pubblico ministero ne richieda al giudice la proroga per giusta causa. Con tale dizione il legislatore ha voluto riferirsi a ragioni oggettive riconducibili alla natura del procedimento e non a ragioni di ordine generale, strutturali, personali od organizzative.

La richiesta contiene l’indicazione della notizia di reato, senza che siano necessarie indicazioni temporali e spaziali del fatto né delle norme che si intendono violate in concreto, e l’esposizione dei motivi che giustificano la proroga, i quali costituiscono l’oggetto del contraddittorio. I motivi addotti dal P.M. per giustificare la sua richiesta sono quindi il vero oggetto del contraddittorio. Non è possibile, invece, avere notizie sull’origine del procedimento penale né sugli elementi raccolti.

Ai sensi dell’art. 393 c.p.p. è possibile avanzare istanza di proroga anche nel caso in cui il P.M. o la persona offesa ne facciano richiesta per eseguire l’incidente probatorio. In questo caso il giudice provvede con decreto motivato, concedendo la proroga per il tempo indispensabile all’assunzione della prova quando risulta che la richiesta di incidente probatorio non avrebbe potuto essere formulata anteriormente.

La proroga non può avere durata superiore a sei mesi. Una volta ottenuta la prima, le seguenti richieste di proroga necessitano di una motivazione più stringente, in quanto possono essere chieste solo nei casi di particolare complessità delle indagini ovvero di oggettiva impossibilità di concluderle entro il termine prorogato.

La proroga può essere concessa più di una volta, ma i termini delle indagini preliminari non possono comunque superare i diciotto mesi, o i due anni se le indagini riguardano i delitti indicati nell’art. 407 comma 2 c.p.p..

Per i reati contemplati dagli artt. 572, 589 c. 2, 589-bis, 590 c. 3, 590-bis, 612-bis c.p., la proroga può essere concessa solo una volta.

La richiesta di proroga deve essere notificata, fatte salve le ipotesi di cui all’art. 406 comma 5 bis), a cura del giudice alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa dal reato che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di voler esserne informata. La finalità della notifica è quella di consentire agli interessati di presentare memorie entro cinque giorni dalla notifica. Si instaura così un contraddittorio di tipo cartolare, caratterizzato dalla limitata conoscenza che le parti possono vantare circa gli atti di indagine.

Il giudice deve decidere circa la concessione o meno della proroga entro dieci giorni dal termine per la presentazione delle memorie.

Nell’ipotesi in cui il giudice conceda la proroga provvede con ordinanza emessa in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e dei difensori. L’ordinanza non è impugnabile.

In caso contrario, ovvero qualora ritenga che la proroga non debba essere concessa, fissa la data dell’udienza in camera di consiglio e ne fa notificare avviso al pubblico ministero, alla persona offesa dal reato che ne abbia fatto richiesta e alla persona sottoposta alle indagini. Nella stessa ordinanza che respinge la richiesta di proroga il giudice, se il termine per le indagini preliminari è scaduto, ne stabilisce uno non superiore a dieci giorni per consentire al pubblico ministero di formulare la richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio.

Gli atti di indagine compiuti dopo la presentazione della richiesta di proroga e prima della comunicazione del provvedimento del giudice sono comunque utilizzabili, sempre che, nel caso di provvedimento negativo, non siano successivi alla data di scadenza del termine originariamente previsto per le indagini. 

Inerzia del P.M.

Il comma 3 dell’art. 407 c.p.p. stabilisce l’inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti dopo la scadenza.

Il comma successivo, inserito dalla legge 103/2017, impone al P.M. di esercitare l’azione penale o richiedere l’archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata.

L’unico rimedio all’inerzia protratta dal pubblico ministero è quello dell’avocazione delle indagini da parte del procuratore generale della Corte d’appello. Il potere di avocazione combina il principio costituzionale della buona amministrazione dell’ufficio e della ragionevole durata del processo (art. 111 c. 2 Cost.) con quello di indipendenza del pubblico ministero (art. 107 c. 4 Cost.).

L’avocazione è una funzione del procuratore generale presso la Corte d’appello che avoca a sé, ovvero autoassume, un procedimento gestito da un procuratore della repubblica. I casi di avocazione sono espressamente previsti dalla legge. In breve, consistono nelle ipotesi in cui il P.M. abbia omesso di compiere un’attività doverosa oppure il procedimento penale rischi una paralisi per inerzia dello stesso.

Informazioni

Bibliografia G. Lozzi, Lezioni di procedura penale, Giappichelli, 2017

Beatrice Alba. Ciao, sono Beatrice. Classe 1997, sono nata in uno dei borghi più belli d’Italia, Cefalù, e vivo nella città dei gianduiotti. Mi piace dire che probabilmente nelle mie vene scorre l’inchiostro perché amo la scrittura, la carta e le parole. Mi piacciono anche i romanzi, il cioccolato e il diritto. Ho una laurea magistrale in Giurisprudenza che ho conseguito nel 2021 discutendo una tesi dedicata al viaggio della Corte Costituzionale turca tra la libertà di espressione e l’indipendenza della magistratura. Il lavoro di ricerca per la redazione dell’elaborato mi ha portato a viaggiare, a conoscere da vicino la realtà turca, dalla quale sono rimasta affascinata. Ho iniziato a collaborare con DirittoConsenso nel 2020 perché amo spiegare il “legalese” ai non esperti del settore.

Il bilancio della Procura partenopea. Quanto durano le indagini: oltre settemila giorni di inchieste e vite sospese. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Quanto può durare un’indagine? Non si contano le volte in cui si è sentito parlare di «ragionevole durata del procedimento», una definizione che racchiude in poche parole il senso di una giustizia, ma anche quello di una giustizia che non c’è. Perché è proprio sui tempi della giustizia che il nostro Paese, e Napoli in particolare (considerando la mole di processi e di indagini che ci sono ogni anno in questo distretto giudiziario), detengono un triste primato. Si può arrivare ad attendere anni per una sentenza, e mica parliamo necessariamente di un verdetto definitivo, l’attesa è lunga, lunghissima, anche per una semplice sentenza di primo grado. Ci sono processi a Napoli che durano da dieci anni.

Ma cosa accade durante la fase delle indagini? Per quanto tempo si resta sospesi all’esito dell’attività investigativa di un pubblico ministero? Anche questo è un settore della giustizia dove per anni lungaggini e faldoni su faldoni hanno reso i tempi dilatati e le attese estenuanti. Essere indagato vuol dire vivere sospeso in una bolla di incertezze, ancor di più se si è totalmente estranei ai fatti per i quali si è indagati. La nuova disciplina legale dell’avocazione ha comportato la necessità di rafforzare il monitoraggio della durata delle indagini e il controllo del rischio di stasi non giustificate. Già, le stasi non giustificate. Quei faldoni lasciati negli armadietti in attesa di indizi o chissà. A Napoli un’indagine, per i reati più vari, può durare dai 73 ai 7.208 giorni, calcolando il periodo compreso tra la data di iscrizione del procedimento alla conclusione del pubblico ministero. I tempi variano anche a seconda della richiesta con cui il pubblico ministero conclude le indagini preliminari: azione penale o archiviazione. La Procura di Napoli, nel suo bilancio sociale, ha calcolato la durata delle indagini nell’ultimo anno.

Certo, a seconda della tipologia di reato cambia anche la durata delle indagini. È facile intuire che ci sono reati per i quali le indagini sono più elaborate per via del numero di persone coinvolte o delle ipotesi di reato che gli inquirenti contestano. Ad ogni modo facciamo un esempio. Prendiamo come riferimento il reato di associazione a delinquere semplice e un’indagine a carico di persone note (nel 2021, per questo particolare reato, ne sono state definite quasi 883): l’inchiesta è durata in media 646 giorni quando la Procura ha concluso con una richiesta di rinvio a giudizio, 1.089,12 giorni nel caso di un’archiviazione nel merito, 2.887,32 giorni nel caso di un’archiviazione per prescrizione. Altro esempio. Prendiamo in considerazione un reato di pubblica amministrazione come l’abuso di ufficio. Nel 2021 i tempi che hanno scandito la durata e l’esito delle indagini, facendo la media dei 557 casi definiti nell’anno, sono stati questi: 470 giorni per concludere l’inchiesta con una richiesta di rinvio a giudizio, 535 per archiviarla nel merito, stabilendo quindi che non vi sono prove a carico dell’iniziale ipotesi accusatoria, e ben 7.208 giorni per archiviare per prescrizione.

Significa che per tutto questo tempo un cittadino, destinato ad uscire dall’indagine senza accuse visto che l’esito sarà un’archiviazione, resta in attesa. Un’attesa che spesso genera drammi, traumi, gogne mediatiche e giudiziarie, stronca carriere, spezza famiglie, costringe a scelte che non si sarebbero mai fatte. Tenendo la lente su Napoli e sulla Procura partenopea, parliamo di un numero di indagini molto elevato. Nel 2021, solo a modello 21 e quindi per indagini a carico di persone note (escludendo quindi le indagini a carico di ignoti), si sono registrati 2.875 procedimenti sopraggiunti, 2.427 procedimenti iscritti, 2.979 definiti e, a fronte di una pendenza di 2.473 fascicoli, il 2021 si è chiuso con una pendenza di 1.743 procedimenti. Si tratta di migliaia di vite sospese.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

·        I Consulenti.

Procure e tribunali, medici legali in fuga: tariffe ferme da 20 anni e onorari in ritardo. «Così i giovani scappano». Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.

Un’autopsia viene pagata 67,66 euro come nel 2002. L’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti: «Così si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico». Cristina Cattaneo, antropologa e patologa forense: «Servono riforme». 

Un ladro ucciso mentre prova ad entrare in un appartamento. Anno 2014. Caso complesso. Gli accertamenti medico-legali (come quasi sempre accade) sono decisivi: autopsia, sopralluoghi, approfondita consulenza tecnica per il pubblico ministero (e intorno, una forte attenzione dell’opinione pubblica). Tralasciando la vicenda giudiziaria, è interessante oggi sapere come, e quanto, è stato liquidato il lavoro di quel professionista: 1.400 euro (ovviamente lordi), ma soprattutto pagati nel 2021. Basterebbe questo esempio per rendersi conto di quanto sia profonda la crisi che sta allontanando dalle Procure e dai Tribunali tutti i professionisti di maggior livello di cui la giustizia ha invece un bisogno sempre più massiccio. Pagati con onorari «indecorosi». In più: pagati in ritardo, anche macroscopico. E, non di rado, coi compensi tagliati al momento della liquidazione. Nei mesi scorsi il Corriere si è occupato di informatici forensi, ingegneri, criminologi. Stessi problemi. L’ambito della medicina legale può avere però ricadute sociali ancora più pesanti. Basta valutare l’aspetto che ha minor rilevanza mediatica, ma che tocca invece un numero enorme di persone: e cioè tutte le controversie su contributi pubblici per invalidità o inabilità, gli infortuni sul lavoro. Se i professionisti chiamati a fare accertamenti su queste controversie sono superficiali, da una parte si può sprecare denaro pubblico, dall’altra si può rovinare una persona che avrebbe pieno diritto a un aiuto e non lo ottiene. «La medicina legale in questi ambiti ha riflessi sociali enormi», riflette Carlo Bernabei, professionista che ha lavorato a lungo per studi legali e uffici giudiziari soprattutto a Milano, Como, Varese e Genova, su delitti, colpe mediche e risarcimenti.

Il listino dei compensi

Tornando all’ambito penale, bisogna partire dal listino dei compensi, fermo al 2002: per l’autopsia, 67,66 euro; per l’autopsia su «cadavere esumato», 96,58 euro; per una consulenza tecnica con «accertamenti medici, diagnostici, identificazione di agenti patogeni», da 38,03, a 290,77 euro. Quando i lavori si prolungano (e si prolungano sempre, come è intuitivo) i pagamenti passano «a vacazione» (una vacazione equivale a due ore e viene liquidata con 8,15 euro (tariffa che Milano ha raddoppiato). «Anche per questo l’ambito penale è abbandonato da quasi tutti i professionisti. Chiediamo che siano rivisti gli onorari, non per diventare ricchi, ma per poter continuare a lavorare al servizio della giustizia con un compenso decoroso», continua Bernabei. E Riccardo Zoja, direttore dell’Istituto di medicina legale della Statale e fino a pochi mesi fa presidente della Società italiana di medicina legale, analizza: «Nell’ambito della giustizia cercano tutti di fare miracoli ma le procedure burocratiche sono lentissime. Le tempistiche della retribuzione sono migliorate leggermente, ma arrivano oggi pagamenti del 2017: non è sostenibile. Oltre ai ritardi c’è anche il fatto che gli onorari sono fermi dal 2002. Una retribuzione iniqua rispetto all’impegno della prestazione. In questo contesto si crea una disaffezione dei giovani per il lavoro al servizio del pubblico. E anche i medici legali esperti svolgono per il pubblico le prestazioni solo su casi interessanti, ma devono compensare con quote crescenti di lavoro nel privato».

L’effetto sui processi

Non serve sottolineare che in casi di omicidio o lesioni gravi la qualità del lavoro dei periti medico-legali può fare la differenza tra un assassino in carcere o libero, tra una vittima che ottiene giustizia o no. «Da libero professionista — aggiunge Bernabei — è però diventato di fatto impossibile lavorare per la Procura o il giudice: tutte le verifiche accessorie legate a un’autopsia (dagli esami tossicologici, ai tecnici di laboratorio) le anticipa di tasca propria il professionista, e le paga subito. A fronte di un compenso che arriverà dopo anni». C’è qualche eccezione, ad esempio il Tribunale di Monza. Ma Milano e il resto d’Italia stanno iniziando a vedere ricadute sempre più marcate. Riflette Cristina Cattaneo, medico e antropologo, professore di medicina legale alla Statale e direttore del Labanof, laboratorio di antropologia e odontologia forense: «La medicina legale italiana, quella delle autopsie, ha bisogno di riforme serie, come hanno fatto i francesi 15 anni fa, e di accreditamento. Bisogna riconquistare la fiducia della società, tra cui anche le Procure, relativamente al fatto che sia fondamentale per tutelare giustizia e società. Ma paradossalmente le richieste di autopsie da parte della giustizia, e anche dei servizi di salute pubblica, sono sempre meno: non certo perché sono diminuiti i crimini, ma perché c’è l’idea che la medicina forense non sia in grado di produrre risultati tangibili in termini di giustizia e salute pubblica, e dunque su quelle si risparmia».

I risparmi gli accertamenti legali

Che peso può avere, in un sistema democratico, se la giustizia risparmia sugli accertamenti e che provoca un’emorragia continua di professionalità? È un tema sul quale insiste anche Zoja: «Sono diminuite drasticamente le richieste di autopsie, non se ne fanno quasi più. C’è una scarsa fiducia nell’utilità di analisi approfondite, ma anche un tema economico, che pesa nella decisione di non farne molte. In questo modo però si ha un minor controllo della situazione sociale ed epidemiologica».

L’albo dei consulenti certificati

In alcuni ambiti Milano ha un’organizzazione avanzata, come ad esempio sulle colpe professionali, con una Sezione dedicata in Tribunale e anche un albo di consulenti «certificati», per i quali una commissione ha verificato la competenza. Il problema però è sempre lo stesso, e cioè che poi questi medici accettino il lavoro al servizio del pubblico. Proprio sulle colpe mediche rischia di generarsi (in parte è già così) una delle distorsioni più gravi: se una persona con pochi mezzi ha avuto un gravissimo danno dopo un intervento sbagliato e denuncia l’ospedale, dalla sua parte avrà spesso solo il perito del magistrato, e se questo è di livello non adeguato, nel processo sarà sempre in difficoltà. Perché di fronte si troverà i periti di più alto livello sul mercato, pagati dalla parte. E dunque, questo è il tema chiave che investe il senso stesso della giustizia, le due parti non saranno ad armi pari di fronte al giudice. È anche per questo che si sono moltiplicate società che si fanno pubblicità e si offrono di assistere vittime di potenziali errori medici. Propongono di assistere la vittima: se perde, la società non avrà compensi; se vince, incasserà una percentuale sul risarcimento. È un sistema molto criticato nell’ambiente, ma che in realtà rappresenta un correttivo rispetto a uno squilibrio. 

·        Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Io son io e voi non siete un cazzo!

Presso la Sezione Penale del Tribunale di Palmi, in provincia di Reggio Calabria, al ruolo A bis, si tiene il processo n. 238/19 R.G.N.R, n. 1399/19 R.G.T. tenuto dalla D,ssa Annalisa Palamara a carico di Latino Giandomenico difeso dall’Avv. Antonino Napoli.

L’Avv. Antonino Napoli ha pensato di citare come testimone al processo il dr. Antonio Giangrande, di Avetrana, del versante orientale della provincia di Taranto, ai confini con Lecce, noto saggista e presidente nazionale dell’associazione antiracket ed antiusura denominata “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.

Il citato dr. Antonio Giangrande non conosce fatti, atti e parti del processo in corso. In udienza si scopre che è un artifizio per far rendere dichiarazioni incriminanti su un articolo pubblicato dall’imputato contenete un’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Dossier contenete altri articoli in cui si parla di incompatibilità ambientale dei magistrati. Nello stesso foro praticano magistrati e loro familiari, in qualità di togati ed avvocati. L’indicazione erronea del nome di uno di questi ha sortito una richiesta di rettifica, effettuata. Ciononostante vi fosse prova di mancanza di dolo, è partita la querela. In questo caso si è guardato il dito e non la luna.

L’avv. Antonino Napoli cita con atto di citazione testi il dr Antonio Giangrande a presenziare per l'udienza del 28 giugno 2021 ore 12 e ss con Racc. A.R. del 04/06/2021 ricevuta il 09/06/2021.

Avviso congruo inviato 24 giorni prima e ricevuto 19 prima l’udienza.

Il Dr Antonio Giangrande in data 23 giugno 2021 con fax personale all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale giustifica l’impedimento a presenziare in udienza per i postumi del Long Covid, residui di una lunga degenza in ospedale per un’infezione grave ai polmoni e ad altri organi .

Il Dr Antonio Giangrande per maggiore sicurezza fa inviare dal suo Avvocato di fiducia del Foro di Taranto, Mirko Giangrande, al Tribunale di Palmi e all’avvocato Antonino Napoli la stessa giustifica.

Mandato speciale rilasciato per quel singolo atto. Oltretutto non essendo imputato.

Giustifica accettata dal Tribunale. 

Dopodichè l’avv. Antonino Napoli rinnova la citazione testi al Dr Antonio Giangrande per l’udienza di lunedì 14 marzo 2022, ore 13:00.

Citazione testi che il dr Antonio Giangrande, teste, non ha mai ricevuto, perché inviata dall’avv. Antonino Napoli con pec nel week end, ossia sabato 12 marzo 2022, ore 13:53 all’indirizzo dell’avvocato Mirko Giangrande, non legittimato a riceverla.

Avv. Mirko Giangrande che, intanto, aveva sospeso la professione, in quanto aveva vinto il concorso ed operava come addetto all’Ufficio del Processo presso il Tribunale Penale di Parma.

Avv. Mirko Giangrande che, nel momento in cui ha ricevuto l’errata citazione, nella stessa data la contesta presso il mittente, rilevando la sua nullità. 

Da notare:

Destinatario non legittimato a ricevere la notifica, né egli è dovuto a comunicare la stessa al vero destinatario, che ad onor del vero nel week end ed a circa mille chilometri era irrintracciabile.

Termini non congrui tra la notifica e l’udienza: due giorni prima, anzi 47 ore prima, contenuti tra festivi e pre festivi. Come dire: si notifica con un fischio. Oltretutto non congrui per organizzare la trasferta di quasi mille chilometri per un covidizzato, i cui postumi sono difficoltà respiratorie e prostatite.

Si pensava fosse finita così, invece…

In data 30 maggio 2022 il dr Antonio Giangrande riceve una chiamata sul cellulare personale: erano i carabinieri di Avetrana, che sollecitavano la notifica di un atto.

Da autore di inchieste, ci si aspettava, come tutti i migliori saggisti o giornalisti, un procedimento per diffamazione a mezzo stampa.

Invece in caserma veniva presentato un accompagnamento coattivo teste emesso con ordinanza del giudice Annalisa Palamara del 14 marzo 2022, che avallava la versione dell’avvocato Antonino Napoli di regolare notifica nello stesso giorno dell’udienza citata e mai notificata, nonostante all’avvocato Antonino Napoli ed al Tribunale si fosse prodotta prova contraria per pec della mancata notifica da parte dell’avv. Mirko Giangrande.

In questo caso la nuova notifica è avvenuta il 30 maggio 2022 per l’udienza del 13 giugno 2022.

Nota bene: 14 giorni prima. In questo caso: Termini congrui.

Al giudice Annalisa Palamara bastava far rinnovare, nei termini congrui ed al legittimo destinatario, la citazione all’avvocato Antonino Napoli, ove assumesse l’onere dell’errore precedente, invece l’accompagnamento coattivo sa di punizione oltraggiosa. Essere considerato reticente è offensivo.

Da esercente la professione forense come praticante avvocato con patrocinio il dr Antonio Giangrande sa cosa significa accompagnamento coattivo e quanto sia umiliante e degradante.

Da presidente antimafia, inoltre, ci si aspettava la scorta, non gli accompagnatori coattivi per testimoniare su cose e su persone di cui nulla si è a conoscenza.

Quasi mille chilometri per andare in capo al mondo senza vie di collegamento degne di un paese civile, tanto da alleviare la trasferta: né autobus, né treni, salvo lunghe ed estenuanti attese per cambi e coincidenze.

Laddove il Maresciallo Vincenzo Caliandro, luogotenente della caserma dei carabinieri di Avetrana, mi avesse invitato a firmare una liberatoria, affinchè si esentasse l’arma dei Carabinieri ad accompagnarmi dietro l’impegno del buon esito della trasferta, la sollecitazione sarebbe stata declinata in quanto lungo il tragitto di centinaia di chilometri tutto può succedere per impedire la presenza in udienza ed ove non si fornisse prova certa e legittima di impedimento, potrebbe prospettarsi l’incriminazione di reato di rifiuto di uffici legalmente dovuti previsto nell’art. 366 c.p. . In ogni caso ai sensi dell’art. 255 cpc in caso di ulteriore mancata comparizione il giudice dispone l'accompagnamento coattivo alla stessa udienza o ad altra successiva e lo condanna ad una sanzione pecuniaria non inferiore a 200 euro e non superiore a 1.000 euro. 

Ergo:

Un accompagnamento coattivo infondato oltraggioso ed offensivo.

Un’auto obbligatoria per il teste ed un’auto dei carabinieri al seguito come accompagnamento coattivo, come capopattuglia il brigadiere Biagio Blaiotta, per controllare che l’auto che precede arrivi al Tribunale di Palmi. (In verità è avvenuto il contrario. I carabinieri a precedere tutto spiano e l’auto del testimone costretta a seguire alla stessa velocità!)

Un onere umano ed economico incalcolabile ed uno spreco enorme, per il privato e per il pubblico, oltretutto con il presente caro-carburante.

Si scongiura la denuncia querela presso l’autorità giudiziaria competente e l’esposto presso le autorità amministrative e giudiziarie di controllo, contro i responsabili del falso e dell’abuso, perché il giudice Palamara con buon senso chiede scusa, riconoscendo l’errore del suo ufficio.

Roma: Figlia Giudice monocratico, padre Pubblico Ministero.

Giulia Cavallone, 36 anni, giovane magistrato del Tribunale capitolino e figlia dell'attuale procuratore generale della Corte di appello di Roma, Roberto Cavallone (che da pm aveva seguito l'indagine bis sulla morte di Simonetta Cesaroni a via Poma). […] Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.

La donna, che si era occupata come giudice monocratico del processo a carico di 8 carabinieri accusati, a vario titolo, di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi, si è spenta il 17 aprile del 2020 appunto a soli 36 anni dopo aver lottato a lungo con la malattia che non le aveva dato scampo. (…) Estratto dell’articolo di Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.

Estratto dell’articolo di Erika Chilelli per “il Messaggero” l'1 luglio 2022.

Scambia un melanoma per una verruca durante un controllo di routine. Una dermatologa, Carla V., è stata condannata dal giudice dell'udienza preliminare del tribunale di Perugia a 8 mesi di reclusione con l'accusa di omicidio colposo per aver causato la morte di Giulia Cavallone, 36 anni, giovane magistrato del Tribunale capitolino e figlia dell'attuale procuratore generale della Corte di appello di Roma, Roberto Cavallone (che da pm aveva seguito l'indagine bis sulla morte di Simonetta Cesaroni a via Poma). […] 

È il 4 novembre del 2013, la vittima, insospettita da un neo comparso su un polpaccio, prenota una visita presso lo studio privato della dermatologa, dalla quale si reca ancora una volta il 18 giugno del 2014. Nel corso di entrambe le visite, la dottoressa la tranquillizza, dicendole che si tratta di una verruca seborroica, «nonostante la presenza di elementi di sospetto», si legge ne capo di imputazione. Inoltre, «ometteva di ricorrere a un esame strumentale più approfondito della lesione e, comunque, di avviare con urgenza la paziente alla competenza di un esperto».

Dunque, non viene prelevato nessun campione dalla lesione, al fine di esaminarlo istologicamente. A luglio del 2014, otto mesi dopo la prima visita, però, alla vittima viene fatta una diagnosi del tutto inaspettata presso l'Ospedale San Camillo. I medici asportano d'urgenza la lesione sospetta e concludono che non si tratta di una verruca, come stabilito dalla collega, bensì di un melanoma modulare maligno ulcerato.

Una risposta che, però, è arrivata troppo tardi: il melanoma è al quarto stadio. L'asportazione del tessuto, un intervento successivo e le cure con i farmaci non hanno impedito la sua evoluzione. Le metastasi si diffondono nel corpo della donna arrivando a colpire cervello, polmoni, cuore, fegato e intestino: non c'è più niente da fare. Il giudice muore il 17 aprile del 2020. Un epilogo, che, come emerso nel corso dell'udienza preliminare davanti al giudice di Perugia si poteva evitare con un'asportazione tempestiva della lesione. […]

Giudice morta a 36 anni per un tumore, otto mesi alla dermatologa: «Non ha riconosciuto il melanoma». Carlotta Lombardo su Il Corriere della Sera l'1 Luglio 2022.

La macchia che aveva Giulia Cavallone scambiata per una verruca seborroica. Rongioletti, primario al San Raffaele: «Condanna eccessiva, ma doveva asportare e fare l’istologico». Cos’è un melanoma. 

Otto mesi di reclusione per omicidio colposo alla dermatologa accusata di avere definito come «verruca seborroica» un neo sul polpaccio e che in realtà era un «melanoma nodulare maligno ulcerato» da cui è partita la forma tumorale che ha causato la morte del giudice al tribunale di Roma Giulia Cavallone, 36 anni. È quanto deciso oggi dal gup di Perugia. La donna, che si era occupata come giudice monocratico del processo a carico di 8 carabinieri accusati, a vario titolo, di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi, si è spenta il 17 aprile del 2020 appunto a soli 36 anni dopo aver lottato a lungo con la malattia che non le aveva dato scampo.

La diagnosi sbagliata

La famiglia sta portando avanti questa battaglia già iniziata dalla Cavallone quando era ancora in vita per impedire che quanto accaduto «non abbia a ripetersi in futuro». L’errata valutazione di quel neo — secondo il capo d’imputazione — non è stata risolta dall’asportazione di un’ampia zona di derma nell’area interessata dalla formazione cancerosa, e poi da «un intervento linfoadenectomia inguinale ed iliaco-otturatoria sinistra». Nulla hanno potuto neanche le cure con «farmaci immunomodulanti e a bersaglio molecolare». Perché così è arrivata la fine con «metastasi cerebrali, polmonari, cardiache, epatiche, gastrointestinali e linfonodali». Non aver diagnosticato correttamente il melanoma alla Cavallone è stato per la giudice un errore fatale. «Purtroppo può succedere perché sia il melanoma che la verruca seborroica si presentano come due macchie scure — spiega Franco Rongioletti, 64 anni, primario di dermatologia clinica dell’Ospedale San Raffaele e ordinario di dermatologia all’Università Vita-salute San Raffaele —. Nel 90% dei casi si distinguono soprattutto se il dermatologo usa il dermatoscopio che ingrandisce la lesione e permette di vedere anche in profondità ma rimangono comunque dei casi dove la distinzione non è semplice. La cosa migliore rimane sempre quella di asportare e fare l’esame istologico che non dà margini di errore».

«Una condanna eccessiva»

Sulla decisione del gup umbro hanno espresso «soddisfazione» gli avvocati di parte civile, Stefano Maccioni e Nicola Di Mario. «Attendiamo di leggere le motivazioni per un più attento esame — hanno detto —. È stata riconosciuta una condotta colposa della dermatologa e il nesso di causalità tra questa e il decesso della dottoressa Giulia Cavallone». I difensori dell’imputata, avvocati Alberto Biffani e Myriam Caroleo Grimaldi, precisano invece che «la nostra assistita aveva inviato la paziente a un chirurgo oncologo per l’asportazione della lesione. Attenderemo il deposito delle motivazioni per comprendere il ragionamento seguito dal GUP e proporre appello».

Sulla condanna, si esprime ancora il professor Rongioletti. «Una pena eccessiva perché ha fatto un errore che può succedere. Anche a me è capitato di vedere delle lesioni che mi sembravano delle verruche seborroiche solo che ho fatto l’asportazione e l’esame istologico mi ha fatto capire che si trattava di un melanoma. Ecco, la dermatologa sotto processo avrebbe dovuto procedere anche lei così». Il primario di dermatologia dell’ospedale San Raffaele di Milano tiene però a chiarire che «la paziente è morta di melanoma e non per un neo». «Un chiarimento doveroso perché parliamo di due cose completamente diverse — spiega — . Il neo è una lesione benigna, un tumore benigno dei melanociti mentre il melanoma è una lesione maligna, un tumore dei melanociti maligno che può portare alla morte. Se si toglie un neo non si muore mai. Ancora oggi, quando per prevenzione consiglio l’asportazione di nei dalle caratteristiche brutte mi sento dire dai pazienti che non lo vogliono fare perché “togliendo i nei si può morire”. Niente di più falso. Si può morire invece quando si toglie un melanoma troppo tardi ma se lo si toglie nella fase iniziale e superficiale la guarigione è praticamente del 100%».

Ogni anno 100.000 nuovi casi di melanoma nel mondo

Ogni anno nel mondo sono più di 100.000 i nuovi casi di melanoma. Secondo i dati Airtum , l’Associazione Italiana Registri Tumori, la sua incidenza nel nostro Paese è raddoppiata negli ultimi dieci anni e nel 2020 sono stati diagnosticati circa 14.900 nuovi casi di cui 8.100 nei maschi e 6.700 nelle donne. Prevenire la formazione di un melanoma e intervenire per tempo è possibile, effettuando innanzitutto la cosiddetta «mappatura» dei nei, meglio con un video-dermatoscopio, e regolando l’esposizione della pelle al sole. Spiega Rongioletti: «Noi dermatologi consigliamo la mappatura una volta l’anno però ci possono essere delle eccezioni, come quando vediamo dei pazienti con nevi displastici o atipici caratterizzati da un colore diverso, bordi irregolari o note di asimmetria (caratteristiche che possono simulare un melanoma), oppure pazienti con molti nei. Il numero critico è tra i 50 e i 100 nei, allora è meglio fare la mappatura ogni sei mesi». Relazione tra neo e melanoma? «Nel 70% dei casi il melanoma nasce già melanoma, solo che quando è di un millimetro è difficile riconoscerlo. Il 30% invece nasce da un nevo, o neo, preesistente. In questo caso quindi un neo può essere un precursore del melanoma». Altri consigli? «L’esposizione solare è uno dei fattori di rischio per lo sviluppo del melanoma. Non bisognerebbe esporsi nelle ore in cui ci sono gli ultravioletti più dannosi, dalle 11, 12 del mattino alle 16, 17 del pomeriggio. Bisogna comunque usare sempre una protezione con fattore di protezione 50+ (30 è il minimo). Soprattutto se le persone sono bionde, o rosse, con la pelle e gli occhi chiari, di tipo anglosassone. Un ulteriore fattore di rischio è il melanoma familiare, se qualcuno cioè dei parenti stretti ha avuto dei melanomi, il controllo deve essere almeno annuale. L’aumento del numero dei casi di melanoma è in aumento progressivo e si pensa che sia legato proprio al fatto che le persone tendono a esporsi sempre più al sole rispetto a qualche anno fa».

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.

Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.

Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”.  Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.

Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.

Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.

Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.

Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.

Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.

Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.

E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.

Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.

Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.

Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.

VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.

Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.  

TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati.  L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana». 

Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.

Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato D.rio D’Isa, figlio del magistrato di cassazione C.dio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato D.rio D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione C.dio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pastette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. D.rio D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. D.rio D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!

Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso. 

Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.

LE PARENTELE PERICOLOSE

Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.

Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.

Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.

Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.

Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.

Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.

Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.

Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.

La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.

La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.

La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.

GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE

Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.

Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.

Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.

Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.

La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.

Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.

Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.

Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.

Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.

La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.

Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.

CHE COSA SIGNIFICA

Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

L'INCHIESTA DI M. SCHINELLA SULLA PARENTOPOLI DI MESSINA: LE CATTEDRE DI FAMIGLIA. TUTTI I NOMI DI TUTTE LE FACOLTA'! Scrive il 18 novembre 2008 "Stampalibera.it". Identico cognome. Identico luogo di nascita. Il 50% dei 1500 docenti dell’Ateneo di Messina, uno ogni 20 iscritti, ha almeno un omonimo. Ed è accomunato ai colleghi dallo stesso luogo di nascita, la città di Messina. Il dato statistico, rapportato alla esigua popolazione della città, è l’indizio che la parentopoli nell’Università peloritana non teme confronti neanche con gli altri Atenei siciliani. Un indizio che diventa prova non appena si va oltre le omonimie. Altro che Palermo. Del “dovere morale di sistemare mio figlio”, come dice Battesimo Macrì, ordinario e preside di Medicina Veterinaria impegnato a fine 2006 a far vincere a tutti i costi un posto di associato al figlio Francesco, che benchè già ricercatore è considerato dalla commissione “carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, di scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica”, all’Università di Messina nel reclutamento dei docenti ma anche degli amministrativi, si è fatto un larghissimo uso. L’Ateneo da luogo del sapere si è trasformato in azienda in cui sistemare i familiari. E se molti hanno scalato i gradini accademici con sacrifici e dopo anni di gavetta, i numeri sono impietosi: sono legati da parentela 27 dei 75 docenti di Giurisprudenza. A Palermo sono 21 su 132. A Medicina e Chirurgia i rapporti di parentela diretta uniscono 90 dei 531. A Palermo, per rimanere al confronto, 58 su 440. A Medicina Veterinaria, dei 63 docenti 23 sono legati da un rapporto che non va oltre a quello che intercorre tra nonno e nipote. Gruppi familiari si sono impadroniti di intere facoltà. E quando i rampolli da piazzare sono stati troppi o i posti pochi sono stati dirottati su altre. Chi a Messina ha fatto carriera universitaria ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta: Navarra, Carini, Vermiglio, Saitta, Galletti, Tommasini, Falzea, Dugo, Tigano, Teti, Resta, Guarnieri, Basile, Trimarchi, Germanà. O ha avuto un padre ordinario: decine sono i cattedratici che non sono riusciti ad insediare l’intera famiglia ma prima di abbandonare si sono assicurati un erede. Un risultato frutto di valutazioni comparative che di comparativo hanno avuto poco: tra la fine del 2006 e l’inizio 2007, l’Università ha bandito74 concorsi per ricercatore. Nel 60% di questi la valutazione ha avuto un solo candidato, il vincitore. Gli altri si sono ritirati anzitempo. «Che il fenomeno fosse imponente lo sospettavo. Ma il problema più grosso è che i figli di qualcuno hanno comunque, anche se i concorsi fossero regolari, molte più opportunità dei figli di nessuno», dice Andrea Romano, preside di Scienze politiche, una delle facoltà meno colpita. Adesso l’Università ha pronto un codice etico: lo ha preparato Antonio Ruggeri, docente di Diritto costituzionale e prorettore. Prevede che il figlio del cattedratico, se vuole seguire le orme del padre nella stessa disciplina debba emigrare in altri atenei. Ironia della sorte, la chiamata nello stesso dipartimento, alla cattedra di procedura penale, del figlio trentenne di Ruggeri, Stefano, associato (l’idoneità l’aveva conseguita all’Università privata Kore di Enna), la cui madre, Carmela Russo, è ordinario nella stessa facolta di Istituzione di diritto romano, determinò nel corso del Consiglio di facoltà del 21 dicembre 2007, una mezza sollevazione. Il segno che in una delle Facoltà più prestigiose dell’Ateneo il livello di guardia fosse stato superato, lo sintetizzò Sara Domianello, ordinario di diritto Ecclesiastico: «Da questo momento mi rifiuterò di esprimere un giudizio su conferimenti di incarichi a persone legate a colleghi da vincoli di parentela od affinità fino al quarto grado», affermò nello stupore generale la docente. Centonove, è andato a caccia dei vincoli di parentela. 

GIURISPRUDENZA – La Domianello, allieva del preside, Salvatore Berlingò, ha presieduto la commissione che ha attribuito l’idoneità di associato a Marta Tigano, figlia di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo. Che si ritrova come collaboratrice la figlia di Berlingò, Vittoria, ricercatrice di diritto amministrativo. E nel corpo docente vanta 2 nipoti, Francesco Martines, e Valeria Tigano, entrambi ricercatori. Nello stesso dipartimento gomito a gomito lavorano Giuseppe Giuffrida, ordinario di diritto agrario, e la figlia Marianna, ordinario anch’ella, della stessa disciplina del padre. All’Istituto di diritto privato impera Raffaele Tommasini, ordinario di Lavoro e Civile, un numero di incarichi compendiato in un elenco che riempirebbe un’intera pagina, che si avvale nel proprio dipartimento della figlia Alessandra. E del genero, Antonino Astone, associato. L’altra figlia Maria, è associato, sempre della stessa disciplina, alla facoltà di Economia. L’altro genero, Orazio Pellegrino, è ricercatore a Ingegneria. Nello stesso settore, diritto privato, in cui opera anche Francesca Panuccio, associata figlia di Vincenzo, una vita da ordinario, muove i primi passi da cattedratico, Francesco Rende, figlio di Ciraolo Clorinda, associato nella stessa disciplina, e di Mario Rende, assistente ad Economia. Vincenzo Michele Trimarchi, era stato anche giudice della Corte costituzionale, il figlio Mario, è ordinario di privato, (la moglie di questi, Renata Altavilla, è associato nello stesso dipartimento), il nipote Francesco è ordinario a Medicina. 

MEDICINA E CHIRURGIA – Trecentoventi dei 540 docenti della Facoltà, secondo il Ministero dell’Università, sono di troppo ma l’Ateneo di Messina fa finta di nulla e continua a bandire concorsi (7 nell’ultima tornata) per ricercatori, associati e ordinari. Che vanno quasi sempre ai soliti figli di cattedratico. Come quello del 2005 per ricercatore di Chirurgia, andato a Giuseppinella Melita, figlia di Paolo, ordinario. O a Rocco Caminiti, figlio di un ordinario in pensione. La dinastia dei Galletti regna all’Otorinolaringoiatria: Cosimo Galletti è stato il capostipite, il figlio Franco, ordinario, e Bruno, associato, i suoi eredi. L’ultimo figlio Claudio si è spostato ad Anestesiologia, dove è ricercatore. Massimo, invece, è divenuto associato di diritto privato a Giurisprudenza. Al defunto chirurgo Salvatore Navarra, è succeduto in sala operatoria uno dei 3 figli, Giuseppe, diventato ordinario giovanissimo. Pietro, è ordinario ad Economia (e prorettore). Michele è associato a Scienze. La Dermatologia porta il nome di Guarnieri: Biagio è ordinario, i figli Claudio e Fabrizio, ricercatori. Diana Teti, patologo, e Giuseppe Teti, microbiologo, entrambi ordinari, hanno raccolto lʼeredità del padre, Mario, ordinario di microbiologia in pensione. Diana si è sposata con Matteo Venza, ordinario a Scienze. Un’unione che ha dato a Medicina altri due ricercatori: Mario e Isabella Venza. L’oculista Giuseppe Ferreri, ordinario, lavora fianco a fianco della figlia Felicia, ricercatrice. Cosi come Gaetano Barresi, ordinario, con la figlia, Valeria, ricercatrice. Ci lavoravano fino alla scorsa settimana Giuseppe Romeo, ordinario di Chirurgia pediatrica, e il figlio Carmelo, ordinario delle stessa disciplina. Corrado Messina, ordinario di Neurologia ha una figlia Maria Francesca, ricercatrice in altro settore. Maurizio Monaco, ordinario, figlio dell’ex Prefetto di Messina, ha il figlio Francesco ricercatore. Hanno avuto un padre o la madre, ordinario o associato nella stessa o in disciplina affine, solo per fare degli esempi, Eugenio Cucinotta, Antonio D’Aquino, Marcello Longo, Massimo Marullo, Filippo De Luca, Antonino Germanò, Ignazio Barberi, Giorgio Ascenti, Michele Colonna, Impallomeni Carlo, Giuseppe Santoro, Antonella Terranova. 

MEDICINA VETERINARIA – Giovanni Germanà, ordinario di Fisiologia, ha lasciato il segno. Nello stesso settore è associato il figlio Antonino e la nipote Germana. Un’altra nipote, Maria Beatrice Levanti, è ricercatrice, sempre nello stesso settore. Luigi Chiofalo era ordinario di Zootecnia, Vincenzo, il figlio, attuale preside di Facoltà ne ha preso il posto, Biagina, l’altra figlia è ricercatrice, così come il marito, Luigi Liotta: tutti nello stesso settore. Ma a Veterinaria nello stesso settore, Sanità pubblica, operano Antonio Pugliese, ordinario e la figlia Michela che si è aggiudicata un posto di ricercatrice in un concorso in cui era unica candidata, per le pressioni, secondo la Procura di Messina, del padre su concorrenti più titolati. E Battesimo Macrì, e il figlio ricercatore, Francesco, la cui ascesa è stata interrotta dalla magistratura. Sono figli di cattedratici ormai in pensione una schiera di docenti: Anna Maria Passantino, associato, figlia di Michele; Bianca Orlandella, ricercatrice, figlia di Vittorio; Antonio Panebianco, diventato ordinario senza salire per gli scalini intermedi; Antonio Ajello e Adriana Ferlazzo, (moglie di Alberto Calatroni, ordinario a Medicina) sorelle entrambe ordinario, figlie di Aldo, ordinario, invece, di Pediatria. Pippo Cucinotta, ordinario di Chirurgia, infacoltà non ha parenti, ma da Claudia Interlandi, associato dello stessa disciplina ha avuto 2 figli. 

SCIENZEMATEMATICHE E FISICHE – La fisica e la matematica a Messina parla Carini. Giovanni, il capostipite, era ordinario di Fisica Matematica. E ha sdoppiato i geni scientifici: il figlio Giuseppe, è ordinario di Fisica; la figlia Luisa, associato di Matematica è moglie di Giuseppe Magazzù, ordinario a Medicina. Il primo ha 2 figli, Manuela, già ricercatrice di Matematica all’Università della Calabria. L’altro figlio Giovanni è assegnista di ricerca. I fratelli Dugo, Giacomo e Giovanni, sono entrambi ordinari. Giovanni, nello stesso Dipartimento a Farmacia ha una figlia, Paola, associato, moglie di Luigi Mondello, ordinario nello stesso dipartimento del suocero. Laura, figlia di Giovanni, ha già ottenuto un dottorato di ricerca e si prepara a seguire le orme del padre. Come Giuseppe Gattuso, ricercatore di chimica, figlio di Mario, ordinario della stessa disciplina, di Marisa Ziino, ordinario a Scienze. E Armando Ciancio, figlio di Vincenzo, ordinario di Matematica e delegato del rettore, che si è aggiudicato un recente concorso di ricercatore dello stesso settore del padre, bandito, però, dalla Facoltà di Medicina. Ed è in attesa di chiamata. Nella facoltà di Scienze operano come associati, Enza Marilena Crupi, il padre era ordinario nella stessa facoltà. Cosi come lo era il padre dell’ordinario Viviana Bruni, Augusto, docente per decenni di Microbiologia. E il padre di Ulderico Wanderling, associato, figlio di Franco, ordinario. Di cui è nipote Rita Giordano, associato sempre di Fisica. La figlia di Rita De Pasquale, ordinario a Farmacia e prorettore, Chiara Costa, figlia anche di Giovanni, ordinario di farmacologia, si è aggiudicata un posto da ricercatrice a Medicina. Carlo Caccamo, ordinario, ha potenziato il corredo genetico sposandosi con Maria Caltabiano, ordinario a Lettere: la figlia Daniela è ricercatrice di biologia a Medicina. 

ECONOMIA – Lavorano nella stessa Facoltà, ma in dipartimenti diversi, Antonino Accordino, ordinario, e la figlia Patrizia, ricercatrice. E’ figlia d’arte anche Maria Teresa Calapso, ordinario di Matematica: il padre Pasquale Calapso, era ordinario di matematica seppure a Scienze. Così come Paolo Cubiotti, ordinario di analisi matematica, cui ha trasferito i geni scientifici il padre Gaetano, ex ordinario di Fisica. E Filippo Grasso, associato, figlio dell’ordinario a Fisica, Vincenzo. 

LETTERE – L’attuale preside, Vincenzo Fera, ha una figlia Maria Teresa, che ha intrapreso la carriera medica ed è associato. L’ex preside Gianvito Resta ha passato il testimone alla figlia Caterina, ordinario nella facoltà del padre. L’altra figlia, Maria Letizia è associato a Medicina. L’ordinario Angelo Sindoni, prorettore, ha una figlia, Maria Grazia, uscita di recente vincitrice di un concorso per ricercatrice. Lavora, invece, a Scienze politiche, nello stesso dipartimento del padre, Mario Centorrino, ordinario ed ex prorettore, Marco, benchè il posto di ricercatore lo avesse bandito la facoltà di Lettere.

TRAVERSALITA’ – Francesco Basile, ordinario, è stato preside di Scienze. Non si può dire che i suoi figli nel mondo accademico non abbiano fatto strada: Maurizio, ordinario a Medicina, Massimo, ordinario di diritto a Scienze politiche, Fabio, ordinario a Ingegneria. La figlia di quest’ultimo, Rosa, ha appena vinto un concorso di ricercatrice in diritto costituzionale a Giurisprudenza. Dopo il ritiro degli altri candidati è rimasta da sola. A presiedere la commissione Antonio Saitta, ordinario, ex sindaco di Messina, appartenente ad una delle famiglie che all’Ateneo ha dato molto. E’ figlio di Emilio, che fu ordinario a Medicina. E nipote di Nazzareno, ordinario a Giurisprudenza, il cui figlio Fabio è docente a Catanzaro, e di Gaetano, ordinario a Ingegneria. Sono solo cugini tra di loro ma i Vermiglio si sono fatto valere: uno, Mario Vermiglio, è vincitore di un concorso di ordinario a Medicina, sempre a Medicina c’è Giuseppe, associato di Fisica, la moglie Maria Giulia Tripepi, è associato dello stesso settore. Franco è invece ordinario ad Economia. L’eredità di Diego Cuzzocrea, ordinario di Chirurgia, ed ex rettore dell’Università, l’hanno raccolta, Salvatore, associato a Medicina e Francesca, ricercatrice a Scienze della Formazione. Del precedente rettore Guglielmo Stagno D’alcontres, ordinario di Chimica, sono nipoti Francesco, deputato nazionale, ordinario di Chirurgia plastica a Messina e Alberto, ordinario di diritto commerciale a Palermo. MICHELE SCHINELLA – CENTONOVE 07-11-08

Se il rettore non può firmare. I casi in cui il Magnifico deve ricorrere al vicario. Da Gaetano Silvestri a Franco Tomasello. Il concorso ad un posto di ricercatore in diritto amministrativo si è celebrato nel giugno del 2008. Francesco Martines, figlio di Maria Chiara Aversa, ordinario alla facoltà di Scienze, delegato del rettore per la ricerca, nipote di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo, e genero del rettore Franco Tomasello, di cui ha sposato la figlia, si è aggiudicato il posto. Ed è rimasto in attesa della chiamata della facoltà di Scienze politiche. A firmare il decreto di approvazione degli atti del concorso non è stato il suocero, come succede in tutti gli altri casi: per prassi consolidata, infatti, lo fa il rettore vicario. Non è la prima volta che il rettore vicario debba intervenire per firmare gli atti di un concorso vinto da un parente stretto di Tomasello. Lo fece già per il figlio Dario, vincitore nel 2005, del concorso di associato alla Facoltà di Lettere. E non è il primo rettore vicario dell’Università di Messina. Toccò anche al predecessore. Durante il rettorato di Gaetano Silvestri, la moglie di quest’ultimo, Marcella Fortino, divenne docente ordinario. Insegna a Scienze politiche. (M.S.)

Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...», scrive Nino Luca il 18 novembre 2008 su "Il Corriere della Sera".  «Non ci dormivo la notte. I finanziamenti "ad hoc " sono la prassi accettata da tutti». Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore». Sommersi dalle email. Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all'individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all'estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un'autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola "cultura" dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».

LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».

I DUBBI - «Io invece - prosegue Lucia - mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: "Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana".

IL RISCATTO - Di lì a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall'Università di... con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un'altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.

IL CAMBIAMENTO - Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell'ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l'unico vero giudice dell'operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo. Cordialmente, Lucia».

Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.

Negli altri Paesi non è permesso, non so in Italia...Woodcock mi vuole mandare in prigione, può fare il Pm in un processo contro l’editore del giornale che ha querelato? Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Ottobre 2021. Scusate se ogni tanto parlo di cose nostre. In evidente conflitto di interessi. È solo che proprio in questi giorni mi sono occupato di un processo, anzi due, che il mio editore, Alfredo Romeo, sta affrontando a Napoli. Non da solo, insieme ad altre 50 persone. Diciamo pure una robusta associazione a delinquere. I processi sono due perché sono stati divisi dalla Procura. Uno è solo per Romeo e per l’architetto Russo, l’altro per Romeo, l’architetto e altri 50. Il primo è con giudizio immediato, il secondo con rito tradizionale. Il reato è esattamente lo stesso: tangenti. Le stesse identiche e ipotetiche tangenti. Gli imputati hanno proposto di unificare, perché a loro sembrava logico, ma il tribunale ha detto di no. Da quando ‘sta cosa è iniziata sono stati cambiati già 14 giudici. Gran giostra. Decine e decine di magistrati impegnati. Del resto – dicono- la partita è grossa. La parte principale del reato è il regalo di un myrtillocactus (non sapete cos’è? Ve lo dico io: una pianta, francamente bruttina, tutta attorcigliata, che vale dai 50 ai 100 euro); e poi c’è uno sconto consistente sul biglietto di ingresso a un centro benessere. e altre mandrakate simili. La somma di tutte le tangenti pagate da questa banda di 50 farabutti raggiungerebbe quasi i 1000 euro (800 per la precisione: circa 17 euro per imputato); i vantaggi ottenuti pare però che siano inesistenti. Gli imputati si difendono. Alcuni, compreso Romeo, dicono di non saperne niente. Altri sostengono che non credevano che regalando a una signora un myrtillocactus si commettessero – tutti insieme – i reati di truffa, associazione a delinquere, abuso d’ufficio, traffico di influenze, corruzione, peculato, violenza privata e così via. Riflettevo su tutto questo leggendo sui giornali che pare che siano state pagate tangenti significative anche per l’acquisto da parte del governo italiano di alcuni milioni di mascherine anti covid. Ci sono due tronconi di questa inchiesta. In uno dei due tronconi è coinvolto l’ex commissario anticovid Domenico Arcuri, nominato dall’allora premier Giuseppe Conte. Nell’altro Troncone è coinvolto invece l’ormai celebre Luca Di Donna, avvocato compagno di ufficio di Giuseppe Conte. Nel primo caso sarebbe stata pagata una commissione di circa 72 milioni di euro per queste mascherine. Che però erano mascherine fasulle. Non funzionavano e spargevano il contagio. Il governo le ha comprate lo stesso, e qualcuno ha messo a posto i conti di famiglia, credo, con questi 72 milioni (sai quanti mirtilli cactus si possono comprare con 72 milioni? Circa 900 mila. Il problema è che poi non sai dove metterli 900 mila mirtilli cactus…). Nel secondo caso sembra che agli imprenditori che fornivano le mascherine sia stata chiesta una commissione dell’8 per cento. E più o meno questa tangente avrebbe fruttato sempre una settantina di milioni. L’imprenditore rifiutò e l’affare saltò. Io sono sicuro che Romeo è innocente. Tendo a pensare che anche per i due casi Arcuri sia ingiusto condannare e mettere alla gogna prima che esca fuori qualcosa di concreto. Per ora c’è solo la certezza che le mascherine acquistate erano farlocche, e che un imprenditore umbro denuncia che a lui è stata chiesta una commissione dell’8 per cento. Tutto qui, eh. Non voglio trarre nessuna conclusione, per carità. Solo che mi veniva in mente questo paragone tra 800 euro e 72 milioni di euro. Siccome i giornali spesso hanno fatto molto chiasso sugli 800 euro. Prendete Il Fatto: oh, quanti articoli su Romeo! Su Arcuri- Di Donna-Conte un po’ meno. Vabbé, ognuno poi fa come gli pare. Oltretutto penso che sia molto difficile indagare su Conte se è vero quello che io vado dicendo da molto tempo, e cioè che Conte non esiste. C’è comunque l’assoluzione con la formula: l’imputato non sussiste. P.S. Magari avrò scritto anche perché ho il dente avvelenato. Il deus ex machina del processo per il myrtillocactus è il celebre Pm John Henry Woodcock. Il quale, ho saputo l’altro giorno, mi ha querelato e vuole mandarmi in prigione per diffamazione. Perché? Il solito: l’ho criticato. E Woodcock ha fatto causa al Riformista. Ai magistrati non piace mai essere criticati. Piuttosto, una domanda: ma visto che il Riformista appartiene a Romeo, può Woodcock fare il Pm in un processo nel quale l’imputato è il proprietario del giornale che lui querela? Negli Stati Uniti, in Francia, in Germania, in Spagna, in Bulgaria e in diversi paesi asiatici e africani questo non è permesso. Non so in Italia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La norma nel codice disciplinare dei magistrati. No ai rapporti tra toghe e condannati: il divieto che rinnega la Costituzione. Massimo Donini su Il Riformista il 19 Ottobre 2021. L’articolo 3, comma 1, lettera b) del codice disciplinare dei magistrati (D. Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109) vieta al magistrato di «frequentare persona …. che a questi consta… aver subito condanna per delitti non colposi alla pena della reclusione superiore a tre anni… ovvero l’intrattenere rapporti consapevoli di affari con una di tali persone». L’illecito è equiparato espressamente a quello di frequentare un delinquente abituale o professionale. Ora dobbiamo chiederci quale sia il valore della verità processuale di una sentenza di condanna, che vale nel mondo del diritto, ma non in quello dei rapporti tra le persone o per il giudizio “storico” sui fatti. E qual è comunque il suo valore morale, se conduce a impedire quei rapporti perfino a chi pronunci “di mestiere” condanne a una pena che deve tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua emarginazione sociale? Il magistrato non è il rappresentante di una moralità superiore – è quasi ironico il doverlo ricordare oggi, anche se lo abbiamo sempre pensato – ma deve solo rispettare disciplinatamente e con onore i pubblici uffici (art. 54 Cost.). Ebbene, come può la sua condotta non apparire portatrice di un’ipocrisia legalistica se si deve allontanare dall’umanità delle relazioni e non è neppure ammesso a provare, se rinviato al Csm per una violazione disciplinare, che aveva il diritto fondamentale di frequentare un condannato, perché nessuna ragione antigiuridica di pubblico interesse era sottesa a quelle relazioni? Certo, esistono doveri di stato che toccano a determinate persone in ragione della peculiare funzione, per come devono “apparire” e non solo essere, e che non riguardano altri. Ma qui si tratta di presunzioni assolute di non frequentabilità e di divieti che neppure ammettono prove contrarie e che sono assistite da diritti scriminanti. Non si può sanzionare la sola apparenza antievangelica di frequentare i pubblicani. In uno “storico” incontro svoltosi qualche anno fa a Scandicci, nel 2016, per la Formazione dei magistrati, dedicato alla giustizia riparativa, alcuni organizzatori ebbero la malaugurata idea di invitare a relazionare al pubblico due ex terroristi rossi, condannati all’ergastolo e poi rimessi in libertà dopo aver scontato interamente la pena, e avere anche attivato percorsi di mediazione e condotte riparatorie a favore di vittime vicarie, sostitutive di quelle reali, ma per offese di analogo significato subìte. Il giorno precedente l’incontro si sollevò una reazione da parte di giornalisti, politici, opinion makers della giustizia, alti magistrati, contrariati per questa iniziativa che metteva “in cattedra” autori di gravi o efferati delitti, per lo più imperdonabili. La “testimonianza” degli ex terroristi saltò e le lezioni si limitarono a quelle svolte da professori e magistrati. Ora sono trascorsi alcuni anni, e la Scuola Superiore della magistratura ospita iniziative anche internazionali in tema di giustizia riparativa, anche con limitate esperienze testimoniali di autori di reato. Forse proprio da quella esperienza di esclusione ha preso avvio un percorso selezionato di ascolto. Per i normali relatori, peraltro, che svolgano anche un’ora di didattica alla Scuola, è stato introdotto l’obbligo di presentare una autocertificazione dalla quale risulti che sono incensurati o se abbiano carichi pendenti. Tutto questo non solo è umiliante, ma profondamente contrario allo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., perché fa intendere che la condanna penale o anche l’essere indagato rende “infetta” la persona, inadatta all’insegnamento a questo pubblico. E come potrà quel magistrato, cioè ogni magistrato, rispettare la lettera, e non solo lo spirito dell’art. 27, co. 3, Cost., se è egli stesso diseducato da queste regole o prassi ordinamentali e persino “disciplinari”? Oggi la recente legge delega n. 134/2021, la c.d. riforma Cartabia, prevede l’introduzione di una “riforma organica della giustizia riparativa”, dove in ogni stato e grado del procedimento penale e durante l’esecuzione della pena sia possibile accedere a forme di mediazione volte ad assicurare la ricostituzione del rapporto fra autore e vittima e a promuovere programmi strutturati a quell’obiettivo, «senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità». (art. 1, co. 18, lett. c). Questo importante supporto statale alla mediazione penale, debitamente finanziato, rimarrà peraltro una vicenda parallela a quella processuale, dove altre numerosissime forme di “riparazione dell’offesa” già esistono, ma producono specifici e concreti benefici. Invece, l’esito favorevole dei programmi di giustizia riparativa di tipo mediatorio potrà, eventualmente, essere valutato nel procedimento penale o nell’esecuzione (art. 1, co. 18, lett. e). Un obiettivo molto spirituale, dunque, direi evangelico e senza vera contropartita utilitaristica, domina questi istituti, che si affiancano al diritto penale più duro di contrasto alla criminalità. In questa antinomia di logiche, che andranno a coesistere nel sistema, una novità specificamente rieducativa è data dalla previsione standardizzata per i condannati a pena che si mantenga entro i quattro anni di detenzione in concreto (anche per delitti gravi in astratto), di limitare detta pena a forme extracarcerarie, se utili alla rieducazione, e in particolare alle pene sostitutive di semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, pena pecuniaria (art. 1, co. 17). Dunque, riassumendo: programmi umanistici senza utilitarismo per recuperare il rapporto tra autore e vittima, rieducazione extracarceraria per pene detentive entro i quattro anni, inclusione e non esclusione. Ma al contempo, per i gestori di questi programmi, divieto di frequentare condannati ad almeno tre anni di reclusione, rifiuto o permanente difficoltà di ascoltare a lezione di formazione testimonianze di docenti-testimoni spiccatamente “qualificati dal reato”, divieto per i relatori della loro formazione di presentarsi senza autocertificare un pedigree specchiato di mancanza di precedenti e carichi pendenti. La domanda è ovvia: quale “cultura” ci aspettiamo che abbiano questi magistrati quando devono applicare le norme rieducatrici? Da dove prenderanno i basamenti professionali della loro visione del mondo, del loro giudizio, e della discrezionalità che esso richiede? Siamo tutti abituati ad antinomie giuridiche e conflitti di coscienza anche dentro alle istituzioni. Però viene il momento in cui queste contraddizioni esplodono e devono produrre prima un malessere, poi una resistenza, e infine una decisione di libertà e di coerenza. Le più recenti riforme, per quanto interessate anche alla difesa sociale, stanno introducendo una cura per la persona umana che è ora richiesta in misura maggiore anche al magistrato: è questo il primo dovere disciplinare della sua etica del lavoro. Altrimenti la persona da non frequentare, per un gioco di specchi, potrebbe diventare proprio lui. Massimo Donini 

Art. 29. Modifiche agli articoli 18 e 19 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12

1.  Gli articoli 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, di cui al regio decreto n. 12 del 1941, e successive modificazioni, sono sostituiti dai seguenti:

(Il presente articolo prima modificato dall’ art. 7, D.Lgs. 19.02.1998, n. 51, è stato, poi, così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità di sede per parentela o affinità con professionisti) - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali ordinari, non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore, né, comunque, ad uffici giudiziari avanti i quali i loro parenti od affini nei gradi indicati esercitano abitualmente la professione di avvocato o di procuratore.”.)

"Art.  18 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con esercenti la professione forense).  - I magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali non possono appartenere ad uffici giudiziari nelle sedi nelle quali i loro parenti fino al secondo grado, gli affini in primo grado, il coniuge o il convivente, esercitano la professione di avvocato.

La   ricorrenza   in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei seguenti criteri:

a) rilevanza della professione forense svolta dai soggetti di cui al primo comma avanti all'ufficio di appartenenza del magistrato, tenuto, altresì, conto dello svolgimento continuativo di una porzione minore della professione forense e di eventuali forme di esercizio non individuale dell'attività da parte dei medesimi soggetti;

b)  dimensione del predetto ufficio, con particolare riferimento alla organizzazione tabellare;

c)  materia trattata sia dal magistrato che dal professionista, avendo rilievo la distinzione dei settori del diritto civile, del diritto penale e del diritto del lavoro e della previdenza, ed ancora, all'interno dei predetti e specie del settore del diritto civile, dei settori di ulteriore specializzazione come risulta, per il magistrato, dalla organizzazione tabellare;

d) funzione specialistica dell'ufficio giudiziario.

Ricorre sempre una situazione di incompatibilità con riguardo ai Tribunali ordinari organizzati in un'unica sezione o alle Procure della Repubblica istituite presso Tribunali strutturati con un'unica sezione, salvo che il magistrato operi esclusivamente in sezione distaccata ed il parente o l'affine non svolga presso tale sezione alcuna attività o viceversa.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti e requirenti sono sempre in situazione di incompatibilità di sede ove un parente o affine eserciti la professione forense presso l'Ufficio dagli stessi diretto, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali ordinari organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale.

Il rapporto di parentela o affinità con un praticante avvocato ammesso all'esercizio della professione forense, e' valutato ai fini dell'articolo 2, comma 2, del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511, e successive modificazioni, tenuto conto dei criteri di cui al secondo comma.

Art.  19 (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

(Il presente articolo è stato così sostituto dall’art. 29 D.Lgs. 23.02.2006, n. 109, con decorrenza dal 19.06.2006. Si riporta di seguito il testo previgente: “(Incompatibilità per vincoli di parentela o di affinità fra magistrati della stessa sede) - I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al terzo grado non possono far parte della stessa corte o dello stesso tribunale o dello stesso ufficio giudiziario. Questa disposizione non si applica quando, a giudizio del Ministro di grazia e giustizia, per il numero dei componenti il collegio o l’ufficio giudiziario, sia da escludere qualsiasi intralcio al regolare andamento del servizio. Tuttavia non possono far parte come giudici dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali ordinari i parenti e gli affini sino al quarto grado incluso.”.)

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La   ricorrenza   in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al  terzo  grado,  di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica  sezione  e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti   della   stessa   sede   sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di  incompatibilità, da valutare sulla  base  dei  criteri di cui all'articolo   18,  secondo  comma,  in  quanto  compatibili,  se  il magistrato  dirigente  dell'ufficio  è  in  rapporto  di parentela o affinità entro  il terzo  grado, o  di coniugio o convivenza, con magistrato addetto  al  medesimo  ufficio,  tra  il  presidente  del Tribunale  del  capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il  Procuratore  generale  presso  la Corte medesima ed un magistrato addetto,  rispettivamente,  ad  un  Tribunale  o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I   magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria.  La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.".

Quasi 200 giudici hanno interessi nelle strutture a cui affidano i minori. Luca Rinaldi il 3 Agosto 2015 su L'inchiesta. Sono poco più di un migliaio e si trovano all’interno dei 29 tribunali minorili di tutta Italia così come nelle Corti d’Appello minorili. Sono i giudici onorari minorili, e di fatto hanno il pallino in mano quando si tratta di affidamenti in casa-famiglia oppure a centri per la protezione dei minori. Una figura prevista dall’ordinamento ma che continua a risultare anomala nonostante il peso determinante nelle decisioni nell’ambito dei procedimenti che riguardano i minori e gli affidamenti: nel settore infatti il giudizio di un giudice onorario minorile è pari a quello di un magistrato di carriera. Quando si decide nelle corti infatti giudicano due togati e due onorari, mentre in Corte d’Appello sono tre i togati e due gli onorari. A definire il ruolo del giudice onorario minorile ci pensa una del 1934 e una riforma del 1956, ripresa nelle circolari del Consiglio Superiore della Magistratura: l’aspirante giudice oltre che ad avere la cittadinanza italiana e una condotta incensurabile, «deve, inoltre, essere “cittadino benemerito dell’assistenza sociale” e “cultore di biologia, psichiatria, antropologia criminale, pedagogia e psicologia”». Il tema non fa rumore, ma tra queste circa mille persone che ricoprono incarichi lungo tutto lo stivale, c’è qualcosa che non funziona come dovrebbe. Il centro di alcune distorsioni del sistema rimane proprio all’interno delle circolari del Csm che ogni tre anni mette a bando posti per giudici onorari: all’articolo 7 della circolare si definiscono le incompatibilità, e si scrive espressamente che “Non sussistono per i giudici onorari minorili le incompatibilità derivanti dallo svolgimento di attività private, libere o impiegatizie, sempre che non si ritenga, con motivato apprezzamento da effettuarsi caso per caso, che esse possano incidere sull’indipendenza del magistrato onorario, o ingenerare timori di imparzialità”. Al comma 6 dello stesso articolo addirittura si prevede una causa certa di incompatibilità: all’atto dell’incarico il giudice onorario minorile deve impegnarsi a non assumere, per tutta la durata dell’incarico, cariche rappresentative di strutture comunitarie, e in caso già rivesta tali cariche deve rinunziarvi prima di assumere le funzioni. Insomma, a meno che non ci siano pareri motivati che possano incidere su indipendenza e imparzialità del giudizio, solo un atto motivato, che spesso non arriva, può mettere ostacoli sulla nomina del giudice onorario. Sulle maglie larghe dell’articolo 7 è depositata anche una interrogazione parlamentare dallo scorso 17 febbraio del senatore Luigi Manconi al Ministero della giustizia, che al momento rimane senza risposta, mentre ai primi di maggio l’onorevole Francesca Businarolo del Movimento 5 Stelle, ha depositato una proposta di legge per l’istituzione di una apposita commissione d’inchiesta. Tuttavia tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. Questi sono i dati contenuti in un dossier che l’associazione Finalmente Liberi Onlus presenterà nei prossimi mesi al Consiglio Superiore della Magistratura per mettere mano al problema. In particolare segnalano dall’associazione, che i duecento nomi che fanno parte della lista e ogni giorno decidono su affidamenti a casa famiglia e centri per la protezione dei minori, dipendono dalle strutture stesse. Tra questi 1.082 (tanti risultano all’ultimo censimento) circa 200 sarebbero incompatibili con la carica, dunque il 20% sul totale. A vario titolo c’è chi ha contribuito a fondarle, chi ne è azionista e chi fa parte dei Consigli di Amministrazione. Dunque il tema è centrato: a giudicare dove debbano andare i minori e soprattutto se debbano raggiungere strutture al di fuori della famiglia sono gli stessi che hanno interessi nelle strutture stesse. L’incompatibilità, che dovrebbe essere già valutata come condizione precedente al conflitto di interessi, in questo caso sembra evidente, ma difficilmente vengono effettuati gli approfondimenti “caso per caso” richiesti dalle circolari del Csm. «Stiamo cercando un appoggio istituzionale forte – spiega a Linkiesta l’avvocato Cristina Franceschini di Finalmente Liberi Onlus – per poter sottoporre al Consiglio Superiore della Magistratura la lista dei giudici onorari minorili incompatibili. Presentarlo come semplice associazione rischia di far finire il tutto dentro un cassetto, avendo invece una sponda dalle istituzioni o dalla politica potrebbe far finire il tema in agenda al Csm meglio e più velocemente». Nel dossier, al momento ancora in via di definizione ma prossimo alla chiusura, «troviamo anche giudici che lavorano ai servizi sociali in comune e che hanno interessi in casa famiglia», fanno sapere da Finalmente Liberi Onlsu, «ma anche chi intesta automobili di lusso alle stesse strutture». Così tra una Jaguar e una sentenza capita anche che un centro d’affido ricevesse rette da 400 euro al giorno, per un totale di 150 mila euro l’anno in tre anni per un solo minore. Un business non indifferente se si conta che i minori portati via alle famiglie, stimati dalle ultime indagini del Ministero per il Lavoro e per le Politiche Sociali, sono circa 30mila. Sicuramente non è un ambito in cui ragionare in termini meramente economici e non tutte le case famiglia ragionano in termini di profitto, tuttavia, anche alla luce della recente sentenza su quanto accaduto in oltre trent’anni al Forteto di Firenze, una riflessione in più va fatta. In particolare sulla trasparenza con cui si gestiscono gli istituti e su chi e come decide di dirottare i minori all’interno delle strutture. Un altro caso è quello dell’ex giudice onorario minorile Fabio Tofi, psicologo e direttore della casa famiglia “Il monello Mare” di Santa Marinella, a Roma. Violenze, abusi sessuali, aggressioni fisiche e verbali, percosse, minacce, somministrazioni di cibo scaduto, di sedativi e tranquillanti senza alcuna prescrizione medica: queste sono le accuse che la procura di Roma ha mosso allo stesso Tofi e altri quattro collaboratori che sono poi sfociate nell’arresto dello scorso 13 maggio. Tofi dal 1997 al 2009 (periodo in cui la struttura era già funzionante) è stato giudice onorario presso il Tribunale dei minori di Roma e psicologo presso i Servizi Sociale del Comune di Marinella dal 1993 al 1996. Non sono però solo le nomine e la compatibilità degli incarichi a destare più di un interrogativo nel mondo degli affidamenti, ma sono anche le procedure che a detta di più di un esperto andrebbero riviste. «Sarebbe sufficiente constatare come le perizie psicologiche fatte ai genitori prima di togliere il minore e durante l’allontanamento non vengano replicate anche agli operatori delle strutture. I controlli – dice ancora Franceschini – nei confronti di questi dovrebbero essere stringenti e con cadenza regolare, e invece non lo sono». Franceschini (Finalmente Liberi Onlus): «All’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia». Così come l’ascolto del minore nel corso dei procedimenti spesso avviene in modo poco chiaro: i minori dopo i 12 anni devono essere ascoltati dal giudice, nella maggioranza dei casi però questo ascolto avviene in una stanza in cui oltre al minore e al giudice è presente anche un emissario della comunità. «Evidentemente in queste condizioni non è possibile lasciare libertà d’espressione al minore, e molte volte gli avvocati sono invitati a rimanere fuori dall’aula. Non di rado infatti arrivano sul nostro tavolo verbali confezionati». Per questo motivo in tanti denunciano al raggiungimento del diciottesimo anno di età una volta fuori dalle strutture, come accaduto nella vicenda del Forteto. Tuttavia, spiega Franceschini, all’interno degli stessi tribunali minorili andrebbe istituito un organismo di coordinamento tra il giudice e i servizi sociali, e da parte degli avvocati che seguono le famiglie a cui sono stati sottratti i minori sarebbe consigliabile meno scrivania e più accompagnamento dei genitori nel percorso tra servizi sociali, tribunali e casa famiglia. Dopo l’estate il dossier sui giudici onorari minorili arriverà comunque sul tavolo di più di un politico e del Garante per l’Infanzia, il cui mandato è al momento in scadenza. L’occasione per aprire uno squarcio su un tema taciuto e sconosciuto ai più inizia a vedersi, per non sentire più in un tribunale, «io sono il giudice, io dirigo la comunità, e decido io a chi va il minore».

Csm, arriva la stretta sui procuratori: regole rigide sugli incarichi e le indagini. Liana Milella su La Repubblica il 10 dicembre 2020. Oggi il Consiglio vara il decalogo di comportamento per i vertici delle procure. Ogni incarico dovrà essere documentato e soprattutto motivato. Decalogo (obbligatorio) del Csm per i procuratori della Repubblica. Sono i potenti titolari dell'azione penale a cui adesso l'organo di governo autonomo della magistratura toglie decisamente un po' di discrezionalità dettando rigide regole di comportamento su ogni aspetto dell'organizzazione dell'ufficio e la conduzione delle indagini. Ci ha lavorato tutta la settima commissione del Consiglio (Pepe, Donati, Basile, D'Amato, Suriano, Ciambellini) e tra gli estensori figurano anche Micciché e Dal Moro. Tutte le correnti insomma. E dovrebbe finire anche con un voto all'unanimità, anche se Nino Di Matteo propone delle modifiche che si riserva di illustrare e motivare durante la discussione. Ma in cosa consiste la riforma? Detto in due parole, per capirci, potremmo chiamarla il vademecum di cosa può fare, e cosa non può fare, un procuratore della Repubblica nel suo ufficio. Più brutalmente: il Csm stabilisce come deve comportarsi il capo di una procura, automaticamente delimitando i suoi compiti, e quindi anche i suoi poteri. Sicuramente aggrava la sua rendicontazione burocratica. Ma lo obbliga anche, con i suoi vice, a fare indagini e non solo a guidare i colleghi. Perché, "seppure compatibilmente con le dimensioni dell'ufficio e dei compiti di direzione e coordinamento nonché dei carichi di lavoro", anche i capi e i vice capi non potranno essere sganciati dal lavoro ordinario. Per loro ci sarà "un'obbligatoria riserva di lavoro giudiziario". Una mossa, quella del Csm, che anticipa sui tempi il Guardasigilli Alfonso Bonafede che, sullo stesso tema, ha scritto un capitolo nella sua legge sulla riforma del processo penale che marcia con tempi biblici alla Camera, i cui scopi però sono già sunteggiati, e quindi ritenuti strategici, nel piano dell'Italia per guadagnare e spendere i 196 miliardi di euro del recovery fund. Ma partiamo da un parterre di giudizi. Ecco quello di Giuseppe Marra, il consigliere "davighiano" di Autonomia e indipendenza. "È un testo molto importante perché, in estrema sintesi, detta regole più stringenti per l'attività dirigenziale dei procuratori, che non potranno più fare, senza motivazione adeguate, il bello e il cattivo tempo nei loro uffici, anche se la legge gli riconosce la titolarità dell'azione penale". Un parere che non è affatto diverso la quello di Antonio D'Amato, componente della settimana commissione, toga di Magistratura indipendente, componente della commissione, alle prese con piccoli aggiusti del testo: "Abbiamo voluto ancorare le scelte del procuratore a criteri di trasparenza e conseguente motivazione, allorquando individua i suoi collaboratori fra i sostituti per affidargli degli incarichi. In questo modo si è voluto scongiurare il rischio delle cosiddette medagliette costruite su sostituti “vicini” allo stesso procuratore per favorirli nel percorso professionale, trattandosi di medagliette utili in sede di successiva valutazione per possibili incarichi direttivi o semidirettivi". Due giudizi che confermano quanto il decalogo sarà impegnativo e destinato a cambiare la vita degli uffici. Ma leggiamo cosa c'è scritto nella relazione che accompagna il testo, definito come una "rivisitazione e parziale riformulazione" di quello del novembre 2017 che, a sua volta, integrava i precedenti del 2007 e del 2009, tutti figli della riforma dell'ordinamento giudiziario del governo Berlusconi, allora Guardasigilli il leghista Roberto Castelli, poi diventato legge con il successore, l'ex Dc Clemente Mastella. Il Csm ci rimette mano perché "sono in gioco attribuzioni che concorrono ad assicurare il rispetto delle garanzie costituzionali". Cosa cambia e cosa dovranno fare da domani i procuratori in base al vademecum che si risolve in oltre 60 pagine di nuove regole? La mossa del Csm impone ai capi degli uffici una totale e maggiore trasparenza in tutte le scelte, da quella dei procuratori aggiunti, a quella di indicare uno piuttosto che un altro pubblico ministero per seguire un'indagine, nonché anche per costituire i singoli gruppi di lavoro. Il capo dovrà ricorrere al cosiddetto "interpello", cioè sentire democraticamente tutti prima di costituire un gruppo. E qualora dovesse fare una scelta anomala, una deroga rispetto alle regole in vigore, dovrà motivarlo per iscritto e dettagliatamente al Csm. Dovrà spiegare, insomma, perché ha privilegiato un collega piuttosto che un altro. Una regola che, evidentemente, limita l'autonomia del procuratore in ogni sua mossa. Come non bastasse questo procuratore, nonché i suoi vice, dovranno anche lavorare alle indagini, cioè non basterà fare "il capo", bisognerò anche fare concretamente delle indagini. Tutto questo perché, come scrive la settima commissione, "l'organizzazione degli uffici di Procura deve essere finalizzata a garantire l'esercizio imparziale dell'azione penale, la speditezza del procedimento e del processo, l'effettività? dell'azione penale, l'esplicazione piena dei diritti di difesa dell'indagato e la pari dignità? dei magistrati che cooperano all'esercizio della giurisdizione: beni giuridici costituzionalmente rilevanti la cui effettiva tutela si realizza immancabilmente attraverso un uso imparziale e consapevole della leva organizzativa che deve essere utilizzata secondo criteri trasparenti e verificabili". Per essere espliciti, il Csm vuole vederci chiaro sul perché un procuratore si batte per un procuratore aggiunto - che comunque viene scelto dal Csm - o affida una certa indagine, perché se è vero che "la responsabilità? delle scelte organizzative compete al procuratore", è altrettanto vero che "la verifica della rispondenza delle opzioni in concreto adottate alle ragioni di quella attribuzione e? compito irrinunciabile del governo autonomo". Per tutte queste ragioni il Csm chiede ai procuratori di presentare "documenti chiari, trasparenti, articolati" rispetto alle assemblee interne e soprattutto che le assemblee stesse si svolgano veramente, visto che da alcuni verbali mandati a Roma sembra trapelare invece che prese d'atto e accettazioni sarebbero giunte solo a cose fatte. La regola aurea per scegliere i magistrati sarò l'interpello, una sorta di consultazione interna su "chi vuole fare cosa". Ugualmente il capo dell'ufficio non sarà più il sovrano unico delle assegnazioni dei singoli pm alle Direzioni antimafia, i gruppi che lavorano sulla criminalità organizzata. Anche in questo caso, scrive il Csm, il procuratore che "rinnova o non rinnova" un incarico dovrà "motivarlo espressamente" e "comunicarlo a tutti i magistrati dell'ufficio" che, se bocciati ed esclusi, potranno presentare le loro contro deduzioni. Ovviamente di tutto questo dovrà essere informato il Consiglio giudiziario, la longa manus del Csm in sede locale, che potrà esprimere il proprio parere. Infine il procuratore, nell'organizzare l'ufficio, dovrà guardare anche oltre le sue stanze, verso quelle dei tribunali dove i suoi processi poi andranno in udienza.  

Csm, la pm fa le valigie: "Non può lavorare insieme al marito, è incompatibile". Maria Elena Vincenzi su La Repubblica il 28 agosto 2021. Dopo un anno e mezzo, il Consiglio superiore di magistratura ribalta il suo iniziale verdetto e dichiara l'incompatibilità tra due procuratori aggiunti sposati. Nunzia D'Elia trasloca presso la Corte d'Appello. Poco più di un anno fa, per il Csm, il fatto che marito e moglie lavorassero nello stesso ufficio non rappresentava un profilo di incompatibilità. Ma quello che per l'organo di autogoverno della magistratura valeva nel 2020 oggi non vale più. Così, accade a Roma, nel più grande tribunale d'Europa, che uno dei due coniugi oggi sia costretto a fare le valigie. E in quelle valigie chiudere i successi di questi anni. Dalla sparatoria in cui rimase paralizzato Manuel Bortuzzo all'omicidio Cerciello, passando per quello di Luca Sacchi. Dalle inchieste su Ama, Flambus e sugli alberi che con il maltempo cadono nelle strade di Roma perché non viene fatta la manutenzione alla strana morte di Maddalena Urbani prima e, da ultimo, di Libero De Rienzo. Riavvolgiamo il nastro. A Roma, tra i nove procuratori aggiunti (al momento ce ne sono 8, uno è da nominare) c'è una coppia. Nunzia D'Elia e Stefano Pesci sono sposati da anni. Lo erano anche quando facevano entrambi i sostituti in quella stessa procura e quando lei, qualche anno fa, è rientrata dal Latina per fare l'aggiunto. Stando alle circolari vigenti sul regime delle incompatibilità, la nomina del marito in quello stesso ruolo poteva sollevare qualche dubbio, ma palazzo dei Marescialli ha deciso comunque di conferire al dottor Pesci lo stesso incarico semi-direttivo. Era il 13 febbraio del 2020. Al Csm erano a conoscenza della situazione che, per altro, era stata sollevata, ma hanno deciso di procedere chiarendo che un'eventuale incompatibilità andava valutata in concreto. Così, il 2 marzo, Stefano Pesci ha preso possesso. Un anno dopo, il Consiglio, una volta ricevuta dichiarazione di eventuale incompatibilità inviata dai diretti interessati (seppur già esistente e già valutata in sede di nomina), ha deciso di riprendere in mano la questione. I due magistrati sono stati sentiti personalmente. Il capo della procura Michele Prestipino, invece, non è stato convocato. "Preciso - ha scritto in una nota il numero uno dei pm romani - che il procuratore aggiunto dottoressa D'Elia coordina i gruppi "Reati causati da responsabilità professionale", "Reati in materia di infortuni-alimenti-incolumità pubblica", e "Reati in materia di ecologia e tutela dell'ambiente" dal 20/7/2016 e il procuratore aggiunto dottor Stefano Pesci coordina la struttura Sdas1 dal 6/3/2020 e il gruppo "Reati tributari" dal 26/5/2020 e durante tale periodo non si sono manifestate situazioni di possibile incompatibilità. Anche in precedenza la dottoressa D'Elia e il dottor Pesci hanno prestato servizio entrambi presso questo Ufficio, l'una quale procuratore aggiunto e l'altro quale sostituto, non facendo registrare alcuna situazione di incompatibilità potenziale né tantomeno concreta". D'accordo col procuratore anche il Consiglio Giudiziario presso la Corte d'Appello di Roma, il "Csm locale" che ha escluso ripercussioni sulla vita dell'ufficio. Ma da piazza Indipendenza non hanno sentito ragioni. Sarà per il riassetto degli equilibri tra le correnti, sarà per un certo rigorismo dopo la bufera del caso Palamara, ma dopo appena un anno dalla decisione di segno opposto, la Prima Commissione ha ribaltato il tavolo e deciso che Pesci e D'Elia siano incompatibili. E che uno dei due deve lasciare l'incarico. Per questo, dopo sei anni di inchieste importanti, Nunzia D'Eliha lasciato in questi giorni la procura di Roma per andare in procura generale presso la Corte d'Appello. Qualcuno ha detto che si tratta di una scelta d'amore. Di scelta sicuramente non si può parlare.

La circolare del Csm nasce dalle modifiche volute dall'ex ministro Roberto Castelli. Altre ai vincoli di parentela, matrimonio e affini riconosce le convivenze. Coppie di fatto "incompatibili" tra le toghe. Il divieto anche tra investigatori e pm. Entro il 31 dicembre i magistrati dovranno autodenunciarsi al Consiglio superiore. La verde Balducci: "E' un provvedimento contrario alla privacy". Claudia Fusani su La Repubblica il 25 maggio 2007. Invece di arrivare diritti, arrivano doveri. E limitazioni. Succede alle coppie di fatto, se hanno la toga, di magistrato o di avvocato, a cui il Consiglio superiore della magistratura ha fatto pervenire l'ultima novità: la convivenza fa scattare la incompatibilità. O meglio, "la stabile coabitazione determinata da rapporti sentimentali", fa s� che un magistrato e un avvocato, o due magistrati, o uno dei due se divide lo stesso tetto con ufficiali o agenti di polizia giudiziaria non possono lavorare nello stesso ufficio. Anche Palazzo dei Marescialli, quindi, deve confrontarsi con la realtà delle convivenze. Che sono talmente "riconosciute" da diventare per legge causa di incompatibilità. Mercoledì la Prima Commissione dell'organo di autogoverno della magistratura ha deliberato sul più generale capitolo delle incompatibilità. Un passaggio necessario per adeguare il regolamento alla nuova legge su illeciti disciplinari e trasferimenti voluta dall'ex ministro della Giustizia Roberto Castelli. La circolare contiene alcune importanti novità. La prima è che se finora, per legge, l'incompatibilità professionale scattava solo per parenti, coniugi e affini (a parte alcune circolari che prevedevano anche qualche caso di convivenza), adesso, per legge, l'impossibilità di lavorare nello stesso ufficio scatta anche per i conviventi. Si legge al punto 5 della circolare: "La convivenza è rilevante laddove si sostanzi in un rapporto di stabile coabitazione". In una prima versione era anche scritto "assimilabile a quello matrimoniale". Nelle versione definitiva è passata una definizione più soft: la coabitazione deve cioè "essere determinata da rapporti sentimentali". Critica il deputato dei verdi Paola Balducci, avvocato penalista e membro della Commissione Giustizia: "Da una parte - osserva ironica - mi compiaccio nel constatare che la convivenza è un dato di fatto cos� rilevante da provocare una incompatibilità per legge. Dall'altra - continua - lo Stato, e neppure il Csm - si deve preoccupare di definire il tipo di convivenza tra due persone. E' inopportuno e va contro i principi della privacy. Cosa succede adesso? Entro il 31 dicembre 2007 magistrati e avvocati che vivono sotto lo stesso tetto senza essere sposati devono specificare la tipologia della loro coabitazione?". Infine, aggiunge Balducci, "per quello che riguarda la terzietà di giudizio, a me avvocato non interessa sapere il tipo di rapporto tra i due conviventi. Basta il fatto che convivano, anche solo per dividere le spese, per farmi dubitare sulla imparzialità di giudizio". La seconda novità della circolare riguarda poliziotti e agenti di polizia giudiziaria. Al punto 42, infatti, viene introdotto un terzo tipo di incompatibilità. Non solo quando il rapporto di parentela, affinità, coniugio e convivenza è tra magistrati, o tra magistrati e avvocati, ma anche quando riguarda "magistrati addetti agli uffici di procura e ufficiali o agenti di polizia giudiziaria". In sintesi tra inquirente e investigatore. Entro il 31 dicembre di quest'anno ci deve essere l'autodenuncia, su apposito modulo informatico. Il regime delle incompatibilità per i magistrati è regolato da due articoli (18 e 19) dell'Ordinamento giudiziario che è stato modificato dall'ex Guardasigilli. Il codice di procedura penale, invece, regola i casi di astensione e ricusazione del giudice. L'incompatibilità è totale quando la sede giudiziaria è piccola. In quelle più grandi scatta ogni volta che le funzioni - giudice, pm, avvocato o investigatore - rischiano di incrociarsi.

Convocati a Roma i presidenti del tribunale e dell’Ordine degli avvocati. Famiglie in toga: Indaga Csm Stretta sulle incompatibilità. Segnalati 23 casi di parentele nello stesso distretto tra giudici, pm e legali. Tratto da “la Repubblica” 3.04.2008 di a.z.. L’INCOMPATIBILITA viene risolta a colpi di astensione. Ma quando cominciano ad essere troppi i giudici che chiedono di spogliarsi di processi in cui sono coinvolti, come altra parte, mariti, mogli o figli, allora l’impasse comincia a diventare difficile da superare. Sarà anche per questo che il Consiglio superiore della magistratura ha rimesso all’ordine del giorno l’annosa questione della “parentopoli” al Palazzo di giustizia di Palermo che, a quanto sembra, in Italia è uno di quelli che conta il più alto numero di coppie incompatibili tra giudici, magistrati e avvocati. Sono ben 23 i magistrati in servizio a Palermo sui quali la prima commissione dell’organo di autogoverno della magistratura ha deciso di svolgere accertamenti, mettendo in calendario le prime audizioni: quelle del presidente dell’Ordine degli avvocati di Palermo Enrico Sanseverino, convocato per il 14 aprile. E del presidente del tribunale Giovanni Puglisi, peraltro toccato personalmente dalla questione visto che le sue figlie, una avvocato e una al tribunale dei minorenni, lavorano nello stesso distretto così come una nipote, anche lei giudice a Palermo. Il caso della famiglia Puglisi era già stato esaminato dal Csm e archiviato in base alle vecchie norme dell’ordinamento giudiziario ma adesso gli articoli 18 e 19 stabiliscono regole più severe sull’incompatibilità di funzioni nello stesso distretto giudiziario. Il presidente del tribunale, per la verità, ha sempre minimizzato la questione ritenendo i casi superabili ma adesso il Consiglio superiore della magistratura intende valutare se sia il caso di chiedere il cambio di mansioni per qualcuno dei magistrati coinvolti. “Situazioni critiche sotto il profilo dell’incompatibilità parentale”, le definisce il Csm. A Palermo i casi a rischio di cambio di funzioni sono quelli di tre coppie di coniugi in cui uno lavora nella magistratura inquirente, l’altro nella giudicante: è così per il pm della Dda Lia Sava, moglie del giudice Antonio Tricoli, è così per il sostituto procuratore Sergio De Montis sposato con il giudice delle indagini preliminari Rachele Monfredi, ed è così per il pm Domenico Gozzo, anche lui sposato con un gip, Antonella Consiglio. Tra i nomi finiti sotto la lente di ingrandimento del Csm anche quelli del presidente di sezione del tribunale Antonio Prestipino, sposato con il sostituto procuratore generale Rosalia Cammà, e delle sorelle Antonina e Vincenza Sabatino, la prima presidente di sezione ad Agrigento, la seconda sostituto in Procura generale. Nell’elenco all’attenzione del Csm anche i nomi di altri magistrati sposati o in grado di stretta parentela con avvocati del foro di Palermo: il pm Emanuele Ravaglioli, il presidente Salvatore Virga, i giudici Maisano, Scaduti, Soffientini, Laudani e Piraino. a.z.

L’assurdo caso caso del Gup “contestato” per “colpa” del padre avvocato che difese il Cav. Il magistrato sarà chiamato a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 maggio 2021. La Camera penale di Napoli è intervenuta sulla polemica che ha coinvolto in questi giorni la giudice Ambra Cerabona.  Il magistrato sarà chiamata a valutare in sede di udienza preliminare la posizione dei fratelli del senatore di Forza Italia Luigi Cesaro, che potrebbero finire a processo per concorso esterno in associazione mafiosa. Repubblica fa notare che la Cerabona è la «figlia di uno storico legale di Berlusconi a Napoli: Michele Cerabona, difensore dell’ex premier in tanti procedimenti e oggi membro laico al Consiglio Superiore della magistratura, nominato ovviamente in quota Forza Italia. Un profilo di inopportunità su cui, si apprende solo ieri addirittura dall’udienza, era arrivato anche un esposto negli uffici giudiziari […] Come se la giustizia italiana non incrociasse, in questa triste stagione, sufficienti profili di disagio e di auspicabile autocritica, ecco un nuovo potenziale caso di imbarazzo».  Il ragionamento sarebbe grossomodo questo: siccome il padre del giudice ha difeso Silvio Berlusconi e poiché è stato eletto al C.S.M. su proposta di Forza Italia, la figlia non sarebbe compatibile a giudicare il processo citato poiché in esso sono imputati i fratelli di un senatore di FI. La giudice avrebbe chiesto di potersi astenere ma la richiesta è stata respinta. «A noi un sospetto così articolato – scrive la giunta dei penalisti napoletani, presieduta dall’avvocato Marco Campora – appare incomprensibile stante l’assoluta lontananza ed evanescenza del collegamento, laddove mai è stato neppure ipotizzato che la Dott.ssa Cerabona abbia una sia pur minima conoscenza e/o rapporto con i fratelli Cesaro. Ed allora, i dubbi insinuanti avanzati nell’occasione sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia ed indipendenza di giudizio; di indurlo a dovere fornire la prova positiva (ed intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati.  Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Tutti i giudici sono, sino a prova contraria, autonomi ed indipendenti. Questa è la regola su cui si fonda il nostro ordinamento, eliminata la quale l’intero sistema è inesorabilmente destinato a crollare». E poi la critica all’esposto anonimo: «Sinora, le parti di quel processo – le uniche a ciò legittimate – non hanno inteso avanzare alcuna istanza di ricusazione, evidentemente ritenendo la Dott.ssa Cerabona del tutto idonea a svolgere la funzione di giudicante nel processo.   L’irruzione nelle aule di giustizia di esposti anonimi è invece operazione degradante, vile e molto pericolosa, atteso che l’esposto anonimo è per sua natura un mezzo utilizzato unicamente per depistare, sviare, colpire chi si ritiene nemico. Su questo occorre essere chiari: l’esposto anonimo non ha alcun diritto di cittadinanza in un ordinamento democratico (dunque a tutti i livelli: politico, giudiziario, poliziesco …) e va sempre trattato per quello che è: una gravissima calunnia anonima che ha sempre la finalità di colpire qualcuno, di mestare nel torbido, di avvelenare la democrazia e le istituzioni». E il finale contro il complottismo: «L’unica colpa – l’unico elemento di sospetto avanzato – della dott.ssa Cerabona è quella di essere figlia di un noto e stimatissimo avvocato. Ora, si può anche stabilire per legge che un giudice, nel luogo in cui esercita la funzione, non debba avere rapporti familiari, affettivi, sentimentali e amicali con soggetti che operano nel medesimo settore (fuor di metafora: con altri giudici, pubblici ministeri, avvocati e cronisti giudiziari). È operazione difficilmente praticabile, ed infatti così – per fortuna – non è. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra di loro, con pubblici ministeri e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pubblici ministeri o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pubblici ministeri ed avvocati. Giudici amanti di giudici, pubblici ministeri ed avvocati.  È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. Ed allora, smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese».

Alone di ingiustificato sospetto. Processo ai fratelli Cesaro, “Basta complottismo”. I penalisti si schierano con Cerabona. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Maggio 2021. «Smettiamola con questo complottismo a senso unico che dimostra la scarsa cultura democratica di alcuni settori del nostro Paese», tuona l’avvocato Marco Campora, presidente della Camera penale di Napoli firmando un documento con cui i penalisti prendono posizione di fronte al caso sollevato dall’edizione partenopea del quotidiano Repubblica: a giudicare il processo in cui sono coinvolti, tra gli altri, i fratelli Cesaro (Luigi Cesaro è senatore di Forza Italia) sarà il giudice Ambra Cerabona (figlia dell’avvocato Michele, attuale componente del Consiglio superiore della magistratura e in passato difensore del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi). «Non si tratta di esprimere solidarietà al giudice Cerabona, che non ne ha bisogno, essendosi attenuta al completo rispetto delle norme codicististiche e avendo dimostrato anche grande saggezza e prudenza – spiega Campora facendo riferimento alla notizia che la giudice avrebbe presentato una richiesta di astensione non accolta dalla presidente del Tribunale – Il tema che riteniamo rilevante è un altro e attiene proprio all’alone di ingiustificato sospetto che si è creato nei confronti del gup Cerabona per l’unica ragione di essere figlia di Michele Cerabona che in passato ha difeso anche l’ex presidente del Consiglio e di Forza Italia Silvio Berlusconi». Un esposto anonimo avrebbe innescato il sospetto che, in quanto figlia dell’ex difensore di Berlusconi, il giudice Cerabona non sarebbe compatibile a giudicare il processo Cesaro. «A noi – aggiunge il presidente dei penalisti napoletani – un sospetto così articolato appare incomprensibile». «I dubbi insinuati – osserva Campora – sembrano risolversi nel tentativo di condizionare l’attività del giudicante, di comprimere la sua autonomia e indipendenza di giudizio, di indurlo a dovere fornire la prova positiva (e intrinsecamente diabolica) di non essere sospetto. Prova che può essere fornita in un solo modo: condannando o rinviando a giudizio gli imputati». «Non si può continuare a ragionare così, minando dalle fondamenta i capisaldi che regolano l’esercizio della funzione giurisdizionale», aggiunge Campora. E poi c’è un’altra considerazione dei penalisti napoletani: «Appare opportuno evidenziare che i veri o presunti rapporti personali divengono, per taluni, forieri di sospetto in ambito giudiziario solo quando è coinvolto un avvocato. In tutti i Tribunali italiani vi sono giudici sposati tra loro, con pm e con avvocati. Giudici figli di giudici, di pm o di avvocati. Giudici fratelli di giudici, pm e avvocati. Giudici amanti di giudici, pm e avvocati. È fisiologico, normale e non foriero di alcun sospetto. E allora – conclude il leader dei penalisti partenopei – smettiamola con questo complottismo».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

"ECCO QUANDO SI PUO' VIOLARE L' ALCOVA". Franco Coppola il 25 maggio 1996 su La Repubblica. Un pubblico ministero e una giudice delle indagini preliminari (o una pm e un gip) che non sono marito e moglie ma che convivono possono esercitare nello stesso tribunale? Giriamo la domanda a due magistrati, Edmondo Bruti Liberati, sostituto procuratore generale a Milano, segretario generale dell'Associazione nazionale magistrati, ex membro del Consiglio superiore della magistratura, esponente storico di "Magistratura democratica", e Stefano Erbani, dell'ufficio studi dello stesso Csm. Spiega Erbani: "La legge del ' 41 sull' ordinamento giudiziario prevedeva i casi di parentela sia tra magistrati e avvocati della stessa città, sia tra magistrati dello stesso collegio giudicante. Nel primo caso, c'era il trasferimento d' ufficio del magistrato, nel secondo era il dirigente dell'ufficio ad evitare di far operare i due interessati nello stesso settore. Naturalmente, se uno lavorava al penale e l'altro al civile, il problema non esisteva. Se poi, uno dei due, ad esempio, era un giudice istruttore che si era occupato di un certo caso e l'altro faceva parte del tribunale a cui il caso veniva successivamente affidato era prevista l'astensione del secondo e, in caso di mancata astensione, la ricusazione da parte dei difensori". Insomma, più o meno quello che succede ora, dopo le due sentenze della corte costituzionale che vietano al giudice del tribunale della libertà e al gip di far poi parte di collegi giudicanti che debbano esaminare la posizione dello stesso imputato. "Esattamente". E per quanto riguarda il caso di marito e moglie? "Fino al ' 67 non esistevano donne magistrato, quindi il caso era limitato al marito magistrato e alla moglie avvocato. Anche in quel caso scattava l'incompatibilità e quindi il trasferimento del marito. Dopo è potuto accadere che ci fossero un marito e una moglie magistrati. Un caso non previsto dalla normativa, ma che per analogia porterebbe alle stesse conseguenze che ho già illustrato: trasferimento d' ufficio o astensione o ricusazione". E se il pm e la gip (o la pm e il gip) fossero non marito e moglie ma conviventi? Risponde Bruti Liberati: "Non credo sia mai accaduto: comunque, bisogna distinguere: se si tratta di una convivenza notoria, si crea un problema di opportunità e, se non è uno degli interessati a chiedere il trasferimento, provvederà il Csm. Se invece - ad esempio, in seguito all' esposto di un avvocato - fosse una cosa tutta da accertare, il Csm dovrebbe intromettersi nella vita privata di due magistrati e credo che questo non sia accettabile". Aggiunge Erbani: "Il Csm è un organo amministrativo che ha anche poteri di indagine. Certo, sarebbe una cosa molto delicata e tutta da valutare". "A Milano", conclude Bruti Liberati, "ricordo che si ricorreva ad un trucco tra gli avvocati che avevano parenti tra i giudici. Si iscrivevano al foro di Monza, ma di fatto esercitavano a Milano. Così, formalmente erano a posto".

Lo strano intreccio di magistrati e la professione dei figli avvocati, scrive il 14 Maggio 2014 "Libero Quotidiano”. Nei tribunali non si applica la legge dei codici (salvo eccezioni), mentre si applica la tecnica delle “raccomandazioni” e non si può escludere “a pagamento”. Oggi vige anche una giustizia “casareccia”, ovvero trovare l’avvocato figlio del magistrato. E’ il caso dell’imprenditore/avvocato D.rio D’Isa, figlio del magistrato di cassazione C.dio D’Isa, l’avvocato cura gli interessi Gabriele Terenzio e figlio Luigi, accusati di associazione per delinquere di stampo camorristico, gli inquisiti hanno un ricorso per cassazione e lo stesso avvocato D.rio D’Isa fa incontrare gli inquisiti con suo padre, il giudice di Cassazione C.dio D’Isa, evidentemente per trovare una soluzione ottimale agli inquisiti. Inutile stupirsi la giustizia viene amministrata con questi “sistemi.”. Mi sono trovato nelle medesima situazione: un semplicissimo procedimento civile durato 17 anni solo il primo grado, dopo il decimo anno uno dei magistrati che per oltre cinque anni ha tenuto udienze “farsa”, con la sua signora parla con un mio famigliare (ignari del procedimento in atto) e raccontano che il tal avvocato (patrocinante il convenuto nel procedimento lungo 17 anni) era un loro amico e procurava lavoro legale al loro figliolo – avvocato in Roma-, da una piccola indagine accertavo che molti legali del foro iniziale di appartenenza del magistrato, per i ricorsi da presentare in Cassazione, Consiglio di Stato, Corte dei Conti di 2° grado, Tar Lazio, ecc. si avvalevano dell’avvocato figlio del magistrato, di conseguenza gli stessi avvocati avevano una corsia preferenziale presso l’ufficio del magistrato per allungare i processi e le parcelle, e comunque per fare pastette giudiziarie a danno di una delle parti in causa, ipoteticamente lautamente compensate, non si può escludere che il magistrato influenzasse altri colleghi per favorire clienti di avvocati “AMICI”. Inoltre, lo stesso Avv. D.rio D’Isa è un imprenditore – come riferisce il Vostro quotidiano Libero- e se così fosse sarebbe incompatibile l’esercizio della professione legale. Ed il consiglio forense dovrebbe prendere provvedimenti disciplinari nei confronti dell’Avv. D.rio D’Isa. Spesso le sentenze della Cassazione fanno giurisprudenza!!!!!!

Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso. 

Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.

LE PARENTELE PERICOLOSE

Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.

Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.

Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.

Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.

Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.

Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.

Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.

Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.

La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.

La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.

La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.

GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE

Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.

Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.

Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.

Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.

La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.

Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.

Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.

Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.

Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.

La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.

Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.

CHE COSA SIGNIFICA

Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

Padre giudice e figlia avvocato: c'è incompatibilità? Annamaria Villafrate il 25 nov 2020 su studiocataldi.it. Per il Tar Lazio, un magistrato può ricoprire il ruolo direttivo presso un Tar monosezione se la figlia avvocato rinuncia a praticare il diritto amministrativo. Il magistrato può assumere l'incarico direttivo presso il TAR mono-sezione se la figlia che esercita la professione forense si impegna ad astenersi dal compiere attività giudiziali e stragiudiziali in diritto amministrativo. L'art. 18 dell'ordinamento giudiziario dispone che l'incompatibilità deve essere valutata caso per caso e il CPGA può farlo grazie al proprio potere discrezionale. Questo in sostanza quanto emerge dalla sentenza n. 11551/2020 del Tar Lazio (sotto allegata) che si è trovato a dover decidere la seguente e ingarbugliata vicenda. Un magistrato amministrativo ricorre al Tar, impugnando alcuni atti relativi alla sua nomina, di cui chiede l'annullamento per eccesso di potere e violazione di legge. Il magistrato espone di aver presentato domanda per il conferimento di un incarico direttivo. La commissione incaricata dello scrutinio ha respinto la proposta di una relatrice "di rilevare la ricorrenza della causa di incompatibilità prevista dall'art. 18 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), applicabile ai magistrati amministrativi ai sensi dell'art. 28 della legge 27 aprile 1982, n. 186, posto che la figlia del ricorrente esercita la professione forense presso la sede marchigiana." Rigettata detta questione la Commissione propone la nomina del Magistrato al Plenum, ma la dottoressa incaricata di redigere la relazione di accompagnamento alla proposta solleva nuovamente il problema dell'incompatibilità a causa della professione svolta dalla figlia, la quale ha dichiarato di impegnarsi per il futuro a non svolgere nessun tipo di attività presso il TAR, fatta eccezione per le attuali pendenze, in numero di cinque o sei ricorsi con un mandato congiunto con altro difensore e di tre come unico avvocato". La Commissione però nomina il Magistrato, accogliendone la richiesta in merito alla presidenza della III sezione esterna del Tar Lazio.

Le censure del magistrato amministrativo. Il Magistrato però censura gli atti di nomina per le seguenti ragioni. Prima di tutto ricorda che la figlia ha dichiarato che, contrariamente a quanto rilevato in Commissione, avrebbe dismesso il mandato in relazione alle 9 cause amministrative pendenti in caso di nomina del padre. In secondo luogo denuncia "eccesso di potere: disparità di trattamento; difetto di istruttoria; motivazione carente o comunque insufficiente; manifesta ingiustizia", perché, in occasione di precedenti delibere applicative dell'art. 18 ord. Giud., il CPGA ha escluso la ricorrenza della incompatibilità, proprio in ragione dell'impegno del parente del magistrato ad astenersi da ogni attività di fronte al giudice amministrativo di primo grado." Denuncia poi il mancato espletamento da parte del Plenum di una completa istruttoria sulle circostanze rilevanti ai fini della incompatibilità e il fatto che lo stesso non è tenuto ad applicare in modo automatico le cause di incompatibilità previste dall'ordinamento giudiziario, dovendo tenere conto della specificità della magistratura amministrativa. Rileva inoltre come nel caso di specie la rinuncia a svolgere la professione forense di fronte all'ufficio giudiziario a cui è preposto il magistrato esclude l'incompatibilità, stante l'insussistenza di un conflitto di interessi. L'Avvocatura di Stato per i convenuti evidenzia come la circolare del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (CPGA) del 12 ottobre 2006 metta in evidenza come tra i fattori preponderanti per valutare l'incompatibilità del magistrato c'è quello della dimensione del Foro.

Il CPGA tenga conto della rinuncia della figlia. Dopo aver analizzato e deciso le questioni preliminari il Tar, passando al merito della questione, chiarisce che: "in sede di apprezzamento di profili di incompatibilità parentale del magistrato, il CPGA applica direttamente gli artt. 18 e 19 dell'ordinamento giudiziario, perché ciò è previsto dall'art. 28 della legge n. 186 del 1982" naturalmente purché compatibili con la specificità della giurisdizione amministrativa, ricordando altresì come "la incompatibilità trova la sua essenza nel pregiudizio che, in difetto di essa, potrebbe essere arrecato al requisito costituzionale dell'imparzialità della magistratura." Occorre però, come sottolineato dalla circolare del CSM n. 6750 del 19 luglio 1985, un "concreto accertamento" della incompatibilità, principio che ha segnato la strada per la formulazione dell'attuale art. 18 dell'ordinamento giudiziario da cui emerge l'opzione del legislatore per "un meccanismo di bilanciamento degli interessi confliggenti, tale da costituire il vero e proprio principio informatore della materia." Analizzando l'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, attorno al quale ruota la soluzione della vicenda, il Tar precisa che: "E' perciò l'art. 18, comma 4, ord. giud. a disciplinare il profilo di incompatibilità che rileva nella presente causa." Da questa norma si può trarre infatti il principio secondo cui salvo fattispecie eccezionali e tassativamente indicate, il rilievo di una causa di incompatibilità esige "un riscontro caso per caso delle singole situazioni implicanti la impossibilità di svolgimento di attività incompatibili in base alla legge" (Cons. Stato, sez. IV , n. 1818 del 2008). Ora, il ricorrente ritiene che la sua nomina in un Tar mono-sezionale sia ostacolata proprio dalla formulazione dell'art. 18 dell'ordinamento giudiziario, poiché solo in presenza di più sezioni l'incompatibilità da rigida può diventare più flessibile. Vero però che nelle intenzioni del legislatore la pluralità delle sezioni non è dirimente, se non accompagnata da una pluralità di materie, solo a queste condizioni l'incompatibilità assoluta viene meno." Dell'art. 18 ord. giud., in altri termini, non è direttamente applicabile la porzione prescrittiva, la cui lettera si riferisce inequivocabilmente alla sola giurisdizione ordinaria, attinente alla pluralità di sezioni civili e penali." La prassi della CPGA tuttavia tende sempre e comunque a valutare caso per caso e concretamente la sussistenza dell'incompatibilità, anche se il magistrato viene assegnato a un ufficio mono-sezionale. Occorre però evidenziare che nel caso di specie, come in altri precedenti, l'impegno assunto dal professionista di astenersi da ogni attività in grado di interferire con la giurisdizione amministrativa esclude la sussistenza di una causa di incompatibilità ambientale, almeno quando l' avvocato non eserciti in uno studio associato e quando non siano percepibili circostanze eccezionali di segno contrario." Alla luce delle suddette considerazioni e di altre successive il Tar dispone quindi che il CPGA avvii un nuovo procedimento, e che nel pronunciarsi sui profili di incompatibilità ambientale segnalati si attenga al seguente principio di diritto: "l'impegno del parente del magistrato (quand'anche preposto, o da preporre, alla presidenza di un TAR mono-sezionale) ad astenersi da ogni attività anche stragiudiziale, nel campo del diritto amministrativo, in linea di massima e ove provenga da un professionista che esercita l' attività in forma individuale, rimuove lo stato di incompatibilità ambientale, salvo casi eccezionali."

·        Il Diritto di Difesa vale meno…

Antonio Giangrande: Il nostro cavallo di battaglia è l’istituzione del difensore civico giudiziario che possa operare con i poteri giudiziari, contro gli abusi e le omissioni dei magistrati e degli avvocati e degli apparati ministeriali a tutela dei cittadini. Sposiamo la causa e divulghiamo l’iniziativa concreta.

Il giudice zittisce l’imputato per non offendere i carabinieri: avvocati in sciopero. Francesca Sabella su Il Riformista il 25 Novembre 2022

In un’aula di giustizia del Tribunale di Nola, un acceso scambio di battute tra avvocato e giudice è proseguito fra relazioni ed esposti, che hanno portato a prese di posizione delle organizzazioni di appartenenza e addirittura alla proclamazione di uno sciopero da parte della camera penale per il 5 dicembre.

E’ accaduto nel corso di un processo per minacce con l’uso di armi con un unico imputato. La tensione è esplosa tra il difensore di quest’ultimo, Paola Caruso, iscritta al Foro di Nola, e il giudice onorario Rossana Ferraro, che peraltro è anche avvocato iscritto al Foro di Santa Maria Capua Vetere, nell’udienza del 14 novembre scorso, durante l’esame dell’imputato, quando quest’ultimo ha iniziato a parlare, su domanda del legale, della perquisizione effettuata a casa sua dai carabinieri che cercavano (e non hanno trovato) l’arma usata.

Il giudice, come emerge dalla relazione di servizio, ha stoppato l’imputato, e con ordinanza istruttoria ha disposto che non si parlasse della perquisizione, essendo circostanza che esulava dal capo di imputazione, ma anche per evitare affermazioni “sconvenienti” e “offensive” verso l’Arma, memore di quanto accaduto in un’udienza precedente, quella del 13 giugno, in cui il giudice riferisce – stando alla relazione di servizio – che l’imputato aveva già offeso i carabinieri a proposito della perquisizione, tanto che nell’udienza del 14 novembre – annota il giudice – l’imputato chiede poi scusa.

Lo stop imposto dal giudice all’imputato fa infuriare l’avvocato Caruso, che secondo quanto riportato nella nota della Camera Penale di Nola (affissa e pubblicata in tutti i palazzi di giustizia italiani e inviata alle sedi istituzionali), “tenta di spiegare le ragioni della rilevanza delle argomentazioni, ma viene zittito dal giudice che, con toni concitati e fare dispotico, non ha permesso di concludere una serena interlocuzione”.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Sotto processo a vita. Storie di ordinario “sequestro”. La ragionevole durata, prevista dalla Costituzione e dalla Cedu, e regolata dalla Legge Pinto, è spesso disattesa. Vittime illustri e semplici cittadini accomunati da una stessa sorte. Il caso record di Giuseppe Gulotta: in carcere per 22 anni. Valentina Stella su Il Dubbio il 31 ottobre 2022.

Il tema della ragionevole durata del processo è oggetto di due importanti precetti sovraordinati: l’art. 111, comma 2, Costituzione secondo cui la «La legge assicura la ragionevole durata » e l’art. 6, par. 1, Cedu in base al quale «Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge». Inoltre secondo la Legge Pinto il termine di durata ragionevole del processo si considera rispettato se il processo non eccede la durata di: tre anni in primo grado, due anni in secondo grado, un anno nel giudizio di legittimità. O comunque se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni.

Eppure nel nostro Paese esistono diverse storie di persone che per veder concluso l’iter giudiziario che le coinvolgeva hanno dovuto aspettare anni ed anni, trasformandole in dei veri e propri “sequestrati dalla giustizia”. Tanto è vero che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è ripetutamente pronunciata nei confronti dell’Italia sul rispetto del diritto alla ragionevole durata del processo. Una delle più note e recenti sentenze riguarda la “Causa Verrascina e altri c. Italia” del 28 aprile di quest’anno.

Il signor Antonio Verrascina è stato sottoposto a giudizio per 18 anni e 8 mesi. L’inizio del procedimento fu al Tribunale di Modena nel 1997. Si concluse in Cassazione nel luglio 2017. La sua causa era stata riunita ad altre: pensate che per il signor Salvatore Giardina primo grado e appello sono durati 24 anni e 2 mesi. Il processo era iniziato al Tribunale di Mistretta nel 1991 e si era concluso alla Corte di Appello di Messina nel maggio 2016. Ma di casi ce ne sono molti altri, pur senza essere arrivati all’attenzione della Cedu. A gennaio di quest’anno la Corte d’Appello di Catania ha assolto l’ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale.

Alla lettura della sentenza l’ex Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie si era detto «molto felice e sollevato per l’assoluzione. Sono stati 12 anni da incubo, la sentenza mi ripaga di tante sofferenze. La mia è una vicenda umana e giudiziaria incredibile». Per uno dei politici più influenti della Sicilia è stata una vera e propria odissea giudiziaria: una condanna, un’assoluzione, un annullamento dell’assoluzione con rinvio. Tre sentenze, tutte diverse l’una dall’altra. E quest’anno la quarta sentenza: ancora una assoluzione. Nel dicembre 2020 la Corte di Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato.

L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una “doppia assolutoria” i procuratori generale di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto. L’uomo per 8 anni è stato prigioniero di una accanita (in)giustizia. Come non dimenticare il calvario di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, la cui vita è rimasta sospesa per 16 anni.

Lo scorso anno si è visto confermare l’assoluzione già rimediata in primo grado quattro anni prima. Un processo e un’inchiesta lunghissimi, senza esser mai stato sentito dai pm che lo accusavano di aver fatto carte false sfruttando il suo ruolo. Tutto era partito nel 2005 con un blitz della Guardia di Finanza nelle sue proprietà. Da quel momento la sua vita cambiò radicalmente, a partire dalle dimissioni da presidente di Enoteca Piemonte ed Enoteca d’Italia.

Invece Rocco Femia, di professione professore, ex sindaco di Marina di Gioiosa, è rimasto ostaggio della giustizia per 11 anni. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Ma era innocente, non faceva parte di una cosca di ‘ndrangheta. Lo ha definitivamente deciso quest’anno la Cassazione. «Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino» aveva detto alla collega Simona Musco.

Ma poi c’è la storia di Ciccio Addeo, riportata alla luce dalla nostra firma Alessandro Barbano ma in questo caso sull’Huffington post: «La mattina del 23 marzo 2001, in cui entrò a Poggioreale, era ancora un luminare all’apice della sua carriera. Cinquantotto anni, capo del Cnr di Avellino, ordinario di agraria alla Federico II, presidente del consorzio per la mozzarella di bufala, direttore di centri di ricerca sperimentale a Lodi e in Corsica, Addeo era considerato uno de massimi esperti in Europa in materia lattiero-casearia». Le accuse? Associazione per delinquere, falso in atto pubblico, truffa aggravata.

Il chimico veniva accusato di aver falsamente garantito la genuinità del burro sofisticato, che dall’Italia si immetteva nel mercato francese. Rimase in carcere quattro mesi, altri quattro ai domiciliari. Dopo sette anni la sentenza di primo grado che lo assolse da quasi tutti i reati. Rinunciò alla prescrizione, altri sette anni per la sentenza di secondo grado, che ricopiò integralmente quella del primo, e altri due per quella di Cassazione, che annullò i due giudizi, “dimostrando il gravissimo travisamento delle prove di cui si erano macchiati, rinviando gli atti alla Corte d’appello per un definitivo pronunciamento di assoluzione”. Che arrivò a febbraio 2021, a venti anni esatti di distanza dall’inizio della vicenda.

Un’altra storia drammatica è quella che vi abbiamo raccontato qualche giorno fa e che riguarda Vincenzo Nespoli, ex sindaco di Afragola e senatore del Pdl dal 2008 al 2013. Ad inizio ottobre la Cassazione ha annullato con rinvio per la seconda volta la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Napoli nei confronti dell’ex sindaco, accusato di bancarotta in relazione al fallimento di una società di vigilanza di Afragola. Processo da rifare, dunque, mentre la carriera politica di Nespoli, nel frattempo, è naufragata. «Un processo di 15 anni confisca il bene più importante per un uomo, la progettualità – ha commentato il suo avvocato Vittorio Manes -. Travolge destini politici, fortune imprenditoriali, rapporti familiari e sociali». Prima assolto, poi condannato, poi un nuovo processo d’appello con condanna e infine l’assoluzione in Cassazione.

Si è concluso quest’anno un incubo per un pensionato residente nella Bassa Reggiana, accusato oltre 11 anni fa di violenza sessuale per presunte molestie alla nipotina, che all’epoca aveva 7-8 anni. L’anziano aveva scontato anche dei periodi in carcere e agli arresti domiciliari. Sempre quest’anno e sempre dopo 11 anni l’ex sindaco di Pagani, Alberico Gambino, è stato assolto pienamente nel processo “Criniera”, il cui impianto accusatorio si fondava su intrecci tra imprenditori, classe politica – l’amministrazione retta dall’allora sindaco – e il clan a Pagani. «Credo che vada fatta una riflessione precisa, visto questo processo così lungo e due anni – tra domiciliari e carcere – di custodia cautelare, quando Gambino non era responsabile di niente. La necessità di un’indagine è una necessità istituzionale, però la vita di un politico è stata fortemente danneggiata e certe verità obbligano dopo 11 anni una persona a urlare al mondo la propria innocenza», aveva detto il suo legale Giovanni Annunziata.

Invece ci sono voluti 9 anni per vedere confermata in appello l’assoluzione di primo grado per l’ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo e per altri cinque imputati. L’ipotesi accusatoria era quella di concussione, consumata e tentata, nell’ambito di una inchiesta partita nel 2013 e relativa all’esistenza di quello che gli inquirenti all’epoca definirono “un direttorio politico-partitico”che avrebbe influenzato la gestione dell’Asl sannita. Un mese fa un cinquantenne è stato assolto dopo 10 anni e quattro gradi di giudizio dalla Corte di appello di Perugia “perché il fatto non sussiste” dalla pesantissima accusa di aver violentato le figlie.

A questi casi possiamo aggiungere altri ancora più sconvolgenti, ossia quando la giustizia arriva dopo la revisione del processo. Ricordate Hashi Omar Hassan, condannato e poi assolto per l’omicidio Alpi – Hrovatin e ucciso da una bomba lo scorso luglio a Mogadiscio? Hassan fu assolto in primo grado, condannato in secondo grado e in Cassazione per aver fatto parte del commando che uccise i giornalisti italiani, ma un successivo ricorso portò all’assoluzione dopo oltre 16 anni di reclusione. Lo Stato Italiano lo ha risarcito con 3 milioni.

E cosa vogliamo dire nel caso di Angelo Massaro? Ha trascorso in carcere da innocente 21 dei suoi 54 anni, dal 1996 al 2017, accusato dell’omicidio del suo miglior amico. Tutto a causa di un’intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio. Ma a battere ogni record Giuseppe Gulotta che ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana.

L’odissea dell’innocente che patteggiò per paura: assolta dopo 6 anni. Dopo 3 mesi di carcere, davanti allo spettro di un lungo processo per favoreggiamento in omicidio, la donna si arrende, poi il presunto omicida viene assolto e arriva la revisione della sentenza. Avv. RICCARDO RADI su Il Dubbio il 24 ottobre 2022.

L’intervento che segue è un ampio estratto dell’articolo pubblicato dall’avvocato Riccardo Radi sul blog “Terzultima fermata” (terzultimafermatablog8460979 35.wordpress.com/), lo spazio on line curato dallo stesso Radi insieme con Vincenzo Giglio.

Storia di una innocente che si dichiara colpevole pur di non avere più nulla a che fare con la giustizia. Giustizia che non le ha creduto quando lei, l’innocente, raccontava il vero e che l’ha imprigionata fino a “convincerla” a dire il falso. D’altra parte, anche un ex ministro della Giustizia dichiarò alla stampa che “gli innocenti non finiscono in carcere”.

Nella storia che racconto ci sono due innocenti che finiscono in carcere nello stesso procedimento per delle accuse infamanti: il primo, accusato dell’omicidio di una ragazza, si farà 30 mesi di carcerazione preventiva, e la seconda 3 mesi per favoreggiamento. In tanti “credono” che gli assolti siano persone che la fanno franca, noi raccontiamo di innocenti che sono stati stritolati dal sistema giustizia.

Nelle aule dei Tribunali accade anche che una persona che patteggia la pena, quindi si dichiara colpevole, venga successivamente assolta perché il fatto non sussiste! Infatti, parleremo di un caso che nella prassi giudiziaria raramente accade: la revisione di una sentenza di patteggiamento.

La vicenda ha per protagonista la signora V.G., una tranquilla badante moldava che viene chiamata dalla polizia per testimoniare in merito alla presenza nella sua abitazione di un indagato per omicidio. La signora V.G. ricorda chiaramente la circostanza e riferisce in maniera dettagliata orari e riferimenti precisi relativi al fatto che effettivamente il signor A.C. fosse il giorno 1° dicembre del 2008, dalle ore 10.30 alle ore 16.00, presso la sua abitazione per svolgere un lavoro di riparazione e per fermarsi poi a mangiare. La Procura della Repubblica di Roma non le crede, e per ben tre volte la convoca, e sempre più insistentemente la mette alle strette. Gli inquirenti acquisiscono i tabulati telefonici delle utenze dell’indagato e della V.G., e raccolgono le dichiarazioni delle altre due persone che avrebbero dovuto parzialmente riscontrare l’alibi.

Dalla lettura dei verbali delle testimoni risultano parziali differenze nell’indicazione degli orari, differenze che però sembrano scaturire dalla non perfetta conoscenza della lingua italiana. Sia la V.G. che le altre due donne ascoltate non sono italiane, ma non vengono esaminate in presenza di un interprete perché tutte dichiarano di parlare e comprendere la lingua italiana. Errore fatale! L’incalzare delle domande, l’uso di un linguaggio tecnico e il riferimento a orari scanditi da minuti rendono le dichiarazioni delle tre donne poco lineari e poco concordanti tra loro. Si arriva alla svolta: la mattina dell’8 ottobre 2010, alle 5.00, la Polizia giudiziaria suona al campanello e notifica una ordinanza di custodia cautelare per il presunto omicida e per la signora moldava, accusata di favoreggiamento, ed entrambi vengono trasferiti in carcere. In sede di interrogatorio di garanzia si dichiarano innocenti, ma non vengono creduti, in virtù del fatto che i tabulati telefonici dimostrerebbero che l’omicida si sarebbe trattenuto solo per una ora nell’abitazione. Quindi avrebbe avuto tutto il tempo per spostarsi e uccidere la giovanissima vittima e di conseguenza la moldava avrebbe mentito.

Il Tribunale della Libertà conferma l’ordinanza e la signora V.G dopo 3 mesi di carcerazione preventiva viene scarcerata per scadenza termini. La Procura della Repubblica procede alla richiesta di rinvio a giudizio e all’udienza preliminare il presunto omicida è in stato di detenzione carceraria e la V.G libera con l’accusa di favoreggiamento. La prospettiva è quella che il processo si svolga in Corte di Assise, ma dopo tre mesi di carcerazione la prospettiva di subire un processo lungo e costoso e le ristrettezze economiche, in seguito dell’arresto, per aver perso il lavoro sono tutti buoni motivi per lasciarsi alle spalle la triste storia. Davanti al Giudice dell’udienza preliminare di Roma si patteggia una pena di nove mesi di reclusione, pena sospesa.

La signora VG, però, non rinuncia a testimoniare nel processo per l’omicidio e grazie al suo atto di coraggio civico e alle sorprendenti circostanze che in realtà l’attento esame dei tabulati telefonici confermano l’alibi dell’omicida: la vittima sarebbe morta per cause naturali. Si i arriva così alla svolta. L’imputato AC viene assolto perché il fatto non sussiste dopo 2 anni 5 mesi e 7 giorni di carcerazione preventiva. Per questo orrore giudiziario si riesce a ottenere il 24 gennaio 2017 dalla Corte di appello di Roma il risarcimento di 260mila euro, ma questa è un’altra storia.

Illustrata la vicenda ora è necessario entriamo nel particolare della posizione della signora V. G. La revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, comporta una valutazione di quest’ultime, alla luce della regola di giudizio posta, per il rito alternativo. Le nuove prove devono consistere in elementi tali da dimostrare che l’interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 c.p.p., così come applicabile nel patteggiamento. Tale differenza rispetto ai parametri utilizzati nella revisione delle sentenze “ordinarie” trova la sua spiegazione nella peculiarità della pronuncia emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in cui il controllo giudiziale è appunto limitato ad escludere la sussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.

Questa regola è stata ribadita dalla Cassazione – sezione sesta penale – con sentenza n. 25308 del 9 giugno 2015. Per i giudici di piazza Cavour, l’estensione del rimedio straordinario alla sentenza di patteggiamento, ad opera della L. n. 234 del 2003, risulta notevolmente più contratta rispetto alla revisione ordinaria. Infatti nel caso delle pronunce ex art. 444 c.p.p., il giudice viene chiamato a stabilire se le prove sopravvenute alla sentenza definitiva e quelle scoperte successivamente siano tali da dimostrare “da sole” la necessità di un proscioglimento oppure se siano autonomamente in grado di gettare una nuova luce e di fornire una chiave di letture radicalmente alternativa degli atti del procedimento concluso con il patteggiamento, atti che di per sé non erano tali da reclamare l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p.

In caso contrario, – conclude la Corte – “la revisione cesserebbe di essere un mezzo di impugnazione straordinaria e diverrebbe, in relazione al patteggiamento, strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stessa richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e della responsabilità” (così, Sez. 6, 24 maggio 2011, n. 31374; Sez. 3 sent. 13032/14 e 23050/13; sez. 4 sent. 26000/13).

Ed ancora più recentemente, la Cassazione sezione 2 sentenza numero 24365 del 23 giugno 2022, ha chiarito: “è ammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con l’accertamento compiuto in giudizio nei confronti di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente ma è, tuttavia, necessario che l’inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione”.

Principio ribadito tra le tante da (Sez. 1, n. 15088 del 08/01/2021, Elia, Rv. 281188 – 02; Sez. 5, n. 10405 del 13/01/2015, Rv. 262731 – 01); – in ogni caso, «in tema di giudizio di revisione, nel caso in cui la richiesta si fondi sull’inconciliabilità tra giudicati ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il giudizio sull’ammissibilità o meno della domanda di revoca della sentenza non può prescindere da una pur sommaria valutazione e comparazione tra le due sentenze che si assumono in contrasto, non potendo il giudice limitarsi a verificare esclusivamente l’irrevocabilità della decisione che avrebbe introdotto il fatto antagonista e la mera pertinenza di tale sentenza ai fatti oggetto del giudizio di condanna» (Sez. 2, n. 29373 del 18/09/2020, Nocerino, Rv. 280002 – 01). Nel caso in esame c’è una sentenza definitiva di assoluzione per l’omicidio che rende inconciliabile la sentenza di patteggiamento. In base a questo presupposto viene redatta la richiesta di revisione alla Corte di appello di Perugia che, in data 22 aprile 2016, ha revocato la sentenza emessa in data 15 luglio 2011 dal Gup di Roma ed ha assolto la Signora V.G. perché il fatto non sussiste!

Finalmente, dopo circa 6 anni dall’arresto si arriva a mettere un punto sulla triste storia che ha segnato in maniera indelebile la Signora VG, la quale ancora oggi non riesce a parlare della sua odissea. Pochi giorni fa mi ha riferito di avere ancora gli incubi e di sognare di risvegliarsi in carcere e provare l’umiliazione di non essere creduta. 

Un giudice emette sentenza senza aver mai ascoltato la difesa. Per il Csm è solo una marachella. Per il Csm questa incredibile vicenda non rappresenta la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Gian Domenico Caiazza su Il Dubbio il 25 settembre 2022.

Giudice condanna a 11 anni senza ascoltare l’imputato, il Csm gli dà un buffetto sulla guancia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 25 Settembre 2022 

Forse qualcuno ricorderà la incredibile vicenda accaduta tempo fa al Tribunale di Asti. Si celebrava un delicato processo di violenza sessuale (di un padre sulla figlia, con la madre accusata di non averlo impedito). Giunti alla conclusione della istruttoria dibattimentale, discute il pm, che chiede una pena molto dura; discutono i due difensori della madre, e si rinvia ad altra udienza per la discussione del difensore del padre, imputato principale. Discussione che però non avverrà mai perché alla udienza successiva il Tribunale legge solennemente il dispositivo di condanna degli imputati ad 11 anni di reclusione. Gli sbalorditi astanti, compreso lo stesso pm, fanno garbatamente presente al Presidente che il difensore del secondo (e principale) imputato non aveva mai discusso. Il Presidente si dice dispiaciuto dell’incidente, accartoccia il foglio contenente il dispositivo appena pronunciato, e dà la parola al secondo difensore. Il quale ovviamente si rifiuta, eccependo l’abnormità di quanto accaduto.

Il Tribunale deposita egualmente la sentenza, che ovviamente non potrà che essere annullata dalla Corte di Appello. Insorge la Camera penale del Piemonte occidentale, con modalità giudicate da Anm e Procuratore Generale, come dire, esagerate: con il risultato di spostare il focus dalla gravissima, incredibile condotta di quel Collegio giudicante, al tono ed ai modi della protesta. La vicenda fu segnalata al Csm, che – apprendiamo oggi da dettagliate notizie di stampa – dopo la bellezza di oltre due anni e mezzo, ha concluso con la sanzione della censura, per di più – e qui siamo al mistero più profondo – nei riguardi del solo Presidente; prosciolte le due giudici a latere.

Non sono ancora depositate, a quanto pare, le motivazioni della bizzarra (è un eufemismo) decisione, ma c’è davvero poco da approfondire. La censura è poco più di una tirata di orecchie, ed è ovvio che la entità della sanzione irrogata fotografa impietosamente la considerazione che il Csm nutre delle questioni di principio messe in discussione in quella incredibile vicenda. Nel dare notizia di questo stupefacente esito, l’articolo viene così titolato: «Sanzionato il giudice che ha letto la sentenza di condanna prima dell’arringa del difensore»; un titolo che la dice lunga su quanto sia indietro questo nostro Paese in termini di comprensione dei principi fondamentali che regolano il processo penale.

Qui non si tratta di “aver letto la sentenza di condanna prima dell’arringa”; quanto invece del fatto che tre giudici abbiano potuto ritirarsi in camera di consiglio, discutere tra di loro della fondatezza della ipotesi accusatoria o invece di quella difensiva, e deciso la irrogazione della pena di 11 anni di reclusione (undici anni, dico) senza avere mai ascoltato il difensore (unico difensore, per di più) dell’imputato principale. Il fatto non può ovviamente avere spiegazioni alternative all’unica sensata: la totale indifferenza di quel giudice collegiale alle argomentazioni in difesa di quell’imputato.

Converrete con me che un giudice che ritenga di pronunziare sentenza nei confronti di un imputato senza aver ascoltato e vagliato la sua difesa, nega in radice la propria stessa funzione. Il giudice non è uno sciamano, chiamato ad interpretare il giudizio divino, ma è un signore il cui compito è esattamente quello di formulare un giudizio solo all’esito della compiuta espressione delle posizioni contrapposte tra accusa e difesa. Insomma, non è che si debbano spendere ulteriori argomenti: si tratta di un fatto di inconcepibile gravità. Che però è stato punito con la pena della censura, un buffetto sulla guancia. La conseguenza che dobbiamo trarne è che, per il Consiglio superiore della magistratura, questa non è la condotta più grave che un giudice possa assumere, anzi, è una delle meno gravi. Talmente poco grave, da rendere addirittura misteriosamente possibile il proscioglimento dei due a latere, pur avendo essi partecipato alla camera di consiglio e deliberato la condanna: come a dire, una marachella del solo Presidente. È già gravissimo che un fatto di questa enorme gravità possa essere accaduto in un Tribunale della Repubblica; ma è addirittura desolante ed ancora più allarmante che il supremo organo di autogoverno della magistratura possa averlo giudicato alla stregua di un banale incidente professionale. C’è qualcuno che sappia darci una spiegazione, e soprattutto che senta il bisogno, prima ancora che il dovere, di farlo? 

Intercettato colloquio tra legale e assistito: finisce tutto nel fascicolo. Indignazione nel Foro: i penalisti baresi proclamano una giornata di astensione dalle udienze per il prossimo 14 ottobre. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 settembre 2022.

«Il momento del colloquio tra il difensore ed il suo assistito rappresenta quanto di più sacro ci sia nell’evoluzione del rapporto fiduciario». A dirlo è l’avvocato Guglielmo Starace, presidente della Camera penale di Bari, commentando con il Dubbio un increscioso episodio accaduto al collega Nicolò Nono Dachille.

Tutto ha inizio a febbraio del 2017 durante una perquisizione da parte della Guardia di Finanza presso una ditta gestita da una cittadina cinese a Casamassima e difesa da Nono Dachille. La donna è accusata di contraffazione e ricettazione e ha il telefono intercettato. I finanzieri, in particolare, ipotizzano sia responsabile di un traffico di calzature sportive griffate con il marchio contraffatto. All’arrivo dei militari, la donna decide di avvertire subito l’avvocato Nono Dachille, informandolo di quanto sta accadendo. Terminata l’ispezione, conclusasi con il sequestro di circa 2000 calzature, l’avvocato chiama a sua volta la propria assistita, facendosi raccontare nei dettagli come si erano svolte le operazioni. La telefonata si conclude con un “non ti preoccupare, non succede niente”, e con l’avvertimento dell’avvocato Nono Dachille che probabilmente i finanzieri “torneranno con una interprete”.

L’avvocato, poi, si fa mandare una foto tramite whatsapp delle scarpe sequestrate dai finanzieri. Questa seconda conversazione, a differenza della prima, viene integralmente trascritta dagli operanti e finisce nel fascicolo che la scorsa settimana il pm ha depositato alle parti. «Il fatto che abbiano messo in grassetto le mie frasi evidenzia la volontà di mettermi in cattiva luce agli occhi del pm, pur in assenza di qualsiasi rafforzamento dell’ipotetico proposito criminoso già compiuto», sono state le parole dell’avvocato Nono Dachille.

L’accaduto, come era prevedile ha suscito grande indignazione nel foro, con la decisione dei penalisti baresi di indire una giornata di astensione dalle udienze per il prossimo 14 ottobre. Inoltre, per quella data è stata convocata una assemblea aperta alla società civile e alle Istituzioni presso il Palazzo di Giustizia barese per sensibilizzare l’opinione pubblica. “Non c’è alcuna giustificazione per quanto accaduto, il colloquio non poteva assumere alcuna rilevanza investigativa”, si legge nella delibera dei penalisti con cui è stata proclamata l’astensione.

«Il cittadino che si affida al professionista deve essere libero di potersi fidare e affidare», prosegue allora l’avvocato Starace. «Sapere di non poter essere liberi di parlare riservatamente mina non soltanto il rapporto tra cittadino e professionista, ma anche quello tra cittadino e Istituzione. È interesse della collettività pretendere la garanzia di riservatezza delle comunicazioni».

Il tema delle conversazioni fra indagato e difensore intercettate dagli organi di polizia e poi finite nel fascicolo processuale è annoso. Nessuna disposizione pare essere in grado di mettere un freno a questa “pratica”, da sempre vietata espressamente dal codice. In questo caso le violazioni sono molteplici. Da un lato i finanzieri che prima hanno ascoltato e poi trascritto integralmente la telefonata, evidenziando peraltro in grassetto le frasi dell’avvocato, dall’altro il pm che ha deciso di inserire questa trascrizione nel fascicolo poi depositato alle parti. Nessun commento, al momento, dagli uffici giudiziari baresi.

Diritti, difensori e magistrati. Avvocati sempre più ai margini e magistrati sempre sotto i riflettori: diritti e tutele sono di troppo…Gennaro De Falco su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Anni fa, quando già mi facevo molte domande sugli equilibri di potere nel nostro Paese e sull’avvocatura, rimasi davvero colpito da uno speciale sulla famiglia pubblicato dal Foglio sulla famiglia Agnelli o meglio sugli eredi dell’avvocato e sulle loro vite. Si trattava di un servizio talmente interessante che ho conservato per anni ed anni e che mi ha incuriosito e fatto riflettere davvero molto. Ebbene nella sterminata genealogia dei discendenti di Gianni Agnelli c’era di tutto, dentisti, stilisti, registi, artisti vari ma nessuno degli eredi dell’avvocato era o si è mai fatto chiamare avvocato come lui.

Mi chiesi: ma come mai? Come è possibile che in ben altri tempi per l’avvocatura nessuno abbia scelto questa strada anche solo per curare i suoi affari o per tradizione familiare? È vero Gianni Agnelli non ha mai esercitato ma per tutti era l’avvocato. A dire il vero io la risposta a questa domanda non la conosco o forse non c’è, magari è solo un caso oppure magari hanno visto giusto e lungo e compreso esattamente l’evoluzione della dinamica sociale che ancora non si era profilata del tutto. Io sono convinto che in un modo o nell’altro la profezia di circa cento anni fa che vide nel cosiddetto “pericolo giallo”, ovverosia nella Cina il futuro del mondo si stia avverando. Che c’entra la Cina con l’avvocatura e la sua decadenza mi chiederete, invece secondo me c’entra e c’entra tantissimo.

In Occidente il cuore della società è sempre stato l’individuo e quindi, sia pur con delle oscillazioni, l’avvocato è l’ambasciatore naturale del cittadino nei confronti dello Stato mentre il giudice è sempre stato solo la parola della legge, il giudice non parlava mai ascoltava e taceva. Ed infatti, nella storia dell’Occidente sono rimasti solo gli avvocati non i giudici. Tutti ricordano Cicerone ma nessuno sa chi fosse il giudice che lo ascoltava, anzi per la verità un giudice è rimasto nella storia e si chiamava Ponzio Pilato, altri non ne ricordo o almeno non ne conosco. Mentre da noi l’eroe è o meglio era l’avvocato, in Cina l’eroe è il giudice, vale a dire il potere. Del resto, questa rivoluzione copernicana che è avvenuta e sta avvenendo la racconta con ogni possibile eloquenza il nome delle strade delle nostre città. Sino a pochi anni fa le strade delle città, soprattutto nei pressi dei tribunali, erano tutte dedicate agli avvocati, soprattutto penalisti.

Ora non è più così, ora sono dedicate solo e soltanto ai giudici. Faccio un esempio evidente: il nuovo Palazzo di Giustizia di Napoli si trova a Piazza Falcone e Borsellino ma questa piazza ha assunto questo nome da poco, prima si chiamava Piazza Enrico Cenni, vale a dire un giurista che lasciò la magistratura per darsi all’avvocatura, in pratica volle morire avvocato. Quasi tutti i tribunali d’Italia sono dedicati a Falcone e Borsellino, voglio anche aggiungere meritatamente, ma ci sono tantissimi avvocati che hanno fatto la stessa fine, meno clamorosa ma l’hanno fatta lo stesso, e non per difendere, come pure sarebbe legittimo, giusto e doveroso il loro cliente ma per eseguire deliberati dei tribunali. Qui non si tratta di fare una gara all’ultima lapide che potrebbe apparire e certamente sarebbe di pessimo gusto, ma di comprendere la realtà nelle sue trasformazioni.

A Napoli diversi anni fa l’avvocato Antonio Metafora venne ucciso per aver eseguito lo sfratto di un garage ma non mi risulta che gli abbiano mai dedicato nessuna strada e come lui tanti ed ovunque. A Torino fu ucciso dalle Br Carlo Casalegno, nel 2015 a Milano uccisero un avvocato addirittura in tribunale. È vero, sono stati sempre o quasi omicidi singoli e mai stragi, questo è vero, ma perché gli avvocati uccisi non avevano nessuno che li difendesse o che almeno provasse a farlo. Se volessi potrei riempire le pagine con i loro nomi che nessuno conosce ed ancor meno ricorda, ma questo è un aspetto del problema, certamente il più tragico ed ingiusto ma soltanto un aspetto.

Il nocciolo è la palese dissimetria che si è creata nella scala di valori della nostra società che si sta sempre più cinesizzando nelle forme e nei contenuti, ormai anche da noi il protagonista è sempre e comunque il magistrato e quasi mai l’avvocato, i cui servizi e la cui esistenza stessa vengono sistematicamente compressi, ostacolati e negati in ogni modo. E così il legislatore fa passare per razionalizzazione del sistema il vero e proprio sradicamento dell’avvocatura dal corpo sociale del Paese rendendo l’esercizio della professione sempre più difficile e costoso. Insomma, nel mondo di oggi individuo, diritti e tutele sono di troppo. Gennaro De Falco

A rischio il patrocinio per i meno abbienti. Lo Stato non paga, a rischio il patrocinio a spese dello… Stato. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Ottobre 2022 

È sempre una questione di tempi. Anche quando si parla di patrocinio a spese dello Stato. E i penalisti di Napoli sono sul piede di guerra. Costretti ad aspettare anni per vedersi riconosciuto dallo Stato l’onorario per il lavoro svolto, hanno deciso di proclamare lo stato di agitazione.

La decisione è stata adottata dalla giunta della Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Marco Campora, dopo le numerosissime segnalazioni arrivate dai penalisti del foro partenopeo e degli altri fori del Distretto campano per segnalare l’incresciosa condizione in cui versano il Tribunale e la Corte di Appello di Napoli in relazione alla liquidazione e all’effettivo versamento degli onorari relativi al patrocinio a spese dello Stato. «Il tema – si legge nella delibera della giunta – non è purtroppo nuovo ed è stato più volte oggetto di serrato confronto con tutti gli organismi e i soggetti competenti. Tuttavia, la situazione non risulta significativamente modificata (è il caso del Tribunale) o addirittura risulta peggiorata rispetto agli ultimi anni (come in Corte di Appello, dove è stato ideato un meccanismo farraginoso ed illogico che sta esponenzialmente allungando i tempi di liquidazione o ancora peggio presso il Tribunale di Sorveglianza, dove l’istituto in questione sembra essere stato di fatto abolito)».

Di qui la protesta dei penalisti. È bene ricordare che il patrocinio a spese dello Stato per i cittadini non abbienti rappresenta uno dei capisaldi del giusto processo ed è uno dei pochi strumenti idonei ad assicurare la democrazia all’interno del processo penale; senza di esso si rischierebbe una giustizia per ricchi e una giustizia per poveri, un doppio binario che per certi versi in qualche caso già esiste e che verrebbe irrimediabilmente accentuato. Gli avvocati protestano non solo per il quantum delle liquidazioni che, confrontato con la media europea e con quella di tutti i Tribunali italiani, «appare del tutto inadeguato e talvolta addirittura irridente», ma protestano soprattutto per i tempi dei pagamenti.

«Nel Tribunale di Napoli l’effettiva corresponsione delle somme avviene a distanza di almeno tre anni dall’emissione del decreto di liquidazione (e talvolta anche a distanza di tempi ancora più lunghi, visti i ritardi nella emissione dei decreti di liquidazione da parte di taluni magistrati o nella lavorazione dei fascicoli da parte di talune cancellerie) – spiegano i penalisti -. In Corte di Appello, a seguito di “sciagurate” modifiche organizzative, trascorre addirittura almeno un anno o più esclusivamente solo perché venga emesso il decreto di liquidazione, e cioè un provvedimento per la cui redazione non occorrono più di cinque minuti. In Sorveglianza addirittura avviene sovente che anche le istanze di ammissione al beneficio, presentate dagli Avvocati nell’interesse dei loro assistiti, giacciono negli uffici, prive di riscontro, anche per un anno o più, comportando una ancor più grave dilatazione dei termini per poi ambire ad ottenere i pagamenti».

«Sono tempi scandalosi – si legge nel documento firmato dalla giunta del presidente Campora -, non suscettibili di alcuna giustificazione (anche perché in tutta Italia i tempi sono straordinariamente più celeri rispetto a quelli del Distretto partenopeo) e che danno luogo, di fatto, sia pur quasi certamente come conseguenza non voluta, ad una continua, costante ed ininterrotta violazione dei diritti minimi in danno delle fasce più deboli della popolazione. Né vale a giustificare tale tempistica la solita ed abusata doglianza in punto di carenza di personale poiché come detto, a fronte di una pianta organica che negli ultimi tempi è stata sensibilmente implementata, i tempi delle liquidazioni sono addirittura aumentati».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il Convegno della Camera Penale di Napoli. Diritto alla difesa, i penalisti: subito riforma per assicurarlo a chi non può pagare un avvocato. Riccardo Rossi su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

Intervenire al convegno su “Gratuito patrocinio: il tradimento del patto etico tra Stato e Avvocato” della Camera Penale di Napoli ha rappresentato l’occasione per fare il punto su talune contraddizioni che attengono all’applicazione in Italia degli istituti del patrocinio a spese dello Stato e della difesa d’ufficio che costituiscono violazioni dei principi del giusto processo e di uguaglianza tra i cittadini indagati dinanzi alla legge.

L’Associazione dei Difensori d’Ufficio, sia nella sezione napoletana che a livello nazionale, è particolarmente sensibile a questo argomento, perché per quanto siano certamente diversi gli istituti della difesa d’ufficio e del patrocinio a spese dello Stato, essi sono molto più correlati di quanto si possa pensare. In generale, il primo momento di contatto ideale tra la difesa d’ufficio e il patrocinio a spese dello Stato avviene quando l’indagato, ricevuto il primo atto notificatogli dall’Autorità Giudiziaria nel corso del procedimento penale, non abbia effettuato la nomina del difensore di fiducia, poiché in tale evenienza – in ragione dell’obbligatorietà della difesa tecnica nel processo penale – gli verrà assegnato un difensore d’ufficio. Nel 30-40 % di questi casi, infatti, il difensore designato per legge si sentirà ripetere “avvocato, non ho i soldi per pagarla”, avviando in questo modo le pratiche affinché l’assistito possa accedere al c.d. “gratuito patrocinio”.

Può però accadere che il difensore nominato d’ufficio non riesca in alcun modo a contattare l’indagato, il quale – pur avvisato e sollecitato – decida di disinteressarsi del processo. In tal caso, l’avvocato d’ufficio dovrà attivare una procedura di recupero del credito professionale – con messa in mora, decreto ingiuntivo, precetto, pignoramento mobiliare o immobiliare – che ritarderà di anni l’effettiva corresponsione dell’onorario per l’attività difensiva svolta. Il “tradimento del patto etico tra Stato ed Avvocato” si realizza, dunque, per tutta una serie di prassi diffuse tra gli uffici giudiziari e previsioni normative che esprimono null’altro che la volontà del legislatore. Ciò perché, al termine di questo complesso procedimento, l’art. 116 del T.U. sulle Spese di Giustizia ci dice che nel momento in cui la persona assistita risulti incapiente si applicano le liquidazioni del gratuito patrocinio. È qui che si realizza un corto circuito nel coordinamento con la disciplina della difesa d’ufficio: ed invero, in quest’ultima ipotesi, il difensore designato per legge non ha accettato spontaneamente ed a monte di assistere l’indagato/imputato “a spese dello Stato”, ma si ritrova a subirne comunque la disciplina economica sfavorevole.

Vi è poi da evidenziare anche l’ostracismo espresso negli anni da quella parte aristocratica della classe forense. In tal modo, sono stati chiusi gli occhi davanti ad un incremento – dal 1995 al 2019 – del 1230% delle ammissioni al patrocinio a spese dello Stato. Numeri elevatissimi davanti ai quali non si possono chiudere gli occhi, poiché la giustizia sostanziale si fonda su questi numeri. Oltre a impegnarsi al fine di promuovere la riforma proposta dagli Avvocati Raffaele De Cicco e Alessandro Amodio che consenta di equiparare le tempistiche delle liquidazioni dei difensori a quelli degli ausiliari dei magistrati è stata evidenziata dall’On. Del Mastro l’assurdità di prevedere, per ciascun tribunale d’Italia, un diverso protocollo d’intesa per le liquidazioni, che portano – per la stessa attività – a vedere le liquidazioni tra, ad esempio, Bari e Napoli decisamente diverse. L’effettività della difesa, soprattutto per i non abbienti, non può prescindere dal giusto e tempestivo compenso dei professionisti protagonisti del processo. Riccardo Rossi

Condizionatori rotti nel tribunale di Napoli. Magistrati e avvocati: «Così non si può lavorare». L'Anm del distretto di Napoli e le Camere penali denunciano la "situazione invivibile" a cui sono sottoposti da giorni. Il Dubbio il 7 giugno 2022.

Condizioni di lavoro «insostenibili» negli edifici del Palazzo di Giustizia di Napoli a causa del guasto ai condizionatori. A denunciarlo è la Giunta esecutiva sezionale dell’Anm del Distretto di Napoli, presieduta da Pina D’Inverno, secondo cui «il guasto ai condizionatori negli edifici del Nuovo Palazzo di Giustizia del Centro direzionale “Alessandro Criscuolo” sta rendendo insostenibili, complici le altissime temperature del periodo, le condizioni di lavoro di tutti gli addetti al servizio giustizia, non solo magistrati ed amministrativi, ma anche avvocati, parti, testimoni impegnati nelle quotidiane attività d’udienza».

«Tenuto conto della comunicazione pervenute di recente, secondo cui il guasto al sistema di condizionamento non si risolverà che entro l’11-12 giugno 2022 – prosegue la nota – la Ges dell’Anm del Distretto di Napoli s’impegna, sin d’ora, a denunziare pubblicamente e nell’interesse di tutti gli utenti del Nuovo Palazzo di Giustizia, con il coinvolgimento degli organi di stampa e dell’Asl competente, la difficile situazione venutasi a creare».

Ad denunciare la «situazione di straordinaria difficoltà» è anche la Giunta della Camera penale di Napoli, che condivide in pieno il documento dell’Anm. E sottolinea che le caratteristiche strutturali del Palazzo di Giustizia napoletano rende l’assenza dell’aria condizionata «invivibili, determinando un gravissimo disagio (se non una vera e propria sofferenza fisica) per tutti gli operatori e per l’utenza». «Risulta assai grave e poco dignitoso – prosegue la nota – che in un Tribunale – frequentatissimo e sede di centinaia di processi al giorno – occorrano settimane per riparare un guasto». I penalisti sottolineano che il Tribunale dovrebbe essere un luogo di accoglienza, e «invece si è trasformato in un luogo di incuria e disinteresse nei confronti delle centinaia di cittadini che quotidianamente si relazionano, a diverso titolo, con la giustizia».

«Il senso di sfiducia – conclude la nota -, e talvolta di frontale disapprovazione, che un numero sempre più crescente di cittadini nutre nei confronti delle modalità attraverso cui viene amministrata la giustizia ha certamente ragioni serie, profonde e stratificatesi negli anni ma è anche figlio del disastro strutturale ed organizzativo in cui versano molti tribunali italiani».

«Nel Tribunale di Taranto stanze come fornaci»: protestano i lavoratori. I sindacati denunciano: climatizzatori rotti e bagni fuori servizio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Giugno 2022.

I dipendenti del Tribunale a Taranto protestano per i disagi causati dai climatizzatori rotti a fronte di temperature elevatissime che trasformano le stanze degli uffici in una sorta di fornaci. E’ quanto denunciano i sindacati FP Cgil, Uilpa, Usb, Flp e Unsa, che hanno organizzato, insieme alle Rsu, per giovedì 9 giugno, dalle 9 alle 12, un’assemblea nell’androne di Palazzo di Giustizia.

«Ad oggi - sottolineano - le temperature esterne già compromettono la capacità di lavorare in un clima adeguato alla normativa sulla sicurezza (7 gradi di differenza dalla temperatura esterna). Ancora una volta, non funziona alcuno strumento di refrigerazione e ciò determina vere e proprie temperature tropicali all’interno delle stanze, assolutamente inadeguate non solo per lavorare, ama anche solo per sostare».

Evidentemente, attaccano le organizzazioni sindacali, «per i lavoratori della giustizia non valgono le stesse regole valide per gli altri lavoratori. I loro doveri sono immediatamente esigibili, ma non anche i loro diritti, come quello basilare a lavorare in condizioni conformi alla normativa e dignitose. Questo vale anche per tanti operatori della Giustizia che frequentano il Palazzo di Giustizia (avvocati e cittadini), anch’essi costretti a vivere in condizioni inaccettabili».

A rendere «ancora più inaccettabile il tutto - concludono i sindacati - è la condizione di fatiscenza dei servizi igienici per lavoratori ed utenti. Infatti, nonostante giungano rassicurazioni circa lavori per il potenziamento degli stessi, di fatto aumentano i “fuori servizio” degli attuali e quei poco funzionanti sono pervasi da odori nauseabondi». 

«Altro che dai giudici: i pm vanno separati dalla polizia giudiziaria…». Intervista al consigliere laico del Csm, eletto in Parlamento con la Lega. «Grave danno d'immagine per la magistratura la vicenda dell'hotel Champagne. E Gratteri era il candidato migliore per la Dna». Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 15 giugno 2022.

«Penso che sia giunto il momento per una seria riflessione sui rapporti e sui legami che si creano fra pubblici ministeri e polizia giudiziaria. È un argomento troppo spesso sottovalutato ma che invece avrebbe bisogno di un serio approfondimento». A dirlo è l’avvocato Stefano Cavanna, attuale componente del Consiglio superiore della magistratura. Prima di essere eletto nel 2018 al Csm in quota Lega, Cavanna svolgeva la professione forense a Genova, occupandosi principalmente di diritto societario, commerciale e del brokeraggio assicurativo.

Consigliere Cavanna, perché è importante affrontare il tema dei legami che si instaurano fra pm e pg?

Guardi, da molto tempo ci si concentra quasi esclusivamente sui rapporti fra pm e giudice. Si dice spesso che la comune appartenenza allo stesso ordine giudiziario determini un possibile condizionamento reciproco. E dunque il pm, pur essendo parte del processo come l’avvocato, non verrebbe messo dal giudice sullo stesso piano. Io personalmente ritengo che le criticità ci siano fra pm e pg. È storia degli ultimi anni: si creano dei legami fra pm e pg che vanno avanti per tutta la carriera di entrambi.

Cerchiamo di spiegare bene.

Senza ovviamente fare riferimento a casi specifici, ci sono pm che hanno una polizia giudiziaria di riferimento. Possono essere carabinieri, guardia di finanza, polizia di Stato, non fa differenza. Sono rapporti che si consolidano nel tempo. Un procuratore, ad esempio, può fare domanda di trasferimento per ricoprire lo stesso incarico in un’altra città. E anche il comandante del reparto di pg può essere trasferito e raggiungere la città dove il magistrato con cui lavorava è diventato procuratore. È innegabile che si possano allora creare dinamiche molto particolari.

Sarebbero le “cordate” di cui parla il dottor Nino Di Matteo nel suo libro?

Il termine “cordate” rende bene il concetto.

Comunque, per la cronaca, anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, il consigliere di Cassazione Giuseppe Santalucia, in una recente intervista ha fatto cenno alle “cordate” che si creano al di fuori delle correnti.

Ripeto, io credo che il vero punto sensibile sia quello.

Parliamo di referendum sulla giustizia. Un flop annunciato?

Avevo delle perplessità sui quesiti proposti, come quello sulla separazione delle funzioni.

Io credo al contrario che si debbano incentivare i passaggi tra una funzione e l’altra. Si potrebbe pensare un meccanismo che preveda, dopo un determinato periodo, un cambio di funzioni.

Una “rotazione”?

Sì. La rotazione degli incarichi è apprezzabile anche in chiave anti “cordate”. Da pm a giudice. Senza pg.

Le nomine al Csm sono da sempre terreno di scontro. Cosa può dire?

Eh già. I cv dei candidati si equivalgono tutti. Sono sempre eccellenti. Diventa così molto difficile fare una scelta. Io alcune volte mi astengo perché ho forti dubbi sul modo in cui sono state attribuite queste valutazioni eccelse.

Qui entrano in gioco le correnti della magistratura e la loro capacità di condizionamento…

Senza girarci tanto intorno, le correnti sono diventate dei centri di potere. Sono ormai delle associazioni dove ci si aiuta e si viene incontro alle esigenze dell’amico collega.

Come ci sente ad essere un componente del Csm?

Indubbiamente il consigliere laico parte penalizzato. Il togato sa come muoversi, conosce l’ambiente, ci sono i suoi colleghi. I magistrati poi non solo al Csm ma anche al ministero della Giustizia. Ed hanno un grande peso.

La consiliatura sta finendo. Ha qualche rammarico?

Premesso che i problemi della magistratura non si risolvono dall’oggi al domani, a me sarebbe piaciuto girare per gli uffici giudiziari per capire le varie realtà sui territori. Però è arrivato il Covid ed ha bloccato tutto.

Lei va spesso in minoranza in Plenum. Penso alla nomina di Carlo Renoldi al Dap, a quella di Giovanni Melillo a nuovo capo della Dna, all’archiviazione della pratica di incompatibilità ambientale per la giudice di Cassazione Donatella Ferranti.

Resto convinto delle mie scelte. Renoldi per le sue opinioni sul carcere era una figura divisiva, le costanti interlocuzioni di Ferranti con Luca Palamara hanno fatto tornare alla mente le vicende dell’hotel Champagne che determinarono un grave danno all’immagine della magistratura, e Nicola Gratteri, il procuratore di Catanzaro, era il candidato migliore quell’incarico. Non ho cambiato idea su nessuna di queste pratiche e resto fermamente convinto delle scelte fatte.

La legge ha rotto il giocattolo. Giornalisti nel panico: la presunzione di innocenza ha fatto sparire le fughe di notizie. Alberto Cisterna su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

È pieno di orfani e vedove inconsolabili il cimitero delle fughe di notizie. Le norme sulla presunzione di innocenza stanno facendo strage di un certo giornalismo di cui francamente non si avvertiva alcuna necessità e che, sotto l’ombrello della libertà di stampa, ha consumato anche innumerevoli misfatti negli ultimi decenni. Un modello vincente di magistratura e un assetto in modalità combat della carta stampata sono stati i pilastri per la costruzione di un potere separato e distinto da quelli da cui pur legittimamente provengono. Terzo e quarto potere, troppo volte, hanno dato vita a un ibrido pericoloso, tentacolare, sottratto a qualunque controllo ed esentato (dai medesimi magistrati) da ogni responsabilità. Un’alleanza insana che ha portato vantaggi enormi a entrambi i protagonisti dell’incestuoso connubio.

Basterebbe scrutare le redazioni di importanti quotidiani o settimanali per accorgersi quali vantaggi e quali carriere sono stati assicurati a giornalisti che hanno avuto quale esclusivo merito, o quasi, quello di avere buoni agganci nei piani alti della giustizia inquirente. Né è da pensare che editori, sempre in mezzo a pasticci giudiziari, non abbiano avuto un occhio benevolo verso questa modalità dell’informazione. Fare scoop giudiziari al tempo stesso comportava la creazione di interlocuzioni privilegiate con i mastini delle procure della Repubblica, rapporti che alla bisogna potevano rivelarsi – come dire – preziosi agli occhi di direttori compiacenti ed editori in fibrillazione. Senza contare che, qua e là, qualche benefit ulteriore non è mancato per qualche cronista approfittando degli attacchi di collera di qualche boss, della solita notizia riservata portata dai soliti servizi, di qualche intercettazione “addomesticata” per far apparire vulnerabile e minacciato il cronista di turno, del verbo di qualche pentito più disponibile.

Un mondo opaco, con poche luci che si è praticamente alimentato a spese della vita e della dignità di migliaia di cittadini additati come mostri e sbattuti in prima pagina. Senza che mai una volta un’indagine, guarda caso, scoprisse un colpevole. Persino di fronte all’evidenza si sono coperte nefandezze e seppellite conclamate violazioni del segreto istruttorio, senza che (si badi bene) sia mai esistita alcuna congiura o alcun complotto come pensano ancora le più sprovvedute tra le vittime. Il sistema si autoproteggeva spontaneamente nella convinzione che le fughe di notizie fossero un male necessario da far pagare al malcapitato di turno in nome del supremo interesse della corporazione a poter agire a mani libere e con il maggiore consenso sociale possibile. Poi la legge sulla presunzione di innocenza ha rotto il giocattolo e la riforma Cartabia – prevedendo un apposito illecito disciplinare per chi viola il dovere di comunicare con la stampa solo con apposite conferenze – hanno praticamente innalzato una diga che sta prosciugando il lago salmastro e melmoso di un certo giornalismo.

Non passa giorno senza che si elemosinino interviste, dichiarazioni, attestati, si lancino moniti contro la folle compromissione della libertà di stampa che il nuovo corso starebbe imprimendo al mondo della giustizia e della informazione. Si prefigurano sciagure inenarrabili, con una pubblica opinione resa sorda e cieca dal silenzio dei magistrati sulle indagini in corso. Si dirà: ma le norme non impediranno i soliti commerci di file e verbali consegnati a mano o con accorgimenti telematici da narcos. È vero, ma il rischio che il procuratore incappi in qualche impiccio disciplinare è ora enorme e l’aria è cambiata anche tra le toghe, in gran parte stufe del fango arrivato loro addosso per la spregiudicata ambizione di pochi. Si dirà: ma allora sarà la polizia giudiziaria ad alimentare il mercato nero degli scoop. Anche questo è un errore. Quasi mai, a dir poco, le carte ai giornalisti sono arrivate da poliziotti e carabinieri. Una maggiore esposizione alle indagini, verifiche gerarchiche al proprio interno e uno stile diverso, a dire il vero, hanno quasi sempre tenuto fuori la polizia giudiziaria da questo circuito.

Tranne, è pur vero, i pochi casi di cooptazione e integrazione operativa tra pubblici ministeri, giornalisti e poliziotti che costituiscono uno dei più pericolosi vulnus con cui la democrazia di questo paese si sia dovuta confrontare e sul quale ancora scarsa è l’attenzione della politica. Debellare questi grumi opachi sarebbe di fondamentale importanza per dare trasparenza alla giustizia penale italiana, soprattutto impedendo che procuratori, in nome del “fare squadra”, si portino dietro come salmerie uomini di polizia di propria fiducia e ai propri esclusivi ordini. La questione coinvolge, in primo luogo, le responsabilità del ministero dell’Interno che dovrebbe impedire alle singole forze di polizia di cedere alle richieste dei procuratori e, anche questa volta, una bella norma disciplinare per i magistrati varrebbe più di molte leggi e circolari.

La legge sulla tutela della presunzione di innocenza e le sue imminenti ricadute disciplinari stanno sconvolgendo un mondo la cui reazione non si sta facendo attendere e che non mancherà nei giorni a venire. Certo qualcuno dovrebbe spiegare perché chiudere i rubinetti delle fughe di notizie e serrare i ranghi delle corride mediatiche leda o metta in pericolo l’autonomia del pubblico ministero o dell’intera magistratura italiana. Non dovrebbe essere esattamente l’opposto, viene da chiedersi.

Ma intanto, come è noto, la gallina che canta…Alberto Cisterna

Procura e organi di stampa, come cambia la disciplina dei rapporti: tutte le regole nel dettaglio. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022

Aggiornata la disciplina dei rapporti degli Uffici di Procura con gli organi di stampa. La normativa in esame, nel recepire le disposizioni della direttiva 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 marzo 2016 in materia di presunzione di innocenza, regolamenta nel dettaglio le modalità con cui possono essere riferite agli organi di stampa le informazioni relative ai procedimenti penali e agli atti di indagine compiuti.

Nel dettaglio:

-la diffusione di informazioni sui procedimenti penali può avvenire esclusivamente tramite comunicati ufficiali, oppure nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenza stampa

-la diffusione delle medesime informazioni è consentita solo quando è strettamente necessaria per la prosecuzione delle indagini o ricorrono altre specifiche ragioni di interesse pubblico

-la comunicazione può avvenire a mezzo comunicato stampa o conferenza stampa ad opera del Procuratore della Repubblica, in tale ipotesi, solo la conferenza stampa deve essere preceduta da un provvedimento motivato in cui viene dato atto delle specifiche ragioni di interesse pubblico che giustificano la divulgazione delle informazioni

-la Polizia Giudiziaria può fornire informazioni sugli atti di indagine compiuti o ai quali ha partecipato, compresi gli arresti in flagranza, con entrambi i mezzi, ma sempre previa autorizzazione motivata del Procuratore della Repubblica

-le comunicazioni in qualunque forma vengano effettuate, devono sempre essere corrette, imparziali, rispettose della dignità della persona e devono chiarire la fase in cui il procedimento pende e assicurare, in ogni caso, il diritto della persona sottoposta alle indagini e dell’imputato a non essere indicati colpevoli fino a quando la colpevolezza non è stata accertata con sentenza o decreto penale passati in giudicato

-resta fermo il divieto di diffondere immagini o fotografie di persone in manette, di pubblicare l’immagine e le generalità dei minori e vanno adottate tutte le misure utili ad evitare l’ingiustificata diffusione di notizie ed immagini potenzialmente lesive della dignità e della riservatezza delle persone offese.

Il pm dispone, il gip “esegue”: uno studio dice che è lo standard. Ecco i risultati dell'approfondimento fatto a Brescia dalla Camera penale in collaborazione con i vertici di procura e Tribunale. Ma negli altri uffici giudiziari il dato rimane un mistero: impossibile calcolare il grado di appiattimento del giudice sulle richieste di misura cautelare. L'Ucpi: ora si cambi. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 28 maggio 2022.

«Purtroppo quanto affermato dal presidente delle Camere penali, il collega Gian Domenico Caiazza è la triste realtà: è praticamente impossibile avere il dato relativo alle percentuali di accoglimento delle richieste dei pm di applicazione delle varie misure cautelari da parte dei gip». Ad affermarlo è l’avvocato Andrea Cavaliere, presidente della Camera penale di Brescia, che la scorsa settimana ha affrontato il tema della “cultura del dato” nel corso di una tavola rotonda alla presenza anche dei vertici degli uffici giudiziari della città lombarda.

Durante l’incontro sono stati resi noti i risultati di una ricerca condotta, come è stato sottolineato, in modo empirico e senza alcuna pretesa di scientificità da parte dei penalisti e finalizzata ad avere una indicazione di massima della situazione relativa al numero di richieste di misura cautelare avanzate e poi accolte a Brescia nel corso del 2021. La ricerca ha evidenziato quello che tutti sospettavano: l’alta percentuale di ordinanze di accoglimento dei gip rispetto alle richieste dei pm, pari quasi al novanta per cento.

«Questo dato deve essere valutato con estrema attenzione – puntualizza però Cavaliere – perché i sistemi informatici, al momento, non consentono di distinguere le ordinanze di convalida degli arresti in flagranza dalle ordinanze che decidono su richieste di applicazione di misura cautelare». In altri termini, prosegue il penalista bresciano, «il dato non è sufficientemente attendibile per essere oggetto di una seria discussione e, tra l’altro, può essere interpretato in modi diametralmente opposti: da un lato l’avvocatura potrebbe evidenziare un pericoloso “appiattimento” del gip sulle posizioni del pm, ma dall’altro la stessa Procura potrebbe replicare – forse senza troppa convinzione – che l’alta percentuale di accoglimenti è la prova della serietà del lavoro dei pm e del fatto che le richieste di applicazione delle misure cautelari vengono avanzate solo quando sono effettivamente necessarie».

Circa la disponibilità di informazioni, invece, il «caso Brescia» è la classica eccezione che conferma la regola esposta nell’intervento del presidente dell’Upi Caiazza. «A Brescia – puntualizza Cavaliere – solo in virtù di una disponibilità particolare del procuratore della Repubblica, del coordinatore dell’Ufficio gip nonché del presidente del Tribunale e soprattutto del presidente della Corte d’appello Claudio Castelli, questi dati sono stati resi ostensibili a noi avvocati: nella maggior parte degli altri Uffici giudiziari italiani ciò non avviene. Come mai?».

La difficoltà di accedere a queste informazioni era stata stigmatizza dei penalisti, che tramite il loro Osservatorio stanno cercando in tutti i modi da anni di conoscere quante volte vengono accolte dal gip le misure cautelari e i sequestri richiesti dal pm. Ad oggi, infatti, il dato non è disponibile né al ministero della Giustizia né al Consiglio superiore della magistratura, in quanto non oggetto di apposito censimento. Tale circostanza non può non riportare l’attenzione di tutti gli operatori del diritto sull’annoso e mai risolto problema di ottenere questo genere di informazioni statistiche dai sistemi informatici delle Procure.

Spesso, come da più parti evidenziato, anche per un evidente atteggiamento di chiusura degli uffici giudiziari ad aderire a richieste di accesso presentate da soggetti esterni.

«Il mio augurio – aggiunge Cavaliere – è che tale situazione sia destinata finalmente a migliorare alla luce delle importanti affermazioni che la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha esposto al Parlamento in occasione della sua relazione annuale lo scorso gennaio, parlando dell’importanza di sviluppare proprio la cultura del dato. Credo sia importante potere accedere direttamente alle stime di tutti i servizi connessi all’amministrazione della giustizia, anche a quelli raccolti dai vari uffici giudiziari», conclude quindi il presidente della Camera penale di Brescia, ricordando comunque che «la fruibilità dei dati dovrà sempre avvenire nel pieno rispetto, ovviamente, delle esigenze della riservatezza delle indagini e della tutela delle norme sulla privacy».

Insulti agli avvocati, il paradosso Facebook: per chi denuncia scatta la censura. La piattaforma ha deciso di cancellare il post nel quale si riportava la notizia perché viola gli standard interni. Valentina Stella su su Il Dubbio l'1 giugno 2022.

Oggi vi abbiamo dato una notizia arrivata da Viterbo: alcuni leoni da tastiera avevano rivolto nel 2019, commentando su Facebook post di TusciaWeb e Tgcom24, messaggi del tipo «Spero che stuprino le mogli degli avvocati –Avvocati di merda papponi – Dico a giudici e avvocati vi auguro di cuore che possa capitare ai vostri cari di fare la fine delle migliaia di ragazze violentate.. e perché no uccise…ve lo auguro proprio» a tre legali della Camera penale locale, colpevoli, a loro dire, di aver assistito due giovani ex militanti di CasaPound arrestati per lo stupro ai danni di una 37enne.

Vi abbiamo raccontato che il presidente dei penalisti viterbesi ha presentato una denuncia alla Procura ipotizzando il reato di diffamazione aggravata ma il pm ha richiesto l’archiviazione con la seguente motivazione «Si ritiene che il contenuto dei commenti costituisca manifestazione del tutto legittima dell’esercizio di critica». La Camera penale si è opposta: udienza 8 giugno dinanzi al gip.

Ma sapete qual è il paradosso? Abbiamo diffuso su Facebook il link alla notizia, inserendo nel sommario le minacce degli hater per attirare i nostri lettori su un tema particolarmente sensibile per l’avvocatura.  E sapete cosa ha fatto la piattaforma social gestita da Meta? Ha cancellato il nostro post perché violerebbe gli standard interni.

Tre sono le considerazioni da fare:

Facebook ha un algoritmo alquanto ottuso perché non riesce a distinguere l’offesa vera e propria da una notizia giornalistica;

Lo stesso Facebook ha lasciato visibili per giorni quegli stessi commenti che abbiamo riportato noi, mentre a noi ci ha censurati dopo 4 ore;

Non sarebbe il caso di interrogarci sulla relatività degli standard? Per una Procura quelle parole ricadrebbero nel diritto di critica, per il social network sono da censurare.

Insulti e minacce ai legali, ma per il pm non c’è reato. Haters contro tre penalisti che difeso due giovani accusati di stupro. La procura: è libertà di critica. Ma la Camera penale di Viterbo dice no all’archiviazione. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 giugno 2022.

«Spero che stuprino le mogli degli avvocati – Voi dovete finire in carcere insieme a loro finché non morite – Vorrei vedere se si tratta della figlia del giudice e del avocato!!! Fate solo schifo e questo ti porta a fare giustizia da soli – Quando è evidente che gli avvocati fanno largo abuso di droghe…in galera anche voi – Questi avvocati vanno condannati sono tutti venduti – Avvocati di merda papponi – Dico a giudici e avvocati vi auguro di cuore che possa capitare ai vostri cari di fare la fine delle migliaia di ragazze violentate..e perché no uccise…ve lo auguro proprio»: questi allucinanti e gravemente minacciosi messaggi, che vi abbiamo riportato nell’originale italiano stentato, sono solo una minima parte di quelli apparsi nel 2019 tra i commenti delle pagine Facebook delle testate TusciaWeb e Tgcom24.

Gli odiatori social avevano nel mirino tre avvocati di Viterbo – Domenico Gorziglia, Marco Valerio Mazzatosta, Giovani Labate – colpevoli, a loro dire, di assistere due giovani ex militanti di CasaPound arrestati nell’aprile del 2019 per lo stupro ai danni di una 37enne, avvenuto in un pub del capoluogo laziale. I due, usufruendo del rito abbreviato, sono stati condannati in via definitiva uno a 2 anni e 10 mesi, l’altro a 3 anni. Ma non è questo il punto. La questione riguarda l’immagine falsata che molte persone hanno del ruolo dell’avvocato. L’assimilazione tra l’avvocato e il suo assistito è una delle tante distorsioni che intaccano il ruolo del difensore nella società. Eppure come aveva scritto Ettore Randazzo in ”L’avvocato e la verità” (Sellerio Editore Palermo), «solo i nemici della democrazia e della libertà possono temere l’avvocatura». Sempre di più in questi anni stiamo assistendo a vari tipi di attacchi verso coloro che esercitano un diritto costituzionalmente garantito.

Dinanzi a questo scenario, cosa fare? Per i fatti di Viterbo, prontamente il presidente della Camera penale viterbese, Roberto Alabiso, presentò una denuncia querela, ipotizzando il reato di diffamazione aggravata presso la Procura della Repubblica, «a tutela della immagine personale e professionale non solo dei colleghi interessati al procedimento penale sopra accennato, ma anche e soprattutto per dare forza e dignità alla professione forense che nonostante il dettato costituzionale continua ad essere percepita come una sorta di “complicità” con gli assistiti» . L’avvocato Alabiso, nel suo esposto, aveva anche ricordato che la Cassazione con sentenza n.40083 del 6/9/2018 ha stabilito che «il profilo social dell’utente è luogo virtuale e la pubblicazione di commenti offensivi sulla bacheca Facebook costituisce una forma diffamatoria di comunicazione con più persone».

Nonostante tutto questo, nel maggio 2020 la Procura di Viterbo ha fatto richiesta di archiviazione: «Si ritiene che il contenuto dei commenti costituisca manifestazione del tutto legittima dell’esercizio di critica, espressa, seppur con linguaggio e con toni aspri e polemici, a tratti utilizzando termini con accezioni indubitabilmente offensive, senza trasmodare nella immotivata aggressione ad hominem, potendo, le medesime critiche, dirsi ampiamente ricomprese entro i limiti di operatività della scriminante del diritto di critica».Quindi augurare stupri e morti ai parenti degli avvocati rientra del diritto di critica? Permetteteci di sollevare qualche dubbio, crediamo legittimo. Il presidente Alabiso, comunque, non demorde e presenta opposizione alla richiesta di archiviazione, scrivendo, tra l’altro, che «la sensazione sgradevole che si prova leggendo le motivazioni della richiesta di archiviazione è che la pm procedente si sia “adagiata” sul malcostume imperante tra giovani e meno giovani, di utilizzare espressioni fuori da ogni decente consesso civile».

Inoltre, sottolinea il penalista, «consentire a chi ha indirizzato ingiurie, minacce e quant’altro, di superare indenne una situazione che, invece, andrebbe certamente sanzionata ed evidenziata come rimarchevole, volgare ed inaccettabile costituisce a parere di chi scrive una ulteriore beffa per tutti coloro i quali, come previsto dalla nostra Costituzione, si adoperano per il rispetto delle leggi, che non significa salvare chi ha commesso reati, ma al contrario vuol dire che ciascuno di noi merita un’adeguata difesa dal punto di vista tecnico, senza alcun coinvolgimento personale».

Come andrà a finire lo si capirà l’8 giugno: l’avvocato del foro di Civitavecchia, Andrea Miroli, sosterrà le ragioni della Camera penale di Viterbo per opporsi all’archiviazione. A decidere sarà il gip che potrebbe ricordarsi che questi attacchi ormai non riguardano solo gli avvocati ma anche gli stessi giudici, sempre più spesso finiti nel mirino quando scarcerano, derubricano o assolvono. Si tratta di una battaglia di civiltà che dovrebbe vedere uniti avvocatura e magistratura.

L’imputato è al funerale del padre, ma per il tribunale non è legittimo impedimento. L'incredibile caso a Vercelli. Rifiutata la richiesta, l'uomo ha impugnato la sentenza di condanna in appello e in Cassazione. Che però ha dato ragione al tribunale. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 27 maggio 2022.

Udienza penale e funerale di uno stretto congiunto possono essere compatibili. Il caso riguarda una persona sotto processo a Vercelli, che ha chiesto di partecipare ai funerali del padre e presentato, tramite il suo avvocato, istanza di legittimo impedimento. Di fronte alle norme, però, neppure una dolorosa vicenda personale può rendere meno rigidi i giudici. È l’amara constatazione alla quale si giunge prendendo in considerazione quanto accaduto in Piemonte. Il Tribunale di Vercelli è andato avanti spedito senza tener conto dell’istanza di legittimo impedimento dell’imputato, che però ha impugnato la sentenza di condanna davanti alla Corte di appello di Torino per poi giungere pure in Cassazione. Quest’ultima ha confermato quanto stabilito dal Tribunale, ma ha rivisto il trattamento sanzionatorio.

I giudici di secondo grado hanno preso in considerazione le due diverse esigenze dell’imputato, vale a dire l’orario di celebrazione del processo e quello dei funerali del padre, e hanno considerato l’impedimento non assoluto, riconoscendo comunque che lo stato emotivo dell’imputato può essere stato condizionato. Un’analisi fredda, scandita dall’incrocio dei dati – l’ora dell’udienza e quella di un evento tanto triste quanto intimo -, con la considerazione della «correttezza della decisione del Tribunale, sebbene indicativa di una modesta sensibilità dei componenti del collegio, che avrebbero potuto acconsentire ad un rinvio del processo». La difesa non ha mollato e ha chiesto l’intervento della Corte di Cassazione, ponendo l’accento sul coinvolgimento emotivo della persona imputata, in procinto di essere ascoltata in udienza (decisiva per le sorti del processo) e in uno stato emotivo alterato, considerata la concomitanza del funerale del padre. Poco più di una settimana fa la sentenza della Suprema Corte (la numero 19678 del 19 maggio). I legali del condannato hanno insistito sulla contraddittorietà della motivazione della Corte d’appello, che nel sottolineare la non assolutezza del dedotto impedimento ha, comunque, condiviso la tesi della mancanza di lucidità del ricorrente tale da giustificare una richiesta di rinvio del suo esame.

Qual è stata la strada seguita dalla Cassazione per giungere alle sue conclusioni? I giudici di Piazza Cavour hanno preliminarmente evidenziato che nell’atto di appello la difesa aveva impugnato la sentenza di primo grado anche in merito al rigetto della richiesta di differimento del processo, avanzata dal ricorrente per l’udienza del giorno in cui doveva celebrarsi il funerale del padre. In Corte d’appello il ragionamento dei giudici si è basato sugli orari. È stata affermata la natura non assoluta dell’impedimento, dato che il funerale del padre dell’imputato si sarebbe celebrato a Garbagnate Milanese nel primo pomeriggio (alle 14.30), mentre il processo ha avuto inizio davanti al Tribunale di Vercelli alle 9.43 e si è concluso alle 11.08 con la lettura del dispositivo.

I giudici di secondo grado hanno evidenziato che «l’imputato avrebbe avuto modo di presenziare tanto all’udienza (eventualmente chiedendo un rinvio per rendere l’esame dibattimentale ove fosse stato in condizioni emotive tali da non riuscire a difendersi adeguatamente), quanto al funerale del proprio padre, previsto per le ore 14,30 del pomeriggio», confermando la correttezza della decisione del Tribunale. Se l’impedimento non è assoluto, dunque, il processo si celebra e in udienza si deve andare. Inoltre, è stato sostenuto che «il difensore non aveva dedotto un impedimento assoluto ed effettivo dell’imputato, poiché l’udienza e il funerale non si sovrapponevano tra loro». Il carattere non assoluto dell’impossibilità dell’imputato di essere presente in udienza era collegato non alla natura dell’impegno quanto alla sua compatibilità con la presenza in udienza, che deriva da una verifica operata “a posteriori”. La valutazione, invece, si sarebbe dovuta basare – con l’utilizzazione anche del criterio della “probabilità” di cui al capoverso dell’articolo 420-ter  del Codice di Procedura penale – prima della sua celebrazione.

Dunque, il desiderio di portare l’ultimo saluto ad uno stretto congiunto non rappresenta un legittimo impedimento (assoluto) e si scontra con la freddezza delle norme, delle sentenze e della irremovibilità dei giudici.  Viene in mente il titolo di un recente libro del professor Gerardo Villanacci: “Giustizia cinica”.

«Non vi sopporto, avvocati!», l’agente fa lo show in aula. La Camera penale capitolina indice un’astensione: «Episodio assurdo che si somma a un mare di disagi». Valentina Stella su Il Dubbio il 28 aprile 2022.

«Vattene immediatamente fuori, io già non sopporto gli avvocati, pensa i detenuti!». Così si è rivolto ad un recluso, due giorni fa, al Tribunale di Sorveglianza di Roma, un agente della polizia penitenziaria, addetto alla gestione delle presenze di parti e avvocati durante le udienze. Il contesto fisico è quello di un corridoio a zig zag con legali e assistiti ammassati mentre sono in attesa di accedere all’aula. Il detenuto stava lamentando la lunga attesa, raccontano gli avvocati presenti, quando l’agente «allontanava e aggrediva verbalmente tutti i presenti con frase ingiuriose, minacciose e gratuitamente aggressive», e liquidava gli avvocati «con gesti della mano del tipo ‘ ciao’ per poi rinchiudersi nell’aula di udienza. Alle legittime rimostranze degli avvocati, beffeggiava i difensori dichiarando che lui ‘ aveva alle spalle già 37 anni di galera’ e non temeva nessuno».

La vicenda è stata fortemente stigmatizzata dal direttivo della Camera penale di Roma, che ha chiesto la rimozione dell’agente da quel ruolo, ha inviato una segnalazione al Provveditorato regionale per eventuali provvedimenti e ha indetto per il 26 maggio una giornata di astensione dalle udienze, con una manifestazione da tenersi insieme a tutte le Camere penali del Distretto. Come ci dice il presidente dei penalisti romani Vincenzo Comi, «quando un operatore addetto alla vigilanza prende a male parole gli avvocati e gli interessati con modi da sceriffo metropolitano e nessuno interviene, vuol dire che la misura è colma. Quello che è accaduto presso il tribunale di Sorveglianza è intollerabile, e se aggiungiamo le disfunzioni, le mancanze di personale, i ritardi nella gestione e trattazione dei procedimenti che riguardano persone private della libertà personale, non ci resta che adottare ogni forma di protesta a difesa dei diritti dei cittadini».

Aggiunge l’avvocato Maria Brucale, presente al verificarsi dell’episodio e responsabile della commissione Tribunale di Sorveglianza della Camera penale capitolina: «Nonostante il massimo impegno profuso dalla presidente del Tribunale di Sorveglianza, la dottoressa Vertaldi, sempre pronta a sostenere noi avvocati e a mettere in campo tutti gli sforzi per farci lavorare al meglio per i nostri assistiti, le risorse umane e materiali sono assolutamente carenti. A ciò si aggiungono problemi organizzativi, a cominciare dalle troppe udienze concentrate nello stesso giorno in spazi inadeguati e da tempi di definizione dei procedimenti patologici e incoerenti con la natura del giudizio di sorveglianza, teso al recupero e alla fruizione dell’offerta trattamentale delle persone ristrette».

Notificazione al difensore valida solo quando è chiaro che l’imputato “fugge” dal processo: la sentenza. È ispirata a un principio garantista, la pronuncia con cui le sezioni unite della Cassazione, lo scorso 14 aprile, hanno sancito in quali casi il tentativo compiuto tramite posta è equiparabile alla procedura con ufficiale giudiziario, e può dunque legittimare l’invio dell’atto al legale. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 28 aprile 2022.

È stata depositata lo scorso 14 aprile la sentenza a sezioni unite n. 14573/2022 con la quale il Supremo consesso è stato chiamato, a seguito di ordinanza di rimessione della Sesta penale della Cassazione, a pronunciarsi su una questione tanto tecnica quanto assai delicata. I temi oggetto della decisione toccano fondamentalmente due momenti, espressione del più generale e supremo diritto di difesa: la notificazione di un provvedimento a una persona imputata in un procedimento penale (nella specie, un decreto di citazione a giudizio) e – come conseguenza – il diritto dell’imputato ad essere messo nelle condizioni di poter partecipare concretamente ed attivamente allo stesso, con tutte le tutele e garanzie offerte dal nostro ordinamento.

In particolare, la questione portata all’attenzione delle sezioni unite concerne la legittimità o meno della “notificazione eseguita mediante consegna al difensore, ai sensi dell’art. 161, comma 4, c.p.p., nel caso in cui l’addetto al servizio postale incaricato della notificazione abbia in precedenza attestato l’irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato o eletto” e, più nel dettaglio, il rapporto tra il citato articolo e l’art. 170, comma 3 del codice di rito.

Le sezioni unite concordano sull’esistenza di due orientamenti interpretativi: il primo, basato sulla non perfetta sovrapponibilità della notificazione a mezzo postale e di quella a mezzo ufficiale giudiziario, che ritiene affetta da nullità assoluta la notificazione sostitutiva al difensore (art. 161, comma 4, c.p.p.) quando “accertata dall’addetto al servizio postale l’irreperibilità del destinatario nel domicilio dichiarato o eletto, non si sia attivata la notifica con le modalità ordinarie ai sensi dell’art. 170, comma 3, c.p.p.”; il secondo, che, onde evitare paradossi applicativi, ritiene riconducibile alla nozione di irreperibilità del destinatario, legittimando così la notificazione sostituiva al difensore, anche solo una mera “temporanea assenza dell’imputato al momento dell’accesso dell’ufficiale notificatore o la non agevole individuazione dello specifico luogo” (Cass. pen., sez. I, n. 23880/2021).

In questa seconda ipotesi, dunque, l’operatività dell’art. 170, comma 3, c.p.p. sarebbe circoscritta ai soli casi di prima notificazione all’imputato non detenuto, ossia a tutti quei casi in cui, mancando una dichiarazione o elezione di domicilio, vani i tentativi effettuati per eseguire la prima notifica, si perviene all’adozione di un decreto di irreperibilità.

Con la pronuncia in esame è stata adottata una posizione intermedia, tesa, da un lato, a non vanificare il procedimento di notificazione quando siano state rispettate le formalità previste dall’ordinamento, dall’altro, a garantire l’effettività della conoscenza del processo in capo all’imputato, anche alla luce dei moniti provenienti dalla giurisprudenza della Corte Edu nonché dalla novella del 2014 (l. 67/2014) in materia di procedimento in assenza.

La Corte, dunque, ritenuta la piena equiparabilità tra la notificazione di atti giudiziari a mezzo posta e quella compiuta personalmente a mezzo ufficiale giudiziario, ha concluso esprimendo che “nel caso di domicilio dichiarato, eletto o determinato ai sensi dell’art. 161, commi 1, 2 e 3, c.p.p. il tentativo di notificazione col mezzo della posta, demandato all’ufficio postale ai sensi dell’articolo 170 c.p.p. e non andato a buon fine per irreperibilità del destinatario, integra, senza necessità di ulteriori adempimenti, l’ipotesi della notificazione divenuta impossibile e/o dichiarazione mancante o insufficiente o inidonea di cui all’art. 161, comma 4, prima parte”.

In tali ipotesi le sezioni unite ritengono sufficiente, ai fini della regolarità, la notificazione sostituiva al difensore tranne che, come previsto nell’ultimo capoverso del comma 4 dell’art. 161 c.p.p., per caso fortuito o forza maggiore l’imputato non ha potuto comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto.

Questo arresto ha annullato tanto la sentenza della Corte distrettuale quanto quella del Giudice di prime cure ritenendo, sulla scorta di alcuni indici sintomatici, che:

1) l’imputato non avesse avuto effettiva conoscenza dell’instaurando procedimento (nella fattispecie, non avendo mai avuto per tutto il decorso processuale un reale contatto con il proprio difensore);

2) conseguentemente, la sua assenza non poteva ricondursi ad una scelta volontaria di rinunciare ad esercitare un proprio diritto ovvero di sottrarsi alla conoscenza dello stesso bensì ad un difetto circa la regolare costituzione del rapporto processuale.

Merita sottolineare, quindi, come questo importante principio sicuramente e condivisibilmente garantista si pone in linea di esatta continuità con quanto già previsto dalla cosiddetta riforma Cartabia, ratificandone in sostanza gli esiti: all’art. 1, comma 7, lett. a), infatti, si evidenzia la necessità di prevedere “che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo” mentre alla successiva lett. b) “che ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del processo, l’autorità giudiziaria possa avvalersi della polizia giudiziaria”.

Anche l’Autorità giudiziaria, pertanto, è aderente alla più attuale riforma: che possa questo esser da spunto per giungere ad un punto condiviso e non lesivo dei diritti dell’imputato.

*Avvocato, direttore Ispeg – Istituto per gli studi politici, economici e giuridici

«Lei è maleducata!». Avvocata insultata in aula perché in ritardo. La professionista di Messina è stata presa di mira dal giudice perché aveva un altro procedimento e si è collegata con sette minuti di ritardo all'udienza da remoto. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 13 maggio 2022.

L’avvocato che arriva con un leggero ritardo in udienza da remoto, giustificando il tutto perché impegnato in un altro procedimento, è da considerarsi “maleducato”. Non si tratta di una nuova norma di comportamento stilata da qualche magistrato, ma del rimprovero e dell’assunto al quale è giunto il presidente della sesta sezione della Commissione tributaria provinciale di Napoli.

La storia viene raccontata dalla diretta interessata, l’avvocata Daniela Agnello del Foro di Messina, con studio a Milano e nella città dello Stretto, penalista apprezzata anche per la rilevante giurisprudenza ottenuta in materia di giochi con le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Agnello è delusa e amareggiata per sé stessa e per l’intera categoria professionale alla quale appartiene, costretta ad affrontare un momento storico delicato in cui guardare al futuro con ottimismo non sempre è facile.

Tutto è accaduto lo scorso 6 maggio. L’udienza davanti ai giudici tributari contrappone una multinazionale e l’Agenzia dei Monopoli. L’ora di inizio dell’udienza sulla carta è fissato alle 9. Il collegamento a distanza, come riporta il verbale, risulta «perfettamente riuscito alle ore 9.43» con la presenza di entrambe le parti. Nella difesa della multinazionale, oltre alla avvocata Agnello, anche la collega Vittoria Varzi. Quest’ultima chiede «il rinvio per un tentativo di conciliazione con l’ufficio», considerata la momentanea assenza di Agnello. La Commissione tributaria provinciale non accoglie la richiesta di rinvio, ma alle 9.50 (sette minuti dopo l’inizio dell’udienza) interviene l’avvocata Agnello, che presenta una ulteriore richiesta – la riunione in trattazione di tre fascicoli -, rigettata a sua volta dalla Ctp. È in questa occasione che Agnello fa mettere a verbale la sua doglianza, evidenziando il suo disappunto verso la condotta del presidente della Sesta sezione che l’ha appena definita «maleducata e scorretta» per il ritardo risibile del suo arrivo in udienza con l’attivazione del collegamento da remoto.

«Non posso nascondere – dice al Dubbio Daniela Agnello – la mia amarezza per l’episodio che mi ha riguardato. Quanto accaduto manifesta offesa in pubblica udienza, insolenza, inadeguato rispetto della classe forense. Nel momento in cui ho attivato il collegamento da remoto ho subito riscontrato un atteggiamento ostile del presidente della Commissione tributaria provinciale. È stata concessa la parola al difensore, ma il presidente ha inveito nervosamente nei miei confronti, definendomi per più volte “scorretta e maleducata” per non essermi resa prontamente ed immediatamente disponibile sin dal momento dell’insediamento della Commissione. Il presidente, visibilmente agitato, ha reiterato le frasi offensive, continuando a definirmi “maleducata”. La vicenda è accaduta innanzi alla presenza degli altri giudici componenti la Commissione provinciale, del segretario di Cancelleria, dei funzionari dell’Agenzia dei Monopoli nonché colleghi difensori impegnati nella medesima controversia».

La professionista ha segnalato il caso al Coa di appartenenza, Messina, interessando pure l’Ordine degli avvocati di Napoli, la Commissione tributaria partenopea e la Camera degli avvocati tributaristi. «La vicenda – commenta Daniela Agnello – riassume la condizione in cui talvolta si trovano gli avvocati nell’esercizio della loro funzione. Una posizione ritenuta secondaria, subordinata e sulla quale risulta prevaricante lo strapotere attribuito alle altre parti processuali. Una vicenda di inaudita gravità che offende la dignità professionale dell’avvocato, spesso, troppo spesso, svilita e mortificata. L’auspicio è che si possa raggiungere in tutte le sedi giudiziarie un reale equilibrio, ma soprattutto un eguale rispetto per tutti i protagonisti della giurisdizione, nella reciproca stima dei ruoli, consentendo a ciascun attore della dinamica processuale di esercitare i propri diritti e poteri, le specifiche prerogative con equilibrio e moderazione, nell’interesse superiore della giustizia».

Avvocata insultata dal giudice, i Coa si mobilitano. La legale Daniela Agnello venne definita “scorretta e maleducata” dal presidente di sezione della Ctp di Napoli. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'11 giugno 2022.

Il caso dell’avvocata Daniela Agnello approda a Salerno: verrà affrontato per competenza dal Consiglio giudiziario presso la Corte di Appello e dal Consiglio dell’Ordine degli avvocati. Il 6 maggio scorso, nel corso di una udienza davanti alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, il presidente della sesta sezione ha definito la penalista “scorretta e maleducata” per il leggero ritardo con cui si è collegata da remoto per discutere una causa tra una multinazionale (difesa da Agnello) e l’Agenzia dei Monopoli. Una condotta, quella del giudice tributario, che non poteva passare inosservata.

La professionista, che ha studio a Milano e a Messina, ha chiesto l’astensione del presidente e l’intervento del Coa di appartenenza. È bene ricordare che il collegamento a distanza, come riporta il verbale, risulta «perfettamente riuscito alle ore 9.43» con la presenza di entrambe le parti e con orario dell’udienza fissato alle 9. Oltre alla avvocata Agnello, apprezzata in tutta Italia per la rilevante giurisprudenza ottenuta in materia di giochi con le sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la sua collega Vittoria Varzi. Quest’ultima ha chiesto in udienza «il rinvio per un tentativo di conciliazione con l’ufficio», considerata la momentanea assenza dell’avvocata Agnello. La Commissione tributaria provinciale però non ha accolto la richiesta di rinvio. Alle 9.50 (sette minuti dopo l’inizio dell’udienza) interviene Agnello, che presenta una ulteriore richiesta (la riunione in trattazione di tre fascicoli), rigettata dalla Commissione tributaria provinciale, chiedendo di far mettere a verbale le parole nel frattempo pronunciate dal presidente di sezione, circostanza, tra l’altro, non contestata nel medesimo verbale di udienza.

Nel mandare gli atti a Salerno il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Messina, presieduto da Domenico Santoro, evidenzia che costituisce «una lesione della dignità e del decoro della funzione difensiva svolta l’additare un avvocato, impegnato nello svolgimento del mandato professionale, quale maleducato e scorretto sol perché sopraggiunto tardivamente in udienza (malgrado un pur dedotto e contestuale impegno professionale)». Gli avvocati della città dello Stretto, inoltre, hanno manifestato «piena solidarietà alla collega Agnello per il disdicevole episodio». Sull’evolversi della vicenda interviene la diretta interessata. «Sono fortemente amareggiata – dice al Dubbio – per quanto accaduto. L’episodio sconveniente e offensivo poteva trovare un epilogo con delle formali scuse, pubbliche e private. Il provvedimento adottato dal Consiglio dell’Ordine di Messina con cui sono stati trasmessi gli atti al Consiglio giudiziario della Corte di Appello competente, per le valutazioni in merito al comportamento tenuto dal presidente del collegio in pubblica udienza, era inevitabile».

La mente ritorna al 6 maggio scorso. «Rammento – prosegue l’avvocata Agnello – che quel giorno mi sono collegata con la Commissione con sette minuti di ritardo, ma nella piena consapevolezza di non creare intralcio alla regolare trattazione del procedimento per la presenza del co-difensore. Quando ho attivato il collegamento da remoto, ho riscontrato sin da subito un atteggiamento ostile da parte del presidente di cui non ho precedenti ricordi di conoscenza. Prima di chiedere l’astensione dalle mie cause, ho chiesto se si volesse scusare pubblicamente, ma lui ha mantenuto l’atteggiamento ostile e offensivo al mio indirizzo e per l’intera categoria». Sicuramente l’amarezza è tanta per il nervosismo che alcune volte serpeggia in udienza e che intacca l’autorevolezza e la delicata funzione del difensore.

«Il Coa – conclude Agnello – ha ritenuto l’episodio lesivo della dignità e del decoro della funzione difensiva. Auspico, a questo punto, che in sede disciplinare si possano adottare i provvedimenti più idonei per rammentare all’intero mondo giudiziario l’importanza della funzione e del ruolo degli avvocati. Troppo spesso dobbiamo constatare la mancanza di rispetto nella dinamica processuale e un forte dislivello tra le due categorie professionali con il rischio di determinare inevitabilmente effetti negativi anche sull’espletamento del mandato difensivo e nel quotidiano perseguimento dei principi di equità e di giustizia. Nelle aule dei Tribunali italiani si devono esercitare i diritti di difesa garantiti dalla Costituzione della Repubblica nel pieno rispetto delle funzioni, con piena e incondizionata stima dei ruoli, consentendo a ciascun attore della dinamica processuale di esercitare i propri incarichi con determinazione, passione e professionalità».

«Così il tribunale ci ha negato il diritto di difesa in presenza». La denuncia di due legali di Roma che più volte hanno presentato istanza per trattare l'udienza in presenza, ottenendo sempre un rifiuto. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 maggio 2022.

«Riteniamo profondamente lesivo del diritto di difesa il fatto che non ci sia stato concesso di discutere una causa civile in presenza»: è quanto lamentano al Dubbio gli avvocati Roberto Di Napoli e Alessandro Martini del Foro di Roma. Siamo al Tribunale capitolino, sedicesima (ex terza) sezione civile. Il 29 marzo il Gop fissa l’udienza per il 16 maggio «in modalità esclusivamente cartolare, senza la presenza delle parti», adducendo nella premessa del provvedimento anche il riferimento al dl 18/2020, approvato durante la pandemia, che lascia discrezionalità ai capi di uffici per la trattazione delle udienze.

Il 4 aprile, la difesa, «ritenendo che la complessità e delicatezza della controversia rendessero necessario esporre alcune circostanze che non si prestano a essere sintetizzate nella nota di trattazione scritta e che, comunque, sia preferibile che l’udienza si svolga nel contraddittorio simultaneo», chiedeva che l’udienza fosse fissata in presenza. Il Gop rigettava l’istanza «attese le esigenze di ruolo». Gli avvocati Di Napoli e Martini presentano nuova istanza per ribadire la necessità dell’udienza in presenza, altresì «in considerazione del valore della causa (434.431,92 euro)», e per chiedere che essa fosse assegnata al giudice togato e non a quello onorario. Nulla da fare: il Gop respinge. I due legali non demordono e scrivono a presidente di sezione e presidente del Tribunale di Roima, rammentando: «La difesa continua a ritenere che la trattazione dell’udienza in presenza debba costituire la “regola” rispetto a quanto previsto dalla normativa emergenziale».

In essa, hanno sottolineato, «il legislatore, nel contemperare l’esigenza di salvaguardia della salute dal pericolo di infezione da covid-19 col diritto di difesa, ex art. 24 Cost. e 6 Cedu, pur prevedendo che il giudice possa disporre che l’udienza che non richieda la presenza delle parti o testimoni si svolga con trattazione scritta, ha previsto, tuttavia, che le parti possano richiedere che l’udienza si svolga in presenza. È stato più volte osservato che il diritto ad una udienza orale è una importante garanzia che può essere considerata una specificazione del “diritto ad un tribunale” consacrato dall’articolo 6 della Cedu”. Inoltre l’esercizio del diritto della parte o dei suoi difensori a partecipare personalmente all’udienza non può essere impedito da esigenze organizzative dell’Ufficio. Si ricorda, peraltro, che, come riconosciuto anche dai giudici di legittimità, l’art. 111 Cost. tutela il diritto al contraddittorio, insito nel diritto di difesa, a sua volta riconosciuto dall’art. 24 Cost». Sta di fatto che il presidente del Tribunale non ha risposto per ora ai due avvocati, mentre il presidente di sezione ha replicato che «in considerazione della carenza di organico non può provvedere diversamente. Le modalità di trattazione dell’udienza attengono alla discrezionalità del giudice».

I due avvocati sono molto amareggiati: «Se rientra nella discrezionalità del giudice fissare o meno l’udienza in presenza pur dinanzi ad una tempestiva istanza formulata dal difensore, come previsto dall’art. 221 l. 77/2020, c’è, allora, il pericolo che gli avvocati siano privati del contraddittorio “simultaneo”. Che, in alcuni casi, è fondamentale, soprattutto quando sia finanche imposto di limitare le note scritte alle sole istanze e conclusioni senza nemmeno poter replicare. La legge delega per la riforma del processo civile (l. 206/2021) prevede che il giudice potrà disporre l’udienza con trattazione scritta ma sempre che non vi sia opposizione di una delle parti. Come sarà interpretata l’eventuale opposizione all’udienza con trattazione scritta? Continuerà ad essere ritenuta “non vincolante” o soggetta all’apprezzamento del giudice?». Intanto ieri l’udienza è stata rinviata al 12 settembre.

Legali interrotti, captati, indagati: «Certe toghe ci confondono coi nostri clienti». Armetta, presidente del Coa di Palermo: «Dagli ultimi casi emerge una mancanza di rispetto per il nostro ruolo». Il report del Cnf porta l’allarme all’Unione Europea. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Esiste un timore per il ruolo e la funzione svolta dagli avvocati? Questo timore si trasforma in compressione del diritto di difesa? La risposta, se si pensa ai casi verificatisi da qualche anno a questa parte, è affermativa. A dimostrarlo è la Relazione del Cnf sullo Stato di diritto e l’indipendenza degli avvocati e degli Ordini forensi, presentata pochi giorni fa alla Commissione europea. Il documento ha consentito, come rilevato da Francesca Sorbi, capo delegazione presso il Ccbe (Consiglio dell’avvocatura europea), di fare il punto sulle condizioni in cui versa e opera l’avvocatura italiana, partendo dalla pari dignità che hanno i protagonisti della giurisdizione. A questi, senza distinzioni, sono riconosciute autonomia e indipendenza.

NELLA RELAZIONE DEL CNF ALLA UE ANCHE I CASI DI DIFENSORI INTERCETTATI

Sulla realizzazione del diritto di difesa, tenendo conto della segretezza e riservatezza delle conversazioni e l’interferenza dei giudici, sono stati portati a conoscenza di Bruxelles alcuni casi. Il primo ha riguardato un penalista del Foro di Roma, sottoposto a intercettazioni per più di due anni, dopo l’avvio di un’indagine sulla presunta partecipazione ad una associazione per delinquere con i suoi assistiti. Una “prassi disfunzionale”, ha rilevato il Cnf, tendente ad affermare un «metodo d’indagine che non rispetta le prerogative della difesa, né la presunzione di innocenza».

Un tema di grande attualità è quello dell’interferenza dei giudici che può implicare l’interruzione della funzione di difesa. I vertici di via del Governo Vecchio, nel conferire con la Commissione europea, hanno rilevato in alcuni casi una «deriva inquisitoria nella fase centrale dell’udienza con l’emergere di comportamenti che connotano un eccesso dell’uso del potere discrezionale del Giudice, se non un abuso di potere, consistenti nel limitare i diritti della difesa in fase di esame e contro esame, impedendo, ad esempio, di porre domande o escludendo arbitrariamente la loro rilevanza». Tra le vicende segnalate quella degli avvocati Borzone e Capra.

Durante un’udienza, un giudice ha interrotto senza troppi convenevoli il controesame dei testi, ostacolando, di fatto, l’attività difensiva. A Lecce, invece, un altro avvocato ha deciso di rinunciare al proprio mandato, poiché si è trovato in palese disaccordo con la condotta del giudice, e ha ritenuto «negato il corretto esercizio delle proprie funzioni nel corso di un procedimento». Il 2022 ha fatto registrare altri casi in cui il diritto difesa è stato messo a dura prova. In un processo penale gli avvocati del Foro di Milano Enrico Visciano e Alfredo Partexano, nel corso della loro arringa, hanno fatto i conti con un atteggiamento singolare del giudice che ha cercato di abbandonare l’aula di udienza.

«Durante le arringhe presso il Tribunale di Monza – spiegano i due legali –, ci siamo imbattuti in molteplici interruzioni, nonostante i richiami di noi difensori rispetto all’impossibilità assoluta di interrompere un’arringa finale quale momento sacramentale del rito. Anche l’imputato, non dimentichiamolo mai, ha dei diritti. Le interruzioni sono state poste in essere sia dal difensore di parte civile sia dal giudice, che abbiamo richiamato affinché tornasse al proprio posto con i faldoni in mano nel momento in cui decise di allontanarsi dall’aula. Solo con le nostre proteste rivolte al giudice siamo riusciti a concludere le arringhe».

La sentenza emessa al termine del processo ha, poi, riservato una sorpresa. L’assistita di Visciano e Partexano è stata condannata a quattro anni di reclusione, ma a meravigliare gli avvocati sono state le parole scritte dal giudice. Le conclusioni alle quali è giunto sono singolari: gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani », rischiano quanto la persona difesa. Un assunto che stride con la “sacralità” del ruolo del difensore.

E ORA SCATTANO INDAGINI SUGLI AVVOCATI CHE CHIEDONO IL LEGITTIMO IMPEDIMENTO

Nelle ultime settimane grande clamore ha destato il “caso Murano”. L’avvocato Antonio Murano del Foro di Potenza è stato indagato e sottoposto a controlli nel suo studio legale di Rionero in Vulture, dopo essersi assentato in una udienza penale per motivi di salute, certificati da un medico. Con la trasmissione del verbale di udienza in Procura il professionista ha ricevuto la visita fiscale in casa. Il medico si è presentato accompagnato dai carabinieri. Sono state sottoposte ad interrogatorio diverse persone, compresi i familiari del penalista, e il suo studio legale ha subito un controllo per visionare l’impianto di videosorveglianza e acquisire le registrazioni.

ARMETTA: «A MAGGIOR RAGIONE URGE LA RIFORMA SUI CONSIGLI GIUDIZIARI»

«Mi piacerebbe – commenta Antonello Armetta, presidente del Coa di Palermo – se più che di paura o timore si parlasse del dovuto rispetto per gli avvocati. I fatti di Potenza non fanno che confermare come, tra alcuni componenti del complesso sistema giustizia, l’avvocato goda della stessa considerazione di cui gode il suo assistito, quasi a voler immaginare una sovrapposizione tra i medesimi, che è figlia di una assoluta mancanza di cultura giuridica. Tale approccio dovrebbe far riflettere molto sulla stessa capacità di alcuni di indagare e giudicare».

Per questo motivo, secondo Armetta, «non ci si stupisce della ritrosia ad ammettere il diritto di voto degli avvocati nei Consigli giudiziari, che l’avvocatura deve pretendere senza se e senza ma». «L’amministrazione della giustizia – conclude il presidente del Coa palermitano – impone un controllo che solo gli avvocati possono garantire. Risponde al superiore interesse pubblico gravemente compromesso dai recenti fatti di cronaca, che hanno intaccato la credibilità dell’intero sistema giustizia. La resistenza cui assistiamo non fa che confermare l’assoluta necessità di una operazione trasparenza ineludibile e urgente».

Placanica: «Per i pm il sistema giustizia è chiuso e noi siamo intrusi». Parla l’avvocato penalista: «Il magistrato ha una concezione autoritaria della giustizia, che però porta a distorsioni. L’unico modo per evitarle è un efficace ed effettivo sistema di controllo». Simona Musco su Il Dubbio l'11 aprile 2022.

«La diffidenza della magistratura nei confronti degli avvocati non è altro che un meccanismo di autoprotezione: il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e l’avvocato deve essere tenuto fuori, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”». A dirlo è Cesare Placanica, ex presidente della Camera penale di Roma, che al Dubbio spiega il perché di una insofferenza sempre più palese.

I casi di Potenza e Brescia rappresentano una degenerazione del rapporto tra magistratura e avvocatura. Ritiene che ci sia una sorta di timore, da parte delle toghe, nei vostri confronti? 

Credo sia doveroso, intanto, distinguere il “bestiario” da quello che accade normalmente. I casi di Potenza e Brescia sono patologici e il dato patologico va isolato e va affrontato, evitando un approccio massimalista al problema, non serio e neanche corretto. Al tribunale di Roma, faccio un esempio, non ho mai visto trasformare il certificato medico in notitia criminis. Ma lo dico come dato obiettivo anche rispetto all’autorevolezza della classe forense, che non è al punto di essere messa in discussione, da questo punto di vista. Il discorso è, in realtà, molto più serio e profondo quando riguarda non il dato patologico, ma l’approccio alla gestione della giustizia.

In che senso?

Faccio un esempio: chiunque voglia occuparsi di capire un problema del sistema giustizia deve per prima cosa ancorarsi ai dati. Noi avvocati abbiamo da anni, sulla scorta della nostra esperienza, la sensazione che l’udienza preliminare sia completamente fallita, perché nessun giudice, anche per motivi tecnici, fa effettivamente da filtro. E abbiamo anche la sensazione di un fallimento rispetto a quello che era la funzione di controllo vera e propria del gip rispetto al pubblico ministero. Faccio questo lavoro da 31 anni e non credo ci sia la dovuta diffidenza nell’approccio del gip rispetto all’ufficio del pubblico ministero. Piuttosto c’è l’opposto, un approccio “confidente”.

Per “diffidenza” intende un approccio critico al materiale probatorio? 

Sì. Il giudice deve riscontrare che l’impostazione e l’idea accusatoria siano effettivamente fondate, soprattutto nella fase dell’applicazione della misura cautelare. Anche rispetto ai Tribunali della Libertà di tutta Italia abbiamo la sensazione che il vaglio non sia così approfondito come dovrebbe essere. Noi abbiamo un sistema che in nessun modo accetta il rischio di un colpevole condannato e che invece, fisiologicamente, accetta il rischio di un colpevole mandato assolto. Può sembrare anche non bello: chi non ha sensibilità democratica e liberale ripudia questo concetto.

Quando quel famoso magistrato dice che si tratta di colpevoli che la fanno franca è perché lui, per sua sensibilità culturale e giuridica, non accetta la possibilità del colpevole che, per insufficienza del materiale probatorio, venga assolto. Invece il sistema questo lo pretende. Quello che un sistema democratico non può accettare è l’opposto: il bicchiere deve essere visto sempre mezzo pieno e mai mezzo vuoto. Questo approccio critico, dicevamo, non c’è. E tornando al discorso originario, per capire se questa sensazione sia una follia o anche soltanto una cattiva impressione dovuta alla prospettiva in cui si pone l’avvocato, esattamente opposta a quella del pm, basterebbe cominciare ad analizzare i dati statistici. E dire quante misure cautelari siano accolte e quante rigettate. Sarebbe interessante. Perché se viene rigettata la metà delle richieste allora, forse, avrebbe ragione il pubblico ministero. Ma se ne viene accolto il 99% allora forse abbiamo ragione noi a dire che non c’è un vero vaglio.

E i dati cosa dicono?

Vengono, con dolo, tenuti nascosti. Eppure non sono di chi amministra la giustizia, perché il sistema giustizia è gestito dalla politica, nel senso più alto e più nobile del termine, e i protagonisti del sistema giustizia, con funzioni diverse e con pari dignità, sono tutti essenziali allo scopo finale di un processo, che è quello di accertare il più possibile come siano andati dei fatti, scongiurando soprattutto il pericolo di condannare un innocente.

Da cosa dipende questa diffidenza rispetto alla classe forense? 

È un meccanismo di autoprotezione, una visione filosofica autoritaria e autocratica della gestione della giustizia. Il magistrato si sente come il buon padre di famiglia e non ce l’ha con l’imputato, perché non farebbe nulla contro di lui. Il cittadino è oggetto della giustizia. E per quanto quella dell’avvocato sia una funzione pubblica, che non fa parte del sistema autoritario, deve essere tenuto fuori dal sistema giustizia, perché lui sì che viene inteso come soggetto che ha un interesse “partigiano”. Quindi il pm “imperatore” gestisce tutto autonomamente, perché si percepisce come imparziale, caratteristica che non attribuisce al soggetto con il quale dovrebbe interloquire. Questa concezione autoritaria è smentita dalla storia, perché inevitabilmente porta verso distorsioni. E l’unica cosa che non consente le distorsioni è un efficace e vero sistema di controllo. Le degenerazioni del caso di Palamara sono dovute proprio a questo: dalla mancanza effettiva di controllo, che può avvenire solo con la trasparenza.

A tal proposito, una forma di “controllo” potrebbe essere rappresentata dal diritto di voto agli avvocati nei Consigli giudiziari, soluzione molto criticata dai magistrati. Secondo lei perché?

È l’unico modo per evitare una deriva che è sistematica di ogni sistema chiuso. Il potere si autoalimenta, non accetta il contraddittorio, tutto quello che è al di fuori è sbagliato e ha necessità proprio di una chiusura. E il controllo, perché sia effettivo ed efficace, pretende trasparenza. Il che vuol dire che io devo stare lì dentro, devo vedere e devo poter decidere. Altrimenti è un soliloquio. Ed è per questo l’idea che non piace.

Un altro esempio di diffidenza ha riguardato la sentenza della Consulta sulla segretezza della corrispondenza tra detenuti al 41 bis e difensori: per alcuni magistrati significava autorizzare la consegna di veri e propri pizzini tramite l’avvocato.

Come dissi a Travaglio, quella considerazione è stata vergognosamente offensiva. Intanto perché appena si scopre che un avvocato si presta a cose del genere deve essere ovviamente radiato dall’ordine e processato, e l’avvocatura deve costituirsi parte civile. Ma siamo sempre nell’ambito del patologico. La Consulta si è posta il problema e ha detto che è una facoltà connaturata al diritto di difesa, che c’è in ogni Stato democratico, quindi ha un rango primario rispetto ad un’eventuale possibile patologia di fondo.

Dopodiché la Corte ha detto chiaramente che una riflessione su questo dato si potrebbe fare se fosse patrimonio acquisito alla nostra conoscenza l’esistenza di una ricorrente trasgressione, da parte della classe forense, del divieto di legge di non portare notizie di mafia dal boss detenuto ai suoi consociati. Siccome questo dato empirico non esiste e non esiste una prassi – e nemmeno un’apprezzabile casistica -, come hanno detto i giudici, né è ipotizzabile, questa riflessione non può essere fatta. Fermo restando che se si arrivasse a fare il dibattito bisognerebbe capire cosa sacrificare rispetto a un’esigenza di polizia. È così brutale, disarmante e miserabile il ragionamento che è stato fatto da non poter essere preso in considerazione. Ma questo è il sintomo della volontà di minare una gestione che sia effettivamente democratica della giustizia.

Quale potrebbe essere la soluzione?

Intanto vorrei dire che l’avvocato nel Consiglio giudiziario non ha interesse a starci. L’interesse è della collettività, che vuole garanzie sul fatto che un potere incredibile ed eccezionale come quello di somministrare giustizia abbia un serio controllo. E quindi non è un problema dell’avvocato, ma del cittadino. Quello che si deve fare, poi, è parlarne. Far capire alle persone di cosa si tratta, demistificando gli argomenti che vengono scientificamente introdotti, fuorvianti e irrilevanti rispetto al tema di cui si parla, sempre agitando le paure e banalizzando patologie che esistono ed esisteranno sempre. Ma nessuno sogna di togliere le pistole alla polizia perché ogni tanto qualcuno perde la testa.

Quando il pm si pone (ma non si sente) fuori dalla giurisdizione. I casi di Potenza e Brescia denotano il germe di un intollerabile pregiudizio nei confronti della funzione difensiva. Pasquale Annicchiarico, Presidente della Camera Penale di Brindisi, su Il Dubbio il 12 aprile 2022.

In questi ultimi tempi si sono verificati episodi nelle aule dei tribunali che hanno destato non poche perplessità tra noi avvocati a seguito di alcune decisioni assunte da pubblici ministeri insofferenti tanto ad istanze difensive, quanto a provvedimenti del giudicante.

Come riportato nei giorni scorsi da articoli di cronaca, a Potenza un avvocato che aveva presentato un’istanza di rinvio per impedimento dettato da motivi di salute si è visto raggiunto da carabinieri con medico al seguito affinché venissero accertate le sue condizioni, con successiva ulteriore “visita” in studio per l’acquisizione di eventuali filmati dal sistema di videosorveglianza. Il tutto, su iniziativa del pubblico ministero, nonostante il tribunale avesse accolto la richiesta di differimento senza disporre alcun tipo di accertamento. A Brescia, sempre a seguito di un’istanza di rinvio di un avvocato che adduceva quale legittimo impedimento la tumulazione della salma della madre, il pubblico ministero ha disposto che venisse verificato se quanto dedotto dal legale corrispondesse al vero, inviandosi anche in questo caso le forze dell’ordine per gli accertamenti del caso.

I contorni di queste vicende – su cui è già intervenuta tempestivamente la Giunta dell’Ucpi – saranno chiariti nelle sedi opportune, in cui ognuno potrà fornire le giustificazioni che ritiene. Ma indipendentemente da quanto verrà accertato nel merito, quel che sconcerta ed appare ingiustificabile è come – pur in presenza di rinvii improduttivi di effetti processuali pregiudizievoli per la contestuale sospensione dei termini di prescrizione – ci si sia determinati a perseguire intenti inquisitori così invasivi, che denotano plasticamente in tutta la loro ampiezza il germe neppure tanto velato di un intollerabile pregiudizio nei confronti della funzione difensiva.

Non mi risulta che avvocati abbiano mai stigmatizzato o anche solo sindacato i ritardi conseguenti ad impedimenti di pubblici ministeri per motivi di salute o eventi luttuosi (o anche di altro genere, mai neppure esplorati), che comportano allontanamenti dal lavoro d’ufficio o da attività di udienza. Ma – come sempre – ognuno si porta dietro il suo stile di vita. Allorché però – soprattutto quando in gioco è il tema della separazione delle carriere – si rivendica a gran voce la “cultura della giurisdizione”, sia consentito ricordare, a chi si pone in quel modo nei confronti di una categoria cui va riconosciuta pari dignità e rispetto, come la cultura del sospetto sia ontologicamente e palesemente incompatibile con quella della giurisdizione.

Check point in tribunale, i penalisti calabresi: «Trattati come pericolo pubblico». Divieto di parcheggio all’aula bunker di Lamezia, controlli e sospetti nei confronti dei legali. La denuncia delle Camere penali calabresi: «Pari dignità in discussione». Valentina Stella su Il Dubbio il 7 aprile 2022.

«In difesa del prestigio dell’avvocatura e per la rimozione di ogni ostacolo alla pari dignità tra tutti gli attori della giurisdizione», è il titolo di un documento licenziato dalle Camere penali calabresi – Catanzaro, Crotone, Lamezie Terme, Vibo Valentia – per stigmatizzare quanto sta avvenendo negli ultimi giorni durante i processi contro la criminalità organizzata, a partire da Rinascita Scott e Imponimento.

«Da qualche giorno – scrivono i penalisti – agli avvocati impegnati nei processi presso l’aula bunker di Lamezia Terme è inibito, per presunte e non meglio esplicitate ragioni di sicurezza, parcheggiare le auto nello sconfinato piazzale dell’edificio giudiziario». Chi abbia emesso il provvedimento non è dato sapere. Bocche cucite da parte degli agenti e militari chiamati a garantire la sicurezza. Comunque fino a qualche giorno fa, «l’avvocatura, e non solo, vi accede(va) previo controllo da parte dei militari dell’esercito – un vero e proprio check-point – i quali registrano e annotano targa e documenti, previa verifica anche della effettività dell’impegno professionale. Inoltre, prima di accedere alla sede giudiziaria i difensori sono sottoposti ad ulteriori controlli, attraverso la verifica dell’identità personale (nuova annotazione del nome e numero di tessera professionale sul registro tenuto dalle guardie giurate della vigilanza privata) e al passaggio dal metal detector ogni qual volta si entra ed esce dall’aula».

Poiché, però, criticano i penalisti, «l’avvocato rappresenta all’evidenza un “pericolo” per l’ordine pubblico e l’incolumità personale – di chi, lo si può solo intuire», è apparso «necessario implementare i presidi di sicurezza al fine di neutralizzare la fonte di rischio, vietando l’utilizzo agli avvocati del predetto “piazzale”, già distante circa 300 mt. dall’aula». Sia inteso, precisano, «qui non si tratta di rivendicare un diritto corporativo al posto auto (ora relegato in un luogo distante circa 800 mt.); è in gioco, invece, il doveroso e reciproco rispetto che tutti gli attori della giurisdizione dovrebbero reciprocamente riconoscersi come terreno minimo comune sul quale edificare e garantire il buon andamento della vita giudiziaria». Inoltre «presso il Tribunale e la Corte D’appello di Catanzaro è stato introdotto, da pochi giorni, per i soli avvocati (non anche per magistrati, personale di cancelleria, addetti all’ufficio del processo, guardie giurate, carabinieri, fonici, etc) il controllo di borse e valigette sul nastro trasportatore del metal detector. Sicché, all’evidenza, l’avvocato è considerato come “fonte di pericolo per la sicurezza pubblica”. Nella casistica delle circostanze, dei luoghi comuni o di quant’altro possa svilire e attaccare il ruolo difensivo, questa mancava».

Il problema, secondo le Camere Penali, è che «dilaga la cultura del sospetto, l’utopia securitaria rappresenta l’ennesimo e ingiustificato attacco nei confronti dell’avvocatura, degno di un regime illiberale, in cui il difensore è avvertito come un nemico del popolo e, come tale, merita di essere avversato». La questione è stata sollevata nell’udienza del 1 aprile dall’avvocato Michele Andreano, che ha anche ricordato che «anche il bar è stato chiuso e quindi neanche una bottiglietta d’acqua si può prendere in questa maestosa Aula, ma siamo costretti anche, come dire, a portarci i viveri e le bevande». Sembrerebbe perché qualcuno tema che gli imputati a piede libero possano parlare tra loro davanti ad una tazza di caffè.

A lui, durante l’udienza, si sono poi associati altri colleghi, tra cui l’avvocato Vincenzo Comi (che è anche presidente della Camera Penale di Roma) difensore di uno degli imputati, che ci dice: «Si tratta di una vera e propria anomalia, soprattutto in un momento così delicato per l’organizzazione dei processi e per il rispetto delle prerogative difensive. Cosa sia accaduto negli ultimi giorni di così grave da inibire a noi avvocati l’utilizzo del parcheggio non è dato sapere. Durante l’udienza ho chiesto che della questione venisse investito il presidente del Coa, il presidente della Corte di Appello e quello dei penalisti del capoluogo. È come se magistrati e cancellieri entrano dalla porta principale mentre noi avvocati da quella di servizio. Questo non è tollerabile». Per tutto questo le camere penali firmatarie del documento chiedono «che il presidente della Corte e il procuratore generale del distretto di Corte D’Appello di Catanzaro, ognuno nelle rispettive competenze, revochino, con effetto immediato, i provvedimenti che hanno determinato il trattamento discriminatorio riservato all’avvocatura».

Brescia, il pm manda i carabinieri per verificare se la mamma dell’avvocato è davvero morta. Il legale del foro di Varese aveva chiesto il rinvio delle udienze previste per il 20 dicembre per assistere alla cremazione. Valentina Stella su Il Dubbio l'1 aprile 2022.

Dopo l’incredibile vicenda dell’avvocato di Potenza Antonio Murano (il professionista ha richiesto il differimento dell’udienza per motivi di salute, ma il magistrato ha deciso di mandargli a casa i carabinieri e un medico), oggi vi raccontiamo un’altra storia forse ancora più surreale che arriva da Brescia. La Procura non si sarebbe fermata neanche dinanzi al cadavere della madre dell’avvocato.

Il protagonista, suo malgrado, di questo increscioso episodio, è il legale Corrado Viazzo del foro di Varese, che ci racconta cosa è successo. È anche tutto riassunto in una richiesta di sanzione disciplinare nei confronti del pubblico ministero, antagonista della narrazione, al Procuratore Generale di Cassazione Giovanni Salvi che il legale ha inviato subito dopo i fatti. «Dopo 30 anni di carriera forense (70 se consideriamo l’anzianità del mio studio) ho dovuto agire così per una questione che fa torto all’integrità e probità della magistratura». Al momento da piazza Cavour nessuna risposta. Ma vediamo nel dettaglio.

Sua madre muore improvvisamente mercoledì 15 dicembre 2021. Il funerale viene celebrato due giorni dopo mentre la cremazione viene fissata per il lunedì 20 dicembre, inizialmente senza un orario definito. Pertanto il venerdì l’avvocato Viazzo chiede il rinvio di tutte le udienze previste per il 20, compresa una dinanzi al Tribunale di Brescia. La mattina del 20, mentre era “in preparazione spirituale alla cremazione” riceve una telefonata da chi gestisce il centro per le cremazioni. Gli dicono che si sono presentati i Carabinieri «per accertare – su ordine della Procura di Brescia – l’identità della salma e chi fosse il figlio. Ovviamente vado nel panico, visto il momento, perché non capisco cosa stia accadendo».

In pratica l’avvocato Viazzo viene a sapere, da un suo collega nominato d’ufficio, che un pm aveva inviato i militari dell’Arma «per le verifiche del caso (cioè se mia mamma fosse morta o viva, immagino, e a che ora fosse fissata l’operazione di cremazione). Sulla base di questo, chiedeva il rigetto dell’impedimento e la trasmissione degli atti al mio Consiglio dell’Ordine, cosa che il giudice faceva di buon grado». Commenta così il legale: «Il pm può dubitare di tutto, anche se di fronte alla morte dovrebbe esserci un limite. Può pure chiedere il rigetto del legittimo impedimento perché la cremazione non è impedimento assoluto. Certo però non può inviare i carabinieri a identificare una salma, perché un avvocato ha chiesto il rinvio di un processo dove era prevista l’audizione di un solo teste del pm, che oltretutto per la terza o quarta volta di seguito non si è neppure presentato». Inoltre «è stata gravemente offesa la pietas verso mia mamma e il mio stesso sentimento religioso. Se proprio questo pm dubitava della morte, poteva fare accertamenti presso l’impresa funeraria, oppure chiamare telefonicamente il centro cremazioni. Inviare una pattuglia è stato un gesto di oltraggio verso la defunta (io credo nella vita dopo la morte), oltre che un discredito assoluto verso la mia persona».

E aggiunge: «Immagino che il pm si difenderà dicendo che l’ora della cremazione era serale, e quindi ben potevo andare a Brescia. Osservazioni prive di senso, sia perché l’ora a me è stata comunicata solo alle 12:55, sia perché – quanto alla mia partecipazione al rito – non avevo nessun obbligo di preavvisare, ma solo di presentarmi in tempo. Mica stavo andando ad un ricevimento di gala». L’avvocato, davvero afflitto e sconcertato per quanto accaduto, ci confessa che alla fine «sono rimasto talmente amareggiato che alla cremazione non ci sono andato, per timore di trovare carabinieri o finanzieri. Mi pare che un comportamento così grave ed oltraggioso della memoria di una defunta vada sanzionato, non tanto per me o mia mamma, ma per il decoro della categoria dei magistrati».

Lo strano caso di Potenza. GIULIA MERLO su Il Domani l'01 aprile 2022.

Questo è un nuovo numero di In contraddittorio, la newsletter di Domani sulla giustizia.

Ogni settimana, tutte le notizie giuridiche degli ultimi giorni, il dibattito tra magistrati e avvocati, le novità legislative e l’analisi delle riforme.

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Cari lettori,

il dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario prosegue nel suo consueto e difficile iter, che potrebbe concludersi con un accordo politico entro lunedì. Per cambiare focus dopo molti numeri dedicati a questo, la newsletter di questa settimana sceglie di occuparsi in particolare di un caso che ha coinvolto il foro di Potenza e che ha visto coinvolti un avvocato e un pm. Trovate i dettagli nella mia ricostruzione, ma certamente la vicenda non è ancora chiusa.

Sul fronte dei contributi, invece, questa settimana vengono ospitati due commenti sul tema del conflitto ucraino, ma sul fronte delle sue implicazioni costituzionali. La giurista Vitalba Azzollini affronta il tema del conflitto per capire se e come il nostro paese può entrare in guerra.

Sempre su questo tema, il filosofo Pasquale Pugliese si interroga sulla liceità dell’invio di armi in Ucraina alla luce dell’articolo 11 della Costituzione.

LO STRANO CASO DI POTENZA

La storia è talmente singolare da far supporre che ci sia ancora qualcosa di non emerso. Eppure, per ora ha provocato scompiglio nel foro di Potenza e uno scontro molto duro tra avvocati e la procura guidata da Francesco Curcio. Il caso è già arrivato al procuratore generale di Cassazione e anche alla ministra della Giustizia, con una interrogazione del senatore di Italia Viva, Giuseppe Cucca.

Riassumendo i fatti: un penalista chiede il rinvio di una udienza per legittimo impedimento, presentando un certificato medico. Il giudice la accoglie, la procura invece gli manda i carabinieri a casa per un’ispezione, sente i suoi familiari, poi convoca il medico. Ora sono entrambi indagati.

Le reazioni sono state molte: tutto il foro e i vertici nazionali hanno condannato l’iniziativa del procuratore. Mentre il procuratore capo di Potenza, Francesco Curcio, ha scritto una nota in cui spiega che «non si è proceduto ad indagini in ragione della mera allegazione del certificato medico», ma sulla base «sia del vernale riassuntivo di udienza del tribunale» e «soprattutto sulla base si ulteriori e diverse circostanze di fatto concernenti la certificazione medica di cui si parla, che hanno reso doverosi gli accertamenti in corso».

La presidente del Cnf, Maria Masi, ha chiesto al procuratore generale di Cassazione, Giovanni Salvi, di occuparsi del caso e lui ha risposto positivamente, aggiungendo però una frase di auspicio che il «Consiglio Distrettuale di Disciplina di Potenza stia agendo con la medesima tempestività ai necessari, paralleli accertamenti».

All’esito di una assemblea degli iscritti indetta dall’Ordine degli avvocati di Potenza, sono stati proclamati 8 giorni di sciopero.

Tuttavia, è ancora in corso un ulteriore giallo: circolano infatti due verbali di udienza, che divergono in modo evidente. Il primo, redatto a mano e in forma riassuntiva, dà conto dei fatti come raccontati dall’avvocato. Il secondo, redatto in stenotipia durante l’udienza fa luce sulle ragioni per le quali il pm sarebbe intervenuto: a fargli sospettare che il certificato medico fosse falso, è stato il fatto che pochi giorni prima l’avvocato aveva fatto istanza di rinvio per legittimo impedimento, adducendo altra udienza concomitante in diverso foro, il pm chiede di fornire documentazione della convocazione d’udienza ma l’avvocato non risponde più. Salvo poi depositare richiesta di rinvio con certificato medico.

I dettagli sono molti, ho provato a ricostruirli in questo articolo.

LA RIFORMA DELL’ORDINAMENTO GIUDIZIARIO

Non sembra accennare a risolversi l’impasse intorno alla riforma dell’ordinamento giudiziario. Tuttavia, dopo numerosi incontri tra la ministra e la maggioranza e un nuovo slittamento dell’approdo in aula – ora fissato al 19 aprile – il tempo sembra essere finito.

La ministra ha fissato un nuovo incontro per il prossimo lunedì, prevedendo che non venga aggiornato fino a che non si sarà trovato l’accordo.

Infatti, il presidente della commissione Giustizia, Mario Perantoni, ha stabilito che martedì si inizierà necessariamente a votare il testo, visto chesono arrivati anche i pareri del governo sulle proposte emendative presentate dai gruppi. «L'approdo in aula è previsto per il 19 e non sono pensabili ulteriori rinvii». 

Il punto più critico rimane il sistema elettorale del Csm: il centrodestra e Italia Viva non demordono sul sorteggio, il ministero invece lo ritiene incostituzionale. Sono al vaglio soluzioni di mediazione, come il sorteggio dei collegi, invece che dei candidati. L’ipotesi, però, non convince i partiti. Con il risultato che tutto rimane rinviato a lunedì.

QUI MILANO: L’ATTACCO A DE PASQUALE

Non c’è pace per la procura di Milano, oggi gestita dal facente funzioni Riccardo Targetti, in attesa che il Csm nomini il nuovo procuratore capo. Il terremoto che è stato il caso Amara è ancora fresco e gli attriti in procura rimangono forti, come ha dimostrato una assemblea tra sostituti e aggiunti convocata da Targetti.

In quella sede è emersa la necessità di riequilibrare i carichi di lavoro, soprattutto visti i bassi numeri di fascicoli gestiti dal terzo dipartimento, quello dei reati economici transnazionali guidato dall'aggiunto Fabio De Pasquale.

Per questo Targetti ha emesso un provvedimento provvisorio che durerà fino al 25 giugno, in cui si vuole porre rimedio alla «importante anomalia riguardo al III Dipartimento» (quello dell’indagine Eni-Nigeria), costituito dall’ex procuratore capo Francesco Greco, in merito alla «significativa sproporzione nelle assegnazioni di fascicoli».

In un triennio il pool di De Pasquale ha avuto sopravvenienze di 82 fascicoli, mentre gli altri dipartimenti hanno numeri che superano il migliaio, come i circa 7mila del pool “fasce deboli”.

L’assemblea ha avuto momenti di forte contrasto: De Pasquale avrebbe mostrato un documento con le firme di 22 pm per il riassetto degli incarichi, sostenendo che era fuori ruolo che alcuni procuratori criticassero il lavoro dei colleghi in quel modo e sollevando possibili profili formali e disciplinari.

In ogni caso, ora il III Dipartimento dovrà farsi carico delle truffe assicurative e i fascicoli della "materia ordinaria", come calunnie, diffamazioni e appropriazioni indebite.

Il III Dipartimento, però, è da anni un tema scottante e, come si legge nei verbali allegati al provvedimento di Targetti, alcuni magistrati hanno parlato di «creazione del dipartimento che ha creato un vulnus». 

In particolare, la pm Giancarla Serafini ha parlato di «malcontento di sostituti», che è «alimentato dal fatto che ci sono pm che si possono permettere di fare indagini importanti perchè non gravati da una massa enorme di fascicoli» e che «vedono con assoluto fastidio il privilegio di chi invece le indagini si può permettere di farle».

In ogni caso, De Pasquale e gli altri 5 pm del Dipartimento hanno scritto una lettera in cui dicono che «in un'ottica di solidarietà d'ufficio e sino alla definizione dei nuovi criteri organizzativi, la disponibilità ad un aumento delle assegnazioni dell'ordinario».

CALANO I REDDITI DEGLI AVVOCATI

L’ordine degli avvocati di Milano ha svolto insieme all’Università Cattolica un sondaggio per valutare l’impatto del covid sui redditi degli avvocati milanesi.

Su un campione di 810 avvocati che hanno risposto, «il 56% ha visto ridursi il proprio reddito personale» e circa la metà di questi ha avuto «un calo tra il 10 e il 50%».

Tra i numeri contenuti nel documento ci sono quelli sull'impatto dell’emergenza sanitaria sulla professione: tra i 447 titolari di studio o soci di società tra avvocati, il 68% dichiara di aver subito un calo di fatturato e, tra questi, oltre due terzi dichiara un calo tra il 10 e il 50%. Qui per leggere il bilancio di sostenibilità pubblicato.

GLI ORGANI DI AUTOGOVERNO

MERCOLEDÌ 31 MARZO SI È SVOLTO PRESSO LA LUISS GUIDO CARLI UN CONVEGNO DAL TITOLO “LA CORTE DEI CONTI AL SERVIZIO DEL PAESE PER UNA RIPRESA ECONOMICA EQUA ED EFFICIENTE”, IN RICORDO DEL PRESIDENTE EMERITO DELLA CORTE DEI CONTI, LUIGI GIAMPAOLINO. A ORGANIZZARLA, IL CENTRO DI RICERCA SULLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE, “VITTORIO BACHELET” E L’ASSOCIAZIONE MAGISTRATI DELLA CORTE DEI CONTI.

Particolarmente significativo è stato il dibattito della prima tavola rotonda, dal titolo “Gli organi di autogoverno delle magistrature”, a cui hanno preso parte i rappresentanti di tutti gli organi di autogoverno: il presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, il Presidente del Consiglio di Stato Franco Frattini, il Presidente della Corte dei conti Guido Carlino, il Procuratore Generale Militare presso la Corte Suprema di Cassazione Maurizio Block, il Presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria Antonio Leone, l’Avvocato generale aggiunto dello Stato Leonello Mariani, il Professor Aristide Police e il Professor Raffaele Bifulco.

Per rivederla, questo è il link di Radio Radicale. 

L’AVVOCATURA SUL CSM

Alla luce del dibattito piuttosto acceso sulla legittimità del voto agli avvocati nei consigli giudiziari per valutare la professionalità dei magistrati, il Consiglio nazionale forense ha organizzato un convegno dal titolo “La riforma dell’ordinamento giudiziario e il ruolo dell’avvocatura”.

Interessante è stato il confronto tra la presidente del Cnf, Maria Masi, e il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia.

Anche in questo caso, è possibile rivedere il convegno a questo link. 

CAOS IN OCF, AGGIORNAMENTI

In attesa dell’assemblea dell’8 aprile, in cui si voterà il nuovo ufficio di coordinamento e si discuterà la situazione politica interna all’Organismo congressuale forense, sono arrivate le dimissioni del tesoriere.

L’avvocato Alessandro Vaccaro, infatti, si è dimesso anche dall’assemblea di Ocf e non più solo dall’ufficio di coordinamento. A suo carico pesa ancora però il mancato chiarimento sulle ragioni dei bonifici dal conto dell’Organismo al suo personale, che poi venivano da lui ri-bonificate.

Intanto, l’attività di controllo sui conti continuano e, secondo indiscrezioni, sarebbero state trovate anomalie anche nelle causali dei bonifici e dei pagamenti contestati a Vaccaro e nelle spese effettuate dall’ufficio di coordinamento.

Per chiarimenti confermati e più puntuali, però, bisognerà aspettare la relazione del comitato che sta analizzando i bilanci.

REFERENDUM SULLA GIUSTIZIA

E’ stato fissato il giorno in cui si voterà per i referendum sulla giustizia: il 12 giugno, in concomitanza con il primo turno delle elezioni amministrative.

I quesiti riguardano la giustizia e riguardano il sistema elettorale del Csm, la valutazione delle toghe, abrogazione della legge Severino, modifica delle misure cautelari, separazione delle funzioni in magistratura.

Qui un piccolo schema riassuntivo, per capire i contenuti dei referendum e come si intersecano con la riforma dell’ordinamento giudiziario.

ll dato politico, però, riguarda il fatto che la Lega, proponente i referendum, di troverà contemporaneamente seduta al tavolo per riformare in via parlamentare il ddl sull’ordinamento giudiziario e impegnata in campagna elettorale per sostenerne una modifica in via referendaria.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Le esigenze difensive intralciano sempre il processo. E quelle del giudice? Gian Domenico Caiazza, Presidente UCPI – Unione Camere Penali Italiane, su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022.  

La cosa che pochi sanno è che in Italia tra le cause più diffuse del rinvio, e dunque della lentezza dei processi vi è l’impedimento del giudice, non quello del difensore. Non sia mai che si metta il naso nelle carriere del giudice. Intanto, andiamo ad indagare sul certificato dell’avvocato di Potenza, o sulla effettiva dipartita della mamma di quell’avvocato di Brescia.

Fa notizia che un avvocato risulti indagato, in quel di Potenza, per avere osato chiedere il rinvio di una udienza in quanto malato, come da allegato certificato medico. Sull’abbrivio di questa notizia, il giorno dopo ne salta fuori un’altra: a Brescia il difensore chiede un rinvio perché gli è morta la madre, e il Tribunale manda i Carabinieri a verificare se la signora sia davvero nella bara. Chi dovesse stupirsi di simili notizie, sappia che si tratta invece di comportamenti abituali nelle aule di giustizia. Intorno alle ragioni di impedimento del difensore vige da anni, in ogni parte di Italia, una diffusa presunzione falsità, o almeno di insidiosa pretestuosità. Forse è un riflesso legato alle antiche conseguenze di tali richieste di rinvio delle udienze, quando cioè ancora esse determinavano il proficuo maturare della prescrizione del reato contestato all’imputato.

Ma non è più così sin dal 2005, quando l’art. 159 del Codice penale fu modificato prevedendo, tra le cause di sospensione del corso della prescrizione, i rinvii del processo determinati “per ragione di impedimento delle parti e dei difensori, ovvero su richiesta dell’imputato e del suo difensore” Ma come! direte voi: e tutta quella storia raccontata, ancora oggi, dai pifferai del populismo giustizialista, secondo la quale gli avvocati, soprattutto quelli di imputati ben paganti, inventano mille diavolerie per far maturare la prescrizione? Beh, peggio per voi che vi bevete le balle di Travaglio e compagnia.

Ma torniamo a noi. Sarà per questo, o per la radicata idea manzoniana dell’azzeccagarbugli, sta di fatto che di regola il giudice pensa che il difensore stia ordendo un inganno, sicché sono all’ordine del giorno poco edificanti storie come quelle di Potenza e Brescia. Il difensore è, di default, un sabotatore del processo, un potenziale intralcio al sereno corso della giustizia: questa è l’idea dell’avvocato assolutamente prevalente nel nostro Paese. Ma la cosa che pochi sanno è che in Italia tra le cause più diffuse del rinvio, e dunque della lentezza dei processi vi è l’impedimento del giudice, non quello del difensore. Dalla indagine statistica dell’Istituto Eurispes, commissionata dalle Camere Penali Italiane e riferite all’anno 2019, risulta che i rinvii dovuti alla “assenza del giudice titolare” sono il 3,3%; cui devono aggiungersi i rinvii dovuti a “precarietà del collegio” (0,3%), per assenza del P.M. titolare (0,2%), per un totale del 3,8%; contro il 2,1% dei rinvii per impedimento del difensore.

Con l’aggravante che questi ultimi, come si è detto, fermano il decorso dei termini di prescrizione, mentre i rinvii dovuti ad assenza di Giudici e PM no. Ovviamente nessuno sindaca le ragioni degli impedimenti dei giudici, che devono ritenersi giustificati e legittimi ex se, tanto quanto sono sospetti di strategie fraudolente quelli degli avvocati. Il quadro, poi, si è oggi ulteriormente aggravato, da quando i giudici medesimi hanno in via interpretativa scardinato la sacrosanta regola processuale che impone la ripetizione della istruttoria dibattimentale se in corso di processo cambia il giudice. Con una sentenza emblematica del potere del tutto fuori controllo che i giudici italiani si sono assegnati nell’interpretare le norme anche contro la evidenza della loro testualità, le sezioni unite hanno sancito di fatto l’abrogazione di quel principio, dando così corpo ad una antica loro ossessione che il legislatore non aveva voluto recepire. Il risultato è che ormai assistiamo ad un bailamme di giudici che cambiano in corso di causa ad ogni piè sospinto. 

La motivazione formale starebbe nella tutela della ragionevole durata del processo, ma la sostanza è ben altra, ed è a tutto tondo di autoprotezione corporativa. Infatti, basterà chiedersi: ma perché il giudice cambia in corso di causa? La risposta è ovvia: cambia per ragioni di carriera. Vuole cambiare funzione, o Foro, o anche semplicemente sezione, e questo è del tutto legittimo; ma vuole poterlo fare senza vincoli ed intralci, e questo lo è molto meno. Questo profilo della questione non è minimamente indagato dalle severe Sezioni Unite.

Il problema delle conseguenze del cambio del giudice -che pregiudica il sacrosanto diritto dell’imputato ad essere giudicato dal medesimo giudice che ha assunto la prova – è stato dunque affrontato del tutto a prescindere da una indagine sulle cause di quel cambio. Non sia mai che si metta il naso nelle carriere del giudice. Non sia mai che si pretenda che questi attenda almeno di esaurire il ruolo delle proprie udienze prima di trasferirsi. State alla larga dai fatti nostri. Intanto, andiamo ad indagare sul certificato dell’avvocato di Potenza, o sulla effettiva dipartita della mamma di quell’avvocato di Brescia. Giusto, no?

Potenza. Gli avvocati contro l’arroganza della Procura: 8 giorni di astensione da tutte le udienze penali, civili, amministrative e tributarie. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022.

La Giunta nazionale dell' Unione Camere Penali Italiane pur esprimendo apprezzamento per le petizioni di principio rivendicate dal Procuratore Curcio, ritiene ora più che mai indispensabile un accertamento chiaro, definitivo ed inequivoco di quanto accaduto, perché occorre con certezza sapere se sia mai potuto accadere che un avvocato possa essere indagato per avere semplicemente certificato la propria malattia, ciò costituendo una inaudita aggressione alla dignità ed ai diritti fondamentali del difensore; o quale sia altrimenti, senza residui equivoci, quella alternativa e diversa spiegazione che finalmente vorremmo comprendere

L’Assemblea dell’Ordine degli avvocati di Potenza convocata d’urgenza per prendere posizione sul caso su cui la Procura generale della Corte di Cassazione ha avviato accertamenti in sede pre-disciplinare e sul quale sono state già presentate alcune interpellanze parlamentari, ha proclamato oggi l’astensione da tutte le udienze penali civili amministrative e tributarie per il massimo dei giorni ( otto) previsti dal regolamento . Stigmatizzato lo sgarbo istituzionale del Procuratore Capo che è intervenuto sulla stampa con un lungo comunicato pieno di inesattezze, ancora prima di incontrare il consiglio dell’ordine e la camera penale. 

Anche l’ Unione Nazionale delle Camere Penali, ha emesso ieri sera una nota abbastanza dura. “Abbiamo atteso con pazienza condividendo ed apprezzando le prese di posizione della avvocatura potentina, a partire da quella espressa dalla Camera Penale della Basilicata, che la Procura della Repubblica di Potenza fornisse una spiegazione del clamoroso atto investigativo svolto nei confronti di un avvocato che, impedito a comparire per ragioni di salute, aveva fatto depositare in udienza il relativo certificato medico. Ciò in quanto l’accesso della Polizia Giudiziaria, lo stesso giorno, prima presso l’abitazione del Collega con medico al seguito, e poi nello studio, nonostante il Tribunale avesse in udienza respinto la richiesta di visita fiscale avanzata dal P.M. e ritenuto legittimo l’impedimento del difensore, recava in sé le stimmate di un atto di tale inaudita gravità e di grossolana illegalità da indurci ad immaginare ragioni investigative diverse da quelle apparenti“. 

“Senonché la lunga nota diramata ieri dal Procuratore dott. Francesco Curcio – continua la nota – pur fondata su lunghe premesse volte a ritenere inconcepibile, e del tutto estranea ai convincimenti ed al costume giudiziario di quell’Ufficio, una reazione ritorsiva quale quella denunziata dalla avvocatura, fornisce una spiegazione contraddittoria, oscura nella rappresentazione dei fatti ed alla fine semplicemente incomprensibile. Ciò sollecita questa Giunta a rivolgersi al Procuratore Generale ed al Presidente del Tribunale di Potenza, perché rendano edotti tutti noi di quanto effettivamente accaduto. Ed infatti, secondo il Procuratore dott. Curcio: L’iniziativa investigativa, non abbiamo compreso se relativa ad una indagine in qualche modo precedente ed autonoma rispetto ai fatti accaduti in aula, sarebbe comunque stata alimentata dalla trasmissione “urgente” del verbale di udienza da parte del Tribunale“. 

“Dunque il Tribunale da un lato avrebbe ritenuto legittimo l’impedimento, respingendo la richiesta del PM di disporre visita fiscale, e dall’altro avrebbe ritenuto sussistere in quei fatti una qualche notizia criminis, tale da imporne una urgente segnalazione al Procuratore della Repubblica; La Polizia Giudiziaria, recatasi – per ragioni che continuiamo a non comprendere – prima nell’abitazione e poi nello studio del Collega, avrebbe portato con sé un medico “di propria iniziativa”, dunque non su disposizione della Procura.È agevole constatare la assoluta incongruenza della articolata spiegazione che il Procuratore della Repubblica ha inteso dare pubblicamente” continua l’ Unione delle Camere Penali.

“Con essa, nell’intento di respingere la fondatezza delle proteste dell’avvocatura, non solo finisce per confermarla, ma anzi ne aggrava il quadro, prospettando da un lato una condotta inspiegabilmente contraddittoria del Tribunale, e dall’altra una iniziativa del tutto abusiva della Polizia Giudiziaria.La Giunta UCPI, pur esprimendo apprezzamento per le petizioni di principio rivendicate dal Procuratore Curcio, ritiene ora più che mai indispensabile un accertamento chiaro, definitivo ed inequivoco di quanto accaduto, perché occorre con certezza sapere se sia mai potuto accadere che un avvocato possa essere indagato per avere semplicemente certificato la propria malattia, ciò costituendo una inaudita aggressione alla dignità ed ai diritti fondamentali del difensore; o quale sia altrimenti, senza residui equivoci, quella alternativa e diversa spiegazione che finalmente vorremmo comprendere” conclude l’ UCPI.

Sulla vicenda è intervenuto l’avvocato e responsabile regionale del Dipartimento Giustizia di Italia Viva Basilicata, Antonio Di Lena: “Oggi in qualità di avvocato e di dirigente politico ho preso parte all’Assemblea dell’Ordine che si è svolta a Potenza a seguito della grave vicenda a cui è stato sottoposto l’avvocato Antonio Murano da parte della Procura di Potenza” che ha aggiunto “Va immediatamente fatta luce su quello che appare un clamoroso atto investigativo svolto nei confronti di un avvocato di Potenza che appare, così come già dichiarato dalla Camera penali nazionali di inaudita gravità. Per questo di rende indispensabile un accertamento chiaro, definitivo ed inequivoco di quanto accaduto anche a seguito di notizie di stampa secondo cui ci sarebbero dei verbali modificati successivamente. “Per questo ritengo doveroso stigmatizzare questa mancanza di rispetto del ruolo difensivo e mi associo – conclude – alla richiesta dell’Ordine di fare piena luce sulla vicenda affinché non vengano mai più compromesse le garanzia difensive con la delibera di astensione da tutte le attività per il periodo massimo consentito e cioè dal 14 al 26 aprile prossimi”. Redazione CdG 1947

Quel caso dell'avvocato di Potenza che scuote il Parlamento. Francesco Boezi il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il senatore d'Italia Viva Giuseppe Cucca presenta un'interrogazione su una perquisizione dello studio di un avvocato che non poteva partecipare ad un'udienza per motivi di salute.

Un'interrogazione parlamentare presentata dal senatore Giuseppe Cucca, un esponente d'Italia Viva che da sempre si occupa di temi legati alla Giustizia, sul caso di un avvocato di Potenza il cui studio, secondo quanto si legge dal testo presentato dal renziano, è stato perquisito per ordine del pm, nonostante il legale avesse dribblato un'udienza per meri motivi di salute.

Ma non viene rimarcato soltanto il "dettaglio" della perquisizione. Il senatore Giuseppe Cucca, come ripercorso dall'Ansa, ci ha tenuto a ricostruire il quadro: "Ho presentato un'interrogazione urgente alla Ministra Cartabia - ha premesso - per chiedere conto di un grave fatto avvenuto a Potenza dove un avvocato ha richiesto il differimento di un'udienza per ragioni di salute, accordato da il tribunale".

Poi viene spiegato quello che sarebbe stato predisposto dal Pubblico ministero: "Il pm peró ha deciso di mandargli a casa i carabinieri e un medico, indagarlo e disporre una perquisizione dello studio del professionista che aveva redatto il certificato".

Atti che il parlamentare del partito guidato da Matteo Renzi ritiene dunque privi di una reale base in grado di motivarli. Peraltro il tutto viene condito da un dettaglio giuridico in grado di spiegare, per Cucca, l'incomprensibilità di quanto sarebbe stato deciso dal Pm: "Non si comprendono le ragioni di un tale dispiego di forze e personale per un mero rinvio dell'udienza rispetto ad un procedimento penale non prossimo alla prescrizione, i cui termini sarebbero rimasti, in ogni caso, sospesi proprio in virtù del differimento per motivi di salute del difensore". In buona sostanza, l'assenza dell'avvocato non avrebbe avuto alcuna rilevanza rispetto ai termini di prescrizione.

Il senatore, che è anche il vice del gruppo d'Iv a Palazzo Madama, ha dunque voluto chiedere spiegazioni al ministro Marta Cartabia: "Per questo chiedo alla Ministra di adoperarsi affinché tali fatti siano chiariti e non si ripetano", ha chiosato.

Quanto avvenuto nel capoluogo lucano è stato commentato anche dal segretario generale dell'Associazione Nazionale Forense Giampaolo Di Marco: "La denuncia dell'avvocato Antonio Murano, del Foro di Potenza, che, dopo avere chiesto il rinvio di un'udienza alla quale non poteva presenziare per motivi di salute, istanza accolta dal collegio del Tribunale, ha ricevuto una visita fiscale a casa, all'esito della quale ha scoperto di essere indagato, mentre il medico è stato a lungo interrogato in caserma, è, nella migliore delle ipotesi, un eccesso delle prerogative del magistrato", ha fatto presente il rappresentante dell'ente associativo, così come rimarcato dalla fonte sopra citata.

Legale a giudizio: notizia alla stampa, poi a lui, of course. I pm chiedono il procedimento immediato per Antonio Murano, l’avvocato di Potenza finito sotto inchiesta dopo essersi assentato in udienza per malattia. Nella nota con cui la Procura riferisce lo sviluppo, dice che “la legge è uguale per tutti”. E uguale per tutti è anche la circostanza di doverne essere informati dai giornali. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

È ancora alta la tensione tra la Procura di Potenza e l’avvocatura del capoluogo lucano sul caso Murano.

Qualche giorno fa è stato disposto da parte del Gip del Tribunale di Potenza, su richiesta della Procura, il giudizio immediato per gli avvocati Antonio e Pasquale Murano e per altre quattro persone, coinvolte nella vicenda dei certificati medici e dei rinvii delle udienze penali. La Camera penale distrettuale di Basilicata ora passa al contrattacco. E lo fa sollevando una serie di questioni che riguardano le notizie date in anteprima alla stampa e il trattamento riservato al legale.

A lasciare sconcertati i penalisti lucani è stato l’intero modus procedendi. Per questo motivo è stata indetta una conferenza stampa nella mattinata di oggi per porre all’attenzione alcuni aspetti della vicenda.

Nello scorso marzo, dopo essersi assentato in udienza presentando un certificato medico, l’avvocato Antonio Murano ha ricevuto la visita fiscale ed è stato sottoposto ad alcuni controlli da parte dei carabinieri nel suo studio.

«La notizia giornalistica – evidenzia Sergio Lapenna, presidente della Camera penale distrettuale di Basilicata – relativa al giudizio immediato disposto nei confronti degli avvocati Murano e alla nota del Procuratore della Repubblica, Francesco Curcio, con la quale si è resa nota questa circostanza e si è sottolineata l’intenzione dell’ufficio di dare sempre concretezza al principio per cui la legge è uguale per tutti, ci induce a precisare una serie di aspetti. Ciò anche in conseguenza della decisione che ha indotto l’avvocatura potentina a proclamare un’astensione dalle udienze lo scorso mese di aprile».

Lapenna lamenta la classica fuga di notizie, con la conseguenza, per i diretti interessati, di apprendere prima dalla stampa le questioni che li riguardano. «Spiace sottolineare – dice Lapenna – che, a differenza di quanto dovrebbe sempre avvenire nelle vicende di giustizia, il provvedimento che ha disposto il giudizio immediato a carico dei colleghi Murano è stato anticipato dalla Procura di Potenza agli organi di stampa, addirittura prima che lo stesso fosse notificato agli interessati, senza tener conto degli indirizzi voluti dal legislatore il quale, con un recente provvedimento di legge, ha previsto che tutti gli uffici di Procura si rapportino agli organi di stampa con misura e sobrietà nel rispetto della più generale presunzione d’innocenza di tutti i cittadini indagati. Quanto al contesto della vicenda, senza entrare nel merito dei fatti che saranno accertati nelle sedi competenti, non si può fare a meno di sottolineare che la censura espressa dall’avvocatura sull’indirizzo dell’attività investigativa ha riguardato il “metodo” con il quale si è proceduto».

Cosa impensierisce la Camera penale di Basilicata? «In particolare – prosegue il presidente Lapenna – abbiamo lamentato la scelta di un modus procedendi invasivo, quale la visita presso il domicilio dell’avvocato Antonio Murano, senza il rispetto delle garanzie difensive codicistiche. Infatti, tale azione non è stata preceduta né da un avviso di garanzia né da qualsiasi atto prodromico che potesse in qualche modo legittimarlo. Parimenti, la visita presso lo studio del professionista da parte dei carabinieri per visionare le registrazioni videofilmate non è stata preceduta né dall’avviso prescritto al Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Potenza né da un atto di garanzia previsto per tutti i casi in cui è considerata la partecipazione dell’indagato».

Parità di trattamento per tutti, ma anche oculatezza in riferimento a certi metodi utilizzati. «L’avvocatura – conclude il presidente della Camera penale – concorda sul principio che la legge debba essere uguale per tutti e che per ogni imputato vige la presunzione di innocenza, fino a sentenza passata in giudicato, ma sottolinea che le regole e le garanzie difensive vadano anch’esse rispettate per tutti gli indagati ed imputati, a prescindere se siano avvocati o meno».

Continuano le follie della procura di Potenza. L’avvocato è malato, il pm lo fa perquisire e non contento poi lo indaga.  Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Marzo 2022.

La vicenda assurda è capitata ad un legale di Potenza che richiesto il differimento dell’udienza per motivi di salute. Il magistrato ha deciso di mandargli a casa i Carabinieri ed un medico. Sulla vicenda sono intervenuti annunciando due parlamentari alla Camera ed al Senato con interrogazioni rivolte al Ministro di Giustizia. Rivolta dell'avvocatura italiana contro il magistrato della Procura di Potenza

Nel Palazzo di Giustizia di Potenza la “follia” ed arroganza giudiziaria sembrano non avere limiti. In occasione di un’udienza penale tenutasi lo scorso 24 marzo dinnanzi al Tribunale Penale, l’ avvocato Antonio Murano con studio a Rionero in Vulture (PZ) con motivi di salute certificati, la sera prima era stato colpito da una fortissima colica al punto da richiedere l’intervento del medico, è stato impossibilitato, a raggiungere il Palazzo di giustizia del capoluogo lucano ed ha richiesto verbalmente, per il tramite di un collega, il differimento dell’udienza.

L’ assenza peraltro giustificata dell’avvocato è stata recepita da parte del Collegio B, presieduto dal giudice Federico Sergi, che dopo aver ricevuto non solo via Pec, ma anche in originale attraverso l’imputato l’attestazione medica, ha accolto l’istanza del legale  che peraltro non avrebbe causato problemi allo svolgimento del processo dal momento che il legittimo impedimento del difensore interrompe automaticamente il decorso della prescrizione . A questo punto, però, è successo qualcosa che non può e non deve passare inosservata. 

Il Collegio giudicante ha rigettato ben due richieste del pm Giuseppe Borriello, che tendeva a verificare le condizioni dell’avvocato assente per motivi di salute. Ma non solo. Infatti il magistrato lucano ha presentato al Tribunale anche un’istanza in merito alla contestata trasmissione del certificato alla Procura della Repubblica. Rigettata come la prima. Non contento il pubblico ministero, ha deciso di mandare i Carabinieri a casa dell’avvocato senza alcun provvedimento giudiziario, il quale ha scoperto essere addirittura stato iscritto nel registro degli indagati della Procura lucana con l’accusa di “false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’Autorità giudiziaria”, reato punito dal codice con una pena che prevede 6 anni di prigione.

“Dopo qualche ora nel primo pomeriggio intorno alle 14, l’inaspettato arrivo nella mia dimora di un medico. Si è presentato accompagnato dai Carabinieri per effettuare una visita disposta dalla Procura di Potenza” racconta l’avvocato Murano, che ha ritenuto opportuno informare anche il Consiglio nazionale forense, le Camere penali ed il Csm. “Pur non essendo questi visitatori muniti di alcun provvedimento giudiziario, e pur in assenza delle obbligatorie informazioni previste dagli articoli 369 e 369-bis del Codice di procedura penale, animato da uno spirito collaborativo e non avendo alcunché da occultare non mi sono opposto. Ho consentito quindi al medico di verificare il mio status“. 

L’avvocato Murano, noto penalista con quasi quarant’anni di carriera, apprezzato in Basilicata e fuori regione, non nasconde la propria amarezza. “Ho pensato che si trattasse di una esagerazione, immaginando che qualcuno avesse potuto dubitare della genuinità del certificato attestante la mia malattia, anche se non mi pare che sia mai stata disposta un’ispezione medica su un avvocato, né in tantissimi anni di onorata professione mi è mai capitato di sentire un episodio simile” commenta il legale.

“Ad ogni modo, consentita la visita alla quale mi sarei potuto lecitamente opporre e concessa al medico inviato dalla Procura la facoltà di verificare le mie condizioni, ho sperato che la faccenda fosse chiusa”. Ma invece non è andata così. Le cose si sono complicate ulteriormente coinvolgendo persino alcuni parenti stretti del legale. “Con stupore ho appreso di essere addirittura indagato, non so per cosa, e nell’ambito di tali indagini sono stati disposti gli interrogatori di mia madre, che ha più di ottant’anni, mio fratello e mio figlio Pasquale, che svolge con me la professione forense” spiega l’ avvocato Murano.

Non contento il magistrato Borriello ha coinvolto anche il medico, il dr. Donato Labella stimato professionista “colpevole, è proprio il caso di dirlo – aggiunge l’avvocato Murano – di avermi visitato e redatto il certificato che è stato trattenuto per circa tre ore nella caserma dei Carabinieri di Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, attinto da decreto di perquisizione locale e personale e decreto di sequestro del telefonino, vedendosi privato del dispositivo contenente le applicazioni relative all’identità digitale, necessarie, tra le altre cose, a firmare le guarigioni da Covid-19 e disporre la fine della quarantena dei suoi pazienti”. 

Ma non è finita. Alle otto di sera un’altra pattuglia di Carabinieri si è recata nello studio di Murano per acquisire le immagini della video sorveglianza. Acquisizione che non produceva alcunchè non essendo le telecamere funzionanti con registrazione. L’avvocato Murano, scosso da quanto accaduto, ha scritto una lettera a tutti i vertici degli uffici giudiziari lucani, al presidente della Corte d’appello e procuratore generale inclusi, alla Procura di Catanzaro ed al Consiglio superiore della magistratura.

Una giornata lunghissima e da dimenticare quella del 24 marzo scorso per l’avvocato Murano. Con l’aggiunta di ulteriori anomalie e forzature. Come racconta il quotidiano IL DUBBIO emanazione del Consiglio Nazionale Forense: “In prima serata – spiega l ‘avvocato Murano -, verso le 20, i Carabinieri si sono recati, in mia assenza, presso il mio studio legale di Rionero in Vulture. Con tatto e discrezione, non posso negarlo, hanno chiesto di acquisire le registrazioni della videosorveglianza. Anche in tale occasione la richiesta appare anomala, in quanto non mi è stato notificato alcun avviso di garanzia che legittimasse atti invasivi della privacy e, quindi, pur sussistendo i presupposti per opporsi, veniva consentito l’accesso, che non dava alcun esito in quanto il sistema non era funzionante. Tutto si è verificato senza che io abbia ricevuto, ad oggi, un’informazione di garanzia o qualunque altro provvedimento, a fronte di azioni fortemente invasive del campo professionale e privato. Né si comprende la ragione di un simile sospetto che ha portato all’immediata iscrizione della notitia criminis con cotanto dispiego di forze, posto che il procedimento penale oggetto di rinvio non è prossimo alla prescrizione, i cui termini sarebbero rimasti, in ogni caso, sospesi, visto il differimento per motivi di salute del difensore“.

Quanto accaduto qualche giorno fa nel Tribunale di Potenza e nella città di Rionero, un tempo rientrante nel circondario del Tribunale di Melfi, soppresso nel 2013, non ha precedenti sia per la storia dell’avvocatura che in quella della magistratura. “Ritengo – commenta l’avvocato Murano – quanto accaduto di una abissale gravità a maggior ragione se si tiene conto che il Collegio aveva ritenuto inopportuno qualsiasi accertamento, rigettando la relativa richiesta. È il momento, da parte di tutti gli organismi forensi e dell’intera avvocatura, di intraprendere ogni iniziativa volta a dare risalto con decisione all’accaduto al fine di affermare con forza il decoro ed il prestigio della classe forense, denigrato ed umiliato da episodi come quelli che mi hanno interessato, evitando, con fermezza, che possano incrinare i rapporti di stima tra magistratura e avvocatura, con azioni ingiustificatamente dirompenti, la cui eco rischierebbe di proscrivere anche le più banali facoltà difensorie nell’alveo della paura di vedersi colpiti da simili episodi“. 

Interrogazioni parlamentari

Sulla vicenda sono intervenuti annunciando due interrogazioni parlamentari al Ministro di Giustizia presentate dall’ Onorevole Carmelo Miceli (PD) avvocato siciliano e membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati , e dal Senatore Giuseppe Luigi Salvatore Cucca (PSI-IV) avvocato sardo e membro della Commissione Giustizia del Senato della Repubblica .

“Quanto accaduto nel Tribunale di Potenza mi ha lasciato davvero senza parole. Mi sto abituando a tutto, ma trattare così un avvocato non può che farmi preoccupare. Stiamo vivendo un momento di grandi tensioni per quanto riguarda i rapporti tra avvocatura e magistratura. I magistrati devono rispettare la legge e non sentirsi al di sopra” dice il senatore Cucca che con la sua interrogazione mira a chiarire tutti i contorni della vicenda. “Voglio sapere se la ministra Cartabia è a conoscenza dei fatti e quali sono i suoi intendimenti in merito. Inoltre, voglio conoscere le iniziative che la ministra ritiene di adottare per prevenire il ripetersi di vicende come quelle accadute presso il Tribunale di Potenza. È emerso da quanto si apprende che il potere requirente ha tentato di interferire, travalicando i propri poteri e le proprie competenze, su decisioni già assunte dall’organo giudicante. Occorre evitare che, tramite azioni sproporzionate e ingiustificate, si possano incrinare i rapporti di leale collaborazione che devono sussistere tra magistratura e ordine forense” aggiunge il senatore Cucca. L ’iniziativa intrapresa dal senatore di Italia Viva, ha l’obiettivo di far svolgere un’ispezione nel Tribunale di Potenza ed una segnalazione del caso al Procuratore generale della Corte di Cassazione. “Spero che quanto accaduto all’avvocato Murano ottenga la massima attenzione da parte del Consiglio nazionale forense” conclude Cucca.

Le reazioni degli avvocati

Il Consiglio dell’ ordine degli Avvocati di Potenza ha immediatamente convocato per venerdì un’ assemblea per discutere sull’accaduto e decidere sulle azioni da intraprendere. Ed anche la Camera Penale di Potenza sta vagliando le opportune iniziative da intraprendere.

Immediatamente è scattata la puntale solidarietà dei colleghi. Sono intervenute diverse associazioni forensi. “Non è concepibile in uno stato di diritto che si possa soltanto immaginare quanto è accaduto” ha commentato l’ avvocato Nino La Lumia del Movimento forense. L’ OCF- organismo congressuale forense attraverso il coordinatore Giovanni Malinconico, scrive in una nota : “Davanti a vicende come questa si resta attoniti. Il capriccio intimidatorio di un pm, perché di questo si tratta, oltre a suonare come un inaccettabile schiaffo all’intera classe forense, incide in modo gravissimo sul diritto di difesa a danno della parte assistita dal Collega e della stessa Giustizia. L’OCF, oltre a portare la propria solidarietà al Collega Murano e al COA di Potenza, segnalerà la vicenda al Ministro della Giustizia Cartabia, affinché disponga quanto prima un’ispezione presso la Procura di Potenza e assuma tutti i conseguenti provvedimenti”.

Quanto avvenuto nel capoluogo lucano è stato commentato anche da Giampaolo Di Marco segretario generale dell’Associazione Nazionale Forense : “La denuncia dell’avvocato Antonio Murano, del Foro di Potenza, che, dopo avere chiesto il rinvio di un’udienza alla quale non poteva presenziare per motivi di salute, istanza accolta dal collegio del Tribunale, ha ricevuto una visita fiscale a casa, all’esito della quale ha scoperto di essere indagato, mentre il medico è stato a lungo interrogato in caserma, è, nella migliore delle ipotesi, un eccesso delle prerogative del magistrato“. 

La Camera penale distrettuale di Basilicata in una nota ha scritto che “l’attività posta in essere dalla Procura costituisce un anomalo utilizzo degli strumenti investigativi a disposizione dell’organo dell’accusa” sottolineando che l’accesso alla casa dell’avvocato con un medico di un altro comune e allo studio del legale, effettuato senza “alcun avviso o atto formale“, “non può che essere ritenuto grave, con gravi violazioni delle norme procedurali, inderogabili“. Secondo la Camera penale distrettuale, “tali fatti minano la serenità dello svolgimento della delicata funzione giurisdizionale nella quale l’Avvocatura è parte essenziale a tutela dei diritti di ogni cittadino, sia imputato-indagato sia parte offesa”. L’incontro fissato con il Procuratore della Repubblica di Potenza Francesco Curcio, fissato lunedì prossimo, dovrebbe servire ad avere “gli opportuni chiarimenti anche volti a ridisegnare i rapporti tra la Magistratura inquirente e l’Avvocatura“. Redazione CdG 1947

Potenza. Il giallo dei verbali fra Procura e Tribunale sul “caso Murano”... Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Aprile 2022.

Cosa dirà il procuratore Curcio lunedì al presidente dell' Ordine degli Avvocati di Potenza, Avv. Maurizio Napolitano e quello della Camera Penale Distrettuale Avv. Sergio Lapenna ? Ma sarebbe ancora più interessante sapere cosa spiegherà alla Procura Generale della Cassazione ed agli ispettori del Ministero di Giustizia quasi certamente in arrivo a seguito delle due interrogazioni parlamentari presentate sull' accaduto ? Dirà anche a loro che è sempre colpa dei giornalisti...???

Questa mattina si svolgerà l’ assemblea dell’ avvocatura di Potenza per decidere le iniziative da intraprendere sul “caso Murano” creato dalla Procura di Potenza, che ha iscritto nel registro degli indagati l’ avvocato penalista di Rionero in Vulture, colpito da una colica renale che gli ha impedito di essere presente in un’udienza dinnanzi al collegio penale presieduto dal Giudice Federico Sergi del Tribunale di Potenza. Ma in questa vicenda c’è qualcosa di molto strano che ci auguriamo che gli Ispettori del Ministero di Giustizia, la Procura Generale della Cassazione ma anche la Procura di Catanzaro facciano luce e chiarezza. Noi siamo semplici giornalisti, il nostro lavoro è dare notizie, non alterare la verità (“con grave pregiudizio” come sostiene il Procuratore di Potenza Curcio ). Qualcuno dovrebbe ricordare o imparare che dire la verità non è mai diffamazione ! O forse noi giornalisti dobbiamo imparare dai magistrati a fare il nostro lavoro ? In alcuni casi, ci sia consentito di dirlo, potrebbe accadere facilmente il contrario !

Eccovi quindi di seguito la ricostruzione documentale che il nostro giornale ha effettuato documentalmente (come nostro stile di lavoro) su quanto accaduto nel Tribunale di Potenza, e questa volta per qualche magistrato sarà difficile querelarci…e provare a smentirci. Come dicevano i nostri padri latini “verba volant, scripta manent”. 

Domani l’ assemblea dell’ ordine degli Avvocati di Potenza deciderà quali azioni intraprendere dopo la nota stampa diramata ieri dal procuratore di Potenza Francesco Curcio, che riportiamo integralmente di seguito, il quale sostiene ed evidenzia che sulla base del verbale riassuntivo sintetico (trascritto a mano dal cancelliere d’udienza Silvia Lauciello) in udienza del Tribunale da cui si legge “Il Tribunale dispone a cura della cancelleria la trasmissione del certificato medico e dell’istanza di rinvio dell’ avv. Murano alla segreteria del dr. Borriello, con urgenza“, era assolutamente doveroso per la procura del capoluogo lucano disporre gli accertamenti in corso. Una teoria che fa acqua da tutte le parti, come i documenti acquisiti in esclusiva dal CORRIERE DEL GIORNO dimostrano. In questo caso lasciatecelo dire, la toppa è più profonda e larga del buco…che qualcuno vorrebbe coprire e ribaltare.

Come sempre il nostro giornale pubblica gli atti integrali

A conferma della nostra correttezza professionale e deontologia giornalistica che è ben diversa e più elevata di quella di qualcun altro…ecco di seguito copia originaledel verbale redatto con due ore di ritardo dal cancelliere dopo il termine dell’ udienza.

Dalla lettura del comunicato stampa della procura, ed un’attenta disamina dalle trascrizioni dell’udienza, più di qualcosa non quadra nelle giustificazioni addotte dal procuratore di Potenza. Infatti da un altro verbale, cioè quello fonoregistrato, più attendibile e realistico, emerge una realtà ben diversa da quella trascritta dal cancelliere 1 h e 19 minuti dopo la chiusura dell’udienza ed utilizzata dalla Procura di Potenza per giustificare il proprio comportamento che sembra poco in linea con quanto contenuto nel codice di procedura penale. Infatti a pagina 7 di 10 del verbale fonoregistrato si legge quanto segue:

“P.M. E’ il Pubblico Ministero che chiede trasmissione all’Ufficio di Procura della richiesta del certificato medico del difensore“. Quindi basta leggere con attenzione la risposta reale del giudice dr. Sergi per verificare che è ben diversa da quella trascritta dal cancelliere, ed utilizzata dalla Procura per avviare le proprie indagini imbarazzanti culminate con il sequestro del telefono ad un medico che ha in cura pazienti colpiti dal Covid !

Questo è quanto è accaduto in realtà, come si apprende dalla fonoregistrazione: 

“PRESIDENTE. Ne può acquisire copia. E’ agli atti. Sono estensibili a chiunque. La può acquisire e il fascicolo del dibattimento è pubblico“. Ed alla pagina successiva (pag. 8 di 10) si legge: “Rinvio quindi al 19 maggio prossimo 11. 30“.

Anche in questo caso forniamo in lettura ai nostri lettori ( e non solo…) gli atti integrali:

Quindi se l’udienza è stata rinviata, vuol dire che il certificato medico è stato accolto dal giudice e l’impedimento ritenuto legittimo. Ma la cosa più grave è che il giudice non ha mai disposto proprio nulla ! Quindi legittimo chiedersi, quale sarebbe il reato ipotizzato dal pm Giuseppe Borriello della procura di Potenza per cui ha indagato l’ avv. Murano ? Ma c’è qualcosa di ancora più grave. Dalla registrazione risulta che il verbale viene chiuso alle 10:41, mentre da quello dattiloscritto dal cancelliere risulta chiuso alle 12, cioè 1 ora e 19 minuti dopo! 

Il nostro lavoro è quello di fare delle domande. Cosa è successo in quel tempo ? Come ha fatto il cancelliere d’udienza a scrivere il contrario di quanto emerge dalle registrazioni ? Qualcuno gli ha fatto da promemoria…? Chissà se il dr. Curcio ed il suo sostituto Borriello vorranno cortesemente spiegarcelo, o meglio spiegarlo ai nostri lettori ? In definitiva siamo tutti cittadini e contribuenti che con con le proprie tasse contribuiamo a pagare i lauti stipendi anche alla magistratura !

Cosa dirà il procuratore Curcio lunedì al presidente dell’ Ordine degli Avvocati di Potenza, Avv. Maurizio Napolitano e quello della Camera Penale Distrettuale Avv. Sergio Lapenna ? Ma sarebbe ancora più interessante sapere cosa spiegherà alla Procura Generale della Cassazione ed agli ispettori del Ministero di Giustizia quasi certamente in arrivo a seguito delle due interrogazioni parlamentari presentate sull’ accaduto ? Dirà anche a loro che è sempre colpa dei giornalisti…??? Attendiamo delle risposte (e non delle squallide querele) 

Redazione CdG 1947

Avv. Maurizio Napolitano, Avv. Sergio Lapenna, avvocato Antonio Murano, Camera Penale Distrettuale Basilicata, caso Murano, giudice Federico Sergi, Ministero di Giustizia, Ordine degli Avvocati di Potenza, pm Giuseppe Borriello, Procura di Catanzaro, Procura di Potenza, Procura Generale della Cassazione, Silvia Lauciello, Tribunale di Potenza

L'Associazione nazionale forense: «Eccesso di prerogativa da parte del magistrato». L'Aiga: «Intervenga il ministro della Giustizia». La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2022.

L’Aiga (Associazione Italiana Giovani Avvocati) esprime «forte preoccupazione» per quanto accaduto all’avvocato potentino Antonio Murano, «finito sotto inchiesta dopo aver presentato un certificato medico per legittimo impedimento a presenziare ad un’udienza penale», ed auspica «un immediato intervento del Ministero della Giustizia, previa ispezione, volto ad adottare i più opportuni provvedimenti». La denuncia dell'avvocato Murano «che, dopo avere chiesto il rinvio di un’udienza alla quale non poteva presenziare per motivi di salute, istanza accolta dal collegio del Tribunale, ha ricevuto una visita fiscale a casa, all’esito della quale ha scoperto di essere indagato, mentre il medico è stato a lungo interrogato in caserma, è, nella migliore delle ipotesi, un eccesso delle prerogative del magistrato» secondo il segretario generale dell’Associazione nazionale forense, Giampaolo Di Marco. Per quest'ultimo «al netto della legittimità, fatti come questi minano quel necessario equilibrio che sempre deve sussistere fra le parti processuali e fra avvocatura e magistratura. Altro aspetto, e altra valenza - ha aggiunto Di Marco - ha invece l’ispezione dello studio legale del collega Murano che a quanto si apprende sarebbe stata eseguita senza la comunicazione preventiva al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza, misura prevista dall’articolo 103 del codice di procedura penale. Siamo certi che su ogni aspetto di illegittimità verrà fatta piena luce dagli organismi che sono stati investiti della vicenda».

Sulla questione (indagato dalla procura di Potenza) l'avvocato Murano ha informato, tra gli altri, il Consiglio nazionale forense, le Camere penali ed il Csm. La sua assenza giustificata riguarda un'udienza penale prevista lo scorso 24 marzo al tribunale di Potenza. Il differimento dall'udienza, il legale potentino lo ha richiesto verbalmente, per il tramite di un collega.

La vicenda dell’avvocato del foro di Potenza malato e indagato «ha profondamente scosso ed allarmato l’Avvocatura tutta, per le modalità che, allo stato, appaiono abnormi": lo ha detto la Camera penale distrettuale di Basilicata.

In una nota, la Cpd ha spiegato che «l'attività posta in essere dalla Procura costituisce un anomalo utilizzo degli strumenti investigativi a disposizione dell’organo dell’accusa" e ha sottolineato che l’accesso alla casa dell’avvocato con un medico di un altro comune e allo studio del legale, senza «alcun avviso o atto formale», «non può che essere ritenuto grave», con "gravi violazioni delle norme procedurali, inderogabili». Secondo la Camera penale distrettuale, «tali fatti minano la serenità dello svolgimento della delicata funzione giurisdizionale nella quale l’Avvocatura è parte essenziale a tutela dei diritti di ogni cittadino, sia imputato-indagato sia parte offesa». L’incontro fissato con il Procuratore della Repubblica, lunedì prossimo, dovrebbe servire, secondo la Cpd, ad avere «gli opportuni chiarimenti anche volti a ridisegnare i rapporti tra la Magistratura inquirente e l’Avvocatura».

Il procuratore Curcio e il caso Murano: «Inchiesta avviata non per malattia». LEO AMATO su Il Quotidiano del Sud il 31 marzo 2022.

Mai avviate indagini su avvocati «per il solo fatto che avessero  chiesto un rinvio di udienza per un impedimento a comparire allegando certificati di  malattia o altro». Quanto piuttosto sulla scorta di «ulteriori e  diverse circostanze di fatto», che al momento non possono essere rivelate, «per evidenti ragioni  di riservatezza e  di tutela sia degli indagati  che delle indagini».

Ha replicato così, ieri, il procuratore capo di Potenza sul caso dell’avvocato Antonio Murano. Vale a dire la denuncia del legale rionerese contro gli inquirenti potentini, che la scorsa settimana lo avrebbero messo sotto inchiesta, a suo dire, solo per aver chiesto e ottenuto il rinvio di un processo, tutto sommato banale, a carico di un suo assistito, un carabiniere forestale accusato di peculato. Rinvio motivato da una sua indisposizione fisica dimostrata da un certificato del suo medico curante, sulla cui autenticità gli inquirenti parrebbero nutrire più di qualche dubbio.

Non per niente hanno iscritto sul registro degli indagati anche il medico in questione, in concorso col legale, per “false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’autorità giudiziaria”: un reato punito con pene tra 2 e 6 anni di reclusione.

Curcio è intervenuto all’indomani dell’annuncio di un’interrogazione parlamentare al riguardo del senatore di Italia viva, Giuseppe Luigi Cucca, seguito dal deputato del Partito democratico Carmelo Miceli. Sempre nella giornata di martedì, però, si era fatta sentire anche la Camera penale distrettuale della Basilicata, stigmatizzando, tra l’altro, l’accesso dei carabinieri nello studio professionale dell’avvocato Murano, per provare ad acquisire i filmati delle telecamere di sorveglianza, «in assenza delle dovute comunicazioni anche al consiglio dell’Ordine di appartenenza». Mentre, a Roma, il Consiglio nazionale forense ha deciso di investire della vicenda il procuratore generale presso la Corte di Cassazione, competente per le azioni disciplinari nei confronti dei magistrati, contestando agli inquirenti potentini di aver «operato in spregio alla dignità, al decoro e al prestigio della classe forense».

Il procuratore, riferendosi alle cronache che diverse testate – anche nazionali – hanno dedicato alla vicenda, ha provato a sgombrare il campo dall’idea di una contrapposizione tra il suo ufficio e l’avvocatura potentina. «Gli avvocati impediti per ragioni di salute o per altri gravi motivi – ha dichiarato  – hanno il sacrosanto  diritto di ottenere un rinvio delle udienze». D’altro canto lo stesso Curcio ha voluto precisare che «in coerenza con tale principio, nel caso in questione, non si è proceduto ad indagini in  ragione della mera allegazione del certificato medico  da parte dell’avvocato Murano  richiedente il rinvio». Bensì «sulla base sia del verbale riassuntivo di udienza del Tribunale, in  cui si disponeva la trasmissione  “con urgenza” a questo ufficio, di copia del predetto  verbale e del certificato medico in questione  che, soprattutto, sulla base di ulteriori e  diverse circostanze di fatto concernenti la certificazione medica di cui si parla – non evidenziate dagli articoli di  stampa  in questione  –  che hanno reso doverosi gli accertamenti in corso».

«Naturalmente per l’avvocato Murano (come per qualsiasi altro cittadino indagato) vale la  presunzione d’innocenza». Ha aggiunto il procuratore. «Gli accertamenti in corso (si ripete doverosi e non fondati sulla semplice certificazione medica prodotta da parte del legale) come qualsiasi indagine  penale, non sono la “verità”, ma sono attività esclusivamente  finalizzate a verificare se  vi siano  i presupposti per esercitare l’azione penale seguendo tutte  le garanzie  e le  procedure previste dalla legge».

Curcio si è poi soffermato su altri aspetti della  vicenda per come rappresentati nei giorni scorsi in base a quanto riferito dallo stesso Murano. Come l’accesso nella sua abitazione di un medico accompagnato dai carabinieri, per verificare le sue condizioni di salute, e poi nel suo studio legale. Oltre alla presunta perquisizione subita dal medico curante dell’avvocato, che – sempre a suo dire – sarebbe stato «trattenuto per circa tre ore in caserma», e poi si sarebbe visto sequestrare il telefonino. Stesso dispositivo in cui il medico aveva installato «le applicazioni relative all’identità digitale, necessarie, tra le altre cose, a firmare le guarigioni e a disporre la fine della quarantena dei suoi pazienti».

«Contrariamente a quanto si è potuto leggere su alcuni  organi  di stampa – ha dichiarato Curcio – questo ufficio non  ha disposto  (né  è  stata  effettuata)  alcuna  perquisizione, alcun sequestro ovvero alcuna attività invasiva nei confronti  dell’avvocato  Murano, le cui prerogative  di avvocato difensore previste dalla legge non sono state in  alcun modo violate. Alcun documento o atto difensivo, alcuna conversazione di natura  professionale o solo lontanamente tale è stata acquisita o captata».

«L’avvocato Murano,  esperto penalista,  piuttosto, mostrando disponibilità e lealtà, ha consentito a che gli  organi delegati alle indagini potessero verificare le sue condizioni di salute». Ha aggiunto ancora il procuratore. «E tuttavia, va  precisato, tali organi non avevano ricevuto alcun mandato da questo ufficio (né lo stesso  è  stato  esercitato arbitrariamente)  di procedere  a visite coatte dell’indagato: ove  l’avvocato avesse inteso non consentire allo svolgimento della verifica, se ne sarebbe  semplicemente preso atto procedendosi a diversa ed ulteriore attività investigativa. Né, inoltre, corrisponde al vero, come pure si è avuto modo di leggere, che altro co-indagato nel medesimo procedimento sia stato “trattenuto” in caserma per tre ore. Quasi  a volere sottolineare un eccesso di potere da parte degli inquirenti. 

Semplicemente tale co-indagato, si è recato presso la  caserma dei carabinieri, come qualsiasi  cittadino cui vengono notificati degli atti giudiziari e nei cui confronti deve redigersi un  verbale,  per  il tempo necessario per formare e firmare  il verbale e riceverne copia,  avendo piena libertà di entrare ed uscire dalla caserma, come infatti è successo in questo  caso, e, comunque, ferma restando la piena facoltà dell’interessato di rifiutarsi di firmare  e di ricevere la copia degli atti stessi e di tornarsene a casa propria immediatamente,  come, peraltro, non di rado avviene».

«Invero – ha concluso Curcio – il principio di presunzione d’innocenza, di cui questo ufficio è convinto custode,  non  si può tradurre nella omissione di un doveroso accertamento dei fatti che deve  essere svolto nel rispetto della legge, senza la pretesa dell’infallibilità, ma anche senza  distinzioni riguardanti il ruolo sociale  e professionale di chi a tali accertamenti deve  essere sottoposto». Domani sulla vicenda è attesa anche la presa di posizione dell’avvocatura potentina tutta, dopo che il consiglio dell’Ordine ha convocato un’assemblea straordinaria ad hoc degli iscritti per «l’adozione dei provvedimenti conseguenziali».

Non è escluso, tuttavia, che  i legali  decidano di attendere la prossima settimana per valutare meglio il da farsi, dato l’incontro già fissato per lunedì tra il procuratore e i presidenti di Ordine degli avvocati di Potenza, Maurizio Napolitano, e Camera penale distrettuale, Sergio Lapenna, per un chiarimento di persona sull’accaduto.

L’avvocato è malato, il pm lo fa perquisire e poi lo indaga. L’incredibile vicenda di un legale di Potenza: il professionista ha richiesto il differimento dell’udienza per motivi di salute, ma il magistrato ha deciso di mandargli a casa i carabinieri e un medico. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 29 marzo 2022.

L’assenza giustificata in udienza dell’avvocato scatena l’ira del pubblico ministero, che manda i carabinieri a casa del professionista. È successo al Tribunale di Potenza. In occasione di un’udienza penale prevista lo scorso 24 marzo, l’avvocato Antonio Murano è stato impossibilitato, per motivi di salute certificati dal medico, a raggiungere il Palazzo di giustizia del capoluogo lucano e ha richiesto verbalmente, per il tramite di un collega, il differimento dell’udienza.

Nulla da eccepire da parte del Collegio B, presieduto dal giudice Federico Sergi, che ha accolto l’istanza del legale. A questo punto, però, si verifica l’imprevedibile. Il Collegio giudicante riceve, rigettandole, due richieste del pm Giuseppe Borriello. La prima volta a verificare le condizioni dell’avvocato assente per motivi di salute; la seconda riguardante la trasmissione del certificato alla Procura delle Repubblica. La vicenda prende una piega a dir poco incredibile.

«Dopo qualche ora – racconta l’avvocato Murano, che ha voluto informare, tra gli altri, il Consiglio nazionale forense, le Camere penali ed il Csm – nel primo pomeriggio, intorno alle 14, l’inaspettato arrivo nella mia dimora di un medico. Si è presentato accompagnato dai carabinieri per effettuare una visita disposta dalla Procura di Potenza. Pur non essendo questi visitatori muniti di alcun provvedimento giudiziario, e pur in assenza delle obbligatorie informazioni previste dagli articoli 369 e 369-bis del Codice di procedura penale, animato da uno spirito collaborativo e non avendo alcunché da occultare non mi sono opposto. Ho consentito quindi al medico di verificare il mio status».

L’avvocato Murano, penalista apprezzato in Basilicata e fuori regione, con quasi quarant’anni di carriera, non nasconde la propria amarezza. «Ho pensato – dice – che si trattasse di una esagerazione, immaginando che qualcuno avesse potuto dubitare della genuinità del certificato attestante la mia malattia, anche se non mi pare che sia mai stata disposta un’ispezione medica su un avvocato, né in tantissimi anni di onorata professione mi è mai capitato di sentire un episodio simile. Ad ogni modo, consentita la visita alla quale mi sarei potuto lecitamente opporre e concessa al medico inviato dalla Procura la facoltà di verificare le mie condizioni, ho sperato che la faccenda fosse chiusa». Non è andata invece così. Anzi, le cose si sono complicate ulteriormente con il coinvolgimento di alcuni parenti stretti del legale.

«Con stupore – spiega – ho appreso di essere addirittura indagato, non so per cosa, e nell’ambito di tali indagini sono stati disposti gli interrogatori di mia madre, cha ha più di ottant’anni, mio fratello e mio figlio Pasquale, che svolge con me la professione forense». Coinvolto anche il medico, Donato Labella. «Si tratta – aggiunge l’avvocato Murano – di uno stimato professionista, colpevole, è proprio il caso di dirlo, di avermi visitato e redatto il certificato. È stato trattenuto per circa tre ore nella caserma dei carabinieri di Rionero in Vulture, in provincia di Potenza, attinto da decreto di perquisizione locale e personale e decreto di sequestro del telefonino, vedendosi privato del dispositivo contenente le applicazioni relative all’identità digitale, necessarie, tra le altre cose, a firmare le guarigioni da Covid-19 e disporre la fine della quarantena dei suoi pazienti».

Una giornata lunghissima e da dimenticare quella del 24 marzo scorso per l’avvocato Murano. Con l’aggiunta di ulteriori anomalie e forzature. «In prima serata – spiega -, verso le 20, i carabinieri si sono recati, in mia assenza, presso il mio studio legale di Rionero in Vulture. Con tatto e discrezione, non posso negarlo, hanno chiesto di acquisire le registrazioni della videosorveglianza. Anche in tale occasione la richiesta appare anomala, in quanto non mi è stato notificato alcun avviso di garanzia che legittimasse atti invasivi della privacy e, quindi, pur sussistendo i presupposti per opporsi, veniva consentito l’accesso, che non dava alcun esito in quanto il sistema non era funzionante. Tutto si è verificato senza che io abbia ricevuto, ad oggi, un’informazione di garanzia o qualunque altro provvedimento, a fronte di azioni fortemente invasive del campo professionale e privato. Né si comprende la ragione di un simile sospetto che ha portato all’immediata iscrizione della notitia criminis con cotanto dispiego di forze, posto che il procedimento penale oggetto di rinvio non è prossimo alla prescrizione, i cui termini sarebbero rimasti, in ogni caso, sospesi, visto il differimento per motivi di salute del difensore».

Forse, quanto accaduto qualche giorno fa nel Tribunale di Potenza e nella città di Rionero, un tempo rientrante nel circondario del Tribunale di Melfi, soppresso nel 2013, non ha precedenti sia per la storia dell’avvocatura sia per quella della magistratura. «Ritengo – commenta l’avvocato Murano – quanto accaduto di una abissale gravità a maggior ragione se si tiene conto che il Collegio aveva ritenuto inopportuno qualsiasi accertamento, rigettando la relativa richiesta. È il momento, da parte di tutti gli organismi forensi e dell’intera avvocatura, di intraprendere ogni iniziativa volta a dare risalto con decisione all’accaduto al fine di affermare con forza il decoro ed il prestigio della classe forense, denigrato ed umiliato da episodi come quelli che mi hanno interessato, evitando, con fermezza, che possano incrinare i rapporti di stima tra magistratura e avvocatura, con azioni ingiustificatamente dirompenti, la cui eco rischierebbe di proscrivere anche le più banali facoltà difensorie nell’alveo della paura di vedersi colpiti da simili episodi».

Il legale del Foro di Potenza spera che quanto accaduto possa rientrare presto nei binari dell’equilibrio e della sobrietà dei comportamenti per tutti i protagonisti della giurisdizione. «Nel reciproco rispetto dei ruoli – conclude – è auspicabile che ciascun interprete eserciti i propri poteri e le specifiche prerogative con equilibrio e moderazione, al di là di ogni tensione. Il Tribunale è l’ambiente di lavoro degli avvocati e dei magistrati. È compito di tutti, quindi, agire nel prudente principio della cordialità e del vicendevole rispetto, che dovrebbe costituire la regola fondamentale dei rapporti tra le parti, nel supremo interesse della giustizia».

Avvocato indagato a Potenza, il procuratore: «Accertamenti doverosi, ma nessuna perquisizione». Il Dubbio l'1 aprile 2022.  

La Procura in una nota afferma di non aver «disposto (né è stata effettuata) alcuna perquisizione, alcun sequestro, ovvero alcuna attività invasiva nei confronti dell'avvocato Murano, le cui prerogative di avvocato difensore non sono state in alcun modo violate».

Sono «doverosi» gli accertamenti in corso sulla certificazione medica presentata dall’avvocato Antonio Murano, del Foro di Potenza, per chiedere il rinvio di un’udienza: è questo uno dei passaggi di un comunicato diffuso stamani dal Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio.

Secondo Curcio, le «recenti notizie di stampa danno conto» della vicenda «in modo inesatto, con particolare risalto e grave pregiudizio. Bisogna immediatamente dire che questo Ufficio – ha scritto il Procuratore – intrattiene rapporti cordiali e improntati al reciproco rispetto con il Foro di questo Tribunale. Mai questo Ufficio, da quando è da me diretto (cioè da quattro anni) ha avviato indagini su avvocati per il solo fatto che avessero chiesto un rinvio di un’udienza per un impedimento a comparire allegando certificati di malattia o altro».

In particolare, per la vicenda dell’avvocato Murano, Curcio ha evidenziato che «non si è proceduto a indagini in ragione della mera allegazione del certificato medico», ma «sulla base sia del verbale riassuntivo di udienza del Tribunale, in cui si disponeva la trasmissione “con urgenza” a questo Ufficio di copia dello stesso certificato, che, soprattutto, sulla base di ulteriori e diverse circostanze di fatto concernenti la qualificazione medica di cui si parla – non evidenziate dagli articoli di stampa – che hanno reso doverosi gli accertamenti». Inoltre, Curcio ha «precisato» che la Procura non ha «disposto (né è stata effettuata) alcuna perquisizione, alcun sequestro, ovvero alcuna attività invasiva nei confronti dell’avvocato Murano, le cui prerogative di avvocato difensore non sono state in alcun modo violate»

Avvocato malato sotto indagine, il Cnf scrive al Pg Salvi. La presidente Masi sul caso del legale di Potenza preso di mira dai pm: «Perplessità sull’operato di una Procura in spregio alla dignità della classe forense». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 31 marzo 2022.

La vicenda dell’avvocato del Foro di Potenza, Antonio Murano, ha assunto rilevanza nazionale ed è approdata in Parlamento. La presidente del Cnf, Maria Masi, ha scritto al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione, Giovanni Salvi, affinché venga acquisito dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza «ogni elemento utile a consentire la ricostruzione dei fatti e, qualora riscontri elementi di rilevanza disciplinare, procedere all’esercizio della relativa azione».

«Ferme restando – evidenzia la presidente del Cnf – le autonome e indipendenti valutazioni del Collegio giudicante circa la fondatezza dell’impedimento a comparire addotto dal collega e ferme restando le autonome valutazioni dell’Ufficio del Pubblico ministero circa la fondatezza della notizia criminis e la conseguente iscrizione del collega nel registro delle persone indagate, su cui non mi permetto di entrare nel merito, desta perplessità, e qualche timore, che un Ufficio di Procura, evidentemente eccedendo nelle proprie prerogative, abbia operato in spregio alla dignità, al decoro e al prestigio della classe forense. Gli avvocati tutti, anche per previsione deontologica, debbono avere massimo rispetto per la magistratura, sia inquirente che requirente. La magistratura, del pari».

Il senatore Giuseppe Luigi Cucca di Italia Viva ha preparato un’interrogazione orale con carattere d’urgenza indirizzata alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Lo scorso 24 marzo l’avvocato Murano è stato impossibilitato a partecipare ad un’udienza penale per motivi di salute certificati dal medico. In quella occasione ottenne dal presidente del collegio giudicante il differimento ad altra data. Il pubblico ministero Giuseppe Borriello ha chiesto però la verifica delle condizioni di salute del legale, assente in udienza, e la trasmissione del certificato medico alla Procura delle Repubblica. Entrambe le richieste sono state respinte dal giudice. Murano ha ricevuto lo stesso la visita dei carabinieri, disposta dal pm, che hanno accompagnato un medico nella dimora del professionista per verificare il suo effettivo stato di salute. Qualche ora dopo, i militari dell’Arma hanno ascoltato anche l’anziana madre dell’avvocato, il figlio (anch’egli togato del Foro potentino) e il fratello.

Ma le verifiche non si sono fermate qui. Hanno coinvolto pure il medico. Inoltre, i carabinieri si sono recati, in assenza dell’avvocato Murano, presso il suo studio legale per acquisire le registrazioni della videosorveglianza. Una richiesta anomala e invasiva della privacy. «Quanto accaduto nel Tribunale di Potenza – dice al Dubbio il senatore Cucca – mi ha lasciato senza parole. Mi sto abituando a tutto, ma trattare così un avvocato non può che farmi preoccupare. Stiamo vivendo un momento di grandi tensioni per quanto riguarda i rapporti tra avvocatura e magistratura». L’interrogazione presentata da Cucca, che è anche avvocato, mira a chiarire tutti i contorni della vicenda. «Voglio sapere – spiega – se la ministra Cartabia è a conoscenza dei fatti e quali sono i suoi intendimenti in merito. Inoltre, voglio conoscere le iniziative che la ministra ritiene di adottare per prevenire il ripetersi di vicende come quelle accadute presso il Tribunale di Potenza. È emerso da quanto si apprende che il potere requirente ha tentato di interferire, travalicando i propri poteri e le proprie competenze, su decisioni già assunte dall’organo giudicante».

Il Coa di Potenza ha convocato l’assemblea straordinaria degli iscritti il 1 aprile, con sospensione delle udienze dalle 10 alle 14, sul caso Murano per decidere quali iniziative intraprendere. Il presidente nazionale del Movimento Forense, Antonino La Lumia, esprime preoccupazione: «Non è concepibile, in uno stato di diritto, che si possa verificare, ma anche soltanto immaginare, quanto accaduto. Sono stati messi in un angolo e inammissibilmente calpestati i principi fondamentali del giusto processo e delle garanzie connesse al diritto di difesa, ledendo, nel contempo, l’immagine, la reputazione e la funzione stessa dell’avvocatura. Per tali ragioni, la nostra associazione, esprimendo solidarietà e vicinanza al collega potentino e preso atto dell’immediata convocazione del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Potenza per discutere di tale grave situazione, chiede che le massime istituzioni forensi adottino i provvedimenti più opportuni a tutela dell’intera categoria, stigmatizzando ogni possibile condotta, che, come nel caso di specie, determini la compromissione dei diritti costituzionalmente garantiti».

La Camera penale di Basilicata rileva che «quanto accaduto ha profondamente scosso ed allarmato l’avvocatura tutta, per le modalità che, allo stato, appaiono abnormi». «Al di là del caso specifico – aggiunge il presidente Sergio Lapenna -, tale modus agendi e lo strepitus fori che ne è seguito, ancora una volta tratteggia la figura dell’avvocato ed il suo ruolo di difensore quale elemento di disturbo e intralcio all’attività giudiziaria». Ieri il Procuratore distrettuale di Potenza, Francesco Curcio, ha chiarito che «non si è proceduto ad indagini in ragione della mera allegazione del certificato medico da parte dell’avvocato Murano, richiedente il rinvio, ma sulla base sia del verbale riassuntivo in udienza del Tribunale, in cui si disponeva la trasmissione “con urgenza” a questo Ufficio, di copia del predetto verbale e del certificato medico in questione che, soprattutto, sulla base di ulteriori e diverse circostanze di fatto concernenti la certificazione medica di cui si parla, che hanno reso doverosi gli accertamenti in corso». «Circostanze di fatto» che la Procura non rivela per «evidenti ragioni di riservatezza» e per tutelare le indagini e gli indagati.

Il pg Salvi risponde alla presidente Masi: “Già in corso accertamenti disciplinari”. La lettera con cui il procuratore generale della Cassazione replica alla richiesta della presidente Cnf in merito al caso dell'avvocato Murano. Il Dubbio l'1 aprile 2022.

Pubblichiamo di seguito la lettera inviata alla Presidente del Cnf Maria Masi dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi in relazione all’indagine sull’avvocato del Foro di Potenza Antonio Murano, indagine avviata dalla Procura di Potenza dopo che il professionista aveva chiesto, e si era visto riconosciuto dal Tribunale, il legittimo impedimento a presenziare in udienza.

Egregia Presidente Masi,

ho ricevuto la Sua lettera datata 29 marzo ma in realtà spedita il giorno successivo. Purtroppo ne ho letto il contenuto questa mattina sul vostro quotidiano, prima ancora che fosse possibile una diretta interlocuzione con il Consiglio Nazionale. Rispondo quindi alla S.V., inviando contestualmente a Il Dubbio copia di questa nota, per completezza di informazione, certo che questa sia anche la vostra volontà. Il mio ufficio è stato informato già la mattina di ieri 30 marzo con una relazione del Procuratore generale e del Procuratore della Repubblica. Sono quindi stati avviati immediati accertamenti in sede predisciplinare, che saranno rigorosi e al tempo stesso rispettosi delle prerogative dell’organo inquirente, come peraltro la stessa Sua nota suggerisce. Sono certo che il Consiglio distrettuale di disciplina forense stia agendo con la medesima tempestività ai necessari, paralleli accertamenti.

I più cordiali saluti,

Il teatro dell'assurdo. L’avvocato sta male, blitz in casa della Procura: “E’ indagato per falso, interroghiamo tutta la sua famiglia”. Paolo Comi su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Per i giudici era malato grave e non poteva essere presente in udienza. Per il pm, invece, la malattia era immaginaria ed il certificato medico un tarocco. La “sorprendente” vicenda, anche se nel meraviglioso mondo della giustizia italiana ormai è sempre più difficile trovare qualcosa di cui stupirsi, è capitata lo scorso 24 marzo al Tribunale penale di Potenza. L’avvocato Antonio Murano, con studio a Rionero in Vulture, quella mattina aveva un processo davanti al collegio presieduto dal giudice Federico Sergi. La sera prima, però, Murano viene colpito da una fortissima colica al punto da richiedere l’intervento del medico.

Murano, non essendo in condizioni di presentarsi in aula per difendere il suo assistito, avvisa quindi un collega di sostituirlo, invitandolo anche a chiedere ai giudici un rinvio per legittimo impedimento. l giudici, sentite le giustificazioni del collega, accolgono la richiesta di Murano che non avrebbe causato problemi allo svolgimento del processo dal momento che il legittimo impedimento del difensore interrompe automaticamente il decorso della prescrizione. Murano, purtroppo, non aveva fatto i conti con il pm Giuseppe Borriello che aveva chiesto al collegio una verifica, non accolta, sulle sue condizioni di salute.

Alle 14 si presentava presso la casa dell’avvocato Murano un medico scortato da una pattuglia di carabinieri. Alla richiesta di spiegazioni, il medico rispondeva di dover effettuare una visita su mandato della Procura di Potenza. Murano, non avendo nulla da nascondere, accettava di farsi visitare. Quando pensava che fosse finita lì, con l’attestazione del non positivo stato di salute, Murano scopre di essere addirittura stato iscritto nel registro degli indagati della Procura lucana con l’accusa di “false dichiarazioni o attestazioni in atti destinati all’Autorità giudiziaria”, un reato punito con 6 anni di prigione. Come se non bastasse, la Procura di Potenza aveva disposto gli interrogatori a tappeto di tutti i suoi familiari, dal figlio al fratello, iniziando dall’anziana madre ultraottantenne.

Per non farsi mancare nulla, al medico curante che aveva redatto il certificato medico per l’indisposizione, veniva prima perquisito lo studio e poi, una volta tradotto nella caserma dei carabinieri, sequestrato il telefonino all’interno del quale erano contenute le app per certificare la fine della quarantena per i pazienti Covid. Ma l’incredibile giornata era ancora lunga. Alle otto di sera, infatti, un’altra pattuglia di carabinieri si recava nello studio di Murano per acquisire le immagini della video sorveglianza. Acquisizione che non aveva successo essendo le telecamere non funzionanti. L’avvocato Murano, scosso da quanto accaduto, il giorno dopo scriveva allora una lettera a tutti i vertici degli uffici giudiziari lucani, presidente della Corte d’appello e procuratore generale inclusi, ed al Consiglio superiore della magistratura.

«Il tribunale è l’ambiente di lavoro degli avvocati e dei magistrati: è compito di tutti agire nel principio di cordialità e reciproco rispetto che dovrebbe costituire la regola nel supremo interesse della giustizia», ha ricordato Murano. Immediatamente è scattata la solidarietà dei colleghi. «Non è concepibile in uno stato di diritto che si possa soltanto immaginare quanto è accaduto», ha detto l’avvocato Nino La Lumia del Movimento forense. Paolo Comi 

Caso Murano, cala il gelo tra procura e avvocati: «Stop a tutte le udienze». Il Foro di Potenza proclama l'astensione dal 13 al 24 aprile. Il racconto del legale: "Perquisito e indagato senza garanzie". Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 6 aprile 2022.

Lo scontro tra l’avvocatura potentina e la Procura di Potenza è ormai conclamato. Nella storia del Foro potentino non si registrano astensioni così lunghe, come quella decisa dall’assemblea straordinaria degli iscritti qualche giorno fa. Lo stop a tutte le udienze (penali, civili, amministrative e tributarie) è previsto dal 13 al 24 aprile. Lunedì gli avvocati Maurizio Napolitano e Sergio Lapenna, rispettivamente presidente del Coa di Potenza e presidente della Camera penale distrettuale della Basilicata, hanno incontrato il Procuratore Francesco Curcio. «Un confronto cordiale anche se ognuno è rimasto sulle proprie posizioni», hanno fatto sapere i due legali.

Sulla vicenda interviene il diretto interessato: Antonio Murano. L’avvocato indagato e sottoposto a controlli nel suo studio legale di Rionero in Vulture, dopo essersi assentato in una udienza penale per motivi di salute, certificati da un medico, parla di «preoccupanti evoluzioni della triste vicenda» che lo sta riguardando. Lo fa ripercorrendo i momenti in cui è stato raggiunto dal medico fiscale in compagnia dei carabinieri per svolgere una visita disposta dalla Procura di Potenza. Un atto, definito dal professionista, «invasivo di natura medica», dal quale è derivata una «ispezione corporale». Tutto «senza ricevere i necessari prodromici avvisi di garanzia». Il resto della vicenda è ormai noto. O meglio l’ulteriore piega che ha preso il pomeriggio del 24 marzo scorso, con le sue «forzature e violazioni di legge», come le definisce Murano, dopo che nella mattinata si era tenuta la controversa udienza penale davanti al Collegio “B”, presieduto dal giudice Federico Sergi.

Al termine degli interrogatori di diverse persone, compresi i familiari dell’avvocato, nella serata i carabinieri raggiungevano lo studio legale per visionare l’impianto di videosorveglianza e acquisire le registrazioni. Qui un’altra forzatura, denunciata da Murano: ancora una volta le operazioni si svolgevano «senza alcuna garanzia procedimentale e senza la presenza personale del Pm e senza aver preventivamente avvertito il Consiglio dell’Ordine, in violazione dell’articolo 103 del Codice di procedura penale». Ricordiamo che il medico certificante, Donato Labella, ha subito una perquisizione ed il sequestro del cellulare. Ora l’avvocato Murano risulta essere indagato. «Solo in data 28 marzo – dice -, in occasione della notifica di un accertamento tecnico irripetibile sul telefono sequestrato al medico, ho appreso formalmente di essere stato iscritto nel registro degli indagati». Il procedimento a suo carico vede impegnati ben due Sostituti procuratori (Antonella Mariniello e Giampaolo Robustella) ai quali si aggiunge il Procuratore Francesco Curcio.

«Il reato contestatomi – aggiunge il legale -, peraltro senza descrizione della condotta, è quello previsto dall’articolo 374 bis del Codice penale, che al secondo comma prevede la reclusione fino a sei anni e si applica inequivocabilmente alle false certificazioni che riguardano specificamente imputati, condannati o persone sottoposte a prevenzione e non ai difensori di questi ultimi. Senza volermi addentrare in valutazioni di esclusiva competenza della Procura e nel rispetto delle sue prerogative, mi limito ad osservare che esistono gli articoli 480 e 481 del Codice penale, applicabili ed applicati in casi analoghi, con pene decisamente inferiori. Qualsiasi operatore del diritto comprenderà che dalla qualificazione giuridica, operata dai Pm, discendono differenti ed accresciuti poteri investigativi. Trovo singolare una simile contestazione, idonea a consentire lo svolgimento di atti di indagine maggiormente invasivi».

A tutto questo baillame si aggiunge, poi, la questione del verbale di udienza nella sua duplice versione. È lo stesso Murano a riflettere sulla grande confusione generata dalla redazione dei due verbali del 24 marzo: uno con il resoconto fonoregistrato, che trova riscontro nei file audio depositati in Tribunale; l’altro redatto in forma sintetica ai sensi dell’articolo 480 del Codice di procedura penale. «Questa gravissima difformità – afferma il penalista – costituisce una circostanza profondamente inquietante, che getta, purtroppo, ulteriori ombre sinistre sull’intera vicenda». L’avvocato riflette pure sulla presa di posizione del Procuratore della Repubblica di Potenza, Francesco Curcio, assunta con il caso già scoppiato. «Con comunicato – evidenzia – il dottor Curcio ha proclamato rapporti di cordialità e rispetto intercorrenti tra la Procura ed il Foro di Potenza, ritenendo però opportuno diramare il predetto comunicato alla stampa, prima ancora di procedere all’interlocuzione formale richiesta da istituzioni ed associazioni forensi. La suddetta nota, tra l’altro, non chiarisce affatto la vicenda. Anzi, liquida clamorosamente la visita medica che ho ricevuto, in dispregio alle garanzie difensive, chiosando che avrei potuto non acconsentirvi. Si confonde, peraltro, sul soggetto che l’ha disposta nel momento in cui si afferma che la Pg ed il medico non avevano ricevuto alcun mandato dalla Procura, insinuando il dubbio che abbiano agito autonomamente e smentendo le dichiarazioni verbali fornite dagli stessi operatori. Parimenti dicasi per l’accesso presso lo studio legale e la richiesta di acquisizione delle registrazioni della videosorveglianza».

I carabinieri non si sono mossi spontaneamente. «Checché se ne dica ed a qualunque norma del codice di rito le si voglia ancorare – conclude Murano -, le suddette attività di indagine sono state disposte dalla Procura e avrebbero richiesto la notifica dei prodromici avvisi di garanzia, rafforzati per gli atti riguardanti lo studio legale. Ed è quantomeno singolare che un Procuratore dell’abilità e dell’esperienza del dottor Curcio intenda banalizzare tale omissione dietro la laconica affermazione che “l’avvocato Murano esperto penalista” avrebbe potuto non consentirla. Siamo di fronte ad elementari principi del Codice di procedura penale, che non prevedono diverse applicazioni commisurate all’esperienza penalistica dell’indagato».

Quelle “Sentenze memorabili” che hanno scritto la storia. La carriera di Conte, che indossa la toga da cinquantasette anni, è costellata non solo da successi nelle aule giudiziarie, ma si caratterizza per il suo infaticabile impegno culturale. Gennaro Grimolizzi Il Dubbio il 17 marzo 2022.

Conoscere la storia attraverso alcuni processi. L’avvocato Augusto Conte nel suo ultimo libro, “Sentenze memorabili” Edizioni Il Grifo, pagg. 207, euro 18), conduce il lettore in un viaggio che dura diversi secoli e che ha come protagonisti, tra gli altri, Dante, Galileo Galilei, Gioacchino Murat, fino ad arrivare ad un “principe del Foro” come Alfredo De Marsico. La carriera di Conte, che indossa la toga da cinquantasette anni, è costellata non solo da successi nelle aule giudiziarie, ma si caratterizza per il suo infaticabile impegno culturale. Prolifico scrittore, Conte è autore di decine di testi rivolti agli operatori del diritto e dedicati alla storia dell’avvocatura. Un impegno ed una passione che lo rendono un raffinato uomo di cultura. L’ultimo lavoro editoriale riguarda le sentenze pronunciate in occasione di fatti che, direttamente o indirettamente, hanno segnato il corso della storia.

«Gli accadimenti umani – dice al Dubbio l’avvocato Conte -, nell’avvicendarsi delle società, normalmente costituiscono oggetto di studio di storici, di sociologi, di filosofi, di teologi e più raramente di giuristi, e ancora più sporadicamente vengono utilizzate per le strutturazioni storiche le pronunce giurisdizionali che determinano i destini degli uomini e delle società, a volte deviandoli. Con questa mia ultima ricerca ho inteso innanzitutto soddisfare una esigenza storica sulla giurisdizione. Ho voluto fornire elementi utili agli storici, ai sociologi, ai filosofi, ai teologi, per ricomporre e ristrutturare eventi attraverso i provvedimenti giudiziari, specie nel campo penale, che non solo segnano la vita delle persone cui sono destinate, mutandone il corso, ma incidono sui mutamenti della società».

Alcune sentenze hanno consentito al legislatore di affrontare particolari fenomeni sociali. «Ordinariamente – spiega l’autore di “Sentenze memorabili” – la legislazione, più che prevenire, segue il divenire dei mutamenti sociali, specialmente quando si presentano fenomeni che sconvolgono la società. Diverse volte, in tutti i tempi, il legislatore ha dovuto fare ricorso alla legislazione di emergenza per contenere la diffusione e la perpetuazione di accadimenti. Si pensi alla Legge Pica del 1863 per contenere il fenomeno di quello che fu definito “brigantaggio”, alle “Misure urgenti per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa” e alle “Misure a favore di chi si dissocia dal terrorismo”».

«Anche le decisioni giurisprudenziali hanno stimolato il legislatore, che si muove molto lentamente, a introdurre leggi. Come stiamo verificando in questi ultimi tempi, la Corte Costituzionale, interessata in via incidentale su problematiche sollevate nel corso di giudizi ordinari che interessano la salute, la vita, i diritti dei cittadini, per evitare di travalicare dai suoi compiti con l’emanazione di sentenze “additive”, su temi delicati, ha più volte dato impulso al Parlamento di legiferare, non ottenendo sollecite risposte per il freno costituito dai variegati schieramenti politici».

«Un processo non può restituire la verità, ma fornire una ricostruzione, «umanamente accettabile», in grado di appagare il senso del giusto nella collettività. Si pensi a quanto affrontato da Galileo Galilei. «Molte decisioni adottate a conclusione di processi – commenta Conte – non solo condizionano, non solo intralciano il corso degli eventi, ma ritardano l’evoluzione storica. Emblematica è, per stare al campo della scienza, la condanna di Galileo Galilei, che, oltre a ritardare l’evolversi della scienza, fornisce una verità deliberata rivelatasi poi fallace. Nel campo socio- politico le sentenze del Tribunale Speciale fascista soffocarono le libertà democratiche di pensiero e di esercizio delle ideologie che si opponevano al regime, frenando le aspirazioni, personali e sociali, al cambiamento».

Tra i casi giudiziari contenuti in “Sentenze memorabili” anche quello che ha riguardato Alfredo De Marsico, ministro della Giustizia e aderente all’ordine del giorno di Dino Grandi che portò alla caduta del fascismo. De Marsico fu professore di Diritto e Procedura penale. Dopo la Seconda guerra mondiale ricoprì per molti anni la carica di presidente dell’Ordine degli avvocati di Napoli. «Il “Processo di Verona” – evidenzia Augusto Conte – non colpì né l’uomo, né l’avvocato- professore. Venne pronunciata una sentenza che si può con fatica definire politica, che condannò a morte i traditori dell’idea fascista. Il processo e la sentenza furono imposti dagli ex alleati tedeschi e favoriti da fascisti delusi perché tenuti a margine durante il regime, perché facinorosi e contrari all’armonia che il fascismo voleva creare. Sottrattosi con la latitanza alla condanna, dopo avere subito l’epurazione, De Marsico riprese la cattedra di Diritto Penale alla Sapienza di Roma, fu eletto consecutivamente per dieci anni presidente dell’Ordine di Napoli, ma soprattutto ritornò a discutere nel Foro, regalandoci la sua oratoria, non enfatica o ridondante, ma essenziale e avvincente, alla quale l’impronta del classicismo forense veniva raffinata e filtrata da contenuti giuridici e scientifici».

Qui i ricordi di Conte affiorano con limpida emozione: «Ho avuto modo più volte di constatare di persona la caratura umana e professionale di De Marsico. Nel 1976, nel corso di un processo presso la Corte di Assise di Appello di Lecce, nel quale difendevamo imputati con distinti capo di imputazione, trascorsi una giornata indimenticabile in compagnia del maestro. Mi confidò che stava riordinando i pensieri sulla notte del Gran Consiglio, mentre a me sembrava di essere a colloquio con la storia».

La polvere sotto il tappeto. Il triste declino degli avvocati: considerati correi, processati e persino condannati. Otello Lupacchini su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Sono lontani i tempi in cui, analizzando il processo penale nel suo momento tecnicamente più delicato, Francesco Carnelutti coglieva un risultato di una certa importanza per la civiltà, quale la «riabilitazione degli avvocati» (Le miserie del Processo Penale, Torino 1947, pp. 37 ss.). Recenti vicende, sulle quali tornerò in seguito, e a prescindere dal coinvolgimento di noti avvocati in procedimenti penali nella veste di imputati per rapporti, considerati, almeno nella prospettiva dell’accusa, poco o nulla ortodossi, ribadiscono nei fatti come quella dell’avvocato sia una delle figure più discusse nel quadro sociale. A partire dalla seconda metà del secolo scorso, salvo rare e lodevoli eccezioni, la letteratura giuridica è progressivamente e, alla fine, irrimediabilmente scaduta ad ars poetica da tirapiedi.

Ciò è ascrivibile, innanzi tutto, alla deriva della «scienza della legge», già magistralmente descritta nei primi decenni del Cinquecento, là dove si sostituisca all’«autorità» dei dottori quella dei precedenti giurisprudenziali, dal Francesco Guicciardini dei Ricordi (BUR, 1984, C-208, p. 178): se nella decisione di una causa è «da uno canto qualche viva ragione», dall’altro l’autorità di un precedente «più si attende nel giudicare»; questo implica che l’operatore impieghi il tempo che, invece, «sarebbe a mettere in speculare» proprio nella ricerca dei precedenti: «così quello tempo, si consuma in leggere (almagesti giurisprudenziali) con stracchezza di animo e di corpo, in un modo che l’ha più similitudine a una fatica di facchini che di dotti». Ed è ascrivibile, altresì, alla proliferazione di retori ai quali, per dirla con Tito Castricio, «è consentito usare argomenti falsi, audaci, inventati, subdoli capziosi, purché siano verosimili e possano, con qualche astuzia, influenzare gli animi da commuovere degli uomini», e reputano «turpe» se in una «cattiva causa» lasciano qualcosa trascurato e indifeso (Aulo Gellio, Noctes Atticae, 1, 4).

Comprensibile, dunque, perché oggi sembrino suonare ai più come moneta falsa i rilievi di Francesco Carnelutti per il quale «un uomo, per essere giudice, dovrebbe essere più di un uomo», e perché appaiano altresì ormai jou de mode ai più le spiegazioni in proposito del grande giurista, tanto che, in nome del mito dell’efficienza, è stato sostanzialmente abbandonato il «correttivo» ispirato dall’insufficienza del giudice, vale a dire il collegio giudiziario quale «rimedio» suggerito dall’esperienza, troppo spesso sostituito da quella contradictio in adiecto che è il «tribunale monocratico», là dove, peraltro, non si tiene più in alcun conto la parzialità dell’uomo, che è invece il punto di partenza per capire. Vale, comunque, la pena di ripercorrere, sia pure in via di rapidissima sintesi, il limpido argomentare del grande penalprocessualista, risalente a quando era ancora vigente, nella versione originaria, l’arcigno codice di rito penale fascista. Proprio per la sua parzialità, egli sostiene, nessun uomo arriva ad afferrare la verità, essendo quella che ciascuno ritiene la verità null’altro che un aspetto di essa, «qualcosa come una faccetta di un diamante meraviglioso». Se, dunque, «La verità è come la luce o come il silenzio, i quali comprendono tutti i colori e tutti i suoni, dove, tuttavia, la fisica ha dimostrato che il nostro occhio non vede o il nostro orecchio non ode che un breve segmento della gamma dei colori o dei suoni», ciò spiega il modo di dire «il giudice stabilisce chi abbia ragione». Come la verità, la ragione è infatti una sola, ma nel processo ciascuna delle parti dice le sue ragioni, quelle per le quali vengono chieste, a seconda di chi ne sia rispettivamente il portatore, tanto la condanna quanto l’assoluzione.

Se ragionare significa porre delle premesse e trarne delle conclusioni, l’accusatore e il difensore sono due ragionatori, ma il loro è un ragionare in modo diverso da quello del giudice; essi ragionano «a rime obbligate», poiché ognuno deve cercare le premesse per arrivare a una conclusione obbligata. Le parzialità del difensore e del suo avversario, che si contrappongono dialetticamente, sono il prezzo da pagare per ottenere l’imparzialità del giudice, «che è poi il miracolo dell’uomo, in quanto, riuscendo a non essere parte, supera sé stesso». Tutto ciò potrebbe sembrare assurdo, ma è proprio qui la chiave del processo: guai se il giudice, in presenza di prove apparentemente lampanti della colpevolezza o dell’innocenza, condannasse o assolvesse senza continuare nell’indagine fino ad averne esaurito tutte le risorse. Ovvio che, per fare questo, il giudice debba essere aiutato, non potendo riuscirci da solo, e il suo «aiutante naturale» è il difensore, il quale, tuttavia, avendo l’interesse di cercare le ragioni utili a dimostrare l’innocenza dell’accusato, è sì un aiutante prezioso per il giudice, ma anche un aiutante pericoloso, a causa della sua parzialità, così che, per renderlo innocuo, gli viene contrapposto quel ragionatore altrettanto parziale in senso inverso, che è il pubblico ministero, il quale meglio sarebbe, dunque, chiamare accusatore.

È certo uno «scandalo» quello delle due verità, della difesa e dell’accusa, ma il giudice ne ha bisogno, affinché scandaloso non sia il suo giudizio.

Neppure nei momenti più convulsi della storia, si è mai proposta, per esempio, la soppressione dei medici o degli ingegneri, ma quella degli avvocati sì; e, talvolta, come nei periodi più bui dell’Inquisizione, si è riusciti anche a sopprimerli, sebbene, fortunatamente, siano poi subito risorti. Eppure, ancora oggi, è tragicamente sin troppo facile incontrare sostenitori della massima secondo cui «plerumque propter enormitatem delicti licitum est iura transgredi», così «in puniendo» come «etiam in procedendo», là dove, naturalmente, i crimini atroci che legittimerebbero la violazione del principio di legalità della pena e anche delle regole processuali non sono più, come un tempo, le eresie o i traffici col demonio, ma il terrorismo, la mafia, e la corruzione. In fondo, il sistema inquisitorio tende a riprodursi: ingerisce idee, restituisce formule, fabbrica le proprie creature, tutte uguali, omuncoli nella provetta di un mago: come l’Inquisizione con la «I» maiuscola anche l’odierna inquisizione con la «i» minuscola dispone di reggicoda, turiferari, consolatori, prefiche, necrofori, scomunicatori, apologeti, dottori, falsari, pedagoghi, libellisti, araldi, agiografi, esegeti, casuisti, cortigiani, cicisbei, mezzani, bottegai, sensali, barattieri, plagiari, aguzzini, legislatori, spie, censori, sbirri, carcerieri, flagellatori, carnefici.

Per fortuna, anche fosse dieci volte più numeroso, questo smisurato esercito lavora sempre in perdita, come i giocatori che puntano il pari, il dispari e lo zero. Alcuni casi clinici la dicono più lunga di pur raffinatissime costruzioni teoriche. Un’ulteriore premessa è, comunque, d’obbligo. Sebbene l’art. 24 comma 2 della Costituzione riconosca solennemente che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento», vi è chi, non dandosene per inteso, alimenta campagne denigratorie contro gli avvocati, adiuvante, peraltro, un difetto della macchina processuale, che anche per questo funziona male: a differenza del difensore, il pubblico ministero è concepito come ragionatore imparziale, sebbene, nove volte su dieci, la logica delle cose lo trascini a essere l’antagonista del difensore. Anni or sono, si diede il caso di un avvocato che svolgeva con coraggio il proprio mestiere, per ciò oggetto di critiche, di sospetti, di pedinamenti, in indagini sempre archiviate, avendo assistito per anni quelli che tutti consideravano i peggiori: dal fattore di Arcore, Vittorio Mangano a Giovanni Pullarà, dal Papa della mafia, Michele Greco, a Bernardo Provenzano; secondo la vulgata popolare era un «avvocato di mafia» o l’«avvocato del diavolo», come lo definì un noto giornalista, in un memorabile articolo apparso su un importante quotidiano nazionale.

Più di recente, a prescindere dal caso del difensore le cui conversazioni con l’assistito, indagato, ma archiviato, non solo sono state proditoriamente intercettate, ma anche illecitamente trascritte e poi depositate dal procuratore generale della Cassazione agli atti di un procedimento disciplinare a carico di un terzo, in barba all’exclusionary rule di cui all’art. 103 comma 7 del codice di procedura penale, senza che la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura vi abbia trovato nulla da eccepire, mi è capitato d’imbattermi nelle vicissitudini di due avvocati milanesi, posti di fronte all’interrogativo, come possa un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio. Tutto nasceva da un complesso contenzioso civile, con risvolti penali a carico dell’assistito.

A tacere caritatevolmente del garbo del giudice penale di primo grado, il quale dopo aver manifestato a più riprese il fastidio durante tutto il corso delle arringhe difensive, sino all’abbandono, bofonchiando, dell’aula di udienza, mentre l’esposizione era ancora in corso, è da rimarcarne, invece, la decisione di trasmettere gli atti alla procura della Repubblica per valutazioni circa l’esercizio dell’azione penale nei confronti dei difensori, rei di non essersi dissociati dalle dichiarazioni del proprio cliente, in virtù del principio, Dio sa da dove esatto, che gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe difensive, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani», concorrono nel reato della persona che difendono. Il fatto che si giunti a tanto è esemplare dell’insofferenza di certa magistratura per «quei Cirenei della società», sono ancora parole di Francesco Carnelutti, che «portano la croce per un altro e questa è la loro nobiltà».

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione

«Un giudice “estraneo” in Camera di Consiglio: il Csm non ci vuole dire che fine ha fatto l’esposto». La denuncia dell'avvocato Murolo: «La sentenza di condanna del mio assistito potrebbe essere nulla, ma la procura generale ci nega gli atti che ci servono per dimostrarlo». Simona Musco su Il Dubbio il 9 marzo 2022.

Non per tutti i magistrati il diritto alla privacy vale allo stesso modo. A sostenerlo è l’avvocato Giancarlo Murolo, del foro di Reggio Calabria, alle prese con la decisione della procura generale della Cassazione – confermata dal Tar del Lazio – di non rendere noto l’esito di un procedimento disciplinare a carico di quattro magistrati reggini per ragioni di riservatezza. Una decisione importantissima, per il legale, dal momento che la stessa potrebbe essere utile a stabilire la nullità della sentenza di condanna a carico di un suo assistito, Rocco Ripepi, coinvolto nell’operazione antimafia “Gambling”. Processo che ora pende davanti alla Cassazione e la cui udienza è prevista per il 4 aprile. Ma all’appuntamento la difesa sarà costretta probabilmente ad arrivare senza un documento fondamentale, quello che potrebbe provare la necessità di azzerare il lavoro dei giudici di merito.

La vicenda affonda le sue radici nel 2019, quando Ripepi, in attesa della decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria, vede entrare in camera di consiglio un magistrato estraneo al collegio giudicante, ma anzi impegnato in precedenza come giudice del Riesame nel definire la posizione cautelare di un coimputato. Una “visita” durata circa un’ora e mezza, con la conseguente «violazione della segretezza della camera di consiglio», denuncia Murolo. «Il collegio – si legge nel ricorso al Consiglio di Stato – alle ore 12.30 circa» si era «ritirato in camera di consiglio, avvertendo che intorno alle 19 circa si sarebbe data lettura del dispositivo. Alle ore 19.45 circa, i ricorrenti con altri coimputati ed i loro familiari, in attesa dentro e fuori la sede della locale Corte d’Appello, hanno notato l’ingresso» di un giudice del Riesame, «il quale raggiungeva la stanza ove il collegio stava deliberando la sentenza. Questi si allontanava dalla predetta stanza intorno alle ore 21,10 circa, quindi dopo quasi un’ora e mezza di permanenza in camera di consiglio. Il Ripepi, pertanto, notando tale straordinaria circostanza, portava a conoscenza del Presidente della Corte d’Appello tali fatti, chiedendo che venisse accertata la causa della presenza indebita del quarto giudice».

Da qui un esposto disciplinare, in seguito al quale Murolo non è riuscito più ad avere informazioni, se non che lo stesso esposto è arrivato sulla scrivania di Palazzo dei Marescialli e che il procedimento è stato definito. Impossibile, però, sapere come: nessuna informazione, a parte questa, è stata ritenuta ostensibile da parte della procura generale. Da qui la richiesta di accesso agli atti, avanzata a marzo dello scorso anno, respinta dalla procura generale e dal Tar, che ha condiviso l’assunto secondo cui «gli atti del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari non sono atti amministrativi», bensì «giurisdizionali», per accedere ai quali è necessario procedere in sede civile contro i magistrati.

Un controsenso, dal momento che quegli atti servono alla difesa per contestare la sentenza davanti al giudice di legittimità, mentre per qualsiasi azione civile il processo dovrebbe essersi già concluso. Ripepi, infatti, «ha interesse ad ottenere gli atti richiesti per tutelare la propria posizione processuale, nell’ambito del processo, ancora pendente – spiega Murolo -. Lo stesso lo potrà fare solo esibendo tali atti, non essendo in grado di poter ottenere aliter alcuna prova confortante l’eccepita nullità della sentenza d’appello, conseguente la violazione del dovere di segretezza della camera di consiglio».

L’errore, secondo il legale, starebbe nel considerare la decisione disciplinare come un atto giurisdizionale. Da nessuna parte, infatti, «si attribuisce al procedimento disciplinare la qualifica di “giurisdizionale”», se non nel generico riferimento all’osservanza delle regole del codice di procedura penale per l’attività di indagine. Ma ciò non basta, contesta il legale: «Rimane pur sempre nell’alveo degli atti amministrativi, atti, quindi, accessibili a chiunque abbia un interesse qualificato».

Secondo Murolo, nulla, nel procedimento disciplinare, è assimilabile ad un vero e proprio processo, non solo per via della composizione mista dei “giudici”, ma anche perché a poter promuovere l’azione disciplinare è anche il ministero della Giustizia, che tutto è fuorché un membro della giurisdizione. E se così fosse, in ogni caso, la Costituzione dovrebbe attribuire al Csm il ruolo di “giudice speciale”, cosa che invece non fa. «Il rifiuto da parte della procura generale, pertanto, è da ritenersi ingiustificato, tenuto conto che il diritto alla riservatezza deve cedere il passo al superiore diritto alla difesa del denunciante, anche in virtù del principio del giusto processo», prosegue il legale. Che non manca di evidenziare le differenze con il caso Palamara: «La tanto decantata riservatezza e la ostinata affermazione di principio della “non ostensibilità” delle decisioni del Consiglio superiore della magistratura sui procedimenti disciplinari a carico di magistrati» sono state «allegramente messe da parte in occasione della vicenda del dottor Luca Palamara. Probabilmente, al fine di rendere pubblica la rigidità dei giudizi e delle determinazioni (adottate solo in questo caso, viste le notorie statistiche circa la scarsità delle punizioni inflitte ai magistrati) prese per tutti coloro che hanno spalleggiato Palamara, il Consiglio superiore della magistratura ha reso pubbliche le sanzioni disciplinari, consentendo a tutta la stampa nazionale e alle reti televisive, nessuna esclusa, di pubblicare, di informare l’intera collettività e di diffondere, senza alcuna remora sul tanto celebrato diritto alla riservatezza, i nomi dei soggetti destinatari e persino l’entità delle predette sanzioni».

Come è possibile, si chiede dunque il legale, «che la non ostensibilità degli atti disciplinari dei procedimenti a carico dei suddetti magistrati sia venuta meno?». A dire chi ha ragione, ora, sarà Palazzo Spada, che dovrà pronunciarsi il 10 marzo.

Esposto “sparito”, il Csm si smarca: non è mai arrivato al Consiglio. Dopo la denuncia dell'avvocato Murolo dell'esposto contro il "giudice intruso", Palazzo dei Marescialli fa sapere che non è mai arrivato al Csm e per cui non è possibile parlare di un volontario ostruzionismo nei confronti della difesa. Simona Musco su Il Dubbio il 10 marzo 2022.

Tutto ciò che non arriva a Palazzo dei Marescialli “muore” negli uffici della procura generale e averne notizia è impossibile, «perché si tratta di atti segreti». Anche nel caso in cui quegli atti potrebbero rappresentare “un’arma” per la difesa che lamenta una violazione dei diritti del proprio assistito, perché nessuno, nemmeno lo stesso Csm, può intromettersi nella fase predisciplinare. A chiarirlo fonti interne al Consiglio superiore della magistratura, tirato in ballo a seguito della denuncia fatta sulle colonne di questo giornale dall’avvocato Giancarlo Murolo, del foro di Reggio Calabria, che ha chiesto di conoscere l’esito di un esposto, presentato più di due anni fa, nel quale si lamentava la presenza, in Camera di consiglio, di un magistrato estraneo al collegio giudicante e impegnato in precedenza come giudice del Riesame nel definire la posizione cautelare di un coimputato del suo assistito, Rocco Ripepi, imputato nel processo “Gambling”.

Ma quell’esposto, spiega ora il Csm, non è mai arrivato a Palazzo dei Marescialli, per cui non è possibile parlare di un volontario ostruzionismo nei confronti della difesa. «Gli atti che compongono il cosiddetto fascicolo predisciplinare, quello che si apre presso la procura generale quale soggetto chiamato ad esercitare eventualmente l’azione disciplinare a carico di un magistrato – spiega la fonte -, non sono conosciuto o accessibile né al Consiglio superiore della magistratura, né al soggetto che ha presentato l’esposto e nemmeno al magistrato oggetto della lamentela». Ripepi aveva presentato il suo esposto due anni fa al presidente della Corte d’appello di Reggio Calabria, che dopo una preliminare istruzione ha inviato tutte le carte alla procura generale. L’uomo aveva denunciato la presenza in Camera di consiglio di un magistrato esterno al collegio, una “visita” durata circa un’ora e mezza, con la conseguente «violazione della segretezza della camera di consiglio», ha sottolineato l’avvocato. Che da quel momento non ha saputo più nulla: gli atti, aveva risposto a sua richiesta la procura generale, non erano ostensibili e tutto ciò che era dato sapere è che «i procedimenti originati dall’esposto sono stati definiti».

Ma quegli atti, ha spiegato Murolo, sono necessari alla difesa, in quanto «prova confortante l’eccepita nullità della sentenza d’appello». Da qui il ricorso al Tar – davanti al quale Murolo ha citato il ministero della Giustizia e la procura generale -, secondo cui, però, «gli atti del procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati ordinari non sono atti amministrativi» ma «giurisdizionali» e pertanto «rispetto ad essi non valgono le esigenze di ordine generale a fondamento dell’accesso nei confronti dell’attività di pubblico interesse dell’amministrazione, consistenti nel “favorire la partecipazione e (…) assicurarne l’imparzialità e la trasparenza”». A dirimere la questione ci penserà domani il Consiglio di Stato, che dovrà decidere definitivamente se quella prova ritenuta fondamentale dalla difesa sia accessibile o meno. E ciò a pochi giorni dall’udienza in Cassazione, fissata il 4 aprile. Intanto, però, è possibile fare chiarezza su tutto ciò che accade prima che un fascicolo si “incardini” a Palazzo dei Marescialli. Dal momento in cui la procura riceve la notizia di illecito disciplinare, che consente di fare delle sommarie indagini preliminari per capire se esercitare o meno l’azione, questo pezzo di procedimento rimane segreto. E se la decisione del pg è quella di chiudere tutto senza passare la palla al Csm, nessuno, nemmeno la parte che ha lamentato un eventuale danno, verrà mai a sapere che fine abbia fatto il proprio esposto. La sentenza del Tar Lazio, spiega la fonte, «non è affatto nuova: esistono diversi precedenti». E ciò perché «la procura generale lavora nell’interesse dell’amministrazione della giustizia, in questo caso nell’interesse di un controllo dell’attività di quei magistrati oggetto dell’esposto. Ma si tratta di procedimenti interni, perciò inaccessibili».

Segreti, un po’ come le inchieste fino alla chiusura delle indagini preliminari. L’obiezione è automatica: in quel caso, chi si è eventualmente rivolto all’autorità giudiziaria ha diritto ad essere informato e c’è un giudice a vagliare il tutto. Ma ciò non vale per le “indagini” che la procura generale svolge sui magistrati: «Una cosa è l’indagine penale, una cosa l’indagine disciplinare, un fatto interno all’ordinamento della categoria interessata. Tant’è che neanche il Consiglio ha accesso agli atti». Come indaga, dunque, la procura generale? Una delle possibilità è che il pg deleghi ai capi delle Corti interessate il compito di sentire i magistrati e riferire poi alla procura generale, cosa che nel caso specifico sarebbe avvenuta preventivamente.

Probabile, dunque, che l’esposto di Murolo sia stato archiviato. Ma cosa fare nel caso in cui una violazione della segretezza della Camera di consiglio si sia effettivamente verificata? «Il privato che si sente eventualmente leso può percorrere la strada della legge Vassalli, cioè della responsabilità civile, o tentare la via della giustizia penale». Murolo però non si arrende: «La legge non prevede che gli atti non siano ostensibili – ribadisce -, si tratta di una costruzione giurisprudenziale. Al di là del fatto che mi era stato comunicato che il procedimento era in corso, per noi sono fondamentali gli atti, non solo il provvedimento finale: ne va del diritto alla difesa».

«Io, avvocato segnalato da una gip, solo perché ho preteso rispetto…». Il legale è stato segnalato da una giudice agli organi disciplinari dopo una discussione con un carabiniere in corridoio. «Non ho potuto dire la mia: da parte sua un atteggiamento astioso». Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 3 marzo 2022.

«La giudice ha interrotto l’udienza e mi ha accusato di avere apostrofato “con irripetibili insulti” il giovane carabiniere (definito con tono materno “un ragazzo per bene, che fa il suo lavoro”). Ma non è vero. Non mi ha concesso il diritto di replica e ha preso in considerazione solamente il resoconto dell’appuntato pieno di inesattezze da inviare ai competenti Organi disciplinari, che avrebbero provveduto al mio caso». È l’avvocato Paolo Di Fresco del foro di Milano a denunciare l’accaduto. Una vicenda che lo ha costretto a segnalare il comportamento del giudice all’ordine degli avvocati e alla camera penale.

I fatti

Andiamo con ordine. Giovedì scorso, alle 11.30, assieme a molti altri colleghi, l’avvocato Di Fresco attendeva nel corridoio dell’Ufficio gip, in attesa che la giudice “chiamasse” il suo processo, fissato per le 11.10. Ad un certo punto un carabiniere di piantone ha ordinato ai presenti di tacere e sgombrare il corridoio. In particolare a Di Fresco e altri due colleghi, veniva intimato di togliersi di mezzo. «Dovete levarvi di qui», avrebbe detto loro. A quel punto, l’avvocato Di Fresco racconta di aver risposto al giovane appuntato in modo netto, invitandolo a serbare un atteggiamento più rispettoso nei confronti degli avvocati impegnati nelle loro attività. «A quel punto – prosegue Di Fresco nel racconto dell’accaduto -, il carabiniere mi si avvicinava con fare minaccioso ma io non raccoglievo la provocazione e testualmente lo invitavo a lasciar perdere e andarsene (“Lasci perdere e veda di andarsene”)».

Un quarto d’ora più tardi, lo stesso appuntato gli ha chiesto di seguirlo nella stanza del giudice cui si doveva l’ordine di far allontanare gli avvocati dal corridoio. Ed ecco che si arriva al punto, quello che l’avvocato Di Fresco vede come un comportamento irrispettoso per l’intera categoria. «La stessa – racconta nei dettagli l’avvocato Di Fresco -, interrotta l’udienza, mi accusava di avere apostrofato “con irripetibili insulti” il giovane carabiniere (definito con tono materno “un ragazzo per bene, che fa il suo lavoro”) e, convocato il suo vicino di stanza e presunto testimone del confronto tra me e l’appuntato, imbastiva una sorta di giudizio direttissimo nei miei confronti. Chiusa la porta e interrogato l’appuntato (senza concedermi alcun diritto di replica), dettava al cancelliere un resoconto pieno di inesattezze da inviare ai competenti Organi disciplinari, che avrebbero provveduto al mio caso». Sorpreso da quel modo di procedere, l’avvocato Di Fresco ha chiesto di poter contattare un consigliere dell’Ordine o un rappresentante della Camera Penale, ma la giudice avrebbe tagliato corto dicendo che non si trattava di un processo, ma di una mera segnalazione per il suo comportamento irriguardoso nei confronti delle Istituzioni. Riuscendo a strappare almeno una battuta in sua difesa, l’avvocato racconta di aver ribadito di non avere offeso l’appuntato, ma di avere soltanto protestato di fronte a un atteggiamento che riteneva irrispettoso nei confronti degli avvocati presenti.

Il precedente: “Dalla giudice un atteggiamento astioso  nei confronti di quegli avvocati”

Prosegue l’avvocato del foro di Milano: «Insistevo inoltre nel dire – e di ciò pretendevo si desse atto in quella parodia di verbale che, schiumando di rabbia, la giudice aveva dettato al cancelliere – che il Tribunale è anche degli avvocati, i quali non sono ospiti da tollerare a stento nel Palazzo di Giustizia». Conclusa la verbalizzazione, gli era infine consentito di lasciare la stanza e tornare alle sue attività. Questi, in sintesi, i fatti che l’avvocato di Fresco ha ritenuto opportuno segnalare all’ordine e alla camera penale. Aggiunge anche un altro particolare. A detta sua, o meglio si tratta di una impressione, la giudice avrebbe colto l’occasione per dare seguito a un piccolo, personale, regolamento di conti. Infatti, nel luglio 2021, nel corso dell’udienza preliminare di un processo da lei presieduto, l’avvocato aveva vibratamente protestato contro la sua decisione di limitare gli interventi dei difensori, costringendoli a discutere non più di 5 minuti a testa nell’interesse di imputati (tra cui il suo assistito) che non avevano avuto modo di far sentire la loro voce nei lunghi mesi di custodia cautelare a cui erano stati sottoposti. «So dai colleghi che la mia netta presa di posizione aveva suscitato già allora una sua reazione sopra le righe», rivela sempre Di Fresco. La segnalazione dell’avvocato conclude con una nota polemica: «I fatti odierni parrebbero, dunque, confermare l’esistenza di un atteggiamento astioso della giudice nei confronti di quegli avvocati che non sono disposti a baciare la pantofola del Giudice sovrano».

Procura di Bergamo, presunte intimidazioni a un praticante avvocato: spuntano le telefonate. Nuovi dettagli sulla vicenda già oggetto di due esposti al Csm. Le trascrizioni delle conversazioni finiscono nel nuovo fascicolo. Valentina Stella su Il Dubbio il 24 febbraio 2022.

Ricordate il caso che vi abbiamo raccontato nel 2020 riguardante due esposti al Csm per presunte intimidazioni ad un praticante avvocato da parte di un sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bergamo e di un Tenente colonnello della Guardia di Finanza? Ricapitoliamo.

La vicenda in sintesi

I due avrebbero convocato con un pretesto il giovane praticante E.F., lo avrebbero chiuso in una stanzetta, intimidito con urla e minacce, obbligato a spegnere il cellulare, gli avrebbero negato il diritto di appellarsi al segreto professionale e lo avrebbero torchiato per tre ore e mezza per estorcergli informazioni su un importante cliente dello studio, Gianfranco Cerea,  che aveva concluso una procedura di voluntary disclosure per un rimpatrio di capitali dall’estero.  Aggiungiamo che la Procura aveva sottoposto ad intercettazione l’auto del praticante e la sua utenza. Secondo la Procura esistevano a carico di Cerea gravi indizi di esibizione di atti falsi: non sarebbe stato un collezionista ma un vero mercante d’arte. Qualche settimana fa Cerea è stato condannato in primo grado  a tre anni di carcere per false dichiarazioni nella voluntary disclosure. Ma non è questo il punto, bensì un altro: durante il dibattimento sarebbe stato confermato quanto scritto nei due precedenti esposti riportati da questo giornale.

 Qual era il problema?

Gli esposti riportavano la versione del ragazzo ma gli avvocati avevano chiesto di acquisire le trascrizioni delle telefonate intercettate per provare quanto riferito dal praticante. Solo che, a loro dire, la documentazione inviata dalla Guardia di Finanza alla Procura, affinché fornisse spiegazioni per l’istruttoria aperta dal Csm, risultava «inspiegabilmente priva delle chiamate intercettate sull’utenza telefonica in uso al dottor Ferrara il cui contenuto è particolarmente importante ai fini dell’accertamento della responsabilità disciplinare in oggetto». Adesso quelle telefonate sono note.

 Il nuovo fascicolo al Csm

Lo si evince da un nuovo esposto, presentato da Cerea stesso questa volta, e indirizzato alla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, al Ministro dell’Economia Daniele Franco, alla sezione disciplinare del Csm e al suo vice presidente David Ermini. Abbiamo avuto modo di visionarlo e vi leggiamo che “la vicenda riportata da Il Dubbio ha suscitato in me – scrive Cerea – comprensibile disagio. […] La presente iniziativa nasce perché il dibattimento che si è svolto davanti al Tribunale di Bergamo – con l’acquisizione delle trascrizioni di undici telefonate del dottor E.F. ha confermato quanto evidenziato negli esposti del 2020″, presentati dagli ex avvocati che seguivano la procedura di voluntary disclosure.

 Le telefonate trascritte

Prima dell’interrogatorio il dominus raccomanda a Ferrara di opporre il segreto professionale. Terminato l’incontro con pm e finanzieri, Ferrara chiama in evidente stato di prostrazione una collega di studio. Piange e confessa: «Mi sono sentito morire Francesca tre ore e mezza come se fossi un delinquente – ma il Pubblico Ministero che mi commenta si sta approcciando con disinvoltura alla professione legale.  Ma che vergogna – ma erano cinque contro uno. Mi hanno fatto sentire un delinquente. Adesso capisco quale sia il metodo Di Pietro. Con il Comandante gliel’ho detto mi sta inducendo a dire cose che non ho detto, che non sto pensando … mi sta inducendo a rispondere cose che … che vuole che scriva … vuole scrivere lei». Poi chiama l’avvocato di studio Stufano: « tre ore e mezza davanti al Pubblico Ministero. La prima cosa che mi hanno detto c’è qui il pubblico ministero – tanto a fare terrorismo psicologico – quindi se dichiara il falso è false dichiarazioni al PM”. Replica  Stufano: «Ho chiamato … alla tenenza, mi ha risposto uno, mi fa no, non glielo posso passare dico: scusi, sono l’avvocato … ma che cazzo è in stato di sequestro? Abbia pazienza! … ma è sequestro di persona!». Poi un’altra telefonata alla collega in cui riferisce la conversazione con Stufano: «Dice che il loro comportamento è stato scorretto, illegale, illecito, che ci sono gli estremi di un abuso … quindi poter procedere con un esposto dacché … anche il segreto professionale loro mi hanno costretto a violarlo». Secondo Cerea, come si legge nel nuovo esposto, «le telefonate appena richiamate sono state oggetto di un accurato depistaggio degli inquirenti volto, da un lato, a nascondere al Csm ed alla Procura Generale di Brescia l’esistenza di queste telefonate e, dall’altro, a confondere le acque riportando nei brogliacci una serie di particolari pacificamente falsi. Particolarmente significativa, a riprova dell’evidente depistaggio, una nota nella quale viene prospettato – cosa francamente ridicola – che queste telefonate non sarebbero state trascritte perché ritenute ininfluenti dagli operanti della GdF». Come se non bastasse, «all’udienza del 29 ottobre 2021 presso il Tribunale di Bergamo E.F, nel corso del suo esame dibattimentale, ha confermato di avere subìto le illecite pressioni di cui agli esposti presentati». Abbiamo chiesto all’avvocato E.F. un commento ma ha declinato il nostro invito.

 La richiesta

Pertanto Cerea chiede al Csm di «valutare l’operato della Procura della Repubblica di Bergamo anche alla luce delle dichiarazioni rese dal procuratore Capo alla giornalista de Il Dubbio che ne aveva dato conto nell’articolo apparso il 17.11.2020 (“questa procura, che ribadisce piena fiducia nel corretto operato del magistrato e dell’ufficiale della Guardia di Finanza, per quanto di sua specifica competenza, provvederà ad analizzare approfonditamente i contenuti di questo esposto, riferendo a chi di competenza e valutando la condotta di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda”)». Ovviamente, se il Procuratore di Bergamo volesse commentare la vicenda noi siamo qui, come l’altra volta, in cui riportammo la difesa del suo sostituto , che aveva negato categoricamente la ricostruzione riportata nei primi due esposti.

E il giudice disse: “L’avvocato che non si dissocia dal proprio cliente ne è complice”. L'incredibile vicenda di due legali del Foro di Milano: il giudice chiede di inquisirli per presunta “collusione morale” con l’assistita. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 24 febbraio 2022.

Come può un avvocato, nell’esercizio del ministero della difesa, dissociarsi dal proprio assistito nei confronti del quale sta profondendo ogni sforzo al fine di difenderlo al meglio?

Questo interrogativo sta arrovellando Enrico Visciano e Alfredo Partexano del Foro di Milano, i quali hanno deciso di raccontare una vicenda che li ha riguardati come professionisti. Tutto nasce da un complesso contenzioso civile, sorto alcuni anni fa, riguardante il pagamento di una quietanza assicurativa a seguito di un incidente stradale mortale. Dal civile si sono poi avuti dei risvolti penali, con un procedimento per calunnia davanti al Tribunale di Monza, nonostante una archiviazione originaria, nei confronti dell’assistita di Visciano e Partexano.

Nelle fasi conclusive del processo, con gli interventi dei difensori, il primo colpo di scena: il giudice, a un certo punto, nel corso dell’arringa difensiva, si incammina verso l’uscita per abbandonare l’aula di udienza. «Durante le arringhe davanti al Tribunale di Monza – dicono al Dubbio gli avvocati Visciano e Partexano – ci siamo imbattuti in molteplici interruzioni, nonostante i richiami di noi difensori rispetto all’impossibilità assoluta di interrompere un’arringa finale quale momento sacramentale del rito. Anche l’imputato, non dimentichiamolo mai, ha dei diritti. Le interruzioni erano messe in atto sia dal difensore di parte civile sia dal giudice, che richiamammo affinché tornasse al proprio posto, nel momento in cui decise di allontanarsi dall’aula con i faldoni in mano. Solo con le nostre proteste rivolte al giudice siamo riusciti a concludere le arringhe».

Con la sentenza, l’altro colpo di scena. L’assistita di Visciano e Partexano viene condannata a quattro anni di reclusione, ma a lasciare di sasso gli avvocati sono le parole usate dal magistrato in sentenza. Un passaggio che amareggia i due legali anche per la considerazione complessiva dell’avvocatura. «La lettura della sentenza di condanna – evidenziano –, in particolare a pagina 21, portava noi difensori a sentirci colpiti non solo nell’intimo della nostra professionalità ma anche come categoria. Si era deciso di trasferire atti e causa alla Procura anche per le difese, vale a dire nei nostri diretti confronti, per la sola colpa di non esserci dissociati dalle dichiarazioni della nostra cliente».

Dunque, a detta del giudice, gli avvocati che non si dissociano dalle dichiarazioni del proprio assistito e che le fanno proprie nelle arringhe, seppur con «toni solo apparentemente più pacati ed urbani», rischiano quanto la persona difesa. Un’assimilazione singolare. Un assunto che ha lasciato molto perplessi Visciano e Partexano, senza però scoraggiarli. Anzi. Uno sprone ad andare fino in fondo e presentare appello.

A Milano, il terzo colpo di scena. «Il nostro stupore – commentano – fu ancora maggiore nel leggere l’atto del Procuratore generale che citava il passaggio della sentenza del Tribunale di Monza, rimarcandolo alla prima riga della propria requisitoria e delle proprie conclusioni scritte, come se fosse l’aspetto più importante del processo».

Una sottolineatura che ha indotto Visciano e Partexano a richiedere la trattazione orale della causa. «Abbiamo deciso – aggiungono – di far risaltare il passaggio a gran voce durante le arringhe in appello e fare menzione del fatto che eravamo stati troppo eleganti nel non dare la necessaria importanza a un così grave fatto. Era giunto il momento di approfondire e sottolineare come i rapporti tra magistratura e avvocatura siano da considerarsi assai compromessi, se davvero può esistere un protocollo secondo cui ogni difensore, all’atto di iniziare la propria arringa, quale momento sacramentale nel rito, è costretto ad alzarsi in piedi, alzare la mano e dissociarsi dall’innocenza del proprio assistito».

A questo punto Enrico Visciano si infervora e descrive i momenti della sua arringa in Corte d’Appello. «Mentre parlavo – afferma – ho voluto battere la mano sulla toga, dalla parte della spalla destra, facendo rimbalzare verso l’alto i cordoni dorati per ben tre volte. Un gesto ben preciso, atto ad indicare l’inviolabilità della toga, di ciò che è molto di più di un mero e semplice servizio. Svolgiamo un ruolo, costituzionalmente garantito, che non può risultar oggetto, da parte di nessuno, di scherno, di interruzioni, di dissacrazioni, di ipotesi di reato nel momento stesso della necessità difensiva del cliente, senza dimenticare la storia personale dei protagonisti coinvolti. Per questo motivo mi rivolsi in udienza al Procuratore generale, chiedendogli di guardarmi negli occhi e di rispondermi, se poteva, proprio lì, davanti a tutti gli astanti, sulla tipologia di reato che avremmo potuto commettere noi avvocati o sul già ricordato trasferimento degli atti alla Procura della Repubblica disposto nei nostri confronti da parte del giudice Colella. Trasferimento rimarcato anche da parte dello stesso Procuratore generale».

Quanto successo pone l’accento sullo svilimento al quale può andare incontro alcune volte il ruolo del difensore. In questo contesto si inserisce il tema del pericolo di spersonalizzazione della difesa sul quale tante volte si sono soffermati importanti esponenti dell’avvocatura. Le parole del presidente del Coa di Milano Vinicio Nardo (si veda Il Dubbio del 12 gennaio 2022) sono un riferimento significativo: «L’avvocato deve seguire le sorti del cliente. Deve essere la fotocopia del cliente, non del magistrato. Il magistrato è un funzionario di Stato e risponde allo Stato. L’avvocato è un libero professionista e risponde al cliente».

Per la cronaca è opportuno segnalare che la Corte d’Appello ha comunque assolto la cliente di Visciano e Partexano. I giudici hanno accolto le domande sulla prescrizione e revocato le statuizioni civili, ossia il danno pari quasi a 80mila euro concesso alla parte civile in primo grado. «Il che – concludono i legali – non ci pare poco, dopo una condanna in primo grado a quattro anni di reclusione».

L’avversario. Quella strana pretesa avvocatesca di costruire la giustizia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'8 Febbraio 2022.

Il suo compito è solo la difesa del cliente, fatta proprio perché esiste un soggetto (lo Stato) che si impanca a giudicarlo. L’idea di collaborare è aliena alla sua missione e porta a derive pericolose.

C’è in alcuni giuristi la pretesa, e in alcuni magistrati la concessione, che gli avvocati in qualche modo “partecipino” alla giustizia da rendere in aula. Pretesa e concessione riposanti sull’idea, cioè, che l’avvocato contribuisca, e debba contribuire, a scrivere la giustizia di cui è destinatario il proprio assistito.

È un’idea profondamente sbagliata e dannosissima. L’avvocato deve difendere il proprio assistito perché questi è accusato, non perché è accusato malamente o infondatamente: e, in quella difesa, l’avvocato non deve in nessun modo lavorare con, ma in ogni modo contro, chi eleva l’accusa. Il magistrato, per il sol fatto di essere impancato ad accusare e giudicare, è, o almeno dovrebbe essere considerato, un avversario dell’avvocato: necessario, da rispettare, ma avversario. E che non dismette questa sua caratteristica nemmeno, e anzi tanto meno, quando dice una giustizia confacente agli interessi di chi è processato.

L’avvocato stimolato a essere “coautore” di giustizia, e a compiacersene, come purtroppo spesso accade, per quanto magari in buona fede rinnega in realtà la propria funzione, che è tutt’altra: rappresentare e difendere la controparte individuale – non il discepolo timorato, non il resipiscente incurvo, non il consegnato in postura penitenziale, insomma non la vittima in attesa di giudizio – del potere pubblico.

La sentenza “giusta” che ostentasse in calce la finzione della firma del difensore sarebbe la sentenza più detestabile, la meno affidabile, e la più contraria all’idea stessa di una decisione resa secondo diritto.

Chi poi sapesse e volesse indagare tra le motivazioni profonde di quella pretesa avvocatesca, e cioè di non esser solo voce del proprio cliente, ma della stessa giustizia di cui questi destinatario, ne scoprirebbe il subdolo profilo sopraffattorio: quello che in realtà si carica di potere in quel ruolo incongruo e usurpato, rivolgendosi a “fare stato” sul proprio assistito. Una specie di agente di giustizia.

Presunzione d’innocenza, questa sconosciuta. La legge non basta…Sono passati due mesi dalla nuova norma ma gran parte dei giornali e delle procure continuano a sbattere “il mostro in prima pagina”. Ecco cosa è successo a Bari...di Valentina Stella su Il Dubbio il 4 febbraio 2022.

In questi giorni siamo tornati a scrivere in merito alla nuova norma sulla presunzione di innocenza in vigore dal 14 dicembre. Ci siamo chiesti se realmente sia cambiato qualcosa nella comunicazione delle Procure e delle forze di polizia giudiziaria. Le risposte sono state molteplici: se per un verso ci sono stati dei mutamenti, dall’altro verso è difficile talvolta stabilire se si stia eludendo la norma. Ad esempio la norma prevede di non dare alle inchieste nomi lesivi della presunzione di innocenza. Ma se un nome viene dato, e però all’interno del comunicato non ci sono i riferimenti degli indagati, si è contra legem?

Discutendo con magistrati, avvocati, giornalisti abbiamo anche capito che la nuova norma non è la panacea di tutti i mali, come vedremo appunto in questo pezzo, prendendo in esame un aspetto che è stato criticato da molti, persino dai magistrati. Dopo il monitoraggio di un copioso numero di comunicati della Guardia di Finanza, oggi vogliamo cimentarci, infatti, in un altro esercizio: prendere una notizia pubblicata sui maggiori siti di informazione e vedere se la presunzione di innocenza dell’indagato è rispettata. Badiamo bene: se è rispettata come principio culturale, perché purtroppo la nuova legge non interviene nel caso che stiamo per discutere. Lo spunto ce lo offre una nota agenzia della redazione di Bari: «Abusi in ambulanza su una studentessa, arrestato – Ai domiciliari un paramedico volontario», questo il titolo. All’interno dell’articolo vengono pubblicati stralci dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip. Precisiamo che non c’è un comunicato ufficiale della Procura né della polizia giudiziaria. Ne deriva che l’ordinanza di custodia cautelare, atto pubblico, può essere finita nelle mani del giornalista o tramite l’avvocato difensore dell’indagato – ipotesi improbabile – , o tramite cancellieri, agenti della Pg, magistrati della procura, avvocato di parte civile.

Per l’avvocato Giuseppe Belcastro, co-responsabile, insieme a Luca Brezigar, dell’Osservatorio Informazione Giudiziaria dell’Unione Camere Penali, «è sicuramente una criticità il fatto che la nuova norma non abbia anche previsto espressamente il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare. Se da un lato è giusto informare i cittadini quando qualcuno viene privato della libertà personale, tuttavia la pubblicazione degli stralci o dell’intera ordinanza del gip rappresenta una lesione del diritto alla riservatezza, all’onore e alla presunzione di innocenza dell’indagato». Il motivo è cristallino, ma non per molti: «vengono resi pubblici dei dettagli lesivi della immagine dell’indagato che però potrebbero essere smentiti in fase processuale o anche già in fase di indagine. Andando oltre il dato dell’arresto e della motivazione si rischia sempre di creare il ‘mostro’ da prima pagina. E se poi viene assolto?». Non sappiamo perché nei vari articoli usciti non sia stato interpellato l’avvocato difensore dell’uomo ai domiciliari. Questa omissione, secondo l’avvocato Belcastro, «rende quanto meno parziale la narrazione dei fatti, tenendo però a mente che il difensore deve comunque sempre attentamente valutare se e come intervenire sui media. Il dovere della stampa è fare una cronaca della vicenda, non fornire una visione parziale della stessa».

Ma addentriamoci nell’articolo. Il pezzo inizia e prosegue usando molte volte termini ipotetici: l’uomo «avrebbe abusato dentro un’ambulanza di una studentessa universitaria approfittando della fatto che la ragazza si era sentita male per aver bevuto troppo ad una festa. Un paramedico volontario, Gaetano Notaro di 36 anni, è agli arresti domiciliari per violenza sessuale aggravata». E ancora: la «presunta violenza sarebbe avvenuta», «la presunta vittima ha deciso di denunciare circa due settimane dopo il fatto, rivolgendosi ad un centro antiviolenza». Secondo l’analisi dell’avvocato Belcastro «fino ad un certo punto l’articolo è stato continente, utilizzando verbi e aggettivi appropriati per un contesto probatorio che deve essere ancora definito. Tuttavia, proseguendo con il racconto e aggiungendo ulteriori dettagli estrapolati dall’ordinanza del gip («La ragazza, scrive il giudice, “ha descritto i particolari dell’abuso subito, descrivendone lucidamente ogni dettaglio, anche i più umilianti” e non ci sono elementi per “ipotizzare che siano frutto di intenti calunniosi”», ndr) si è andati oltre.Non dobbiamo scordare che queste valutazioni del gip saranno verosimilmente oggetto di ricorso al Tribunale del Riesame e persino della Corte di Cassazione. Insomma, se un gup non archivierà, si andrà a processo e solo lì emergerà la verità processuale. Il processo è un fatto complesso e delicato: occorre anche saper attendere». Questo è solo un esempio di come la strada da fare sia ancora molta, perché «trovare in edicola le ordinanze di custodia cautelare non significa salvaguardare il giusto processo», ha detto in un recente convegno sul tema Luca Brezigar. Se avete segnalazioni da farci sia su casi come questi o direttamente lesivi della nuova norma scriveteci pure.

«Così aiuti la mafia!», l’anatema multiuso che tappa la bocca ai garantisti. La polemica di Gratteri sulla presunzione d’innocenza («le mafie potrebbero approfittarne») è solo l’ultimo esempio. Costretti ad arretrare, i giustizialisti duri e puri sfoderano sempre più spesso l’arma della disperazione: accusano l’avversario di voler favorire le cosche. Anche se, come nel caso del deputato Enrico Costa, volevano solo affermare lo Stato di diritto. Errico Novi su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

Ormai non si ragiona più. Promuovi una legge contro la sputtanopoli giudiziaria? «Fai gli interessi della mafia!». Cerchi di far notare timidamente che la riforma dell’ergastolo ostativo dovrebbe aderire alle indicazioni della Consulta, anziché cercare di ribaltarle? «Fai gli interessi della mafia!». E, ovviamente: provi a chiedere di riagganciare le misure di prevenzione antimafia allo Stato di diritto, in modo che, almeno, se si è riconosciuti innocenti nel processo penale non si debba per forza essere spogliati di tutti i beni, dalle aziende alla abitazione? «Fai gli interessi della mafia!».

Ormai è così: non se ne esce. E la polemica scatenata da Nicola Gratteri contro le recenti norme in materia di presunzione d’innocenza («le mafie potrebbero approfittarne», ha detto ieri in un’intervista al Fatto quotidiano) ne sono la conferma: è davvero difficile cogliere il nesso reale fra le tutele previste in quel provvedimento e i presunti favori alle cosche temuti dal procuratore di Catanzaro. Davvero non si capisce perché, in indagini nelle quali la virtù teologale sarebbe casomai il riserbo e non certo la ridondanza, vedersi limitati nel riferire ai giornalisti ogni dettaglio costituirebbe, per gli inquirenti, un danno.

Non a caso Enrico Costa, tra i maggiori protagonisti dell’iniziativa che nell’autunno scorso ha consentito di recepire la direttiva “garantista” dell’Ue, ha risposto per le rime: «Ad essere scontenti saranno coloro che fino ad oggi hanno campato sul marketing giudiziario, scientificamente studiato da certe Procure per far conoscere e apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte».

Gratteri ha trovato pane per i suoi denti. Resta però l’efficacia del refrain, la paralisi dialettica che è in grado di indurre: come si fa a uscire dall’angolo, se insinuano che propendi per una certa norma perché segretamente vuoi fare un assist ai criminali? Non ne esci. E se ben ci pensate, proprio con una tecnica del genere lo stesso Gratteri riuscì l’estate scorsa a far scivolare la riforma del processo penale verso il definitivo avvitamento sull’improcedibilità. Anche il quel caso disse che si sarebbero persi un sacco di processi alla malavita: ne è venuto il regime differenziato che ora fa ammattire gli uffici giudiziari, tanto è piena di eccezioni la norma base.

Ma certo, chiunque debba intestarsi quell’istituto preferirà farsi dare dell’incompetente, piuttosto che lasciarsi inchiodare dal inesorabile mood: «Fai gli interessi della mafia!»

Enrico Costa a Gratteri: «La legge sulla presunzione d’innocenza colpisce chi ha campato di “marketing giudiziario”».  Gratteri, in una intervista al Fatto, fa delle affermazioni pesantissime contro la nuova norma di derivazione europea per la quale Enrico Costa si è battuto. Valentina Stella Il Dubbio il 07 febbraio 2022.

Scontro a distanza tra il Procuratore Nicola Gratteri e il deputato di Azione Enrico Costa. Pomo della discordia: la nuova legge sulla presunzione di innocenza. Stamattina, dalle solite pagine del Fatto Quotidiano, che da mesi sta mandando avanti una campagna di delegittimazione della nuova norma, Gratteri, in una intervista, fa delle affermazioni pesantissime contro la nuova norma di derivazione europea: « Le mafie potrebbero approfittare della recente legge sulla presunzione di innocenza che limita la comunicazione istituzionale sulle indagini giudiziarie mettendo di fatto un bavaglio ai magistrati».

Gratteri fa emergere il solito malinteso tra indagini  e sentenza definitiva

E poi, facendo emergere il solito  – chiamiamolo così – malinteso per cui le indagini corrispondono a verità e sentenza definitiva, prosegue: «La rilevanza sociale del diritto all’informazione e del diritto alla verità delle vittime di gravi reati rischia di essere offuscata da un sistema che impedisce di spiegare ai cittadini l’importanza dell’azione giudiziaria nei territori controllati dalle mafie, rendendo molto più difficile creare quel clima di fiducia che consente alle vittime di rompere il velo dell’omertà».

Tuttavia, la preoccupazione più grande del Procuratore di Catanzaro è  un’altra e non ci si riesce a credere: «Il mio timore è anche un altro: sembra quasi che non parlandone, la ‘ndrangheta e Cosa Nostra non esistano. Ma non è così, e io ho molta paura che di questo “silenzio stampa” le mafie ne approfitteranno, perché le mafie da sempre proliferano nel silenzio. Se la ‘ndrangheta oggi è la mafia più potente è perché per anni non se ne è parlato».

Costa: «Da brividi l’insinuazione che la legge provochi un assist alla criminalità organizzata

Vorrà accusare Enrico Costa di associazione mafiosa? Proprio il responsabile giustizia di Azione reagisce immediatamente e duramente con un lungo comunicato perché non ci sta a che il lavoro per cui si è tanto speso venga infangato così: «Legittima ogni valutazione tecnica; da brividi, invece, l’insinuazione – molto di moda di fronte alle norme non gradite – che la legge provochi un assist alla criminalità organizzata. Un sospetto che infanga il lavoro di chi ha lavorato ad un provvedimento che va esattamente nella direzione opposta: rendere credibile ed efficace l’azione dello Stato. E lo fa senza inventare nulla, ma recependo una direttiva europea”.

Il parlamentare passa poi al contrattacco: «A essere scontenti, certo, saranno coloro che fino ad oggi hanno campato sul “marketing giudiziario” che è quanto di più pericoloso, incivile, illiberale, arbitrario. Il “marketing giudiziario” è scientificamente studiato da certe Procure per far conoscere ed apprezzare un prodotto parziale, non verificato, non definitivo: l’accusa. Un prodotto – per quanto modificabile e smentibile – presentato all’opinione pubblica come oro colato. Una forma di condizionamento dell’opinione pubblica – continua Costa – ma anche del giudice, raggiunto da una gragnuola di frammenti di informazione proveniente solo da una parte”.

Costa: «Per molti giornalisti la vera sentenza è la conferenza stampa»

E poi il dito puntato con la stampa colpevolista: «La vera sentenza per molti giornalisti è la conferenza stampa della Procura, perché la sentenza vera, quella pronunciata dopo il processo, non interessa più a nessuno. Perché le indagini sono presentate come un processo-inverso: si parte dalla sentenza-conferenza stampa, la si pubblica, la si scolpisce nell’opinione pubblica, poi forse – quando avrà letto gli atti – la difesa potrà controbattere. E potrà farlo in un processo a questo punto senza riflettori, senza titoli, senza interesse».

Costa: «Conosco i numeri delle ingiuste detenzioni soprattutto in determinate aree»

Costa, in conclusione, è molto amareggiato e arrabbiato: «Ecco perché mi sento offeso da insinuazioni campate in aria. Perché conosco i numeri impietosi delle ingiuste detenzioni, soprattutto in determinate aree del territorio nazionale, e so anche che di fronte a questi numeri lo Stato paga ingenti risarcimenti, ma chi ha sbagliato continua serenamente la sua carriera. Se un cittadino avesse riservato a una sentenza le stesse critiche che il dottor Gratteri ha dedicato alla legge sulla presunzione d’innocenza, al Csm sarebbero fiorite le pratiche a tutela. Noi non andremo a piagnucolare al Csm, né ci rivolgeremo al Guardasigilli o al Pg di Cassazione. Sarebbe del tutto inutile. Nel nostro Paese il diritto di critica è a senso unico».

Con Costa si è schierato con un tweet il leader nazionale di Azione, Carlo Calenda: «Il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, battaglia vinta da Enrico Costa, viene giudicata come un aiuto ai clan da parte di Gratteri. La Magistratura deve essere onnipotente e insindacabile. Caro Gratteri, neanche in Urss».

«L’immagine di Hjorth bendato non è casuale: volevano orientare l’opinione pubblica». Al via il processo scaturito da quello scatto che fece il giro del mondo. Parla il legale dell’americano condannato all’ergastolo per l’omicidio Cerciello Rega. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 febbraio 2022.

Inizia a Roma il processo di primo grado per il bendaggio subìto da Gabriel Natale Hjorth. Si tratta di una costola del processo principale per la morte del vice brigadiere Mario Cerciello Rega, per cui sono stati condannati all’ergastolo Gabriel e Finnegan Lee Elder. Dinanzi al giudice Alfonso Sabella, ci sarà l’imputato Fabio Manganaro, carabiniere individuato come l’autore del bendaggio.

Quella foto del ragazzo bendato, con le mani legate dietro la schiena e la testa reclinata in avanti ha fatto il giro del mondo. Fu scattata il 26 luglio 2019 all’interno della Caserma dei Carabinieri di Via In Selci in Roma. L’accaduto ha fatto nascere immediatamente una doppia indagine presso la Procura di Roma: una per abuso di autorità contro arrestati o detenuti, di cui deve rispondere Manganaro, e un’altra per violazione del segreto investigativo e abuso d’ufficio, per cui è stato rinviato a giudizio Silvio Pellegrini. Ne parliamo con uno dei due legali di Gabriel Natale, l’avvocato Francesco Petrelli, che lo assiste insieme a Fabio Alonzi.

Avvocato quella immagine ha suscitato immediatamente sdegno

Sul fatto intervenne immediatamente il Generale dell’Arma Nistri, dicendo che “quanto è successo è un fatto molto grave” e che si sarebbe avviata una “indagine interna” e anche l’allora Presidente del Consiglio Conte disse che “riservare quel trattamento a una persona privata della libertà non risponde ai nostri principi e valori giuridici, anzi configura gli estremi di un reato o, forse, di due reati”. Sul fronte della magistratura ci fu anche un importante intervento del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Salvi, il quale aggiunse che si sarebbero dovute anche accertare “eventuali responsabilità per omessa vigilanza”, cosa che non ci risulta sia stata fatta.

Non pensavamo potesse accadere una cosa del genere nelle nostre caserme

Quella del bendaggio o blindfolding dovrebbe essere sconosciuta in un Paese civile e democratico; infatti è una pratica diffusa nei territori di guerra, dove i regimi statali autocratici e totalitari o Stati deboli cedono il passo ad organizzazioni paramilitari o terroristiche. O dove anche gli Stati decidono di sospendere le garanzie costituzionali: si pensi ad esempio ai fatti ancor più gravi di Abu Ghraib in Iraq o a Guantanamo. ll Comitato europeo per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio d’Europa, ha condannato la pratica del blindfolding in quanto “trattamento inumano e degradante”. L’essere bendati fa perdere il senso del tempo e dello spazio, rende inermi e si diviene così un oggetto nelle mani dei carcerieri, è una pratica che umilia il detenuto ma soprattutto disumanizza il rapporto con colui che è sottoposto ad una misura limitativa della libertà e tende a rendere irresponsabile dei propri gesti o a far sentire tale da chi la adotta. Gabriel Natale mentre era bendato venne anche videoripreso e fu sottoposto a una sorta di interrogatorio.

Il grave episodio è stato anche oggetto di vostre discussioni nel processo di primo grado per la morte di Cerciello Rega

Anche la sentenza della Corte di Assise, sebbene non ne abbia discutibilmente fatto discendere conseguenze sul piano processuale, non ha voluto “assolutamente sottovalutare la gravità di quel bendaggio” affermando che “si tratta di un atto lesivo della dignità umana, ingiustificabile e come tale va certamente stigmatizzato”. Ma il fatto va oltre l’indegnità di quel trattamento in sé e ci permette di fare anche qualche altra considerazione sugli effetti della circolazione di quella immagine del giovane bendato accasciato e con le mani dietro la schiena nel momento che tale pubblicazione ha integrato un ulteriore illecito che è quello previsto dall’art. 114 del codice di rito. Mi chiedo quale e quanta influenza abbia avuto quella immagine nel determinare nel pubblico la convinzione della sicura colpevolezza dell’accusato. Chi è ristretto in quelle condizioni e sottoposto ad un simile trattamento “deve” essere colpevole, lo è sicuramente! Quella che è stata una sconsiderata pratica vessatoria, a causa della sua vasta e immediata diffusione ha avuto l’effetto di sostenere l’accusa facendone immediatamente percepire la presunta fondatezza, oltre e al di là della prova. In maniera del tutto distorta è il trattamento subìto e il modo in cui il sospettato viene presentato in immagine a fondare la sua responsabilità. Si tratta di un meccanismo psicologico facilmente comprensibile.

Giovedì inizierà il processo di appello. Il suo assistito ha avuto l’ergastolo pur non avendo accoltellato la vittima

Tutti ricordano quella immagine ma nessuno sa che Gabriel Natale era disarmato, che neppure ha visto ferire il povero Cerciello, che quando è fuggito, pensando di essere stato avvicinato da un malintenzionato, neppure aveva capito che vi era stato un ferimento, che non ha in alcun modo partecipato a quel tragico fatto. Resta drammaticamente fondamentale il modo in cui un indiziato venga mostrato al pubblico. È proprio questo il senso della Direttiva europea sul rafforzamento della “presunzione di innocenza” del 2016 attuata solo da due mesi in Italia: evitare che l’indagato e l’imputato vengano “presentati come colpevoli” anche nella formulazione delle notizie, nei titoli, nell’informazione in genere. Questa legge purtroppo non era in vigore quando è successo il bendaggio ma comunque probabilmente non sarebbe bastata ad attenuare lo strapotere mediatico e quello dei social che oramai sopravanzano anche nell’informazione giudiziaria i media classici. In generale solo un atto di responsabilità dei singoli comunicatori e un cambio profondo della cultura dell’informazione possono arginare la barbarie di certe modalità di comunicare il processo, mortificando l’immagine e la dignità delle persone, compromettendo l’equità dei giudizi e distruggendo la vita di innocenti.

«Col patrocinio a spese dello Stato l’avvocato ci rimette». Il promemoria dei Coa palermitani. Duro documento firmato dai presidenti di tutti gli Ordini del distretto, che replicano così alle incredibili accuse del presidente della Corte d’appello Frasca, secondo il quale «il beneficio rischia di diventare un sostegno al reddito per il Foro». Errico Novi su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Con toni corretti ma anche con fermezza: così i presidenti dei Coa rispondono al presidente della Corte d’appello di Palermo Matteo Frasca, che sabato scorso, nel proprio intervento all’inaugurazione dell’anno giudiziario, aveva richiamato l’elevato numero di cittadini beneficiati dal patrocinio a spese dello Stato come «sintomatico di una tendenziale deriva incontrollata dell’istituto verso una anomala forma di sostegno del reddito di una parte del Foro, snaturandone la sua effettiva e nobile funzione».

Un’accusa incomprensibile, a cui replicano appunto i vertici degli Ordini dell’intero distretto palermitano: «Il patrocinio a spese dello Stato, lungi dal rappresentare una “anomala forma di sostegno al reddito di una parte del Foro”, è un istituto di avanzata cultura giuridica», ricordano, «disciplinato da legge dello Stato, il cui costo grava in buona parte sull’avvocatura». Sono parole firmate in calce a un documento unitario dai presidenti dei Coa Antonio Gabriele Armetta, Vincenza Gaziano, Giuseppe Spada, Giuseppe Livio, Pietro Siragusa e Vito Galluffo.

La loro nota restituisce un dato di realtà che fa a pezzi le inspiegabili insinuazioni del presidente Frasca: «L’avvocatura», fanno notare i presidenti del distretto, «subisce, per disposizione di legge, il pagamento di compensi inferiori alla metà» rispetto ai riferimenti di partenza indicati dal decreto ministeriale 55 del 2014, vale a dire la disciplina dei parametri forensi. E così, ricordano i vertici dell’avvocatura palermitana, la classe forense «presta in favore dei non abbienti la propria professionalità» nonostante «onorari mortificanti rispetto a quanto previsto dalla normativa in tema di equo compenso» e per giunta «in tempi inaccettabili, come da sempre denunciato». Il documento rammenta l’alto dato di fatto: «Non è il difensore, ma la parte, ad essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato».

I presidenti dei Coa chiudono con un gelido pro memoria, che in teoria non sarebbe necessario ma che evidentemente va riproposto: «Andrebbe ricordato come si tenti, da anni, di addossare ai difensori oneri di controllo addirittura sulla regolarità delle dichiarazioni reddituali degli assistiti, compiti che», però, «sono rimessi alla polizia tributaria, non agli avvocati».

COME IN ITALIA.

Perché il crossover Scandal – Le Regole del Delitto Perfetto torna oggi più attuale che mai. Nel crossover fra Scandal e Le Regole del Delitto Perfetto emerge la condizione di perenne svantaggio e discriminazione contro cui le persone nere hanno ripreso a manifestare in queste settimane. Ambra Romanazzi su optimagazine.com il 12/06/2020.

La morte di George Floyd e le proteste che ne sono derivate hanno infuocato il dibattito sulla necessità di ripensare la natura stessa delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. Ed è innegabile che la brutalità della polizia scateni tanta ingiustificata violenza verso i cittadini afroamericani, ma ciò non toglie che la condizione di svantaggio e discriminazione delle persone nere si avverta anche in altre declinazioni della società.

Nel corso delle sue sei stagioni Le Regole del Delitto Perfetto ha attraversato più volte i meandri della giustizia americana, raggiungendo picchi di cruda e dolorosa efficacia nel racconto della class action condotta da Annalise Keating fino alla Corte Suprema. Ed è in particolare nel crossover con Scandal che Le Regole del Delitto Perfetto lascia emergere fatti e dati tornati tristemente attuali in queste settimane di proteste.

Grazie all’aiuto di Olivia Pope (Kerry Washington), Annalise riesce a sostenere in modo brillante la sua argomentazione: lo stato della Pennsylvania non garantisce un supporto legale adeguato a chi non può permettersi un avvocato, dunque non rispetta la Costituzione. Di conseguenza i poveri, e in particolare i poveri afroamericani, finiscono spesso in carcere ingiustamente e sono costretti a scontare pene più lunghe di chi invece può permettersi un avvocato.

Le tesi che Olivia e Annalise portano dinanzi alla Corte Suprema non sono espedienti narrativi, ma parentesi di realtà che si fanno di volta in volta più ampie e pungenti. E ciò che emerge è proprio la condizione di perenne svantaggio e discriminazione contro cui le persone nere hanno ricominciato a manifestare in queste settimane.

Nel crossover, ad esempio, Olivia e Annalise rilevano come gli afroamericani siano colpiti più di ogni altra comunità dall’impossibilità di sostenere le spese legali. E se Le Regole del Delitto Perfetto si sofferma sugli avvocati d’ufficio, la realtà è ben più deprimente. Le spese da sostenere, infatti, riguardano anche le cauzioni, ed è possibile persino che non pagarle comporti un allungamento della pena.

Non avere un avvocato, fa notare inoltre Annalise nella serie, impedisce ai detenuti coinvolti nella class action di vedersi garantito un giusto processo. Ed è pura realtà che gli avvocati d’ufficio non possano fare miracoli. Il settore deve infatti fare i conti con la cronica mancanza di fondi e una mole enorme di casi da gestire. Chiaro, dunque, che errori e superficialità siano all’ordine del giorno.

Nella sua incursione nel mondo de Le Regole del Delitto Perfetto Olivia Pope sottolinea poi come molte persone nere, pur se accusate ingiustamente di aver commesso un reato, preferiscano dichiararsi colpevoli e scontare la pena. L’alternativa sarebbe attendere l’arrivo di un avvocato d’ufficio, affrontare un processo lungo e laborioso e vedersi condannati a sanzioni più salate e pene più severe.

Che la materia affrontata ne Le Regole del Delitto Perfetto tragga origine dalla realtà – e resti più attuale che mai – è evidente anche dalle basi su cui poggia l’intera class action di Annalise, e che richiama un caso simile affrontato nello stato di New York nel 2014. Una rara vittoria per la pubblica difesa, scrive il New York Times a tal proposito.

Chiudiamo quindi con il più potente dei passaggi da Le Regole del Delitto Perfetto 4×13, in cui la potenza evocativa di Viola Davis è il miglior veicolo di trasmissione di una realtà durissima e ancora doloramente attuale:

Il razzismo è nel DNA dell’America. E finché chiuderemo gli occhi dinanzi al dolore di chi ne è schiacciato non ci libereremo mai di quelle origini. L’unica protezione che le persone di colore hanno è il diritto a una difesa, e non riusciamo a garantir loro neppure questo. Ciò significa che la promessa dei diritti civili non viene mantenuta. A causa dal fallimento del nostro sistema giudiziario, e in particolare del nostro sistema di pubblica difesa, Jim Crow è vivo e vegeto.

Leggi per cui era illegale seppellire bianchi e neri nello stesso cimitero, per cui esistevano le categorie di mulatti e meticci, per cui si puniva una persona nera che chiedeva di essere curata in un ospedale per bianchi. Qualcuno potrebbe dire che la schiavitù non esiste più. Ma ditelo ai detenuti tenuti chiusi in gabbie e a cui viene negato qualsiasi diritto. Persone come il mio cliente, Nathaniel Lahey, e milioni di persone come lui, relegate a una sottoclasse dell’esistenza umana nelle nostre prigioni. Non c’è alternativa alla giustizia in questo caso. Non c’è un’altra opzione.

Pronunciarsi contro il mio cliente significa riempire le tasche dei proprietari delle carceri anziché garantire una difesa fondamentale a chi ci vive dentro. Ed è forse quella l’America in cui questa corte vuole vivere? Un’America in cui il denaro conta più dell’umanità? In cui la salute mentale è confusa per criminalità? Il sesto emendamento è stato ratificato nel 1791. Sono passati 226 anni da allora. È arrivato il momento di garantirne i diritti a tutti i nostri cittadini.

LE REGOLE DEL DELITTO PERFETTO. L’ingiustizia negli Usa. Sara Bellomo and Anna Ragone su sharing.school il 22 Marzo 2021.  

La discriminazione nei confronti degli afroamericani da parte del sistema giudiziario americano è un problema all’ordine del giorno. È proprio questo uno dei temi principali trattati dalla famosa serie televisiva ‘Le regole del delitto perfetto’. La protagonista, Annalise Keating, è una brillante avvocatessa e docente di diritto penale. Insieme ad alcuni dei suoi migliori studenti, si impegna nella difesa soprattutto di persone di colore.

La popolazione carceraria negli Stati Uniti

Secondo i dati, gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di detenuti, di cui la grande maggioranza sono afroamericani. Nel 2018 i neri rappresentavano il 12-13% della popolazione adulta americana e il 33% di quella carceraria, praticamente il triplo della loro quota. I bianchi, che invece costituiscono il 61-63% della popolazione adulta totale, rappresentavano solamente il 30% dei prigionieri.

Se consideriamo i detenuti che attualmente si trovano nel braccio della morte, la percentuale degli afroamericani sale al 42%. L’etnia sembrerebbe quindi tuttora un fattore determinante quando si tratta di condannare a morte un uomo negli Stati Uniti. Inoltre, in molti casi, le giurie che determinano le condanne sono composte unicamente da bianchi.

La storia del razzismo negli Stati Uniti

I numeri parlano da soli, ma non è possibile capire il fenomeno senza considerare le sue origini. Per secoli infatti, pregiudizi e miti hanno associato il criminale all’uomo di colore. Per la National Association for the Advancement of Colored People, gli afroamericani hanno una probabilità cinque volte maggiore di essere fermati senza una giusta causa dalla polizia, rispetto a una persona bianca.

Tutto ciò costituisce un problema perché chi finisce in prigione ha meno possibilità di ottenere un lavoro o di ottenere dei benefici federali una volta usciti. Inoltre, l’alto tasso di incarcerazione va ad influire sull’esercizio dei diritti del cittadino. Per esempio, in 12 stati una condanna per reato comporta la perdita del diritto di voto. Se i numeri non dovessero calare, nei prossimi dieci anni, il livello di perdita dei diritti civili per le persone di colore sarà alto tanto quanto lo era prima del passaggio della legge sul diritto di voto, Voting Right act del 1965, quella legge per la quale lottarono John Lewis e i Big Six.

La class action di Annalise

Nella quarta stagione delle regole del delitto perfetto, Annalise Keating porta alla Corte Suprema una class action per dimostrare la disparità di trattamento nei confronti delle persone di colore da parte delle forze dell’ordine. Che la materia affrontata nella serie tv tragga origine dalla realtà – e resti più attuale che mai – è evidente anche dalle basi su cui poggia l’intera class action di Annalise, e che richiama un caso simile affrontato nello stato di New York nel 2014.

Annalise riesce a sostenere che lo stato della Pennsylvania non garantisce un supporto legale adeguato a chi non può permettersi un avvocato. Le tesi che Annalise porta dinanzi alla Corte Suprema non sono espedienti narrativi, ma parentesi di realtà che si fanno di volta in volta più ampie. Non avere un avvocato impedisce ai detenuti coinvolti nella class action di vedersi garantito un giusto processo. Ed è pura realtà che gli avvocati d’ufficio non possano fare miracoli. Il settore deve infatti fare i conti con la mancanza di fondi e una mole enorme di casi da gestire.

Nella sua arringa finale Annalise dice così:

"Il razzismo fa parte del DNA dell’America. E finché chiuderemo gli occhi dinanzi al dolore di chi ne è schiacciato non ci libereremo mai di quel patrimonio genetico. L’unica protezione che le persone di colore hanno è il diritto a una difesa, e non riusciamo a garantire loro neppure questo. Ciò significa che la promessa dei diritti civili non viene mantenuta." 

La classifica delle 10 serie legal drama più belle di sempre. Morbinati & Longo il 26 Dicembre 2018 su morbinatilongo.it.  

Il Natale è appena passato ma fortunatamente abbiamo ancora davanti a noi alcuni giorni di vacanza per goderci un po’ di sano relax, magari comodamente sprofondati sul divano di casa pronti per il binge watching! Eh sì, anche noi di “Morbinati &Longo Avvocati s.p.a.” amiamo le maratone di serie tv. Ecco quindi la nostra personalissima classifica con le dieci serie tv legal drama più belle di sempre: serie tv su avvocati… consigliate da avvocati veri!

Ma prima ecco qualche curiosità: Boston sembra essere una delle città preferite come sede per le vicende dei legal drama. Spesso sono le donne avvocato le vere protagoniste. Molti dei casi narrati in queste serie televisive si ispirano a casi realmente accaduti in Usa o in altri Paesi. Tre delle serie della nostra classifica sono state scritte dal medesimo autore, David E. Kelley, che forse non tutti sanno essere sposato con la divina Michelle Pfeiffer.

1 Better Call Saul 

Saul Goodman, conosciuto come l’avvocato delle cause perse in Breaking Bad, interpretato da uno strepitoso Bob Odenkirk, si è meritato senza ombra di dubbio una serie tutta per sé. In questa serie seguiamo le vicende di questo improbabile e grottesco avvocato, a tratti esilarante, ma che sa vivere con un pizzico di sano cinismo, in una sorta di flash back. La serie si apre, infatti, in un tempo successivo a quello narrato in Breaking Bad, salvo poi presentarci le origini di Saul, gli inizi della sua carriera quando ancora si faceva chiamare James McGill.

2 Ally McBeal 

È stato il legal drama più amato a fine anni ’90, una serie che ha portato al successo la bravissima Calista Flockhart e ha avuto il merito di ridare una spinta alla carriera di Robert Downey Jr, presenza fissa della quarta stagione. La serie si apre con una giovane avvocatessa costretta a lasciare lo studio dove lavora per le continue molestie sessuali dei capi, incontra per strada un ex compagno della scuola di legge che la assume nel suo studio appena aperto. Fra cause che affrontano temi anche delicati, divertenti siparietti dovuti alle allucinazioni di Ally e indimenticabili duetti sul palco del Maritini Bar, il locale dove si ritrovano gli avvocati a fine giornata, questa serie durata 5 stagioni è senza dubbio un pezzo da novanta fra le serie legal.

3 Suits

In molti la conoscono principalmente perché fra le sue interpreti c’è Meghan Markle, costretta a lasciare dopo il matrimonio con il principe Henry e l’ingresso nella famiglia reale britannica. Ma Suits è un legal drama avvincente che punta l’attenzione sulle vicende di un avvocato di grido Harvey Specter che assume come suo assistente un ex studente di legge, Mike Ross, che non ha finito gli studi ma ha un’incredibile memoria eidetica. Proprio questa caratteristica diventerà fondamentale per la gestione e la soluzione di molti casi!

4 The Good Wife 

Dopo Ally McBeal un’altra donna avvocato, al centro di una serie perfettamente cucita addosso all’attrice che la interpreta. The Good Wife vede come protagonista assoluta Julianna Margulies, famosa a partire dagli anni ’90 per un’altra serie di grande successo, E.R. Un ruolo che è valso all’attrice numerosi riconoscimenti e premi e che ha permesso agli autori di indagare la mente e il cuore di una donna avvocato, senza nascondere le sue fragilità. Lasciata la carriera di avvocato per dedicarsi alla famiglia e al sostegno del marito procuratore, dopo uno scandalo in cui viene pubblicamente umiliata per un tradimento proprio del consorte, Alicia Florrik, sceglie di riprendere le redini della propria vita assunta dallo studio di avvocati di un suo ex compagno di Università. Un lavoro che le cambierà la vita.

5 Law&Order 

Un vero e proprio cult che ha fatto la storia del legal in tv. Per la prima volta si mescolano i tratti tipici del legal e del police drama per raccontare i casi seguendone tutto l’iter investigativo, legale e giudiziario. Oggi Law & Order, la cui serie madre è andata in onda per 20 stagioni, è un vero e proprio franchising che coinvolge una decina di spin off, prodotti o ancora in produzione, con numerosi cross over, ovvero puntate in cui si incrociano le trame di due o più serie. Un successo che dopo quasi 30 anni non smette di attirare il pubblico!

6 The Practice 

Ambientato a Boston, proprio come Ally McBeal con cui ci fu anche un cross over molto apprezzato dal pubblico, The practice segue le vicende di un gruppo di avvocati penalisti intenti a difendere facoltosi clienti invischiati in crimini e omicidi. Curiosità: nella settima stagione entrano nel cast due volti noti di una delle serie medical più famose di sempre Grey’s Anathomy, Jessica Capshaw e Chyler Leigh, conosciute per i ruoli di Arizona e Lexie; mentre nell’ottava stagione fanno la loro comparsa James Spader e Rhona Mitra che diventeranno poi protagonisti dello spin off Boston Legal.

7 The Guardian 

Prima di diventare il mentalista più famoso della tv Simon Baker ha impersonato il fascinoso e imprevedibile avvocato Nick Fallin condannato a 1500 ore di servizi sociali per un’accusa di possesso di droga. La serie segue le vicende dell’avvocato di Pittsburgh, il suo impegno per risolvere i problemi personali e di dipendenza mentre aiuta persone in difficoltà e cerca di recuperare il rapporto con il padre, socio dello studio di avvocati, divenuto ancora più difficile dopo la morte della madre.

8 Le regole del delitto perfetto 

La serie televisiva narra le vicende dell’avvocato penalista Annalise Keating, interpreta magistralmente da Viola Davis, che si divide fra il lavoro in tribunale e quello di docente nell’Università di Philadelphia. Insieme ad un gruppo di studenti selezionati per aiutarla nella difesa dei casi più difficili. Una notte però un omicidio in cui perde la vita suo marito sconvolge la vita di Annalise. Casi avvincenti e svariate complicazioni rendono questa serie una vera chicca fra i legal drama, assolutamente da vedere.

9 Boston Legal 

Spin off di The practice, Boston Legal ci restituisce due personaggi molto amati, Alan Shore e Tara Wilson, oltre che il bravissimo William Shatner (chi non ricorda il capitano Kirk di Star Trek?), in uno studio legale dove spesso si affrontano casi difficili, in cui spesso etica e morale si scontrano con ciò che la legge impone di fare. Vicende avvincenti e dialoghi degni di nota per un legal drama di grande qualità!

10 American Crime Story: Il caso OJ Simpson 

Prima stagione di una serie legal antologica incentrata su fatti realmente accaduti che hanno destato grande partecipazione da parte dell’opinione pubblica statunitense, American Crime Story sviscera un caso lungo tutti gli episodi ogni stagione. La prima è dedicata proprio alla vicenda di OJ Simpson, uno dei casi mediatici forse più famosi degli ultimi 30 anni, che tutti ricordiamo per il lungo inseguimento in diretta tv. Lo storyline narra tutta la vicenda dall’omicidio della donna seguendo il lungo e complesso processo giudiziario che ne seguì.

Una menzione speciale… 

Come nei migliori festival, anche noi abbiamo la nostra menzione speciale: una serie che non è strettamente un legal drama ma che ha per protagonista un avvocato molto particolare, che qualunque studio vorrebbe avere nel proprio organico. Si tratta di Daredevil. Il celebre eroe della Marvel è magistralmente interpretato da Charlie Cox, capace di rendere il personaggio estremamente credibile sia nelle vesti del rispettabile avvocato non vedente Matt Murdock, sia nel suo alter ego che combatte i criminali. Splendida l’ambientazione, una Hell’s Kitchen senza tempo in cui si muove un degrado subdolo, in cui ogni città può facilmente riconoscersi. Bravi tutti gli attori, su cui svetta l’immenso, “cattivissimo” Vincent d’Onofrio. Non ci resta che augurarvi buona visione!

Bye bye forca: come le serie tv hanno sdoganato il garantismo e il diritto di difesa. I nuovi "legal drama" ci portano dentro la macchina giudiziaria nelle sue iniquità e disfunzioni, restituendo piena dignità alla figura dell'avvocato. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 4 luglio 2022.

La tensione perpetua tra legge e giustizia, tra morale astratta e diritti concreti è sempre stata al centro delle rappresentazioni hollywoodiane, con tutte le inevitabili semplificazioni e concessioni (al climax narrativo da una parte e alla cultura di massa dall’altra) proprie al filone giudiziario.

Il racconto popolare si nutre infatti di schemi regolari, ripetitivi, è espressione dello spirito dei tempi ma allo stesso tempo lo condiziona, contribuendo a creare e a diffondere valori e pregiudizi. È l’immaginario collettivo, che fornisce il sostrato simbolico all’opinione pubblica, al suo formarsi e al suo continuo mutare (o stagnare): le opere di finzione, cinema, tv, letteratura, teatro, sono in tal senso veicoli formidabili.

Per decenni i legal drama hanno giocato con l’immedesimazione tra lo spettatore e i “coraggiosi giustizieri” che si scagliano contro poteri ordinari e straordinari, Che si tratti di avvocati o procuratori o addirittura poliziotti cambia poco, l’occhio della cinepresa è (quasi) sempre quello dell’accusa, una soggettiva continua di raddrizzatori di torti, che magari si battono con passione per scagionare un innocente, però con l’idea “davighiana” di dover scovare il «colpevole che l’ha fatta franca».

Nell’ultimo decennio l’avvento delle piattaforme streaming, in particolare Netflix, ha rivoluzionato profondamente questo paesaggio culurale anche grazie al format seriale, più dettagliato e analitico del film classico, che permette di spiegare ai profani la complessità di un’inchiesta e di un processo penale, la fragilità del sistema e la facilità con cui le giurie fanno sbattere in cella gli imputati nel paese più carcerario dell’occidente. E la figura più rappresentativa di questa evoluzione e quella dell’avvocato, spogliata dei suoi attributi mitologici e irrealistici, da supereroe degli studios, guerriero Marvel in toga, e ricollocata senza epica nella sua funzione ordinaria, quotidiana, imperfetta e per questo così preziosa per la vita democratica. Non c’è più bisogno di essere Perry Mason, o l’Atticus Finch de Il buio oltre la spiepe, o il Frank Galvin de Il Verdetto per interpretare con nobiltà il ruolo del difensore. Non è necessario scoperchiare complotti o far cadere governi per servire lo Stato di diritto con spirito probo.

È uno switch importante per gli Stati Uniti, dove per tradizione i legali non godono di grande fama, al contrario: oltreoceano circolano barzellette di gran cinismo, amenità sarcastiche del tipo: «Come fai a capire se un pedone investito da un tir faceva l’ avvocato? Facile: manca il segno della frenata sull’asfalto!». Astuti, avidi, spesso senza scrupoli e in odor di zolfo, assimilati fisiologicamente ai propri clienti e ai loro presunti crimini. Gli avvocati dei criminali, degli stupratori, degli assassini, dei mafiosi o sull’altra sponda dei politici corrotti e delle grandi corporation, rappresentati come ingordi affaristi, altro che attori essenziali del diritto. L’unica figura tollerata nella cultura cinematografica Usa era, come dicevamo, l’avvocato-investigatore, la parte civile, che presta soccorso alla vittima di turno, che si tratti di una povera ragazza dei bassifondi che ha subito violenza sessuale a cui nessuno crede o di un povero diavolo truffato da una cinica multinazionale. Con il difensore che si trasfigura in paladino-accusatore e ripara l’ingiustizia anche se inizialmente deve affrontare avversari insormontabili e cattivissimi fino al meccanico colpo di scena in cui il bene trionfa sul male.

Nella nouvelle vague giudiziaria delle serie tv questo manicheismo è assente, ma la critica è decisamente più profonda perché non riguarda il tal procuratore, il tal poliziotto, il tal personaggio pubblico, ma il sistema, la sua equità alterata dalle disparità sociali, dai preconcetti razziali, dal populismo penale e dai processi mediatici. Non parliamo solamente degli “errori giudiziari” in cui i diritti negati sono strettamente connessi al proprio status di “innocente” e l’empatia scorre automatica tra il pubblico. La gran parte delle serie ci porta ormai dentro la macchina giudiziaria, nei suoi meccanismi complessi a volte perversi. E molto spesso sono tratte da storie vere riadattate dagli sceneggiatori degli studios.

Certo, il plot deve essere arricchito dalla fantasia degli autori, da situazioni immaginarie per ovvie esigenze di drammaturgia, si tratta pur sempre di fiction, ma mai come ora abbiamo potuto osservare così da vicino Prendiamo la bellissima For Life, scritta e ideata da Hank Steinberg, prodotta dal rapper 50 Cents che racconta la discesa agli inferi e poi il riscatto di Aaron Wallace, arrestato per spaccio di droga e condannato alla prigione a vita perché non ha voluto patteggiare una pena a vent’anni. In prigione Wallace decide di laurearsi in legge e diventare avvocato.

For Life ci mostra i conflitti e le lotte di potere, tra i detenuti e tra chi fa funzionare la macchina infernale della prigionia, l’ottusità vendicativa delle guardie, il cinismo dell’amministrazione, l’iniziativa, spesso interessata e priva di scrupoli della procura. E lo fa senza retorica, senza piagnistei, con un tocco minimalista. Wallace combatte per se stesso, certo, e riuscirà a dimostrare la propria innocenza, ma incarna il ruolo dei difensore con fervore e lucidità: «Sono un avvocato, farei di tutto per i miei clienti!». Già, il diritto avere una difesa e un processo equo, che non significa soltanto disporre di uno svogliato legale d’ufficio, ma di un professionista appassionato capace di lottare contro il moloch giudiziario, di proteggere i suoi clienti dal bullismo dei procuratori, E sono tanti i tabù che saltano in aria. Come quello delle testimonianze oculari che le giurie d’oltreoceano e gli stessi procuratori hanno sempre santificato, come profezie scolpite nel marmo.

La docuserie Innocence file, che illumina le vicende di otto detenuti condannati ingiustamente in seguito a indagini sbrigative, perizie approssimative e processi sommari. Una produzione ispirata al lavoro di The innocence project, organizzazione no profit che ogni anno riesce a far riaprire decine di casi giudiziari. Stando alle cifre ufficiali negli ultimi trent’anni sono circa 2500 le persone condannate ingiustamente che hanno potuto ribaltare la sentenza grazie all’aiuto di queste ong. A seppellirli in carcere testimoni che si dicono «certi» di averli riconosciuti sulla scena del delitto, o in fuga dal luogo del crimine, oppure aggirandosi sospetti nei dintorni di un omicidio o di una rapina, e d’altra parte chi può dubitare di una vittima che riconosce il volto del suo stesso carnefice? La psicologia forense e la semplice casistica ci spiegano invece quanto sia illusoria la memoria, anche a pochissime ore di distanza dai fatti, figuriamoci dopo molti mesi, se non anni. C’è poi la componente emotiva che distorce la percezione, dilata i tempi, provoca rimozioni e sostituzioni, offusca il giudizio.

In alcuni casi le serie possono incidere direttamente sui destini di persone in carne e ossa come per Making of a Murderer che ha portato alla scarcerazione di Brendan Dassey, condannato all’ergastolo per omicidio volontario. Le registe hanno messo in luce la manipolazione delle prove da parte della polizia, gli interrogatori illegali, l’ostracismo verso gli avvocati, ma hanno anche ricevuto diverse critiche per l’estrema parzialità del racconto che non approfondisce le responsabilità di Dassey per concentrarsi solamente sui metodi brutali dei suoi accusatori. Uno degli effetti più importanti del processo Dassey è stata la messa in discussione della prova del Dna, vero e proprio dogma per inquirenti, giudici e giurie, dimostrando che la traccia genetica può venire alterata che non può essere affidabile al cento per cento.

La produzione seriale americana è anche lo specchio dei grandi cambiamenti avvenuti nell’ultimo decennio in quella società. Il movimento Black lives matter ha messo a nudo la feroce discriminazione che la comunità afroamericana subisce ogni giorno nei mille ghetti d’America, dai dalle perquisizioni violente, alla detenzione abusiva, alla negazione del diritto di difesa, alle umiliazioni del sistema penitenziario federale. Una ferita che viene da lontano e che richiama alla mente le grandi battaglie peri diritti civili degli anni 60 e 70, In questa prospettiva si muove Processo ai Chicago 7, che racconta come i leader del movimento studentesco, della controcultura giovanile e del black power tra cui Bobby Seal della Pantere nere vennero usati come capro espiatorio per i celebri scontri alla convention democratica del 1968 sullo sfondo della contestazione alla guerra in Vietnam.

Arrestati senza prove, dati in pasto alla gogna pubblica, incastrati da procuratori faziosi e giudici proni al potere alla fine riusciranno a dimostrare la loro innocenza e le manovre politiche che si sono giocate sulla loro pelle. Una serie toccante, che rimanda a fatti avvenuti mezzo secolo fa ma purtroppo ancora attuali, una serie anche figlia dei moti di Ferguson dopo l’uccisione nell’agosto del 2015 del 18enne disarmato Michael Brown da parte di un agente di polizia bianco che innescarono un movimento di massa, capace di far rimettere in discussione i poteri quasi militareschi concessi ai poliziotti e la compiacenza dei tribunali nei confronti dei loro continui abusi. Giustizia razziale, giustizia di classe, giustizia, politica, giustizia mediatica; conoscere le perversioni del sistema è il metodo più adatto per osservare l’andamento e la rettitudine di una società, e le tante serie tv che ci mostrano le vicende reali di avvocati, procuratori, giudici, imputati, testimoni, poliziotti e giornalisti tutti impegnati a far andare avanti la macchina, ci permettono di guardare da vicino come funziona una democrazia.

Spangher: «Film Usa costruiti su dibattimento e ruolo dell’avvocato. Da noi su accusa e investigatori: non è un caso…» Serie Tv e filmografia sulla giustizia consigliate dal professore emerito di diritto processuale penale alla "Sapienza" di Roma: «Molto istruttive pure le pellicole francesi». Valentina Stella su Il Dubbio il 4 luglio 2022.

Quando per prima volta il professor Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale all’Università La Sapienza di Roma, è venuto a cena a casa non abbiamo parlato solo di riforme della giustizia ma ci siamo avventurati anche nel campo della cinematografia, commentando insieme alcune scene di uno dei nostri film preferiti: ‘Il caso Thomas Crawford’, con Anthony Hopkins e Ryan Gosling.

Professore ho scoperto che lei è un vero cinefilo.

Mi piace andare al cinema. Il mio film preferito è ‘In the Mood for Love’, una produzione cinese degli anni 2000. Ma sono appassionato anche di pellicole e serie tv che trattano casi di cronaca giudiziaria e raccontano i processi. Da poco ho fatto anche l’abbonamento a TimVision e sono immerso nella visione della serie americana ‘The Good Wife’.

Serie molto bella, concordo. Lei trasferisce la passione anche ai suoi studenti, visto che continua ad insegnare.

Non solo, anche agli avvocati. Ogni anno con le Camere Penali organizziamo a Rimini la proiezione di un film che tratta i temi della giustizia e poi dibattiamo tutti insieme. Film e serie tv, come quella su Perry Mason, sono entrati nelle case degli italiani e al di là dell’intrattenimento ci spingono a fare serie riflessioni comparative tra il processo italiano e quello anglosassone. Ne discuto anche alla Scuola Ufficiale Carabinieri, a quella di Polizia e con gli studenti.

Ma che film fa vedere?

Film francesi come ‘L’Affido Una storia di violenza’ e ‘J’accuse’ diretto da Roman Polanski sull’Affare Dreyfus. Non manca mai ‘Il caso Thomas Crawford’ perché lì si vede tutto del caso, dall’omicidio al processo, passando per la raccolta delle prove e terminando con il principio di diritto del ne bis in idem. Ma abbiamo visto anche ‘Il diritto di opporsi’ sulla pena di morte. Insomma scelgo film e serie tv in cui i profili processuali sono raccontati in maniera tecnicamente apprezzabile.

‘Il caso Thomas Crawford’ è emblematico di come funziona la giustizia negli Usa.

Da un lato sì, ma rappresenta uno dei tanti tipi di processo che si celebrano negli Stati Uniti. È il processo dei ricchi mentre se vedi il primo episodio della settima stagione di ‘The Good Wife’ prendi visione di quello che racconta anche il professor Vittorio Fanchiotti nel suo recente libro ‘La giustizia penale statunite – Procedure v. Antiprocedure’ pubblicato da Giappichelli: a New York possono essere arrestate nella notte anche trecento persone, ammassate tutte in grandi stanzoni e da lì inizia il girone dell’inferno delle cauzioni e dei patteggiamenti. La giustizia americana non è solo quella dei grandi studi legali ma anche quella dei poveri, dei neri e degli emarginati che, per esempio, non possono permettersi di pagare l’investigatore privato per cercare elementi a discolpa.

Ma qual è la prima differenza che nota tra la rappresentazione americana e quella italiana?

La filmografia americana è tutta concentrata sul dibattimento, sull’oralità e soprattutto sul ruolo dell’avvocato. Mentre nelle nostre produzioni l’attenzione è più sugli investigatori e sul rappresentante dell’accusa.

Diciamo che qui da noi l’avvocato è visto come l’azzeccagarbugli che vuole farla fare franca al suo cliente, mentre negli Stati Uniti è colui che ti salva, anche pro-bono, dalla pena di morte o che in generale combatte per i diritti dell’indagato contro le angherie della polizia, spesso corrotta o impegnata ad inquinare le prove.

Esatto. L’unica eccezione forse è il film ‘I nostri ragazzi’ con Alessandro Gassman, Luigi Lo Cascio, Giovanna Mezzogiorno, Barbara Bobulova. Lì un avvocato scopre che sua figlia ha picchiato una barbona e decide di denunciarla, mentre l’altro fratello, che era stato inizialmente dipinto come il rispettoso delle regole, il garantista, si oppone perché è coinvolto anche suo figlio. In generale nelle nostre produzioni c’è il tentativo di trasformare il processo in una commedia. Mentre nel processo anglosassone il difensore è visto come il garante dei diritti.

Quali sono altri tratti distintivi tra i due sistemi?

Lì hanno due tipi di processi, quello federale – vediamo spesso in tv i casi gestiti dall’Fbi su droga, terrorismo, traffico di esseri umani- e poi quelli statali.Mentre negli Usa ci sono due treni ad alta velocità, qui abbiamo solo un binario, quello della Procura della Repubblica che si occupa del semplice furto ma anche delle stragi di criminalità organizzata. L’obiettivo del pubblico ministero è quello di aumentare l’imputazione per godere delle maggiori potenzialità inquisitorie, tipo i trojan. A Roma si è istruito un processo per Mafia capitale, poi non era mafia, ma che importa per alcuni.

Ricordiamo che negli Usa il prosecutor è elettivo, se sbaglia paga.

Giusto, qui invece c’è un problema culturale con la responsabilizzazione del pm. Poi la grande differenza è quella della giuria popolare.

A proposito della giuria, leggevo nel libro di Fanchiotti che in alcuni casi negli Usa il mandato di arresto può essere autorizzato anche dal cosiddetto clerck, una specie di cancelliere, non necessariamente laureato. Basta che sia imparziale e distaccato, in grado di decidere se esista la probable cause.

La giustizia è davvero amministrata dal popolo e non nel nome del popolo, come avviene da noi dove deleghiamo al giudice togato. Come noto, esistono i consulenti chiamati a determinare gli appartenenti alla giuria. In quel sistema la decisione è affidata a 12 persone, mentre il giudice è solo l’arbitro del processo.

Sì, in alcuni casi impiegano anche due giorni per fare la selezione della giuria. Nel caso di O.J. Simpson impiegarono tre mesi.

Consiglio sul tema il bellissimo film del 1957 ‘La parola ai giurati’ con Henry Fonda, tutto girato in una Camera di Consiglio: dodici giurati sono riuniti per decidere della sorte di un accusato d’omicidio. Undici lo ritengono colpevole. Soltanto uno lo considera innocente, ma per salvarlo dalla condanna a morte bisogna raggiungere l’unanimità.

Un altro aspetto che ci differenzia è che negli Usa il secondo grado è solo per questioni formali.

Sì, solo in caso di violazione di diritti costituzionali.

Forse allora è meglio il nostro sistema che dopo il primo grado ci offre un altro giudizio di merito e uno di legittimità.

Se la giuria è stata scelta bene, se il giudice ha rispettato le regole, se la difesa ha potuto esercitare i suoi diritti non ho bisogno di rifare un nuovo processo. Lì hanno un vero sistema accusatorio, che noi non abbiamo: immediatezza, concentrazione delle udienze – lo vediamo spesso nei film: ‘la Corte si aggiorna a domattina alle 9’, per esempio – oralità, stesso giudice. Quindi è necessario qui in Italia avere un appello.

Le scene più belle dei film americani sono quelle in cui si mette in scena la cross-examination, il contro-interrogatorio. Attimi di vera tensione.

Molto interessante una serie inglese – ‘Anatomia di uno scandalo’ – dove la presunta vittima di uno stupro viene sconfessata da un abile difensore dell’imputato che con poche e secche domande riesce a minare la sua versione dei fatti. Mentre da noi è una procedura svilita dall’invadenza del giudice. E poi una cosa che ci insegna quel sistema è di non fare mai una domanda al proprio testimone di cui non si è sicuri della risposta.

Un caso eclatante è proprio quanto accaduto nel processo contro O. J. Simpson.

Il processo viene ripercorso nella serie Netflix ‘The People v. OJ Simpson’. Un procuratore azzardò in Aula nel fargli provare il guanto che avrebbe indossato l’assassino. Ma non gli entrò e quell’episodio lo scagionò.

“Vostro onore”: quando il giudice integerrimo è tormentato dal dubbio. La serie italiana, targata Rai, con Stefano Accorsi ha una duplice radice. L'originaria "Kvodo", e l'adattamento americano "Your Honor". Boris Sollazzo su Il Dubbio il 4 luglio 2022.

Il legal drama è un genere che nella serialità, ben prima dell’età dell’oro attuale, delle piattaforme che offrono storie di ogni tipo, qualità e quantità, ha sempre avuto successo e continuità. Chi non ricorda Law and order che ha alfabetizzato diverse generazioni di spettatori sul sistema giuridico statunitense ma ha anche portato, decenni dopo il più granitico e classico Perry Mason, un dibattito etico e morale su limiti e perversioni di leggi, meccanismi giuridici e politici del vero sistema portante degli Stati Uniti, come è stato dimostrato dalla Corte Suprema e la sua pronuncia sull’aborto. Poi arrivò The Practice che ci raccontò di quegli avvocati difensori che si prendono, a dispetto di record e percentuali, casi disperati o colpevoli (a volte sono entrambi) perché a tutti va garantito un processo giusto e il diritto alla difesa e perché almeno i secondi, di solito, pagano bene.

Un rovesciamento forte, seppur troppo breve, rispetto al modo abitudinario della nostra tv di entrare nei tribunali e in qualsiasi altro luogo di legge e governo. Ora abbiamo Vostro Onore che guarda laddove tv e cinema spesso non si sono soffermati, se non funzionalmente a storie che vedevano negli imputati, negli avvocati, persino nelle mogli di politici che praticano la professione legale un cardine di questa narrazione così capillare. Curioso, perché il giudice in realtà è il motore della vicenda e in ogni caso sancisce, con le sue decisioni, il destino della storia, ma quasi sempre nelle serie come nei film diventa una sorta di deus ex machina, un alieno che interviene inizialmente con antipatica pedanteria e spesso alla fine con provvidenziale equilibrio nel punire i cattivi e premiare i buoni, ovviamente in extremis.

Vostro onore racconta le ambizioni, i tormenti, l’inferno di un giudice che deve tradire se stesso. La figura che altrove è una pedina di lusso, qui diventa fondamentale e fondante. Ed è curioso come nei diversi adattamenti si siano trovati molti punti di contatto ma anche altri di rottura. La serie con Stefano Accorsi, targata Rai, ha infatti una duplice radice. Quella originaria di Kvodo, prodotto israeliano (la tv in Israele ha trovato nella formula narrativa e visiva della serialità un successo clamoroso, da In Treatment in poi, tratto dal loro BeTipul, è un serbatoio di idee, talenti e remake) e Your Honor, l’adattamento americano con Bryan Cranston che si toglie, qui, parte dell’eredità pesantissima di Breaking Bad riuscendo, finalmente, a essere altro.

La trama è semplice e implacabile. Un adolescente uccide una persona con la macchina. Il pirata della strada è figlio di un magistrato rigoroso, ossessionato dal lavoro e dagli obiettivi che si è posto. Giudice che dolorosamente ma con onestà intellettuale e morale pretende che il figlio si costituisca. Quando arrivano e il ragazzo sta per farlo, però, il padre scopre che la vittima è di una famiglia legata alla criminalità organizzata: la posta non è più evitare il carcere, ma la morte e la vendetta di un boss. Da qui inizia una discesa agli inferi di chi, da sempre ligio alle regole, deve violarle tutte – peraltro, incompreso – per proteggere ciò che ha di più caro.

Il finale è conciliante in Italia, devastante in America, equilibrato in Israele. Vostro Onore si ispira maggiormente al modello originale per la “soluzione” di questa sorta di tragedia greca togata, Your Honor fa una crasi tra le due stagioni di Kvodo), ma il punto è che ci offre finalmente una visione umana, anche controversa di un ruolo e di un uomo che spesso sottovalutiamo nella sua complessità. E sì, forse persino fragilità.

Più interessante è andare a guardare al ritratto che ne fanno le tre serie. Se Yoram Hattab ha uno spettro espressivo e emotivo complesso, compresso ma anche profondo, Cranston ha l’intuizione interessante e profondamente politica di portare il suo personaggio a mettere nel tentativo di salvare l’erede lo stesso impegno ossessivo e implacabile che ha sul lavoro. Ma a fare un’opera davvero di cesello è proprio Accorsi, capace di dare una tridimensionalità a un ruolo che è invece una somma di archetipi virili, il giudice severo e il padre padrone (del destino del figlio).

L’attore italiano, aiutato anche da un casting intelligente (su tutti la sempre più brava Barbara Ronchi, nemesi del giudice, dal momento che indaga sull’incidente), dà una profondità lacerante a quest’uomo, vedovo dolente e padre indolente e bloccato, giudice integerrimo e professionista ambizioso al limite del cinismo. Invece della strada della semplificazione e di un lavoro atto a scolpire un antieroe epico, Stefano Accorsi preferisce cercare l’umanità, le ferite, l’empatia, il tormento. Tanto Cranston rimaneva granitico pure nelle pose e nelle espressioni, quanto in Vostro onore il protagonista muta, si ricrede, apre costantemente un ventaglio interpretativo sempre diverso. Fuori e dentro l’aula. Che altro non è, in fondo, che un anfiteatro da tragedia greca, con tanto di coro (la giuria) e maschere.

Avvocati perseguitati e messi al bando: è dovere di noi giuristi ricordarli. Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare e individuare le corresponsabilità che portarono all'orrore delle leggi razziali. Il Dubbio il 27 gennaio 2022.

Oggi, in tutto il mondo, si celebra la “giornata internazionale della commemorazione in memoria delle vittime della ferocia nazista”; lo ha voluto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una risoluzione del 1 novembre 2005, scegliendo la data del 27 gennaio in ricordo di quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz svelando al mondo intero l’orrore del genocidio nazifascista.

Al nostro Paese, il merito di avere, alcuni anni prima della risoluzione delle Nazioni Unite, istituito con legge dello Stato, nella stessa data, il “giorno della memoria”. La risoluzione dell’ONU del 2005 impegna tutti gli stati membri delle Nazioni Unite ad inculcare nelle generazioni future le “lezioni dell’olocausto”; un significato simbolico, una commemorazione pubblica delle vittime della Shoah e delle leggi razziali approvate sotto il fascismo, il ricordo collettivo degli uomini e delle donne, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati ed imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla ‘soluzione finale’ voluta dai nazisti, rischiando la vita e spesso perdendola.

Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare, individuare le corresponsabilità – legali, morali e storiche – che portarono all’emanazione, all’esecuzione e all’applicazione delle leggi razziali; perché per un ministro della Giustizia che firmò quei provvedimenti, ci furono magistrati che perseguirono, Tribunali che condannarono e Consigli dell’Ordine che cancellarono dagli albi gli avvocati di razza ebraica; e quasi tutta la cultura giuridica italiana che sostenne, con il silenzio, quell’ignominia.

Riprendendo una riflessione pubblica di Andrea Mascherin, “possiamo davvero dirci sicuri che la cultura che generò quell’inferno non sia in essere anche nella nostra società sotto le mentite spoglie della mancanza di solidarietà, della primazia della logica del profitto su quella del diritto, del linguaggio dell’odio sui giornali e sui social, dell’indifferenza nei confronti degli emarginati, del rifiuto preconcetto al confronto con chi è diverso da noi ?”. È una domanda che dobbiamo porci, individualmente come cittadini e come avvocati, collettivamente come comunità di giuristi, coltivando, con la memoria,  il dovere di non dimenticare.

Sergio Paparo, presidente Associazione InsieMe, past presidente Ordine degli avvocati di Firenze

Roberto Cota per "Libero Quotidiano" il 27 gennaio 2022.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che prevede la censura della corrispondenza tra cliente detenuto in regime di 41 bis e avvocato. La questione di costituzionalità, peraltro, era stata sollevata dalla Corte di Cassazione. 

Il Giudice delle leggi ha osservato in sentenza come l'esercizio del diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con i propri difensori. Tale diritto spetta a chi è recluso in carcere ed anche a chi è in regime di 41 bis. Direi tutto normale.

L'anomalia era la limitazione precedentemente in essere, assolutamente non in linea con uno dei principi cardine dello stato di diritto. Inoltre, la Corte Costituzionale ha sostenuto che la tesi contraria rappresenterebbe "una generale ed insostenibile presunzione di collusione del difensore dell'imputato". 

Senonché, nel successivo dibattito è intervenuto Il Fatto Quotidiano che con un titolo ad effetto ha così dato la notizia della decisione: "La Consulta cancella la censura della corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi".

Oltre a sposare la tesi secondo la quale chi è in regime di 41 bis non deve avere neppure il diritto di difendersi, il giornale di Travaglio, nella sostanza, qualifica tutti gli avvocati come mafiosi. 

I sostenitori della campagna giustizialista e manettara utilizzano adesso un nuovo argomento: quello di confondere l'avvocato con il cliente. Se l'avvocato difende un mafioso è un mafioso. Lo schema delegittimante, purtroppo, è quello tipico dei sistemi antidemocratici, dove la figura del difensore viene relegata ad inutile e fastidioso orpello.

La Giunta delle Camere Penali ha giustamente reagito, ma questa tendenza sta prendendo piede, non soltanto sulle pagine de Il Fatto e non sempre può arrivare la Corte Costituzionale a sistemare le cose. 

Il recente caso Pittelli è emblematico. Pittelli, avvocato ed ex parlamentare, è in carcere perché accusato di aver concorso, nel difendere dei clienti appartenenti alla ndrangheta, nei reati dei propri assistiti.

La materia è delicata, ma il problema del perimetro del lavoro del difensore va affrontato e non lasciato al caso. La politica, come al solito, ha la tendenza a non occuparsi delle questioni, soprattutto quelle spinose. 

Il rapporto professionale avvocato-cliente dovrebbe essere rispettato e tutelato perché siamo in un paese democratico dove i diritti fondamentali hanno ancora un senso. Nei mesi scorsi c'è stata una sacrosanta mobilitazione per chiedere all'Egitto il rispetto dei diritti umani nel caso Zaki: da noi è tutto a posto?

Niente fango sui penalisti. Basta fango sui penalisti e sul ruolo della difesa. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

I penalisti insorgono avverso la diffamatoria presa di posizione de “Il Fatto quotidiano” che, all’indomani della sentenza della Corte Costituzionale sull’abrogazione della censura della corrispondenza tra detenuti sottoposti al regime differenziato di cui all’art. 41 bis e i difensori, ha scritto che ora «i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera». La gravissima affermazione, che rispecchia i valori a cui s’ispira il citato quotidiano, rappresenta esplicitamente la volontà di gettare fango sulla professione di avvocato, visto come complice ed esecutore delle volontà illecite dei suoi assistiti.

Il visto di censura eliminato dalla Corte consentiva l’apertura della corrispondenza da parte dell’autorità giudiziaria o dell’amministrazione penitenziaria e la sua integrale lettura. All’esito della stessa, si poteva poi determinare la mancata consegna al destinatario, sia che esso fosse il difensore ovvero il detenuto. La procedura comportava, dunque, il venir meno della segretezza nel rapporto detenuto-difensore e poteva arrivare anche a non far conoscere, all’insaputa degli interessati, non solo quanto scritto nella corrispondenza, ma anche il suo stesso invio. Tutto ciò a giudizio discrezionale di chi esercitava il controllo. Un sistema in palese violazione del diritto di difesa, principio cristallizzato nell’art. 24 della Costituzione.

E quale tutela potrebbe avere il detenuto se la sua strategia processuale venisse conosciuta anzitempo dall’accusa? Se il confronto con il difensore sui fatti oggetto dell’imputazione venisse mediato dalla lettura da parte dell’autorità giudiziaria? Argomenti che non interessano evidentemente “Il Fatto quotidiano” che, nell’occasione, ha ritenuto – non condividendo la pronuncia della Corte – di gettare una luce di sospetto sul difensore, indicandolo come colluso con sodalizi criminali. Eppure il ruolo della difesa è storicamente insostituibile, in quanto garanzia dello Stato di diritto. Non potendo, pertanto, aspirare alla sua abolizione si cerca di sminuirne la funzione, nella cieca convinzione che gli indagati siano tutti colpevoli e che l’avvocato costituisce un inutile intralcio processuale che ostacola la conclusione di un rapido processo da concludersi con la condanna. Non molto tempo fa, un autorevole personaggio politico ebbe, infatti, a dichiarare che la procedura penale inizia con le indagini che sfociano nel processo e poi, appunto, nella condanna. Non venne presa in considerazione altra soluzione. Si vuole ignorare che, purtroppo, gli errori giudiziari nel nostro Paese sono moltissimi e che le ingiuste detenzioni, statisticamente, giungono a un numero impressionante, pari a tre al giorno.

Contrariamente a quanto sostenuto, dunque, il diritto di difesa va rafforzato e non indebolito e meritano maggiori tutele le garanzie processuali, nel rispetto non solo della tenuta di uno Stato democratico, ma nell’interesse di tutti. Ben venga, dunque, la sentenza della Corte Costituzionale che, tra l’altro, oltre a ribadire quanto già indicato da norme europee e internazionali, conferma un principio già stabilito, in passato, dalla stessa Corte, in ordine ai colloqui con il difensore: l’eventualità che persone appartenenti ad un ordine professionale, tenute al rispetto di un codice deontologico nello specifico campo dei rapporti con la giustizia e sottoposte alla vigilanza disciplinare dell’ordine di appartenenza, si prestino a fungere da tramite fra il detenuto e i membri dell’organizzazione criminale, se non può essere certamente esclusa a priori, neppure può essere assunta ad una regola di esperienza, tradotta in un enunciato normativo. Vi possono essere, dunque, rare eccezioni e le regole. L’importante è che le prime non si tramutino nelle seconde, come avviene proprio per il 41 bis, al cui regime sono sottoposte circa 800 persone: tutti boss? Riccardo Polidoro

Altro che “perdonismo”, da Consulta e Cassazione le uniche risposte alla mafia. Con i vecchi stereotipi rischiamo di rendere invincibili le cosche. E la sentenza sulle comunicazioni reclusi-avvocati è una vera lezione. Alberto Cisterna Il Dubbio il 27 gennaio 2022.

In una notevole intervista resa sulle colonne di questo giornale il 28 novembre 2021, lo storico Salvatore Lupo ha detto cose importanti sul versante del contrasto alla mafia e delle ideologie che ne stanno a fondamento. La questione, per così dire, ideologica – ossia l’identificazione delle regole giuridiche, sociali, morali che orientano la lotta alle cosche – costituisce uno snodo importante del dibattito che sta agitando le acque tutto sommato mai troppo navigate di questa discussione.

La cosiddetta cultura dell’antimafia si è eretta, in questo ultimo decennio soprattutto, a monolite totalitario, troppe volte insofferente a qualunque critica e sospettoso verso ogni obiezione. A quanti, ai pochi che osano sollevare dubbi e suggeriscono riflessioni aggiornate o distinguo a grana fine, si contrappone facilmente l’accusa di voler far retrocedere la soglia della repressione, di essere sensibili a istanze pacificatorie o, peggio ancora, di essere conniventi con i clan. E siccome in questo delicato snodo della vita collettiva le parole pesano come pietre, in molti tacciono, qualcuno sospira, qualcuno ancora si occupa d’altro ritenendo tutto sommato che il variegato pantheon che compone la galassia antimafia sia un territorio infido da cui è meglio stare lontani e che non è mai conveniente inimicarsi. Insomma, è problematico criticare.

Ma Salvatore Lupo ha, con l’onestà intellettuale che gli appartiene, puntato l’indice non sulle carriere, su quelli interessati al circuito dell’emergenza, sulle vestali di cerimonie e commemorazioni spesso popolate di soggetti impresentabili agli occhi delle stesse vittime, ma ha puramente e semplicemente affermato che tutto questo mondo vive in una visione culturalmente arretrata, da ancien regime. Recita lo storico: «L’antimafia degli anni Novanta è una forza, una componente formata da persone con responsabilità e funzioni istituzionali che ritengono di dover conservare un sistema di risposta alla mafia adatto al quadro di trent’anni orsono», molti in perfetta buon fede, sia chiaro. La questione è cruciale perché mette in discussione l’egemonia ideologica che ha sostenuto le scelte e le indicazioni di tutto questo importante fronte politico, sociale e istituzionale.

Privati della convinzione per cui sussistono ancora le condizioni che hanno giustificato una certa visione della società, della politica, dell’economia e, quindi, della mafia, importanti spezzoni dell’antimafia si troverebbero sprovvisti di ogni riferimento “alto”, di ogni degna rappresentazione delle dinamiche sociali che considerano il piedistallo, anche etico, delle proprie ragioni. Rappresentazione che non era un inganno, ma che anzi era stata loro consegnata in decenni da una pubblicistica, però, divenuta nel tempo scadente, da serie televisive orgiastiche, da convegni parolai, da analisi adagiate anzi supine verso le risultanze processuali. Se, effettivamente, l’antimafia è diventata “nostalgica”, come dice Lupo, di un mondo che è venuto meno ed è incapace di leggere le coordinate più recenti della complessità, il problema è grave assai e proprio perché prolunga indefinitamente la sconfitta delle cosche nel Terzo millennio. Come quella impostazione – che ha radici lontane e nobili nella storia del paese – è stata indispensabile per la lotta senza quartiere sferrata dallo Stato dopo le stragi del 1992-1993; così la mancanza di un aggiornamento dei modelli interpretativi della società e dei suoi mille rivoli sta compromettendo ogni possibilità di vittoria verso le nuove manifestazioni dell’attività mafiosa che vengono solo mediaticamente declamate per qualche dollaro di pubblicità (il Covid-19, il Pnrr, i bitcoin, addirittura l’Isis).

Qualcuno soffre di una perenne “annuncite” cui non seguono azioni concrete, processi, documenti, testimonianze. Ormai si ipotizza soltanto che la mafia abbia connessioni con la politica, con l’economia, con l’universo mondo, ma non si dispone un modello ideologico adeguato per approntare – e ci vorranno anni – una risposta di contrasto moderna e aggiornata. Così si vive imbalsamati in un tetro museo delle cere, in un parco della rimembranza da cui non si ha il coraggio di uscire per sfidare il nuovo che da qualche parte pur ci sarà o almeno dovrebbe esserci. Scrive Lupo: «Non esistano più i presupposti di quella reazione brutale operata trent’anni fa dallo Stato: pensare di perpetrarla non è utile né alla libertà né all’ordine». Si è incapaci di cogliere il segnale profondo che la Consulta sta consegnando al paese, anche in questi giorni. Importanti plessi istituzionali, la Corte europea dei diritti dell’uomo (sul caso Contrada), la Corte costituzionale (con il warning lanciato a proposito dell’ergastolo ostativo e con un’altra sentenza in tema di permessi premio di pochi giorni or sono), la Corte di cassazione (con la decisione a Sezioni unite in materia di riti di affiliazione) non stanno svolgendo alcuna pericolosa opera di “revisionismo”, né sono ispirate da un mellifluo “perdonismo”.

Il punto è che stanno venendo meno – uno a uno – i baluardi ideologici di una certa antimafia. Un complesso di stereotipi, di generalizzazioni, di precomprensioni, talvolta di pregiudizi che costituivano il retroterra culturale e ideologico di un preciso orientamento interpretativo delle norme dell’emergenza e della società in generale, si sta sgretolando sotto i colpi di una diversa visione della società e degli uomini. Un’antropologia moderna, scevra da preconcetti (del tipo: «o ti penti o resti mafioso a vita» oppure «i figli dei mafiosi sono mafiosi in erba»), vuole semplicemente togliersi dal groppone (per citare il memorabile Sidney Poitier di “Indovina chi viene a cena?”) una retorica della mafia o una interpretazione della mafia che ritiene sia stantia, superata, parruccona, addirittura inconcludente. Tanto da ostacolare la vittoria sulle cosche, mica niente.

Ecco perché le parole spese dalla Corte costituzionale nella sentenza che ha cancellato il visto di censura sulla corrispondenza tra avvocati e detenuti di mafia in regime di 41-bis, non è il viatico rilasciato da giudici “molli” per far consumare nuove efferatezze e dipanare nuove trame, ma la mera constatazione che non è proponibile in termini assoluti e generali lo stereotipo dell’avvocato complice, del consigliori del Padrino che sussurra all’orecchio. Scrive la Consulta che, certo, «non può escludersi in assoluto che tali ordini o istruzioni possano essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore; sicché l’estensione alle comunicazioni con i difensori del visto di censura potrebbe, in astratto, ritenersi misura funzionale a ridurre il rischio di un tale evento».

E, poi, nella traiettoria di quanto sopra detto, la Corte assesta il più micidiale dei colpi all’ideologia di cui si diceva: «La disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione – già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 – di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate».

Si infrange così un altro totem, va in frantumi un altro dei molti corollari che sono stati eretti a giustificazione della cultura egemone dell’emergenza antimafia e si squaderna la fallacia degli stereotipi e dei pregiudizi che la alimentano. Una nuova lampada di Diogene che cerca nel buio di comprendere dove l’uomo mafioso si sia davvero nascosto.

Il ruolo dell’avvocato. La Corte Costituzionale non è giustizialista e tutela il diritto alla difesa. Guido Stampanoni Bassi su L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.

La Consulta ha stabilito con una sentenza che i detenuti al regime di carcere duro possono scrivere al loro legale senza che le loro missive vengano censurate. Si è ribadito la centralità del ruolo della difesa e l’impossibilità di identificarla con i crimini che vengono contestati all’assistito.

È stata da poco depositata una importante sentenza della Corte Costituzionale sul cd. carcere duro (art. 41-bis) relativa – più nello specifico – alla sottoposizione a censura della corrispondenza del detenuto, senza esclusione di quella indirizzata ai difensori.

A dubitare della legittimità della disposizione era stata la Corte di Cassazione, secondo la quale la previsione generalizzata del visto di censura sulla corrispondenza dei detenuti sottoposti al regime del 41-bis costituirebbe una irragionevole compressione tanto del loro diritto alla libertà e alla segretezza della corrispondenza, quanto di quello alla difesa e al giusto processo.

Nel ritenere la questione fondata – risparmieremo ai lettori i profili più tecnici – la Corte Costituzionale svolge alcune considerazioni sul ruolo del difensore che appaiono particolarmente importanti in un periodo – qual è quello attuale – nel quale è sempre più diffusa la cattiva abitudine di identificare l’avvocato con il crimine che viene contestato all’assistito.

I giudici della Consulta prendono le mosse osservando come, in termini generali, la sottoposizione a censura della corrispondenza di chi si trovi detenuto al 41-bis risponda a una precisa (e condivisibile) logica: quella di impedire che il detenuto possa continuare a intrattenere rapporti con l’organizzazione criminale di appartenenza e possa, dunque, continuare a ricoprire un ruolo attivo all’interno di tale organizzazione impartendo o ricevendo ordini o istruzioni.

Se questa è la logica che si trova alla base di questa misura (come delle altre previste del regime del 41-bis), la Corte compie poi un passaggio ulteriore osservando come – sempre in astratto – tali ordini o istruzioni ben potrebbero essere trasmessi anche attraverso l’intermediazione di un difensore, il che porta alla conseguenza che – ancora sempre in astratto – sottoporre a censura le comunicazioni con i difensori potrebbe essere una misura funzionale a ridurre il rischio di comunicazioni verso l’esterno.

Se queste conclusioni non possono seriamente essere messe in dubbio, la Corte Costituzionale si chiede però se la sottoposizione a censura della comunicazione con i difensori – se letta alla luce delle altre misure che caratterizzano il regime penitenziario – appaia effettivamente idonea a raggiungere tale scopo.

Nel rispondere a tale domanda, si ricorda come il temuto passaggio di informazioni tra difensori e detenuti potrebbe, in realtà, già avvenire nell’ambito dei colloqui visivi o telefonici – i quali sono consentiti – rispetto al cui contenuto non può essere operato alcun controllo.

Se così stanno le cose – e a prescindere dagli altri profili tecnici di illegittimità della disposizione – la Corte si chiede che senso abbia continuare a imporre una misura così incisiva quale la sottoposizione a censura della corrispondenza (misura che può arrivare addirittura a impedire che talune comunicazioni giungano al proprio difensore). 

Ed è qui che si innesta il passaggio della sentenza che merita di essere evidenziato.

Secondo la Corte la sottoposizione a censura della corrispondenza con i difensori «si fonda su una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso». 

Si mette poi in evidenza un altro delicato aspetto relativo al diritto, del detenuto, di potersi tutelare da eventuali abusi della autorità: «Il ruolo del difensore, per essere davvero effettivo, richiede che chi si trova in stato di detenzione possa comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge che si siano, in ipotesi, ivi consumate».

Si diceva dell’importanza di una pronuncia che, soprattutto in un’epoca quale quella attuale,  abbia ribadito la centralità del ruolo del difensore e l’impossibilità di identificarlo con i crimini che vengono contestati all’assistito.

Che si tratti di un tema realmente avvertito lo conferma, a strettissimo giro, la prima pagina del “Fatto Quotidiano” (guarda caso…), che così titola: «La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera».

Si tratta delle ennesime affermazioni disarmanti – alle quali, probabilmente, sarebbe ormai più opportuno non replicare – che sono l’esatto opposto di una corretta informazione e che non fanno altro che confermare una palese insofferenza verso il diritto di difesa e tutto ciò che si contrappone alla visione giustizialista e populista che le genera.

Attenzione a non mortificare ancora il ruolo della difesa. Giustizia sbilanciata, sempre più pm e pochi giudici. Alfredo Sorge su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Gli interventi in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario a Napoli, tornata a svolgersi nello splendido Salone dei Busti in Castelcapuano, permettono alcune riflessioni. Nel silenzio assordante dovuto alle misure sanitarie ancora in atto, davanti agli sguardi dei grandi avvocati che quel Salone testimonia per sempre, il presidente della Corte d’Appello De Carolis ha ribadito ancora una volta le doglianze per la obiettiva penuria di uomini e mezzi che affligge l’apparato giudicante e segnatamente l’organico della Corte d’Appello. I dati offerti suggeriscono una prima riflessione integrata dal sempre più grande divario di uomini e di mezzi – e dunque di risorse – tra la magistratura inquirente e quella giudicante.

Le Procure, in particolare quella di Napoli, forte di 112 pubblici ministeri (ed oltre cento viceprocuratori onorari) e della Dda, costituisce un complesso apparato dotato di uomini e strumenti investigativi notevoli, se si considera anche la polizia giudiziaria al suo servizio e che la spesa per le indagini, in primis per le intercettazioni (telefoniche, ambientali, informatiche), resta molto elevata. Eppure, l’inquirente presenta risultati quantomeno contraddittori rispetto a simile schieramento di forze, se è vero che circa il 50% dei procedimenti con indagati “noti” termina con una richiesta di archiviazione, spesso al termine di indagini ben poco approfondite. Il dato deve far riflettere: non parliamo dei procedimenti a carico di ignoti (furti etc.) bensì di reati denunciati da privati o dalla polizia giudiziaria che hanno dato luogo a un’iscrizione a carico di un ben individuato indagato.

Come si spiega questo dato che risulta, peraltro, in costante aumento? La tematica merita un approfondimento per conoscere le ragioni di negare qualsivoglia approfondimento anche in relazione a fatti che segnano pesantemente la vita della persona offesa che si è rivolta al pm per veder tutelati i propri diritti personali e patrimoniali. Altra assenza di rilievo nei dati della Procura è costituita dai procedimenti in tema di responsabilità da reato dell’ente ex D. L.vo 231/01, modello organizzativo che va invece promosso ed incentivato (e perciò perseguito in sua assenza) proprio per meglio valutare la serietà delle aziende. Altro dato su cui riflettere è l’ingresso di alcuni istituti legati al Pnrr. In particolare, nel corso della relazione del presidente Giuseppe De Carolis di Prossedi, si è discusso del disposition time per la definizione degli affari civili e penali. Ben vengano tutti gli aiuti e le risorse per colmare le lacune degli organici della magistratura e del personale amministrativo (si pensi alla situazione drammatica in cui versa il Tribunale di Sorveglianza, problematica gravissima quanto trascurata nelle relazioni) ma certamente non è accettabile che lo stesso rappresenti un altro ostacolo per un accertamento giudiziario che deve essere condotto in modo sereno e completo nel corso dei procedimenti di primo grado e di appello.

Sotto questo profilo, va ricordato come la pandemia abbia già determinato una serie di limitazioni al sistema delle garanzie e al diritto di difesa, addossando all’avvocato una serie di ulteriori compiti e responsabilità come l’essere il destinatario delle comunicazioni del processo anche per la parte che rappresenta, il dover presentare tempestive richieste per ottenere che il processo venga celebrato non da remoto o in una inaccettabile forma scritta, per non parlare della espulsione dell’imputato detenuto dall’aula e dell’assenza del pubblico che è il primo momento di controllo democratico: non si dimentichi che la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano che da due anni è assente per legge dal processo. Insomma, già la difesa non è presente durante le indagini e in fase cautelare non si muove certo alla pari rispetto alla pubblica accusa ma almeno nella fase dibattimentale non può vedersi sottratto l’accertamento istruttorio in nome di un cronometro; fare in fretta è un concetto che ben difficilmente si declina con il fare bene e mai con il fare giustizia. La vera novità di cui s’è detto nelle relazioni è l’ufficio del processo, si sa che ci sarà ma nessuno sa a quali compiti sarà concretamente destinato.

Rinviando a fasi successive ogni valutazione, auguriamoci soltanto che non si tratti, come purtroppo è stato detto nel corso della cerimonia, di persone cui affidare il compito di studiare il processo e di scrivere la sentenza lasciando al giudice il compito di decidere. È bene dirlo subito: se si intende assegnare all’ufficio del processo il compito più importante del giudizio, ovvero la motivazione dei provvedimenti giudiziari – atto che per costituzione e per legge il giudice deve porre a base della sua decisione –, la scelta sarebbe inaccettabile: non può essere giusto il verdetto emesso da un giudice che per legge vede lo studio di altri e la motivazione da altri ancora. Tutti d’accordo, invece, sull’atto di accusa al Csm da parte del procuratore generale Luigi Riello: a fronte di una serie di vicende che hanno messo alle corde l’organo di autogoverno chiamato dalla Costituzione ad assicurare autonomia ed indipendenza della magistratura, è del tutto mancato quel profondo esame di coscienza collettivo ed è stato così inferto un danno grave alla credibilità dell’intera magistratura.

In particolare, ha detto il pg, nulla di concreto risulta essere stato fatto per arginare lo strapotere delle correnti interne alla magistratura che era ed è alla base del malessere di cui è emersa soltanto la punta di un iceberg e le cui dimensioni sono ancora ignote. «Che ci sta a fare un Csm così?», ha chiesto, retoricamente, Riello. In conclusione, il presidente del Consiglio dell’Ordine di Napoli Antonio Tafuri ha fatto bene ad evidenziare il cospicuo numero dei procedimenti e delle sanzioni disciplinari che il Consiglio distrettuale di disciplina, con rinnovata energia, ha portato avanti con tempismo. L’augurio più grande, dunque, lo dirigo ai colleghi avvocati, perché non si deve mai dimenticare che il conto più salato della pandemia lo ha pagato proprio l’avvocatura (come tutti i lavoratori autonomi), costretta a lavorare tra mille difficoltà a causa delle penalizzanti misure sanitarie, delle perduranti carenze organizzative e della diffusa crisi economica. Alfredo Sorge

Lettera di un magistrato ad un avvocato. Antonio Zama, Direttore responsabile FiloDiritto.Com, su Il Corriere del Giorno il 4 Gennaio 2022. Trovare un magistrato che scrive con sensibilità e profondo rispetto della classe forense è assai difficile. Per onestà intellettuale dobbiamo sottolineare che è altrettanto difficile trovare un avvocato che lodi i magistrati. In questo mare tempestoso, che circonda la vita nei tribunali, rileggere la lettera, scritta nel 2017, del dottor Giacomo Ebner ha un effetto lenitivo sulle profonde e reciproche diffidenze e polemiche che sembrano il leitmotiv che accompagna il rapporto dell’avvocatura con la magistratura. Rapporto fatto di rivendicazioni, proclami, dissensi e veri propri attacchi al campo avverso. Diciamo la verità avvocatura e magistratura sembrano due cavalieri che si affrontano in una giostra medioevale.

Agli iniziali e cavallereschi inchini e saluti di circostanza scambiati nei convegni, seguono le mazzate e randellate tirate alla cieca contro il “nemico” quando si scrive e si parla con la propria “fazione” e in pubblico, dimenticando “l’uguaglianza di origini”, come scriveva l’avvocato Enrico De Nicola.

Ci piace l’idea che si possa provare a percorrere una strada comune nell’anno delle riforme della Giustizia. In tal senso ricordiamo lo scritto “Avvocati e magistrati” del 1920 di Enrico De Nicola, dove il futuro primo Presidente della Repubblica ricordava all’avvocatura che: “… Non si può parlare della nostra famiglia, cementata nei diuturni rapporti e irradiata dalle sue virtù senza che il pensiero volga alla magistratura, che ha con noi uguaglianza di origini, identità di scopi, comunanza di ideali, di opere e di fede”.

Sono trascorsi 100 anni e l’avvocatura ha le sue responsabilità per la perdita di stima e di autorevolezza che la professione ha nel comune sentire, questo è un tema che ci svierebbe dalle considerazioni espresse da un magistrato nei confronti di un avvocato. Con le dovute proporzioni, non si adombri il dottor Giacomo Ebner, passiamo dalle parole del Presidente De Nicola alla lettera del magistrato Ebner.

Siamo consapevoli che la realtà non è così ma ci piace l’idea che le parole di Ebner sulla figura dell’avvocato siano lette da più magistrati possibili, in particolare dai giovani giudici che sembrano avulsi dal considerare che il valore di un magistrato si vede anche da come tratta un avvocato. Iniziamo il 2022 quindi con la lettera scritta dal dottor Giacomo Ebner magistrato presso il Tribunale di Roma:

Lettera di un magistrato ad un avvocato

Caro Avvocato,

ogni giorno ci vediamo e condividiamo una parte del lavoro assieme.

Sì ma tu facendo la fila fuori dalla mia porta, io alla mia scrivania;

tu entrando col sorriso anche se hai i tuoi cavoli, io dipende dall’umore;

tu in piedi, io seduto;

tu in giacca e cravatta anche a luglio, io in jeans;

tu paziente dei miei orari, io non sempre dei tuoi;

tu che hai il cliente sul collo, io che ho tutto apparecchiato;

tu che torni più volte per vedere se ho deciso ed io che mi sento in colpa per non averlo ancora fatto;

tu che hai vent’anni più di me e mi saluti con rispetto;

tu che mi racconti storie di altri e dagli occhi capisco che mille ne avresti da dirne di tue;

Ti rispetto, ti ammiro, ti sono grato.

Dott. Giacomo Ebner

E il giudice disse: «Avvocato, ha solo mezz’ora di tempo». DIFESA INTERROTTA. La denuncia di un legale a cui è stata impedita la discussione in appello con una sorta di conto alla rovescia da parte della Corte. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 gennaio 2022.

Sulla scia delle diverse segnalazioni che ci stanno arrivando in merito al controesame della difesa nel quale si intromette indebitamente il giudice, ce n’è giunta una diversa e davvero singolare  da parte dell’avvocato Giovanni Falci a cui- ci scrive –  è stato « “vietato” di difendere l’imputato,  è stato vietato di poter svolgere la discussione orale in grado di appello». Il fatto è avvenuto innanzi la Corte di Assise di Appello di Potenza nell’ambito di un delicato processo per associazione per delinquere di stampo mafioso, omicidi, rapine ed altro. Il Presidente, prima che l’avvocato iniziasse la discussione, gli ha detto testualmente: «avv. Falci, prego, non più di mezz’ora». Ogni tentativo «di ricondurre alla ragione quel Presidente è stato vano», ci racconta l’avvocato, che aggiunge: « allo scadere del trentesimo minuto il Presidente mi ha interrotto per segnalare che il tempo era scaduto e avrei avuto un solo minuto per rassegnare le conclusioni. Ha iniziato un vero e proprio conto alla rovescia».

Per tale episodio l’avvocato ha presentato ricorso presso la Cassazione che però ha rigettato il motivo ed ora ha riproposto la questione alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Il legale ci ha inviato il motivo di nullità del giudizio di appello per omessa discussione della difesa. Vediamo i dettagli: « all’udienza conclusiva del processo in grado di appello la difesa dell’imputato non ha potuto formulare ed illustrare le proprie conclusioni perché impedita in tale funzione dal Presidente della Corte di Assise di Appello. La discussione dell’avv. Falci inizia con un termine assegnato dal Presidente: “Allora avvocato Falci, non più di mezz’ora”». Questa disposizione del Presidente, secondo l’avvocato Falci, «integra sicuramente la violazione dell’art. 178 lett. c) c.p.p. e, quindi dell’art. 602 e di conseguenza dell’art. 523 n. 3 c.p.p., dell’art. 24, 11 Costituzione e dell’art 6 CEDU». Cosa dicono le norme? Sono chiare e semplici: «Il Presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione e interruzione – È sempre prevista a pena di nullità l’osservanza delle disposizioni concernenti: l’intervento, l’assistenza e la rappresentanza dell’imputato».

Nel caso di specie il Presidente, con quella sua iniziale disposizione, «non ha diretto la discussione in maniera da garantire il diritto di difesa dell’imputato. Egli non ha impedito “divagazioni” perché non è possibile divagare per un intervento che ancora deve iniziare. Egli non ha impedito “ripetizioni” perché non è possibile ripetersi se non si è neanche iniziato. Egli non ha impedito “interruzioni” perché non è possibile interrompere ciò che ancora non ha avuto inizio».  In definitiva il Presidente – si legge ancora nel motivo di nullità –  «con quella disposizione impartita ha esercitato una potestà riservata dalla legge a organi legislativi e cioè ha ritenuto di poter inserire una disposizione che il codice non contiene e cioè che il Presidente decide il termine da assegnare per la discussione della difesa dell’imputato. Tale termine è previsto nel nostro ordinamento, ad esempio, per i procedimenti camerali che pongono un limite di ammissibilità di memorie scritte, ma non esiste riguardo alla discussione orale che è regolata dalle norme richiamate nel presente motivo».

Prosegue il legale nel suo motivo di ricorso: «La questione non è di poco conto e soprattutto ha determinato in concreto un effettivo pregiudizio all’imputato. A fronte di 43 pagine di motivi di appello con ben 5 capi e punti della sentenza impugnati, ritenere possibile l’esercizio della difesa in “non più di mezz’ora” significa ridurre la presenza del difensore a mero simulacro e a soli fini scenografici. Inoltre l’assegnazione del termine così come fatto dal Presidente del collegio non è in sintonia con la disposizione normativa. Durante tutta la discussione che si è potuta svolgere (tra l’altro addirittura in un lasso di tempo inferiore ai 30 minuti), non vi è stato mai un intervento del Presidente volto a impedire una eventuale divagazione, ripetizione e interruzione. […]La prova della lesione del diritto di difesa è contenuto proprio nelle parole conclusive del Presidente della Corte di Assise di Appello nel punto in cui dopo aver “concesso” cinque minuti si esprime testualmente nel seguente modo: “avvocato, i cinque minuti sono passati a dieci”; e poi, a seguire: “un minuto le do, un minuto, sessanta secondi”». In conclusione, scrive Falci, « è  di tutta evidenza che il Presidente non adduce nessuna ragione “legale” per tale sua disposizione; non evoca nessuna delle ragioni per le quali il legislatore gli attribuisce il potere di intervenire per impedire condotte non consentite alla parte che discute. Si verte nel caso in esame in una sicura ipotesi di abuso del processo».

«Ora nuove regole per il controesame, i giudici sono rimasti all’inquisitorio». INTERVISTA A VALERIO SPIGARELLI. Il past president dell’Unione Camere penali analizza nel dettaglio l’origine delle condotte processuali di tanti magistrati che tendono a ostacolare o scavalcare il difensore nel controesame testimoniale. «Come avete documentato voi del Dubbio, c’è una tendenza a violare i limiti posti dal codice, ma anche l’ignoranza degli approdi che esperienze come quelle del laboratorio Lapec avevano realizzato proprio nel dialogo fra avvocati e magistrati». Valentina Stella su Il Dubbio il 24 Dicembre 2021. In merito alla nostra inchiesta sui controesami interrotti indebitamente dai giudici, abbiamo raccolto il parere dell’avvocato Valerio Spigarelli, past president dell’Unione Camere penali, che ci dice: «La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio. Questa cultura inquisitoria è sopravvissuta al mutamento del codice». Perciò «occorre modificare le norme, prevedendo delle sanzioni processuali in caso di violazione delle regole per l’esame testimoniale da parte di tutti, giudici compresi».

Avvocato, lei ha letto i nostri racconti degli ultimi giorni. Che idea si è fatto?

Abbiamo introdotto la tecnica dell’esame e del controesame con la riforma del 1989, per tradurre in pratica il metodo del contraddittorio nella formazione della prova. Lo abbiamo fatto riconoscendo che il contraddittorio è il modo migliore per arrivare alla verità. Purtroppo la prassi applicativa da subito ha prodotto una marea di degenerazioni, alcune delle quali sono state messe in evidenza nei vostri articoli. Il problema è che il contraddittorio vero, quello in azione, non è mai stato digerito dalla maggioranza dei magistrati italiani, in particolare dai giudici, anche in tema di esame testimoniale. Pensi che da un questionario somministrato a un campione di giudici, pm e avvocati, dall’Università di Torino nel 2004, quindi a 15 anni dall’entrata in vigore del nuovo codice, è emerso che oltre il 50 per cento dei giudici sentiva che il loro ruolo, rispetto al passato, per quanto concerneva l’esame testimoniale, “non si era modificato in modo significativo”, eppure le regole dal codice inquisitorio a quello accusatorio erano state rivoluzionate. Ma in effetti rispondevano il vero: regole nuove ma modi di comportarsi da codice inquisitorio. “Tutto cambia perché nulla cambi”.

In questo sistema che ruolo ha il giudice?

Non è un ruolo notarile: ha sempre la possibilità di intervenire per avere dei chiarimenti, ed è giusto perché è lui che decide. Però non deve essere un giudice bulimico, invadente, che non considera, per esempio, che le parti, pm e difensore, hanno una serie di informazioni preventive che lui non ha. Il giudice vede per la prima volta il testimone in aula e solo lì apprende la sua versione, deve essere recettivo, non protagonista. La prima ragione delle degenerazioni è la cultura sulla prova che i giudici hanno ereditato dal codice inquisitorio, in cui ricoprivano il ruolo di dominus. In quel sistema erano le parti a chiedere al giudice di poter porre una domanda che poi veniva rivolta al teste dal giudice stesso. Questa cultura inquisitoria sulla prova è sopravvissuta al mutamento del codice.

Il giudice si rende protagonista di indebite interferenze?

Spessissimo, checché ne dica Anm, anche perché la giurisprudenza ha sempre negato, in questi casi, che ci si trovi dinanzi a ipotesi di nullità o di inutilizzabilità. Si parla di mere irregolarità nella conduzione dell’esame che però non portano all’invalidazione dello stesso. E questo dipende dal fatto che il codice dell’89 non prevede specifiche sanzioni processuali in questi casi, tranne in rarissime ipotesi, quando, per esempio, il giudice impedisce a una delle parti di svolgere l’esame o il controesame.

Quindi l’avvocato è disarmato.

Tendenzialmente è l’apparato normativo che è imbelle dinanzi alle numerose prassi degenerative, ma anche l’avvocatura è troppo arrendevole di fronte alla disapplicazione delle regole in questo campo. A tal proposito, quando sento e leggo che non c’è dialogo tra avvocatura e magistratura sul tema, o che si fanno pochi convegni, ricordo già che nel lontano 2003 si dibatté, a Siracusa, presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze criminali, proprio di “prassi degenerative dell’esame e controesame”. Ciò portò, nel 2008, alla nascita del La.p.e.c., Laboratorio permanente esame e controesame, su iniziativa di Ettore Randazzo. Un gruppo di lavoro, formato da avvocati, magistrati, professori, ormai presente in molti Tribunali italiani, che da allora organizza convegni in materia. Il La.p.e.c., nel marzo 2010, elaborò le Linee guida per l’esame incrociato nel giusto processo, dopo un ciclo di incontri durato anni, che coinvolse magistrati di altissimo livello come Canzio, Iacoviello, Fumu, Bricchetti, professori come Spangher e Amodio, avvocati cultori della materia come Antonio Forza e anche esperti di psicologia della testimonianza come il professor Sartori. Una sorta di vademecum virtuoso sull’esame dei testi.

Quali sono i punti principali di queste linee guida?

Primo: il rispetto della regola del codice che prescrive che lista testimoniale deve contenere l’indicazione specifica delle circostanze oggetto dell’esame. Questa è la prima regola vanificata dalla giurisprudenza: oggi nelle liste dei pm leggiamo ‘cito Tizio sui fatti di causa’, in maniera estremamente generica. Secondo: il giudice ha un suo momento per fare le domande, ossia dopo l’esame e il controesame, per investigare aspetti che le parti non hanno toccato. Oppure può intervenire per vietare domande non ammesse, ma non deve debordare e deve rispettare e far rispettare la turnazione nelle domande. Terzo: per il codice chi fa l’esame diretto non può fare domande che suggeriscono la risposta, lo può fare solo chi fa il controesame. Ma al contempo permette che la domanda vietata possa essere riformulata: ciò è sbagliato, perché ormai il suggerimento al teste è arrivato e va impedito. Infine la previsione più simbolica: il divieto per il giudice di utilizzare domande “che tendono a suggerire la risposta”.

Perché, che succede in pratica?

Incredibilmente la giurisprudenza permette domande suggestive da parte del giudice ritenendo che il divieto che il codice stabilisce per chi fa l’esame diretto sia posto per evitare i rischi di combine fra il testimone e chi lo introduce; e siccome il giudice non introduce testi, e per definizione non è sospetto di combine, per lui il divieto non vale. Ma la domanda suggestiva è un “suggerimento della risposta” che, se proviene dal giudice, perde la sua funzione di test sulla credibilità del testimone. Quando è il giudice che suggerisce le risposte il teste si adegua perché vede nel giudice l’autorità assoluta del processo, le combine non c’entrano nulla. Fortunatamente alcune sentenze hanno riconosciuto che il divieto di porre domande suggestive vale anche per il giudice.

Dai racconti che abbiamo fatto sembra che i giudici impediscano al difensore di stressare la prova ma poi lo facciano loro.

Esatto. Se il giudice è insoddisfatto, magari secondo il suo pregiudizio, di come sta andando la prova testimoniale, ad esempio il controesame della parte offesa, si inserisce indebitamente con domande suggestive. E quando l’avvocato fa presente che non può fare quel tipo di domande, l’80% dei giudicanti sgrana gli occhi: non solo non conoscono le Linee guida di La.p.e.c. e il dibattito che le ha prodotte ma neppure le sentenze che lo hanno riconosciuto. Soprattutto non conoscono le norme che già esistono. Le faccio un esempio. Secondo l’articolo 507 cpp il giudice può disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova. In questo caso l’articolo 151, comma 2, delle Disposizioni di attuazione stabilisce che dopo aver posto delle domande al teste il giudice indica “la parte che deve condurre l’esame diretto”. Quindi alla fine il giudice non può fare mai l’esame diretto, ovviamente, né, men che meno, il controesame. Siccome le domande suggestive le può fare solo chi conduce il controesame il giudice non le può fare.

Le linee guida vanno bene, la cultura condivisa avete tentato di crearla ma evidentemente tutto questo non è bastato. Le soluzioni dunque quali sono?

Considerato che la magistratura ha il codice accusatorio sulle labbra, ma quello inquisitorio nell’anima, bisogna muoversi in più direzioni per invertire la rotta. Occorre modificare le norme, prevedendo delle sanzioni processuali in caso di violazione delle regole per l’esame testimoniale da parte di tutti, giudici compresi. Soprattutto i giudici devono sentirsi terzi davvero: e non avverrà senza la condivisione del primato epistemologico del contraddittorio nella ricostruzione dei fatti. Paolo Ferrua scrisse: “Per chi ancora crede nel processo accusatorio, l’impegno, il punto da dibattere sarà allora questo: la ricerca della verità, avvertita dalla coscienza sociale come valore irrinunciabile, è agevolata e non ostacolata dal contraddittorio: non perché esso garantisca la genuinità della prova, ma perché è il miglior mezzo per verificarla, per scoprire se difetti”.

Ultima domanda: l’Anm di Roma ha criticato il nostro modo di condurre questa inchiesta sull’esame incrociato ma senza entrare nel merito. Guardare il dito e non la luna?

Da un lato è il solito riflesso di natura sindacale-corporativa dell’Anm, che però in questo caso si traduce un censorio ammonimento alla stampa a non raccontare comportamenti non corretti della magistratura, d’altro lato è la dimostrazione della perfetta ignoranza dei temi giuridici, e deontologici, che il tema coinvolge e di cui abbiamo parlato fin qui. Non conoscono il dibattito culturale sulla materia che è partito proprio dal riconoscimento che le prassi degenerative della cross-examination all’italiana si fondano su violazioni di legge e di canoni deontologici, compiute, soprattutto, dai giudici.

 Quel giudice a Milano che vuole impedire il controesame e che si crede un Pm. La denuncia dell'avvocato Michele Andreano impegnato in un processo per stalking a Milano. «Controesame interrotto in modo flagrante durante l'interrogatorio dell'accusatrice». Valentina Stella su Il Dubbio il 23 Dicembre 2021. Continuano a giungerci segnalazioni da parte degli avvocati in merito all’eccessiva invadenza del giudice durante la cross-examination. Oggi vi portiamo al Tribunale di Milano, dove si è svolto un processo per stalking, durante il quale la direzione di tutto – esame e controesame – è stata svolta dal giudicante in modo non certo ortodosso. Vediamo perché. È il giorno dell’esame della teste principale, la presunta parte offesa. La particolarità di questo caso è che il giudice, oltre a interrompere il controesame della difesa, si sostituisce quasi del tutto al pubblico ministero nell’esame della presunta vittima. E il pm resta a guardare.

Lo dimostra il verbale di udienza dove l’indice riporta “Esame del pubblico ministero” da pagina 4 a pagina 18 ma incredibilmente sarà quasi esclusivamente il giudice a porre domande alla teste, il pm riuscirà a farne solo 3. Il giudice dice persino “Le parti permettano che prosegua un po’ il giudice nel condurre le domande o ci sono osservazioni? Grazie”. Dopo aver terminato si rivolge al pm: “Ci sono domande per il Pubblico Ministero?’ Pm: “no grazie”. Qui due sono le cose: o davvero pm e giudice hanno la stessa cultura e quindi è una ennesima dimostrazione della necessità della separazione delle carriere o siamo dinanzi ad un pm che ha abdicato alla sua funzione.

Ma ora passiamo al controesame con l’avvocato Michele Andreano che subito esordisce: “Il mio controesame si articolerà in due blocchi, il primo è quello che tenderà a mettere in luce alcune cose che il Giudice ha, devo dire con maestria, come facevano i vecchi pretori.” Giudice: “Ho fatto il pretore in effetti”. Per far capire la cultura di questa figura, riprendiamo quanto scrisse il professor Giorgio Spangher ‘”Il pretore, come correttamente affermato da Cordero, costituisce il “fossile” del sistema inquisitorio, quello nel quale giudice e p. m. si identificano, anche fisicamente, in un unico soggetto. Una specie di Giano bifronte”. Ma andiamo avanti.

L’avvocato cerca di verificare l’attendibilità della presunta vittima, su cui pende un procedimento in altra sede per calunnia ma il giudice subito lo ferma: “Avvocato, ad evitare uno stillicidio di tentativi di domande e opposizioni e miei interventi blindo, per così dire, la problematica dicendo che oggi procediamo per il reato di atti persecutori nei confronti della signora, le domande sulla sua situazione giudiziaria hanno trovato risposta parte nelle sue dichiarazioni e parte nei margini di acquisizione dei documenti che il Codice vi offre copiosamente”. L’avvocato cerca di prendere un’altra strada per saggiare la teste ma il Giudice pone un altro stop: “la domanda non è ammessa perché attiene ai fatti fuori dall’imputazione. Avvocato abbiamo un teste, non abbiamo una imputata, quindi lei cortesemente terrà conto…”. Avv: ‘”ai fini dell’attendibilità”- Giudice: “Avvocato, terrà conto ai fini dell’attendibilità.. è stata bersagliata di domande anche da parte del giudice. Ricorderà il dovere di rispetto nei confronti dei testimoni, la qualifica di persona offesa della signora in questo processo ed esprimerà la sensibilità che nei confronti dei soggetti intesi vittime di reati e vittime vulnerabili Codice, deontologia e la mia disciplina dell’udienza impongono”.

Come se lo schema delle domande del giudice fosse lo stesso di quello dell’avvocato e come se cercare di “stressare la prova” fosse un delitto. L’avvocato cerca di spiegare il perché della sua domanda al giudice: “Come lei ha fatto, mi passi il termine più da Pg, compulsato sul quadro generico della posizione giuridica della teste, la domanda è su un episodio”. Il controesame prosegue, seppur tra diverse difficoltà per il difensore dell’imputato, al quale ad un certo punto – udite, udite – viene intimato di sbrigarsi, come già abbiamo appurato negli altri casi che vi abbiamo descritto. Giudice: “Scusi, mi permetto con rispettosa cordialità di dire che dovremmo cercare di contenere i temp”. Avv: “Però presidente, io non le nascondo che ho una estrema difficoltà a procedere al controesame, anche perché sto più o meno facendo come fa lei, cioè come ha fatto lei: prendo tutti gli episodi e cerco in qualche modo di chiarire degli aspetti che non sono chiari né in querela, né nel capo di imputazione”. E poi, dulcis in fundo, c’è il Giudice che rende edotto il testimone, prima ancora che questi risponda, che si può anche dire “non ricordo”: “Allora se ricorda. Se non ricorda: dica non ricorda”.  Testimone: “Non penso di ricordare” Giudice: “Bene”.

Il controesame procede tra diverse interruzioni e molte domande non ammesse. Il Giudice ha fretta: “Mi permetto di chiedere se ha ancora molte domande”. L’avvocato stizzito: “Dipende anche da quante interruzioni ci sono”. Arriva il momento del co-difensore. Giudice: “non ha altre domande?” Avv. D’Andria: “Ce le ho’ Giudice: ‘”Addirittura. Non posso pensare purtroppo di dedicare 3 ore ad una prova, sia pure importante come questa”. L’avvocato non sarà più fortunato del suo collega, in quanto la maggior parte delle domande non verranno ammesse. Giudice: “Signori avvocati questa non è una sala di dibattito. Non mi costringete ad assumere provvedimenti che non mi sono propri, di togliere la parola o quant’altro”. Amen.

E il giudice disse: «Avvocato, le impedisco di fare domande perché posso…». DIFESA INTERROTTA. Processo a Laura Taroni, "l’infermiera killer" condannata per omicidio: la difesa chiede la nullità della sentenza per l'impossibilità di controesaminare l'esperto nominato dal Tribunale. Valentina Stella su Il Dubbio il 30 dicembre 2021. Dopo il caso Cerciello, ci arriva un altro ricorso in cui la difesa chiede la nullità di una sentenza di condanna «per avere la Corte violato i principi del contraddittorio nell’esame del perito, impedendo illegittimamente alla difesa di rivolgergli domande sulla metodologia del suo accertamento (a dire del Presidente superflue e semmai di sola pertinenza dei consulenti tecnici) e sul contenuto di alcune sue precedenti pubblicazioni in materia delle quali respingeva l’acquisizione e la lettura».

Contestualizziamo il caso: il processo è quello a carico di Laura Taroni, nota alle cronache come l’infermiera killer. La donna è stata condannata per l’omicidio del marito e della madre tramite la somministrazione di dosi eccessive di farmaci: a iniettare i farmaci sarebbe stato il medico Leonardo Cazzaniga, con cui aveva una relazione. La donna in primo grado con rito abbreviato era stata condannata a 30 anni, sentenza confermata in appello. Poi la Cassazione annulla con rinvio e quest’anno viene condannata nuovamente nell’appello bis. Ora i suoi avvocati, Monica Alberta e Cataldo Intrieri, propongono un nuovo ricorso in Cassazione, adducendo come primo motivo proprio l’impossibilità di controesaminare il perito nominato dal Tribunale.

Il problema che emerge sembra essere sempre lo stesso per i giudici: il pregiudizio secondo cui il difensore è un mestatore che tende a confondere le acque. In questo caso alla difesa è impedito di ‘stressare’ il perito del Tribunale  – “Non screditiamo nessuno” ammonisce infatti il giudice -. Siccome è stato scelto dal Presidente, è ritenuto quasi intoccabile. La difesa nei motivi di appello ricorda che «il giudice di legittimità aveva annullato la sentenza d’appello sia per le accertata mancanza di una sezione della motivazione ma anche perché la prima perizia condotta dai professori M. e M. non aveva dato adeguata risposta al profilo dell’imputabilità» della donna. Il tema della perizia sulla capacità di intendere e volere costituisce infatti il cuore del giudizio. Dunque Alberta e Intrieri stigmatizzano il «pretestuoso impedimento del controesame della difesa che, per imperscrutabili motivi, la Corte ha espressamente vietato potesse vertere sulla metodologia ed i criteri adottati dal perito, quasi fosse un dozzinale espediente difensivo e non il criterio guida di fondamentali sentenze della Corte di Cassazione nell’ultimo decennio, anche a livello delle Sezioni Unite sulla prova scientifica». Inoltre « la Corte ha espresso un’ulteriore sorprendente tesi secondo cui il contraddittorio sulla prova sia di pertinenza dei soli consulenti e periti come se il processo penale venisse espropriato ai giuristi».

Leggiamo un estratto del verbale: Presidente: “Avvocato mi scusi, sul metodo vogliamo lasciare la parola ai Consulenti? Cioè adesso addentrarci in questioni di metodo dopo che la perizia è stata fatta, nel contraddittorio…”. Avv. Intrieri: “No, Presidente. Mi dispiace Presidente…”. Presidente: “Sì, se non mi interrompe preferirei, Avvocato”.  Avv: “Io questo non… Presidente, lei può levarmi la parola ma non può dire, mi scusi…”. Presidente: “Avvocato, però non mi interrompa”. Avv: “…che non siano domande…”. Presidente: “No, mi scusi lei, Avvocato. Sto dicendo: visto che la perizia è stata fatta nel pieno contraddittorio con condivisione del metodo… adesso capisco qualche aspetto ma se vogliamo riprendere tutto il discorso metodologico io però non sono d’accordo. La invito a domande specifiche possibilmente fatte dal Consulente più che dall’Avvocato perché sennò non arriviamo più al merito della perizia sulla quale invece la inviterei a fare tutte le domande che crede”. Avv: “No, mi scusi Presidente, ritengo che faccia parte…”. Presidente: “Prego, Avvocato”. Avv: “…della mia attività, del mio diritto difensivo fare domande anche sulla metodologia. Non devo ricordare io a lei le sentenze della Cassazione da Cozzini a Pavan sull’importanza che il Giudice valuti la metodologia utilizzata”. […]  Avv: “Se lei permette, il Consulente che è un mio assistente farà le sue domande e le sue valutazioni. Dopodiché lei non…”. Presidente: “Va bene, vorrà dire che l’esame del Consulente avrà meno spazio perché non abbiamo poi a disposizione…Siamo tante Parti processuali”.  Avv: “Lei può anche levarmi la parola”. Presidente: “Sentiamo la domanda e vediamo se è ammissibile”.

L’avvocato cerca di continuare il controesame, chiedendo al perito delucidazioni su un suo intervento ad un convegno, per far emergere alcune sue contraddizioni. Ed ecco subito che interviene il Procuratore generale: “Mi oppongo, signor Presidente a queste valutazioni” e il presidente puntualmente “Accolgo l’opposizione del Procuratore Generale”. Presidente: “Avvocato cortesemente ritorniamo ai fatti”. Avv: “No, io sono cortesissimo”. Presidente: “…e soprattutto alla sostanza di questa perizia perché sul metodo ci siamo anche fin troppo dilungati”. Avv: “Certamente Presidente, io vorrei evitare che ci trovassimo di fronte ad un ennesimo annullamento un domani. Comunque faccio riferimento che quella affermazione è stata scritta e fatta in una comunicazione nel convegno…”. Presidente: “No, basta Avvocato. Il convegno non entra in questo processo. Lo tolga via per favore perché non è ammessa neanche la citazione”.  Avv: “Allora, guardi Presidente, io ritengo”. Presidente: “Questa è la mia maniera di condurre il dibattimento”. Avv. Intrieri: “che lei mi stia impedendo di fare le domande”. Presidente: “Sì, questa domanda non è ammessa”. Avv: “E metta a verbale che considero nullo questo tipo di contraddittorio proprio perché mi impedisce di fare le domande “. (va infatti formalizzata l’eccezione di nullità del controesame per farne motivo di impugnazione, ndr). Presidente: “Lo sto impedendo perché rientra nei miei poteri”[…] Presidente: “Va bene. Prenda atto che esercito i poteri di conduzione dell’esame”. Avv: “Ci rinuncio. Faccia come crede, ma faccia come crede”. 

«Io, giovane avvocata, ostacolata dal giudice nel fare il mio lavoro». DIFESA INTERROTTA. Il racconto di una legale che assisteva un richiedente asilo: «Mi ha persino impedito di prendere degli appunti». Cristina Polimeno su Il Dubbio il 28 dicembre 2021. Leggendo negli scorsi giorni i contributi su quella che il Dubbio ha definito la “difesa interrotta” raccontata da alcuni colleghi in relazione a processi penali, il pensiero è immediatamente corso a tutte le volte in cui, come studio legale nel quale fra le attività principali abbiamo scelto la difesa dei richiedenti asilo, condotte analoghe hanno visto mortificati i principi del giusto processo.

Una doverosa premessa per permettere ai lettori di calarsi nella situazione: l’audizione del rifugiato nelle cause per domanda di protezione internazionale è il momento centrale del processo. Nel diritto di asilo, infatti, le dichiarazioni del richiedente sono spesso l’unica fonte di prova, e dunque dei fatti costitutivi il diritto. Come osservato dall’autorevole dr. Luca Minniti, giudice della sezione specializzata del Tribunale di Firenze, “nel diritto di asilo, la valutazione probatoria si avvale di uno standard inferiore, laddove la disciplina in esame consente al racconto della parte – anche se a sé favorevole, purché coerente, articolato e plausibile – di costituire sufficiente prova dei fatti narrati. (…) Si tratta di un passaggio complesso per la cultura della prova del giudice civile, al quale si aggiungono altre peculiari difficoltà.”

Mesi fa, davanti a un Tribunale presso il quale non avevo mai operato e molto distante geograficamente dal mio Foro, durante l’audizione del mio assistito in udienza che si svolgeva in videoconferenza, il Giudice – che si occupava di interrogare il richiedente e verbalizzare le sue risposte – stravolgeva il senso del racconto appiattendolo su un racconto standardizzato. Questa (non infrequente, purtroppo) tendenza, per motivi sopra illustrati, è un rischio che può causare una irrimediabile compromissione dei diritti dei miei assistiti. Ho provato ad interloquire con il giudice, il quale mi ha chiesto di tacere per non interferire nell’audizione.

Riservandomi quindi di elencare le mie osservazioni al momento della rilettura del verbale, ho iniziato ad appuntare le risposte del mio assistito. Quando il Giudice si è accorto del fatto che stavo prendendo appunti, ha interrotto l’audizione e con toni molto più alti del necessario mi ha chiesto: “Avvocato, ma lei lo sa che è vietato registrare l’udienza?”. Davanti alla mia obiezione per la quale anche a un’udienza dal vivo avrei potuto prendere appunti, mi è stato risposto che forse non mi rendevo conto che stavo commettendo un reato. Per non incorrere nel grave reato di “appunti” (in realtà solo per stemperare gli animi e non nuocere al mio cliente) interrompevo la mia attività e mi rassegnavo a subire una verbalizzazione distorsiva delle dichiarazioni del mio assistito. Non sarebbe stata, purtroppo, né la prima e tantomeno l’ultima volta. Non è bastato, poiché alla fine dell’audizione ho anche dovuto sorbirmi una bella ramanzina sul senso del mio lavoro.

Sarà perché sono giovane, perché donna, perché battagliera…il mansplaining, forse non lo sapevate, è di gran moda nelle aule di Tribunale. “Avvocato, ma lei non l’ha capito che questi raccontano tutti la stessa storia? E lei mi viene a chiedere l’asilo o la protezione sussidiaria? Chiedete la protezione umanitaria, se hanno il lavoro ve la concediamo. Non state a farci perdere tempo, anche per la vostra dignità: non fate bella figura a farvi prendere in giro così da questi. Ma davvero non lo capisce che vi prendono in giro e le storie sono finte?”.

E anche quel giorno, con buona pace della Costituzione, della Carta UE, della Convenzione di Ginevra e (soprattutto) del buongusto, questa giovane avvocatessa ha imparato qualcosa di utile da un fine giurista e il suo assistito è stato discriminato in quanto immigrato. Niente di nuovo sotto il sole, insomma.

Pignatone ci ricasca: “Troppi avvocati cassazionisti, per questo la giustizia è lenta”. L'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha trovato le ragioni della giustizia lumaca: troppi avvocati... Il Dubbio il 12 gennaio 2022.

E dire che il titolo prometteva bene: “Così i tre gradi di giudizio rallentano la giustizia”. Vuoi vedere, ci siamo detti, che anche l’ex procuratore Pignatone si è convertito alla nostra battaglia contro la possibilità di appello da parte della procura in caso di assoluzione dell’imputato? Una posizione che aveva mobilitato giuristi del livello di Paolo Ferrua: “Non v’è dubbio che l’appello del pubblico ministero avverso le sentenze di assoluzione e, di conseguenza, la possibilità di una condanna pronunciata per la prima volta in sede di appello rappresentino una grave ed insanabile contraddizione all’interno dell’ordinamento processuale”, aveva spiegato al Dubbio qualche settimana fa in articolo che dovete assolutamente leggere. Ma ovviamente era un abbaglio, Pignatone nel suo articolo non solo non accenna minimamente alla soppressione dell’appello da parte dei pm, ma addirittura sostiene che la colpa delle lentezze è colpa dei troppi avvocati.”In Francia e in Germania – spiega Pignatone- gli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione sono rispettivamente 50 e 100 a fronte dei 55mila italiani. Ciò significa che all’estero sono gli stessi avvocati abilitati a fare da filtro e a limitare i ricorsi alle questioni più importanti o sulle quali non esista una giurisprudenza consolidata. Questo spiega anche perché le sentenze di quelle Corti sono poche migliaia l’anno a fronte delle oltre 50mila emesse dai giudici di Piazza Cavour, costretti a occuparsi anche di processi di importanza trascurabile e di questioni riproposte all’infinito, dato che comunque conviene fare ricorso sperando nella prescrizione (e, in futuro, nella improcedibilità), o in una nuova legge o in un mutamento di giurisprudenza che capovolga il giudizio o almeno mitighi la pena. Una valanga di decisioni che peraltro implica un certo tasso di contraddittorietà e quindi un’erosione di autorevolezza dell’organo che dovrebbe assicurare l’uniformità della giurisprudenza”. Ma c’è altro. L’altro motivo di rallentamento della giustizia, sempre secondo Pignatone, è dato dalla mancata riforma della reformatio in pejus, cioè la possibilità che il giudice, se rigetta l’appello, possa aumentare la pena inflitta in primo grado: “Quanto all’appello – spiega ancora Pignatone-, ci sono Paesi come la Francia che prevedono la reformatio in pejus: il che impone una certa prudenza nell’impugnazione, dato che questa comporta un rischio che l’avvocato e il cliente devono calcolare per non proporre appelli temerari che potrebbero ritorcersi contro l’imputato. Quando si è proposto questo correttivo in Italia siè gridato allo scandalo per la presunta violazione della Costituzione”.

Quanto è fragile il teorema dei processi rallentati dai difensori cassazionisti. Da ultimo, è stato l'ex procuratore Pignatone a ipotizzare un nesso fra numero di patrocinanti e ricorsi in Cassazione. Ma le leggi escludono la strumentalità delle impugnazioni. Alessandro Parrotta, Avvocato, direttore Ispeg, su Il Dubbio il 30 gennaio 2022.

Non è certamente un caso che da tempo le istituzioni si concentrino sull’importanza della figura dell’avvocato, arrivando a ipotizzare di riconoscerle un rilievo più esplicito sul piano costituzionale, per il tramite della modifica dell’articolo 111, sì da rafforzarne la sua libertà, autonomia, indipendenza nell’ambito del sistema giudiziario, quale sua parte fondamentale.

Eppure, sebbene l’inserimento in Costituzione sia in linea anche con la riforma Cartabia – come attentamente osserva il vicepresidente del Csm, l’avvocato David Ermini, con il quale chi scrive ha condiviso un importante seminario sul tema a Torino – e sebbene diverse forze collaborino per rafforzare lo spirito costruttivo in seno a questo ambizioso progetto, non mancano le campane fuori dal coro e c’è chi, ancora oggi, ritiene che la Giustizia sia lenta per i troppi avvocati.

Chi scrive ha letto nelle scorse settimane le pagine de La Stampa ove il già procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone esprime alcuni concetti che limiterebbero i principi del giusto processo, come lucidamente osservato su queste pagine da Valentina Stella. Ci si vuole, ora, soffermare sull’affermazione secondo cui la lentezza della giustizia sarebbe determinata dall’elevato numero degli avvocati abilitati al patrocinio in Cassazione.

Che il sistema penale italiano sia strutturato su più livelli di giudizio affinché vengano ridotti, al minimo, gli errori giudiziali è un dato di fatto e questa non è la sede per riprendere i più che condivisibili ragionamenti circa la battaglia contro la possibilità di appello da parte della Procura in caso di assoluzione dell’imputato; parimenti è un dato di fatto che la nuova disciplina dell’Ordinamento della professione forense (legge 31 dicembre 2012 n. 247) abbia modificando il sistema di accesso all’Albo speciale dei patrocinatori avanti alle giurisdizioni superiori, stabilendo che tale iscrizione – dopo il 2 febbraio 2022 – possa essere richiesta al Cnf da chi sia iscritto in un Albo ordinario circondariale da almeno 5 anni e abbia superato l’esame ex legge 1003 del 1936 e Regio decreto 9 luglio 1936, n. 1482, nonché da chi abbia maturato un’anzianità di iscrizione all’Albo di otto anni e abbia proficuamente frequentato la Scuola superiore dell’Avvocatura. Questo è un punto di partenza di primaria importanza che già va ad imporre un vaglio non di poco conto.

L’idea, però, che l’opinione pubblica si potrebbe fare sulla base della suggestiva affermazione relativa all’associazione fra “lentezza dei processi” e “troppi avvocati” va vigorosamente sfatata e non per doveri di categoria ma per obiettivi motivi di carattere tecnico, procedurale e, infine, deontologico. Andiamo per punti.

L’avvocato è sempre stata una figura difficile per la democrazia; come osservavano i colleghi nel saggio “L’Avvocato necessario” (di F. Gianaria ed A. Mittone) proprio l’avvocato difensore è garanzia essenziale per il cittadino: finché l’avvocato è libero di scegliere chi assistere, se presentare o meno mezzi d’impugnazione, ricorsi e gravami e goda d’indipendenza massima, il cittadino che non ha commesso reati sa “che qualsiasi cosa gli accada, in qualsiasi circostanza si trovi, potrà avere un difensore. La garanzia che il colpevole sia difeso rassicura l’innocente. E alimenta la democrazia”.

Il difensore è, per dettami deontologici, il primo baluardo di screening circa la fondatezza o meno in ordine alla presentazione di cause e mezzi d’impugnazione, come già chi scrive faceva notare su queste pagine negli accesi giorni di esame parlamentare della riforma Bonafede sulla prescrizione. La falcidia dell’inammissibilità dei ricorsi impone il necessario preliminare studio, ex ante, da parte dell’avvocato in ordine all’esito dell’atto difensivo medesimo; e non si dica che si ricorre in Cassazione per puntare alla prescrizione (o alla prossima cosiddetta improcedibilità) in quanto tale affermazione è un orrore giuridico a mente della manifesta infondatezza dei motivi che rende inoperante il decorso del tempo prescrizionale.

Pur ragionando a lungo non si arriva a capire come la riduzione del numero degli avvocati cassazionisti dovrebbe condurre all’accelerata della Giustizia o, ancora, alla riduzione del numero dei ricorsi.

È il Patto Internazionale sui diritti civili e politici che garantisce il diritto al “riesame” della colpevolezza, e il ricorso in Cassazione è strumento che volge in tal senso, col limite di eseguire il solo controllo di legittimità, escludendo l’assunzione di prove diverse da quelle documentali. Pertanto i correttivi sono già intrinseci al Sistema medesimo e l’avvocato nulla può su questi se non osservarli, adempiere al proprio incarico e difendere l’Assistito contro ogni accusa.

Come rimediare alla invocata lentezza? Non già riducendo il numero dei difensori abilitati avanti le Giurisdizioni superiori ma investendo abbondantemente in risorse presso i Palazzi di Giustizia. La lentezza si annida: 1) nella fase delle indagini preliminari, per carenza del numero dei magistrati inquirenti applicati agli Uffici di Procura; 2) nelle udienze preliminari, per carenza di un vero ed effettivo filtro procedurale, ove il Gup pare esser stato spogliato dei propri poteri decisionali; 3) per mancanza di personale di segreteria e di cancelleria che porta un ritardo nelle notificazioni e negli adempimenti; 4) per carenza di numero di giudici presso le Corti d’Appello e presso i Tribunali territoriali. E l’elenco potrebbe proseguire.

Non si dimentichi la mancata riforma circa lo snellimento dell’intero processo penale e l’inascoltato consiglio di sopprimere l’appello avverso le sentenze di proscioglimento.

Auspica pertanto la Presidente Masi, quanto lo scrivente, di ripartire proprio da quella riforma ad esordio citata, ora depositata in Senato, con l’obiettivo di raggiungere “il rafforzamento dello Stato di diritto e dell’intera giurisdizione a favore dei cittadini”.

L’Avvocatura non può e non deve essere additata per carenze che vanno imputate a scelte politiche o di budget finanziario, dovendo preservare il proprio ruolo di Parte nel Sistema Giustizia, al pari delle altre Parti, Inquirente e Giudicante.

·        Gli Incapaci…

Carlo Gilardi, chi è l’uomo facoltoso rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà? Giorgia Bonamoneta il 13 Novembre 2022 su  money.it.

La vicenda di Carlo Gilardi è divenuta nota a tutti dopo l’inchiesta de Le Iene. Chi è l’uomo troppo generoso che è stato rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà?

Nel 2020 il programma Le Iene presentavano il dramma di Carlo Gilardi, un uomo rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà. Gilardi era stato inserito all’interno della struttura in seguito alla decisione di un giudice e della sua amministratrice di sostegno. Davide Parenti, autore de Le Iene, ne descrisse la storia attraverso un articolo denuncia su Corriere della Sera.

Carlo Gilardi è un uomo di oltre 90 anni, piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali - non è mai stato dimostrato il contrario - è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa. Avvocati e familiari, al momento del prelievo, non erano al corrente del motivo e dell’operazione stessa. L’amministratrice di sostegno, Elena Barra, aveva affermato che Gilardi l’aveva seguita volontariamente, ma la presenza di carabinieri e un ordine del giudice che autorizzava l’uso della Forza pubblica (Carabinieri) per l’accertamento sanitario obbligatorio hanno subito acceso dubbi sulla vicenda.

Sempre secondo Barra il trattamento coatto era stato reso necessario perché Gilardi era “troppo generoso” nei confronti della comunità. L’uomo aveva infatti permesso a chi non aveva la possibilità di pagare un affitto di stare nella propria casa, aveva donato diversi beni immobili e aveva anche donato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. “Troppo generoso” o un tentativo di sfruttare il patrimonio dell’uomo? Questo dubbio proveniva direttamente dalle lettere scritte da Carlo. 

Anziano generoso o sfruttato? Ecco chi è Carlo Gilardi

Carlo Gilardi ha una pensione da insegnante, eppure tutta la vicenda che lo circonda sembra essere incentrata su un ricco patrimonio. Infatti Gilardi nel 2017 ha ricevuto una grossa eredità da parte della defunta sorella e questo, in seguito a una serie di notevoli atti di generosità dell’uomo, potrebbe aver attirato l’attenzione di terze persone interessate a mettere mani sul patrimonio.

Una sorella di Gilardi ha così chiesto che l’uomo fosse affiancato da un amministratore di sostegno per gestire il patrimonio ed evitare spese che, al di là della generosità, potevano apparire come frutto di manipolazione. L’uomo non ha mai dato segni di demenza e non ci sono prove nella sua cartella clinica che abbia bisogno di un effettivo controllo, tanto che lui stesso denunciò la precedente amministratrice di sostegno in più occasioni per avergli sottratto dei soldi.

Sottoposto a una perizia psichiatrica da lui richiesta, Gilardi è risultato “con un pensiero privo di alterazioni”, ma nonostante questo è stato trasportato contro sua volontà in una Rsa. Il 21 novembre 2022 si svolgerà il processo a cinque persone accusate di aver raggirato Carlo Gilardi per farsi dare soldi o case, tutte straniere, mentre è ancora silenzio sulle vicende portate alla luce da Le Iene.

Due anni dopo: cosa è successo a Carlo Gilardi?

La storia di Carlo Gilardi ha raggiunto moltissime orecchie, persino quelle di Giorgia Meloni che in Parlamento aveva chiesto spiegazioni sui motivi per i quali si poteva limitare la libertà di un uomo senza una giustificazione valida. A distanza di due anni un amico di infanzia di Girardi è riuscito a entrare di nascosto nella Rsa e a incontrarlo.

L’uomo presenta ancora le capacità cognitive riscontrate dall’ultimo accertamento volontario fatto e in un video registrato dall’amico, prima che è una suora interrompesse lo stesso, Gilardi teme che la decisione di bloccarlo all’interno di una Rsa in maniera definitiva provenga dalla sorella ancora in vita. L’interessamento di terzi, quali giudice e le due ultime amministratrici di sostegno (amiche), è quindi dovuto al patrimonio, dice Gilardi.

Carlo Gilardi in Rsa contro sua volontà? Le Iene “Inside”: l’odissea del benefattore. Silvana Palazzo su Il Sussidiario.it il 13.11.2022 

Carlo Gilardi, rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà? Le Iene ritornano sull’odissea del benefattore di Airuno con lo speciale “Inside” e preannunciano novità sul caso…

È dedicato a Carlo Gilardi e all’amministrazione di sostegno la terza puntata di “Inside“, speciale de Le Iene. Nina Palmieri e Carlotta Bizzarri preannunciano novità sulla vicenda dell’anziano e ricco benefattore di Airuno, che dal 24 ottobre 2020 si trova in nella Rsa “Airoldi e Muzzi” di Germanedo apparentemente contro la sua volontà. Si tratta di una vicenda a dir poco delicata, perché l’ex badante di Gilardi, Brahim El Mazoury, e le due giornaliste del programma sono finite a processo per diffamazione aggravata nei confronti dell’avvocato Elena Barra, amministratore di sostegno del facoltoso insegnante.

L’accusa riguarda le puntate andate in onda il 17 novembre 2020 e il 16 febbraio 2021, quelle che hanno raccontato l’odissea di Carlo Gilardi e alcuni punti oscuri della vicenda, a partire dal ricovero forzato in casa di riposo che, stando alla teoria illustrata dal programma, sarebbe stato deciso dalle amministratrici di sostegno dell’ex docente del Parini di Lecco per mettere mani al suo ingente patrimonio. Nel frattempo, il comitato “Libertà per Carlo Gilardi” continua a farsi sentire: “I giudici si diano una mossa a riportare a casa Carlo Gilardi e ad attuare i dovuti percorsi a sua tutela, come indicato dal Garante“.

Carlo Gilardi, nato ad Airuno (Lecco), è noto per la sua cultura e per essere una persona molto generosa. Infatti, l’ex professore in passato ha fatto donazioni anche di un certo rilievo sia a enti che persone fisiche, ad esempio ha regalato un defibrillatore al suo paese e un parcheggio al comune per l’asilo nido. Con Le Iene è diventato un caso nazionale, perché veniva denunciato il ricovero in Rsa contro la sua volontà. La vicenda inizia quando Sandra Gilardi, sorella del professore in pensione, chiede l’intervento di un giudice, alla luce della facilità col cui fratello regalava i suoi soldi. Dunque, nel 2017 il patrimonio dell’anziano è stato gestito da un giudice tutelare, poi da un amministratore di sostegno.

Nell’ottobre 2020 c’è stato il trasferimento in Rsa, a scoprire quale fosse è stato il programma Le Iene. Alcuni parenti hanno collaborato e, dopo aver minacciato di ricorrere all’avvocato, sono riusciti a parlare al telefono con Carlo Gilardi. “Sto benissimo! Spero un giorno o l’altro di poter essere cacciato via ma non mi cacciano via. Sono stato prelevato, messo in ospedale, poi in ospizio e cosa vuoi farci. Come siano andate le cose non lo so esattamente… solo che la colpa prima è di mia sorella Sandra che mi ha messo nelle mani degli avvocati. È lei la colpevole di tutto, gli altri fanno solo il loro dovere“, le parole raccolte dal programma. La tutrice di Carlo Gilardi, l’avvocato Elena Barra, e il direttore della Rsa hanno sempre negato il Tso, parlando di ricovero temporaneo, invece fonti interne citate da Le Iene sostengono il contrario.

Le Iene presentano Inside, stasera alle 20.30. Carlo e gli altri: quando la tutela diventa la ragnatela

Terzo appuntamento stasera in prime-time su Italia1 con “Le Iene presentano Inside”. Con Nina Palmieri vi parliamo dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e del caso di Carlo Gilardi, il ricco e anziano benefattore di Airuno che da più di due anni si trova in una rsa apparentemente contro la sua volontà

Torna, stasera in prime-time su Italia1, “Le Iene presentano Inside”. Il terzo appuntamento dal titolo “Carlo e gli altri: quando la tutela diventa ragnatela” è un approfondimento, in onda dalle 20.30, dedicato all’amministrazione di sostegno, la figura istituita per coloro che si trovano nell’impossibilità di provvedere ai propri interessi.

Il sistema è nato circa vent’anni fa con il buon intento di tutelare persone fragili, anziane o non del tutto autosufficienti, aiutarle nella gestione del loro patrimonio e nella cura dei loro bisogni quotidiani rispettandone sempre gli interessi. In molti casi sostiene chi ha bisogno ma, in altri, mostra delle falle che porterebbero alla trasformazione della tutela in ragnatela.

In questa puntata Nina Palmieri e Carlotta Bizzarri pongono l’attenzione su quelle situazioni in cui sono apparse contraddizioni e punti poco chiari. Partendo dalle novità che riguardano l’ormai nota vicenda di Carlo Gilardi, l’anziano e ricco benefattore di Airuno che da più di due anni si trova in una rsa apparentemente contro la sua volontà, si racconteranno le storie di coloro che ai microfoni de Le Iene hanno testimoniato i loro disagi.

La trasmissione in questi anni ha fatto conoscere diverse storie di persone che hanno subìto stravolgimenti della loro vita e a cui le istituzioni avrebbero tolto la libertà di scegliere come, dove, con chi vivere e persino dove morire. Nel corso della serata tanti gli spunti di riflessione e le domande a cui provare a rispondere, una tra tutte: un Paese civile può o meno permettere che un uomo perda la possibilità di decidere per se stesso e per la sua felicità?

Che fine ha fatto Carlo Gilardi: l’uomo generoso rinchiuso in una Rsa contro la sua volontà. GIUSEPPA GIORDANO il 14 novembre 2022 su tag24.it.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi. Carlo Gilardi è un ex professore in pensione, un signore piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali - non è mai stato dimostrato il contrario - è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi. Carlo Gilardi è un ex professore in pensione, nato ad Ariuno, in provincia di Lecco, il 4 dicembre 1910 ed è un signore piuttosto facoltoso, che nel pieno delle sue capacità mentali – non è mai stato dimostrato il contrario – è sottoposto da due anni a un ricovero coatto nel reparto psichiatrico di una Rsa. Avvocati e familiari, al momento del prelievo, non erano al corrente del motivo e dell’operazione stessa. L’amministratrice di sostegno, Elena Barra, aveva affermato che Gilardi l’aveva seguita volontariamente, ma la presenza di carabinieri e un ordine del giudice che autorizzava l’uso della Forza pubblica (Carabinieri) per l’accertamento sanitario obbligatorio hanno subito acceso dubbi sulla vicenda.

Che fine ha fatto Carlo Gilardi: chi è, il patrimonio e la generosità

Carlo Gilardi ha una pensione da insegnante, eppure tutta la vicenda che lo circonda sembra essere incentrata su un ricco patrimonio. Infatti Gilardi nel 2017 ha ricevuto una grossa eredità da parte della defunta sorella e questo, in seguito a una serie di notevoli atti di generosità dell’uomo, potrebbe aver attirato l’attenzione di terze persone interessate a mettere mani sul patrimonio.

Una sorella di Gilardi ha così chiesto che l’uomo fosse affiancato da un amministratore di sostegno per gestire il patrimonio ed evitare spese che, al di là della generosità, potevano apparire come frutto di manipolazione. L’uomo non ha mai dato segni di demenza e non ci sono prove nella sua cartella clinica che abbia bisogno di un effettivo controllo, tanto che lui stesso denunciò la precedente amministratrice di sostegno in più occasioni per avergli sottratto dei soldi.

Sottoposto a una perizia psichiatrica da lui richiesta, Gilardi è risultato “con un pensiero privo di alterazioni”, ma nonostante questo è stato trasportato contro sua volontà in una Rsa.

Gilardi era stato inserito all’interno della struttura in seguito alla decisione di un giudice e della sua amministratrice di sostegno, Elena Barra. Sempre secondo Barra il trattamento coatto era stato reso necessario perché Gilardi era “troppo generoso” nei confronti della comunità. L’uomo aveva infatti permesso a chi non aveva la possibilità di pagare un affitto di stare nella propria casa, aveva donato diversi beni immobili e aveva anche donato al Comune un parcheggio e un parco per i bambini. “Troppo generoso” o un tentativo di sfruttare il patrimonio dell’uomo? Questo dubbio proveniva direttamente dalle lettere scritte da Carlo.

Il processo il 21 novembre

Il 21 novembre 2022 si svolgerà il processo a cinque persone accusate di aver raggirato Carlo Gilardi per farsi dare soldi o case, tutte straniere. Alla sbarra: Abdelmalak Rougui, 40 anni, marocchino, si sarebbe fatto prestare denaro, mai restituito; Hichem Horroun, 45, algerino, sarebbe stato beneficiario di ingenti somme; Khalifa Mejbri, 40 anni, tunisino, si sarebbe prestare 100mila euro per beneficenza e per l’acquisto di un’auto; Nedal Abushunar, 49, Israele, in carcere di Bollate per altra causa, avrebbe beneficiato in comodato d’uso di un immobile e Abdellatif Ben Mustapha Hamrouni, 53 anni, tunisino, avrebbe ottenuto soldi.

Il caso Gilardi in Parlamento

I parenti di Carlo, un gruppo di cugini, si sono rivolti all’avvocato Mattia Alfano e hanno fatto ricorso alla Corte per i diritti dell’uomo, ricorso che è stato accolto.

La storia di Carlo ha innescato un moto di solidarietà. La sua situazione è arrivata fino in Parlamento e la premier Giorgia Meloni, che quando era deputata aveva presentato un’interrogazione parlamentare, ha chiesto alle Iene di farle avere tutto il materiale raccolto sul caso Gilardi per sottoporlo al ministero della Giustizia.

“Nessuno può sostituirsi ad un altro nella presa di decisioni che riguardano la vita di quell’altro” ha ribadito l’avvocato Michele Capano, presidente dell’associazione diritti alla follia e a stabile questo concetto è l’Onu.

Davanti al malato psichico che diventa assassino siamo senza difese. Maddalena Bonaccorso il 28 Ottobre 2022 su Panorama.

I casi di ieri ad Asso e ad Assago mostrano ancora una volta la pericolosità e l'imprevedibilità di queste «mine vaganti» contro cui la sanità ha pochi strumenti 

Una giornata drammatica, segnata da due gravissimi episodi criminali che sembrano avere un unico punto in comune: la follia, un forte disagio psichico alle spalle che sembrava superato e probabilmente è stato sottovalutato. All’ipermercato Carrefour di Assago, il 46enne Andrea Tombolini ha ucciso a coltellate una persona e ne ha ferite gravemente altre 5, con l’arma reperita nei corridoi dello stesso esercizio commerciale. Nelle stesse ore ad Asso, in provincia di Como, il brigadiere Antonio Milia, 57 anni, ha ucciso il suo comandante con la pistola d’ordinanza, barricandosi poi in caserma per quasi tutta la notte, fino all’intervento risolutore dei Carabinieri dei corpi speciali che l’hanno bloccato e successivamente arrestato.

Nel passato di entrambi ci sono gravi episodi psichiatrici che, alla luce dei fatti, avrebbero dovuto essere meglio indagati: Milia era stato ricoverato nel reparto di Psichiatria dell’ospedale Sant’Anna di Como, poi dimesso e dopo una lunga convalescenza durata diversi mesi giudicato idoneo al servizio da una commissione medico-ospedaliera. Tombolini, che durante l’interrogatorio di oggi ha dichiarato che avrebbe voluto “farla finita” pensando di essere gravemente ammalato, ma che poi, avendo visto “quelle persone felici” , ho provato invidia e ha deciso di aggredirle, il 18 ottobre era stato medicato in un PS lombardo per essersi inferto da solo delle ferite al volto e al cranio con dei pugni: anche nel suo passato ci sono ricoveri psichiatrici ed era seguito pure da un professionista privato. COME DIFENDERSI? RAFFORZANDO LA SANITA’ Episodi inquietanti, che instillano in una popolazione già segnata da pandemia, guerra e crisi economica, il timore di non essere adeguatamente protetta dalla follia dilagante che rende pericoloso persino recarsi in un supermercato a fare la spesa. Ma come possiamo difenderci da queste situazioni, che cominciano a essere sempre più diffuse? “Possiamo difenderci rafforzando i servizi di salute mentale” spiega il professor Leo Nahon, già direttore di Psichiatria dell’Ospedale Niguarda Ca' Granda di Milano “destinando loro più risorse e più tempo per l’ascolto dedicato, facendo diminuire lo stigma che si crea attorno alla psichiatria: che non è solo una disciplina curativa, ma spessissimo anche preventiva. Per ogni evento tragico come quelli riportati oggi in cronaca, ce ne sono centinaia altrettanto gravi che vengono evitati quotidianamente da un buon lavoro di prevenzione e cura che viene fatto nei servizi psichiatrici, che peraltro lavorano oggi con risorse di personale ridotte ai minimi termini. Ma questi eventi evitati, sia contro gli altri che contro se stessi, e che sono tantissimi, non fanno notizia”. Si tratta anche in questo caso di sanità in crisi, di risorse carenti, di medici e psichiatri che fanno il possibile e riescono a evitare drammi nella maggior parte dei casi ma che sono comunque, evidentemente, insufficienti per numero rispetto al fabbisogno. Sempre più sola e abbandonata a sé stessa e ai deliri della propria mente, molto difficili da indagare e comunque da non derubricare sempre e solo a episodi di depressione: “È sbagliato etichettare questi casi come depressione” continua Nahon “I rapporti tra depressione, paranoia e impulsività sono molto complessi ma anche curabili, sia farmacologicamente sia con interventi psicosociali integrati che rompano l’isolamento e diano sollievo dai fantasmi persecutori. Purtroppo in questi disturbi, spesso, l’insufficiente consapevolezza di malattia, la tendenza a celare una parte importante dei sintomi e la scarsa adesione alle cure rendono molto più difficile la diagnosi e la terapia. Va aggiunto comunque che anche la difesa sociale e la punizione del reato possono avere un valore terapeutico”. I CAMBIAMENTI BIOLOGICI E L’INFLUSSO SULLA MENTE Una situazione sicuramente complicata, dunque, nella quale si rischia anche che le persone interiorizzino il pericolo e comincino a temere di svolgere anche le operazioni più semplici e apparentemente innocue, con il timore di trovarsi accanto -in qualunque condizione- una bomba pronta a esplodere: “E’ proprio cosi” , spiega Fabrizio Mignacca, psicologo e psicoterapeuta “Anche perché è vero che le cosiddette mine vaganti, purtroppo, sono più numerose di quanto si sia portati a pensare. Siamo sempre insicuri, nei supermercati, nella metro, per strada: perché le malattie mentali, anche se facciamo finta di non vederle, hanno un’enorme diffusione. Ci sono poi sicuramente dei periodi critici, e queste persone esplodono: ora, a parte la difficile situazione che viviamo tutti, appena usciti dalla pandemia e ancora immersi nei venti di guerra e nella crisi economica, dobbiamo anche tenere conto del fatto che il mese di settembre coincide con l’inizio della nuova stagione biologica. L’anno biologico, infatti, non corrisponde con quello solare: l’autunno, con le giornate che si accorciano, il freddo, il desiderio di stare in casa e chiudersi all’esterno, acuisce sempre i disagi psichici e mentali, ed è per questo che questi avvenimenti succedono quasi sempre a cascata, a grappolo, in periodi definiti dell’anno”. INTERCETTARE I MALATI PER CURARLI MEGLIO Le persone che hanno già problematiche psichiatriche molto importanti, dunque, si rivelano particolarmente sensibili a questi cambiamenti. E quando si innesca il corto circuito drammatico dello stravolgimento dei ritmi e del non saperlo fronteggiare, in una situazione mentale già precaria, scoppia la tempesta perfetta e avvengono questi drammi: “E per fortuna, la sanità, anche se tagliata e massacrata da due anni di Covid” continua Mignacca “riesce ancora a contenere il problema: infatti in Italia, rispetto a quanto succede in altri Paesi, basti pensare agli USA, gli episodi di questo genere sono fortunatamente molto meno frequenti. Questo accade perché il SSN è estremamente attento, riesce a intercettare i casi e a bloccarli, anche se solo con la “sedazione”. Se ci fossero più risorse, oltre che sedare si potrebbe curare efficacemente”.

E’ fuor di dubbio, però, che quantomeno nel caso del brigadiere Milia, una Commissione medico-ospedaliera ne avesse certificato l’idoneità al rientro in servizio dopo un lungo periodo di disagio psichico, trascorso in parte in un reparto psichiatrico di un ospedale. Come può essere successo? “Questo è davvero grave” conclude Mignacca “e rientra nel campo delle responsabilità che andranno accertate. Io posso dire che è un episodio rarissimo, perché le forze dell’ordine, peraltro, sono molto attente a segnali di squilibrio e seguono i percorsi di cura e recupero con grande precisione e attenzione. Può essere successo che si sia agito in questo modo –ma le mie sono solo ipotesi perché nelle persone che hanno manifestazioni psicotiche o psicopatiche, spesso il rientro nella normale aiuta il recupero. E nella stragrande maggioranza dei casi questo modo di agire funziona molto bene. Forse c’è stata una reale sottovalutazione del problema”.

"Ma chi soffre di disturbi psichici di solito fa male solo a se stesso". L'esperto: "Attacchi imprevedibili, solo il 3% attribuibili a malati mentali. Sui pazienti servono analisi più attente". Marta Bravi il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Claudio Mencacci, direttore emerito di Psichiatria dell'Asst Fatebenefratelli Sacco di Milano e co-presidente della Società Italiana di NeuroPsicoFarmacologia (SINPF) l'uomo di 46 anni che due giorni fa nel centro commerciale di Assago ha accoltellato 6 persone, uccidendone una, è stato descritto come una persona che viveva ritirata dalla società, in casa con i genitori e che non è mia stato aggressivo.

«Sembra una condizione di psicosi, con un aspetto di persecutorietà. Non posso fare una diagnosi ma la cosa si manifesta con queste caratteristiche fatte dall'isolamento, ritiro, poche amicizie, qualcosa che sposta il campo della psicosi più sul versante di tipo persecutorio e paranoico».

I genitori dicono che da quando è stato operato alla schiena ha iniziato a vedersi come gravemente malato.

«Non sappiamo che idea della malattia si sia fatto, se si sentisse danneggiato o invalido ma sono forme che si definiscono dell'area psicotica e a volte correlate da aspetti allucinatori, uditivi o imperativi. Siamo di fronte a un crescente discontrollo degli impulsi: quando uno si autopercuote o passa alla violenza verso gli altri si tratta di una condizione di discontrollo dell'impulsività. Non si capisce bene se chi è attorno venga vissuto come qualcosa di fortemente minaccioso».

Si prendeva a pugni il volto, ma in pronto soccorso non era stato in grado di spiegare il motivo del suo gesto autolesionistico.

«Il fatto di essere preda di questa impulsività e aggressività... le indagini stabiliranno se aveva utilizzato anti inibitori come alcol o altro. È un luogo comune che le persone che soffrono di disturbi mentali sono violente. Solo il 3 per cento degli atti di violenza sono attribuibili a persone che soffrono di malattie mentali. Di norma chi soffre di disturbi psichici è vittima piuttosto che carnefice».

Anche i genitori dicono non è mai stato violento o aggressivo. Cosa prevede il protocollo nel caso di un accesso al pronto soccorso per atto autolesionistico?

«C'è sempre una valutazione della condizione fisica e della psicopatologia messa in atto, sulla scorta della storia della persona, se c'è o meno abuso di sostanze... si valuta la gravità delle condizioni. Non è che tutti quelli che commettono un atto autolesionistico devono essere ricoverati, basti pensare alla quantità di adolescenti che si sono presentati in pronto soccorso in questi 2 anni con lesioni da taglio o di chi ha tentato il suicidio, in questi casi non si utilizza il ricovero ma la presa in carico».

È automatica?

«No viene segnalata la persona e poi viene avvisato il centro di riferimento».

Se non chiama?

«Quando viene data un'indicazione di rivolgersi al centro è perché la persona possa ricevere le cure adeguate e sono sempre di natura volontaria ad eccezione del Tso».

Qual è il rischio di passaggio da un atto autolesionistico a un atto di violenza verso altri?

«Le persone tendono a farsi del male tanto che nel nostro Paese si contano 4mila suicidi l'anno, di cui 1200 di giovani cioè sotto i 26 anni. Il passaggio alla violenza verso gli altri è abbastanza raro».

Quali i campanelli di allarme?

«Il livello di irascibilità, irritabilità e persecutorietà».

Venendo al caso di Asso, il brigadiere che ha ammazzato il proprio comandante era stato ricoverato per depressione ma giudicato idoneo.

«Il tema delle armi per le forze dell'ordine è delicatissimo: se l'agente o il militare viene giudicato non in grado di portare l'arma viene segnata gravemente la sua carriera. La commissione giudica sulla base della documentazione specialistica che viene fornita».

Cos'è sfuggito allora?

«L'elemento dell'imprevedibilità che si può essere sovrapposto a una valutazione non attenta di alcune situazioni».

Estratto dell'articolo di Alessia Marani per “Il Messaggero” il 28 giugno 2022.

Una volta c'erano le perizie psichiatriche che i componenti della Banda della Magliana si compravano per passare dal carcere in clinica. Clamorosa fu l'evasione da Villa Gina dell'ex boss Maurizio Abbatino che aveva ottenuto dal controverso professore Aldo Semerari una relazione sul suo stato di salute mentale, tanto squilibrato sulla carta da fargli evitare la galera ma altrettanto incompatibile con il profilo del criminale di rango, astuto e intelligente quale Crispino - il Freddo di Romanzo Criminale - era.

Passano gli anni, cambiano gli stratagemmi. E ora per le mani dei giudici e del Dap, il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, fioccano i certificati che attestano la tossicodipendenza di una sempre più vasta, e sospetta, platea di narcos-consumatori di droghe. 

Malavitosi ambiscono alla comunità quasi fosse un soggiorno in hotel: scelta la struttura, basta pagare la retta. E i soldi non tardano ad arrivare.

La convinzione, avvalorata da informative di polizia e carabinieri approdate in Procura, è che l'iscrizione al Sert non sia altro che il primo passo per l'ottenimento di un lasciapassare che garantisca, successivamente all'arresto, il pretesto (sfruttando la legge) per chiedere la misura alternativa al carcere in una delle tante (meglio se già collaudata) comunità di recupero. 

«Ormai sono tanti, troppi, gli esponenti della criminalità organizzata, anche in odore di mafia, legati a ndranghetisti o a epigoni della Camorra che godono di questo beneficio - denuncia Edoardo Levantini, presidente del Coordinamento antimafia di Anzio e Nettuno, territorio di pesanti infiltrazione - circostanza che fa pensare a un preciso sistema.

L'obiettivo? Continuare a intessere relazioni, rapporti con altri pregiudicati e proseguire nei loschi affari che rischiavano di essere interrotti, rafforzando con la presenza la propria forza intimidatrice».

Nicola Graziano, il giudice che si è internato in un Opg per vedere come vivevano i reclusi. Enrico Bellavia su L'Espresso il 9 maggio 2022.

Nel 2014 il magistrato è andato in incognito per tre giorni nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. «Non immaginavo che tre giorni potessero essere un’eternità».

Ha raccontato il magistrato Dino Petralia, ex capo del Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che quando vinse il concorso, il suocero, avvocato penalista, gli disse che «per ogni toga sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere».

Nicola Graziano, magistrato del tribunale di Napoli, che vive ad Aversa dove ha sede l’Ospedale psichiatrico giudiziario, lo ha fatto per davvero. Nel 2014, si è immerso per tre giorni in incognito nell’inferno dell’ex Opg, internato volontario tra i detenuti malati e a esaurimento. Insieme con il fotoreporter Nicola Baldieri ha realizzato un documento tanto drammatico quanto intriso di profondissima umanità. “Matricola zero zero uno”, si intitola (Giapeto Editori). La postfazione è di Franco Corleone.

Quando Graziano intraprende il viaggio è il momento in cui gli Opg stanno per cedere il posto alle Rems con le attese tradite che L’Espresso ha documentato. Scrive: «Nella vita sono un giudice ma per 72 ore sono un uomo che le difficoltà della vita e della mente hanno condotto qua dentro. Non immaginavo che tre giorni potessero essere un’eternità». La spinta a valicare il portone di Aversa è in una domanda: «Ma lì ci vive la follia?». E l’unica risposta possibile appare «immedesimarsi e confrontarsi». In definitiva è questa la molla di un’esperienza limite fatta di incontri e di storie. Di solitudini, di dolore e di emozioni. E di un pugile che spacca tutto ma non chiude occhio senza il suo peluche.

Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.

Stavolta è ammesso tutto, pure le lacrime di coccodrillo, ma la finta meraviglia almeno no. Perché G.T., il 21enne detenuto uccisosi con inalazioni di gas nel carcere milanese di San Vittore, dove in una settimana anche il detenuto di 24 anni A.E.M. si era tolto la vita, non soltanto aveva già tentato 15 giorni fa il suicidio, ma soprattutto non sarebbe proprio dovuto stare in carcere. 

E questo perché la diagnosi delle sue condizioni mentali lo aveva destinato a una delle «Rems-Residenze per l'esecuzione delle misure di sicurezza», subentrate nel 2014 alla sacrosanta chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari e però zavorrate da una lista d'attesa - dieci mesi la media - di persone «non imputabili» (e perciò poi non giudicabili nei processi per reati commessi in «incapacità di intendere e volere»), ma al contempo «socialmente pericolose» a motivo dei propri disturbi. Solo che le Regioni hanno tardato ad aprire le Rems (oggi sono 36), i posti (652) restano sottodimensionati, i servizi territoriali arrancano, i centri diurni dentro le carceri fanno quello che possono con la scarsità di psichiatri e psicologi, i giudici non hanno per legge il potere di ordinare l'ingresso del detenuto in una Rems, la lista d'attesa si gonfia. 

E se la Corte Costituzionale ha iniziato a farsi sentire a gennaio, sempre più spesso la Corte di Strasburgo, attivata dai legali più incisivi, intima all'Italia di mettersi in regola e l'Italia (come di recente in una offerta di risarcimento a un detenuto pur di schivare la condanna di Strasburgo) promette di rimediare ma intanto riconosce di stare violando l'articolo tre della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. E ogni volta - al netto dei volonterosi tentativi di arrangiarsi, oggetto lunedì di un convegno di «Area» in Tribunale a Milano tra magistrati, avvocati e psichiatri - parte così un vorticoso carteggio tra Procure-Rems-ministeri-Regioni, ciascuno in cerca del pezzo di carta che formalmente lo esenti da responsabilità. Sia quando, nel limbo di 750 persone che restano in libertà benché dichiarate socialmente pericolose, qualcuno aggredisce un passante per strada; sia quando invece, nel limbo di 60 persone che in lista d'attesa restano tacitamente ma illegalmente in cella, qualcuno si uccide. Come il 21enne di San Vittore, che da ottobre 2021 a San Vittore non doveva stare.

Nelle carceri italiane sono rinchiuse almeno sessanta persone con disturbi mentali: ma la legge lo vieta. Dovrebbero essere ospitate nelle Rems e curate, ma i posti sono pochi e così almeno sessanta pazienti (ma probabilmente molti di più) finiscono nei penitenziari ordinari. Malgrado le denunce della Corte costituzionale. Ecco perché il sistema non funziona. Glora Riva su L'Espresso il 2 Maggio 2022. 

Per due anni Giacomo Seydou Sy, 28 anni, italiano, con problemi psichiatrici, è stato trattenuto illecitamente nel carcere romano di Rebibbia. Un fatto grave, tanto che a gennaio è piovuta sull’Italia la condanna della Corte Europea dei diritti dell’Uomo. Giacomo Seydou Sy è affetto da disturbo bipolare e della personalità e nel 2019 è stato accusato di molestie all’ex fidanzata, resistenza a pubblico ufficiale, percosse e lesioni. 

I malati psichiatrici in cella o legati: l’Italia è rimasta a cinquanta anni fa. Lirio Abbate su L'Espresso il 29 aprile 2022. 

L’Espresso torna a denunciare il degrado delle condizioni dei pazienti reclusi: una situazione - illegale - di cui parliamo ormai da decenni. Che ancora una volta la Corte Costituzionale ha sanzionato, chiedendo al Parlamento una riforma urgente

Nel carcere di Pescara, in quello di San Vittore a Milano, e a Rebibbia e Regina Coeli a Roma ci sono dei “repartini” in cui sono chiusi una decina di pazienti. Molti di loro sono segregati in celle singole o massimo di due persone. E poi in altre strutture ci sono i malati che in piena crisi vengono contenuti nel letto, legati mani e piedi per impedire di far del male a sé o agli altri.

La sentenza della Consulta. Cosa sono i Rems e perché la vera riforma è cancellare il Codice Rocco. Franco Corleone su Il Riformista il 30 Gennaio 2022 

La sentenza 22 del 27 gennaio 2022 della Corte Costituzionale, redattore Francesco Viganò, sulla questione delle Rems e del superamento degli Opg è di grande valore e pone in maniera ineludibile questioni di importanza strategica. Vengono messe in luce contraddizioni nelle norme che hanno sostanziato una scelta rivoluzionaria, la chiusura del manicomio giudiziario che io ho definito subito una rivoluzione gentile, ma contemporaneamente emergono contraddizioni nella ricostruzione della vicenda e nella prospettazione di un intervento legislativo correttivo.

È fondamentale e costituisce un punto fermo la dichiarazione di inammissibilità delle questioni poste dal giudice di Tivoli per aberratio ictus, relativamente agli articoli del Codice Penale 206 e 222, ma anche rispetto alle questioni relative alla legge 9, alla luce dei risultati emersi dall’istruttoria deliberata dall’Ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021 che chiedeva al Governo una relazione di chiarimento su quattordici punti. La Corte esplicita con nettezza che una dichiarazione della norma contestata avrebbe comportato la caduta integrale del sistema delle Rems «che costituisce il risultato di un faticoso ma ineludibile processo di superamento dei vecchi Opg e produrrebbe non solo un intollerabile vuoto di tutela di interessi costituzionalmente rilevanti», ma anche un aggravamento delle difficoltà denunciate sulla efficienza del sistema.

Tutto bene dunque? Non proprio, perché la Corte suggerisce dei correttivi sostanziali e richiama l’attenzione sul fatto che «non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati nella pronuncia». Infatti la Corte Costituzionale conferma la nuova linea adottata di dare indicazioni di modifiche legislative al Parlamento, in alcuni casi con tempi ultimativi, e indica la necessità di definire un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza, la realizzazione e il buon funzionamento, sull’intero territorio nazionale, di un numero di Rems sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni, nel quadro di un complessivo e altrettanto urgente potenziamento delle strutture sul territorio in grado di garantire interventi alternativi adeguati rispetto alle necessità di cura e di quelle, altrettanto imprescindibili, di tutela della collettività e dunque dei diritti fondamentali delle potenziali vittime dei reati che potrebbero essere compiuti dai soggetti sottoposti alle misure di sicurezza perché socialmente pericolosi e infine in un adeguato coinvolgimento del Ministro della Giustizia nell’attività di coordinamento e nel monitoraggio del funzionamento delle Rems esistenti e degli altri strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della diversa misura della libertà vigilata.

La Corte è perentoria nell’affermare che il ricovero in una Rems, per come è concretamente configurata nell’Ordinamento, «non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria», perché la misura di sicurezza è strettamente legata alla pericolosità sociale, seppure presunta. L’incapacità di intendere e volere al momento del fatto, attraverso il proscioglimento si riverbera dunque sul presente e sul futuro, con una incapacitazione permanente che si salda con la affermazione di possibilità della reiterazione del reato. Evidentemente scoppia l’insostenibilità denunciata già ora di un ruolo ambivalente di cura e custodia. La Corte condivide con assoluta chiarezza la scelta del superamento dell’Opg e dell’abbandono di una logica custodialistica, ma lega la finalità terapeutica a una tutela della sicurezza delle vittime.

È anche decisivo il giudizio sulla essenzialità dei principi cardine della territorialità e del rispetto del numero chiuso e in particolare del numero ottimale di 20 ospiti, come anche l’affermazione che non spetti alla Corte individuare la ragione della lunga lista d’attesa per l’ingresso in Rems. In ogni caso viene espresso un ventaglio di responsabilità che illuminano la realtà, dalla insufficienza dei posti disponibili a un eccesso di provvedimenti di assegnazione alle Rems da parte dell’autorità giudiziaria in conseguenza di una diffusa mancata adesione al nuovo approccio culturale sotteso alla riforma e al non rispetto dell’indicazione di extrema ratio, dalla assenza sul territorio di soluzioni alternative per salvaguardare le esigenze di salute del singolo e di sicurezza pubblica, al mancato esercizio di poteri sostitutivi: nomina di un commissario nei confronti delle regioni in difficoltà. La Corte Costituzionale invita a una decisione.

Che fare? Ci sono due strade alternative. Subire le indicazione della Corte intervenendo sulla legge 81 (magari eliminando la possibilità di ingresso in Rems per le misure di sicurezza provvisorie) con il rischio di consolidare una soluzione di piccoli Opg (ma bisognerebbe abbattere il bubbone di Castiglione delle Stiviere con i suoi 160 posti) e la conferma del doppio binario del Codice Rocco o mettere in campo la grande riforma radicale di eliminare la non imputabilità e stroncare alla radice le attuali contraddizioni. Discutere quindi la proposta 2939 presentata alla Camera dei Deputati da Riccardo Magi che ha raccolto l’elaborazione proposta dalla Società della Ragione e da molte altre associazioni e movimenti che scioglie i nodi legati a vecchi principi e afferma nuove categorie legate alla legge 180 per cui la libertà è terapeutica.

Il senso è chiaro: «Scegliamo la via del giudizio per le persone affette da gravi disabilità psicosociali, non per arrivare a una pena dura o esemplare, ma per riconoscere la loro dignità di soggetti, restituendo la responsabilità – e con ciò la possibilità di comprensione- delle loro azioni; e risparmiando lo stigma che il verdetto di incapacità di intender e volere e l’internamento recano con sé». Franco Corleone

La sentenza della Cedu. Le carceri non sono luoghi di cura, ma non serve invocare più Rems. Michele Miravalle su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Chi si occupa della questione della cura/controllo delle persone con patologia psichiatrica autori di reato (i folli-rei, li definisce il linguaggio novecentesco del codice penale) sapeva che il 2022 si sarebbe aperto con almeno tre decisioni importanti: due della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, il caso Sy e il caso Ciotta, e una della Corte Costituzionale, a seguito dell’Ordinanza 131/2021 su impulso della questione sollevata dal giudice di Tivoli. Lunedì è arrivata la prima delle tre decisioni (Sy contro Italia), le altre sono attese a stretto giro. Nel merito, ci sono alcune differenze, ma sarà opportuno leggere i tre provvedimenti con uno sguardo “politico”, per capire che impatto avranno e quali sono gli interventi di indirizzo che vanno messi in campo.

Il tema è “fare un tagliando” al percorso di superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, capendo ciò che ha funzionato, ed è molto, e ciò che invece va corretto. È stato un percorso tortuoso, iniziato con la riforma della sanità penitenziaria nel 1999 e passato attraverso la vergogna pubblica delle immagini di degrado e abbandono girate nei sei Opg italiani dalla Commissione d’inchiesta del Senato nel 2012. Concluso solo nel maggio 2017 con la chiusura degli “ultimi manicomi” italiani, in applicazione della legge 81/2014. Un percorso che ha portato alla creazione di una trentina di residenze sanitarie (le Rems), capillarmente diffuse sul territorio e con un limite massimo di venti posti fissato per legge. I dati ufficiali – confusi e difficilmente accessibili – parlano di circa 550 persone ricoverate nelle Rems (pari al numero massimo di posti disponibili). Al di fuori delle Rems, ci sono poi quasi 4.000 persone sottoposte a misure di sicurezza non custodiali, su tutte la “libertà vigilata” che si svolge principalmente in forma residenziale nelle molte comunità che costellano il territorio italiano.

Ma la riforma ha inciso su due punti fondamentali: da una parte ha reciso la cinghia di trasmissione che collegava il carcere alle misure di sicurezza. Oggi, dunque, nel sistema delle misure di sicurezza non si possono più “scaricare” le persone dichiarate capaci di intendere e volere, le cui condizioni psichiche si aggravano durante la loro detenzione. Queste persone devono essere “gestite” in carcere o affidate ai servizi di salute mentale del territorio, che sono però spesso refrattari, per molte ragioni, ad accogliere paziente provenienti dal circuito penale. Dall’altra parte, ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento il sistema del “numero chiuso”. Un principio tanto banale, quanto rivoluzionario: il numero di ospiti in Rems non può mai derogare la capienza massima e dunque le Rems non possono essere “sovraffollate”. Ciò ha prodotto una “lista di attesa” di persone che attendono di essere ricoverate in Rems. I casi più critici, sono coloro che trascorrono questa attesa in carcere. Su quanti siano e come vengano gestite dalle singole Regioni e Aziende sanitarie le liste d’attesa c’è poca chiarezza: poche decine o centinaia? Le informazioni divergono a seconda delle fonti e questo non aiuta la comprensione.

Sono queste, in estrema sintesi, le due questioni su cui la Cedu è intervenuta e su cui la Corte Costituzionale è chiamata a fare chiarezza. Il futuro dunque deve partire da due principi ineludibili, di diritto e di umanità. Il primo, le carceri non sono luoghi di cura per la presa in carico di patologie psichiatriche gravi, vanno dunque immaginati nuovi modelli per la salute mentale, in stretto contatto con i servizi territoriali. È quello che vediamo tutti i giorni durante le visite dell’Osservatorio sulle condizioni detentive. Anche la gestione ibrida – un po’ carceri, un po’ luoghi di cura – di sezioni “speciali” per pazienti con patologie psichiatriche diventa, nei fatti una soluzione che enfatizza gli aspetti punitivi a scapito di quelli terapeutici. Se davvero “servono” luoghi dentro le mura del carcere dove promuovere la salute mentale, come ribadiscono ad ogni livello gli operatori penitenziari, allora occorre immaginare soluzioni del tutto nuove. L’esperienza delle sezioni “a custodia attenuata” per madri detenute o per il trattamento delle tossicodipendenze possono diventare esempi da imitare?

Il secondo principio è che le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (Rems) devono essere luoghi di “passaggio”, uno dei luoghi dove il paziente psichiatrico autore di reato può essere destinato, ma non l’unico. Esistono altre soluzioni, di tipo comunitario o residenziale, che vanno prese in considerazione. Questo significa non rassegnarsi alla “istituzionalizzazione” e a ricoveri molto lunghi, con continui passaggi da un luogo all’altro (Rems, comunità e ritorno). È un principio cardine della riforma, ma che fatica ad essere messo in pratica dai giudici, soprattutto per mancanza di dialogo con i servizi di salute mentale. Il peggio che può avvenire alla luce di queste tre decisioni delle Alte Corti, è limitarsi a dire “servono più Rems”. Sarebbe un errore grave ed un’occasione mancata, che non salverebbe il Paese da ulteriori condanne. Michele Miravalle

Una laurea, un tirocinio. E la speranza di un futuro. “Le nostre storie di riscatto di reclusi nelle Rems”. Erika Antonelli La Repubblica il 19 Maggio 2022.

L’Espresso ha dedicato una lunga inchiesta alle condizioni delle strutture che hanno sostituito i manicomi criminali. Ma ci sono anche esempi virtuosi

Andrea, 25 anni, nome di fantasia, soppesa ogni parola prima delle domande impegnative. Un silenzio lungo, poi risponde. «Come mi sento qua dentro? Sulle montagne russe. Appena esco vorrei costruire una mongolfiera». Parla la sua «parte più sognatrice», quella pratica invece gli suggerisce di trovarsi un lavoro e farsi una famiglia. Un passo alla volta, lentamente. Perché Andrea è uno dei 20 pazienti della Rems di Bra, in provincia di Cuneo, Piemonte. Le Rems sono strutture sanitarie in cui sono ricoverati gli autori di crimini gravi considerati pericolosi per la società.

Nascono con l’obiettivo di curare la fase acuta della malattia e riabilitare il paziente attraverso un percorso di terapia e assistenza psicosociale. Che hanno portato Andrea, in attesa del processo per un fatto-reato commesso nel 2020, a riprendere gli studi.

«Appena arrivato non ero molto convinto. Mi mancava solo la laurea, gli esami li avevo finiti. L’ho fatto per me stesso e per la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto. È stato il mio modo per restituirgli almeno in parte quel che mi ha dato». Si è laureato in Scienze dell’informazione poche settimane fa, con una tesi sull’analisi del sentiment sui social media. Affiancato dall’educatrice e dalla psicologa, con la collaborazione della sua relatrice. La tesi scritta in struttura, ogni giorno dalle 13 alle 16, la fascia oraria in cui ai pazienti è consentito l’accesso a internet. «È stato impegnativo, qui dentro si vivono alti e bassi, il morale va giù anche per piccole cose. Ma nei momenti in cui ero più scoraggiato trovavo l’energia ricordandomi per chi lo stavo facendo. Non escludo di prendere anche la magistrale. Riguardando la mia storia, forse in psicologia».

L’inserimento nelle Rems, spiega Grazia Ala, psichiatra nella struttura dove Andrea è detenuto, «deve essere l’ultima ratio». La scelta si prende qualora non ci siano misure alternative a gestire la situazione del paziente, ritenuto socialmente pericoloso e non imputabile perché parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al compimento del fatto-reato. «I loro percorsi riabilitativi - prosegue Ala - devono favorirne il ritorno sul territorio. Nella stragrande maggioranza dei casi significa che l’uscita avviene in modo graduale e passa attraverso la permanenza in una comunità». Non è un passaggio obbligato, una piccola parte dei pazienti fa rientro al domicilio, ma è un’opzione poco frequente perché sono spesso autori di reati contro i familiari.

Medici e operatori lavorano per decostruire lo stigma che pesa sulla testa di ogni persona che hanno in cura. «Non dobbiamo mai stancarci di forzare i muri legati alla non conoscenza, al timore, al fatto che in queste situazioni si intersechino due topoi, quello del “cattivo” e del “folle”. I nostri pazienti sono gravemente malati e in una società civile hanno il diritto di essere assistiti», dice la dottoressa Ala. Quei muri si forzano portando fuori le persone chiuse dentro, impegnandole in attività artistiche e teatrali. Andrea ha scoperto di amarle, «al teatro devo molto perché suscita emozioni e crea normalità», racconta. Se non è impegnato con gli spettacoli, passa il pomeriggio a disegnare o leggere. Soprattutto poesie. Le ultime, quelle de “Il canto degli alberi” di Hermann Hesse.

Anche Serghei, 26 anni, altro nome di fantasia, amante del calcetto e abile preparatore di tiramisù, ha scoperto di avere una vena artistica. L’ha unita a una sua vecchia passione, quella per i fiori, e così ha già pronta l’idea da realizzare per la mostra di luglio. «Porterò una pianta. Sarà al buio, coperta da un contenitore. In cima la scatola avrà dei piccoli fori da cui passa la luce, uno per ogni sensazione di libertà. Quella pianta sono io e metterò un foro per ogni cosa che mi piace fare. Uno per le attività, uno per le uscite, un altro per il lavoro». Da pochi giorni Serghei, in struttura da sette anni, ha infatti iniziato un tirocinio retribuito in un’azienda che produce vini. Lavora tutte le mattine, impegnato in attività di magazzino e a etichettare bottiglie. «Per il futuro nessun programma preciso, solo il bisogno di dare sempre il meglio sul posto di lavoro. Mi piacerebbe rimanere nell’azienda in cui sono adesso e guadagnare per avere la mia indipendenza economica».

La Rems di Bra esiste dal 2015. «Le iniziative che organizziamo ci permettono di far capire ai cittadini che non siamo un problema per la loro sicurezza. I primi mesi avevano paura, il malato di mente autore di reato rappresenta la massima espressione di pericolo. Poi le cose sono migliorate», dice Luca Patria, psichiatra e collega della dottoressa Ala. Che aggiunge: «Le persone che arrivano qui hanno un enorme carico di dolore e lo portano con sé fin da piccolissime, quando dovevano essere protette. La causa della malattia non è tutta lì. Ma in quella condizione, spesso unita alla miseria materiale e morale, si rischia di rimanere impigliati se non si è biologicamente preparati a lasciarsela alle spalle in cerca del riscatto». Ed è da quelle catene che Andrea e Serghei stanno provando a liberarsi. Un passo alla volta, lentamente.

·        Figli di Trojan.

Gogna o strumento d’indagine? È lite sulle intercettazioni. Il no dei magistrati al piano del guardasigilli: «Sono indispensabili». Esultano i penalisti: «Finalmente se ne discute». Valentina Stella Il Dubbio il 9 dicembre 2022.

Il tema delle intercettazioni continua ad essere terreno di scontro tra una parte della politica e la magistratura. Abbiamo raccolto il parere di Rossella Marro, presidente di Unicost: «In materia di intercettazioni va sgomberato il campo da un primo equivoco, ossia che in Italia in modo ingiustificato se ne facciano molte di più che in altri Paesi.

L’Italia infatti ha purtroppo il primato delle organizzazioni criminali di stampo mafioso (ndrangheta, sacra corona unita, camorra, mafia) ed il contrasto alle organizzazioni criminali, così come a qualunque altra forma di reato associativo, è possibile soprattutto grazie alle intercettazioni. Anche il fenomeno della concussione o corruzione assume contorni allarmanti ed anche in questi casi lo strumento delle intercettazioni è indispensabile».

Premesso ciò, Marro prosegue: «Condividiamo pienamente la preoccupazione del ministro per le indebite diffusioni di intercettazioni riguardanti anche aspetti di nessun interesse pubblico che tuttavia stravolgono la vita di persone che fino a prova giudiziaria contraria sono innocenti. La gogna mediatica è un fenomeno da contrastare e, sotto questo profilo, è meritorio mantenere sempre alta l’attenzione». Ma si tratta «di un aspetto diverso che nulla ha a che vedere con la indispensabilità dello strumento investigativo. Sul tema della diffusione peraltro di recente è intervenuta una disciplina molto restrittiva in attuazione di una direttiva della Comunità europea, che ha proprio la finalità di assicurare la riservatezza e la tutela della dignità delle persone coinvolte a vario titolo nelle intercettazioni. Occorre verificare sul campo l’efficacia della nuova normativa». È in ogni caso «ingeneroso» attribuire ai magistrati «la responsabilità della diffusione perché spesso proprio i magistrati “subiscono” le fughe di notizie da altri provocate. Le intercettazioni infatti sono necessariamente nella disponibilità di diverse persone che potrebbero avere interesse ad un eventuale uso strumentale delle stesse».

Altre riflessioni ci arrivano da Eugenio Albamonte, segretario di AreaDg, a partire dal sostegno di Nordio alle intercettazioni preventive: «Mi pare chiaramente contraddittorio con la sua reclamata appartenenza culturale di tipo liberale perché, in realtà, esse sono sostanzialmente fuori dal circuito giudiziario. Vengono sì autorizzate dal procuratore generale ma, innanzitutto, non c’è una autorizzazione di un giudice come quelle ordinarie. Poi, soprattutto, la grande differenza tra quelle ordinarie e quelle preventive è che queste ultime rimangono per sempre segrete. Neanche l’interessato, ex post, verrà mai a sapere di essere stato intercettato. E non verrà neanche a sapere che quelle intercettazioni contengono elementi della sua vita privata. Invece oggi, grazie alla legge Orlando, si può ottenere, a posteriori, la distruzione delle intercettazioni non rilevanti per le indagini. Mi sembra singolare che il ministro non colga la differenza tra questi due meccanismi, proprio sul piano delle garanzie».

Nordio ha riportato degli esempi di persone, anche magistrati, la cui vita è stata rovinata dalle intercettazioni. «Ma questi episodi fanno parte del secolo scorso», ricorda Albamonte che continua: «Nel frattempo è cambiata la legge. La disciplina Orlando prevede che quelle non rilevanti vengano già controllate e custodite sotto la responsabilità anche disciplinare del procuratore della Repubblica. Quindi non capisco a cosa faccia riferimento Nordio». Per il pubblico ministero, «questo tema, come diversi altri, è trattato dal ministro in modo pretestuoso per solleticare le aspettative di una certa parte della maggioranza politica – mi riferisco a Forza Italia che ne ha sempre fatto un cavallo di battaglia – e di un segmento di opinione pubblica, che teme le intercettazioni». Anche perché, conclude Albamonte, «ho sentito esponenti del Governo sostenere in televisione che le intercettazioni non verranno toccate per i reati di mafia e terrorismo, pedopornografia, prostituzione e tratta di esseri umani. Stringi, stringi a me pare che non si abbia il coraggio di dire chiaramente quale sia l’obiettivo perseguito: eliminare le intercettazioni per i reati di concussione e corruzione».

È «importante» invece per Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere penali, «che si torni a discutere della disciplina delle intercettazioni ed è un bene che il ministro Nordio abbia riconosciuto come il bilanciamento tra poteri di investigazione e diritti fondamentali della persona nel nostro sistema processuale sia pessimo». Rosso ricorda che «nella scorsa Legislatura si è mandata al macero la riforma Orlando, che pure qualche freno alle intercettazioni e alla loro divulgazione aveva previsto, e si è adottata una disciplina ben poco garantista che prevede il sostanziale via libera all’uso del trojan».

Infine «è utile ricordare a coloro che ancora oggi – sempre con il solito refrain della lotta alla criminalità organizzata – paventano l’impunità per i criminali che, con la legge n. 7 del 2020 e con la foglia di fico di due aggettivi, si sono in un sol colpo superati gli stessi limiti che la Corte di Cassazione aveva individuato prima con le Sezioni Unite Scurato e poi con la sentenza Cavallo. La fotografia dell’oggi sono i fenomeni della cosiddetta “pesca a strascico” per la ricerca del reato e non della prova». Mettere mano alle intercettazioni «servirà finalmente a ribadire che le comunicazioni tra difensore e indagato non debbono essere non solo utilizzate ma neppure ascoltate».

Aggiotaggio giudiziario. Le riforme di Nordio, le indagini sulla Juventus e il problema tutto italiano dell’inquinamento delle informazioni. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 9 Dicembre 2022.

Le proposte del Guardasigilli, non così garantiste come sembrano, sono state bocciate dal solito circo giornalistico-giudiziario, proprio mentre i giornali riportano intercettazioni sul club bianconero diffondendo solo le tesi dell’accusa. Una vera piaga, mai risolta, della nostra democrazia

Il Guardasigilli Carlo Nordio ha esposto alla Commissione giustizia della Camera una sorta di personale “libro dei sogni” in cui sono contenute quelle “riforme minime” – dalla separazione delle carriere alle intercettazioni, al rispetto concreto ed effettivo del principio di legalità – che sarebbero appunto il “minimo sindacale” per un paese degno di qualificarsi come governato come uno stato di diritto.

Per questo motivo, l’ex magistrato veneziano ha subito il solito trattamento che il partito giornalistico delle procure riserva a chiunque osi mettere sul tavolo questi temi, vale a dire un indifferenziato pestaggio mediatico e la “fatwa” dei giustizialisti nostrani.

Da ultimo, l’immancabile Gustavo Zagrebelsky ha unito in un unico tratto le critiche al presidente della Repubblica, a Bankitalia e alla magistratura come un complessivo disegno d’assalto alle istituzioni di garanzia mosso dalla destra italiana.

Chi scrive ha avuto modo, su questo giornale, di esprimere la personale diffidenza nei confronti del nuovo Guardasigilli, in particolare sottolineando come la sua visione sia sostanzialmente autoritaria perché, a fronte di massime garanzie per i “galantuomini” nel processo, egli sostiene massimo controllo e chiusura nella fase di prevenzione dei crimini e di esecuzione della pena.

Dunque, per Nordio, le intercettazioni sono da restringere come fonte di ricerca della prova durante l’indagine, ma vanno invece abbondantemente usate prima e a prescindere da ogni controllo giudiziario di legalità come strumento di contrasto sociale alla criminalità.

Così il ministro della Giustizia teorizza che le forze di polizia, in segreto e senza controllo della stessa magistratura, e senza mai darne pubblico conto, possano intercettare i sospetti di ipotetiche illecite attività ancora da accertare. Un modello di stampo ungherese da rigettare in toto.

Nessuna misericordia inoltre per i condannati, con qualche rara eccezione per i responsabili di reati minori. In questa visione, come dimostra il recente decreto anti-rave, i “ladri di Stato” corrotti e corruttori sono equiparati a mafiosi e trafficanti, per cui nessuna alternativa vi può essere al marcire nelle più vergognose carceri europee.

Per questa idea di giustizia chi scrive non ha nessuna simpatia, al contrario delle tante cheerleader di Nordio tra insospettabili organi di stampa e politici sedicenti garantisti.

Tuttavia il vero scandalo è lo squadrismo mediatico che si abbatte su chi osa toccare i fili, a partire dalla famosa e “limacciosa” commissione bicamerale di Massimo D’Alema di fine millennio.

In ragione di ciò, a oggi è problematico finanche eleggere i membri laici per il Consiglio superiore della magistratura dove concorrono personaggi che la magistratura non ama come gli avvocati Gaetano Pecorella e Mauro Anetrini, garantisti e pure autorevoli e per questo invisi alle toghe.

Tuttavia il vero problema non è solo una magistratura arroccata sui suoi privilegi, bensì una diffusa sottocultura che la protegge e accompagna nei suoi vizi, magari per interessi di bottega.

Il mercato delle intercettazioni indiscriminatamente pubblicate sulla stampa, ad esempio, non è una fisima di Nordio ma una piaga reale che inquina la democrazia.

Tramite esso si colpisce un principio di civiltà come la presunzione di innocenza vanamente ribadito da una legge di recente introdotta in mezzo agli strepiti del partito filo-procure dei Travaglio, Bianconi, Bonini e Giannini e non se ne abbiano a male alcuni destinatari (“Amicus plato sed magis veritas…”).

La legge impone ai magistrati la prudenza e la riservatezza sulle indagini, una cosa ovvia, ma non impedisce di surrogare le vecchie conferenze stampa di pm e carabinieri con estesi editoriali sui giornali amici. E dunque basta passare le carte per avere le solite vecchie sentenze anticipate di condanna.

Tale sorte accomuna potenti e cittadini comuni, cardinali, imprenditori e vecchi pregiudicati, dagli Agnelli a Massimo Carminati.

Ultimamente è capitato anche ai proprietari di Gedi, il più importante gruppo editoriale italiano, a proposito del procedimento penale che coinvolge una delle loro più rilevanti partecipazioni, la Juventus, di cui va evidenziato un curioso quanto significativo episodio.

Raccontano le cronache che Cristiano Ronaldo, ex calciatore bianconero negli anni oggetto di indagine, abbia fatto richiesta di accesso agli atti del processo che sono stati depositati per le parti al termine delle indagini, quale soggetto interessato.

Richiesta legittimamente respinta perché il contenuto del fascicolo, ancorché non più coperto dal segreto d’indagine, non può comunque essere pubblicato almeno fino al termine dell’udienza preliminare e la copia dei singoli atti addirittura sino al processo vero e proprio a norma dell’articolo 114 del codice di procedure penale.

Il punto è che invece le gazzette hanno riportato pezzi interi di intercettazioni, alcune con soggetti non coinvolti e hanno diffuso le tesi dell’accusa.

Quasi nessuno ha illustrato le ragioni della difesa e ha correttamente spiegato che l’unica volta in cui è intervenuto un giudice “terzo e imparziale” ha dato torto all’accusa non solo respingendo la solita richiesta di misure cautelari ai danni dei principali imputati, ma addirittura ponendo in dubbio la rilevanza penale delle strombazzate plusvalenze che costituiscono la polpa delle accuse di falso in bilancio e aggiotaggio informativo.

Stiamo parlando di una società quotata in Borsa ma lo stesso discorso ormai è ricorrente in svariati casi. L’aggiotaggio e l’inquinamento dell’informazione giudiziaria sono un grosso problema di democrazia non ancora risolto e duro a morire.

"Anm fuori dalla realtà. È cambiato il clima: Nordio non è Mastella". L'ex magistrato: "Il ministro è inattaccabile. E ora tutti censurano le toghe politicizzate". Luca Fazzo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio ci ha messo solo quarantadue giorni per scatenare le ire dell'Associazione nazionale magistrati. E adesso cosa accadrà? Cercheranno di silurarlo per via giudiziaria?

«In passato è accaduto spesso - risponde Luca Palamara, che dell'Anm è stato a lungo il potente presidente - che ministri della Giustizia pagassero cara la contrapposizione alle correnti. Basti pensare a quanto accadde al ministro Clemente Mastella. Ma stavolta la vedo dura. Il profilo professionale di Nordio, uno che ha fatto per tutta la vita il pubblico ministero, lo rende difficilmente attaccabile».

Non è paradossale che a entrare quasi immediatamente in rotta di collisione con le correnti delle toghe sia il primo Guardasigilli che viene proprio dalle fila delle Procure?

«Me lo spiego semplicemente col fatto che ormai ci sono problemi divenuti a tal punto patrimonio comune dell'opinione pubblica che non è più possibile nascondersi dietro una foglia di fico. Nordio ha avuto il coraggio di mettere sul tavolo emergenze che, fuori dall'ipocrisia, sono vissute come tali dall'intera società civile italiana. Proprio perché ora provengono da uno che ha fatto per tutta la vita il pm sarebbe il caso che anziché ricorrere alle solite, stereotipate invettive l'Anm affrontasse serenamente i problemi che ha posto. Aggiungo: sarebbe il caso che a rispondere a Nordio fossero persone qualificate e non soggetti che puntano senza titolo a qualificarsi come grandi giuristi. Parlo ovviamente di alcuni giornalisti».

In passato, Cartabia compresa, la scena era sempre la stessa. Arrivava un nuovo ministro, annunciava riforme più o meno epocali, le correnti dei giudici ruggivano e la riforma finiva in niente o quasi. L'Anm di oggi ha ancora il potere di fermare Nordio?

«Tutto quello che è accaduto ha inciso in profondità nel tessuto connettivo della magistratura italiana. La magistratura non è più quella di dieci anni fa, non siamo più all'epoca delle corazzate antiberlusconiane. La politicizzazione della magistratura è vista come un male dalla grande parte della magistratura, anche se l'Anm cerca disperatamente di riproporre le stesse parole d'ordine di sempre. Ancora più incredibile è che a farlo sia l'attuale presidente dell'Associazione, che prima era il capo dell'ufficio legislativo del ministro di centrosinistra e che mischia i due ruoli in maniera clamorosa».

L'altro giorno all'assemblea di Area, la corrente dei giudici di sinistra, si sentivano cose da anni Settanta. Il governo di centrodestra è stato accusato di volere «un ridimensionamento del modello costituzionale di magistrato», di lavorare «all'idea di un pubblico mistero sempre più compresso e sacrificato».

«Ci sono pezzi della magistratura refrattari a qualunque maturazione, decisi a portare avanti fino alla fine l'idea che schierarsi politicamente sia un diritto e anzi un dovere. Sono tagliati fuori dalla realtà».

A mettere Nordio sotto tiro è stato soprattutto il suo annuncio di ridurre l'utilizzo delle intercettazioni. Così si aiutano i criminali, è stato detto. La leader di Area ha definito le intercettazioni «pacificamente indispensabili per le attività di indagine».

«Il problema delle intercettazioni si trascina da vent'anni, l'abuso che ne è stato fatto è perfettamente noto anche a tutti i pubblici ministeri e a tutti i giudici. Oggi si difendono a spada tratta le intercettazioni solo perché sono funzionali a un processo penale utile a interessi diversi da quelli della giustizia: utile ai giornali, utile alle forze politiche per eliminare l'avversario di turno. È un insulto all'intelligenza dei cittadini sostenere che limitare questi abusi vorrebbe dire indebolire la tenuta del processo penale. Nordio non ha nessuna intenzione di indebolire la lotta al crimine, e accusarlo di avere questa intenzione è una clamorosa bugia, una falsità indegna di qualunque magistrato perbene. Ed è grave che venga rilanciata in maniera acritica dai soliti organi di stampa».

Lei sembra convinto che sia la volta buona perché la politica non subisca i diktat delle toghe organizzate.

«Sì. È cambiato il clima, è cambiato l'atteggiamento dell'opinione pubblica. E fortunatamente sono cambiati anche i giudici».

Liana Milella per “la Repubblica” il 9 dicembre 2022.

«Nordio? Non mi piace più come ministro della Giustizia dopo i suoi discorsi in Parlamento». L'ex Guardasigilli ed ex presidente della Consulta Giovanni Maria Flick ripercorre con Repubblica il Nordio pensiero che «rischia di non risolvere i tanti problemi della giustizia». 

Tra Senato e Camera Nordio ha distrutto la magistratura. Reati inutili, intercettazioni di fatto illegali, Csm "palamariano", presunzione d'innocenza violata. 

Come giudica questa "tabula rasa"?

«Mi lascia perplesso usare questa definizione per una realtà complessa che viene molto semplificata, da un lato con le parole di Nordio, e dall'altro con le critiche che gli si muovono. Preferisco vedere la magistratura nei termini in cui essa è stata richiamata dal capo dello Stato nel giorno del suo insediamento».

Cosa disse che l'ha stupita?

«Sono rimasto colpito dalla distanza tra l'elogio alla magistratura che il presidente aveva fatto nel 2018, e la durezza del quadro che ne ha fatto quest' anno. Necessità di un profondo impegno riformatore, perplessità di fronte a un terreno di scontro che ha fatto perdere di vista gli interessi della collettività, necessità che il Csm corrisponda alle pressanti esigenze di efficienza e credibilità». 

Allora lei è un "nordiamo"?

«Per niente. Condivido le censure pesanti che tanti, compreso Nordio, muovono alla dinamica delle intercettazioni e alla loro divulgazione. Non credo però che il rimedio possa essere quello che lui propone, intercettazioni segrete di competenza pressoché esclusiva della polizia, senza un controllo effettivo della magistratura e senza garanzie di conoscenza per chi ne è oggetto».

Nordio ce l'ha con gli ex colleghi?

«In alcuni passaggi ne parla troppo male per non ingenerare il sospetto di un inconscio freudiano e di una latente rivalsa». 

Le intercettazioni, Nordio minaccia di dimettersi se non riesce a ridurle e a non farle più uscire.

«Le registrazioni che stanno all'interno del processo e che sono "assolutamente indispensabili" per proseguire le indagini, sono già regolate da una legge precisa e valida, che proposi io 20 anni fa e che ha attuato dopo molte discussioni il Guardasigilli Orlando nel 2017. Il problema è far rispettare questa legge e usare le intercettazioni quando ne ricorrono i presupposti. Ma non è logico contestare un reato con pene alte al solo fine di poter intercettare». 

Come altri prima di lui, vedi Berlusconi e Renzi, Nordio agogna una riforma costituzionale.

«Qualche modifica costituzionale può essere necessaria. La prima è riconoscere al capo dello Stato la nomina del suo vice al Csm che oggi è oggetto di una trattativa tra correnti dei togati e laici. Le "porti girevoli" vanno chiuse non solo per chi entra ed esce dalla magistratura per fare politica, ma anche da chi esce dalla politica per andare al Csm. La Costituzione richiede, per i laici, non requisiti di rappresentanza politica, ma di preparazione tecnica».

Un ministro dura in carica, se tutto va bene, 5 anni. Ha senso imbarcarsi in una riforma costituzionale? I precedenti di Berlusconi e Renzi sono fallimentari

«Se si vogliono separare le carriere, obiettivo mitico e storico del contrasto tra giudici e avvocati, e se si vuole eliminare l'obbligatorietà dell'azione penale che da principio di eguaglianza finisce per diventare foglia di fico di una discrezionalità abnorme, occorre la modifica costituzionale. Ma è così necessaria e urgente? A me pare che la concretezza dei problemi della giustizia richieda interventi subito operativi e non anni di attese». 

Che garanzie dà la discrezionalità dell'azione penale? Perché invece tutti i reati, grandi e piccoli, non vanno perseguiti?

«Sì, ma solo se è possibile. L'esperienza insegna che i reati sono tanti e per giunta si continua a prevederne altri». 

Pensa al decreto Rave?

«Come ha fatto a indovinare?». 

Da avvocato vede un connubio "scandaloso" tra pm e giudici?

«Ho visto qualche episodio che mi ha lasciato perplesso, ma non si può generalizzare. Il problema non è quello di separare le carriere, quanto di chiedere ai pm il rispetto rigoroso delle regole». 

"Garantisti nel processo, giustizialisti nella pena", dice Meloni.

"È un binomio contrario alla Costituzione, per me inaccettabile, che mi auguro Nordio rettifichi totalmente nel suo "vasto" programma"».

Se serve un pm per regolare i pm. È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. Augusto Minzolini il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È proprio vero, per rimettere a posto il nostro sistema giudiziario c'era bisogno di un pm. È il pedigree che differenzia Carlo Nordio dai tanti predecessori che negli ultimi quarant'anni hanno tentato di rimettere ordine invano in un settore in cui da decenni le gerarchie sono saltate, come pure i ruoli, in un meccanismo perverso di bracci di ferro e prove di forza. Il fatto che l'attuale Guardasigilli provenga dalla categoria che più di altre ha esondato dai propri poteri, che ha fatto il bello e cattivo tempo in giustizia come in politica, cioè i pubblici ministeri, è un punto di forza, perché ne conosce limiti, ossessioni e ambizioni. Soprattutto non subisce i timori, le minacce più o meno velate, le intimidazioni che hanno spesso tenuto al guinzaglio il Parlamento e bloccato una riforma degna di questo nome.

Quella del ministro Cartabia, ad esempio, anche se è intervenuta su temi importanti - come l'andirivieni di magistrati tra tribunali, Procure, Camera e Senato - si è tenuta distante dai nodi cruciali, cioè quelli che hanno permesso ai pm di avere il sopravvento sul resto del mondo togato e di condizionare non poco le fasi politiche. Parlo dell'uso smodato delle intercettazioni e della separazione delle carriere fra giudici e pm, questione di cui si parla nei convegni, mai in Parlamento. Sono argomenti che possono determinare una svolta, la fine di un'epoca in cui l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione è stato messo a repentaglio senza che nessuno abbia potuto - e saputo - opporsi efficacemente.

Nordio il coraggio lo ha. Lo si comprende dalla chiarezza del suo disegno che non sta appresso alle fumisterie che spesso hanno accompagnato riforme molto declamate ma che non hanno portato risultati. E si arguisce dalla determinazione con cui persegue il suo progetto, che ha messo in allarme tutti quelli che sono interessati a mantenere lo «status quo».

A cominciare dalla corrente dei magistrati di sinistra, le «toghe rosse», che hanno accusato il ministro di volere comprimere il ruolo dei pm. Un altolà preventivo che dimostra l'irrequietezza di chi vede messo in discussione il ruolo di protagonista di cui ha goduto in questi anni. Nei quali, con avvisi di garanzia e indagini basate sul nulla, si facevano saltare governi e si distruggevano carriere politiche o imprenditoriali. O, ancora, ne è prova il nervosismo con cui la sinistra, la parte politica che più è stata favorita da certa magistratura, ha cominciato ad erigere barriere, rifiutandosi di aprire un confronto. Anzi, l'ex responsabile Giustizia del Pd, Walter Verini, si è lasciato andare ad una previsione che non promette niente di buono: «Ricomincerà la guerra tra politica e toghe».

Era prevedibile. È una guerra di potere e ricomporre l'equilibrio non sarà semplice, né indolore. Molto dipenderà dalla capacità della maggioranza di centrodestra di restare unita e magari di coinvolgere una parte dell'opposizione che, non fosse altro per esperienze provate sulla propria pelle (Renzi), è più sensibile a questi temi.

Carlo Nordio monumentale: lezione agli spioni, cosa ha detto. Carlo Nordio su Libero Quotidiano il 10 dicembre 2022.

Nel seguente stralcio, il ministro della Giustizia Carlo Nordio risponde, nel corso di una seduta della Commissione giustizia del Senato in cui lo stesso ministro illustra le linee programmatiche del suo dicastero, a una domanda del senatore Roberto Scarpinato, ex magistrato e attuale senatore del Movimento 5 Stelle, sul rischio - a detta di Scarpinato - di «depotenziamento delle capacità di risposta del sistema penale al fenomeno della corruzione», e questo con particolare riferimento alla «riduzione dell'area di applicazione del reato di abuso di ufficio» e al «taglio alle spese di intercettazioni». Ecco dunque la risposta di Nordio. 

Questa valutazione è stata fatta in ambito politico in questi giorni, ed è stata fatta in qua rant' annidi procura della Repubblica, ruolo che ho avuto l'onore di ricoprire prima nel 1982 del indagando sulle Brigate Rosse e ricevendo a casa spesso lettere con la stella a cinque punte; poi indagando sulla Tangentopoli veneta tra il 1992 e il 1996, mandando a giudizio tutti i vertici dell'allora pentapartito - Democrazia Cristiana, Partito Socialista, ministri come De Michelis, Bernini, presidenti di regione; indagando sulla mafia del Brenta, la banda Maniero, indagando su tutti i sequestri di persona che hanno vulnerato la nostra regione negli anni Ottanta e Novanta, e per quanto riguarda la corruzione concludendo la mia carriera coordinando l'inchiesta del Mose, di fronte alla quale la corruzione e gli sprechi di Mani Pulite degli anni Novanta, compresa Milano, impallidiscono, perché corruzione e sprechi del Mose hanno portato a una cifra che grosso modo abbiamo contabilizzato in poco meno di un miliardo di euro. Quindi lei mi consentirà di parlare non ex cattedra, ma con una certa esperienza di questo (argomento).

EFFICACIA PLATONICA

Ho maturato la convinzione prima di tutto che l'intimidazione della norma penale così come è comminata, e che non è quasi mai irrogata, abbia un'efficacia intimidatoria puramente platonica. Va da sé che lo Stato deve prevedere pene molto severe per i gravi reati, va da sé che il giudice le deve irrogare in modo non dico esemplare ma equo, e va da sé che debbano essere eseguite come ho detto prima in modo certo. (Per quanto riguarda il reato di abuso di ufficio) Abbiamo avuto 5.400 procedimenti nell'anno 2021 e si sono conclusi con 9 condanne davanti al Gip e 18 condanne davanti al dibattimento, che significa che a fronte di circa 5.500 indagini abbiamo avuto poco più di una ventina di condanne.

Se noi mettiamo a confronto... Lei mi parla di costi e benefici, lei ha abbastanza esperienza per sapere cosa significa un processo per abuso di atti d'ufficio, significa fare un processo al processo, perché significa ricostruire l'iter amministrativo che ha dato luogo a un atto illegittimo, e significa ricostruire il dolo o il doppio dolo che è stato alla base, o sarebbe stato alla base, di chi ha commesso quell'atto amministrativo. Il costo medio di uno di questi processi è in termini di risorse umane e materiali insostenibile, perché il numero di udienze medie per un reato di abuso di atti di ufficio è di circa tre o quattro, perché ripeto occorre una tale acquisizione di materiale cartaceo e di pareri più o meno interessanti, illuminati, di consulenti e periti, che confondono i magistrati e alla fine si riducono - carta canta, come si dice - in assoluzioni o archiviazioni o non luogo a procedere. Il fatto che si debba avere una prospettiva di 27 condanne a fronte di 5.400 e passa indagini dà già una risposta economica al problema.

Per quanto riguarda le intercettazioni, esse ci costano mediamente 200 milioni l'anno - lei ha posto la domanda in termini economici, io rispondo in termini economici. Nessuno dubita che in certi reati, soprattutto di criminalità organizzata, le intercettazioni siano utili, talvolta indispensabili. Personalmente, credo che le più utili siano quelle preventive, che vengono autorizzate dal pubblico ministero e hanno il vantaggio di rimanere secretate, sotto la responsabilità di chi le ha autorizzate, e con la conseguente individuazione di chi un domani le divulgasse, ne consentisse la diffusione. Premetto subito che su questo punto questo ministro sarà estremamente rigoroso: ogni qualvolta un domani uscissero usciranno violazioni del segreto istruttorio in tema di intercettazioni, la ispezione sarà immediata e rigorosa. Non è più ammissibile che, non si sa da quale parte provenienti, conversazioni che riguardano la vita privata di cittadini che non sono nemmeno indagati e finiscono sui giornali: questo non è tollerabile e non sarà tollerato, almeno nella parte in cui questo ministro ha competenza.

SOLDI PER LE CARCERI

Quindi, il taglio delle intercettazioni: perché? Perché anche qui la montagna ha partorito il topolino. A fronte di duecento milioni l'anno di intercettazioni, quando non abbiamo i soldi per ristrutturare le carceri, dove vengono commessi suicidi perché non c'è l'assistenza psichiatrica, psicologica e medica, l'idea di spendere l'ottanta per cento di questi denari in intercettazioni che sono assolutamente inutili, perché le abbiamo viste, le abbiamo firmate, io stesso le ho firmate a Venezia come procuratore aggiunto, è assolutamente intollerabile. 

In definitiva, io sono convinto che la lotta alla delinquenza... Non sono convinto che la magistratura debba lottare, sono convinto che la magistratura debba applicare la legge e che la lotta debba essere fatta dalla politica, dall'educazione, dal senso civico, ma poiché nell'attuale sistema il pubblico ministero è capo della polizia giudiziaria, non trovo improprio che si possa parlare di lotta da parte dei pubblici ministeri nei confronti della criminalità organizzata... Resta il fatto che la sproporzione tra i risultati che sono stati raggiunti da parte di molti pubblici ministeri, dà molte procure della Repubblica, o che non sono stati raggiunti, a fronte di spese enormi e abnormi attraverso le intercettazioni, sono assolutamente incompatibili sia con la civiltà giuridica, con l'articolo 15 della Costituzione che tutela la segretezza delle informazioni, e sia con il momento drammatico economico che stiamo attraversando, che non consente sprechi di risorse.

Da Togliatti a Saragat Il garantismo appartiene al Dna della sinistra. Nordio sta tentando di spostare a destra una tradizione che, prima alla discesa in campo di Berlusconi, le era estranea. Aldo Varano su Il Dubbio il 10 dicembre 2022.

È un errore grave, sarebbe un errore grave, leggere le proposte sulla giustizia del ministro Nordio come lo schema di una strategia politica pronta a rilanciare e diffondere un messaggio di vicinanza alle culture della destra sovran- populista. Tradizioni e conoscenza della storia del nostro paese, casomai, fanno del “Pacchetto Nordio” un messaggio di senso opposto che non ha nulla a che vedere con quelle culture che, perfino nella loro componente liberal- liberista (mi riferisco alla concretezza della storia italiana), non hanno mai avuto cedimenti garantisti.

Per quanto possa suonare curioso e paradossale, delle proposte di Nordio si può dire che sembrano voler recuperare, anche per i cittadini che non sono potenti, una giustizia mite che aiuta e sostiene le ragioni di tutti senza discriminare i più deboli. Con una piccola forzatura si potrebbe sostenere che Nordio sulla giustizia sta tentando di spingere e spostare a destra una tradizione che è stata di parte del centro e della sinistra che ha conosciuto il nostro paese. Nella storia dell’Italia repubblicana il garantismo, per un periodo lungo che va dalla sua nascita agli anni novanta del Novecento, fu infatti la marca esibita soprattutto dalle culture delle aree del centro e delle sinistre.

La prima grande amnistia nell’Italia repubblicana, del resto, fu concepita e varata dall’onorevole Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia, ma prima di tutto, capo del Partito comunista. Non fu un gesto isolato. Con lui concordavano da Alcide De Gasperi (costretto negli anni precedenti a rifugiarsi in Vaticano per sottrarsi alle leggi fasciste che per quelli come De Gasperi prevedevano la galera) a Pietro Nenni, da Giuseppe Saragat a Vittorio Foa (che era finito in carcere perché studente torinese di sinistra e, pericolosa aggravante, ebreo). Per non dire del gruppo dei cattolici fiorentini, ma non solo, legati a Giorgio La Pira.

Il garantismo ha accompagnato sempre le sinistre anche quelle radicali (con l’eccezione della rottura drammatica e feroce del terrorismo, che fu fenomeno anche di destra). Giorgio Amendola e Riccardo Lombardi, Emanuele Macaluso e l’ex “galeotto” Giancarlo Pajetta, fino all’ultima generazione in blocco dei socialisti, da Craxi a Mancini a Martelli, ai socialdemocratici e ai repubblicani di La Malfa, furono fieramente garantisti. Nessuno di loro ebbe cedimenti su questo fronte. E questa fu la cultura del cuore della Democrazia cristiana e della quasi totalità delle sue componenti.

La svolta giustizialista nel nostro paese arrivò dopo. È la Lega a far pendolare il cappio in Parlamento senza che Forza Italia si opponga a quella barbarie a cui, anzi, ammicca. Del resto sarà proprio Forza Italia a unire in un unico schieramento sé stessa con la Lega che fa pendolare un cappio, e la destra fascista, fondata da Almirante e poi ereditata e rivisitata da Fini, dove crescerà e si formerà Giorgia Meloni, che ne dà conto diffusamente nel suo libro Io sono Giorgia.

Debole è, e resterà, la reazione dei comunisti ex, alla svolta leghista. Tra loro giocherà molto la sensazione, che diventerà via via convincimento e poi certezza, che ci sia qualcosa di illegale e di marcio, un vero e proprio trucco nel successo di Berlusconi. Giocherà un peso determinante l’incomprensione del potere di convincimento di una televisione che opera senza alcun vincolo e concorrenti. Nel frattempo Craxi è stato costretto a fuggire in Africa per sottrarsi all’umiliazione, che di certo non merita, del carcere.

I suoi amici e nemici non muoveranno un dito per difenderlo. Anche se è stato Craxi, incontrando nel suo camper D’Alema e Veltroni (siamo nel 1990) ad aprire la strada dell’Internazionale socialista agli eredi del Pci garantendo per il loro ingresso. Il nuovo eroe della politica italiana da lì a poco, per una parte ampia della sinistra, diventerà il magistrato Di Pietro che abbandona la toga per infilarsi in Parlamento con un partito tutto suo (fin dal nome).

Ed è proprio per il convincimento del marcio nel successo berlusconiano (mai dimostrato) che una parte della sinistra italiana si convincerà ad appoggiare la ventata giustizialista, che in realtà saccheggerà a piene mani la tradizione antica e permanente dell’estrema destra italiana.

Nessuno “virò” su Viola ma da quella parola fraintesa nacque il Palamaragate. Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 9 dicembre 2022.

Ma se ci fossero regole diverse sulle intercettazioni telefoniche e sul contrasto alla loro diffusione illecita, come affermato l’altro giorno dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Palamaragate sarebbe scoppiato? Fra i tanti casi di “errori giudiziari” dovuti ad intercettazioni telefoniche mal trascritte va senza dubbio annoverato lo scandalo che travolse il Csm all’inizio dell’estate del 2019.

A differenza, però, di quanto accaduto ad esempio ad Angelo Massaro, che per una telefonata distorta scontò da innocente 21 anni di carcere, nel Palamaragate le manette non scattarono: ci si limitò alle dimissioni di sei consiglieri su 16 del Csm e a quelle del procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio, oltre allo stop della nomina di Marcello Viola a procuratore di Roma. Il telefonino dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, come si ricorderà, era stato prima intercettato e poi “infettato” con il famigerato trojan per scoprire se ci fosse corruzione nelle nomine di Procure e Tribunali.

Nella richiesta di archiviazione, per uno dei filoni, firmata dal procuratore di Perugia Raffaele Cantone e dai pm Mario Formisano e Gemma Miliani il 13 dicembre del 2021, accolta dal gip Piercarlo Frabotta lo scorso 2 febbraio 2022, si è scoperto come iniziò e si sviluppò l’indagine con il ricorso alle intercettazioni che, in realtà, nulla avevano poi rivelato sulla presunta corruzione, limitandosi a dimostrare che tutti si rivolgevano a Palamara per essere nominati nella ambite cariche senza tuttavia corrispondergli alcuna contropartita, se non quella tipica correntizia.

In particolare, l’ex magistrato di Siracusa Giancarlo Longo aveva riferito nell’interrogatorio del 26 aprile 2019 che l’avvocato Giuseppe Calafiore gli aveva confidato di avere consegnato 40mila euro a Palamara per ottenere la nomina dello stesso Longo quale procuratore di Gela, senza che tuttavia si fosse concretizzato nulla, poiché la toga non prese alcun voto al Csm, neppure quello di Palamara. Non solo. Sempre i pm di Perugia scrissero che Calafiore, interrogato il 10 maggio 2019, aveva negato «fermamente di aver dato 40mila euro a Palamara… Io non ho rapporti con lui». Ebbene, ciononostante per questi 40mila euro mai riscontrati Palamara venne intercettato da febbraio 2019 a maggio 2019 e nell’ultimo mese anche con il trojan.

Il 30 maggio successivo la Procura di Perugia eseguì una perquisizione nei confronti di Palamara, che finì su tutti i giornali, contestandogli anche «il reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, nel caso specifico per avere ricevuto, quale componente del Csm, la somma pari ad euro 40mila da Calafiore per la nomina di Longo quale procuratore di Gela».

Anche se Calafiore, come detto, aveva smentito Longo 20 giorni prima. Per non farsi mancare nulla, all’ex deputato dem Luca Lotti, uno dei partecipanti al dopo cena presso l’hotel Champagne, registrato con il trojan nel telefono di Palamara, venne messa in bocca la frase cardine di tutta la vicenda: «Si vira su Viola». In realtà quella frase, riportata dal Gico della guardia di finanza e finita anch’essa su tutti i giornali ad indagini in corso, non era stata mai pronunciata. Lotti si limitò ad affermare «si arriverà su Viola».

Non si trattò, quindi, di una “spinta” del parlamentare nei confronti di Viola quanto, invece, di una constatazione. Insomma, non ci fu nessun accordo toghe- politica per pilotare la nomina di un procuratore compiacente a Roma e favorire Lotti, all’epoca imputato proprio nella Capitale. Quando l’errore venne scoperto, dopo oltre un anno, era ormai troppo tardi. L’iniziale clamore mediatico aveva determinato l’immediato azzeramento del voto in Commissione a favore di Viola e la sua estromissione dal concorso.

La stretta di Nordio sulle intercettazioni serve contro il fango giudiziario.  Federico Novella su Panorama il 07 Dicembre 2022.

Per anni, forse decenni, certe procure hanno fatto uscire grazie ad una certa stampa complice pezzi di conversazioni inutili ai fini dell'inchiesta ma perfette per rovinare vite. È ora di dire basta

L’Italia è il Paese dove, spesso, il banale è rivoluzionario. Il Ministro della Giustizia Carlo Nordio stamattina ha ripetuto il concetto: “"La diffusione arbitraria di intercettazioni non è civiltà né libertà" , bensì “una porcheria” e per combatterla "sono pronto a battermi fino alle dimissioni". Al di là del polverone che si è sollevato, sotto sotto sappiamo tutti che l’ex magistrato oggi Guardasigilli ha ragione da vendere: le intercettazioni sono uno strumento utile, che tuttavia in Italia è da anni oggetto di abuso. E una riforma è indispensabile.

Il Ministro, forte della sua esperienza da pm, ha le spalle abbastanza larghe per affrontare l’argomento senza girarci intorno. Ed era prevedibile che le sue parole venissero storpiate dagli avversari. La parte più giustizialista dell’opposizione, con certi giornali in scia, sta raccontando che Nordio vorrebbe abolire le intercettazioni, e alcuni giornalisti suonano l’allarme sulla fine della lotta alla mafia e alla criminalità. Ovviamente non è ciò che ha detto Nordio. Il Ministro ha semplicemente precisato che le intercettazioni, da strumento per ottenere prove, si trasformano troppo spesso nella prova stessa, divenendo in sostanza una trappola mediatica per “delegittimare” gli indagati o gli avversari politici. Allo stesso tempo, Nordio denuncia l’”intollerabile arbitrio” , spesso elevato a sistema, degli stralci di intercettazioni assolutamente estranee alle indagini, che inspiegabilmente filtrano dagli uffici giudiziari sulle prime pagine dei giornali. E anche questo, nessuno può negarlo: il mistero del fango giudiziario trasportato dalle cancellerie dei tribunali alle redazioni è sempre stato un giallo non chiarito della vita pubblica italiana, fin dai tempi di Tangentopoli. Per questo Nordio chiede una profonda revisione di questi istituti. E per l’appunto suona come disperata la risposta di chi, nel Pd, giudica “deludenti le frasi del Ministro”. Mentre truffaldina suona la risposta del manettarismo a cinque stelle, che tuona contro non si sa quale “attacco alla legalità”. E’ paradossale che a farsi paladini della legalità siano gli stessi che, su temi delicati come la sicurezza nelle città e l’immigrazione clandestina, portano avanti da anni la linea più lassista. E più in generale, è fallimentare il tentativo di confondere la legalità con il garantismo. Nessuno vuole eliminare le intercettazioni, ma regolarle è d’obbligo. Qualcun altro vorrebbe invece lasciare tutto così com’è: per poter continuare ad attaccare l’avversario politico tramite vie giudiziarie. O semplicemente per vendere qualche copia in più, sbattendo il mostro indagato in prima pagina, salvo poi dimenticarsene in caso di assoluzione.

Urge la riforma Nordio. Ecco le intercettazioni taroccate da Gratteri e le troppe persone innocenti arrestate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 8 Dicembre 2022.

Sono quei casi che un profano potrebbe ritenere rarissimi. Non sono rarissimi. Specialmente non lo sono a Catanzaro. Cosa è successo? Che un signore che si chiama Francesco Pannace, di 35 anni, è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto colpevole di un omicidio. Anche particolarmente ignobile. Aveva freddato con la pistola – secondo l’accusa e la Corte – un padre di famiglia che teneva per mano il figlioletto di sei anni. A incastrarlo alcune testimonianze dei pentiti, che però erano in contrasto una con l’altra, e dunque non potevano provare nulla, ma soprattutto una intercettazione, presentata dall’accusa, che era stata interpretata come una specie di confessione.

Pannace avrebbe detto a un amico: “Hai saputo? Mi hanno incastrato per l’omicidio Polito”. Per la verità non sembra una frase così chiara, ma alla Procura di Gratteri e alla Corte era sembrata chiara e inequivocabile. Al processo d’appello però gli avvocati hanno chiesto che si ascoltasse l’originale dell’intercettazione. E si è scoperto che nella trascrizione era stato tagliato un pezzo della frase. Pannace diceva: “Hai saputo cosa si dice in giro?”. Cioè semplicemente riferiva delle voci contro di lui che poi erano le voci che portarono alla sua incriminazione. Nessuna confessione. Anzi. I giudici della Corte d’appello non hanno avuto dubbi e lo hanno assolto.

Dicevamo che taroccare le intercettazioni a Catanzaro non è una cosa rarissima. Recentemente è emersa l’intercettazione taroccata con la quale due anni fa fu incastrato- appunto: incastrato, che non vuol dire “scoperto” – l’avvocato Pittelli. Era la voce di una signora che diceva al marito, considerato dall’accusa un mafioso: “qui abita l’avvocato Pittelli. È mafioso”. Più che sufficiente questa affermazione per spiccare il mandato di cattura. Poi l’intercettazione è stata ascoltata. Era diversa. La moglie chiedeva al marito: “Ma è mafioso?”, col punto interrogativo. Il marito rispondeva: “No: è avvocato”.

Lo show di Gratteri da Lilli Gruber, le bufale del pm: “Io garantista, tra i miei arresti non ce ne è uno infondato”

Pensateci un po’ a questi episodi. Ieri Gratteri ha dichiarato a un giornale che nessuno mai lo farà tacere perché lui è un uomo libero. Va bene: nessuno lo farà tacere. Il problema è se qualcuno gli impedirà di arrestare troppa gente innocente. Che non è libera perché lui, per sbaglio, li ha messi in cella. Magari ci penserà Nordio, se rispetterà la parola e riformerà drasticamente le intercettazioni. Speriamo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

(ANSA il 7 Dicembre 2022)  "Non è vero che ho accusato i pm di aver diffuso le intercettazioni" ma "c'è stato un difetto di vigilanza", "quando usando questo strumento delicatissimo che vulnera, non vigili abbastanza per evitare che persone che non c'entrano nulla con le indagini vengano delegittimate". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, illustrando le linee programmatiche. "Il vulnus non ha colpito solo politici e amministratori, ma anche magistrati", ha ricordato, citando anche Loris D'Ambrosio, deceduto "forse perché coinvolto in questa porcheria di diffusione arbitraria". "Sono disposto a battermi fino alle dimissioni", ha detto.

"Qualcuno ha detto che mi sono scatenato contro i pubblici ministeri, ma figuriamoci se uno che ha fatto il pm per 40 anni può scatenarsi contro i suoi colleghi. Potete immaginare che io possa volere una soggezione del pm al potere esecutivo? E' quasi un insulto. La separazione delle carriere non è soggezione all'esecutivo": questa è una 'speculazione' per non dire che il problema esiste". La ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in audizione alla Commissione della Camera sulle linee programmatiche.

"Reati evanescenti" come l'abuso di ufficio e il traffico d'influenze "vanno rimodulati", e "vi sono delle opzioni che vanno dalla abrogazione, a una maggiore accentuazione della tassatività e della specificità". Così il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, in commissione Giustizia. Nordio li ha definiti reati che "rendono i pubblici amministratori inerti, paralizzati" e "non per paura della condanna" ma di "dimissioni, estromissioni, fine delle carriere politiche, per la strumentalizzazione da parte di nemici e, soprattutto, di amici", che chiedono un passo di lato, insomma: "la morta politica di queste persone".

"Non ho mai detto e non dirò mai che le intercettazioni debbano essere eliminate. L'inchiesta che ho coordinato sul Mose ha avuto migliaia di intercettazioni, ma erano mezzi di ricerca della prova, non di prova" e "non è uscita una parola sui giornali, non è uscita una delegittimazione su un cittadino di Venezia o del resto d'Italia. Se si vuole si può, se non avviene vuole dire che c'è una culpa in vigilando". Lo ha detto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, rispondendo alle domande dei deputati dell'opposizione in audizione alla Commissione Giustizia.

"Voglio che qualcuno mi dica che è tollerabile che escano sui giornali", ha ribadito, ma "se esiste un modo per coniugare la forza delle indagine e la segretezza delle comunicazioni siamo perfettamente d'accordo". "C'è un rimedio? In parte c'è - secondo Nordio -, sono le intercettazioni preventive. E' vero che negli altri Stati esistono le intercettazioni, ma sono solo quelle che noi chiamiamo preventive: segretissime, servono come spunto di indagine e sono conservate nella cassaforte di chi le ha autorizzate sotto la sua responsabilità". "Non si troverà uno scritto in cui dico che vanno eliminate, vanno regolamentate, e impedito che chi non è direttamente coinvolto possa essere delegittimato", ha concluso.

"Si può immaginare se dopo aver fatto 40 anni di magistratura ho intenzione di attaccarla. E' solo perché sono deluso per il comportamento di alcuni, pochi, magistrati, e per l'amore che ho per la magistratura che mi rifiuto che abbia perso legittimità". Lo ha detto il Guardasigilli Carlo Nordio, rispondendo ai deputati. "Quando facevamo le indagini sulle Brigate rosse, e io ricevevo la stella a 5 punte a casa, la nostra credibilità era all'85%. Sa cosa pensano di noi gli italiani? Meglio non dirlo. E questo è un dolore", ha aggiunto, "se oggi la nostra credibilità è crollata è perché molti di noi hanno contribuito a farla crollare".(ANSA)

DAGONEWS il 7 Dicembre 2022. 

Nessun Pm della Procura di Milano è andato ieri sera ad assistere alla prima della Scala con il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nel carcere di San Vittore, come era previsto. 

La mancata partecipazione è una reazione, in evidente dissidio, alle affermazioni di Nordio sulle intercettazioni, ritenute gravi. Era prevista la presenza del Procuratore Capo, del Procuratore Generale e di vari Pm aggiunti, ma nessuno si è presentato, lasciando il Ministro con la sola “Mestizia” Moratti.

Vana l’attesa del Direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano che ha fatto rimuovere i posti a sedere dei pm assenti, alcuni dei quali sono andati direttamente al Teatro della Scala a seguire l’opera dal vivo.

Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 7 Dicembre 2022.

Giorgia Meloni approva, Matteo Salvini esulta e Carlo Nordio mette nero su bianco […] il programma del governo per la riforma della giustizia. […] Una «profonda revisione» della disciplina delle intercettazioni, la separazione delle carriere, la fine dell'obbligatorietà dell'azione penale che si è ormai tradotta in «intollerabile arbitrio» e, nella pratica immediata, l'accelerazione della riforma della giustizia civile per non perdere i fondi del Pnrr sono i capisaldi del lavoro che intende fare, con severità nei confronti della magistratura inquirente.

Il tutto nel giorno in cui in commissione Giustizia è stata votata l'abolizione della parificazione dei reati della Pubblica amministrazione con quelli di mafia, ai fini del diritto ai benefici penitenziari, misura - come denuncia il viceministro della Giustizia Francesco Sisto - che era stata voluta «dalla foga giustizialista dei Cinque Stelle: una delle battaglie storiche di Forza Italia si avvia così al successo». 

[…] Se Matteo Renzi apprezza ma attende che si passi «dalle parole ai fatti», il Pd con Walter Verini parla di relazione «deludente, contraddittoria, con alcuni contenuti inaccettabili» e il M5S insorge: «Nordio vuole la stretta alle intercettazioni, indebolisce la legalità: la lotta alla corruzione non è una priorità di questo governo». L'Associazione nazionale magistrati reagisce con delusione: «Sulle intercettazioni parole vaghe e ingenerose»

[…] Secondo Nordio la riforma del Codice penale va adeguata al dettato costituzionale. Bisogna intervenire perché la presunzione di innocenza «continua a essere vulnerata in molti modi», perché appunto c'è un uso «eccessivo e strumentale delle intercettazioni», perché «l'azione penale è diventata arbitraria e capricciosa» e la custodia cautelare è usata «come strumento di pressione investigativa». […]

Estratto dell’articolo di Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.

Carriere separate tra pm e giudici, meno intercettazioni, azione penale discrezionale su linee guida politiche, uso massiccio e repentino delle ispezioni nelle Procure: non tradendo attese né biografia, il ministro Carlo Nordio ha declamato in Senato il suo manifesto sulla giustizia. […] marcerà «la profonda revisione dei reati generici che intimoriscono sindaci, assessori e governatori: non solo abuso di ufficio ma anche concussione per induzione e traffico di influenze illecite, «vaghe e proteiformi fattispecie». Cambierà anche la legge Severino che sospende gli amministratori condannati in primo grado: «Applicata retroattivamente è una manifesta iniquità».

[…] Nordio intende spogliare il giudice per l'indagine preliminare della competenza a decidere sulle richieste di arresti cautelari delle Procure, affidandola a collegi di giudici incardinati nelle Corti di appello. Quindi più esperti e anziani, in grado di garantire «maggiore ponderatezza e omogeneità di indirizzo». Ma nulla dice sul fatto che le Corti di appello sono già il collo di bottiglia dell'organizzazione giudiziaria, con durata dei processi di 1167 giorni, dieci volte più che in Europa; che hanno organici sottodimensionati del 20%, con punte del 35%; che i bandi di reclutamento vanno regolarmente deserti.

Nordio vuole limitare le intercettazioni, sia telefoniche che ambientali che telematiche (virus trojan inserito nel cellulare). «Il loro numero è di gran lunga superiore alla media europea, e ancor più rispetto a quello dei paesi anglosassoni». […] Nei Paesi anglosassoni anche organi non giurisdizionali (polizia, autorità di regolamentazione di settore) possono disporre intercettazioni. In Italia no: il pm chiede, il giudice autorizza.

Le statistiche ministeriali dicono che negli ultimi anni le intercettazioni in Italia sono diminuite.

Le utenze-bersaglio (le persone sono meno, circa 65mila, perché in genere ne hanno più di una) erano 141mila nel 2013 (record) e oltre 121mila nel 2019; nel 2021 sono state 109mila (stima su dati del primo semestre). Merito di riforme e sentenze della Cassazione che hanno limitato fortemente in senso garantista le autorizzazioni e il travaso da un processo all'altro. Nordio ha aggiunto: «Gran parte delle intercettazioni si fanno sulla base di semplici sospetti e non concludono nulla. Non si è mai vista una condanna inflitta sulla sola base delle intercettazioni». In realtà, finora le critiche garantiste erano alla dominanza probatoria delle intercettazioni rispetto alle indagini tradizionali soprattutto per reati di mafia, corruzione, droga.

[…] Fioccheranno ispezioni nelle Procure in caso di fughe di notizie segrete. Quanto alla pena, il ministro di una coalizione bicefala prova ad accontentare i forcaioli («pena certa, eseguita e rapida») e i liberali («non significa tuttavia sempre e solo carcere»). Quindi pene alternative per i reati minori, patteggiamenti allargati e giustizia riparativa. Se tutto ciò andrà in porto, la fase due punterà a modificare la Costituzione. […] Csm a cui Nordio vuole cambiare i connotati su nomine e valutazioni professionali e sottrarre i processi disciplinari, affidandoli a un'alta corte di nomina mista (proposta Violante); appellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione, su cui a suo tempo Berlusconi fu respinto dalla Corte Costituzionale. […]

Estratto dell’articolo di Maria Corbi per “la Stampa” il 7 Dicembre 2022.

È l'avvocato più famoso d'Italia […] il decano dei penalisti che ha difeso da Giulio Andreotti a Silvio Berlusconi […] Franco Coppi sospira quando gli si chiede cosa pensa di questa annunciata riforma della Giustizia firmata Carlo Nordio. […]

Ma partiamo da Nordio, che ha annunciato una revisione della disciplina delle intercettazioni. «Vigileremo in modo rigoroso su ogni diffusione che sia arbitraria e impropria». Soddisfatto?

«Il segreto istruttorio esiste o non esiste […] Occorre rivedere il tema del segreto istruttorio non solo nella prospettiva delle intercettazioni, ma stabilirne i limiti e le sanzioni e come possa essere contemperato con le esigenze dell'informazione. Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova che va accettato se disciplinato bene. […]».

[…] Nordio vuole la divisione delle carriere dei magistrati. D'accordo su questo?

«Io affronterei invece il tema dell'immissione dei magistrati in ruolo. Ci si deve chiedere se il sistema sia al passo con i tempi. Si deve cambiare il concorso con forme che garantiscano veramente l'idoneità del candidato al ruolo, al di la delle conoscenze giuridiche. Ricordo una brillante studentessa che mi chiese la tesi; e voleva fare il pm perché "si sentiva giustizialista". Tutti 30 e 30 e lode, ma io non le ho dato la tesi».

Torniamo alla separazione delle carriere.

«Il problema non è la separazione delle carriere, ma separare le persone intelligenti da quelle che non lo sono. Una persona perbene e preparata sa come deve comportarsi da pm e da giudice». 

Quale sono i punti della giustizia da riformare secondo lei?

«[…] c'è sicuramente da rivedere l'udienza preliminare, che si è risolta in un fallimento, dove non c'è un effettivo spazio per le difese. Meglio andare direttamente al dibattimento. Oggi a Roma tra udienza preliminare e inizio del processo passa anche un anno. Ad allungare i tempi ci si mette anche il fatto che il giudice del processo non può conoscere gli atti dell'istruttoria». 

[…] Abuso di ufficio?

«Reato al limite della costituzionalità per mancanza di tassatività e determinatezza, […] di difficile definizione normativa e riscontrabilità pratica. […]».  […]

L'attacco al guardasigilli. L’innocenza dei pm non esiste, le procure insorgono per la riforma Nordio su intercettazioni e separazione carriere. Tiziana Maiolo su Il Riformista l’8 Dicembre 2022

Non se lo aspettavano, che dal bozzolo sarebbe uscita la farfalla. Nella prima riunione del Consiglio di ministri, il neo-guardasigilli Carlo Nordio pareva chiuso in se stesso, passivo, mentre si decidevano cose -il rinvio della riforma Cartabia, il peggioramento della norma sull’ergastolo ostativo, un decreto frettoloso e male scritto sui rave party– che rappresentavano il contrario di quel che lui negli anni aveva detto e scritto.

Si erano rilassati, dalle toghe militanti fino all’avvocato del popolo che sta girando l’Italia, soprattutto del sud, per difendere lo stipendio di Stato a chi non lavora, e anche il suo quotidiano di partito. Ma è stata sufficiente un’audizione in commissione Giustizia del Senato perché saltasse per aria il tavolo del conformismo giudiziario, appiattito da trent’anni sulla sub-cultura di Mani Pulite, nonostante gli sforzi di tanti ministri, ultima Marta Cartabia. Dal bozzolo in cui stava rinchiusa quel 31 ottobre è uscita poco più di un mese dopo la farfalla-Nordio con il suo programma, i suoi cavalli di battaglia, la sua storia. E pareva stesse leggendo uno dei suoi libri, uno dei suoi tanti articoli. Non ha ceduto su nulla. Ha evocato lo spirito di Vassalli e la sua riforma del processo del 1989 con l’introduzione del sistema “tendenzialmente” accusatorio.

Ma ha anche annunciato implicitamente che quell’avverbio che aveva denotato un coraggio a metà, andrebbe abolito per sposare il sistema del common law, che prevede la discrezionalità dell’azione penale e la separazione delle carriere fino a portare il pubblico ministero fuori dallo stesso alveo della magistratura. Il giudice e il pm svolgono ruoli diversi, ha detto il guardasigilli, e non possono percorrere la medesima carriera. Facendo insorgere non solo il sindacato delle toghe, ma anche ex procuratori considerati mostri sacri come Giancarlo Caselli e Armando Spataro. Con argomenti, spiace dirlo, molto banali oltre che scontati e un po’ bugiardi. Come si fa infatti a parlare ancora di “cultura della giurisdizione” del pm, dopo i metodi usati dalla Procura di Milano nelle inchieste di Tangentopoli ma anche nel recente processo Eni, o quelle di Nicola Gratteri in Calabria? E vogliamo parlare dell’obbligo per legge del pm di raccogliere anche le prove a favore dell’indagato?

Naturalmente il ministro sa bene che questo tipo di riforma, di rilievo costituzionale, può essere solo un programma di legislatura, per i tempi tecnici necessari per cambiare la legge delle leggi. Alla Camera sono già pronte le proposte di partiti di governo sulla separazione delle carriere. Ma intanto sarà il lavoro quotidiano della formichina a decidere se davvero quella di Carlo Nordio, prima di arrivare alla rivoluzione copernicana da lui (e da noi) auspicata, sarà la svolta della giustizia che il Presidente delle Camere Penali Giandomenico Caiazza già vede come l’apertura di una “nuova stagione dopo le storture viste in questi decenni”. La custodia cautelare, non solo in carcere, prima di tutto. E la disciplina sulle intercettazioni con la loro divulgazione, quella che ha fatto venire l’orticaria ieri al sindacato dei magistrati, che si è sentito chiamato in causa da quella battuta su ispezioni ministeriali contro “ogni diffusione impropria”.

È vero, come ha ricordato con tono saputello l’Anm, cha esiste già una riforma del 2017 che dovrebbe preservarne la riservatezza, ma è ancor più sacrosanto il fatto che gli atti giudiziari, soprattutto quando riguardano il mondo della politica, sono dei veri colabrodo. E sono armi micidiali contro il principio di non colpevolezza dell’indagato e la sua reputazione. E il pm, che dovrebbe essere il custode sacro della segretezza degli atti, non ne risponde mai quando questa viene violata. E non bisogna dimenticare la necessità di scindere anche la complicità tra magistrati, forze dell’ordine e giornalisti. Ma c’è tutta una lunga meticolosa attività quotidiana di formichina che il ministro di Giustizia, e con lui il Parlamento, può avviare per poi giungere alla rivoluzione copernicana.

Due giorni fa nel pomeriggio per esempio, nella stessa giornata in cui i senatori avevano interloquito al mattino con il guardasigilli, la commissione Giustizia di Palazzo Madama aveva approvato un emendamento del capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin di modifica della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro grillino Bonafede. Un emendamento che ha sottratto i reati contro la Pubblica amministrazione all’elenco di quelli “ostativi”, che impediscono la possibilità di accedere ai benefici penitenziari, come accade per la mafia e il terrorismo. Un tentativo già portato avanti in aula nella scorsa legislatura, ma con poca fortuna, dal deputato di più Europa Riccardo Magi.

Un passo in avanti, per il ripristino della civiltà giuridica, votato anche dal senatore Ivan Scalfarotto di Italia Viva. Naturalmente ci sarà da fare i conti con le contraddizioni sempre più convulse degli esponenti del Pd. Che si sono astenuti, ma che hanno già fatto sapere, dalla voce della responsabile giustizia Rossomando, che faranno rientrare negli ostativi l’aggravante associativa. Con il risultato (possibile non lo capiscano?) che il reato associativo sarà contestato più spesso. O qualcuno crede ancora a Babbo natale e all’innocenza di certi pm?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Da Casarini a Gori, i supporter che non t’aspetti per Nordio «garantista». Storia di Lorenzo Salvia Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.

«Non sono certo amico di ma non posso che condividere con lui la volontà di mettere un freno a questo strapotere dei magistrati». Ricordate Luca Casarini? Ex capo dei Disobbedienti veneti negli anni ‘90, leader del Movimento no global italiano, oggi vive a Palermo e lavora con una ong che si occupa de i migranti in arrivo dalle coste africane. Una voce di sinistra, sebbene irregolare per definizione e per metodo. Che però appoggia gli interventi annunciati dal ministro della Giustizia, iscrivendosi di diritto al fronte pro Nordio che non t’aspetti.

E sull’eliminazione preventivo sono completamente d’accordo con lui» ha detto ieri al Corriere del Veneto, dopo una discreta serie di post e di interventi vari in cui aveva già messo agli atti la sua posizione. Certo, dietro un ragionamento politico c’è spesso un concreto elemento autobiografico. Forse anche stavolta è così. Casarini è indagato per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, le intercettazioni delle sue telefonate sono state pubblicate facendo scoppiare un caso: «Ma ero contro la diffusione delle intercettazioni ben prima che capitasse a me» assicura lui, che poi chiama in causa addirittura Berlusconi: «L’accanimento giudiziario contro di lui a cosa ha portato? A vent’anni di berlusconismo».

Resta il fatto che quella di Casarini non è l’unica sorpresa tra le voci a sostegno della riforma annunciata dal nuovo ministro della Giustizia. Difficile immaginare una sinistra più lontana da Casarini rispetto a quella rappresentata da Giorgio Gori, sindaco di Bergamo per il Pd. Eppure, il suo tweet pubblicato pochi giorni fa esprime gli stessi concetti: «Il garantismo è il fondamento dello Stato di diritto». E poi: «Le proposte di Nordio — rafforzamento presunzione d’innocenza, separazione carriere tra pm e giudici, stop abuso carcerazione preventiva e intercettazioni — vanno sostenute. Stop al giustizialismo di destra e di sinistra». Tra i commenti sotto il suo post, che naturalmente non costituiscono un campione statisticamente rappresentativo, ci sono tanti complimenti. Ma anche chi gli dice «basta, vai con Renzi».

Ecco, Renzi. alle riforme annunciate dal ministro Nordio non è certo una sorpresa. Resta il fatto che si tratta di un partito che sta all’opposizione, anche se mai dire mai. E che lo stesso Renzi fino al 2017, non una vita fa, era proprio il segretario del Pd.

Nel fronte pro Nordio che non t’aspetti c’è anche Anna Paola Concia, deputata del Pd fino al 2013. Anche lei ha scelto Twitter per sostenere il ministro della Giustizia dopo il suo intervento in Parlamento: «Bravissimo Nordio oggi in commissione Giustizia. Speriamo riesca a fare tutto quello che promette».

Ex di molte cose — tra tutte, consigliere di Massimo D’Alema a Palazzo Chigi — Claudio Velardi è abituato ad andare controcorrente. A volte anche per il gusto di sparigliare, ma stavolta la questione è seria: «Sulla giustizia —scrive su Twitter — hanno fallito tutti i governati del passato. Se il ministro Nordio fa l’ottima riforma annunciata, avvia a soluzione il principale problema italiano dell’ultimo trentennio». E ancora: «Se ci riuscirà, il governo di Giorgia Meloni acquisirà un merito storico. Se». L’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione, verrebbe quasi da dire.

Il processo a cosa serve? Intercettazioni usate come gossip e materiale scandalistico: la lapidazione vissuta sulla mia pelle. Luca Casarini su Il Riformista l’8 Dicembre 2022

Non so se alla fine Nordio potrà fare quello che dice. Non so quanto sia ostaggio o vera anomalia di questo governo. Da eretico fruitore di “Law and Order”, ho ben presente quale possa essere l’utilità, in termini di immagine e consenso, dei contrasti sbandierati che poi servono solo a “rafforzare” il sistema. La vecchia storia del poliziotto buono e di quello cattivo, insomma. Vedremo.

Certo è che quando il neo ministro dichiara al Senato che le “intercettazioni sono utilizzate per delegittimare politicamente l’avversario”, dice una sacrosanta verità. Lui è al governo con quelli che proprio su questo hanno costruito la loro fortuna politica, con tanto di carriere folgoranti come quella del suo collega Salvini, passato direttamente dalla Ruota della Fortuna a un reddito di cittadinanza a molti zeri da più di vent’anni e a un futuro vitalizio per una serena vecchiaia. Da allora, da quando il suo partito, la Lega, faceva oscillare il cappio in Parlamento al grido di “Di Pietro coraggio c’è ancora il terzo raggio”, l’uso “politico” di spie, microspie, intercettazioni, telecamere nascoste e quant’altro, uso politico e non solo giudiziario, con processi celebrati sui media prima e a volte unicamente, non nei tribunali, ha avuto un crescendo esponenziale.

Questo paese certo, ha conosciuto ben prima di Tangentopoli sia l’abuso del controllo, sia l’utilizzo della carcerazione preventiva come mezzo per far parlare l’indagato. Gli anni 70 e tutta la legislazione di emergenza non sono stati uno scherzo per lo “stato di diritto”. Ma oggi vi è un di più. La “Information Society”, la società dei media, “dello spettacolo” come la descriveva Guy Debord, ma moltiplicato mille. Le tendenze autoritarie, manettare, giustizialiste connaturate fisiologicamente ad ogni democrazia in crisi, si fondono con la mutazione antropologica che ha trasformato i “sapiens” in “Homo Social”. Ne esce un quadro che giustamente Nordio, parlando delle gogne mediatiche imbastite su conversazioni private, manipolate da sapienti “copia incolla” e utilizzate per sbattere il mostro in prima pagina, definisce “inquietante ed inaccettabile”.

Certo, i travagliati apologeti del Minority Report dall’altra parte, dicono che senza intercettazioni a pioggia, non si sarebbero sconfitte mafie e terrorismi. E che questo abdicare al diritto di restare innocente finché un regolare processo non provi il contrario, è un “incidente collaterale” accettabile. Io penso invece a quella mattina, quando mi sono piombati in casa molti poliziotti di varie “specializzazioni”, con un mandato di perquisizione in mano. Mentre stavano facendo il loro lavoro, uscivano già le agenzie con gli stralci delle intercettazioni, che “sapientemente” il pm aveva trascritto sul provvedimento, in modo da non incorrere nel reato di divulgazione di notizie secretate. Non c’è stato bisogno nemmeno delle classiche “veline”: dalla Procura, non saprei dire da dove altro, qualcuno aveva inviato il tutto a giornalisti “amici”, che stavano scrivendo a nove colonne la sentenza.

Io sono stato condannato, e con me i miei coindagati, mentre ancora la polizia stava “cercando”. Le intercettazioni inoltre, non possono certo restituire la complessità di un dialogo, il tono, il contesto, quello che si dice alla fine. Ci vorrebbero giornali di tremila pagine, e poi chi li leggerebbe? Ci vuole un titolo ad effetto, per vendere quella mercanzia. E quindi “frasi”, prese da trascrizioni di mesi ( perché tanto durano le intercettazioni, mica due giorni) e se fai la cazzata di dire una parola sbagliata, o di scherzare troppo al telefono, sei morto. Marchiato dallo stigma. Perché quello che dovrebbe essere parte di una attenta e scrupolosa valutazione degli inquirenti nel segreto delle indagini, diventa gossip, materiale scandalistico, lapidazione pubblica.

Il processo a quel punto a cosa serve? L’obiettivo è già stato raggiunto. Che era sicuramente altro dal “fare giustizia”. Lo so, il fatto che sia capitato a me, e oggi ne scriva, magari non c’entra con il dibattito che si è scatenato nei palazzi dopo le dichiarazioni del Ministro. E forse lui si riferiva ai danni patiti dai potenti, da Renzi, Berlusconi etc. Ma a me non cambia l’opinione questo. Come non sono mai stato un fan di Di Pietro e dei metodi del pool quando erano dei santi intoccabili, allo stesso modo credo che in un paese civile quello che hanno fatto con molti esponenti politici da me lontanissimi e di cui vado fiero di essere avversario radicale, sia vergognoso. E pericoloso per tutti.

Nel frattempo, il solito collega di governo di Nordio, ha in questi giorni montato l’ennesima bufala contro le Ong, addirittura utilizzando “intercettazioni effettuate da un sommergibile”. L’uso politico delle intercettazioni non ha limiti, e chi dovrebbe inabissarsi per quello che ha fatto a donne, uomini e bambini da Ministro, invece emerge. Luca Casarini Valeria Di Corrado per “Il Messaggero” il 5 settembre 2022.

«Sulle intercettazioni, in Italia, c'è un vero e proprio Far West.

Siamo addirittura stati messi in mora dall'Ue, nonostante il Copasir abbia denunciato con documenti approvati all'unanimità, per ben tre volte nell'attuale legislatura, le ricadute che questa situazione ha sulla privacy dei cittadini e sulla sicurezza nazionale». 

Il senatore Adolfo Urso, presidente del comitato che esercita il controllo parlamentare sull'operato dei servizi segreti italiani, dà manforte all'ex magistrato Carlo Nordio, candidato alle elezioni politiche nelle liste di Fratelli d'Italia, che proprio due giorni fa è intervenuto a Mestre sul tema: «Per uscire dalla crisi si può risparmiare anche su tutti gli sprechi che ci sono nel mondo della giustizia, a cominciare dalle intercettazioni telefoniche ambientali che costano 200 milioni di euro l'anno, con i quali si potrebbero assumere segretari e cancellieri per accelerare il corso dei processi».

«Nordio ha scoperchiato un vaso di Pandora - commenta il senatore Urso - In primo luogo esiste un problema sull'uso massiccio di questo strumento da parte dei pm italiani, con il ricorso, spesso, ad intercettazioni a strascico: siamo il Paese più intercettato al mondo, in rapporto alla popolazione». Basti pensare che ogni anno ci sono circa 130mila bersagli, di cui 110mila utenze telefoniche che restano sotto intercettazione una media di 57 giorni. Il 12% di questi bersagli sono comunicazioni di tipo ambientale, mentre il 3% di tipo telematico (i cosiddetti trojan).

«La seconda criticità è legata al fatto che non c'è controllo di alcun tipo sulle tariffe e sulle società a cui vengono affidate le captazioni. Siamo sotto infrazione europea - precisa il presidente del Copasir - perché le Procure si rifiutano di applicare la legge e di consegnare i contratti secretati alla sezione speciale della Corte dei conti istituita a questo scopo». 

La Commissione europea, infatti, ha messo in mora l'Italia perché non ha ottemperato a una specifica direttiva del 2011 che assimila i contratti per le intercettazioni a transazioni commerciali. In quanto tali, andrebbero quindi sottoposti a un controllo preventivo e successivo da parte della Corte dei conti; nello specifico, alla Sezione centrale per il controllo dei contratti secretati. 

Ma, come evidenziato nella relazione trasmessa alle Camere lo scorso 19 agosto sull'attività svolta dal Copasir, «appare ancora eccessivamente esiguo il numero delle Procure della Repubblica che sottopongono alla preposta Sezione della Corte dei conti i contratti relativi alla fornitura di sistemi di intercettazione».

«Questo comporta che ci sia una differenza abnorme dei costi, con Procure che spendono mille per un'intercettazione e altre che spendono cento», spiega Urso. Le più spendaccione sono quelle di Palermo, Roma, Napoli, Milano e Reggio Calabria. Nel 2019, a fronte di uno stanziamento complessivo di bilancio da 125 milioni e 352 mila euro per le intercettazioni, ne sono stati utilizzati 191 milioni. Per il 2021 e il 2022, invece, lo stanziamento si è leggermente ridotto: a 213,7 milioni di euro l'anno. 

La riforma Orlando della giustizia ha previsto misure di razionalizzazione in questo settore. Il 18 febbraio 2021 era stato inviato al Parlamento un decreto ministeriale dall'allora capo del dicastero, Alfonso Bonafede, che aveva individuato una sorta di listino, con prezzi massimi per ogni tipo di prestazione: 2,40 euro al giorno per un'intercettazione telefonica; 75 euro per un'ambientale; 120 euro per una telematica.

Ma il ministro Marta Cartabia ha ritirato questo decreto, spiegando che «armonizzare le tariffe è un elemento problematico nell'interlocuzione con le Procure; il tariffario proposto è stato considerato troppo rigido», si legge nella relazione del Copasir approvata lo scorso 21 ottobre sulla disciplina per l'utilizzo dei contratti secretati, che ha come relatori il senatore M5S Francesco Castiello e il deputato Elio Vito (ex FI). Riguardo invece la direttiva europea che l'Italia non ha rispettato, la Cartabia «sta valutando la richiesta di un'interpretazione ufficiale alla Corte di giustizia dell'Unione europea».

Manca, infine, un controllo sulle società a cui le Procure affidano le intercettazioni: non esiste un albo di tali agenzie e spesso alcune hanno i server all'estero. Ciò comporta delle criticità sulla «conservazione e gestione dei dati raccolti», allerta il Copasir. Lo dimostra, per esempio, il caso Exodus, un software usato da diverse Procure che, nel corso del 2019, è stato oggetto di indagine a Napoli. «Se non c'è certezza della distruzione delle intercettazioni non rilevanti, come quelle captate a strascico dai trojan, rischia di azionarsi - conclude Urso - un sistema di ricatto che mina non solo la privacy, ma la sicurezza nazionale».

Uccisi dalla gogna. Morire di intercettazioni, le storie dei pm D’Ambrosio, Coiro e Misiani: le tre bombe della malagiustizia. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Morire di inchiesta giudiziaria, morire di intercettazioni, morire di reputazione distrutta. Lo abbiamo visto accadere troppe volte, soprattutto nel mondo politico o quello delle amministrazioni locali, in terra di mafia. Ma se mettiamo insieme anche la possibilità di “morire di Csm”, ecco che si parla dell’assassinio di magistrati. Morte professionale e toga sporca, locuzione cara a certi giornali.

Il ministro Carlo Nordio ne ha citati tre, di questi magistrati, nel suo discorso di programma alla Camera dei deputati. Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Presidente Giorgio Napolitano, ucciso nel 2019 a 64 anni da un vero infarto giudiziario per un’intercettazione con l’ex ministro Nicola Mancino, nelle indagini nel fallimentare “processo trattativa”. Avrebbe dovuto portare pazienza, potrebbe commentare il cinico, visto che due anni dopo, con l’assoluzione di tutti gli imputati in appello, il processo finì dove avrebbe sempre dovuto stare, nel cestino della carta straccia. E chissà se il senatore Scarpinato, che finalmente può lottare a viso aperto con quel ruolo politico che alle toghe non dovrebbe essere consentito, ogni tanto ripensa al recente passato in cui fu pg nel “processo trattativa” e a quel collega morto di crepacuore all’ombra di quelle inchieste finite con la bocciatura dei giudici di Palermo.

Il secondo nome citato dal Guardasigilli è quello di Michele Coiro, che fu tra i fondatori di Magistratura Democratica, e poi Procuratore capo a Roma verso la fine degli anni novanta, e lui stesso membro di quel Csm che fu covo di serpi nei suoi confronti. E lui c’è morto, di ictus, a 71 anni. E allora, ma solo allora, gli furono tributati i funerali di Stato. I membri del Csm, tranne un paio di amici personali, rimasero a casa, quel giorno. Nel picchetto d’onore alla bara rimase per molte ore un pm che aveva lavorato con lui e che indosserà la toga per l’ultima volta, Francesco “Ciccio” Misiani, travolto insieme al suo capo dalla furia del famoso rito ambrosiano dei tempi di Mani Pulite. Morirà nel 2009, di malattia, un po’ come Enzo Tortora quando disse “mi è scoppiata una bomba dentro”.

La bomba della malagiustizia. Che vedrà questo altro esponente importante di Md tradito dai “compagni” che a Milano avevano saltato il fosso e abbandonato il tradizionale garantismo della corrente, e poi esposto alla gogna peggiore. Con le telecamere in agguato dietro la porta dell’ufficio mentre ancora non sapeva di essere indagato, lui toga rossa, dalle toghe rosse di Milano. In un processo per il quale sarà assolto anni dopo “perché il fatto non sussiste” da un reato di favoreggiamento ormai prescritto, mentre la Procura colse l’occasione per non ricorrere in appello.

Ciccio e Michele erano due amici. Due magistrati democratici e garantisti. Bisognerebbe ricordare che cosa era la corrente di Md della magistratura, in quegli anni precedenti alle inchieste di Tangentopoli e alla nascita di quel mostro che verrà chiamato “rito ambrosiano” che ruppe ogni schema, trasformò gli amici in calunniatori e la logica del sospetto mise sotto la lente di ingrandimento chiunque fosse fuori dal fortino del quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, uffici della Procura della repubblica. Ciccio Misiani è finito dentro un imbroglio, interrogato due volte dai pm milanesi Gherardo Colombo e Ilda Boccassini sulla base di un’intercettazione che tale non era. Il magistrato romano era stato visto da un poliziotto in un locale, il bar Mandara di Roma, insieme al capo dei gip Renato Squillante, già inquisito per corruzione e che poco dopo sarà arrestato.

L’agente, che evidentemente controllava l’alta toga romana, aveva cercato di origliare e preso appunti su un tovagliolino di carta. Nella relazione aveva aggiunto qualche considerazione personale per far apparire Misiani nella veste di consigliere e complice. Emergerà in seguito che lui, di fronte ai timori del superiore di essere arrestato, visto che ormai giravano voci, si era limitato a dirgli di stare tranquillo e dire la verità ai colleghi, dal momento che Squillante si dichiarava innocente e sosteneva di essere in possesso di denaro vinto in borsa. Ma la graticola del Csm, oltre che, nel caso di Misiani, il processo penale, fu la fine per i due esponenti di Magistratura democratica. Coiro a un certo punto non resse più al sospetto e all’isolamento, dopo aver scoperto che in un altro bar romano frequentato da magistrati, i suoi colleghi milanesi avevano messo una microspia per spiarli tutti. La pratica per il suo trasferimento fu troncata a metà dalla sua decisione di accettare la proposta del ministro Flick di andare a dirigere il Dap. Sarebbe stato un ottimo capo delle carceri, se un ictus non lo avesse fermato pochi mesi dopo.

Ciccio Misiani aveva invece affrontato il procedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale con astuzia politica, oltre che con l’angoscia di chi sente non solo di subire un’ingiustizia ma anche di essere tradito da coloro che considerava i suoi amici e compagni: Gherardo Colombo, Ilda Boccassini e soprattutto Francesco Greco, suo ex uditore, il più “rosso” di tutti, quello che nelle riunioni bisognava sempre trattenere perché il suo dogma era “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”. Misiani con il suo discorso sincero e appassionato era riuscito a spaccare il Csm e la sinistra. Il ruolo dell’accusatore era svolto dal professor Fiandaca e il vicepresidente era il professor Carlo Federico Grosso, altro insigne giurista, indicato dal Pds. La votazione finì 11 a 11, con il voto favorevole al trasferimento del vicepresidente che valeva doppio.

Così Francesco Misiani fu mandato a Napoli, finché non decise poi di lasciare la magistratura. Solo in seguito fu assolto nel processo milanese di primo grado. Poi la malattia, e il ricordo di quella toga che aveva indossato per tanti anni e che aveva dovuto abbandonare dopo la morte del suo amico Coiro. Che differenza fa? Infarto o ictus o quella bomba che ti scoppia dentro. Questi tre magistrati sono stati uccisi, e Carlo Nordio bene ha fatto a ricordarli. Bravo ministro, te ne siamo grati. Uno dei tre, Ciccio, era mio amico, e quella frase che gli dissi al funerale del suo capo “Ti raccomando non farci scherzi anche tu” e che lui ha citato nel libro “La toga rossa”, significava proprio non lasciarti uccidere. Purtroppo è accaduto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Così combattiamo la nuova piaga criminale delle estorsioni online». La guerra ma anche i raid estorsivi alle aziende. E la zona grigia dei mediatori. Parla Roberto Baldoni il capo della Cybersicurezza italiana. «Siamo partiti tardi ma la nostra catena di comando è corta. Presto altre assunzioni». Giancarlo Capozzoli su L'Espresso il 9 Agosto 2022

Roberto Baldoni, lei è da un anno il direttore dell’Agenzia per la cybersicurezza nazionale. L’Agenzia delle entrate è stata attaccata, cosa è accaduto?

«È stato attaccato uno studio di commercialisti. La cyber gang ha pensato erroneamente di essere all’interno del sistema tributario nazionale e ha dato la notizia sul suo sito scatenando il panico. Ma sia l’infrastruttura digitale di Sogei, che è la società partner tecnologico della Agenzia delle entrate, sia i server dell’Agenzia non hanno riscontrato danni. Alcune infrastrutture digitali che gestiscono servizi critici per la sicurezza nazionale, come il sistema tributario, sono all’interno del cosiddetto “perimetro di sicurezza nazionale cybernetica”, una legge approvata all’unanimità nel novembre 2019. Il perimetro impone una serie di misure di sicurezza molto elevate definite dal Dis, Dipartimento informazioni per la sicurezza, la struttura da cui io provengo».

Sono inattaccabili?

«Il rischio zero non esiste, ma seguendo queste misure certamente si aumenta di molto il costo che un attaccante deve sostenere per penetrare la vittima e questo la rende meno appetibile».

L’Agenzia che lei dirige ha compiuto un anno il 6 agosto. Un primo bilancio? 

«Un anno fa ero l’unico dipendente, ora siamo 100 e saremo 300 alla fine del 2023. È stato un anno fondamentale in cui abbiamo corso parecchio. Pandemia e guerra hanno avuto un forte impatto sul numero degli attacchi cyber. E le cyber gang criminali sono in costante crescita. Tutto questo ha dato una accelerazione formidabile alla nostra crescita. Se lo smart working non è configurato e gestito adeguatamente dai gestori dei sistemi aziendali può creare vulneralbilità in più e le cyber gang le hanno sfruttate per le loro attività di ransomware».

E sul versante bellico?

«Oltre agli attacchi meno evidenti che riceviamo costantemente, ci sono state le tre ondate di attacchi che abbiamo ricevuto nel maggio scorso, di tipo Ddos (Distributed denial of service) con lo scopo di rendere non accessibili siti nazionali rilevanti, da parte del gruppo di matrice russa Killnet. Farci trovare operativi e reattivi mentre creavamo l’Agenzia da zero è stata una sfida affascinante. Nella prima ondata sono stati attaccati i siti di grandi organizzazioni statali e diversi sono stati messi offline. Abbiamo studiato questi attacchi e nel giro di 20 ore abbiamo stabilito delle regole per poterci difendere. Regole che hanno fatto sì che alla seconda ondata di attacchi, il numero di siti di organizzazioni governative primarie andati offline siano diminuiti fortemente. Alla terza ondata, nessun sito governativo di una certa rilevanza è andato offline».

Più ci evolviamo, più diventiamo vulnerabili. Scenari che ci apparivano fantascientifici si realizzano. Che contromisure abbiamo a disposizione?

«Più diventa grande la massa del software utilizzata, più diventa difficile mantenere tutto il software stesso aggiornato e ben configurato. Siamo passati dalle 6.500 vulnerabilità scoperte nel mondo e raccolte dal Cve (Common vulnerabilities and exposures) nel 2016 alle oltre ventimila del 2021. I software andrebbero immediatamente aggiornati quando i produttori intervengono. I ritardi creano finestre di vulnerabilità. Dobbiamo imparare a gestire questo rischio come cittadini, come impiegati, come dirigenti d’azienda. Le vulnerabilità cibernetiche saranno sempre in continuo aumento. Se ne aggiungeranno di nuove che si aggiungeranno a quelle del passato. Se non opportunamente mantenuti, i software aumentano nel tempo le loro stesse vulnerabilità. A questo va aggiunto che più pezzi di software facciamo più bisogna montarli assieme, interfacciarli, in quelle che si chiamano configurazioni».

Proprio come per la configurazione dei sistemi di smart working durante la pandemia?

«Esattamente: si portano fuori, delle connessioni a delle applicazioni che prima erano all’interno del firewall e se non viene configurato bene il sistema, si creano delle aperture da dove l’hacker può entrare». 

È difficile stabilire il numero esatto delle vulnerabilità potenziali? 

«Si stima con le stesse tecniche matematiche per quantificare il numero dei pesci in un lago. Sappiamo che è in continua crescita. Detto ciò, deve essere altrettanto chiaro che dal mondo digitale in cui siamo immersi non è possibile tornare indietro».

Anche perché ha vantaggi straordinari.

«Di efficienza, di conoscenza e di velocità. Non avremmo più una economia competitiva. Andare avanti significa saper gestire il rischio, proprio come accaduto con la diffusione dell’automobile. Non attraverseremmo mai una strada trafficata senza guardare a destra e a sinistra. Questa consapevolezza che pur non azzera il rischio, rende il pericolo di essere investiti poco probabile. Questa è la mentalità che dovremo avere ciascuno per il proprio ruolo. Se un cittadino deve stare attento a non aprire gli allegati sospetti delle mail e ai siti che visita, il Ceo di un’azienda deve sapere che è necessario attivare dei framework di gestione del rischio cyber che deve governare in linea con le migliori best practices internazionali».

Un salto di qualità nella nostra cultura digitale? 

«Veniamo da un mondo prettamente fisico e stiamo entrando in un mondo che ibrida il fisico con il digitale. Nel mondo fisico ci sono delle regole di sicurezza chiare e stabili e che derivano dalla conoscenza che ci tramandiamo tra le generazioni. In questo mondo ibrido le regole di sicurezza cambiano nel tempo e dipendono dalle tecnologie e dai tipi di attacchi».

E dagli alert dell’Agenzia?

«L’Agenzia dovrà essere un faro che ricava le regole di sicurezza da adottare studiando l’attacco in corso o dando misure di sicurezza a scopo preventivo».

Che sono in costante aggiornamento? 

«L’avvento del quantum computing renderà lo scenario tecnologico molto diverso da quello attuale. Si supereranno alcuni problemi di sicurezza attuale, ma se ne creeranno di nuovi a cui dovremo trovare delle risposte lungo la strada. Cosa che abbiamo cominciato a fare a livello internazionale definendo algoritmi di cifratura che sono in grado di resistere ad attacchi portati da computer quantistici. Ma contemporaneamente il quantum porterà immense opportunità economiche e di conoscenza per la società. Quindi gestire il rischio e cogliere le opportunità, questo sarà il nostro futuro di società».

Con una partecipazione attiva della vigilanza da parte di tutti, è così?

«Nella cyber security non si delega. Nel mondo fisico il cittadino delega la difesa dei propri confini nazionali alle forze armate: in questo ambito non si può delegare. Bisogna seguire le indicazioni che dà l’Agenzia ed implementare queste indicazioni nei propri sistemi. Dallo smartphone o dal pc dell’utente domestico al sistema informativo aziendale».

Quanto l’Italia è indietro?

«Siamo partiti tardi rispetto alle altre esperienze europee: trent’anni dopo la Germania, 15 dopo la Francia, 20 anni dopo Israele. Nel 2013 il Dpcm Monti ha dato una prima organizzazione. Nel 2017, è stata fatta una revisione con il Dpcm Gentiloni, con il quale veniva posto, al centro di questa architettura cyber nazionale, il Dis. Dal 2018 abbiamo iniziato a creare una certa capacità di resilienza a livello nazionale anche in termini di acquisizione di personale specializzato. Siamo in cento anche se con prospettive di crescita fino ad ottocento entro il 2027. Numeri comunque inferiori agli oltre 1000 impiegati nelle agenzie dei nostri colleghi francesi e tedeschi. Ma questo ritardo ci ha dato la possibilità di studiare le esperienze dei nostri colleghi europei, israeliani e americani e creare un’Agenzia che già a livello normativo superasse certe problematiche».

Quali?

«La prima e più importante, quella del coordinamento: il premier è il capo della cyber security. Significa aver compreso a fondo che è strategica per il nostro futuro. In Germania, l’Agenzia dipende dal ministero degli Interni. È complesso coordinare giganti come il ministero della Difesa o quello dell’Economia. Tanto che stanno studiando una legge che riprende i principi della nostra agenzia creando una catena di comando corta come la nostra».

Il mondo cyber non ha confini, vale in termini di dominio su uno spazio dentro al quale i singoli Paesi si muovono. Una condizione che i criminali informatici conoscono bene. La territorialità della risposta è un limite, invece?

«Nel cyber spazio tutti confinano con tutti: una cyber gang può aver il suo capo agli antipodi ma può attaccare senza problemi una nostra infrastruttura. Parliamo di organizzazioni che per definizione sono distribuite in varie nazioni e a più livelli. Che permettono di attaccare da più parti. Gli attacchi Ddos di maggio scorso sono arrivati da server ospitati in oltre 40 Paesi diversi».

Come si regola la risposta transnazionale?

«La Nato ha già definito il cyber come un dominio di guerra al pari degli altri domini. La differenza fondamentale è che nel mondo fisico tutto può essere molto più palese, evidente come l’attribuzione di una certa azione. Certamente la Russia ha attaccato l’Ucraina. Nel mondo virtuale queste certezze sono molto più difficili da raggiungere. Arrivare ad una attribuzione di un attacco cyber, a meno che non ci sia una chiara rivendicazione, può essere molto complesso».

Con quello che comporta in termini di controattacco?

«Il cyber è un mondo dove è molto facile lasciare “false flag” all’interno di uno scenario di attacco. Per questa ragione, bisogna stare molto attenti quando si attribuisce un attacco a qualcuno e pertanto agire sempre con estrema cautela. Il mondo anglosassone è molto più proattivo rispetto al mondo latino in termini di attribuzione. E in ambito Nato una attribuzione in ambito cyber rischia di generare risposte a livello cinetico con la possibilità di una escalation».

L’Agenzia si occupa del versante civile.

«La cyber defense è delegata al Comando operazioni in rete (Cor) per la difesa delle infrastrutture digitali militari, l’Agenzia si occupa invece della cyber resilienza del sistema Paese, dalle sue infrastrutture critiche fino ad arrivare progressivamente a tutti i cittadini».

Come ridurre la portata degli attacchi ransomware, le estorsioni del mondo cyber? 

«Una vera piaga criminale. Noi stiamo cercando di capire come diminuire queste ondate di ramsonware sia trovando soluzioni tecniche adeguate sia distruggendo del tutto o in parte il modello di business associato a questo tipo di attacchi ovvero rendendo meno profittevole questa industria criminale che si sviluppa su scala globale. Su questo ultimo punto stiamo studiando delle misure con i nostri partner internazionali. Purtroppo non saranno tempi brevi così come non lo saranno i tempi di innalzamento delle difese di una qualsiasi azienda, perché l’ampiezza di questo intervallo di tempo passa anche per una questione di diffusione della cultura cyber a tutti i dipendenti. Dietro a un attacco ramsonware spesso c’è infatti un errore umano».

All’aumento del cyber crime è corrisposto una diminuzione dei crimini reali.

«I rischi a cui ci si espone perpetrando un attacco cyber sono infinitamente minori. Inoltre molte aziende pur di non perdere in credibilità e reputazione e recuperare immediatamente l’operatività preferiscono pagare i riscatti e non lasciare trapelare gli attacchi subiti. Questo sta creando un indotto che si muove in una zona grigia tra le vittima e la cyber gang».

Un po’ quello che accade per alcuni fenomeni criminali, penso ai mediatori per i sequestri di persona o al meccanismo che regola il mercato delle estorsioni nel quale tra vittima e carnefice si interpolano soggetti che svolgono una sorta di triangolazione.

«È un indotto da bloccare poiché alimenta le azioni criminali foraggiando la ricerca e lo sviluppo di sempre più sofisticate metodologie di attacco. Ricordiamoci poi che nulla garantisce che la cyber gang non lasci delle backdoor nell’azienda anche dopo averle restituito il controllo sui dati e sugli applicativi in modo da riattaccarla successivamente, magari sotto altre spoglie».

Torniamo alla Agenzia. A febbraio scorso avete fatto un concorso per assumere le prime sessanta unità di personale.

«Ne faremo un altro per cento, centoventi persone a settembre al fine di cercare diplomati con esperienza in cyber security. Poi cerchiamo, laureati con esperienza in relazioni internazionali e in questioni giuridiche, della comunicazione e analisti del mondo tecnologico. Mentre il primo è stato un concorso prettamente tecnico, perché avevamo la necessità di far partire l’Agenzia, ora apriremo a tutta questa serie di professionalità non tecniche ma certamente non meno importanti per la riuscita della missione dell’Agenzia».

Con quali obiettivi?

«Stiamo cercando persone in grado di lanciare e gestire progetti di ricerca e sviluppo innovativi in alcuni settori come il quantum, l’Intelligenza artificiale, i big data. Creeremo una struttura interna che si occuperà di organizzare partnership pubblico-private per arrivare a realizzare più tecnologia nazionale ed europea».

Fin qui dipendiamo molto dall’estero, non è così?

«Più saremo indipendenti dal punto di vista tecnologico più saremo capaci di gestire meglio il rischio cibernetico in questo nuovo mondo fisico e digitale. Con la consapevolezza che non saremo mai del tutto indipendenti. Purtuttavia esistono delle tecnologie su cui è fondamentale investire perché ci rendono più autonomi e quindi meno attaccabili. Sottolineo: meno attaccabili. La geopolitica della tecnologia è un fattore che dovremo affrontare, come Italia e come Europa, in termini di dipendenza/indipendenza da determinati Paesi. Questo è un altro aspetto determinante, correlato al rischio di attacchi cyber, per quel che riguarda la prosperità e lo sviluppo del nostro Paese nel prossimo futuro». 

«Condannato per un’intercettazione illegale»: assolto in appello. Crollano le accuse dopo una condanna a 9 anni: all'epoca dei fatti il trojan poteva essere installato in casa solo per reati di criminalità organizzata e non per i reati comuni, come quelli di droga. Il Dubbio il 28 luglio 2022.

È stato intercettato illegalmente dalla magistratura con un trojan, condannato in primo grado e infine assolto dai giudici d’appello per tutti i capi d’imputazione basati su quei colloqui privati. Con l’esplicito riconoscimento dell’errore compiuto da cinque toghe, tre rappresentanti dell’accusa e due giudici.

La vicenda ricostruita dall’agenzia Agi riguarda un cittadino albanese, M.J., arrestato il 23 marzo del 2021 per reati di droga dopo tre mesi in cui era stato ascoltato a casa sua e altrove attraverso quello che gli addetti ai lavori definiscono un “captatore informatico”, meglio noto come Trojan dal cavallo della mitologia greca. Uno strumento invisibile in grado di “succhiare” tutta la vita privata di una persona la cui intrusività ha alimentato discussioni e polemiche da quando è stato introdotto in campo giudiziario.

In primo grado M.J. viene condannato col rito abbreviato a 9 anni e 4 mesi dal gup lecchese Salvatore Catalano per traffico e detenzione di sostanze stupefacenti su richiesta del pm Paolo Del Grosso. La sua legale, l’avvocato Francesca Beretta, si vede respingere dal gup l’obiezione che le intercettazioni sarebbero nulle perché in quel momento storico si poteva usare il trojan solo in luoghi di privata dimora per reati di criminalità organizzata. Ma Beretta non demorde riproponendo il tema in appello e questa volta le viene data ragione, nonostante il procuratore generale incorra nello stesso sbaglio dei suoi colleghi chiedendo di nuovo la condanna per M.J. Secondo il collegio milanese presieduto da Antonio Nova, la sentenza del giudice di Lecco è «illogica ed erronea» perché per tutti i procedimenti iscritti prima del 29 febbraio 2020, e quello in discussione risaliva al 2019, si applica una pronuncia della Cassazione del 2016 per cui il trojan può essere installato solo per reati di criminalità organizzata e non per i reati comuni, come quelli di droga.

Ecco che allora crolla la gran parte delle accuse a M.J.: «Visto il divieto assoluto di utilizzo del captatore in procedimenti diversi da quella di criminalità organizzata, tutte le conversazioni intercettate con quello strumento – sanciscono i giudici di secondo grado – sono inutilizzabili anche nel giudizio abbreviato, trattandosi di prove illegali». L’errore non è stato solo del giudice che ha pronunciato la sentenza ma anche della Procura che ha chiesto e fatte svolgere le intercettazioni col trojan dalla polizia giudiziaria, del procuratore generale che ha insistito per la condanna e dei giudici per le indagini preliminari che le hanno autorizzate con più decreti.

La condanna a M.J. è stata quindi ridotta di quasi 8 anni e rideterminata in un anno e sei mesi di carcere con immediata revoca della custodia cautelare. Per i reati commessi dopo il 31 agosto del 2020 è tuttora in vigore la riforma Orlando che consente i trojan anche per reati comuni ma in presenza di condizioni molto rigide a garanzia dell’indagato. «La corte d’Appello ha ripristinato e ridato vigore al senso di giustizia – commenta Beretta – e ha ricollocato sul piano della legalità una vicenda autorizzata e avallata da diversi operatori del diritto che si sono succeduti. Non è difficile comprendere quali siano state le conseguenze di questo abuso dello strumento investigativo ai danni degli indagati, alcuni dei quali sono stati privati della libertà in modo illegittimo. Consideriamo inoltre che un captatore ha un costo giornaliero di 300-400 euro al giorno, soldi che lo Stato ha speso inutilmente».

Senatore spiato dai pm senza autorizzazione. Il Parlamento si ribella. Fabrizio Boschi l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.

Esposito venne intercettato per tre anni. Voto in Aula: "Ora intervenga la Consulta".

Una storia da far impallidire la vicenda Renzi o il caso Palamara. Tanto che anche questa meriterebbe un libro. Palazzo Madama solleva il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale, in merito alla vicenda delle intercettazioni «indirette» avvenute mentre l'ex senatore del Partito democratico Stefano Esposito era ancora un parlamentare.

Dieci anni in Parlamento e tre di questi, dal 2015 al 2018, ascoltato oltre 500 volte dai poliziotti notte e giorno sulla sua unica utenza telefonica, attraverso quella di un suo amico al quale hanno polverizzato vita professionale e familiare. Tutto inizia nel 2015 quando la procura di Torino apre un'inchiesta nei confronti di Giulio Muttoni, noto imprenditore dello spettacolo (definito «il re dei concerti») e amico di lunga data di Esposito, tanto da fare da padrino al battesimo di una delle figlie di quest'ultimo. Gli inquirenti indagano sull'azienda di Muttoni ipotizzando addirittura infiltrazioni mafiose.

Ma il colpo di scena è arrivato ieri. Via libera del Senato, con 117 voti a favore, 37 contrari e 8 astenuti, alla relazione della Giunta per le Immunità di Palazzo Madama che si è espressa duramente su questo caso. Palazzo Madama è arrivato addirittura a sollevare il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale.

Il senatore Giuseppe Cucca (Italia viva) illustrando la relazione, commenta: «Si è manifestata una palese violazione della Costituzione perché il senatore Esposito è stato sottoposto ad intercettazione dal 2015 al 2018 mentre era ancora senatore e quindi avrebbero dovuto chiedere un'autorizzazione preventiva. Quando è stato chiesto reiteratamente che venisse trasmesso tutto alla Giunta, il giudice prima non ha risposto e poi ne ha fatto una questione di merito disattendendo le richieste di un parlamentare».

A sorprendere tutti le parole del senatore Pietro Grasso, di solito molto schierato a favore delle toghe. Invece stavolta è stato proprio lui, prima in giunta e poi in aula, a chiedere la trasmissione degli atti al Csm.

«Sono molto avvilito dalle parole della rappresentante dei Cinquestelle Gallicchio che ha detto una montagna di sciocchezze offensive per l'intero Parlamento facendo riferimento alla mafia e per questo anche duramente ripresa dal presidente Calderoli», conclude Cucca.

L'ex senatore Esposito è demoralizzato da tanta superficialità: «Certamente siamo di fronte a una delle vicende più clamorose di violazione dell'articolo 68 che si siano mai verificate. Ciò che ha detto Grasso è esemplificativo della gravità della situazione. Lui che è da sempre un giustizialista chiede di avviare un procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati, clamoroso. Io e Grasso abbiamo litigato violentemente quindi mai mi sarei aspettato questa attenzione ma lui in quanto ex magistrato è l'unico che in giunta legge le carte. Quando ha visto la prima proroga di indagini ha capito tutto. Per tre anni prima il pm e poi il gip hanno intercettato un mio amico per ascoltare me, un parlamentare, e senza chiedere l'autorizzazione alla Camera di appartenenza, violando tutte le norme, ci rendiamo conto? Così si sta costruendo una norma consolidata per cui la magistratura può intercettare chiunque e quando vuole. Ho anche chiesto copia delle intercettazioni ma me le hanno negate dicendo che c'è la privacy, ma quale privacy, la mia! Hanno cercato di associarmi alla mafia senza riuscirci perché ero sostenitore della Tav».

Adesso la presidente Casellati deve trasmettere gli atti al ministro della Giustizia, al Csm e al procuratore della Cassazione. Il 19 luglio c'è la prima udienza del processo. E sul tavolo c'è l'annullamento del decreto del rinvio a giudizio. Si ricomincia da capo?

La sentenza Cavallo ignorata in tanti processi. Intercettazioni a strascico, ecco il metodo Woodcock: il pm le usa o ignora a piacimento. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Giugno 2022. 

La notizia dell’archiviazione dell’inchiesta sulle Universiadi a Napoli dell’estate 2019 solleva una riflessione. I motivi sono due: il primo è legato al fatto che l’inchiesta è stata archiviata, su richiesta degli stessi pubblici ministeri, per una questione relativa all’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico e il secondo è legato al fatto che tra i pm che hanno firmato la richiesta di archiviazione c’è il pm Henry John Woodcock. Andiamo al nodo della vicenda. Il pm Woodcock è in vari processi un sostenitore della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico.

Dicesi a strascico quelle intercettazioni autorizzate nell’ambito di un procedimento e utilizzate poi come una sorta di esca per agganciare altre persone in relazione a fatti reato diversi. La Corte di Cassazione, con la sentenza Cavallo emessa dalle Sezioni unite a novembre 2019, ha messo dei paletti all’uso di questo metodo di captazione ritenendo di limitarlo a quei reati oggetto di procedimenti diversi ma uniti da una forte connessione, a reati per cui si prevede l’arresto in flagranza, per cui la pena non può essere inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Il tema della utilizzabilità o meno delle intercettazioni, anche prima della sentenza Cavallo, è comunque stato sempre molto dibattuto e oggetto di confronti tra accusa e difesa.

Ebbene, il pm Woodcock ne ha sempre sostenuto l’utilizzabilità, tanto che per definire il suo metodo investigativo si è fatto riferimento all’uso del trojan come base di ogni inchiesta, indagini spesso accompagnate tra l’altro da un certo clamore mediatico che trasformava ogni minimo sospetto in una prova, ogni ipotesi di reato in una condanna prima ancora che si arrivasse in tribunale, sicché quando poi il tribunale, quello vero, quello della giustizia reale e non mediatica, si pronunciava, la sentenza, anche se di assoluzione, riscuoteva meno attenzione da parte dei media, tra le macerie di vite e carriere nel frattempo già fatte a pezzi. Colpisce, quindi, che proprio il pm Woodcock, autore di inchieste nate e portate avanti sulla scia di intercettazioni anche a strascico, abbia firmato una richiesta di archiviazione in cui per giustificare la chiusura del caso si fa riferimento indovinate a cosa? All’inutilizzabilità delle intercettazioni a strascico. E in che modo? «Nel caso di specie – scrivono i pm nella richiesta di archiviazione – si pone in primo luogo una questione di ordine processuale che appare decisiva…».

La questione riguarda appunto le intercettazioni. «Ebbene – scrivono ancora – si tratta di una questione che si pone, almeno allo stato (nel senso che altrettanto evidentemente la questione non si poneva al momento in cui tali intercettazioni sono state acquisite e al momento in cui furono delegati i primi approfondimenti investigativi) a seguito della sentenza pronunciata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione il 28 novembre 2019». Praticamente, dicono che siccome l’inchiesta è nata sulla base di intercettazioni autorizzate in un altro procedimento prima della sentenza Cavallo e siccome per effetto di questa sentenza tali intercettazioni sono da ritenersi inutilizzabili, l’inchiesta non ha più fondamenta ed è dunque da archiviare. E solo in calce alla richiesta, in poche righe, si fa riferimento al fatto che «in relazione a nessuna delle vicende sopra illustrate risulta esaustivamente comprovata la sussistenza di quella relazione sinallagmatica e corrispettiva che caratterizza in particolare qualsivoglia rapporto di natura corruttiva…».

A questo punto viene da pensare: non è che la chiusura del caso sia da attribuire più al fatto che si è indagato a vuoto per tre anni, tenendo per tutto questo tempo professionisti e imprenditori sulla graticola con tutti i danni che ciò comporta? E non è che la questione della utilizzabilità delle intercettazioni a strascico in questo caso sia un altro modo per utilizzarle comunque quelle intercettazioni? Nel senso che nell’archiviazione si usano per chiudere anni di indagini che non hanno prodotto alcuna prova contro nessuno, mentre in tutti gli altri processi le si usano per provare accuse contro qualcuno? Domandare è lecito.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il virus del riscatto. Report Rai PUNTATA DEL 09/05/2022 di Lucina Paternesi

Collaborazione di Goffredo De Pascale

Basta un clic per consegnare nelle mani dei criminali informatici l'accesso a tutti i nostri dati.

Nel 2021 si sono registrati oltre 2000 attacchi informatici gravi, il 10% in più rispetto all'anno precedente. Le cyber gang lavorano come la criminalità organizzata e gli obiettivi sono sempre più istituzionali perché l'imperativo è fare business: sfruttando le vulnerabilità dei sistemi esposti in rete riescono a risalire le reti aziendali con privilegi da amministratori e poi sferrano l'attacco ransomware, cioè bloccano macchine e dati rendendoli illeggibili per poi chiedere un riscatto. Dopo Regione Lazio, sono state vittime di ransomware anche l'Asl3 di Napoli, alcune strutture ospedaliere di Milano e, a fine 2021, anche l'Ulss di Padova. È bastato avere una copia di backup di tutti i dati per limitare i danni? Chi deve mettere al riparo i dati sensibili dei cittadini?

IL VIRUS DEL RISCATTO Di Lucina Paternesi e Goffredo De Pascale

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO È il tre dicembre del 2021 quando i sistemi informatici dell’azienda sanitaria 6 euganea vengono mandati in tilt da un attacco hacker: sospesi cup, prelievi, analisi, laboratori, liste d’attesa per fare tamponi e, ovviamente, anche gli hub vaccinali.

ANDREA ATZORI - MEDICI CON L’AFRICA CUAMM Siamo stati informati dall’Asl di una problematica informatica, e un’ora dopo all’incirca abbiamo avuto un software sostitutivo e siamo ripartiti.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO L’azienda sanitaria locale 6 copre più di cento comuni da nord a sud di Padova e una popolazione di quasi 1 milione di abitanti.

RAFFAELLA MEGNA - FUNZIONE PUBBLICA CGIL PADOVA La gente che è stata qua 12 ore per fare a mano quello che normalmente fai col sistema computerizzato. C’è gente che veramente c’ha sputato il sangue, eh.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Risultano bloccati gli oltre settemila pc dislocati nei quattro ospedali. Viene creata una task force per ripristinare le attività più urgenti.

INFERMIERA OSPEDALI RIUNITI PADOVA SUD – SCHIAVONIA (PD) Ci si doveva riorganizzare giorno per giorno. Quindi prendere il telefono, chiamare, accettare le persone che arrivavano perché non avendo gli elenchi di chi doveva fare la visita quel giorno.

LUCINA PATERNESI Ma perché nessuno vuole parlare di questa storia?

INFERMIERA OSPEDALI RIUNITI PADOVA SUD – SCHIAVONIA (PD) Purtroppo, siamo in una sorta di dittatura. Se la sanità ti dice che non devi parlare non devi parlare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bocche cucite perché nascondono un imbarazzo, c’è da nasconderlo… perché un milione di cittadini veneti all’improvviso non ha più potuto contare su un organizzatissimo modello sanitario. Il sistema informatico era bloccato, che cosa era successo? che un gruppo di hacker era riuscito a penetrare nei pc, di fatto, diventando l’amministratore di parte del sistema informatico sanitario. Sono riusciti a penetrare, hanno inserito un software malevolo, il ransomware, che ha di fatto cifrato i dati dei cittadini rendendoli inagibili e poi, prima però li aveva copiati e sfilati dal pc. Per non pubblicarli ha chiesto un riscatto di tre milioni di dollari. Ora, Report è venuta in possesso delle chat originali della trattativa. In esclusiva, la nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI Quando se ne sono accorti alla Asl?

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT Immediatamente, subito, già 40 minuti che era successo l’attacco.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Grazie ai backup aggiornati l’azienda sanitaria non ha perso i dati, ma ha dovuto far fronte al ricatto degli hacker che minacciavano di pubblicare i dati sensibili dei pazienti. Gli ingegneri di Tg Soft si mettono sulle tracce del virus che ha infiltrato il sistema sanitario. Vanno su virustotal, una piattaforma molto usata dai ricercatori anti-virus.

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT Il software che noi abbiamo trovato genera delle istruzioni di riscatto che contiene una login e una password per accedere alla chat.

LUCINA PATERNESI Quindi è sicuro che sia quello, non è un’ipotesi?

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT No no è proprio questa. Eccola qua, questa è la chat.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Gli analisti di Tg Soft hanno scoperto che qualche minuto dopo la mezzanotte del 3 dicembre qualcuno dentro l’Ulss inizia a chattare con i cybercriminali.

CYBER CRIMINALI HIVE Salve e benvenuti su Hive. Come posso aiutarvi?

ULSS 6 Abbiamo necessità di decriptare i file, aiutateci per favore.

CYBER CRIMINALI HIVE Per decriptare i file devi pagare 3 milioni e mezzo di dollari in bitcoin.

ULSS 6 È uno scherzo? Noi siamo un ente sanitario governativo.

CYBER CRIMINALI HIVE Sappiamo chi siete. ULSS 6 Dimmi quanto vuoi realmente e possiamo discutere.

CYBER CRIMINALI HIVE Posso farti uno sconto di cinquecentomila dollari. ULSS 6 Dovremmo pagare 3 milioni di dollari per i dati? Siete folli!

CYBER CRIMINALI HIVE Non mi insultare altrimenti chiudo la conversazione immediatamente.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dunque, qualcuno ha provato a contrattare con i criminali. Ha chiesto anche lo sconto, ma poi accade l’impensabile. ULSS 6 Prima puoi baciarmi il c*** e poi dare l’indirizzo di tua madre verrò a trovarla. Cercate un’altra occupazione stupidi bastardi. CYBER CRIMINALI HIVE Se non ci sarà il pagamento renderemo tutti i file esfiltrati pubblici.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dalla direzione dell’Ulss smentiscono le trattative con i cybercriminali. Ma allora chi parlava con gli hacker?

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT Io sono convinto, e lo spero, che i dirigenti della Asl non sappiano, non abbiano autorizzato questo tipo di trattativa perché se no sarebbe una follia.

LUCINA PATERNESI Ma perché c’è un manuale per come si conducono le trattative?

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT Beh, non c’è un manuale ma c’è un buonsenso. Quando tu hai in mano i dati di, come ha detto lei, un milione di persone forse bisognerebbe andare coi piedi di ferro, di piombo… insomma.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Avere un backup aggiornato consente di non perdere tutti i dati. Ma questo non basta a fermare le minacce e un mese dopo, il 1 gennaio, entra in gioco un secondo gruppo di cyber criminali: Lockbit. Parte il countdown: se l’Ulss non paga verranno pubblicati tutti i dati trafugati dai computer.

LUCA ZAIA - PRESIDENTE REGIONE VENETO CONF. STAMPA 17/01/22 Non abbiamo pagato il riscatto, quindi mi spiace hanno anche lavorato tanto per niente. Che poi io non so se sta roba è una roba di una persona fisica di uno che è lì che fa ste robe, o se è proprio questione di macchine, di algoritmi, di intelligenza artificiale. Non ho ben capito, è un mondo che non conosciamo però è un mondo pericolosissimo.

GIANFRANCO TONELLO - ANALISTA MALWARE E FONDATORE TG SOFT Arriva il giorno dell’ultimatum, succede alla sera verso le 22 che Lockbit non aspetta la scadenza pubblica e mette online i dati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Finiscono online oltre 9mila file, divisi in 51 cartelle. Documenti amministrativi, verbali, regolamenti, disposizioni interne, ma anche risultati dei tamponi, certificati medici, referti specialistici, diagnosi, denunce da aggressione e persino i nomi e i numeri di telefono dei pazienti oncologici del Veneto.

CESARE BUREI - BROKER ASSICURATIVO Quando ci sono stati i breach sulle cartelle cliniche, son stati valutati, a cartella clinica, sui mille dollari.

LUCINA PATERNESI Sono tutti di un ospedale, ci sono gli elenchi dei pazienti oncologici.

CESARE BUREI - BROKER ASSICURATIVO Documenti d’identità completi, diplomi, quindi io potrei sostituirmi a delle persone in toto, crearmi un’identità digitale completa, con tanto di scansione del documento fronte retro a colori. Ci sono i moduli per ordinare i vaccini, le etichette, i codici di ordine. Conosco le procedure interne, bene. Voglio infilarmi in una procedura sanitaria. Ti studio, ti ho dato materiale per studiarmi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Sulla vicenda il Garante per la privacy ha aperto un’istruttoria per capire se è stato fatto il possibile per impedire la divulgazione online di dati sensibili. Rischiano una multa fino a 10 milioni di euro. INFERMIERA OSPEDALI RIUNITI PADOVA SUD – SCHIAVONIA (PD) Adesso hanno iniziato a cambiare i computer, hanno iniziato ad aggiornare il sistema, perché potrebbe anche esser stato un dipendente involontariamente ad aver messo qualcosa su un computer, ad aver aperto la porta, cioè chi lo sa?

LUCINA PATERNESI SPOSTATO QUI Ma secondo lei ci possono essere delle responsabilità da parte dell’azienda per quello che è successo?

INFERMIERA OSPEDALI RIUNITI PADOVA SUD – SCHIAVONIA (PD) Ma sicuramente sì. Addirittura alcuni computer erano all’età di Windows 8 dove non si potevano fare più aggiornamenti.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ma a chi toccava mettere in sicurezza le reti informatiche della sanità veneta? Secondo la stessa legge che l’ha istituita nel 2016, Azienda Zero, società in house della Regione Veneto, aveva tra i suoi compiti la gestione delle infrastrutture tecnologiche, dei sistemi informativi e dei dati degli enti del servizio sanitario regionale.

ALESSANDRO ZAN - DEPUTATO PD Questo non è stato fatto e le singole Ulss hanno dovuto continuare con i loro sistemi informatici ma che non erano assolutamente adeguati per contrastare un attacco hacker come quello che c’è stato lo scorso 3 dicembre all’Ulss 6 di Padova.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dai verbali riservati della commissione sanità d’inizio marzo emerge con chiarezza che negli ospedali mancavano le più basilari forme di protezione, come la doppia autenticazione per aprire la posta elettronica e i corsi di formazione per sanitari e medici.

ALESSANDRO ZAN - DEPUTATO PD Oggi è una scatola quasi vuota, perché fa solo bandi e appalti. Le Ulss sono state svuotate di competenza, ma dall’altra parte non c’è stata ad esempio la creazione di un team di uno staff in Azienda Zero che potesse dare quel sostegno da un punto di vista informatico e della protezione dei dati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Oltre il danno, la beffa. Solo per bonificare e sostituire i computer compromessi e dotarsi di una consulenza da parte di una società esterna di cyber Security, nei due mesi successivi l’attacco l’Ulss 6 ha speso in emergenza quasi 1 milione di euro.

ROBERTO BALDONI - DIRETTORE AGENZIA CYBER NAZIONALE Noi siamo entrati in contatto con l’Ulss6 di Padova proprio per cercare di aiutarla a superare l’evento che hanno subito, credo che faccia parte della Nis.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La Nis è la normativa europea che prevede l’obbligo di creare un livello comune di sicurezza delle reti. Sono tenuti a rispettare gli obblighi imposti da questa normativa anche gli enti pubblici che offrono servizi essenziali sanitari, proprio come la Ulss6 di Padova. Il ruolo di controllo è in capo alle Regioni, che possono anche sanzionare chi non rispetta i requisiti.

LUCINA PATERNESI La Regione che fa, sanziona sé stessa?

ROBERTO BALDONI - DIRETTORE AGENZIA CYBER NAZIONALE Esattamente. Ma infatti è un sistema che non stava in piedi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La Regione Veneto, dunque, avrebbe prima dovuto garantire la sicurezza, poi controllare e addirittura arrivare a sanzionare sé stessa nel caso in cui l’attacco hacker si fosse verificato per sua inadempienza.

LUCINA PATERNESI É mai stato sanzionato qualcuno ad oggi?

ROBERTO BALDONI - DIRETTORE AGENZIA CYBER NAZIONALE Francamente non credo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sarà l’Agenzia cyber nazionale a controllare e verificare se ci sono i requisiti e anche a sanzionare in caso di inadempienza. Questo per togliere alle regioni l’imbarazzo di decidere se sanzionare o meno se stesse. Però la Ulss padovana con noi non ha voluto parlare. Ci ha scritto e ci dice:” è stata vittima di un crimine e sta dando il massimo del supporto agli utenti coinvolti, e che è sempre rimasta in possesso dei dati perché aveva il backup". Evviva, Dio. Però su questa vicenda sta indagando la Direzione distrettuale antimafia di Venezia e anche il Garante della privacy, ovviamente per le parti che competono sulla responsabilità della violazione a danno degli utenti. Attacchi hacker ci sono stati anche ai danni del sistema informatico sanitario della Lombardia, della Campania e anche del Lazio. Ed è per questo che continueremo a seguire questa vicenda perché intorno ai dati sanitari, ci sono interessi pazzeschi, a partire da quelli di un Paese che si sta preparando alla guerra.

Scoppia il caso a Napoli. Avvocati intercettati, così i pm aggiravano le norme. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Maggio 2022. 

Tra le mille pagine di un provvedimento cautelare notificato qualche giorno fa a 66 indagati per appalti e camorra nell’inchiesta Rfi circa dodici pagine riportano le conversazioni spiate tra un penalista e la moglie di un suo cliente e le conversazioni di un altro penalista con quello che di lì a qualche mese sarebbe diventato suo cliente. Nel primo caso si parla del marito detenuto che ha bisogno di una visita odontoiatrica con urgenza, nel secondo di questioni processuali che interessano un amico del futuro cliente del penalista, il quale intanto è già difensore dell’amico del suo interlocutore.

Insomma si parla di processi, strategie difensive, ricorsi, istanze. Di tutto quello di cui normalmente parla un avvocato penalista quando incontra qualcuno che finisce nelle maglie della giustizia e ha bisogno di assistenza legale. Conversazioni, quindi, che dovrebbero essere sacre, protette, rese inviolabili dal trojan a meno che non vi siano indizi di reato a carico del difensore stesso. E invece cosa accade? Accade che i paletti messi dalla legge (tanto per cominciare l’articolo 103 del codice di procedura penale) vengono facilmente arginati dai pm. Qualcosa di simile alle famose intercettazioni a strascico con cui per anni si è puntato a indagare la persona per trovare un indizio di reato e non a indagare su un reato per verificarlo.

Una distorsione che fa pendere l’ago della bilancia a favore della Procura, rimarcando ancora una volta che purtroppo la parità tra le parti processuali nella realtà non esiste, perché è chiaro che accusa e difesa giocano con armi impari. I pm possono intercettare chi vogliono, i difensori non possono nemmeno parlare, devono misurare ogni parola persino quando sono a colloquio con i propri clienti. Guai a fare commenti su inchieste, spingersi in qualche valutazione su posizioni processuali vicine a quelle che direttamente interessano il proprio cliente; può essere rischioso persino concedersi quel pourparler che in fondo è cortesia, è educazione, è l’umano scambio di chiacchiere tra due persone che devono comunque entrare in relazione per affrontare una vicenda delicata come quella giudiziaria, l’uno in quanto avvocato difensore e l’altro come indagato, imputato o parte lesa. Si può finire intercettati, la propria voce stampata nei brogliacci e le parole pronunciate messe nero su bianco, addirittura trascritte in un’ordinanza di custodia cautelare e perciò rese pubbliche.

È accaduto a due penalisti napoletani i cui nomi sono nell’inchiesta sul clan dei Casalesi, intercettati pur senza aver commesso nulla di illecito né essere minimamente sospettati di averlo fatto. I loro dialoghi con amici o familiari di loro assistiti sono finiti nelle pagine del provvedimento cautelare come se avessero valore di prova. Ma prova di che? Al momento sembra più la prova di una forzatura che interferisce sulla riservatezza del rapporto tra difensore e assistito e quindi su un diritto inviolabile qual è il diritto di difesa. Sapete come pm e gip superano l’ostacolo? Visto che non possiamo intercettare e trascrivere i dialoghi del penalista e del detenuto in carcere o dell’imputato sotto processo, intercettiamo e trascriviamo i dialoghi che il penalista fa con chi sta accanto al cliente detenuto o imputato, cioè un familiare. Ma vi sembra normale? Quelle frasi sono messe accanto ad altre fonti di prova per motivare una serie di arresti per reati di associazione a delinquere di stampo camorristico, i Casalesi.

Nel firmare il provvedimento il gip si pone il problema della trascrizione e della utilizzabilità delle conversazioni che riguardano i due penalisti le lo supera con una conclusione che è questa: «Le conversazioni captate, di seguito esposte, devono ritenersi pienamente utilizzabili atteso che, a quanto emerge dagli atti, al momento del dialogo tra l’indagato e l’avvocato quest’ultimo non era il difensore». Lo sarebbe diventato di lì a poco, era una conversazione forse esplorativa e in tal caso, quindi, più vicina a quella sfera di riservatezza che fa parte dell’inviolabile diritto di difesa. «La giurisprudenza – scrive il gip – ha in maniera assolutamente univoca evidenziato che non esiste una zona di immunità per la quale non è possibile ascoltare i colloqui dei difensori con soggetti privati, pur magari loro abituali clienti». Eccolo arginato, quindi, il paletto della norma che tutela la segretezza del rapporto tra difensore e cliente. E allora, viene da chiedersi, come si salvaguarda la dignità professionale degli avvocati?

Come si garantisce la libertà nello svolgimento dell’attività difensiva? Come si rispetta il segreto professionale? Può dirsi equo un processo del genere? Sarà equo il processo e si potrà definire libera la difesa di questi indagati raggiunti da un provvedimento in cui ci sono nero su bianco anche i dialoghi origliati con i difensori? Il tema è delicato e negli ultimi anni è venuto a galla più volte. La legge traccia la linea maestra: in sintesi, un avvocato sospettato di aver commesso un reato può essere intercettato come ogni altro cittadino. Ma qui non siamo in questa sfera, le intercettazioni fatte dalla Dda di Napoli e trascritte in un provvedimento contro una serie di presunti affiliati a clan della camorra sono intercettazioni cosiddette indirette. Ed eccola la nota che crea la distorsione, che genera il caso, che dà ai pm di superare i paletti messi dalla norma: la Cassazione ha stabilito che il divieto di intercettazione riguarda esclusivamente le dichiarazioni pronunciate nell’ambito del mandato difensivo e non quelle di tipo più amicale. E così, altro che parità tra le parti processuali.

Uno studio di alcuni fa, condotto dall’università di Bologna, ha rivelato l’abitudine delle Procure a intercettare in tali contesti. Lo studio raccoglieva le risposte di 1.265 penalisti sulla frequenza con cui si fossero imbattuti in casi di intercettazioni tra l’indagato e il suo difensore effettuate e trascritte: il 3,6 % aveva risposto che accade sempre, il 25,3% che accade di frequente, il 43,2% poche volte, e appena il 27,9% degli avvocati aveva risposto mai. A Napoli non è la prima volta che il dialogo di un avvocato finisce negli atti di un’inchiesta. La vicenda dei due penalisti di cui parliamo non ha suscitato finora grande clamore mediatico ma è all’attenzione della Camera penale di Napoli che sta studiando il caso.

Qualche anno fa, sempre a Napoli, ci fu una vibrante protesta dei penalisti, con la denuncia di sempre più frequenti casi in cui stralci di conversazioni venivano poste alla base di richieste ( e concessioni ) di misure cautelari e richieste di rinvio a giudizio e persino citate durante l’esame dibattimentale dagli ufficiali di polizia giudiziaria che le avevano ascoltate e/o trascritte. «Si tratta di una intollerabile lesione di un principio basilare delle garanzie di libertà della funzione difensiva che deve valere per tutti i tipi di comunicazione e per tutte le fasi del rapporto confidenziale con l’assistito, ivi comprese quelle prodromiche alla assunzione dell’incarico», si disse. Sono trascorsi circa sei anni da allora. E cosa è cambiato?

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La polvere sotto il tappeto. Cassazione, la Pg fuori legge fa intercettare l’avvocato: e il Csm sta a guardare. Otello Lupacchini su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Gesù ammonisce: «Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti.» (Luca, 12, 2-3). Ed è questo un insegnamento al quale intendo attenermi, sebbene prudenza vorrebbe che non si parlasse di corda né in casa dell’impiccato né in casa del boia. Del resto, non v’è ragione alcuna perché si debba tacere, di fronte alla spregiudicatezza di taluni esponenti di quell’aristocrazia togata prodotto della riforma dell’ordinamento giudiziario, nota come «Riforma Castelli», dal nome del guardasigilli leghista del governo Berlusconi che la propose nel 2002, approvata con legge 25 luglio 2005, n. 150, e completata da una serie di decreti legislativi emanati nella prima metà del 2006.

Se, illo tempore, nel rispetto dell’articolo 107 della Costituzione, in virtù del quale «i magistrati si distinguono tra loro solo per le funzioni», il concetto di «carriera» era estraneo all’organizzazione della magistratura e il «capo» di un ufficio altro non era che un primus inter pares, investito di responsabilità organizzative nell’interesse di tutti e di tutti al servizio, oggi non è più così: concentrati, in nome dei “miti” dell’efficienza e della trasparenza, sempre maggiori poteri in mano ai dirigenti degli uffici giudiziari, si è creata una «divisione tra la magistratura alta e quella bassa». In particolare, mentre si sono attribuite ai capi degli uffici di procura tutte le scelte relative all’esercizio dell’azione penale, si è peraltro abolito il cosiddetto sistema tabellare che, bene o male, imbrigliava la discrezionalità del «capo»; al che sono conseguiti, a catena, l’affievolimento dell’indipendenza dei singoli sostituti, vincolati alle decisioni sostanzialmente insindacabili del «capo», nell’esercizio delle funzioni, nonché il venir meno sia del pluralismo decisionale sia della diffusa assunzione di responsabilità all’interno dei singoli uffici.

Il resto lo fa quello che Friedrich Nietzsche chiama Wille zur Macht, cioè la cieca tendenza degli organismi a espandersi a detrimento del circostante, nonché necessità di dominare, occupare, sottomettere, neanche, poi, in virtù di un supposto «piacere» che ciò conferirebbe, ma per la pura tensione espansionistica in sé: unico comun denominatore di tutti gli episodi di malcostume che hanno afflitto la magistratura, specie negli ultimi anni, l’ansia degli interessati di avere o mantenere un incarico direttivo o di incrementarne l’importanza, dato che un organismo non fa altro che cercare di essere ed essere di più. È, dunque, semplicemente disgustoso ascoltare gli individui de quibus agitur dolersi, dando la grottesca sensazione di descrivere sé stessi mentre si osservano allo specchio, della corruzione a tutti i livelli della vita economica, civile e politica; della pratica endemica degli scambi di favori; dello sfruttamento di risorse pubbliche a vantaggio di interessi privati; della diffusa mafiosità dei comportamenti; di una sorprendente maggioranza di concittadini che approva e nutre questa impresa. Per non dire di quanto sia irritante sentirli chiedersi come si sia giunti alla misera situazione nella quale ci si trova. E non solo perché la funzione di tanto ostentata indignazione, per dirla con Alessandro Manzoni, è quella dei bei vasi dello scaffale più alto nelle farmacie: «Sono vuoti, ma servono a dar lustro alla bottega»; quanto, piuttosto, perché diversamente dalla «gente», alla quale Fabrizio De Andrè riserva il proprio sarcasmo in Bocca di rosa, che «dà buoni consigli/Sentendosi come Gesù nel tempio», sol perché «non può più dare cattivo esempio», costoro il cattivo esempio possono ancora ben darlo e, ahimè, lo danno pure.

Accanto a loro, si schiera, peraltro, la pletora di famigli, cioè «todos los ricos, nobles, y los delinquentes», direbbe ancor’oggi, come nel 1577 a proposito dei «familiari» del Sant’Uffizio in Sicilia, il viceré Marco Antonio Colonna, che affolla redazioni di giornali, spesso online, ed emittenti televisive, a diffusione spesso locale, mossa evidentemente da vivi motivi di gratitudine nei confronti dell’aristocrazia togata, di cui veicolano l’illuminato pensiero, non perdendo occasione, ad esempio, di ripetere, per un verso, che esiste una vasta rete di consiglieri fiscali, commercialisti esperti in diritto societario, tributario, bancario, del lavoro e, perché no, giornalisti chiamati a svolgere un fondamentale ruolo di consulenza e di supporto ad attività delinquentesche; e, per l’altro, che, nell’ambito di questa vasta rete di protettori, un ruolo a parte sia da assegnare agli avvocati difensori, perché il loro intervento professionale si sovrappone al diritto di difesa: mai che si riconosca, magari obtorto collo, che la stragrande maggioranza degli avvocati impegnati nella difesa di indagati e/o imputati, prestano la loro assistenza legale nel pieno rispetto delle regole della deontologia professionale; anzi, lungi dal difenderli di fronte all’opinione pubblica, perché rendono un servizio non solo ai loro clienti, ma agli interessi della giustizia, si avanzano, piuttosto, riserve o insinuazioni nei loro confronti, ricorrendo, per evitare querele, a espedienti retorici subdoli, odiosi e insidiosi, accomunandoli nel giudizio negativo ai propri impopolari assistiti.

In quasi cinquant’anni, ho visto scorrere tanta acqua torbida o nera sotto i ponti dell’amministrazione della giustizia, ma non m’era mai capitato d’imbattermi in una vicenda in cui l’abuso è talmente spudorato da far supporre una consegna o intese sotto banco. Una vicenda vieppiù intrigante, perché vittima, detto col disagio che l’antipatico pronome suscita nei lettori delle Pensée, c’est moi. Non la sola, naturalmente, e non la principale. Si tratta di vicenda condotta a emersione da una questione preliminare spiegata dall’avvocato I.I., difensore dell’incolpato, nel corso della prima udienza, davanti alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, nel procedimento a carico del dottor E.F.. Questo l’incipit della perorazione difensiva (cito dalla registrazione del 18 febbraio 2022, reperibile in Radio radicale): «Ci sono alcune questioni, signor Presidente e signori Consiglieri, e non (…) so (…) se sarò più imbarazzato io nel rappresentarle oppure (se maggiore sarà l’imbarazzo per) la procura generale (della Cassazione) e anche (per) il Consiglio (…). (Quello di cui parlerò) riguarda, infatti, una prerogativa dello Stato al rispetto del principio di legalità: ho partecipato a un interrogatorio del dottor E.F. davanti alla procura generale (della Cassazione) senza conoscere gli atti; una volta, tuttavia, che questi sono stati versati (nel presente procedimento disciplinare), è stato sorprendente quello che da essi si è potuto apprendere». E il riferimento è alle intercettazioni: «Agli atti del fascicolo ci sono una infinità di telefonate tra me e i miei assistiti, il dottor E.F. e il dottor Lupacchini».

Inspiegabile, continua il difensore, come mai la procura di Salerno e la procura generale della Cassazione abbiano ritenuto di calare una sonda tanto invasiva nelle sue conversazioni difensive con i propri assistiti. Di qui lo sfogo critico, in cui è involuta una denuncia: «A me non interessa che qualcuno dica si tratti di captazioni inutilizzabili: esse sono illegali! Tant’è che direi alla procura generale (della Cassazione) che (…) deve procedere contro sé stessa per illeciti disciplinari oppure (…) contro Salerno. È un fatto grave, perché qui non c’è la tutela del diritto di difesa, che è diritto inviolabile secondo la Costituzione per la persona fisica e una prerogativa dello Stato alla legalità». Quindi, un ulteriore affondo: «(…) in alcune (di tali conversazioni) c’è addirittura scritto “da valutare” (…): ma come, da valutare? Ma perché deve essere valutata una conversazione (…) tra un difensore e il suo assistito? E da chi deve essere valutata? Chi è che ha il diritto di farlo? La procura generale (della Cassazione)? Forse, la procura di Salerno? Riflettiamo anche su questi aspetti. (…), a me serve capire perché è stato fatto questo; perché la procura di Salerno avesse necessità di sapere in anticipo (il contenuto delle) mie conversazioni difensive; perché ha così invasivamente (fatto irruzione) nella vita difensiva di un (mio) assistito». Sarebbe molto grave, e mi rifiuto di crederlo, se gli investiganti salernitani avessero voluto conoscere in anticipo le strategie difensive degli assistiti dell’avvocato I.I., per meglio e più utilmente calibrare le performances accusatorie. Ancor più grave sarebbe qualsiasi altra spiegazione, ma non è nel mio stile avventurarmi a formulare ipotesi fantasiose. Resto, invece, ai fatti.

L’articolo 103 comma 5 del codice di rito penale vieta le intercettazioni telefoniche, nel caso comunichino difensori, consulenti tecnici o ausiliari degli stessi; oppure uno dei predetti e l’assistito, sia esso l’imputato, il sottoposto alle indagini, una parte eventuale, l’offeso. Certo, non si può pretendere che a tutti questi soggetti sia garantita l’assoluta segretezza di qualsiasi emissione o ricezione, con chiunque interloquiscano e su ogni argomento: fosse così, l’establishment criminale acquisterebbe a buon mercato basi-santuario da cui tessere indisturbato le sue tele; garantiti dalla segretezza assoluta sono, dunque, soltanto i discorsi relativi a difese o consulenze, anche se diretti al terzo o da lui emessi, come, ad esempio, fra difensore e testimonio; ovvio, peraltro, che le operazioni difensive non devono essere malaffare delinquentesco. Ebbene, che le conversazioni intercorse tra l’avvocato I.I. e i suoi assistiti attenessero sempre ed esclusivamente alla difesa e fossero contenute nel penalmente lecito, ben lo sapeva chi materialmente captava i messaggi, ma era certamente circostanza che non poteva sfuggire neppure a chi, inquirenti salernitani e procuratore generale della Cassazione, ha disposto la trascrizione e il versamento in atti di quel materiale illegalmente raccolto, dunque non valutabile ad alcun fine processuale. È forse temerario, allora, pensare che anche questi ultimi abbiano condiviso tacitamente, salvo un non meno inquietante «non aver compreso il fatto», nell’illegale acquisizione, nel procedimento disciplinare? Il Consiglio superiore della magistratura, come le stelle del romanzo di Archibald Joseph Cronin, The Stars Look Down, sembra sia rimasto e voglia rimanere, purtroppo, soltanto a guardare.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione 

Spyware, l’Ue ora indaga sul software israeliano. Il Parlamento europeo istituisce una Commissione per verificare eventuali violazioni dei diritti con l'uso di Pegasus nei Paesi membri. Simona Musco su Il Dubbio l'11 marzo 2022.

Il Parlamento europeo ha deciso di istituire una commissione sul presunto uso dello spyware israeliano Pegasus o di altri software di sorveglianza e sui rischi di violazione dei diritti e dei valori sanciti dall’Unione. Una vera e propria task force, composta da 38 membri, che entro 12 mesi dovrà presentare una relazione, indagando sulle presunte violazioni del diritto europeo nell’uso del software di sorveglianza da parte, tra gli altri, di Ungheria e Polonia.

Tra gli obiettivi quello di stabilire se l’utilizzo di tali sistemi di controllo «abbia contribuito a spiare illegalmente giornalisti, politici, funzionari delle autorità di contrasto, diplomatici, avvocati, imprenditori, attori della società civile o altri attori in paesi terzi e abbia portato a violazioni o abusi dei diritti umani che destano grave preoccupazione per quanto riguarda gli obiettivi della politica estera e di sicurezza comune dell’Ue, e se tale uso sia stato in violazione dei valori sanciti dall’articolo 21 Tue e dalla Carta dei diritti fondamentali, anche tenendo debitamente conto dei principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e di altri diritti sanciti dal diritto internazionale in materia di diritti umani».

Il lavoro di indagine prevede anche un’analisi delle leggi nazionali esistenti in merito alla sorveglianza e una valutazione del presunto impatto negativo di tali sistemi sui diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali, L’istituzione della commissione d’inchiesta è stata approvata con 635 voti favorevoli, 36 contrari e 20 astenuti, a seguito della richiesta presentata da 290 deputati, che hanno ritenuto necessario sottoporre a esame e indagine le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione.

Tra le altre cose, la commissione avrà il compito di verificare se gli Stati membri abbiano assicurato salvaguardie istituzionali e giuridiche sufficienti per evitare l’uso illegale di spyware e se le persone che sospettano che i loro diritti siano stati violati da tali sistemi di controllo abbiano accesso a mezzi di ricorso efficaci.

La denuncia del Comitato per la sicurezza. “Intercettazioni fuorilegge”, il Copasir contro gli abusi detto Pm. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Marzo 2022. 

«Nella relazione del Copasir sul sistema di intercettazioni abbiamo denunciato come perduri una situazione di assoluta discrezionalità su modalità e criteri con cui vengono affidati i mandati ad eseguire le intercettazioni giudiziarie, anche in merito alla conservazione o alla distruzione delle stesse». È uno dei passaggi dell’intervento del presidente del Copasir, Adolfo Urso, in occasione della discussione al Senato sulla relazione annuale sull’attività svolta dal Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica dal 1° gennaio 2021 al 9 febbraio 2022.

Il Riformista, la scorsa settimana, ha raccontato le criticità che ruotano attorno allo strumento investigativo delle intercettazioni, le opacità segnalate anche nella relazione del Copasir, i dubbi relativi alle garanzie sull’integrità del dato raccolto durante le attività di intercettazione e sulla trasparenza dell’intera filiera. «Ricordo a tutti che siamo sotto infrazione europea – ha aggiunto Urso – perché le Procure non intendono attuare quanto previsto in una precisa direttiva europea e quanto stabilito dalla legge italiana. Aspettiamo che il ministro della Giustizia mantenga quel che si era impegnata a fare nel corso dell’audizione». Si attende, quindi, che la ministra Marta Cartabia affronti il problema regolando meglio questo complesso e cruciale aspetto delle attività di indagine. Sappiamo, infatti, che ormai quasi non c’è indagine che non nasca da una conversazione spiata. Sappiamo anche che, da strumento straordinario di raccolta della prova, l’intercettazione è diventata non solo lo strumento di prova più amato dai pubblici ministeri ma addirittura il mezzo per cercare la notizia di reato. Al di là di questo, poi, si pongono questioni in relazione alle modalità con cui le intercettazioni vengono custodite e archiviate, ai margini di discrezionalità dei pm nella scelta di una o di un’altra azienda a cui rivolgersi per avere il supporto tecnico alle attività di captazione, al rispetto delle norme a partire da quella che obbliga all’utilizzo di server ubicati nei locali delle Procure e non altrove.

«Oggi finalmente discutiamo in modo compiuto di Sicurezza nazionale sulla base della relazione annuale del Copasir. È una novità importante – ha sottolineato Urso – . In passato non è mai avvenuto. La legge 124 del 2007 prevede, infatti, la relazione annuale del Copasir e analoga relazione annuale della Presidenza del Consiglio. Non sono state mai esaminate né in Aula né in una Commissione del Parlamento». «Per questo – ha aggiunto – , a nome del Comitato, ringrazio la Presidenza e i gruppi parlamentari di averne condiviso la necessità e spero che ciò accada ogni anno con una specifica sessione parlamentare». E ha concluso: «In questi quindici anni c’è stato solo un dibattito tematico su un problema, quello delle intercettazioni, su cui peraltro siamo stati costretti a fare noi stessi una relazione al Parlamento il 21 ottobre dello scorso anno». Relazione in cui si mette in risalto, in particolare, «un duplice contrasto».

Il primo riguarda il costo dell’attività di intercettazione inteso come spesa di giustizia, «con la conseguenza – si spiega nella relazione – che l’affidamento di tale attività non soggiace all’obbligo di controllo da parte della Corte dei Conti mentre il Consiglio di Stato è orientato nel qualificare gli affidamenti dei servizi di intercettazioni telefoniche e ambientali, da parte delle Procure, come contratti secretati». Il secondo elemento di opacità sta nel contrasto tra l’indirizzo dato dalle norme europee e la giurisprudenza interna, contrasto «che deve essere necessariamente superato, anche per evitare l’infrazione europea cui l’Italia è stata sottoposta». Inoltre, «malgrado le rassicurazioni fornite, il Governo non è ancora intervenuto per affrontare le problematiche di questo settore, anche nella direzione di individuare dei requisiti di base unici a cui gli operatori si debbano attenere, come accade in altri settori per i quali è previsto un processo di qualificazione degli operatori economici».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Focus sul bilancio sociale della Procura di Napoli. Intercettazioni, il lato oscuro delle indagini e i dubbi sui dati. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Marzo 2022. 

Il settore è quello della cyber intelligence e security. Molte società si sono lanciate in questo mercato che assicura ingenti guadagni. Basta leggere i bilanci delle Procure. A Napoli la voce di spesa per le intercettazioni corrisponde a più della metà delle spese sostenute per l’intero funzionamento della giustizia partenopea. Ma quali sono le società a cui si affidano i pm napoletani? Quali criteri specifici vengono seguiti per la loro scelta? Come viene assicurata la sicurezza dei dati che queste società maneggiano? E soprattutto l’integrità dei dati. Perché il vero nodo è tutto qui: come fa un cittadino a essere certo che il flusso di parole intercettate non venga in qualche modo manipolato? Come si garantisce la genuinità di tutto quello che finisce nei cosiddetti brogliacci per poi confluire eventualmente negli atti di un’indagine e di un processo? Una risposta c’è: le intercettazioni devono essere gestite da pubblici ufficiali, quindi dai sostituti procuratori, e i flussi di dati devono passare su server nei locali della Procura.

Ma ci sono casi che hanno evidenziato come così non sempre accade, e come ogni garanzia a tutela dei diritti del cittadino rischi di vacillare. Nel bilancio sociale, pubblicato nei giorni scorsi dal grande ufficio giudiziario partenopeo, non ci sono risposte chiare alle domande e ai dubbi che sorgono di fronte a numeri di bersagli intercettati e a somme così elevate di spesa (quasi 19mila di bersagli, 13 milioni di euro di spesa). Si sa che c’è un elenco di società nel quale i sostituti procuratori possono scegliere quella a cui affidare le attività di supporto per svolgere intercettazioni. Si apprende però, dal bilancio sociale, che qualora un pm ritenga di avvalersi di un’impresa non ancora accreditata può farlo informando il procuratore aggiunto e motivando la sua scelta. C’è dunque un margine di autonomia nell’iniziativa del singolo pm sotto questo aspetto. Inoltre, fino al 30 settembre 2021 le imprese fornitrici delle prestazioni funzionali alle intercettazioni era avvenuta tra aziende autorizzate all’installazione di un server presso l’ufficio di Napoli, e l’affidamento dei servizi di intercettazioni ambientale telematica di videosorveglianza e gps era attribuito a tutte le società accreditate tenuto conto del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa per ogni singola prestazione proposta da ogni azienda con un proprio listino.

L’obiettivo era dunque orientato a garantire la riduzione dei costi per le intercettazioni. Con la nuova disciplina in materia di intercettazioni, la Procura si è dovuta adeguare dotandosi di un listino unico delle prestazioni, «imponendo alle imprese fornitrici – si legge nel documento di bilancio – la garanzia di dettagliate e specifiche condizioni funzionali, soggettive e tecniche, per accrescere il risparmio di spesa, la qualità delle forniture, la sicurezza dei sistemi, l’innovazione tecnologica dello strumento investigativo». I dubbi restano. Sicurezza e integrità dei dati sono le parole chiave. Come garantirli? È vero che la Cassazione ha fissato dei paletti precisi, e che la legge prevede che i server debbano stare nei locali della Procura e che il privato non possa immagazzinare alcun dato attraverso server intermedi. Ma è anche vero che attraverso il cosiddetto “sistema Mito” (un sistema informatizzato multimediale per la registrazione, l’ascolto, la visualizzazione e la decodificazione delle intercettazioni vocali e multimediali) l’architettura dei server consente anche di accedere alle conversazioni intercettate da siti diversi da quelli della Procura.

Del resto, la cronaca di qualche mese fa ha raccontato di un’indagine, coordinata proprio dalla Procura di Napoli, su una delle società che forniscono ai magistrati apparati e programmi per svolgere le intercettazioni, sollevando il dubbio di una violazione della procedura relativa al server su cui attivare le intercettazioni. Esiste, insomma, un tema relativo alla integrità e sicurezza dei dati. E la digitalizzazione rischia di rilevarsi un’arma a doppio taglio. Secondo la Procura la digitalizzazione può concorrere a garantire l’integrità dei dati e la loro riservatezza prevedendo procedure informatiche di trasmissione tramite Tiap degli atti relativi alle intercettazioni. E sarebbe il pubblico ministero a garantire che la polizia giudiziaria assicuri il rispetto delle finalità dell’archivio digitale delle intercettazioni destinato alla custodia segretata delle intercettazioni destinate a non confluire in alcun processo in quanto inutilizzabili o irrilevanti.

Il nodo archivio è, dunque, un altro aspetto controverso. Nel bilancio della Procura di Napoli si legge che con il passaggio dei dati all’archivio «le registrazioni vengono eliminate dai server delle aziende fornitrici delle prestazioni ad esse funzionali», poi «il gestore procede alla cancellazione dai propri server delle registrazioni e dei verbali conferiti, alla distruzione e alla formattazione dei supporti informatici utilizzati per l’esportazione dei dati». E i consulenti informatici, allo scadere dell’incarico, «rendono una dichiarazione sottoscritta attestante che non viene conservata alcuna informazione relativa ai dati personali raccolti». I dubbi restano.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il bilancio sociale della Procura. Le intercettazioni non possono essere il primo e unico strumento di indagine. Riccardo Polidoro su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

La trasparenza dovrebbe essere un elemento essenziale della pubblica amministrazione. Negli ultimi anni si sono fatti passi in avanti in tal senso, ma non basta. Ci sono ancora molti aspetti oscuri e domande a cui non viene data una risposta chiara. Sono le inchieste giornalistiche – non sempre basate su dati certi – che, a volte, strappano il velo su circostanze ignote all’opinione pubblica. Va vista, pertanto, con grande soddisfazione la meritoria pubblicazione del bilancio sociale della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, reso noto nei giorni scorsi.

Non è la prima volta e non è il solo Ufficio giudiziario che provvede a tale impegno. Il bilancio sociale è l’esito di un processo con cui l’amministrazione rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e dell’impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini di conoscere come l’amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato. Quello della Procura di Napoli – la più grande d’Italia, con oltre 100 pubblici ministeri – consta di 368 pagine ed è stato realizzato in collaborazione con l’Università degli Studi Federico II. È una relazione completa sull’attività svolta nel territorio di competenza. Il dato che maggiormente colpisce è quello relativo alle intercettazioni telefoniche, la cui spesa, di euro 12.785.000,00, supera di circa un milione quella dell’anno precedente e rappresenta il 60% della spesa complessiva dell’Ufficio, pari a euro 21.313.000,00. Tra intercettazioni telefoniche, ambientali e telematiche sono stati fatti 8.873 ascolti nel 2021.

In un solo anno, sono migliaia i cittadini che vedono controllate le loro utenze, i loro luoghi privati, le loro relazioni. L’intercettazione viene ritenuta, dunque, dagli inquirenti l’incontrastata regina delle indagini ed il più importante strumento investigativo. Il suo uso massiccio comporta, inevitabilmente, il fenomeno così detto delle intercettazioni a strascico. Da un soggetto controllato si arriva ad indagarne altri che sono, a volte, occasionalmente in contatto con l’intercettato. Basta una frase criptica, anche non in relazione all’indagine in corso e si aprono altri fascicoli, si moltiplicano gli indagati sottoposti a controlli invasivi sulla loro vita privata. È chiaro che siamo di fronte ad un meccanismo perverso nel quale l’intercettazione diventa il primo atto d’indagine – ed a volte resta l’unico – a carico dell’indagato, mentre l’uso di tale attività investigativa dovrebbe presupporre gravi indizi di colpevolezza a carico del soggetto che s’intende controllare e non viceversa. Sarebbe interessante conoscere il dato relativo all’esito processuale di tali fascicoli, per poter effettivamente valutare costi e benefici. Altro dato rilevante – ce ne sarebbero molti, ma lo spazio a disposizione non consente ulteriori approfondimenti – è quello relativo ai criteri di priorità sui reati da perseguire.

In merito, il bilancio dà atto che tale scelta è stata fatta coinvolgendo l’avvocatura e che il principio invalicabile dell’obbligatorietà dell’azione penale non consente di praticare altre strade. È questa una situazione paradossale, che vivono tutte le grandi Procure del Paese. L’esercizio dell’azione penale varia a seconda del territorio. Il cittadino denuncia, ma se quel reato non è tra gli obiettivi prioritari della Procura, la sua legittima azione non troverà risposte. È evidente che tale compito dovrebbe spettare esclusivamente alla politica, le cui scelte possano valere per tutti in ugual misura, senza connotazione di luoghi. Ed è altrettanto pacifico che occorre la depenalizzazione di alcuni reati privi di concreto allarme sociale, le cui fattispecie potranno trovare una più efficace sanzione amministrativa. Resta il grande merito della Procura di Napoli di aver messo sul tavolo i dati necessari ad un vero proficuo confronto sugli importanti temi dell’attività investigativa. Riccardo Polidoro

Napoli, il bilancio della procura: nel 2021 boom di intercettazioni. Il dato elaborato con l'Università Federico II: negli ultimi due anni oltre il 75% delle richieste cautelari è stato accolto. Nell'ultimo anno 4.672 le richieste di autorizzazione a disporre captazioni. Valentina Stella su Il Dubbio l'8 marzo 2022.

L’Università degli Studi di Napoli Federico II e la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli hanno presentato il Bilancio Sociale 2020-2021. «L’idea del bilancio sociale – scrive il procuratore Giovanni Melillo nell’introduzione – muove dalla consapevolezza che la trasparenza dell’organizzazione e delle prassi dell’ufficio del pubblico ministero è una componente essenziale dello Stato di diritto e al tempo stesso una delle garanzie del giusto processo».

A plaudire all’iniziativa il presidente della Camera Penale di Napoli, l’avvocato Marco Campora, che ci dice: «È un esempio molto importante di responsabilità e trasparenza istituzionale perché, attraverso i numerosi dati statistici, si dà al cittadino la possibilità di conoscere le scelte di politica criminale adottate dalla Procura. Questa iniziativa dovrebbe essere fatta propria da tutti gli uffici giudiziari d’Italia».

Criteri di priorità nella trattazione degli affari

«L’analisi dei flussi delle notizie di reato – si legge nel report – e la consapevolezza del numero e della tipologia dei reati che costituiscono oggetto dei singoli fascicoli hanno consentito di individuare soluzioni organizzative mirate ad evitare il ricorso alla mera casualità e a garantire la massima trasparenza e uniformità di azione nella selezione dei procedimenti». Tra le priorità della procura di Napoli troviamo reati per mafia, stalking, in materia di ambiente e paesaggio, per i quali vi sono beni in sequestro sottoposti a custodia giudiziale onerosa o di rilevante valore, relativi a pene superiore ai 4 anni, con termine di prescrizione che non maturi prima dei due anni dalla prima udienza. Per Campora, «si tratta, al fine di ridurre il contenzioso penale, di un tipico esempio di scelta di natura politica che secondo me andrebbe fatta in maniera diversa, addivenendo, attraverso una operazione di tipo culturale, a quel diritto penale minimo che non può non essere il punto di approdo in una società realmente liberale e democratica».

Ci spiega Campora che «abbiamo toccato con mano che quasi il 98% dei processi attinenti a reati bagatellari si conclude con la prescrizione. La procura di Napoli ha adottato condivisibili linee guida per garantire la ragionevole durata dei procedimenti ed evitare la stasi di molteplici fascicoli negli armadi dei sostituti procuratori. Questa scelta è certamente apprezzabile perché mira a non ingolfare il Tribunale; tuttavia sarebbe auspicabile arrivare ad una visione unitaria del diritto penale, che deve essere unico in tutto il territorio nazionale. Occorrerebbe giungere, quindi, ad una rivendicata operazione di depenalizzazione accompagnata, magari, da un’ampia amnistia per ridurre gli arretrati».

Misure cautelari

Nel 2020 la Dda ha fatto richiesta di misure cautelari per 1307 indagati, concesse per 981 di loro, pari ad una percentuale del 75%. Nel 2021 le richieste sono state 1304, quelle accolte 1019, pari ad una percentuale del 78%. «Il dato interessante e allarmante – evidenzia Campora – è quello relativo all’alta percentuale di accoglimento che ci porta a dire che il giudice terzo si è smarrito, e con esso il suo controllo filtro sull’attività della procura. Non voglio trovare un alibi al giudice però, soprattutto per reati di criminalità organizzata, si tratta di analizzare in pochissimo tempo fascicoli enormi, in cui la Dda, in particolare, spesso riversa migliaia di pagine». Tutto questo, ovviamente, «incide sul diritto di difesa del cittadino».

Boom di intercettazioni

Nell’anno 2020 sono state 2.891 le richieste di autorizzazione a disporre, che sono arrivate a 4.672 nel 2021. Per quanto concerne le richieste di proroga da parte del pm ne abbiamo 10.028 nel 2020 e 13.909 nel 2021. Per le intercettazioni sono stati spesi 11.811.411,09 per il 2020 e 12.785.338,67 per il 2021. «Le spese per intercettazioni – si legge ancora nel bilancio sociale – rappresentano la voce di costo più rilevante nel panorama delle spese di giustizia della procura (oltre la metà del totale), a conferma dell’assoluto rilievo dello strumento investigativo per il contrasto ai più gravi fenomeni criminali. La parte più importante del costo è quella relativa alle attività di intercettazione telefonica (circa 7 milioni su 11,8 nel 2020; 5,6 milioni su 12,7 nel 2021). Nell’ultimo anno, a fronte di una riduzione del costo per intercettazioni telefoniche, si è registrato un incremento delle spese per intercettazioni informatiche ed ambientali».

In particolare quelle relative al Trojan nel 2021 sono costate quasi 3 milioni, nel 2020 la spesa si era fermata a circa 1,7 milioni. Quella telematica per Android costa 174 euro al giorno, mentre quella per Ios 243. A fare ampio uso delle intercettazioni è la Dda. Secondo Campora, «per analizzare questi numeri dobbiamo ricordare che siamo in un territorio ad altissimo tasso criminale e poi non spetta a noi avvocati fare una valutazione economica delle spese relative allo strumento intercettivo. È chiaro però che si tratta di un mezzo invasivo, che andrebbe adottato solo in casi eccezionali. Nel nostro Paese vi è stato spesso un abuso delle intercettazioni, soprattutto per la pesca a strascico. C’è una tendenza ad utilizzarle affinché costituiscano la prova unica del reato, quando invece dovrebbero rappresentare un elemento a riscontro degli altri risultati investigativi».

Quasi 19mila persone spiate per un costo di 13 milioni (su 21 totali) ogni anno. Intercettazioni, Procura di Napoli sempre più Grande Fratello: ma sei indagini su dieci muoiono. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Ci sono quasi 19mila persone (18.581 per la precisione) sotto intercettazione. Sono tante, tantissime. Le loro conversazioni sono spiate dagli 007 della Procura di Napoli, diventata ormai una sorta di Grande Fratello che ascolta e annota dialoghi e movimenti. Ma davvero si tratta sempre di attività di indagine necessarie e irrinunciabili? A leggere le percentuali di assoluzioni e di archiviazioni con cui si concludono poi le inchieste (parliamo di circa il 60 per cento), non sembra. E non sembra nemmeno che siano attività di indagine utilizzate sempre a completamento di ricostruzioni investigative su notizie di reato già in buona parte accertate, se è vero che molto alto è il dato sulle cosiddette “intercettazioni a strascico”, cioè intercettazioni attivate in un procedimento ma utilizzate anche in altri.

Come se le intercettazioni servissero a trovare la notizia di reato e non a verificarla. Come se fosse normale impiegare il Trojan come primo e unico strumento di indagine. Quasi 19mila persone intercettate in un anno è un numero elevatissimo. Nel 2021 la Procura di Napoli ha avanzato 13.909 richieste di proroga delle intercettazioni e 4.672 richieste di autorizzazione a disporre. Numeri che indicano un trend in crescita rispetto al passato, se si considera che sono state poco più di 10mila le richieste di proroga tra il 2019 e il 2020 e poco più di 2mila le richieste di autorizzazione a disporre. Ingente anche la spesa: quasi 13 milioni sui 21 milioni impiegati per il funzionamento della macchina giudiziaria della Procura partenopea. La Procura di Napoli, guidata dal procuratore Giovanni Melillo, ha reso noto questi e altri dati nel bilancio sociale, redatto con il supporto dell’università di Napoli Federico II e presentato sabato nel complesso di San Marcellino dell’ateneo federiciano.

Un atto di trasparenza di cui bisogna dare merito al procuratore Melillo, il primo anche a regolare le comunicazioni con la stampa e a formalizzare la modalità con cui i giornalisti possono avere accesso a un atto come l’ordinanza di custodia cautelare. «La magistratura funziona se si carica su spalle l’effettività delle garanzie, la durata del processo – ha spiegato il procuratore, capo della Procura più grande d’Italia – Io non ho mai considerato gli avvocati come utenti, penso che non sia lontano il momento in cui gli avvocati siederanno nel consiglio di amministrazione degli uffici giudiziari per partecipare alla definizione delle linee fondamentali dell’organizzazione degli uffici giudiziari», ha aggiunto sostenendo la necessità di una nuova apertura da parte della magistratura. Ma la questione non è solo quella morale legata alla crisi di fiducia che investe la categoria delle toghe da quando sono esplosi il caso Palamara e quello del correntismo. La questione è anche quella della «orizzontalità della magistratura», come l’ha definita il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza.

«Questo bilancio sociale è un atto di grande importanza e spero che diventi un parametro che valga al più presto per tutti gli uffici giudiziari italiani – ha commentato l’avvocato Caiazza, intervenendo alla presentazione del bilancio della Procura partenopea – . È un metodo che laicizza il confronto. Ovviamente quando condividiamo dei dati discutiamo di quei dati, e i dati non sono mai neutri, ognuno li legge come ritiene». E sulle intercettazioni, «il numero di persone intercettate è impressionante, su questo – aggiunge Caiazza – abbiamo opinioni diverse. Il fatto però che un singolo sostituto abbia autonomia di scelta nell’ambito di una rosa di società selezionate dalla Procura, o che si possa andare anche fuori da quella con un’autorizzazione, credo sia il frutto estremo di un’idea di orizzontalità della magistratura distrettuale che a noi non piace».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il report sulle indagini. Flop intercettazioni, nel 77% dei casi i procedimenti vengono archiviati. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Gennaio 2022. 

Il bilancio dell’anno giudiziario investe anche l’attività delle Procure del distretto, da Napoli a Napoli nord, Avellino, Benevento, Caserta, Santa Maria Capua Vetere, Torre Annunziata, Nola. L’ultimo anno ha fatto registrare un aumento delle inchieste avviate dai pm e del ricorso all’uso delle intercettazioni. Rispetto al 2020, i procedimenti iscritti presso le Procure del distretto con indagati noti sono aumentati, passando da 94.267 del 2020 a 110.311. Sono aumentate anche le definizioni: 113.384 rispetto alle 95.970 dello scorso anno. E sono diminuiti, anche se di poco, da 1.797 a 1.747, i procedimenti iscritti presso la Procura dei minorenni.

Il dato, però, che più balza agli occhi è quello che riguarda gli esiti delle indagini dinanzi al gip/gup. Secondo il bilancio dell’ultimo anno, il 77% dei procedimenti si è concluso con un decreto di archiviazione, il 6% con una sentenza di rito alternativo, il 2% con un decreto di condanna esecutivo, il 15% con un rinvio a giudizio. Fra le varie Procure del distretto si fa riferimento a un totale di 58.594 procedimenti contro noti definiti dinanzi a un giudice delle indagini preliminari o un giudice in udienza preliminare. Puntando la lente sui dati della Procura di Napoli, la più grande d’Italia, sono stati 21.628 i procedimenti totali, di questi 15.928 sono stati archiviati, 3.353 hanno portato a un rinvio a giudizio, 1.454 a una sentenza con rito alternativo, 893 a decreto di condanna.

Nel 54% dei casi c’è da dire che l’archiviazione proviene da una richiesta della stessa Procura. Procura che a Napoli, nel 2021, ha avviato 40.477 procedimenti penali. Rilevanti anche i dati sulle intercettazioni: 10.031 bersagli in un anno. In particolare, si sono contate 1.958 utenze telefoniche e intercettazioni ambientali o di altro tipo disposte dalla Procura ordinaria, 7.961 nell’ambito di indagini coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, 112 nell’ambito di inchiesta dell’Antiterrorismo.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Si sgonfia la bufala dell'"archivio Genchi". Massimo Malpica il 18 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'esperto di intercettazioni che inguaiò politici e pm "non commise illeciti".

L'archivio costruito da Gioacchino Genchi nella sua attività di consulente per tante procure? Secondo il garante della privacy rappresentava una sfilza di violazioni nella raccolta, conservazione uso di quei dati, tanto da sanzionarlo, a marzo 2016, per 192mila euro. Ma prima un giudice di Palermo, a luglio 2019, e ieri la Cassazione hanno annullato quella decisione, stabilendo la liceità dell'archivio informatico dell'ex poliziotto, che oggi dopo essere stato reintegrato in servizio e aver scelto di prepensionarsi - fa l'avvocato.

Proprio Genchi, dopo la conferma arrivata ieri dalla prima sezione civile della Suprema corte, esulta: «Si chiude il suo commento - una vicenda fondata sulla bufala dell'archivio con cui hanno cercato di farmi fuori, tra Palermo e Catanzaro, con l'indagine Why not, dove ero impegnato nelle indagini più importanti che c'erano in quel momento». Insomma, il modo in cui l'ex superconsulente di De Magistris e di altri pm aveva trattato i dati delle indagini e dei processi ai quali collaborava era corretto. Con buona pace, tra gli altri, dell'ex viceprocuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna, del quale Genchi - mentre lavorava come consulente per De Magistris alle inchieste Why Not e Poseidone - aveva rintracciato i rapporti con Luciano, uno dei figli del boss della ndrangheta Giuseppe Lo Giudice (vicenda al centro del libro Il Caso Genchi di Edoardo Montolli). Cisterna aveva omesso di informare di questi contatti il suo superiore dell'epoca, Piero Grasso, e anche se l'inchiesta penale si era conclusa con un proscioglimento, il Csm lo aveva trasferito d'ufficio, e la toga aveva presentato un esposto al Garante per la privacy contro Genchi. Ma per la Cassazione non c'è alcuna prova che il superconsulente avesse «trattato i dati in suo possesso per finalità estranee a quelle di giustizia, in ragione delle quali ne era avvenuta l'acquisizione», e dunque Genchi non ha commesso «nessun illecito». Ora l'ex poliziotto si toglie sassolini dalle scarpe e legge la sua odissea come «un disegno per farmi fuori», ribadendo appunto di essere stato in prima linea in indagini molto calde, comprese quelle sulle morti di Falcone e Borsellino: «Hanno preso a pretesto la vicenda di Catanzaro che, peraltro, era la meno importante di tutte e mi hanno fatto fuori», spiega all'Adnkronos Genchi. A sua difesa si schiera anche l'ex pm ed ex sindaco di Napoli De Magistris, che plaude alla pronuncia della Cassazione che «indirettamente conferma anche la bontà della scelta che feci nel 2006 nominandolo consulente» e ricorda il suo stupore per le «notizie che facevano girare», ossia che «noi avevamo intercettato l'universo mondo, dalle cariche istituzionali più elevate ad altri, quando invece non c'erano quasi intercettazioni». E la decisione della prima sezione di ieri conclude l'ex pm conferma anche «quanto quelle indagini erano doverose e che non c'era nessun elemento né strumentale né illecito». Massimo Malpica

Focus sul fenomeno delle intercettazioni. Quanti processi inutili nati dalla smania di intercettare tutti. Gennaro De Falco su Il Riformista il 16 Gennaio 2022.

Nel 2007 il premio Oscar per il miglior film straniero venne assegnato al film tedesco La vita degli altri, una storia ambientata nel 1984 nella ex DDR che racconta le vite parallele del drammaturgo Georg Dreyman e di Gerd Wiesler, un capitano della Stasi, codice HGW XX/7, che, grazie alle microspie poste nella casa dell’artista per ordine di un ministro, controllava passo dopo passo la vita di Dreyman e della sua compagna.

In difesa del “cattivo” devo anche dire che alla fine non ha commesso violenze fisiche né alterato prove né si è arricchito o ha fatto carriera alterando le prove contro la vittima delle sue indagini, e non ha maliziosamente “omissato” per usare non a caso un orribile neologismo utilizzato nella prassi investigativa. Alla fine HGW XX/7 è stato più che corretto. Anzi, bisogna anche dire che dal film emerge che le prove a carico nella DDR degli anni ‘80 non venivano inventate, costruite a tavolino o alterate. Insomma nella DDR degli anni ‘80 senza vere prove si veniva assolti e in ogni caso non si veniva arrestati per costringere alla confessione, se le prove della colpevolezza dell’indagato non si trovavano nessuno ne metteva di false né c’erano pentiti pronti a tappare docilmente qualunque buco. Comincio col dire che a me HGW XX/7 piace, il mio eroe nel suo grigiore è lui, e non Georg Dreyman, il drammaturgo che stava inutilmente intercettando.

Devo ammettere che molto spesso mi sento come HGW XX/7: lui era con la cuffietta sempre in testa ad ascoltare suo malgrado le vite degli altri, io con gli occhialetti a leggerle. Come lui passo molto, troppo del mio tempo chiuso nella penombra dello studio a leggere le intercettazioni dei processi che di volta in volta mi capitano. Insomma leggo, a volte anche dalla mattina alla sera, le vite degli altri. Non solo le vite della gente di strada, dei cosiddetti camorristi nella loro miserrima e il più delle volte poverissima vita quotidiana. A volte capita anche di leggere le vite di persone che si conoscono, del medico che cerca di fare carriera, del poliziotto, del politico nazionale o anche locale che cerca favori, del giornalista, dell’imprenditore sotto estorsione che non può denunciare e che, se lo facesse, dovrebbe chiudere in quattro e quattr’otto perché lo Stato non è assolutamente in grado di difenderlo. A differenza di HGW XX/7, che entrava nella vita soltanto di due persone e da ufficiale superiore su delega di un colonnello e su impulso del ministro, insomma in via assolutamente eccezionale, nell’Italia del 2022, sotto l’imperio del codice garantista dell’89, le cose in materia di intercettazioni vanno in questo modo: qui le intercettazioni sono il più delle volte guardonismo di massa. Qui da noi, rispetto alla DDR degli anni ’80, le cose vanno decisamente peggio.

In realtà, qui da noi essere intercettati è semplicissimo, basta che un poliziotto qualsiasi scriva un’informativa assolutamente generica raccontando la storia della camorra, aggiunga un po’ di numeri di telefono, magari non del tutto a caso, e chieda al pm di porli sotto intercettazione aggiungendo, come per legge e quando si ricorda, che si tratta di intercettazioni urgenti ed assolutamente indispensabili alla prosecuzione delle indagini. Il pm regolarmente emette il decreto di intercettazioni di urgenza e poi manda gli atti al gip per la convalida, insomma prima autorizza le intercettazioni e poi chiede al gip di essere autorizzato ad autorizzare, e le intercettazioni iniziano subito e a valanga. Occorre dire che questi decreti di convalida sono delle formalità del tutto inutili, in circa quarant’anni i rigetti delle richieste del pm che ho visto saranno stati tre o quattro, più o meno uno ogni dieci anni su qualche migliaio di richieste; in altri termini le probabilità di vincere al superenalotto sono certamente maggiori del rigetto di una richiesta di intercettazione o di proroga e, se qualche volta il gip dovesse dire di no al pm, il pm che fa? Cambia gip e ripresenta la richiesta, in pratica il pm comanda e decide e il gip sta lì a ratificare.

Le intercettazioni poi dovrebbero avvenire esclusivamente nei locali della Procura e sotto il diretto controllo del pm ma, nella pratica, questo non avviene quasi mai. Le intercettazioni, o meglio la loro sintesi la scrive, nel suo ufficio in un brogliaccio, non il capitano HGW XX/7 sotto il controllo del colonnello e del ministro ma il maresciallo Pincopallo di turno. Detto ciò dobbiamo aggiungere che il 90% dei provvedimenti di intercettazione telefonica che conosciamo si fondano su valutazioni quanto meno erronee poiché presuppongono l’urgenza e l’indispensabilità degli ascolti, e questo perché la massima parte delle intercettazioni telefoniche vengono abbandonate quasi subito in quanto ritenute ininfluenti dagli stessi richiedenti che ne spergiuravano l’assoluta indispensabilità ed urgenza sulla scorta di valutazioni che secondo me al di là delle forme prende la polizia giudiziaria. Insomma, la massima parte delle intrusioni dello Stato nelle vite dei cittadini si rivelano quasi subito infondate e per questo vengono quasi sempre immediatamente abbandonate, per poi finire sui giornali se si tratta di storie piccanti o di vip.

Poi ci sono le cosiddette intercettazioni a strascico che, come le reti da pesca, vengono gettate a caso nel mare delle nostre chiacchiere intercettando decine e decine, se non centinaia, di numeri e poi i pm prendono quello che trovano. Si potrà dire: sì ma in genere almeno per quello che emerge qualcosa esce. Questo è anche vero, ma noi sappiamo pochissimo di quello che si ascolta, e poi in un Paese in cui è vietato tutto e tutti fanno tutto è assolutamente normale che qualcosa esca. Ma poi chi dice che il maresciallo abbia capito bene la conversazione e il suo senso e l’abbia trascritta senza forzature o errori? La verità è che nell’Italia giudiziaria di questi anni le garanzie reali sono molto inferiori a quelle della DDR degli anni ‘80, può sembrare un’esagerazione ma in effetti non è così. È vero che i Vopos sparavano a vista su chi cercava di fuggire all’ovest e che questo da noi sarebbe inconcepibile, ma è anche vero che altri diritti, come quello alla segretezza delle comunicazioni o le garanzie processuali, erano riconosciuti e garantiti. Nelle mie intrusioni nella vite degli altri ho letto e visto di tutto, posso dire che non c’è parlamentare o funzionario pubblico di rango di cui non siano stati intercettati amori, vita, morte e miracoli.

All’inizio la lettura sembrava interessante e divertente, ma poi alla fine si è fatta noiosa e ho smesso di leggere, anche perché era del tutto inutile e anche piuttosto nauseante. La verità è che brogliacci e intercettazioni non li legge mai nessuno, anche perché sono talmente tanti che sarebbe del tutto impossibile farlo. È raro che un imputato in un processo complesso abbia i mezzi per competere con quelli del pm, che sono praticamente illimitati, e un avvocato che solleciti il proprio cliente a nominare un consulente per perizie di questo tipo verrebbe immediatamente sostituito con qualche rassicuratore professionista di passaggio. Una volta una poliziotta mi disse che con un incarico che aveva avuto per trascrivere un processo si era comprata casa ed allora, se questa è la situazione, mi pare ci si trovi di fronte ad un’altra espressione di quel grande ammortizzatore sociale che chiamano giustizia. Gennaro De Falco

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Le Mie Prigioni.

Galera, Prigione, Carcere. La vita dietro le sbarre. Che differenza c’è tra ‘prigione’ e ‘carcere’: quando con le parole nasce il castigo. Antonio Coniglio su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

La parola, nel momento in cui viene scandita, pensa, concepisce, crea. A volte distrugge, rade al suolo. In ogni caso, la parola fucina e modella il destino. Perché, in principio, fu il verbo, il logos e, trovare le parole giuste, rimane l’unico viatico per capire, intenderci, dar vita alla realtà. Nel corso dell’ultima assemblea di Nessuno tocchi Caino, a Roma, presso la Società Romana di Nuoto, Sergio D’Elia ha riflettuto, per esempio, sulla parola “galera”. Sino al XVIII secolo, il reo era costretto, infatti, a remare nelle galee o galere: navi medioevali spinte dalla forza delle braccia sui remi.

Nessuno avrebbe potuto immaginare che, nel momento in cui le navi avessero ammainato le proprie bandiere, i detenuti, sarebbero stati costretti a trasformarsi in “automi peripatetici”: coartati a muoversi, come pesci in un acquario, avanti e indietro, dentro quattro mura, senza un senso, un verso, una destinazione, un destino! Quale parola usare per definire questa condizione? Di uomini e donne condannati alla inutilità e all’impotenza? Non certo la parola “prigione”. “Prigione” deriva dal latino “prehensio”: prendere, afferrare. Ti prendo, ti afferro e ti porto in luogo distinto dalla società perché sei pericoloso, nocivo. Per un tempo determinato e senza alcuna intenzione punitiva. Starai lì, solo fino a quando sarai portatore di insidie e pericoli per gli altri. Lo Stato deve “sorvegliare”, vivaddio, ma mai “punire”! L’etimologia di “prigione”, ci consegna allora questa realtà. La crea, gli dà un nome.

La prigione ha una funzione meramente preventiva. Non è un caso se, nel mondo classico, i prigionieri erano protetti da un semplice vestibolo, nel quale, in taluni casi, avevano finanche la libertà di incontrare parenti e amici. Un vestibolo, un passaggio, un passo verso qualcosa. Che poteva essere la libertà o anche la morte. Oggi – che è quasi patrimonio diffuso aver superato la pena di morte nel nome dei diritti umani universali – il termine “prigione” avrebbe potuto esplicarsi al pieno della sua capacità inventrice. Uno spazio funzionale solo a “raffreddare”, stiepidire le passioni morbose, pericolose, per un periodo centellinato della propria esistenza. Dopo, il quale si potesse ritornare al teatro della vita. La prigione serve ad continendos homines, non ad puniendos.

In Italia, invece, abbiamo partorito l’idea insalubre e venefica di abolire le prigioni! Di creare il “carcere”. Nomen omen: nel nome il presagio, la realtà creata. Carcere deriva dal verbo latino coerceo. Che significa contenere ma anche domare, reprimere, frenare, punire, castigare, correggere, costringere all’obbedienza. Prigione non è sinonimo di carcere. Carcere è invece sinonimico di penitenziario, di istituto di pena. Sono luoghi progettati ontologicamente per infliggere dolori e patimenti. Gattabuie del castigo e della terribilità. Se ci incamminiamo oltre, dobbiamo ulteriormente spaurire. Abbiamo dovuto finanche aggiungere un attributo perché il nome carcere, in sé e per sé, non rendeva sufficientemente la proporzione enorme di piaghe e flagelli inflitti. C’è, infatti, un carcere “ostativo”. Ostativo deriva dal latino ob-stare: stare di contro, opporsi, contrastare. È la modernità della tortura. Il castigo perpetuo nei confronti dell’hostis, del nemico. È il coerceo senza limite: la dannazione dell’essere cristallizzata dallo Stato. Di questo, in questi mesi forse torridi, discuterà il Parlamento italiano. La Corte Costituzionale ha infatti inspiegabilmente concesso altri sei mesi al legislatore per superare una norma – l’art. 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario – dichiarata incostituzionale.

Freud era convinto che le parole originariamente fossero incantesimi. Sarebbe un miracolo, se i signori deputati cambiassero parole, pronunciassero incantesimi di segno diverso. Sostituissero, al “coerceo”, il “prehensio”: un prendere, afferrare, per un tempo limitato, nel nome della sicurezza sociale, compatibile con i diritti umani universali. E sarebbe un incantesimo, capace di rompere un maleficio, eliminare quantomeno la parola ostativo. Sarebbe superare una parola, carcere, che potrebbe anche avere, tra gli avi, l’ebraico carcar, ossia tumulare, sotterrare. Può lo Stato sotterrare, tumulare, un uomo? I signori parlamentari hanno dinnanzi a loro, non capi mafia, boss potenti, “giganti della montagna”, ma uomini ristretti in carcere da più di 20 anni. Inermi, che hanno il diritto di lasciare il vestibolo, laddove abbiano raggiunto nuovi livelli di coscienza. Di ritornare nel teatro della vita, oltre ogni scambio sinallagmatico che umilia le coscienze. I “giganti della montagna” di Pirandello rischiano invece di essere i deputati del parlamento italiano che – alla stregua di quelli del dramma pirandelliano – non accettano la proposta della compagnia teatrale della contessa Ilse e degli scalognati di assistere alla rappresentazione di un’opera che racconta la storia della vita. Non fate come “i giganti della montagna”, signori deputati: non ammazzate. Pronunciate parole di segno diverso! Antonio Coniglio

La costruzione di nuove carceri. Carceri a pezzi: riprendete i progetti di edilizia penitenziaria dimenticati dal 1997. Domenico Alessandro De Rossi su Il Riformista il  9 Novembre 2022

La “lettera aperta” pubblicata recentemente su Il Riformista dall’architetto Cesare Burdese, da tempo consulente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, affronta la grave situazione delle carceri italiane ormai resa drammatica. Il documento indirizzato ai ministri Nordio e Salvini e quindi anche al Dap, dalle pagine del giornale lamenta l’arretratezza degli interventi sulle carceri, e riguarda la decisione che il ministro della Giustizia dovrebbe prendere sul modello Genova per sciogliere il nodo gordiano se ristrutturare le carceri preesistenti o costruirne di nuove. La testimonianza volta all’attenzione di ben due ministri così come è stata congegnata parte da una prima asserzione riguardante le «…questioni irrisolte che appartengono alla nostra edilizia penitenziaria: i tempi biblici necessari per la realizzazione di un carcere e i limiti culturali che ne caratterizzano la vicenda progettuale…».

Per prudenza metodologica è appena il caso di osservare che qualora esistessero effettivi limiti culturali e altre questioni irrisolte, le diverse problematiche potrebbero essere meglio risolte proprio all’interno delle diverse compagini consulenziali chiamate dal Dap e partecipanti ai Tavoli tecnici e nelle Commissioni. L’architetto tiene a informare i ministri che «…più volte, nel corso dell’ultimo decennio, sono stato seduto ai tavoli tecnico-consultivi ministeriali, organizzati sulle questioni carcerarie ed in particolare sull’architettura penitenziaria…» e in forza di ciò, tiene a precisare che «…meno problematiche, sotto il profilo temporale, apparirebbero le ristrutturazioni delle carceri esistenti, che richiederebbero però una più matura e chiara visione delle soluzioni progettuali ed una programmazione strategicamente concertata…».

Nella lettera aperta purtroppo non si menziona quanto fu a suo tempo studiato, per volontà del presidente Di Gennaro, il problema dell’edilizia penitenziaria sulla base di una approfondita quanto fondamentale ricerca compiuta dai tecnici del Ministero della Giustizia nel lontano 1997 con lo studio “Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario in Italia”. A confutare la pretesa originalità riguardante l’attualità del problema del recupero degli edifici, viene a sostegno anche quanto emerso ufficialmente nel più recente Seminario di Udine del maggio di quest’anno “Carcere: Ripartire dalla Costituzione” che sgombra in modo risolutivo il dubbio in merito alle più opportune azioni da intraprendere sulla preesistenza edilizia.

Occasione quella del convegno nella quale uno dei relatori, l’architetto Leonardo Scarcella coautore insieme all’architetto Daniela Di Croce del sopra citato Repertorio, a chiare lettere nella sua relazione stigmatizzava: «…Fu così avviata ed effettuata un’attenta ricerca di archivio e un censimento “sul campo” dei dati di funzionamento degli istituti in attività così come di quelli ormai inattivi e degradati. Tutto questo materiale ha consentito la redazione del primo (ed unico) “Repertorio del patrimonio edilizio penitenziario italiano”, tre volumi in cui sono stati catalogati ben 219 complessi edilizi (di cui attivi 193) e individuate sette tipologie edilizie ripartite secondo l’epoca di costruzione e i finanziamenti operati dai diversi Governi post-unitari: dagli istituti definiti “storici” (alcuni dei quali addirittura di epoca medioevale) edificati per altre funzioni ed adattati a carcere, alle carceri di epoca pre-unitaria e via discorrendo sino al 1997…».

Ma il punto più significativo della relazione di Leonardo Scarcella, presentata a Udine nel maggio del 2022 e che scioglie definitivamente il quesito, dimostrando la consolidata attenzione tecnica (e culturale) del Ministero della Giustizia, riguarda proprio l’importanza del recupero delle preesistenze edilizie anche all’interno dei centri urbani consolidati. Infatti: «…oggi, come ieri, appare evidente l’utilità per l’Amministrazione di conservare il patrimonio immobiliare storico posto all’interno del tessuto urbano, sia per poter fronteggiare eventuali e specifiche esigenze logistiche che, come l’esperienza ha insegnato, emergono nel corso del tempo, sia per realizzare di fatto quella “differenziazione” di trattamento e degli istituti prevista dall’Ordinamento che dal 1975 regola l’attività penitenziaria italiana…».

A sostegno ulteriore di questa tesi, ormai da molti decenni culturalmente acquisita nel sistema tecnico e professionale degli architetti e degli urbanisti esperti in materia di edilizia penitenziaria e non solo, è appena il caso di menzionare anche alla precisa attenzione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al fine di ampliare la riflessione intorno al problema, il contributo di AA. VV. nei seguenti volumi che trattano in modo organico e sistemico la tematica in oggetto: “L’universo della detenzione, storia, architettura e norme dei modelli penitenziari” – Mursia ed. 2011 e “Non solo carcere, storia e architettura dei modelli penitenziari” – Mursia ed. 2016, di cui chi scrive è stato curatore e coautore. In finale, dato che il problema del più corretto approccio metodologico al recupero del patrimonio edilizio preesistente è ampiamente da tempo studiato, rimane ora ai più alti responsabili capire quanto sia fondamentale in questo momento consentire un dibattito il più articolato ed aperto possibile sul problema delle carceri avvalendosi anche di diversi contributi dei vari esperti in materia finora inascoltati. Domenico Alessandro De Rossi

L’Ue bacchetta l’Italia: «Celle stracolme, basta abusi del carcere preventivo». Il monito del commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders: il nostro Paese tra i peggiori in Europa. Nordio: «Giusto processo anche per la confisca dei beni russi». Simona Musco su Il Dubbio il 10 dicembre 2022

La carcerazione preventiva nell’Ue «dovrebbe essere usata solo quando strettamente necessaria, come extrema ratio». A dirlo, al termine del Consiglio di Giustizia a Bruxelles, è il commissario europeo per la Giustizia Didier Reynders.

«Vediamo una grande diversità nella detenzione prima del processo nell’Ue – ha sottolineato – la durata media varia da 2,4 mesi a Malta a 12,9 in Slovenia». E le differenze riguardano anche il costo medio per detenuto, che varia «da 6,45 euro al giorno per detenuto in Bulgaria a 332,63 euro al giorno in Lussemburgo», mentre in Italia il costo è di 135,5 euro al giorno, a fronte di una media Ue di poco superiore ai 125 euro.

Il Consiglio ha approvato giovedì le raccomandazioni volte a migliorare le condizioni di detenzione nell’Unione, un documento dal quale l’Italia esce fuori con le ossa rotte, collocandosi – con una media di sei mesi e mezzo – tra i peggio in europa per utilizzo dello strumento della custodia cautelare. Sono soltanto quattro i Paesi che possono “vantare” una durata superiore: oltre alla Slovenia si tratta di Ungheria (12,3), Grecia (11,5) e Portogallo (11). Ma mancano dati precisi su Paesi come la Francia e la Germania. Secondo il monitoraggio Ue, in Italia circa il 31,5 per cento delle persone in carcere non ha una condanna definitiva, dato che si scontra con la media europea, fissata al 25 per cento. Ma negativo è anche il dato sul sovraffollamento, con una media di 105 detenuti ogni cento posti. Così il nostro Paese è tra i peggiori Paesi in Ue, collocandosi al quinto posto dopo Romania (119,3), Grecia (111,4), Cipro (110,5) e Belgio (108,4). Va solo leggermente meglio in Francia, dove i detenuti sono 103,5 ogni cento posti.

La Commissione ha dunque chiesto ai Paesi membri di limitare l’uso della carcerazione preventiva al minimo indispensabile e di provvedere a revisioni periodiche in caso di sua applicazione. Ma le raccomandazioni riguardano anche gli spazi minimi destinati ad ogni detenuto, che deve poter usufruire di una superficie minima di almeno 6 metri quadrati nelle celle a occupazione singola e 4 metri quadrati nelle celle con più persone. Calcolo che deve includere l’area occupata dagli arredi, ma non quella occupata dai servizi igienici. Il vertice di ieri si è però concentrato sulla «lotta contro l’impunità nella guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina», valutando la possibilità di istituire un tribunale speciale per giudicare «i presunti crimini di guerra commessi dai russi in Ucraina».

Ma non si tratta dell’unica possibilità, ha sottolineato Reynders, che ha evidenziato una soluzione ibrida, ovvero un mix di giudici ucraini e di stati membri dell’Ue con il sostegno dell’Onu e l’input della Corte Penale Internazionale. «La Commissione – ha evidenziato – è ad ogni modo determinata a far sì che i responsabili siano assicurati alla giustizia».

Nordio: «Giusto processo anche per la confisca dei beni russi»

Presente al Consiglio anche il ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha ribadito l’impegno dell’Italia a perfezionare l’adozione di un codice dei crimini internazionali, per assicurare l’adempimento degli obblighi assunti con la ratifica dello Statuto di Roma. Ma tra i temi affrontati c’è anche quello della confisca dei beni. «Condividiamo pienamente l’impostazione della proposta che mira ad assicurare a tutte le persone interessate da queste misure il diritto a un ricorso effettivo e a un giusto processo – ha evidenziato il ministro -. In questo senso siamo molto sensibili alle considerazioni che sono state espresse, affinché le persone interessate possano far valere le proprie ragioni e contestare gli elementi di fatto e di diritto su cui il provvedimento si fonda. La nostra esperienza dimostra che è possibile costruire un sistema efficace di misure patrimoniali di contrasto alla criminalità organizzata. Condivido l’ipotesi di estendere gli strumenti di confisca previsti dalla direttiva, alla violazione di misure restrittive dell’Unione».

L’ergastolo non è uguale in Europa, alcuni Stati lo hanno abolito. In Italia, in caso di buona condotta, il condannato all'ergastolo può chiedere la libertà condizionale solo dopo 26 anni. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 10 dicembre 2022

La pena all’ergastolo, considerando i Paesi Europei, è un istituto che si presenta in forme variegate per quanto riguarda la richiesta dell’accesso ai benefici. Per quanto riguarda la libertà condizionale, il panorama europeo su questo fronte è piuttosto variegato, e l’Italia è tra i Paesi più “duri” sull’accesso a questo beneficio. Ad aver formalmente abolito l’ergastolo sono in pochi: Norvegia, Croazia, Serbia, Bosnia, Portogallo e Città del Vaticano. Per quest’ultimo, ricordiamo che Papa Francesco nel 2013 l’ha sostituito con la detenzione fino a un massimo di 35 anni, in linea con la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 9 luglio 2013.

Per quanto riguarda l’Italia, come oramai è noto, abbiamo anche l’ergastolo ostativo e il dibattito – nonostante le condanne da parte della Cedu e le recenti sentenze costituzionali – è ancora molto forte. Ma parliamo dell’ergastolo “normale” che è previsto per delitti contro lo Stato, l’incolumità pubblica e la vita e per tutti quei reati per cui, fino al D.leg.lgt 10/08/44 n.224, era istituita la pena di morte. Il sistema italiano permette al detenuto, in caso di buona condotta, di chiedere la libertà condizionale dopo 26 anni e maturi sconti di 45 giorni ogni sei mesi per buona condotta.

Ma altrove? Il periodo minimo da scontare prima che un detenuto possa avvalersi della libertà condizionale varia da paese a paese, il minimo va dai 12 anni (per esempio Danimarca e Finlandia) ai 15 (per esempio Austria, Belgio, Germania, Svizzera). Nel nostro Paese bisogna attendere 26 anni per fare richiesta. Nelle giurisdizioni del Regno Unito, il periodo di reclusione è determinato al momento della sentenza da parte dell’organo giudicante; la legge non prevede un periodo minimo assoluto a tal riguardo.

Altri paesi come la Bulgaria, Lituania, Malta, Olanda e per alcuni reati, Ungheria, Repubblica Slovacca e Turchia, non hanno un sistema di scarcerazione condizionale per i detenuti condannati all’ergastolo, per cui una condanna a vita significa letteralmente e biologicamente a vita. Per rendere bene però l’idea della “durezza” nostrana, bisogna ricapitolare: la legge austriaca ammette l’ergastolo, ma di fatto dopo 15 anni, se è accertato che non esiste più il rischio di recidiva, si può provvedere alla scarcerazione o richiedere la grazia.

Lo stesso avviene negli ordinamenti giudiziari di Danimarca (dopo aver scontato almeno 12 anni), Finlandia (11 anni), Germania e Regno Unito (in entrambi 15 anni). Il Belgio di fatto assimila l’ergastolo a 30 anni di reclusione, con possibilità di scarcerazione dopo un terzo della pena prevista se il detenuto, prima del delitto, era incensurato e dopo due terzi se è recidivo, e lo stesso prevede l’ordinamento francese, ma con limiti minimi rispettivamente di 18 e 22 anni, mentre la scarcerazione anticipata si può applicare solo per motivi gravi di salute. Da noi invece – e parliamo sempre di quello “normale” – bisogna attendere 26 anni senza se e senza ma. Da ribadire che, ovviamente, non c’è alcun automatismo. La decisione di concedere o meno la libertà condizionale spetta sempre alla magistratura di sorveglianza.

“Dotto’ vi posso offrire qualcosa”, il giudice Puglia e la visita al detenuto in sciopero della fame. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Novembre 2022 

Carcere, funzione della pena, diritti, garantismo, magistratura. A volte, per comprendere a fondo il senso di tutto ciò, più delle teorie possono valere i fatti e le parole con cui quei fatti sono raccontati. È per questo che credo meritino di essere condivise le parole che, giorni fa, Marco Puglia, magistrato di Sorveglianza, uno di quei magistrati che entra nelle carceri e il cui impegno e il cui valore umano e professionale sono unanimamente e diffusamente riconosciuti negli ambienti giudiziari, ha usato per raccontare sulla sua pagina Facebook un’esperienza vissuta.

Il suo è un racconto che diventa un messaggio di speranza e una lezione di garantismo per chi sta ancora a domandarsi se davvero è necessario che i magistrati imparino a entrare nelle carceri per vedere con i propri occhi qual è la realtà della reclusione e imparino anche a coltivare una certa sensibilità giuridica e umana. «Oggi due vicende molto significative sono accadute nella mia giornata: una terribile, l’altra piena di speranza. Voglio raccontarle perché sono state per me motivo di riflessione», esordisce il magistrato Puglia nel suo racconto. «Le racconterò, però, in ordine cronologico inverso, perché voglio rischiarare il buio con la luce».

«Oggi pomeriggio un’auto è rimasta parcheggiata davanti al passo carraio del portone di ingresso della palazzina dove abito, impedendo a tutte le vetture di entrare e di uscire. Quando, dopo una lunga attesa, il proprietario si è deciso a tornare gli ho fatto notare il suo comportamento. Per tutta risposta sono stato pesantemente minacciato, con una rabbia ed una violenza che raramente ho visto. Sono rimasto nel mio difficile quartiere, che a volte amo ed altre volte odio, e ho messo in conto anche questo…». Poi c’è l’altra parte del racconto.

«Oggi c’è stato, però, un evento speciale per me. Stavo lavorando in carcere quando una educatrice mi ha chiesto di parlare con un detenuto che da più di un mese stava facendo lo sciopero della fame. Nonostante avessi pochissimo tempo le ho detto di sì e sono corso con lei nella cella dove c’era questo ragazzo di ventotto anni, ormai magrissimo, disteso a leggere. Sono entrato da solo. Appena mi ha visto, con fatica, si è messo a sedere ed io mi sono seduto accanto a lui. Abbiamo iniziato a parlare e ad un tratto mi ha chiesto: “Dotto’ vi posso offrire qualcosa?”. Ed io: “Sì, ma solo se lo dividete con me”. E allora barcollando si è diretto al suo armadietto dove in una piccola busta legata con un nodo, c’erano dei pacchi di salatini. Me ne ha passato uno, l’ho aperto e, mentre parlavamo della sua storia, abbiamo condiviso quel piccolo pasto insieme. Ed è stato così che ho capito che ciò di cui quel ragazzo era più affamato, era il bisogno profondo di essere ascoltato. Avevo davanti a me un uomo smarrito e spaventato. Ed i suoi occhi hanno parlato con sincerità ad un giudice che era contento di stare seduto su un letto di una cella di un carcere a mangiare dei salatini. Ed io, in quel luogo tanto disadorno ed inconsueto, mi sono sentito utile e meno solo. Perché la giustizia non è fatta solo di articoli di legge o processi. È fatta anche di speranza, di una speranza fatta anche di piccoli gesti che arrivavo da chi non ci aspettiamo. Oggi un uomo libero mi ha causato un dolore. Un uomo che la propria libertà l’ha persa mi ha donato, invece, un raggio di speranza. Ed è a questo dono, solo a questo dono, che voglio continuare a pensare per non perdermi mai nel buio in cui alcuni sembrano irrimediabilmente persi».

Perché la giustizia è speranza, come dice il giudice Puglia. E invece certa politica e certa magistratura sembra voler mirare a spegnerla quella speranza, a mortificare i diritti che la sorreggono, ignorare l’umanità a cui sottende. Un cambio di passo, quante volte lo si è anelato, quante volte lo si è inserito tra le priorità sempre poi sacrificate quando è stato il momento di passare dalle parole ai fatti. Intanto nelle carceri si muore (siamo arrivati ormai a settantadue suicidi dall’inizio dell’anno e a un numero impressionante di atti di autolesionismo), dalle carceri non si esce rieducati, le carceri non servono a fare giustizia né a garantire maggiore sicurezza. Sono il buio.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Manettari all'attacco del giornale dei detenuti. Il Fatto si scaglia contro Ristretti Orizzonti: “Colpevoli di scrivere” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Novembre 2022 

Sembra una vera istigazione a punire, quella lanciata ieri dal Fatto contro una serie di detenuti chiamati con nomi e cognomi, colpevoli di scrivere le proprie opinioni sulla rivista del carcere che va sotto il nome di Ristretti orizzonti. Vengono sfottuti, anche, “I boss diventano opinionisti”, e richiamati, in modo che chi di dovere si imprima bene l’elenco delle loro malefatte nella memoria, i tremendi reati commessi, quelli che, venti o trent’anni fa li hanno portati all’ergastolo. “Ostativo”, ecco la parola chiave. Detenuti al regime del “41-bis”, ecco l’altra parola chiave. Sembra un paradosso. Da una parte si legittima Roberto Saviano e il suo diritto a insultare con la parola più infame nel nome della libertà di pensiero e di parola. Dall’altra si mettono alla gogna gli ergastolani, come se non stessero comunque e da lungo tempo scontando la loro pena, perché osano pensare, avere opinioni, e persino comunicarle con la scrittura.

Lo spunto arriva da un atto più che discutibile di una onlus dal nome “Casa della carità”, diretta da Christian Abbondanza, che avrà sicuramente avuto il merito di studiare l’espansione delle mafie, in particolare la ‘ndrangheta, nelle regioni del nord, ma questa volta ha compiuto un atto violento e cinico. Secondo quanto raccontato dal Fatto questa onlus avrebbe presentato un esposto alla Dia, perché “attraverso Ristretti Orizzonti vengono promosse o diffuse pubblicazioni, anche scritte dagli stessi detenuti, di sistematico attacco all’ergastolo ostativo e al 41-bis”. Dunque, se abbiamo capito bene, la Direzione Investigativa Antimafia dovrebbe aprire indagini sulle carceri di mezza Italia e censurare il diritto di pensiero di parola e di scrittura dei detenuti che si esprimo sulla loro rivista. Perché questo è Ristretti Orizzonti, il luogo di espressione di chi è “ristretto” e spera che il proprio orizzonte non cominci e finisca dentro le mura di una prigione. È la rivista della speranza, del riscatto e del cambiamento, di quelli che hanno fatto un percorso autocritico, hanno lavorato, hanno studiato, alcuni si sono laureati. In giurisprudenza, spesso. E questo fa scandalo.

Lo stesso articolo del Fatto riconosce l’importanza dell’esistenza di un luogo del pensiero come quello. Ma il suo ruolo è anche di denuncia, andrebbe aggiunto, come il lavoro minuzioso e certosino di ricerca sul fine vita, oltre che sul fine pena. Sulle morti “naturali”, dietro cui si nasconde troppo spesso la non voglia di sopravvivere più se non si può vivere. E sui suicidi, tragico conteggio che quest’anno sta arrivando agli ottanta. Ristretti Orizzonti parla di libertà e di diritti. E perché non dovrebbe divulgare il proprio pensiero critico sia su quel laccio che stringe alla gola coloro che sono destinati dalla condanna all’ergastolo ostativo, vera pena di morte sociale, che sul trattamento previsto dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario che aggiunge chiusura a chiusura, catenacci a catenacci? Vogliamo togliere loro anche l’aria, oltre alla libertà? Singolare modo di ragionare, quello di coloro che hanno chiamato in causa la Direzione Investigativa Antimafia. Fanno le pulci mettendo il naso dentro la redazione della rivista. “Fino al 2014 – denunciano nell’esposto – vi scrivevano perlopiù detenuti comuni, dopo è cambiato tutto”.

Sarebbero stati i boss mafiosi a impadronirsi della rivista, a conquistare il potere (il potere?), a imporre le proprie battaglie. Pensate che osano persino comunicare concetti come questo: “Non si può comprimere la volontà di riscatto… a chi sta rivedendo la sua storia, riesaminando le sue scelte criminali, rendendosi disponibile a fare testimonianza della sua vita e del suo percorso in varie forme…”. Ma tra questa forme non è contemplata la collaborazione, fa subito notare il Fatto. Sta tutto qui il succo del discorso, lo scandalo da segnalare addirittura alla Dia. C’è da domandarsi a che tipo di sub-cultura appartengano gli aderenti alla onlus che ha presentato l’esposto. Sia per aver cercato di coinvolgere un’importante agenzia investigativa che ha il compito di prevenire l’espandersi delle attività criminali e non certo quello di soffocare la rivendicazione dei propri diritti da parte di chi sta scontando la pena e sta rivisitando in forma autocritica il proprio passato. Ma anche per l’ignobile divulgazione di nomi e cognomi con allegata casella giudiziaria. Una vera gogna cui, ma di che stupirsi, il Fatto si è prestato a fare da trombettiere.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Lettere al Riformista. “La solitudine dei numeri ultimi in carcere grida in silenzio”. Redazione su Il Riformista il 7 Dicembre 2022

Riceviamo e pubblichiamo il testo della lettera al nostro giornale di Luigi Mollo, studente del Corso di Laurea in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali e Diritti Umani presso l’Università degli studi di Padova, progetto università in carcere.

Ai numeri si può far dire qualsiasi cosa e quando l’hanno detta gli si può attribuire la lunga scia di suicidi, decessi e presunte torture in diversi Istituti Penitenziari, oggetto di recenti indagini da parte della Magistratura in varie regioni del nostro belpaese. Una sorta di solitudine dei numeri ultimi, si, perché qualsiasi persona che commette un reato, diventa numero ultimo della società. I numeri ultimi che si sono suicidati sono per la maggior parte detenuti in attesa di giudizio o con pena residua inferiore ai due anni. Nel corso di quest’anno, sono giunte ai Garanti Regionali e al Garante Nazionale, nonché alle varie Procure della Repubblica e ai Magistrati di Sorveglianza, allarmanti segnalazioni di un’aumento relativo ad abusi e maltrattamenti che rendono alcuni Istituti Penitenziari, luoghi punitivi e non rieducativi. Dato di rilievo sono anche i suicidi dei custodi delle persone private della libertà, sebbene regni un’incertezza sulle dimensioni del fenomeno e delle cause che spingono un agente di polizia penitenziaria a togliersi la vita.

Ci si chiede perché, le maggioranze di governo presenti e passate negli ultimi anni hanno attribuito alla pena, soprattutto alla sua declinazione più afflittiva, il valore di elementi identitari dei loro manifesti ideologici in grado di risolvere con la privazione della libertà personale ogni male sociale, attraverso l’ordine giudiziario che nel complesso ha partecipato attivamente ad infliggere condanne e custodie cautelari senza applicare per gli eventi di minor delittuosità, misure alternative alla detenzione. Eppure la Corte Europea con i suoi moniti e strumenti normativi deflattivi di ordine e genere ha consegnato nelle mani della magistratura il ruolo di protettrice della libertà e dei diritti umani essenziali, ma mese dopo mese, la solitudine dei numeri ultimi è aumentata in modo esponenziale, come aumentate le sanzioni disciplinari interne, gli episodi giornalieri di autolesionismo, aggressioni, scioperi della fame e interruzione delle terapie farmacologiche.

L’opinione pubblica conosce poco rispetto alla moltitudine di aspetti della vita dei ristretti, non è al corrente se sul serio è assicurato il diritto alla salute fisica e psicologica e, soprattutto, non conosce quali guasti comporti fisiologicamente la detenzione, costituita da mille privazioni ulteriori alla condanna emessa da un tribunale. L’aria in un carcere diventa rarefatta, come lo sono i contatti con i familiari e la propria intimità. Solo chi ha vissuto una detenzione ha conosciuto cosa significhi vivere in spazi sovraffollati, lavarsi mani e faccia con acqua gelida, espletare funzioni fisiologiche mentre sei costretto a subire il controllo da parte degli agenti dalla finestrella posta nel bagno-cucina, provare l’esperienza di una cella vuota o comunemente chiamata liscia, riservata a detenuti con tendenze depressive o suicide. 

I segreti del carcere sono ben protetti da muri alti e spessi, nessuno può sapere cosa accada realmente e quanti episodi di ordinaria follia finiscano nell’omertà che lo Stato Italiano trova ineleganti ed inopportuni raccontare, preferendo un che marciscano in carcere.

La solitudine dei numeri ultimi grida in silenzio, se qualcuno ha qualche dubbio fategli delle domande, i numeri risponderanno sempre.

Ultraottantenni dietro le sbarre. Nonnetti in carcere, le storie di Antonio, Enrico e Santo e dei ‘piantoni’ in via d’estinzione. Fabio Falbo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Il rispetto della Costituzione italiana è di tenere in gattabuia dei “nonnetti”? Sono detenuto a Rebibbia da molti anni. Da un anno sono nel reparto G8 dove condivido il mio tempo e il mio spazio con persone molto anziane. Di nonni dietro le sbarre voglio segnalare solo tre casi, ma ce ne sono molti altri a Rebibbia e in altri luoghi di pena.

Il primo è quello di Antonio Russo. È nato a Napoli il 7 luglio del 1938. Ha quindi 84 anni e un residuo pena di anni 10. Il secondo è quello di Enrico Mariotti. È nato a Roma il 19 dicembre del 1940. Ha perciò 82 anni, è detenuto dal 15 marzo del 2007 e un fine pena fra 7 anni. Il terzo è quello di Santo Barbino. È nato a Sinopoli il 13 dicembre del 1942. Ha quindi già vissuto 80 primavere, è detenuto dal 23 aprile del 2009 e il suo fine pena è “mai”. Che prospettiva di riabilitazione, percorso e senso di rieducazione potranno mai esserci su persone ultraottantenni? Se per il Russo la libertà sarà a 94 anni, per il Mariotti a 90 anni e per il Barbino mai? Dov’è il Diritto in questi casi? V’è la violazione del principio di proporzionalità affidato alla stessa pena e connesso alla funzione rieducativa insita nell’articolo 27, terzo comma, della Costituzione.

V’è anche la violazione del principio di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’articolo 3 della Costituzione. Vi è almeno una presunzione relativa di incompatibilità con il regime carcerario fondata su ragioni umanitarie oltre che sulla evidente inadeguatezza della gattabuia a svolgere pienamente la sua funzione costituzionale nei confronti di chi ha un’età così avanzata. Lo stesso legislatore ha presupposto la diminuzione della pericolosità sociale del condannato ultrasettantenne e il contenimento mediante l’obbligo di permanenza nel domicilio, con le prescrizioni e i controlli impartiti dal giudice.

Il nostro legislatore ha posto l’attenzione sulla presunzione relativa di incompatibilità facendo capire che con l’avanzare dell’età cresce il carico di afflizione associato alla permanenza in gattabuia, considerate le grandi necessità di cura e assistenza personalizzate, che non possono essere assicurate nell’attuale contesto intramurario, contrassegnato dalla coabitazione forzata con persone di ogni età, con diverse patologie anche psichiatriche, con posizioni giuridiche e pene diverse. A tutto ciò sì aggiunge la mancanza dei cosiddetti “piantoni”, persone anch’esse detenute che si prendono cura di persone affette come nel caso di Antonio Russo da gravi malattie: ipertensione arteriosa; cardiopatia ipertensiva; episodi di extrasistole; esofagite; artrosi; insufficienza venosa con problemi agli arti inferiori. Stessa condizione sofferente riguarda i tanti ultrasettantenni per i quali anche statisticamente la sola età costituisce una patologia.

I “piantoni” si prendono cura dei “nonnetti” facendo le pulizie della loro stanza, accompagnandoli a fare la doccia o in infermeria, lavando loro i panni e altro ancora. Purtroppo queste figure sono in via d’estinzione per mancanza di fondi e i “nonnetti” sono lasciati a perire e soffrire senza cura. Anche per una semplice operazione come il taglio delle unghie c’è chi è costretto ad affidarsi al buon cuore di un compagno di detenzione o per motivi di dignità a soprassedere. L’età avanzata della persona condannata e la conseguente sofferenza addizionale connessa alla permanenza in carcere devono essere considerazione preminente circa l’attualità e necessità della pena, di qualsiasi pena e regime detentivo. Ciò vale anche per i detenuti ultrasettantenni in regime di 41 bis, perché la morte per vecchiaia di un detenuto rappresenta una grave sconfitta per lo Stato di diritto.

Il giudizio sulla pericolosità ritenuta nel passato è superato e neutralizzato nel presente di “nonnetti” che sono ormai ben lontani nel tempo e nello spazio da contesti, ambienti, occasioni, relazioni, capacità al delitto, tant’è che alcuni usufruiscono di permessi premio, sono stati ai domiciliari o hanno avuto accesso al lavoro esterno. È ora che questa realtà sia considerata non solo dalla società civile, ma dal legislatore perché emani norme definitive che stabiliscano un automatismo della scarcerazione non più affidata al potere discrezionale del Giudice che, purtroppo, finisce per creare discriminazione tra casi analoghi.

Intanto spero che ai miei “nonnetti’ del reparto G8 di Rebibbia sia concessa una misura alternativa ispirata al principio di umanità della pena. Ho raccontato di loro perché la Costituzione si capisce meglio se la mettiamo a confronto con i casi concreti. Come i personaggi del romanzo di Victor Hugo sono persone cadute in una condizione di miseria umana che non è personalmente la loro, ma quella che connota il loro stato di detenzione in luoghi detti di privazione della libertà ma che sono – non solo per loro, ormai “vecchi”, ma anche per quelli ancora “giovani” – divenuti di privazione anche della salute e della vita. Della dignità di esseri umani.

Fabio Falbo Detenuto a Rebibbia

Lettera di un ex detenuto a Sbarre di Zucchero. “Dopo 24 anni di privazione della dignità, da uomo libero ho corso verso il sole con il gusto della vita in bocca”. Rossella Grasso su Il Riformista l’8 Dicembre 2022

G. ha espiato una pena di 24 anni, tra carcere, lavoro esterno e il regime di semilibertà. Mentre il mondo fuori correva e cambiava rapidamente, lui ha trascorso gli anni della sua giovinezza lontano dalla vita vera e dalle sue evoluzioni anche tecnologiche. A un certo punto gli è stata data la possibilità di poter lavorare all’esterno. Racconta la sensazione di poter mettere un piede fuori dal carcere dopo 14 anni che era recluso. E anche la miriade di contraddizioni e intoppi che devono affrontare i detenuti che riescono a ottenere la possibilità di lavorare all’esterno del carcere. “La privazione della dignità di un uomo o di una donna continua, anche fuori, in altri termini, sotto altra forma ma persiste”, scrive. Poi è passato alla semilibertà, e dopo all’affidamento in prova ai servizi sociali. La “libertà” diventa così un cumulo si sensazioni contrastanti, le contraddizioni continuano: “Sei fuori, ma non sei libero”, scrive G. Poi è arrivato quel momento che ha tanto aspettato, la fine della pena, la libertà vera. “Quando i carabinieri ti comunicano la scarcerazione, corri. Corri verso il sole, con un sapore del tutto nuovo, corri con il gusto della vita in bocca. Ed è un gran bel gusto, scopri che la vita ha un gran bel sapore”. Riportiamo di seguito la lettera di G. a Sbarre di Zucchero.

Sono stato condannato a 24 anni. Ho compiuto 21 anni in carcere. Nel 2013 ho avuto accesso all’art 21 esterno, erano 14 anni che non mettevo piede fuori, permessi esclusi. Prima esperienza di lavoro una cooperativa sociale che si occupava di manutenzione del verde. Per accedere a questa misura serviva aver raggiunto alcuni termini di espiazione pena, avere una proposta di lavoro e una relazione di sintesi che si esprimesse positivamente su quella che viene chiamata esperienza extra muraria. Se per l’equipe che redige la relazione di sintesi sei pronto, se il magistrato di sorveglianza è d’accordo e il PM non si appella, viene redatto un programma di trattamento contenente delle prescrizioni molto precise e dettagliate. Al primo “sgarro” la misura può essere sospesa o revocata. La teoria dice questo. La pratica è un po’ diversa.

Nel programma di trattamento trovi scritto che non puoi fare uso di un telefono cellulare. Peccato che nel mondo esterno non esista altro strumento di comunicazione. Io che avevo persino saltato il boom del web, delle mail e dei social, sarei stato completamente tagliato fuori, se qualcuno non mi avesse aiutato. Ti dicono che puoi mandare una mail. Peccato che non tutti sappiano cosa sia e come si fa. Non hai la patente, quindi ti muovi in bicicletta. Questo vuol dire che se abiti a Palermo ti bagni 10 volte su 100 giorni, ma se abiti a Padova ti bagni 70 giorni su 100 giorni. Se stai male, sei come lavoratore tutelato dalla malattia, peccato però che se ti senti male nella notte, dopo aver fatto rientro, risulta difficile comunicare al numero della reperibilità della tua azienda che alle 05 del mattino non potrai essere in turno.

Impensabile modificare gli orari contenuti nel programma di trattamento, quindi se l’azienda che ti assume ha bisogno per esigenze di servizio di cambiarti il turno, o di chiederti straordinario non può minimamente contare su di te, anche se risulti essere il dipendente più volenteroso e affidabile. Il tuo compenso viene versato dall’azienda che ti assume in un libretto di risparmio intestato al carcere, e gestito da un ufficio addetto denominato conti correnti che amministra per tuo conto il denaro. Se vuoi comprarti una maglia, devi avere qualcuno che ti presta quella cifra, presentare ai conti correnti la richiesta di rimborso, e loro con i loro tempi ti rimborseranno la cifra spesa. Idem se devi malauguratamente andare dal dentista, o se vuoi comprare un regalo. Tu non sei padrone dei tuoi soldi. Gli stessi soldi che ti sei sudato tagliando l’erba nelle aiuole.

Così la privazione della dignità di un uomo o di una donna continua, anche fuori, in altri termini, sotto altra forma ma persiste. Il tuo datore di lavoro, deve sempre interfacciarsi con la casa di reclusione di appartenenza se ha una qualsiasi esigenza, l’ufficio apposito che si occupa dei detenuti ammessi al lavoro esterno risponde quando riesce, perché ovviamente in termini di numeri sono sempre oberati. Nel frattempo, l’attesa per il datore di lavoro diventa un limite oggettivo, quindi alla prima possibilità, tu sei sempre quello più sacrificabile. L’unica alternativa in termini di comprensione sono sempre le cooperative sociali, che non comprendono perché sono umane, ma perché hanno un comprensibile ritorno economico che gli permettere di essere un po’ più pazienti. Ecco perché c’è stato un avvento di cooperative sociali che accolgono persone “svantaggiate”.

Dopo l’art.21 esterno, sono passato alla semilibertà, e poi all’affidamento in prova ai servizi sociali. Quest’ultima misura, tra tutte, la più rigida e la più rischiosa. Termini di accesso: lavoro sicuro, una residenza, una capacità economica utile al sostentamento del nucleo che sei o che crei, obbligo di prestare opera di volontariato. Se inceppi, in qualsiasi momento, torni dentro, e il tempo espiato, viene resettato. Cancellato. Torni indietro dallo start senza passare dal via, un po’ come al Monopoli. Solo che qui gli imprevisti e le probabilità non sono ammessi. Tenendo conto dell’epoca storica, è impensabile per tutti quelli che raggiungono i termini giuridici averne accesso, ma resta l’unica misura che ti permette di chiudere con le sbarre, le guardie, i cancelli, e di riprendere in mano con fatica la tua vita.

Inizi a rispondere solo all’UEPE (Unione Esecuzione Penale Esterna) e alle forze dell’ordine responsabili di controllare il rispetto delle prescrizioni. Esci per andare a lavoro, hai qualche ora di svago che devi motivare con un hobby, e devi incastrare il volontariato. Nel tempo che resta puoi pensare a te stesso. Una volta concessa la misura ti chiama la casa di reclusione e ti chiede di andare prima possibile a prendere le tue cose. Caspita, dopo che per anni ti trattengono in un posto, e si accertano mille volte che tu sia rientrato, ad un certo punto devi raccogliere velocemente tutto e andartene. Cosa si prova? Mah. Di tutto, è un misto di emozioni e sensazioni, che solo con il tempo riesci ad elaborare. Ti dicono di prendere le tue cose, io ho ritirato le carte per la scarcerazione, foto segnaletiche come quando arrivi, firme come se fossi un divo del cinema, di mio non ho preso quasi niente, ho regalato tutto. Eravamo d’accordo che a casa non avrei portato niente. Ed effettivamente non volevo niente, mi portavo già dentro un peso e un bagaglio di stati d’animo e vicissitudini che sarebbe rimasto dentro di me per sempre, non mi serviva altro.

La mia vita ormai era fuori già da tempo. Non avevo un sacco, io. Molti però vengono sbattuti fuori con un sacco nero. Li vedi alla fermata del bus o per la strada con dentro un mondo in un sacco di plastica. Sono loro quelli che come me stanno uscendo per riprovarci fuori. Non ero smarrito, lo smarrimento lo avevo provato già anni prima appena uscito per la prima volta. Ero però destabilizzato. Per quanto fin dal primo giorno che entri, non vedi l’ora di uscire, quando questa arriva così tra capo e collo, sei destabilizzato. Per un paio di giorni, mi sono sentito frastornato. Poi tutto ha iniziato a funzionare, e mi sono buttato in questa nuova avventura. Colloqui mensili con l’assistente sociale, è a lei che chiedi di muoverti o spostarti, è lei che filtra le tue richieste all’ufficio di sorveglianza, che le tara e le corregge secondo il suo senso del giusto.

Sono compresi come in ogni rapporto, gli sforzi, le incomprensioni e le arrabbiature. E anche i fraintendimenti. Le fatiche e i nervosismi. E’ ingannevole come misura. Sei fuori, ma non sei libero. Hai del tempo per te, ma non è tuo il tempo. E dalle 21.00 alle 05.00 del mattino che erano i miei orari, l’unico modo per verificare che io avessi rispettato rientro e uscita era quello di suonare il campanello. Ognuno fa il suo mestiere. Non c’è inverno o freddo che tiene, se suonano devi farti vedere. Ma sei a casa. Ormai hai imparato a vedere il lato positivo delle cose, e la libertà ha solo lati positivi. Ormai ti sei di nuovo fatto spazio nel mondo. Ormai sei di nuovo in gioco. Sei di nuovo vivo, autonomo e responsabile del nucleo famigliare che sei hai avuto fortuna sei riuscito a creare. Senti di nuovo la vita che ti scorre tra le mani. La libertà che trasuda da ogni poro della tua pelle. L’affidamento dura due anni. E due anni davanti ad una pena così lunga cosa vuoi che siano. Te li bevi in un bicchiere d’acqua due anni. Così quando i carabinieri ti comunicano la scarcerazione, corri. Corri verso il sole, con un sapore del tutto nuovo, corri con il gusto della vita in bocca. Ed è un gran bel gusto, scopri che la vita ha un gran bel sapore. a cura di Rossella Grasso

L'indifferenza della società civile e la politica che vorrebbe nuove prigioni. Il carcere urla, siamo tutti sordi: il report della strage che non interessa a nessuno. Francesca Sabella su Il Riformista il 7 Dicembre 2022

Siamo dietro le sbarre. In carcere. In queste celle ci sono stati 79 suicidi nei primi undici mesi dell’anno 2022. Si tratta del dato più alto degli ultimi dieci anni. 79 persone che hanno deciso di togliersi la vita perché vivere in quelle carceri è come vivere in un girone infernale. Negli ultimi dieci anni, negli Istituti penitenziari nazionali, si sono verificati 583 suicidi di persone di età compresa tra i 18 anni e gli 83 anni. Con un lenzuolo stretto intorno al collo, inalando il gas che viene fuori dai fornelli per cucinare, lasciandosi morire semplicemente… Si uccidono così gli uomini e le donne che vivono in cella, gli invisibili.

Eppure, la loro anima pesa ventuno grammi, esattamente come la nostra, come quella dei liberi, come i bravi di questa società. Solo che quando muoiono loro fanno tutti spallucce: che importa tanto era un derelitto, un rifiuto umano, uno che dopotutto stava in carcere. E nessuno dice niente. Eppure i numeri non mentono, parlano, urlano. Sono i numeri diffusi dall’ultima relazione del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma. A Napoli, tra le celle del carcere di Poggioreale, negli ultimi dieci anni, c’è stato il più alto numero di suicidi: 21 e si contano anche 267 tentativi di suicidio.

Il carcere napoletano è diventato lo scenario di una strage. È una strage senza precedenti, è una strage che passa in sordina tra l’indifferenza della politica che anzi ha come unica soluzione la costruzione di nuove carceri-cimitero e dei media. Non c’è spazio per gli ultimi né dentro ai penitenziari dove il sovraffollamento è ormai una regola né fuori dove la gente libera, quella che appartiene alla società civile non ha e non vuole avere idea di cosa succede nelle carceri. Ma torniamo ai numeri diffusi dal garante. Analizzando i dati personali, si rileva che delle 79 persone che si sono tolte la vita 74 erano uomini e 5 donne. Va ricordato che la popolazione detentiva complessiva alla data del 30 novembre è di 56.524 persone, di cui 2.389 donne. Queste ultime – lo ricordiamo – rappresentano mediamente il 4% della popolazione detenuta. Riguardo alla nazionalità, 46 erano italiane e 33 straniere (18 delle quali senza fissa dimora), provenienti da 16 diversi Paesi: Albania (5), Tunisia (5), Marocco (5), Algeria (2), Repubblica Dominicana (2), Romania (2), Nigeria (2), Brasile (1), Nuova Guinea (1), Pakistan (1), Cina (1), Croazia (1), Eritrea (1), Gambia (1), Georgia (1), Ghana (1), Siria (1). Le fasce d’età più presenti sono quelle tra i 26 e i 39 anni (33 persone) e tra i 40 e i 54 anni (28 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18-25 anni (9 persone), 55-69 anni (6 persone) e ultrasettantenni (3 persone).

Sono i detenuti più giovani che non ha retto il peso della disumanità del carcere e hanno deciso di farla finita. Le fasce d’età più presenti nella relazione, infatti, sono quelle tra i 26 e i 39 anni (33 persone) e tra i 40 e i 54 anni (28 persone); le restanti si distribuiscono nelle classi 18- 25 anni (9 persone), 55-69 anni (6 persone) e ultrasettantenni (3 persone). Si rileva che 12 persone appartengono alle fasce d’età dei più giovani e dei più anziani e che l’età media delle 79 persone che si sono suicidate è di 40 anni. Con riferimento alle modalità che hanno caratterizzato l’atto suicidario, in 71 casi (89,9%) è avvenuto per impiccamento, in 4 per inalazione di gas; in 3 per lesioni alle vene. In un caso il dato non è stato riportato. Leggere come si sono tolte la vita 79 persone che erano sotto la tutela dello Stato forse apre uno spiraglio per riflettere su questa smania giustizialista e manettara che affligge la nostra società.

È facile dire «più carcere per tutti, più carcere per più tempo». Ma se carcere fa rima con morte siamo ancora convinti di continuare a urlare questo? Prima della morte arriva la solitudine. A proposito del periodo dell’anno in cui avvengono i suicidi, dallo studio è emersa una loro distribuzione nell’anno solare che incontra ciclicamente dei picchi di maggior concentrazione in occasione di periodi festivi, come il mese di agosto, nei quali, verosimilmente, diminuisce negli Istituti la presenza di personale e di soggetti della comunità esterna e si riducono le attività, a cominciare da quella scolastica. Sono soli sempre, in alcuni periodi dell’anno la solitudine diventa insopportabile. La carenza di medici, psicologi, educatori è una piaga della quale abbiamo scritto e scritto, lo hanno urlato i garanti e i familiari dei detenuti. Ma nulla.

Sono parole vuote, sono tutti sordi. E sordi sono stati pure alle grida d’aiuto dei detenuti che poi hanno deciso di farla finita. La lettura ha fatto emergere che 65 persone (pari all’82,28%) erano coinvolte in altri eventi critici, mentre altre 26 (ossia il 33%) avevano precedentemente messo in atto almeno un tentativo di suicidio (in 7 casi addirittura più di un tentativo). Inoltre, 23 persone (ossia per il 29% dei casi) erano state sottoposte alla misura della “grande sorveglianza” e di queste 19 lo erano anche al momento del suicidio. Grande sorveglianza. Leggere queste due parole mentre scorriamo la lista di suicidi in carcere è un ossimoro. Nessuno li sorveglia, non li sorveglia la politica, la società civile. Non li sorveglia uno Stato che è fuorilegge…

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. “Quando sono entrato in carcere mi hanno spogliato di tutto, anche della dignità” Redazione su Il Riformista il 17 Novembre 2022 

“Quando si entra in un istituto, perdere la tua dignità avviene immediatamente, eliminata con dei procedimenti medioevali e da torture psicologiche e fisiche”. Sono queste parole di F., che racconta quello che gli è successo quando è entrato in carcere. F. racconta come una persona smetta di essere un uomo e diventa matricola, numero. F. ripercorre come, appena varcata la soglia del carcere, lui abbia perso completamente la dignità, diventando una “marionetta”, “nudo come un bambino appena nato, come un verme”, impaurito e inerme. E paradossalmente l’unica cosa che gli viene da dire mentre viene spogliato di tutto, compreso della sua anima, è “grazie”. Dopo quegli interminabili momenti di terrore, quando ormai è rimasto solo, sente finalmente una voce amica, un altro detenuto che dalla cella accanto gli dice: “Ti ho fatto un caffè, poi più tardi cucino, ti faccio la pasta”. Anche lui come F. aveva subito quella sorta di rito con cui un uomo perde la sua dignità. Riportiamo di seguito la sua lettera a Sbarre di Zucchero.

Eh si la dignità, ciò che un essere umano ha per se stesso. La dignità non si può condividere, si può spiegare, si può mostrare, però non si può vendere o dare. Però quando si entra in un istituto perdere la tua dignità avviene immediatamente, eliminata con dei procedimenti medioevali e da torture psicologiche e fisiche. Quando arrivi in un istituto passi per un ufficio matricola dove apparentemente loro sanno di te, il perché sei lì, e ovviamente dopo la decima volta che ti prendono le impronte, parlano fra di loro chiamandoti “il pacco”. Arrivi in un’ altra stanza che si chiama “Casellario” e lì uno capisce che la sua vita, la sua dignità è pari a meno zero. Manca solo un camino ardente in bianco e nero utilizzato nel 1940.

“Spogliati! Dammi tutto quello che hai! Soldi, anelli, vestiti, catenina,…”. “Già sono le 18”, dice l’altro. Tu sei lì, perso a guardare a cercare di capire che cosa vogliono da te. Però niente, continuano. “Ahhh ma questi sono 1000 euro, allora sei ricco! Vedrai qua dentro. Togliti le mutande”, e li le guardi come se la tua vita stesse per finire. “SPOGLIATI HO DETTO!”, grida uno. E tu pensi “ma chi è sta gente che ti grida addosso”, ma niente. Alla fine ti spogli, ma spogliandoti poco a poco ti senti morire dentro umiliato e finito, la tua dignità sta scomparendo poco a poco, per ogni cosa ogni vestito che ti levi, ogni tua cosa personale. Poi quando sei lì nudo come un bambino appena nato, nudo come un verme, non hai più forze ne per parlare per ribellarti, una voce arriva dritta al cuore: “METTITI A NOVANTA GRADI CHE DOBBIAMO VEDERE SE NASCONDI QUALCOSA”.

Non hai neanche più la forza di dire qualcosa, ti senti stuprato, violentato, ti senti zero e anche meno di zero. Poi un tipo viene e guarda. Cosa guarda? La tua dignità. Ti dice: “GIRATI FAI DELLE FLESSIONI, ANZI NO, FANNE 3, POI ALZA TUTTO CHE DOBBIAMO VERDERE, GIRATI RIMETTITI A NOVANTA GRADI”. E tu come una marionetta senza anima lo fai perché non sei più chi eri mezz’ora ora prima. Poi ti dicono: “ADESSO VESTITI, SEI QUASI FELICE PERÒ”. Una voce dice: “Ma quello adesso dove lo mettiamo?”. E li ti senti come se il mondo che conoscevi non c’è più, cerchi di pensare ai figli, a tua moglie, a tua a madre, tuo padre, agli amici. Ma niente. Il tuo cervello si è chiuso, non hai neanche più il minimo istinto preistorico. 

Poi un’altra voce. E lì inizi a sudare freddo, a pensare di tutto, a tutto quello che ti possono fare ancora. Però era solo per dirti: “Queste sono le tue scarpe senza lacci. Questa è la tua felpa senza il cappuccio. La tua cinta la teniamo noi”. E tu gli dici ok, e anche grazie! Non so perché gli ho detto grazie. Si vede che ancora dentro di me c’era qualche istinto di galateo. Poi ti portano in una stanza. Sono solo, guardo intorno vedo un letto di ferro con un materasso di gomma con un cucino dello stesso materiale, una sedia un tavolo di legno dove puoi leggere messaggi di altri come me passati in questa stanza.

Finalmente sono solo, cerco di iniziare a capire dove sono, cosa sono, cosa succederà. Ancora però poco a poco cerchi di ridarti la fiducia in te. Inizi a fare il letto. Piangi, ti stendi. Pensi, pensi e piangi. E ripiangi. Poi una voce dalla stanza accanto: “Ciao fratello chi sei? Di dove sei? Perché sei qui? Ti ho fatto un caffè, poi più tardi cucino, ti faccio la pasta”. Una voce amica, una voce che ha passato lo stesso che ho passato io, una voce che non cerca di spogliarmi ma di darmi conforto. Eh si questa voce mi ha abilitato al carcere. Il mio inizio, la mia entrata.

Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. "Apri e chiudi, apri e chiudi. Mi porterò per sempre dentro il rumore di quelle chiavi". Rossella Grasso su Il Riformista il 30 Novembre 2022

Dal carcere femminile una detenuta racconta la sua quotidianità in carcere cadenzata dal "rumore assordante delle chiavi". Prima di arrivare dov’è adesso ha vissuto in un  altro carcere dove le detenute erano poche e quasi traspare dalle sue parole un senso di maggiore umanità nel contesto e nella vita. Ma nel carcere dove si trova adesso invece sembra che anche le persone abbiano perso umanità, che tutto sia ridotto a quell’ "apri, chiudi. Apri, chiudi" che sembra quasi il ticchettio di un orologio che lava spazio alla speranza. Dalla sua testimonianza di donna traspare quanto condizioni di vita più umane in carcere possono favorire meglio percorsi di riabilitazione alla vita. Riportiamo di seguito le sue parole nella lettera a Sbarre di Zucchero.

Quando entrai in carcere 5 anni fa, ebbi una bella accoglienza dalle ragazze; il primo dove sono stata è un carcere piccolo, ospita circa 30 donne detenute, e quando entrai io il periodo di detenzione non mi pesò particolarmente a differenza di quando fui trasferita in un altro carcere. Quando entrai in quest’altro carcere, a parte la trafila che devi fare, mi misero in cella con una donna con disagio psichico che il giorno prima aveva tentato di impiccarsi, potete capire quindi il mio sgomento: mi misi in un angolo nel mio letto e piansi fino a non avere più lacrime.

La signora occupava tutti i mobiletti e a me ne lasciò uno piccolo nel quale dovevo mettere tutte le mie cose… vestiti, scarpe, piatti, tutto ciò che avevo. In questo carcere non ho visto una sola ragazza che mi sia venuta in soccorso, anche solo per chiedermi come stavo, le prime volte che scendevo all’aria mi guardavano tutte come se fossi un’extraterrestre, nessuna si avvicinò; solo dopo una settimana due ragazze mi si avvicinarono e cominciarono a parlare con me, e furono proprio loro ad offrirmi il lavoro che tutt’ora svolgo. Queste due ragazze ora sono uscite, ma intrattengo con loro un rapporto di corrispondenza bellissimo, fa piacere sapere che nonostante non siano più detenute non si sono dimenticate di me.

Sono detenuta qui da circa 5 anni, e dirvi che va tutto bene e che tutto funziona alla perfezione sarebbe una bugia, tutti i santi giorni ti devi scontrare con la burocrazia, anche solo per avere i giorni di liberazione anticipata, richiesti mesi prima e ancora non arrivati, oppure devi discutere con le agenti per poter frequentare un corso e magari loro non hanno segnato il tuo nome, e vieni costretta ad aspettare che loro chiamino per verificare, con tutta calma, non capendo che per noi che frequentiamo i corsi questi minuti sono molto importanti, visto che ogni lezione dura solo un’ora e mezza. Qui in questo carcere ci aprono le celle alle 9 del mattino, dopo che è passata la terapia, e possiamo andare all’aria oppure ai corsi o al lavoro (per chi ha la fortuna di lavorare); alle 11 ci chiudono di nuovo per il passaggio del vitto e ci riaprono alle 11.30 ma rimaniamo in sezione.

Alle 13.30 possiamo invece tornare all’aria o, eventualmente, a qualche corso se è previsto nel pomeriggio. Ed in queste 2 ore in sezione restiamo a parlare tra noi, a giocare a carte, o incontrarci con altre detenute dell’altro reparto. Alle 15.30 altra chiusura per il nuovo passaggio della terapia, e qui mi voglio soffermare un attimo in più: questa chiusura dura quasi sempre più del previsto, e mi chiedo perché chiuderci alle 15.30 se poi la terapia non passa mai prima delle 16.10? E considerando anche che alle 16.50 ci richiudono un’altra volta per la cena, non potrebbero lasciarci aperte qualche minuto in più? Dopo la cena possiamo stare con le celle aperte fino alla definitiva chiusura delle 18.45 e buonanotte, se ne riparla il giorno dopo. Ed io mi chiedo: a cosa servono tutte queste chiusure? Apri e chiudi, apri e chiudi, un rumore assordante di quelle chiavi, un rumore che ti entra dentro e che temo continueremo a sentire anche quando non saremo più lì dentro.

Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero. “Avete mai visto come muore un uomo in carcere? Io sì, da marzo ad agosto per ben tre volte”. Redazione su Il Riformista il 4 Novembre 2022

“La vita detenuta è una lunga marcia attraverso la notte, e si avanza verso un vuoto senza nessuno sbocco. Non si vive, si mantiene in vita solo un corpo che non ti appartiene più perchè è diventato di proprietà del Ministero di Grazia, talvolta dell’Ingiustizia”. Così scrive L., 42 anni, iscritto al Corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani grazie al progetto università in carcere. Non ci sta a rassegnarsi all’idea che la vita dopo il carcere sia solo al buio e si impegna costantemente, con tutte le sue forze, a cambiare le cose e il suo futuro. Ha raccontato la sua esperienza in carcere a Sbarre di Zucchero. Sottolinea la sua “osservanza in particolare a: chi mi ha dato l’ opportunità di iniziare un percorso di studi universitari in carcere e di poterlo continuare attualmente, auspicando ad un futuro lavorativo per i diritti e doveri delle persone private della libertà personale, a chi lotta con idee di carta e penna ogni giorno, a tutti gli uomini di potere che possono migliorare le condizioni detentive”. Riportiamo di seguito le sue parole, raffinate e delicate, ma che arrivano dritte al punto come un pugno allo stomaco.

Il carcere, così com’è pensato e amministrato attualmente, è come il mercatino degli uccelli di Bangkok, nel quale i mercanti vendono ai moltissimi turisti gli uccelli catturati e tenuti in gabbia, così che i turisti possano acquistarli per poi liberarli, credendo ingenuamente di liberare il loro karma negativo come narra la mitologia orientale. Peccato che i turisti non sappiano che i mercanti abbiano addestrato gli uccelli a far ritorno nelle loro gabbie. Con licenza poetica ecco che i carceri/mercati sono le gabbie di uccelli/detenuti, e i detenuti/uccelli vengono addestrati a far ritorno nelle loro gabbie/celle.

Questa è l’amara realtà, e finché il carcere non cambierà prospettiva, il reinserimento e il recupero del reo resteranno sempre un fallimento dello Stato Italiano. Il reo, la cui condanna diventa definitiva dopo il terzo grado di giudizio, dovrebbe subire solo la privazione della libertà ed iniziare il percorso di recupero previsto dalla Costituzione, ma le attuali violazioni della dignità e i trattamenti inumani hanno portato quest’ultimo a commettere gesti di autolesionismo nell’ordine delle migliaia, e decine di suicidi di cui tanto si parla ma per i quali a pochi importa. Tanto era solo un delinquente!

Domando a voi: avete mai visto come muore un uomo in carcere? Io sì, da marzo ad agosto per ben tre volte. Chiudono immediatamente tutta la sezione, si attendono le autorità di turno e d’improvviso vedi la forma di un corpo in una barella, chiuso in due grandi sacchi neri, giunti a metà da nastro per pacchi portato via frettolosamente. Poi tutta quell’aria ristagnante torna normale, come se non fosse accaduto nulla. Questo come può essere classificato? Un problema politico? Lo stesso Parlamento non ha mai mostrato reale interesse ad un’esecuzione della pena con modalità legali, nonostante l’attuale voragine in cui versano gli Istituti Penitenziari Italiani sia sotto gli occhi di tutti i perbenisti.

Un problema di opinione pubblica? Nessuno pensa che per il reo che riottiene la propria libertà, inizia una seconda carcerazione costituita da negazioni lavorative e personali. I perbenisti conoscono la realtà del carcere? È un ambiente difficile, se non sei strutturato e forte per sopportarlo la tua mente finisce per esserne distrutta. Il tempo infinito, il dover aspettare per ricevere qualsiasi cosa logora. E poi c’è la solitudine, il senso di abbandono, lo sconforto, il sentirsi continuamente sbagliati, la sensazione di essersi rovinati la propria vita e di non avere più alcun un futuro. Perdi la speranza e se in quel momento sei solo ti lasci andare alla disperazione e commetti atti terribili.

Nonostante io creda fermamente che sia giusto “pagare” per quanto commesso, penso che sia altrettanto giusto e fondamentale, avere la possibilità di ricostruire una vita dietro le quinte, lontana dai giudizi.

Ribadisco che, quando un detenuto ritorna in libertà ancora vivo ma senza soldi, casa, famiglia, con il nulla con cui è entrato, torna inevitabilmente a delinquere e scatta quella terribile cosa che è la recidiva. C’è bisogno di una maggior collaborazione con la società esterna, il detenuto non è sempre e solo una persona da cui stare alla larga, non è un mostro né per forza un delinquente è spacciato. È una persona che ha sbagliato, ha pagato e che molto spesso ha solo tanta voglia di riscatto. La certezza della pena non è solo carcere. E i tempi biblici del paese di santi poeti e navigatori per attuare un piano adeguato per l’edilizia penitenziaria, lasceranno spazio a nuove lesioni commesse per mano dello Stato sul detenuto materiale umano.

Lettere dal carcere a Sbarre di Zucchero. “La mia colpa è di essere donna e straniera, nessuno mi ascolta. È questa la giustizia? Io la chiamo violenza”. Redazione su Il Riformista l’8 Novembre 2022

C. è una detenuta straniera. È finita nelle maglie della giustizia e poi in carcere. Fino ad ora non aveva mai avuto a che fare con tribunali e avvocati ne tantomeno con il carcere. Da incensurata si è sempre professata innocente e sin da subito ha cercato di far sentire la sua voce ma senza esito. In una lettera a Sbarre di Zucchero racconta tutta la sua frustrazione nell’affrontare il carcere e tutta la burocrazia della Giustizia che le impedisce anche di poter lavorare come infermiera perchè per i giudici sarebbe sprovvista del titolo professionale. Ma lei racconta che il titolo lo possiede dal 1998, riconosciuto dal ministero della salute in Italia, ma soprattutto è iscritta all’Albo professionale agli infermieri, dove paga regolarmente la quota annuale. “Posso solo dire a squarcia gola che sono innocente, non sono mai stata presa in considerazione, mai ascoltata, mai compresa, forse perchè sono donna, straniera? Questa e la mia grande colpa?”, scrive nella lettera. Riportiamo di seguito le sue parole.

Ricordo come fosse oggi il fatidico giorno del mio arresto. Sono le ore 7.20 e il campanello di casa suona insistentemente… la mia libertà, la dignità, la fiducia, l’onorabilità mi viene portata via. La mia vita da quel giorno cambierà drasticamente!

Da quel momento iniziò l’incubo della mia vita, risuonano come un macigno le parole dal ispettore della Polizia quella mattina: “vedrai che tra pochi giorni uscirai”. I pochi giorni diventarono settimane, mesi, quasi un anno…La domanda mi sorge spontanea: Che tipo di giustizia abbiamo oggi in Italia? Fortuna? Accanimento? Il PM che segue il caso? il giudice obbiettivo? l’avvocato preparato e competente? Non so più cosa pensare e cosa aggiungere…Posso solo dire a squarcia gola che sono innocente, non sono mai stata presa in considerazione, mai ascoltata, mai compresa, forse perchè sono donna, straniera? Questa e la mia grande colpa?

Ho sempre creduto molto nella giustizia, nelle istituzioni e nelle leggi ma oggi posso dire che tutto e crollato. La mia verità nessuno e ripeto, nessuno ha mai voluto sentirla, 5 minuti in video conferenza chiamiamolo pure monologo non certo interrogatorio e tutto quello che mi è stato concesso. Speravo fortemente in una seconda possibilità, essere ascoltata dal PM ma mai mi e stata concessa! Solo se avessi patteggiato mi avrebbe preso in considerazione. Questa e giustizia? Io la definisco violenza, notti cariche di incubi, pianti, tristezza e tanta tanta rabbia. Perché negare la possibilità di parlare e ascoltare? E poi perché patteggiare e confermare cose che io non ho mai fatto, di cui sono stata accusata ingiustamente? La mia negazione ha fatto si che la mia permanenza in carcere durasse ben un anno, e altri tanti mesi privati della libertà fra domiciliari e obblighi sulla persona, tutto questo da incensurata.

La mia forza fu la mia innocenza che mi permise di essere combattiva e determinata, tanto che scrissi direttamente io tramite la matricola del carcere al P.M. chiedendo cortesemente di venire ascoltata perché ero l’unica che poteva spiegare, con prove alla mano la veridicità dei fatti. Una risposta non mi e mai pervenuta, a distanza di tempo trovai nei fascicoli la risposta del PM: viene rigettata la richiesta in quanto non e stato specificato il motivo dell’incontro. Vorrei urlare al mondo intero il mio dolore, ma qualcuno mi ascolterà mai? Sono fermamente convinta che la giustizia non e uguale per tutti. Si basa sulla persona? su chi la giudica? dal tribunale? dalla scalata della carriera? dal conto in banca? Dall’avvocato potente? da chi sei? da dove vieni? Oggi da incensurata mi chiedo: perché non ho mai avuto diritto ad un beneficio? La legge non è uguale per tutti.

A giugno vengo condannata in primo grado a quattro anni per aver costituito l’associazione di cui non conosco neppure i partecipanti, e non ho mai avuto contatti con loro ne visivi ne telefonici. In questi giorni si parla molto della certezza della pena di chi sbaglia deve pagare ma, della mala giustizia non se ne fa riferimento. E lì chi sbaglia e giusto che non paghi mai? A oggi non faccio neanche l’elenco dei rigetti ricevuti con le motivazioni più assurde e della continua delusione accumulata. Vi faccio un breve cenno all’ultima richiesta dove chiedo di poter svolgere il mio lavoro di Infermiera (parlando della giustizia riparativa). Mi viene rigettata l’istanza di richiesta delle revoche delle firme dando come motivazione che da nessun dato emerge che io possegga il titolo professionale richiesto. Vorrei precisare che possiedo il titolo di infermiera dal 1998 con un riconoscimento del Ministro della salute italiana e sono iscritta all’Albo professionale agli infermieri, dove pago regolarmente la quota annuale.  GRAZIE A CHI SA ASCOLTARE!

Peggio di una fogna, il carcere è una cloaca che non va da nessuna parte. I suicidi sono gente come noi. E non è vero che hanno l’esclusiva della depressione. Ascanio Celestini su Il Dubbio il 18 novembre 2022.

I suicidi sono gente come noi. E non è vero che hanno l’esclusiva della depressione.

Mi ricordo uno che a San Vittore aveva scritto una lettera a un amico suo che viveva a Monza. Non si ricordava il cap e l’ha chiesto al secondino, ma quello non aveva l’obbligo di dirglielo. E infatti non gliel’ha detto. Passano due o tre giorni e viene la moglie a colloquio, ma manco lei si ricorda il cap. Dopo qualche altro giorno ritorna e glielo dice. Quel detenuto milanese mi fa “Si può impazzire in una cella con una lettera che ci hai attaccato pure il francobollo e non la puoi spedire”.

Mi ricordo uno che studiava per laurearsi. Poi è tornato in galera nei giorni di Natale, ma era il carcere di Trani e l’anno era il 1980. Si cena presto in galera e questo lo ammanettano a uno che viene sbattuto giù per le scale. Pure lui caracolla di sotto. Fino al santantonio di botte. Ma gli avevano imparato a proteggersi la testa e i testicoli e si è salvato. Adesso è diventato buddista. Ha scritto un libro. Mi ricordo uno che mi dice “Io non sono razzista… anzi, sono razzista. Quando sono entrato per la prima volta in carcere ho chiesto al comandante di stare con un siciliano come me. C’era un palermitano, io sono di Catania. Mi ha messo con lui. Non li sopporto gli stranieri. Coi veneti ci posso pure provare a stare. Ma i bulgari o peggio ancora gli arabi non li sopporto”.

Mentre faccio l’intervista scoppia una rissa nei passeggi dell’ora d’aria. Albanesi contro marocchini. Si tagliano. Arriva l’ambulanza. Gli infermieri si mettono i guanti di plastica per raccattare i feriti. Si difendono da Aids e epatite. Le guardie non intervengono subito. Bisogna prepararsi. Servono guanti e scudi. Quando arrivano… quello che doveva succedere è successo. Uno mi racconta che gli psicologi sono pochi e riescono a stare con i detenuti per un tempo medio di 25 minuti al mese. E poi è come il pollo di Petrolini. Qualcuno ne mangia due e qualcun altro resta a pancia vuota. Lo stesso succede con lo psicologo. Qualcuno lo incontra per un paio d’ore. Qualcuno se lo scorda per mesi e mesi. Qui dovrebbero esserci gli psicologi tutti e tutti i giorni. Invece ci stanno gli psicofarmaci che tengono tutti buoni e rincoglioniti. Se li inghiottono quei pilloloni, ma se li sniffano pure, li sbriciolano e se li pippano.

I sessantamila detenuti sono buttati con un calcio nel sedere in un buco nero che è peggio di una fogna. Perché le fogne a volte sfociano nel mare, mentre il carcere è una cloaca che non sfocia da nessuna parte.

Lettere a Sbarre di Zucchero. “Le giornate in carcere non passano mai, a darci la forza sono solo le compage di cella”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Come trascorrono le giornate in carcere? A raccontarlo in una lettera a Sbarre di Zucchero è una detenuta che ha vissuto anche l’ isolamento. Racconta di aver dormito per giorni interi, sola e estraniata, rincuorata solo dalle visite delle altre detenute che ogni tanto le allungavano un caffè e qualche sigaretta. Poi la vita in carcere è cambiata quando è stata trasferita in sezione insieme alle altre.  Una abitudinaria routine fatta di nulla o poco, che si ripeteva inesorabilmente tutti i giorni a orari precisi e sempre uguale. In carcere tutti i giorni sono identici e rischiano di gettare le persone recluse in un vortice di disperazione. “Quel posto veramente è stato molto duro e faticoso, ma le persone che ho avuto vicino mi hanno dato la forza e ho cercato anche io di dare la mia per rendere almeno la nostra convivenza piacevole e di supporto ad una situazione già brutta di per sé”, racconta la detenuta nella lettera. Ne riportiamo di seguito il testo integrale.

Sono entrata in carcere a febbraio 2021. La sera in cui arrivai mi ricordo che ero estraniata completamente, non sentivo niente in merito a quello che stava succedendo e dopo una intera giornata dalla finanza arrivai alla sera e mi chiusero in isolamento, dopo il tram-tram del controllo. Ho dormito penso giorni interi, le ragazze venivano alla mia cella, per fortuna, e mi portavano sigarette e caffè. Che felicità ricevere quelle piccole cose. Finito isolamento inizio la vita vera in carcere, tra doccia mattutina calda o fredda a seconda della giornata e altre cose, ho sempre cercato di tenermi impegnata. Col periodo Covid però non c’ era molto da fare, non c’ erano tante attività promosse. Anzi nessuna. Sono finita nella cella 290, la mitica cella 290, la mia dimora per un anno, eravamo in 3, ragazze che considero famiglia ora. Tutte le ragazze della sezione sono state per me persone importanti. Senza di loro non sarebbe stato uguale. E ringrazio dio che ho trovato belle persone nel mio viaggio.

Già alle 6 ero sveglia, io e una mia concellina scendevamo dal letto e ci trasferivamo per non svegliare l’ altra concellina. Nel bagnetto della cella, mettevamo sul fornellino la moka già pronta dalla sera prima per il primo caffè. Mi ricordo il freddo (io e la mia concellina abbiamo indossato il pigiama in pile fino a maggio!). Dopo 2 moke e sigarette al bagno, e il buon giorno, arrivava l’ infermiera e il carrello con la colazione e così cominciava la giornata. Si svegliava anche la nostra altra concellina e la terza colazione aveva inizio sedute a tavola, il momento più bello della giornata (con un po di fantasia)! Un rassetto veloce della camera, due chiacchiere, oroscopo mattutino alla TV, rtl music per iniziare bene la giornata a ritmo di musica e tatan si sente urlare al microfono: battitura! Già, ogni mattina stessa routine: con un martello le guardie passavano a verificare che le sbarre fossero integre.

Se era mio turno andavo a lavorare, pulivo sezione, sennò c era l’orario per le docce comuni e si andava all’ aria a camminare. Giù ci si incontrava con le ragazze delle altre sezioni e diciamo la mattina andava. Con l’ orario di pranzo alle 12.30 mi incontravo con le mie concelline e si chiaccherava del più e del meno. Cercavo sempre di tenere su il morale anche se non è stato sempre facile ma ci si aiutava in questo l’una con l’altra: quando una non ne poteva più una c’era l’ altra che cercava di dare quel sorriso in più. Per quello ringrazio sempre per le persone che ho avuto vicino. Il pomeriggio era un po’ più lungo, infinito direi. Dopo l’aria del post pranzo, in cui giocavo a calcetto (ero numero uno, ogni tanto). Era divertente perché tenere impegnato cervello non ti fa pensare tanto ai problemi, alla condanna e alla pesantezza di quello che vedi, senti. Della tristezza che vedi negli occhi delle persone, della rabbia,…

Di fatto dopo le 16 non c era molto da fare, tra tv e TV arrivava l’ora della cena alle 18.30 in seguito partita a carte, ci ritrovavamo in saletta e via quante guerre a carte eravamo agguerrite proprio! Arrivano finalmente le 9 orario di chiusura e dalla saletta ci chiudevano di nuovo in cella. Per me era il secondo momento più bello della giornata, un altro giorno era passato. Se avevano voglia con le radioline di radio Maria ci sintonizzavamo sulla stessa frequenza cuffiette e via si rideva scherzava ballava sennò chiaccheravamo e se ci andava preparavano frittelle o cose da mangiare per il film serale. Ho vari bei ricordi nel cuore che ho costruito con fatica perché quel posto veramente è stato molto duro e faticoso, ma le persone che ho avuto vicino mi hanno dato la forza e ho cercato anche io di dare la mia per rendere almeno la nostra convivenza piacevole e di supporto ad una situazione già brutta di per sé. Purtroppo solo tra noi detenute: non c’era nient’altro che ti dava la forza, almeno parlo per me. Ora sono ai domiciliari, la fine ancora non la vedo, ma vado avanti perché non si può mollare mai.

Rossella Grasso

Lettere sul carcere a Sbarre di Zucchero. “Essere la moglie di un detenuto significa avere ogni giorno il cuore rotto”. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Novembre 2022.

Il carcere non è un dramma solo per i detenuti, ma anche per le loro famiglie. Spesso la pena non la paga solo chi ha commesso un reato, ma anche sua moglie o marito, i figli, le mamme, i fratelli. Persone che soffrono non solo la lontananza fisica, che a volte è lunga chilometri, ma anche il quotidiano fuori dalle mura del carcere che è più difficile da affrontare in solitudine. A Sbarre di Zucchero scrive la moglie di un detenuto che racconta la sua vita che è come una corsa ad ostacoli: nel crescere i figli da sola, nell’andare e venire dal carcere lontano 172 chilometri da casa, nel trovare e mantenere un lavoro “perché quando chiedi il giorno di permesso per andare ai colloqui si spaventano e pensano che anche tu non sei una brava persona e quindi devi essere emarginata”. Nel riuscire a mantenere un rapporto affettivo diviso tra 4 telefonate da 10 minuti e 6 ore di colloquio al mese. “Essere la moglie di un detenuto è sacrificio ma è anche coraggio e forza di affrontare la vita da sole, perché l’unica cosa che ti senti dire ‘è bhe se sta li qualcosa ha fatto'”. Riportiamo di seguito la lettera della moglie di un detenuto.

Oggi ti voglio raccontare cosa significa essere la moglie di un detenuto. Essere la moglie di un detenuto significa avere ogni giorno il cuore rotto. Avere la responsabilità di crescere i figli da sola e non importa se sia, un figlio o più. Perché comunque è dura. Essere la moglie di un detenuto significa dover fare avanti e indietro nei carceri o nelle comunità, e quando non sei ne compagna ne moglie ma semplicemente il vostro amore è nato da poco devi combattere per avere la 3° persona e non sai nemmeno se te la accettano. Se sì, vali poco. Perché l’amore tra un detenuto e la 3° persona non vale come amore? No sembra di no.

Ti scrivo per dirti che mio marito oggi ha già finito le 4 chiamate, gliele hanno messe solo ieri ma sai, 10 minuti volano e adesso dobbiamo aspettare lunedì per poterci sentire ancora 10 minuti. Niente videochiamata sta settimana perché ha solo 6 ore di colloquio visivo e se fa la video non posso andare al colloquio. Ci separano 172 chilometri e ogni mese sono soldi per poter andare da lui, soldi per la persona che ti guarda i bambini, soldi per chi ti accompagna, soldi per il pacco, soldi da lasciare a lui. Tutto questo per avere 2 ore di ossigeno. Ma sono anche tanti sacrifici che vengono fatti con il cuore ma pesano su una famiglia dove solo la madre porta avanti tutto.

“La mia colpa è di essere donna e straniera, nessuno mi ascolta. È questa la giustizia? Io la chiamo violenza”

Essere la moglie di un detenuto alla quale un magistrato di sorveglianza ha dato solo rigetti anche per i lavorativi. Un lavoro capisci! Un lavoro con cui voleva cambiare vita e mantenere la famiglia e qualcuno ha deciso per un no. Essere la moglie di un detenuto significa perdere ogni lavoro che trovi perché quando chiedi il giorno di permesso per andare ai colloqui si spaventano e pensano che anche tu non sei una brava persona e quindi devi essere emarginata. Essere la moglie di un detenuto significa dover sostenere da sola le spese dei figli della casa e di tuo marito che avendo un fine pena magari più breve di altri allora non ha diritto a lavoro ma ha comunque una dignità e tu da moglie la devi portare in alto.

Essere la moglie di un detenuto è sacrificio ma è anche coraggio e forza di affrontare la vita da sole, perché l’unica cosa che ti senti dire “è bhe se sta li qualcosa ha fatto”. Essere la moglie di un detenuto è questo e molto altro. Ma una cosa è certa: essere la moglie di un detenuto è anche sapere che il vostro amore è più forte di tutto questo e che fuori da quelle 4 mura siete più forti di tutto ciò che avete passato. Scusa lo sfogo.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

"C'è chi inizia a drogarsi quando entra in carcere". Inferno carceri, la denuncia della garante: “La droga in cella è il malessere silente che distrugge”. Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Novembre 2022

“La droga in carcere è un problema enorme, un malessere silente. Chiedo alle istituzioni aiuto e cooperazione per avviare una catena di interventi che sia efficace e risolutiva”. È questo l’appello di Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della Provincia di Caserta. La garante racconta al Riformista che stanno aumentando le segnalazioni di droga che circola in carcere. Un problema che è sintomo di un malessere diffuso e che peggiora l’inferno delle carceri.

“Ho denunciato alle autorità competenti la presenza di droga in carcere, un vero dramma – spiega la Garante – Succede che ex tossicodipendenti, che magari erano riusciti a non fare più uso di sostanze dopo tanto tempo, una volta in carcere riprendano a drogarsi. E c’è anche chi inizia proprio quando entra. Così ci troviamo madri con figli carcerati che diventano anche tossicodipendenti, difficoltà all’interno delle celle tra chi vorrebbe fare bene il suo percorso e chi non è lucido e persino liti per debiti per comprare la droga. Ci sono madri, mogli e sorelle che lavorano e si ammazzano di fatica per guadagnare soldi che poi i loro figli, mariti e fratelli detenuti chiedono per pagare la dose. A volte scattano anche liti familiari per questo motivo che le mura del carcere e la condizione emotiva che questo comporta rendono impossibili da gestire. Una situazione che sta diventando sempre più insostenibile”.

All’origine del problema secondo la garante c’è sia un problema di sotto organico degli agenti che non riescono a fare bene il loro lavoro e i controlli, ma anche la carenza di attività dell’area trattamentale e di lavoro. “C’è chi sente il bisogno di fuggire almeno mentalmente dalla dura realtà del carcere, di trovare sollievo in qualche modo, e per farlo ricorre allo ‘sballo’ della droga, dell’alcol o addirittura respirando il gas dei fornellini. Qualcuno prepara anche dei beveroni con frutta lasciata a fermentare e alcol per ubriacarsi più facilmente”. La garante racconta di denunce fatte dai familiari per fermare questo vortice di malessere in carcere che può essere causa e sintomo allo stesso tempo di come e quanto le carceri siano un luogo invivibile. “Se pure il carcere fosse davvero un luogo rieducativo, cosa ce ne facciamo di detenuti storditi, impossibili da rieducare?”, si chiede la garante.

“Ci sarebbe bisogno di maggiori controlli – continua Belcuore – magari anche con l’aiuto di cani antidroga. Per esempio, a Santa Maria Capua Vetere potrebbe essere una proposta che venga fatta una ristrutturazione degli ambienti. Lo so che lo spostamento dei detenuti è complesso, ma questo renderebbe più semplice fare i controlli evitando il rischio di mattonelle o muri malmessi che possono essere perfetti nascondigli”.

“Ci battiamo per i diritti dei detenuti come una buona sanità in carcere, il lavoro e il loro reinserimento nella società – continua la garante – Combattere la droga in carcere significa continuare a battersi per la tutela dei diritti dei detenuti, di chi è in condizione di fragilità e cede alla droga che può solo farlo stare peggio, di chi vuole fare un percorso positivo in carcere e nel rispetto della legalità: il carcere non può essere una piazza di spaccio”.

La garante aggiunge che in carcere sta prendendo piede anche un altro problema, quello del gioco d’azzardo. “Se i detenuti non sono stimolati diversamente, spinti a fare qualcosa di costruttivo, si finisce che anche un mazzo di carte possa diventare un problema. E anche in questo caso partono le liti, l’isolamento e chi chiama il divieto di incontro con gli altri detenuti. Oltre ovviamente al problema dei debiti che spesso ricadono sulle famiglie”. Belcuore non è disposta a cedere su queste battaglie che sono il diritto a stare bene in carcere. Il 30 novembre nel palazzo della Provincia di Caserta ha organizzato un convegno proprio sul tema della tossicodipendenza in carcere, del gancio che ci deve essere tra interno ed esterno, sulle comunità a doppia diagnosi e sulle comunità dove far andare i detenuti tossicodipendenti. Al confronto prenderanno parte esperti del settore tra cui psicologi, sanitari, personale dei sert per ragionare insieme su come affrontare al meglio questo dramma che rischia di catapultare le persone in un buco nero senza ritorno. E il dramma dei 77 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno ne è la testimonianza.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

La testimonianza. Storia di un ergastolano: a 78 anni con un tumore da oltre 50 anni dentro al carcere. Domenico Papalia su Il Riformista il 10 Novembre 2022

Voglio raccontare la mia storia anche se per me è un po’ faticoso. Non ho una base scolastica, ho imparato a leggere e scrivere in carcere, da autodidatta. Sono detenuto da circa mezzo secolo e una volta non c’era possibilità di studiare. Parto dall’inizio e dico subito che, oltre a quelle dello Stato, ci sono le mie responsabilità che hanno contribuito alla mia emarginazione e persecuzione. Ma sono incapace di odiare. Non riesco a provare odio contro lo Stato del quale avrei voluto far parte. Ho sempre pregato anche per i giudici che mi hanno condannato, spesso innocentemente.

Sono nato e cresciuto in una famiglia numerosa e nella miseria. Avevamo del bestiame e ho fatto il pastore fino all’età di 18 anni.

Eravamo ancora piccoli quando nostra madre si ammalò ed è caduta in depressione, costretta a letto per vent’anni, fino alla sua morte. Ho iniziato da ragazzo con piccoli furti. Per necessità, non perché in me era innata la tendenza a delinquere. Nel 1964 un mio fratello fu ucciso senza motivo da un paesano ubriaco. Ripeto, avevo 18 anni e per placare ogni istinto di vendetta sono emigrato a Corsico, Milano. Ho trovato lavoro in una impresa edile, ma il diavolo volle che io incontrassi cattive compagnie. Accettai di andare a rapinare una gioielleria. Me l’hanno fatta vedere ed esitai perché il luogo era pericoloso, cercai di scoraggiarli. Mi dissero che avevo paura e per dimostrare che non era così entrai con loro. Il gioielliere reagì e io sparai un colpo di pistola in aria per non fargli male. I clienti di un bar di fronte accorsero verso il negozio. Riuscii a scappare con un complice, un altro fu preso dalla folla e consegnato alla polizia. Confessò i nostri nomi, fui arrestato e pagai la mia pena. Dopo tre anni e mezzo uscii dal carcere e ritornai a Platì. Avevo capito la lezione e trovai un lavoro, ma quel precedente ha segnato la mia vita. Negli anni successivi sono rimasto legato come un cane alla stessa catena di fatti: soggiorno obbligato lontano da casa, lavoro che trovavo e che poi perdevo, ritorno obbligato a Platì e poi di nuovo via verso un altro soggiorno obbligato.

Stavo lavorando a Platì con una ditta di Genova che operava nel campo elettrico quando per il precedente della rapina la questura di Reggio mi propose per le misure di prevenzione. Fui mandato al soggiorno obbligato in un paesino della provincia di Rovigo. Trovai lavoro in edilizia ma dopo quattro mesi il ministero mi trasferì a Lonate Mezzola, un paesino in provincia di Sondrio. Il Sindaco mi disse subito che se avesse avuto un posto di lavoro lo avrebbe dato a un suo cittadino e non a me. Ho resistito una settimana. Poi, pagai l’albergo, andai dal Sindaco, gli feci vedere la ricevuta, mi recai dai Carabinieri e comunicai che sarei tornato in Calabria. Mi avrebbero denunciato per allontanamento dagli obblighi. Me ne andai lo stesso, mi presentai al Procuratore della Repubblica di Reggio e gli raccontai la situazione. Non mi fece arrestare, mi disse di tornare al paese natio e aspettare la nuova assegnazione.

Ero stato assunto dal comune di Platì e lavoravo da otto mesi quando arrivò il soggiorno obbligato nel comune di Cinisello Balsamo. Ho preso alloggio presso un albergo a spese del comune e trovai lavoro presso un’impresa edile. Una mattina di luglio del 1970 vennero a prendermi i carabinieri. Il giorno prima avevo prestato la mia macchina a un amico. Venne trovata a Firenze abbandonata poco distante da una banca che era stata rapinata. Ero un pregiudicato per rapina, non feci il nome dell’amico a cui l’avevo prestata e fui condannato a 5 anni e 6 mesi. A nulla valse la testimonianza del personale dell’albergo che il giorno della rapina non ero proprio uscito dalla camera. Dopo due anni sono stato scarcerato per decorrenza termini, ho scontato il residuo di soggiorno obbligato e come nel gioco dell’oca sono tornato al punto di partenza. In Calabria, a Platì. Mi venne incontro una ditta di Rozzano che vendeva mezzi meccanici per conto di un’impresa francese, la Ploclain. Raccontati al direttore la mia storia e i miei precedenti. Gli dissi che avevo solo 3 milioni di vecchie lire e chiesi di acquistare un escavatore a credito.

Mi ha dato fiducia e un escavatore nuovo del costo di 30 milioni di lire. Altrettanto feci con la Fiat di Gioia Tauro che mi vendette un camion a rate. Avviai una ditta di movimento terra e a mano a mano che lavoravo pagavo tutte le cambiali anche in anticipo. Stavo lavorando onestamente, quando i “precedenti” mi riacchiapparono. Nel luglio del 1975, la Questura di Reggio mi propose nuovamente per il soggiorno obbligato e il Tribunale mi assegnò a Frasso Telesino, nella provincia di Benevento. Mi accolse la stessa storia di pregiudizio ed emarginazione da parte delle istituzioni locali. Scappai e mi diedi alla latitanza perché nel frattempo la pena per la rapina di Firenze era diventata definitiva e mi restavano tre anni e mezzo da espiare. Con la latitanza arrivarono nuove accuse e nuovi processi.

Il 2 novembre 1976 ero in via Archimede a Roma quando il mio amico Antonio D’Agostino venne ucciso. Ero presente ma essendo latitante chiesi alle persone di chiamare un’ambulanza e mi allontanai. Sono stato arrestato l’8 marzo 1977 per un sequestro di persona e per il residuo pena della rapina di Firenze. Ma fui accusato anche dell’omicidio di D’Agostino. Per il sequestro tennero conto della mia posizione marginale, della breve durata del rapimento e del trattamento umano nei confronti dell’ostaggio. Mi furono concesse tutte le attenuanti e sono stato condannato a una pena tutto sommato lieve per il tipo di reato. Tra buona condotta, indulto e liberazione anticipata, dopo alcuni anni ho terminato la pena, ma sono restato dentro innocentemente per l’omicidio D’Agostino. Negli anni 90 lo stesso giudice che mi aveva fatto condannare, Ferdinando Imposimato, si era ricreduto e fece una campagna di stampa a mio favore. La prima istanza di revisione fu rigettata, ma non mi sono arreso e ho continuato a lottare finché, dopo 41 anni, la Corte di Appello di Perugia in sede di revisione mi ha assolto, grazie anche a una nuova perizia disposta dalla Corte che era sempre stata da me richiesta e rigettata.

Purtroppo, sono ancora detenuto perché durante la carcerazione per l’omicidio D’Agostino sono stato accusato da falsi pentiti per l’omicidio dell’avvocato Pietro Labate di Reggio Calabria ucciso a Milano il 17 novembre 1983 dal poi collaboratore di giustizia Saverio Morabito. L’esecutore materiale mi aveva scagionato, ma sono stato condannato come mandante. Non è stata creduta la mia innocenza perché – si è sostenuto – ero un pregiudicato di omicidio, quello di Antonio D’Agostino che 41 anni dopo avrebbero riconosciuto di non aver commesso. In Cassazione, lo stesso Procuratore Generale chiese l’annullamento della sentenza e i miei avvocati stanno facendo le indagini investigative per la revisione del processo. Sempre per accuse false di collaboratori di giustizia sono stato condannato all’ergastolo per l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, commesso l’11 aprile 1990. Anche per questo ci sono indagini difensive in corso per l’eventuale revisione. Ho già 78 anni, sono malato e di certo non vivrò altri 41 anni per vedere riconosciuta, come per l’omicidio D’Agostino, la mia innocenza.

Nella mia vita carceraria, sono stato ammesso al lavoro esterno e ho usufruito di circa 50 permessi premio. Fino al 1992, anno di inizio dell’emergenza. Sono stato ricoverato in ospedale senza scorta o in detenzione domiciliare per motivi di salute. Mi sono costituito da solo quando non fu rinnovata. Ma non si tiene conto di tutto ciò per darmi fiducia. Proprio ultimamente mi è stato rigettato un permesso premio. Hanno considerato i due omicidi come reati ostativi, anche se l’ultimo risale all’11 aprile del 1990, prima della dichiarazione dello stato di emergenza. Non hanno tenuto conto delle sentenze della Corte costituzionale contro l’ergastolo ostativo e del mio percorso positivo: il mio impegno di studio universitario, la collaborazione con Ristretti Orizzonti, il corso di sociologia, i Laboratori Spes contra spem di Nessuno tocchi Caino. In carcere ho fatto sempre volontariato. Ho perso mio figlio di 19 anni la notte di capodanno quando una pallottola vagante rimbalzata sulla campana della chiesa del paese lo colpì a morte. Ho autorizzato l’espianto degli organi salvando la normalità della vita di sette persone. Da circa 32 anni sono iscritto al Partito Radicale e a Nessuno tocchi Caino. Sono 30 anni che collaboro con la Missione Don Bosco per i progetti nel terzo mondo.

La sofferenza della detenzione per un reato che non ho commesso ha influito sulla mia salute. Le mie difese immunitarie sono venute meno a causa delle arrabbiature giornaliere. In mezzo secolo di detenzione ne ho ingoiate tante. Ora ho 78 anni e un tumore in metastasi. Ho chiesto una sospensione pena o la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute più di un anno fa e sono in attesa di una decisione del tribunale. In Italia esiste ancora lo stato di diritto? C’è o no una Costituzione che prevede che la pena debba essere rieducativa? Il prosieguo della mia sofferenza è inutile e gratuita. È un paradosso, ma il carcere di oggi è molto più disumanizzato e degradante di quello di una volta.

Tutti questi circuiti detentivi differenziati non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. Una volta esistevano le Case di Reclusione per i condannati definitivi con lavoro assicurato e celle singole; oggi si vive in promiscuità: giudicabili e definitivi, ergastolani e condannati a pene di qualche anno. Ricordo quando dal 1970 al 1972 ero detenuto a Firenze nel carcere di Santa Teresa. Lavoravamo tutti alla sartoria e all’Atala Sport. Le celle venivano aperte alle 7 e chiuse alle 23, cosa impensabile con la mentalità di oggi. Roba da medioevo. Per gli ergastolani che si comportavano bene, spesso, veniva chiesta la loro liberazione condizionale dal Direttore. Oggi non esiste che un Direttore chieda la liberazione condizionale o la grazia di un ergastolano che lo merita. A volte mi chiedo: se Cesare Beccaria fosse un nostro contemporaneo cosa scriverebbe a proposito del nostro carcere. Mi riferisco al carcere che abbiamo ognuno ormai dentro di noi.

Domenico Papalia Ergastolano detenuto a Parma

Il caso del carcere napoletano. Vedi Poggioreale e poi… nulla: 20 anni di passerelle dei ministri della Giustizia. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Novembre 2022 

All’indomani della visita del ministro della Giustizia Carlo Nordio nel grande istituto penitenziario cittadino le riflessioni sono tante, il dibattito è vivo. Perché giustizia e carcere sono due temi cruciali. Ormai lo sanno anche le pietre. Partiamo da una premessa: a Napoli, forse più che altrove, le criticità sono sempre state tali e tante e così durevoli nel tempo che per farvi fronte si è costretti a dare fondo a tutte le proprie individuali energie e capacità.

Accade, quindi, che anche nel carcere di Poggioreale, una sorta di inferno in terra per chi lo abita da recluso ma anche per chi lo vive da lavoratore, bisogna rimboccarsi le maniche e fare l’impossibile per non collassare. Partiamo da questa premessa per chiarire che non sorprende che il ministro Nordio abbia elogiato l’impegno e la professionalità del personale, dai dirigenti agli operatori del carcere, sorprende piuttosto che abbia evitato di spendere due parole sulla realtà più dura che riguarda la stragrande maggioranza dei detenuti, sulle celle sovraffollate, sulla sanità carente, sulle misure alternative, sulle attività trattamentali da attuare. A Poggioreale si sono avviati bei progetti ultimamente, questo è vero: ci sono detenuti che lavorano in Procura, altri per l’Esercito e altri per il Teatro San Carlo.

Ma sono una goccia nell’oceano. Cinque, dieci, venti detenuti su duemiladuecento. Entusiasmarsi per un buon progetto va bene, ma utilizzare questo come pretesto per dire che Poggioreale sia un modello da seguire appare un po’ troppo. Si corre il rischio di esaltarsi per poco e perdere di vista tutto il resto, svuotando di significato e opportunità la visita nel penitenziario napoletano. Già opportunità. Quante se ne sono perse in questi anni. Volendo guardare agli ultimi venti, perché vent’anni ci sembrano un tempo più che ragionevole per realizzare qualcosa di valido, si nota che ogni ministro della Giustizia ha visitato Poggioreale dichiarando, promettendo, annunciando, ma la realtà alla fine non è migliorata.

Luglio 2000, il ministro della Giustizia Piero Fassino visita il carcere minorile di Nisida e quello di Poggioreale e annuncia un pacchetto giustizia con investimenti per 900 miliardi da ripartirsi in tre anni, con una parte dei fondi per costruire nuove carceri. A luglio 2001 il ministro della Giustizia Roberto Castelli arriva a Poggioreale dove, secondo la denuncia dei sindacati della polizia penitenziaria, «ci sono condizioni che non assicurano una detenzione nei canoni di civiltà e non consentono uno standard di sicurezza per l’intera collettività». Luglio 2006, il ministro della Giustizia Clemente Mastella visita Poggioreale alla vigilia del dibattito parlamentare: «Voterò però per l’indulto e sono per l’indulto. Le istituzioni sono forti quando esprimono un gesto di clemenza».

Nel marzo 2009 è la volta di Angelino Alfano che da Napoli afferma: «La maggior parte delle carceri è stata costruita in secoli lontani. Il risultato è che talvolta siamo fuori dal principio costituzionale dell’umanità». Luglio 2012, Paola Severino, da ministro della Giustizia, è a Poggioreale che rischia di esplodere per i troppi detenuti: 2600 a fronte di una capienza di 1300. Un anno dopo, luglio 2013, il ministro Annamaria Cancellieri invia gli ispettori a Napoli: «Poggioreale è forse il carcere italiano che si trova nelle condizioni peggiori. È ai massimi livelli del male» e anche per lei la ricetta sarebbe «costruire nuove strutture, ci stiamo lavorando». Poi è la volta di Andrea Orlando: a settembre 2015 da ministro della Giustizia compie una visita ispettiva a sorpresa nel carcere di Poggioreale.

Sono i tempi della denuncia dei pestaggi nella cosiddetta “cella zero” e Orlando entra nelle celle, parla con alcuni detenuti. Dicembre 2020, pandemia Covid: il ministro Alfonso Bonafede arriva a Poggioreale affermando «Ci tenevo a portare personalmente la mia vicinanza a tutti coloro che lavorano e vivono nell’istituto». Luglio 2021: la Guardasigilli Marta Cartabia visita Santa Maria Capua Vetere, il carcere delle torture del 6 aprile 2020 e annuncia più formazione per la polizia penitenziaria e più misure alternative per rendere il carcere extrema ratio, mentre la sottosegretaria Anna Macina, a luglio 2022 in visita a Poggioreale, commenta: «È un istituto in chiaroscuro, molto particolare». E arriviamo all’altro ieri, con Carlo Nordio che esce da Poggioreale parlandone come un modello da seguire seppure tra le annose criticità. Bah!

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Altro che sovraffollamento, docce inesistenti e sanità a rischio...Falegnameria e pizzeria, il carcere di Poggioreale visto con gli occhi di Nordio sembra un albergo…Viviana Lanza su Il Riformista il 4 Novembre 2022

La Jeep nera si ferma davanti al carcere di Poggioreale. Il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio esce affiancato dagli uomini della scorta. Si dirige spedito verso l’ingresso della grande casa circondariale napoletana, la più grande d’Italia e tra le più affollate d’Europa. Il tragitto si consuma in pochi passi, interrotti solo da una brevissima sosta davanti al capannello di giornalisti per annunciare: «Dopo farò una dichiarazione sul sistema carcerario e sul significato della visita, non su altro».

Quindi varca il portone, posa per la foto di rito con il direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Lucia Castellano e poi via, che la visita abbia inizio. Il tour dura poco più di un’ora. Al termine il ministro Nordio mantiene la promessa con i giornalisti e si ferma a rendere qualche dichiarazione. «Ho visitato la pizzeria, la falegnameria ma anche una serie di strutture dove i detenuti lavorano. Ho trovato una straordinaria attivazione del lavoro», afferma. Ad ascoltarlo viene da pensare ai dati diffusi dal garante dei detenuti non meno di qualche settimana fa e da alcune associazioni impegnate nella tutela dei diritti nel sistema penale come Antigone: a Poggioreale lavora solo il 13% dei detenuti, solo poche decine di reclusi sugli oltre duemila che ci sono frequentano la scuola, non ci sono mediatori linguistici, gli educatori non arrivano ai venti previsti dall’ordinamento così come mancano alcuni agenti della polizia penitenziaria.

E viene pure da chiedersi se nel suo tour a Poggioreale ci sia stata, oltre alla visita nella falegnameria e nella pizzeria che sono indiscutibilmente realtà valide e da lodare, anche una visita nei padiglioni delle celle senza docce denunciate da Antigone giorni fa o nei reparti superaffollati da detenuti con problemi di tossicodipendenza o di salute mentale i cui drammi sono costantemente denunciati dal garante regionale dei detenuti. Una curiosità che Nordio non soddisfa perché non ne fa cenno. A sentirlo, il ministro, non sembra appena uscito dal carcere simbolo nazionale delle criticità del sistema penitenziario: una struttura vecchia, concepita su un modello di detenzione per nulla finalizzato alla rieducazione e senza spazi della pena adeguati, con ambienti fatiscenti e inviabili che erano da ristrutturare anni fa ma i fondi non sono rimasti bloccati per anni non si sa bene perché, con un alto tasso di sovraffollamento e si potrebbe continuare.

Uscendo da Poggioreale, Nordio concede dichiarazioni della serie: «Sicuramente vi sono molti problemi che sono connessi alla carenza di strutture, di personale e alla carenza più in generale di risorse, però vi è anche un lato buono, l’assoluta professionalità del personale che ho incontrato», afferma. «La mia visita è sintomatica di un’attenzione primaria che ministero e governo dedicano al sistema carcerario. Dobbiamo prendere atto di una formidabile evoluzione sia nell’educazione del personale sia nella formazione verso il recupero del detenuto. Nulla quanto il lavoro e lo sport, sempre nell’ambito della certezza della pena che deve essere eseguita, può recuperare e rieducare il detenuto secondo quando imposto dalla Costituzione».

Ma con i detenuti ha parlato il ministro Nordio? Sappiamo che c’è stata una lieve battitura organizzata dai detenuti di Poggioreale proprio mentre il Guardasigilli visitava la falegnameria e la pizzeria. Più che una protesta forse, un modo per farsi sentire. Sarebbe stato utile raccogliere qualche testimonianza tra chi vive da recluso, no? Eppure era parso di intravedere uno spiraglio di nuova luce nelle parole dette dal ministro nel momento della visita in cui ha incontrato i rappresentanti sindacali della polizia penitenziaria e alcuni operatori del mondo penitenziario. «Sono qui per vedere con i miei occhi», ha detto spiegando di non essere a Napoli per una visita di cortesia né di voler essere come quel generale a cui la truppa risponde sempre che il rancio è buono e la paga ottima. Quello spiraglio di luce era solo un miraggio?

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Anni di denunce inutili, per il neo ministro i detenuti lavorano e sono anche pagati. La gita di Nordio a Poggioreale, così il carcere più infernale d’Italia diventa un modello da seguire. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 3 Novembre 2022

Solo cose belle. Così Poggioreale, il carcere del sovraffollamento con oltre 2200 detenuti reclusi rispetto alla capienza di poco superiore alle 1500 unità, diventa una casa circondariale modello perché ha la falegnameria e la pizzeria, luoghi che coinvolgono poco più del 10% dei detenuti in attività lavorative che, precisazione assai superflua, prevedono anche un (misero) corrispettivo economico.

Avrà sicuramente visto un altro carcere il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Le sue parole dopo la visita di un’ora a Poggioreale (in mattinata ha visitato Regina Coeli a Roma) fanno quasi venire la pelle d’oca. Anni di denunce sprecati. Segnalazioni di celle sovraffollate, anche con 12 detenuti che usufruiscono di un solo bagno e, se va bene, di una doccia, il tutto separato con un muretto, alto poco più di un metro, da cucina e mini-dispense, cadute nel vuoto.

Denunce inutili anche quelle relative a detenuti che da mesi aspettano una semplice radiografia e chiedono solo di ricevere una assistenza sanitaria adeguata. Tutto questo Nordio o non l’ha visto o preferisce ometterlo nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa. Sarebbe interessante sapere quali padiglioni ha visitato l’ex magistrato.

“Sicuramente ci sono molti problemi connessi alla carenza di strutture, di personale e alla carenza di risorse” si è limitato a dire al termine della visita condotta insieme al capo del Dap Carlo Renoldi, alla provveditrice regionale Lucia Castellano, al direttore di Poggioreale Carlo Berdini e al comandante Gaetano D’Iglio.

Qui “vi è anche un lato buono – ha sottolineato il ministro – l’assoluta professionalità del personale che ho incontrato, dai massimi dirigenti fino agli operatori. Poi c’è una cosa che ritengo fondamentale nelle carceri: una straordinaria attivazione del lavoro” ha aggiunto forse senza conoscere la reale percentuale di detenuti che davvero lavorano nel carcere di Poggioreale.

“Ho visitato – racconta entusiasta – la pizzeria, la falegnameria ed una serie di strutture dove i detenuti lavorano e non vi è niente quanto il lavoro che possa riparare dall’ozio e anche dalla disperazione. Sono detenuti, tra l’altro, che vengono retribuiti (e ci mancherebbe, ndr). Io spero che questa parte di Poggioreale aumenti sempre di più e che si diffonda anche negli altri istituti carcerari. Non tutti – ha spiegato Nordio – sono in grado, per ragioni logistiche, di attuare questa straordinaria opera che invece è stata attuata qui”.

“Non c’è nulla quanto il lavoro e lo sport – aggiunge – fermo restando la certezza della pena, che possa recuperare e rieducare il detenuto secondo quanto impone la nostra Costituzione”.

Nessuna parola sulle criticità. Nessuna parola sul numero esiguo di educatori, medici di reparto, psicologi e psichiatri. Nessuna parola sul numero dei suicidi, 74, registrato dall’inizio del 2022 nelle carcere di tutta Italia (a Poggioreale ad agosto un 43enne si è  tolto la vita). 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Lettere al Riformista. “La vita dopo la detenzione è un binario morto dove aspetti ma non passa più nulla”. Redazione su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

“La vita del detenuto è una lunga marcia attraverso la notte, e si avanza verso un vuoto senza nessuno sbocco”. Scrive così un lettore al Riformista. Attualmente è uno studente di Scienze Politiche relazioni internazionali diritti umani che sta frequentando grazie al Progetto Università in carcere nella sua città. Le sue parole sono preziose, per comprendere meglio le difficoltà delle persone detenute e della tragedia di essere per sempre bollati come “ex detenuti” anche dopo aver scontato per intero la pena. Riportiamo qui di seguito le sue parole.

Dopo aver letto gli articoli in merito al Garante Metropolitano Pietro Ioia, vi scrivo per ringraziarvi, nonostante il vortice di accuse e ignoranza, per aver mantenuto impresso e vivo lo spiraglio di speranza delle persone detenute con le Vostre parole. Mi permetto perché sono stato anch’io detenuto nell’inferno di Poggioreale e conosco bene, anzi benissimo Pietro Ioia, e ricordo quanto ha fatto per i detenuti ristretti presso il reparto Salerno sinistro, volgarmente chiamato dagli agenti penitenziari “quello dei ricchioni”.

Sono stato fortunato, avendo padronanza di linguaggio mi sono salvato da tutti gli abusi subiti, e sono stato trasferito nella mia città. Oggi sono studente universitario in scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani, con il progetto università in carcere dapprima presso il Polo Universitario interno e, attualmente in misura alternativa per gravissimi problemi di salute cagionati da figure losche in quel di Poggioreale, ma non mi arrendo e sto scrivendo quanto accaduto e collaboro con diverse associazioni che si occupano di diritti umani.

Avete perfettamente ragione in merito alla vita dopo la detenzione, io fotograficamente parlando la paragonerei ad un binario morto dove aspetti ma non passa più nulla, ma di fronte a te c’è la vita, i normali, i benpensanti che salgono e scendono dai vari treni. Certezza della pena non vuol dire essere umiliati e morire per mano dello Stato, e io di morti ne ho viste…La vita del detenuto è una lunga marcia attraverso la notte, e si avanza verso un vuoto senza nessuno sbocco. Non si vive, si mantiene in vita solo un corpo che non ti appartiene più perchè è diventato di proprietà del Ministero di giustizia fino al giorno della liberazione…poi inizia un altro tipo di detenzione…la solitudine. Vi auguro buon lavoro

Con profonda stima.

La testimonianza. I buoni fuori, i cattivi in cella: facce della stessa medaglia. Argia Di Donato su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Ho partecipato per la prima volta a un laboratorio di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Secondigliano con i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza, quelli considerati dalla società “i più cattivi di tutti”. Rievoco gli occhi di quei “ragazzi” – perché ai miei occhi restano tali –, in cui si agitano oceani densi di luci e ombre di interminabili colori dalle mille sfumature, narratori sofferenti di realtà possibili e opportunità negate. Universi infinitesimali di mondi generati da illusioni, sogni e incubi, visioni e dolori, fede e speranza, cedimenti e ricostruzioni. Sono stati momenti molto intensi.

Eravamo come immersi nello stesso fiume, le cui acque mutavano direzione di continuo. Abbiamo parlato di fede, speranza, autenticità, volontà, diritti, doveri, toccando le vette più alte del pensiero filosofico occidentale e orientale. E poi abbiamo parlato di farfalle. Ho chiesto loro se conoscessero il ciclo di una farfalla. Tutti hanno risposto che la farfalla vola. Libera, ha aggiunto qualcuno. Uno dei ragazzi, Giosuè, come per magia, si è alzato in piedi e ha detto “Io ho scritto una poesia su una farfalla” ed è scappato per andare a cercarla. È tornato con versi straordinari, come questi: “Ti sei appoggiata in queste quattro mura, qualcuno mi dice che mi porterai fortuna. Eri bella ondulante e profumata, ma io dalla mia cella fuori ti ho cacciata. Voglio che tu spieghi le ali e voli via. Qui troverai solo lamento e malinconia. Qui non c’è un campo fiorito e aromatizzato, c’è solo cancelli, cemento e ferro temprato.”

Mentre osservavo i ragazzi interagire con noi, pensavo al fatto che se non si conoscesse il ciclo di vita di questo incredibile insetto capace di stravolgere completamente le proprie forma ed essenza, pochissimi riuscirebbero a ritenere come vera e possibile la sua metamorfosi. In effetti, basta osservare per bene un bruco. Egli è sgraziato, vorace, famelico e distruttore. In taluni casi è assai brutto e spaventoso da vedere. Davvero pochissimi crederebbero al fatto che la farfalla è la sua faccia “altra”. La nostra è una società ipocrita. Mira a sanzionare senza rieducare. Punire o privare qualcuno della libertà senza consentirgli di comprendere la natura del proprio errore per imparare dallo stesso, non ha alcun senso se non quello di generare altri tipi di mostri. Dentro e fuori le stesse mura che separano noi, qui, da loro, lì.

La nostra società è una società malata. Non riesce a guardarsi allo specchio, non è capace di essere sincera con se stessa, non riesce a essere autentica. Siamo ancora tropo legati a una visione dualistica del mondo. Bene e male ci separano sia dall’“altro”, sia da noi stessi, nella nostra parte più autentica. E solo abbandonando questa schematica “opposizione” avviene il miracolo della trasformazione. Come le farfalle. Che muoiono strisciando per rinascere volando. Sono fermamente convinta che i detenuti degli istituti penitenziari siano la nostra parte nascosta a noi stessi, quella parte scomoda che non vogliamo vedere perché giudicanti e impauriti. È più facile chiudere i mostri in gabbia. Così evitiamo di vedere il nostro di mostro. Quel mostro che rifiutiamo, puniamo, giudichiamo. Quel mostro che rinneghiamo e che condanniamo. Perché non ascoltarlo? Vederlo per ciò che è? Accoglierlo? E perdonarlo?

La storia della nostra civiltà è testimone che il genere umano, a livello collettivo, pensa per separazione. I grandi pensatori, i grandi artisti, i letterati, gli scienziati, i maestri spirituali ci dicono invece che siamo parte di un unico tutto. E che siamo tutti collegati. Gli uni con gli altri. Se guardiamo le stelle, il sole e la luna e gli astri del cielo, in essi c’è sia la parte illuminata sia la parte in ombra. Perché in ogni cosa respira la Luce e l’Ombra, e queste due realtà – necessarie per l’evoluzione dell’Anima – dentro di noi si alternano danzando in una spirale possibilistica di estatica bellezza. Senza conflitto. Questo fa di tutti noi esseri unici e irripetibili. Bene e male sono soltanto termini inventati dalla nostra specie per “confinare” ciò che non può essere definito nettamente per nostra incapacità.

Bene e male sono concetti che nascono per la nostra difficoltà a pensare in termini di unicità. Bene e male sono solo parole. Perché la sostanza delle cose resta quella che è. Ed il cambiamento, quello vero, è il grande miracolo. Anche se difficile, pericoloso e doloroso. Bruchi e farfalle. Noi, qui, e loro, lì. Non c’è differenza né separazione. Siamo l’uno specchio dell’altro, facce della stessa medaglia, petto e schiena dello stesso corpo. Noi siamo loro. E loro sono noi. È soltanto la fede nella Speranza a dare forza alle nostre ali e a sollevarci fin su nella parte più alta del cielo per guardare la luce delle stelle. Argia Di Donato

Cosa succedeva nel carcere di Bari e perché tre agenti sono stati arrestati. Angela Stella su Il Riformista il 10 Novembre 2022

Ieri all’alba, come sempre quando si vogliono privare della libertà personale le persone, tre agenti della Polizia penitenziaria di Bari sono stati arrestati e posti ai domiciliari con l’accusa di “tortura in concorso” in applicazione di un’ordinanza di misura cautelare emessa dal gip di Bari, Giuseppe Montemurro, per presunte violenze ai danni di un detenuto di 41 anni che si sarebbero verificate il 27 aprile scorso. Altri sei agenti sono stati sospesi, tre dei quali accusati pure per concorso in tortura e rifiuto d’atti di ufficio, e altri tre solo per quest’ultimo reato.

Tra gli indagati ci sono altresì tre infermieri e il medico di guardia all’infermeria, che avrebbe omesso di denunciare il pestaggio pur sapendo che era avvenuto e non ha riportato le lesioni nel diario clinico. Quindici in totale gli indagati. Le indagini sono state condotte dalla pm Carla Spagnuolo e dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa. L’inchiesta è nata da una denuncia da parte della direzione della Casa circondariale e del Comando della polizia penitenziaria. Il tutto sarebbe nato da un materasso incendiato. Secondo l’accusa, il personale destinatario delle misure, “in servizio presso le diverse sezioni del carcere, conseguentemente ad un intervento in una cella di detenzione, infieriva, con plurime condotte violente nell’arco temporale di circa quattro minuti, nei confronti di un 41enne detenuto”.

Secondo quanto hanno riferito i carabinieri, il personale della polizia penitenziaria, nel trasferire il detenuto nella medicheria della struttura, avrebbe posto in atto “atti di violenza” consistiti in particolare, “da parte di alcuni, nello sferrare calci e schiaffi e, da parte di altri, nel trattenere il detenuto ‘bloccato’ sul pavimento sul quale era riverso, con la partecipazione omissiva di altri agenti che presenziavano agli atti di violenza senza impedirli”. Inoltre, secondo l’accusa, non è stata segnalata “nessuna lesione sul detenuto”, poi ricoverato nell’infermeria della struttura di detenzione immediatamente dopo. Non si è lasciato attendere il commento dell’Associazione Antigone, tramite il Presidente Patrizio Gonnella: “ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e si chiariscano le eventuali condotte e responsabilità. Da quando è stata introdotta la legge contro la tortura nel 2017 sono diversi i processi e le indagini in corso che vedono coinvolti appartenenti alla Polizia penitenziaria. Segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere. Ci auguriamo, altresì, che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni”.

Per Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria: “Chi sbaglia va individuato, isolato e perseguito, ma se le indagini per il reato di tortura sono ormai numerose e interessano carceri diverse in tutto il Paese, probabilmente, c’è molto di più di qualcosa nell’organizzazione complessiva che non funziona e da correggere”. “Anche per questo chiediamo al governo Meloni e al ministro Nordio riforme immediate e investimenti mirati”, conclude il sindacalista. Proprio in serata è arrivata la nota congiunta del Guardasigilli e del capo del Dap Renoldi, circostanza che fan sperare che quest’ultimo non venga mandato via: “La contestazione di gravi reati ad alcuni agenti di Polizia penitenziaria in servizio nella Casa circondariale di Bari ci addolora molto: il Corpo è composto di poliziotti che ogni giorno – con grande abnegazione e passione – adempiono al proprio dovere nel pieno rispetto della legalità. Accuse come queste rischiano di offuscare il grande impegno profuso. L’Amministrazione penitenziaria ha però in sé tutte le risorse per garantire un servizio sempre orientato al pieno rispetto della legalità, secondo il giuramento di fedeltà alla Costituzione e alle Leggi che ciascuno di noi ha fatto. Siamo rispettosi dell’operato della Magistratura e attendiamo, con fiducia, l’ulteriore sviluppo dell’azione giudiziaria, ricordando, una volta di più, anche il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”.

Angela Stella

Da lastampa.it il 9 novembre 2022.

Tre agenti della Polizia Penitenziaria di Bari sono stati arrestati, e sei sono stati sospesi, con le accuse di «tortura in concorso» in applicazione di un'ordinanza di misura cautelare emessa dal gip di Bari, per presunte violenze ai danni di un detenuto di 41 anni che si sarebbero verificate il 27 aprile scorso. Quindici sono le persone indagate, come comunicato dalla Procura di Bari.

La presunta vittima delle torture è un detenuto di 41 anni affetto da una patologia psichiatrica. Alcuni agenti - secondo l'accusa - erano intervenuti nella cella dopo che questo detenuto aveva dato fuoco al materasso. Le violenze sarebbero avvenute durante il trasporto del 41enne nell'infermeria del carcere: sono state acquisite le immagini delle telecamere interne. 

Alcuni agenti - secondo l'accusa - erano intervenuti nella cella del detenuto dopo che questi aveva dato fuoco al materasso. Le violenze sarebbero avvenute durante il trasporto del 41enne nell'infermeria del carcere. Durante l'attività investigativa per ricostruire l'accaduto sono state acquisite le immagini delle telecamere interne.

Arrestati 3 agenti della polizia penitenziaria di Bari: pestarono e torturano un detenuto con problemi psichici per poi occultarne le prove. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Novembre 2022.

Nelle 55 pagine dell'ordinanza cautelare firmata dal gip Giuseppe Montemurro del Tribunale di Bari, è riportato che gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Bari colpiti oggi dai provvedimenti cautelari "hanno dimostrato una disarmante naturalezza nell’adoperare o nel consentire che altri adoperassero violenza nei confronti di un detenuto" a "riprova di un atteggiamento di prevaricazione e di abuso che parrebbe essere tutt'altro che occasionale".

L’inchiesta è stata condotta dalla sezione di polizia giudiziaria dei Carabinieri delegata dalla Procura di Bari e coordinata dal procuratore aggiunto Giuseppe Maralfa e dalla pm Carla Spagnuolo ha avuto origine grazie ad una denuncia presentata dalla direzione della Casa circondariale e del Comando della polizia penitenziaria di Bari, che ha portato all’arresto di tre poliziotti per il reato di tortura e alla sospensione dal servizio di sei assistenti, 3 dei quali accusati di concorso in tortura e rifiuto d’atti di ufficio, e altri 3 solo per quest’ultimo reato. Nelle 55 pagine dell’ordinanza cautelare firmata dal gip Giuseppe Montemurro del Tribunale di Bari, è riportato che gli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Bari colpiti oggi dai provvedimenti cautelari “hanno dimostrato una disarmante naturalezza nell’adoperare o nel consentire che altri adoperassero violenza nei confronti di un detenuto” a “riprova di un atteggiamento di prevaricazione e di abuso che parrebbe essere tutt’altro che occasionale“.

Agli arresti domiciliari sono finiti su ordinanza del gip Giuseppe Montemurro, chiesta – Domenico Coppi 58 anni di Turi, Giacomo Delia 57 anni di Palo del Colle e Raffaele Finestrone 57 anni di Bitritto. La sospensione dal servizio per un anno è stata invece disposta nei confronti di Antonio Rosati 55 anni di Bitritto e di Giovanni Spinelli 41 anni di Triggiano; otto mesi di sospensione per Michele De Lido 31 anni di Bari, Leonardo Ginefra (48 anni di Bari) e Vito Sante Orlando 54 anni di Turi, e Francesco Ventafridda 53 anni di Bitonto. Tra i 15 indagati compaiono anche 3 infermieri e il medico di guardia all’infermeria, che pur sapendo che era avvenuto il pestaggio ha omesso di denunciarlo e non ha riportato nel diario clinico le lesioni riscontrate.

Gli agenti della polizia penitenziaria di Bari indagati sono responsabili secondo l’ipotesi accusatoria della procura barese di aver colpito con calci e pugni di un detenuto con problemi psichici detenuto nel carcere di Bari . Ancora più grave il silenzio e la complicità dei colleghi che hanno assistito al pestaggio, culminata nella mancata segnalazione delle lesioni sul corpo della vittima, un 42enne barese, dopo il ricovero in infermeria. All’origine della violenza dei poliziotti della penitenziaria sarebbe stato l’incendio di un materasso causato dal detenuto. L’episodio contestato è accaduto lo scorso 27 aprile scorso nel carcere di Bari e si sarebbe svolto durante il trasferimento di un detenuto dalla sua cella alla medicheria.

Un pestaggio vero e proprio come hanno ricostruito i Carabinieri che sarebbe durato quattro minuti, durante i quali alcune guardie carcerarie avrebbero bloccato sul pavimento ed altri colpito l’uomo, mentre altre guardie sarebbero rimasti immobili a guardare il pestaggio. La posizione più grave è quella delle tre persone che materialmente avrebbero effettuato il pestaggio mentre gli altri agenti non lo avrebbero impedito o lo avrebbero coperto, così diventandone complici. Secondo l’accusa il sovrintendente Domenico Coppi, coordinatore della sorveglianza generale, avrebbe colpito con schiaffi e calci il detenuto 41enne, che era stato fatto cadere di proposito dall’assistente Giacomo Delia durante il trasporto in infermeria dopo l’incendio del materasso nella sua cella. Secondo quanto emerso dalle indagini l’ assistente Delia avrebbe inflitto calci al torace del detenuto, mettendosi anche di peso sui piedi del 41enne per tenerlo fermo. Condotte violente per le quali viene accusato anche l’assistente Raffaele Finestrone, che avrebbe colpito il detenuto con calci alla schiena ed in pieno volto.

Secondo quanto è stato accertato dagli investigatori dei Carabinieri a seguito della visione delle immagini filmate dalle telecamere del carcere, il detenuto avrebbe tentato inutilmente di difendersi dai colpi ricevuti. Il tutto per quattro minuti. Lo stesso detenuto, pochi giorni dopo la presunta aggressione, avrebbe parlato delle violenze con i vertici del carcere di Bari che lo avevano convocato per una contestazione disciplinare.

Immediata la difesa d’ufficio del sindacato Sappe “Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra Carta costituzionale e quindi evitiamo illazioni e gogne mediatiche. Niente è più barbaro dei processi mediatici ” ha dichiarato il segretario generale del Sappe Donato Capece , a proposito dell’indagine della Procura di Bari. “In molti casi ed in diverse città, detenuti sono stati condannati per calunnia per le false accuse di presunti pestaggi subìti da alcuni poliziotti penitenziari durante la detenzione – afferma Capece – Noi confidiamo nella Magistratura perché la Polizia penitenziaria, a Bari come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere”. Forse Capece si è distratto un pò dimenticando che quanto successo a S. Maria Capua Vetere ( scandalo emerso proprio grazie ai giornalisti e non certo al Sappe) anche a Bari hanno parlato purtroppo delle immagini violente commesse da appartenenti alla Polizia Penitenziaria che per questi casi dovrebbero nascondere la faccia.

“Dell’indagine sulle presunte torture nel carcere di Bari eravamo a conoscenza da tempo e aspettavamo il primo atto ufficiale arrivato nelle ore scorse. Come sempre avviene in questi casi ci auguriamo che la giustizia faccia il suo corso e si chiariscano le eventuali condotte e responsabilità” ha dichiarato Patrizio Gonnella presidente dell’ Associazione Antigone . ” Da quando è stata introdotta la legge contro la tortura nel 2017 sono diversi i processi e le indagini in corso che vedono coinvolti appartenenti alla Polizia penitenziaria – aggiunge Gonnella – Segno di un testo che era e continua ad essere fondamentale per prevenire e perseguire abusi in un luogo chiuso come il carcere“. “Ci auguriamo che chiarezza venga fatta anche sul coinvolgimento del personale medico, più di una volta indagato o condannato in procedimenti simili, per la mancata refertazione di ferite e lesioni. Nel caso specifico di Bari la buona notizia è stata la collaborazione dei vertici del carcere – sia della direzione che della stessa Polizia Penitenziaria – per individuare i presunti colpevoli delle violenze e arrivare ad un primo accertamento dei fatti. Anche in questo caso, come ripetiamo, la legge sulla tortura può aiutare a rompere il muro di omertà che spesso si è creato in passato, garantendo ampio riconoscimento a chi porta avanti il proprio lavoro nel rispetto dei diritti e della dignità degli individui” conclude Gonnella.

“La contestazione di gravi reati ad alcuni agenti di Polizia penitenziaria in servizio nella Casa circondariale di Bari ci addolora molto: il Corpo è composto di poliziotti che ogni giorno – con grande abnegazione e passione – adempiono al proprio dovere nel pieno rispetto della legalità. Accuse come queste rischiano di offuscare il grande impegno profuso. L’Amministrazione penitenziaria ha però in sé tutte le risorse per garantire un servizio sempre orientato al pieno rispetto della legalità, secondo il giuramento di fedeltà alla Costituzione e alle Leggi che ciascuno di noi ha fatto. Siamo rispettosi dell’operato della Magistratura e attendiamo, con fiducia, l’ulteriore sviluppo dell’azione giudiziaria, ricordando, una volta di più, anche il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”. Così hanno commentato la vicenda il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio ed il Capo del DAP il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi.

Gli agenti invocano “Gratteri al Dap”, ma il governo vuole Riello. Il Sappe “sceglie” il procuratore di Catanzaro facendo il tifo come allo stadio. Ma il rischio è di mettere in ombra Nordio. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 novembre 2022.

Nicola Gratteri, Luigi Riello, o ancora Carlo Renoldi. La partita del nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), uno degli incarichi più importanti (e remunerati) della pubblica amministrazione, si giocherà molto probabilmente su questi tre nomi, tutti di magistrati. La procedura prevede che la proposta venga formulata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio per poi essere ratificata dal Consiglio dei ministri. Sul nome del procuratore di Catanzaro c’è stato in questi giorni l’endorsement dei sindacati della polizia penitenziaria.

Il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) a tal proposito ha pubblicato un lungo articolo sulla propria rivista online, poliziapenitenziaria.it, dal titolo particolarmente esplicito: “Gratteri, Gratteri, Gratteri”. Richiamandosi alla torcida degli stadi, i sindacati di polizia stanno facendo apertamente il tifo per il magistrato che in passato Matteo Renzi, prima di essere stoppato, avrebbe voluto come Guardasigilli nel suo governo. «Non siamo mai entrati (e mai vogliamo entrarci) nell’agone politico italiano ma per il bene e a salvaguardia della polizia penitenziaria che rappresentiamo saremmo i primi ad alzarci in piedi sugli spalti dello Stadio Penitenziario e gridare in coro: Gratteri! Gratteri! Gratteri», scrivono i dirigenti del Sappe.

La liason fra Gratteri e la polizia penitenziaria è nota da tempo. Sul sistema carcerario il procuratore ha le idee molto chiare. Intervenendo ieri a Milano ad una manifestazione letteraria svoltasi all’interno proprio del carcere di San Vittore, Gratteri ha illustrato le sue proposte, ad esempio «mettere ai domiciliari i detenuti tossicodipendenti, con percorsi di terapia», facendo poi «una formazione adeguata agli agenti». La polizia penitenziaria, per Gratteri, necessita di una profonda riorganizzazione. Pur essendo una della quattro forze di polizia nazionali (erano cinque prima dello scioglimento del corpo forestale dello Stato, secondo il procuratore calabrese è di «Serie C» , gettata in uno stato di «depressione e frustrazione» dalle istituzioni che non se ne curano. A cominciare dalle scuole di formazione: «Nelle scuole ci deve andare gente che sul campo ha dimostrato di saper fare qualcosa, non gli amici degli amici. Altrimenti le lezioni diventano una passerella e i ragazzi non imparano nulla».

Il procuratore ha, ovviamente, anche la ricetta per risolvere il sovraffollamento nelle carceri: «La costruzione di nuove strutture detentive o l’ampliamento di quelle esistenti». Una idea da sempre sostenuta dalla Lega e da Fratelli d’Italia con il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Una proposta, pur utilizzando i fondi del Pnrr, allo stato però difficilmente realizzabile. Sono anni, infatti, che in Italia non si costruisce un’opera pubblica. Le normative, ad iniziare dal codice degli appalti, con il prevedibile strascico di contenzioni amministrativi, rendono impossibile porre in essere opere del genere in tempi relativamente brevi. Le uniche opere pubbliche, infatti, vengono realizzate quando si sospendono le procedure di legge e si nomina, come per il ponte di Genova, un commissario. Ma sul punto serve una volontà politica forte. Gratteri, comunque, ha incassato anche l’appoggio della segretaria nazionale dell’Associazione dirigenti e funzionari di polizia penitenziaria, Daniela Caputo, secondo cui serve «un capo per il nostro corpo operativo, unico tra le forze dell’ordine a non averlo. Un problema non più rinviabile, come hanno dimostrato le rivolte carcerarie del 2020. Il sistema di prevenzione penitenziario è parte integrante dell’ordine pubblico ed è giusto che abbia un vertice a regolarlo e organizzarlo».

L’outsider della contesa potrebbe allora essere Riello, procuratore generale di Napoli, recentemente “scottato” dalla mancata nomina a procuratore generale della Cassazione. Riello, in un duro articolo, aveva recentemente criticato il Consiglio superiore della magistratura. Una presa di posizione che potrebbe agevolarlo nel trovare sponda nell’attuale maggioranza che non ha mai lesinato critiche verso l’attuale gestione di Palazzo dei Marescialli post Luca Palamara. Per Renoldi, invece, l’eventuale conferma andrebbe letta nel segno della continuità, essendo stato scelto dall’allora ministra della Giustizia Marta Cartabia con cui Nordio ha sempre avuto un buon rapporto. Tornado, comunque, a Gratteri, la sua scelta non potrebbe non mettere in “difficolta” lo stesso Nordio. La forte personalità del procuratore, molto mediatica e che non ha bisogno di comunicatori, metterebbe sicuramente in ombra il ministro. Con conseguenze facilmente immaginabili.

Riecco Nicola Gratteri: «Datemi il Dap, ma voglio pieni poteri». Il procuratore si candida alla guida del Dipartimento che si occupa di carcere e la cui poltrona vale più di 300mila euro. E si dichiara «vero garantista».  Il Dubbio il 25 novembre 2022.

«Con Nordio ho parlato di arte, lui è un grande conoscitore di Storia. Anche io mi considero un garantista, io e il mio ufficio osserviamo in modo ortodosso le norme del codice. Ci sono diffamatori quotidiani che scrivono notizie false, ho iniziato cause civili contro questi diffamatori seriali. Da quando sono a capo della procura di Catanzaro non c’è una sola condanna per ingiusta detenzione, lo dice il presidente della corte d’appello. Non ci sarebbero le carceri piene in Calabria se le mie indagini fossero tutte un bluff». Così il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ospite di Lilli Gruber a Otto e mezzo su La7.

Dal ponte sullo Stretto – «che i calabresi non vogliono mentre i siciliani non ne hanno bisogno perché i turisti arrivano coi voli low cost» -, alla questione migranti. Insomma, Gratteri, gran frequentatore di salotti televisivi dai quali lancia le sue nuove fatiche letterarie, non smette di stupire e ormai parla come un tuttologo qualsiasi. Non solo, sull’immigrazione e sullo scontro tra Roma e Parigi, veste i panni di ministro degli esteri e invita al silenzio Francia e Inghilterra che, dice, “non possono parlare per il loro passato coloniale”.

Poi il velato, ma neanche troppo, apprezzamento al governo Meloni – «l’unico che ha parlato di mafia” – e l’ammiccamento per la poltrona di capo del Dap, che vale più di 300mila euro l’anno: «Nessuno mi ha chiesto di fare il capo del Dap. Forse è un desiderio della polizia  penitenziaria ma dipende da che libertà mi danno, devo avere mani libere». Il che ricorda il poco fortunato voglio pieni poteri di una Salvini convinto di vincere le elezioni, salvo poi scoprire di stare sotto il 10%.  Insomma, il solito Gratteri, che tra un giudizio e l’altro, non dimentica di ricordare che lui è un «vero garantista» (sic!), che  la separazione delle carriere sarebbe una iattura e che la riforma Cartabia andrebbe cancellata. Punto.

Un passaggio il procuratore di Catanzaro lo dedica anche all’annunciata modifica dell’abuso d’ufficio. «L’abuso d’ufficio è un reato difficile da dimostrare, così come è formulato – ha sottolineato -. Ma è un reato spia, e secondo me serve. Non vorrei che alcuni sindaci scegliessero di usare il Comune come casa propria. Dovremmo accorpare i comuni più piccoli, poi i sindaci se vogliono un parere tecnico prima di apportare una firma possono chiederlo, se invece vogliono favorire il parente o l’amico è giusto che gli arrivi l’avviso di garanzia».

L'amministrazione penitenziaria merita ben altro. Gratteri non può andare al Dap, non si affidano le carceri a chi ha fatto inchieste show senza costrutto. Otello Lupacchini su Il Riformista il 18 Novembre 2022 

A fronte dei rumors raccolti e rilanciati da il Riformista, circa le grandi manovre in corso per insediare il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, mi sorge spontanea la domanda, considerata la vocazione di «Rattenfänger» o «ciaparat» che dir si voglia, confessata ore rotundo dall’odierno procuratore della Repubblica di Catanzaro, se sia assurta, fra le altre, a irrinunciabile «priorità» del Gabinetto Meloni, anche la «derattizzazione» degli Istituti di pena della nostra amata Patria.

Il pretesto per avanzare un simile interrogativo mi è offerto dalla lettura di un passo delle Memorie dell’architetto Andreï Mikhaïlovitch Dostoevskï, fratello del più noto Fëdor, relativo a una delle brutte «sorprese» riservategli dalla cella in cui era stato rinchiuso dopo una giornata e parte della notte trascorse nella «terza sezione» degli uffici della polizia moscovita, a seguito dell’arresto per motivi politici patito il 23 aprile del 1849, «Non appena si fece buio, e mi portarono il lumino», racconta, infatti, Andreï Mikhaïlovitch, «piano piano cominciarono a comparire dei ratti di dimensioni enormi (…). Talora ce n’erano dieci alla volta e io, temendo che si arrampicassero nella mia cuccetta, non dormivo, fino all’alba. Non riuscivo a capire da dove saltassero fuori (…). Alla luce del giorno non si vedevano. Ma bisogna pur dire che era fine aprile e inizio maggio faceva giorno presto, l’avevo, il tempo per dormire. Oltretutto, dormivo sempre anche di pomeriggio, dopo pranzo». Non mi nascondo il rischio che qualcuno dei tanti, per dirla con Friedrich Nietzsche (Götzen-Dämmerung, 1889), «fari nel mare dell’assurdo», magari un Maitre ein Stifter dell’«io sto con…», incistati da grassi parassiti nelle Istituzioni, «mito impossibile», d’«esaltazione che si toglie la sottana», potrebbe muovermi la resistibile obiezione che n’è passato di tempo da quando l’architetto Dostoevskï era ospite non di un carcere di questa Nazione, ma di una prigione della Russia zarista, potrebbe muovermi l’accusa, è già successo, del resto, di essere «sarcastico». Poco male. Conservare la propria allegria in mezzo a faccende oscure e oltremodo gravide di responsabilità, non è artificio da poco, ma del resto cos’è più necessario dell’allegria?

Com’è ovvio che sia, il dottor Carlo Nordio, che anche in virtù della sua generalmente riconosciuta cultura garantista è stato insediato al vertice del ministero della Giustizia, certamente, sempre che addirittura non l’abbia già fatto, smentirà sdegnosamente, non solo a parole, naturalmente, ma soprattutto con i fatti, la notizia diffusa da il Riformista. A meno che non voglia «perdere la faccia». L’Os aureum di Gerace, infatti, non perde occasione, nella sua bulimia mediatica nota lippis et tonsoribus, di ostentare l’allergia per la Costituzione, la fedeltà alla quale, nell’ambito della legislazione penale, è specchio dell’autentica democraticità dello Stato: a prescindere dal suo retorico pessimismo come rigurgito del pranzo sui futuribili in generale del processo penale e specialmente dei «maxiprocessi», per effetto dell’entrata in vigore della pur timidissima riforma Cartabia, aliena gli è l’idea stessa che teoria generale del reato e funzione della pena non siano due momenti concettuali distinti, posto che dal fine costituzionalmente attribuito alla pena può derivare una connotazione globale e sostanziale dello stesso illecito penale; è altresì fuori dai suoi orizzonti culturali il «nuovo volto» del reato, quale risulta dalla combinazione dei principi desumibili soprattutto, ma non solo, dagli articoli 2, 3, 13, 24, 25 e 27 della Costituzione, come fatto previsto in forma tassativa dalla legge, di realizzazione esclusiva dell’agente o in ogni caso al medesimo riconducibile tramite un atteggiamento colpevole (doloso o colposo), idoneo a offendere un valore costituzionalmente significativo, minacciato con una pena proporzionata anche alla significatività del valore tutelato e strutturalmente caratterizzato dal teleologismo costituzionalmente attribuito alla sanzione penale e, infine, intollerante rispetto ad ogni articolazione probatoria che faccia in qualche modo ricadere sull’imputato l’onere della prova o il rischio della mancata allegazione di elementi di ordine positivo che ne caratterizzano la struttura; al fondo di ogni suo discorso è dato leggere, del resto, il messaggio che tolti lui e quelli che la pensano come lui l’ordine decade a caos, la convinzione, cioè, ch’egli e quelli come lui stiano adempiendo a una sorta di missione salvifica: il male pullula nel mondo, dunque va represso, la scimitarra della giustizia non ha guaine, incombe continuamente.

Sintomatico di tutto questo è l’ossessivo susseguirsi, del resto, di «massicce operazioni» o «grandi retate» o «mega blitz» anti-’ndrangheta, con decine e decine, se non addirittura centinaia di arresti, abbattentisi sulla Calabria, per iniziativa della direzione distrettuale antimafia della quale l’Os aureum è a capo; blitz, operazioni e retate che, per dirla con Boncompagno da Signa, «evanescunt sicut umbra lunatica»: dopo le roboanti conferenze stampa promozionali, ben presto esse vengono irrimediabilmente ridimensionate, se non addirittura travolte e totalmente vanificate, nei procedimenti incidentali de libertate, quali riesame e Cassazione, e nei dibattimenti davanti ai tribunali o alle Corti d’assise o alle Corti d’appello o alla Corte di cassazione, le motivazioni dei cui provvedimenti evidenziano, in inquietante sintesi, l’incontenibile pulsione che prova il titolare della funzione d’accusa a punire, purtroppo, senza legge, senza verità, senza colpa. Pur non essendovi evidenza alcuna che il ministro Carlo Nordio sia in qualche modo disponibile a «perdere la faccia» chiamando il dottor Nicola Gratteri al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la vulgata, alimentata dal continuo rincorrersi di voci correnti nel pubblico, vedrebbe un bizzarro sodalizio, quello che chiamerò M.U.F., esercitare fortissime pressioni sia sul Governo sia sulle Opposizioni, per favorire la nomina dell’Os aureum di Gerace.

Pur in mancanza di evidenze in tal senso, non è tuttavia temerario intravvedere, sulla scorta dell’id quod plerumque accidit – si chiama, questa, «prova critica» – quale possa esserne il fondamento, non perdendo di vista né i posizionamenti politici dei membri del M.U.F. né l’influenza che ognuno di essi può avere, e su chi, per le funzioni da essi, sia precedentemente sia attualmente, svolte. Ma altri sono gli indici rilevanti dai quali non si può prescindere. La prigione, come evidenziato dalla letteratura scientifica e constatato, anche da me, nella pratica quotidiana, è di sicuro la più efficace e la più feconda fra tutte le istituzioni che producono illegalismi. Dalle carceri si esce quasi sempre più delinquenti di quando vi si è entrati: per via degli effetti del disinserimento sociale, dell’esistenza del casellario giudiziale, del formarsi di sodalizi delinquenteschi e di tant’altro. Il funzionamento interno delle prigioni, inoltre, è possibile solo a prezzo di un gioco di illegalismi, al tempo stesso molteplici e complessi: i regolamenti interni sono sempre assolutamente contrari alle leggi fondamentali che, nel resto della società, garantiscono i diritti umani; la galera è luogo di violenza fisica e sessuale esercitata sui detenuti, dai detenuti e dagli agenti di custodia; è luogo di commerci incessante e, ovviamente, illegale, tra detenuti, detenuti e agenti di custodia, tra questi e il mondo esterno; è, altresì, un luogo in cui l’amministrazione pratica quotidianamente l’illegalismo, fosse anche solo per coprire agli occhi della giustizia e dell’amministrazione superiore, da un lato, e dell’opinione pubblica, dall’altro, tutti gli illegalismi che si producono al suo interno; è finalmente un luogo di cui gli apparati polizieschi si servono per reclutare la loro manovalanza, i loro informatori, i loro scagnozzi, all’occorrenza i loro assassini e ricattatori.

La sempre maggiore consapevolezza che tra le tante priorità vi sia anche quella del carcere, grave e incivile situazione, indegna perché offende innanzitutto la dignità, a cui si accompagnano la richiesta, dai pulpiti più autorevoli, di riconsiderare il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena e la stigmatizzazione del fatto che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, negando l’affettività, privando dello spazio e annullando il tempo, che cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, vanno di pari passo con la progressiva perdita d’utilità del ruolo della prigione, quale macchina per la fabbricazione dei delinquenti in vista della diffusione e del controllo degli illegalismi. I grandi traffici di armi, di droga di valuta sfuggono, infatti, sempre più alla competenza di un ambiente di delinquenti tradizionali, che magari erano dei bravi ragazzi, ma forse incapaci, perché formatisi in galera, di diventare i grandi trafficanti internazionali di cui c’è bisogno ora. Qui, tuttavia, si profila prepotente un altro interrogativo: è concepibile un potere che non ami l’illegalismo, che non abbia bisogno di possedere gli illegalismi, controllarli e mantenersi saldo se non mediante il loro esercizio? La risposta, com’è ovvio è negativa, la domanda va dunque elusa. E chi, meglio dell’Os aureum di Gerace, o simili, al vertice del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, potrebbe compiere l’esorcismo? Ecco perché, paradossalmente, ma anche con buona pace di tutti, in nome della ragion di Stato, le chances di Nicola Gratteri potrebbero essere, nonostante tutto, molto concrete.

Otello Lupacchini, Giusfilosofo e magistrato in pensione

Il sottosegretario voleva premiare gli agenti delle violenze in carcere. NELLO TROCCHIA su Il Domani l’08 novembre 2022

«Se il Ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa».

Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove che, nel nuovo governo di Giorgia Meloni, è diventato sottosegretario alla Giustizia. 

‘Pestaggio di stato’ è il libro di Nello Trocchia, in uscita l’11 novembre, editore Laterza, che ricostruisce l’inchiesta e svela le menzogne di stato. 

«Se il ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa».

Recitava così l’interpellanza parlamentare, presentata nell’aula della camera dei Deputati, il 15 giugno 2020, dai deputati di Fratelli d’Italia che chiedevano l’encomio solenne per i poliziotti penitenziari coinvolti in una delle pagine più buie della storia carceraria italiana. Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove che, nel nuovo governo di Giorgia Meloni, è diventato sottosegretario alla Giustizia, il ministero che decide sulle sospensioni degli agenti.

L’interpellanza, rimasta senza risposta, era destinata proprio al dicastero dove l’allora deputato oggi occupa la poltrona di sottosegretario. Il deputato criticava l’operato della magistratura, arrivava a proporre un premio e ricostruiva le vicende seguendo le indicazioni dei vertici dell’amministrazione, dell’allora governo M5s-Pd e dei sindacati, ricostruzioni che si sono rivelate totalmente false e che erano già state messe in discussione dall’avviso di garanzia notificato a 44 agenti. Il reato contestato era quello più grave per chi indossa la divisa: tortura. 

IL GIORNO DELLA MATTANZA

Il 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella, 283 poliziotti penitenziari entrarono e massacrarono di botte i detenuti inermi del reparto Nilo. Nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere è iniziato il processo a carico di 105 persone accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia. In 77 sono stati sospesi dal servizio, altri hanno continuato a lavorare con tanto di avanzamento di carriera. Decisioni che spettano al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e proprio al ministero della Giustizia. Ma cosa c’era scritto in quell’interpellanza?

I deputati di Fratelli d’Italia ricostruivano i fatti così: «Il giorno 5 aprile 2020 è esplosa una violentissima rivolta nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere nel corso della quale circa 150 detenuti, dopo aver occupato alcuni reparti, hanno minacciato gli agenti della polizia penitenziaria con olio bollente e alcuni coltelli». Non era andata così. Nessuna protesta violentissima era esplosa, il dato era facilmente desumibile dalle parole pronunciate all’esterno del carcere dal magistrato di sorveglianza, Marco Puglia. «Il profilo dell’ordine e della sicurezza è sotto controllo, c’è stata solo una protesta, rientrata», aveva detto al tg regionale della Rai.

La ricostruzione dei deputati continuava riferendo dei fatti accaduti l’indomani. «Il giorno 6 aprile 2020, a seguito di una perquisizione straordinaria disposta dalla amministrazione penitenziaria, sono state ritrovate e sequestrate diverse spranghe, bacinelle piene di olio, numerosi pentolini per far bollire l’olio e altri oggetti contundenti nella disposizione dei detenuti; nel corso della predetta perquisizione gli animi si sono surriscaldati e vi sono stati alcuni contusi che, comunque, non hanno riportato conseguenze tali da essere ricoverati in ospedale fra i detenuti mentre 50 agenti della polizia penitenziaria sono stati refertati».

Le bacinelle piene d’olio non c’erano e neanche le spranghe, le fotografie erano state manipolate. I poliziotti erano stati refertati, ma le ferite erano le conseguenze dei pugni, degli schiaffi e delle botte sferrate ai detenuti inermi.

Quattro giorni prima della presentazione dell’interpellanza c’era stata la notifica di 57 decreti di perquisizione e di 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti del carcere. Ma anche l’atto della magistratura, la perquisizione, veniva bollata come un’operazione «spettacolare di dubbia utilità investigativa», veniva citato anche l’intervento del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, che «ha avvertito la necessità di intervenire sulle modalità spettacolari dell’azione diretta dalla procura».

GLI ALTRI FIRMATARI

Gli interroganti concludevano ricordando anche un’aggressione avvenuta, il 12 giugno 2020, ai danni di alcuni agenti prima di sottoporre all’attenzione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’insolita richiesta perché «è necessario riaffermare, oltre alla indipendenza della magistratura, che nel caso di specie condurrà le indagini, anche l’indipendenza della politica». Il 6 aprile veniva definita «una necessaria operazione di contenimento della rivolta carceraria».

Abbiamo contattato il sottosegretario per chiedergli se intende promuovere l’iniziativa dell’encomio oppure si è pentito, ma non ha risposto. Tra gli interpellanti, oltre ad Andrea Delmastro Delle Vedove, c’erano Wanda Ferro ed Emanuele Prisco, diventati sottosegretari al ministero dell’Interno; Alessio Butti, nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri e Galeazzo Bignami, diventato sottosegretario alle Infrastrutture. Sono stati tutti promossi.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

"I garanti restino fuori dal procedimento". Mattanza in carcere, parte il processo ed è scontro sulle parti civili: la posizione paradossale del ministro della Giustizia. Viviana Lanza su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Schermaglie procedurali e un braccio di ferro tra accusa e difesa e tra difesa e parti civili. Il maxi-processo per le torture e i pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si apre così. Ieri c’è stata la prima udienza nell’aula bunker del carcere sammaritano ristrutturata e riaperta appena quattro giorni fa. Centocinque gli imputati, fra medici e soprattutto dirigenti, funzionari e agenti dell’amministrazione e della polizia penitenziaria, tutti finiti sotto processo a diverso titolo per i reati di tortura, lesioni personali, maltrattamenti, abuso di autorità contro detenuti, falso in atto pubblico, perquisizioni personali arbitrarie, omessa denuncia, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento, rivelazione di segreto d’ufficio. Ad alcuni degli imputati è contestato anche il concorso nelle circostanze che hanno causato la morte di Hakimi Lamine, il detenuto algerino che dopo i pestaggi fu messo in isolamento e un mese dopo fu trovato morto in cella.

Il primo scontro giudiziario del processo è sulle parti civili. Ieri, ad apertura del processo di primo grado che dovrà accertare le singole responsabilità di quella terribile mattanza, molti degli imputati sono tornati a sollevare eccezioni sulle costituzioni di parte civile: secondo loro i garanti, quello regionale ma soprattutto quello nazionale, non avrebbero diritto ad essere ammessi a un eventuale risarcimento, così come si è tornati a contestare la posizione del Ministero della Giustizia, presente nel processo sia come parte civile sia come responsabile civile. Tutte questioni che la difesa degli imputati aveva proposto in fase di udienza preliminare ottenendo un secco no da parte del giudice e che ora ripropone alla Corte d’assise (il collegio presieduto dal giudice Roberto Donatello). Si torna in aula il 14 novembre per affrontare questa ed altre questioni preliminari, come la costituzione di parte civile di altri 26 detenuti individuati dalla Procura come vittime dei pestaggi e che ora chiedono di essere aggiunti agli oltre settanta che si sono già costituiti come parti offese, e la costituzione dell’associazione “Italiastatodidiritto”.

La Corte, inoltre, dovrà sciogliere la riserva anche sulla richiesta, avanzata sempre da alcuni imputati, di smembrare il processo, lasciando in Corte d’assise solo le posizioni chiamate a rispondere del reato di tortura e delle presunte responsabilità nella morte del povero Lamine e stralciando davanti al Tribunale tutte le altre posizioni. Si vedrà. Intanto è una coincidenza che si carica di simbolismo il fatto che il processo si svolga nell’aula bunker annessa al carcere dove il 6 aprile 2020 si verificò la mattanza al centro delle accuse. Ieri in aula erano presenti molti imputati e alcune vittime o loro parenti. Tra questi ultimi Antonella Cacace, la figlia di Vincenzo, il detenuto sulla sedia a rotelle selvaggiamente picchiato nel reparto Nilo del carcere sammaritano. Le telecamere di videosorveglianza che ripresero le scene dell’orribile mattanza catturarono anche le fasi del pestaggio di Vincenzo costretto su una sedia a rotelle.

Cacace è deceduto il 18 giugno scorso: la figlia con la madre e il fratello ora sono pronti a portare avanti la sua battaglia giudiziaria per avere giustizia su ciò che accadde quel 6 aprile 2020. «La vicenda di mio padre la conoscono tutti, i video sono evidenti – afferma Antonella -. Mio padre ha sbagliato nella sua vita ma non avevano alcun diritto di fargli quello che gli hanno fatto. Rimase molto sconvolto, gli abusi in carcere gli causarono un forte stress post traumatico». «Fin quando è stato in cella – aggiunge – non ci ha mai detto cos’era accaduto. Lo abbiamo saputo solo dopo che è stato scarcerato, perché la sua salute peggiorava, non riusciva più a dormire, si svegliava urlando. Quelle botte gli erano rimaste impresse».

Viviana Lanza.Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Pietro Ioia, arrestato il Garante dei detenuti di Napoli: portava droga e cellulari in carcere. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 18 ottobre 2022.

Nominato nel 2019 dall’allora sindaco de Magistris, Ioia ha un passato da narcotrafficante per cui ha scontato 22 anni di reclusione

Il garante dei detenuti del Comune di Napoli, Pietro Ioia, è stato arrestato insieme ad altre sette persone nell’ambito di una indagine, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Procura partenopea, mirata a fare luce sull’introduzione di droga e telefoni cellulari nel carcere di Poggioreale.

Sì tratta di episodi che sarebbero avvenuti tra il giugno del 2021 e il gennaio di quest’anno. A gestirli quella che gli investigatori hanno individuato come una strutturata associazione per delinquere (reato contestato a tutti gli indagati nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip) composta da alcuni reclusi e dalle loro mogli, oltre che dal garante.

Secondo le indagini Ioia avrebbe approfittato del suo ruolo, e della facilità di accesso alla casa circondariale che questo comportava, per incontrare i detenuti coinvolti nell’organizzazione e consegnare la droga e i cellulari. Hashish e cocaina venivano poi spacciati in carcere fruttando all’organizzazione un guadagno che successivamente era ripartito tra i vari partecipanti.

Pietro Ioia, 63 anni, ha un passato da narcotrafficante che lo ha portato a scontare 22 anni di reclusione. Da molto tempo sembrava aver abbandonato ogni tipo di attività illecita e si era a lungo impegnato per i diritti dei detenuti. Nel dicembre del 2019 l ’allora sindaco Luigi de Magistris lo nominò Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. Ioia è anche autore di un libro sulla cosiddetta “cella zero”, una stanza del carcere di Poggioreale che sarebbe stata utilizzata per pestaggi e violenze sui detenuti. Sulla “cella zero” ha indagato a lungo la Procura senza però accertarne la reale esistenza.

LA PARABOLA DEL GARANTE DEI DETENUTI DA ATTORE IN TV A SPACCIATORE IN CARCERE. Antonio E. Piedimonte per “La Stampa” il 19 ottobre 2022. 

Dall'inferno al paradiso, e ritorno. Ancora un paio di giorni fa era comodamente seduto nell'aula «Giancarlo Siani» del Consiglio regionale della Campania per partecipare alla Conferenza nazionale dei garanti dei detenuti, solo 24 ore dopo Pietro Ioia si è ritrovato tra quei carcerati di cui si prendeva cura ma stavolta per restare con loro, in cella.

Il 63enne è stato arrestato dai carabinieri perché - come raccontano immagini e intercettazioni - si è scoperto che oltre a garantirgli i diritti li riforniva di droga, telefonini e altro. I mercatini illegali nelle carceri non sono una novità, ma l'episodio ha fatto scalpore perché l'ex narcos nato alla Sanità e cresciuto a Forcella che dopo 22 anni di prigione si era redento, era diventato un personaggio piuttosto noto. 

Grazie a un libro-denuncia sul carcere di Poggiorale - nel quale svelava l'esistenza di una cella segreta usata per i regolamenti di conti durante le guerre di camorra - che provocò un'indagine della magistratura e divenne uno spettacolo teatrale. E grazie all'associazione «Ex detenuti organizzati napoletani» (Ex Don) e alle attività nel mondo dello spettacolo: location manager alla docuserie di Sky «Camorriste 2», o il ruolo recitato nel film di Claudio Giovannesi «La Paranza dei bambini» tratto dall'omonimo libro di Roberto Saviano. Insomma, un simbolo per tutti quelli che amano una certa narrazione della parte oscura della città.

Da lì la nomina (avversata da molti) di garante comunale, un ruolo peraltro non previsto dalla legge (c'è il garante regionale), voluta dall'allora sindaco De Magistris (ieri l'ha definita «scelta coraggiosa») e poi confermata in automatico dalla giunta attuale, anche se intanto tra i detenuti si era aggiunto un suo fratello. 

A leggere l'ordinanza del gip Valentina Giovanniello si scapisce che quello era l'ultimo dei problemi: «Ioia è il perno principale dell'attività illecita del sodalizio () era a piena disposizione del gruppo criminale, legato a doppio filo soprattutto dal forte movente economico, visti i lauti guadagni». 

Il resto lo dice lui (intercettato): «Ora vedo di entrare altri due cosarielli là dentro, sotto Natale... devo prendere pure il motorino a quello», dice Ioia prospettando l'introduzione di un paio di cellulari nel carcere per racimolare altro denaro (mediamente 850 euro a consegna) da usare per comprare lo scooter al figlio in vista delle festività natalizie.

O con le parole rivolte a un detenuto dopo aver saputo dove aveva nascosto il cellulare: «Bravo, metti sempre le mutande strette». E lì, in un attimo, si è chiusa la parabola: da brillante testimone di redenzione&riscatto a imbarazzante simbolo di tutto ciò che appare irredimibile.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 19 ottobre 2022. 

Quando uscì dal carcere di Velletri, dopo aver scontato l'ultima condanna a sedici anni, Pietro Ioia aveva nella borsa, tra lettere, foto e ritagli di giornale, un bigliettino con un numero di telefono scritto a penna. Glielo aveva lasciato prima di andarsene un compagno di cella calabrese, uno che al suo paese era soprannominato Escobar . Gli aveva detto di chiamarlo, perché di certo avrebbero trovato qualcosa da fare insieme.

Pietro quel numero non lo compose mai. Strappò il biglietto e lo buttò. E con quello pensò di aver buttato via tutta la malavita vissuta fino a quel giorno. Voleva tenersi i ricordi dell'infanzia a vico Lammatari, nel cuore del Rione Sanità, con il papà di quelle parti e la mamma di Forcella, dove lei vendeva le sigarette di contrabbando e lui giocava a fare piramidi con i pacchetti di Marlboro, finché non arrivava Salvatore, il fratello più grande - uno dei sette che aveva - e gliele buttava giù solo per fargli dispetto.

Voleva tenersi l'amore di sua moglie, Pina, che chiamavano la giornalista , perché aveva l'edicola dei giornali davanti al vecchio tribunale di Castel Capuano, e dimenticarsi di Marina, la colombiana conosciuta in Spagna che gli presentò il patrigno narcotrafficante e quello fece di lui un broker della droga, uno che andava a Bogotà e faceva arrivare a Napoli chili di cocaina da distribuire alle famiglie che gestivano lo spaccio. 

Voleva cominciare a raccogliere ricordi dei suoi figli, perché su di loro da detenuto aveva messo insieme solo i racconti della moglie, e dimenticare di quando, appena diciannovenne, fu il primo a vendere il fumo a Forcella, togliendo l'esclusiva alla «sposa», la piazza di spaccio dei Quartieri spagnoli dove era un andirivieni continuo di ragazzi da tutta Napoli. 

Solo una cosa non voleva eliminare dai ricordi: la miseria del carcere. E la violenza nella «cella zero» di Poggioreale, quel luogo del quale la magistratura non ha mai accertato l'esistenza ma che nei racconti e nelle denunce di Ioia era un buco nero «dove le guardie ti pestavano e ti umiliavano e qualche detenuto ci ha pure lasciato la vita». 

Pietro voleva essere un ex narcotrafficante che mai più avrebbe venduto droga, ma anche un ex recluso che mai avrebbe cancellato dalla memoria le sofferenze della reclusione, né si sarebbe dimenticato di chi quelle sofferenze continuava a patirle. E di sicuro è stato sia una cosa che l'altra. Perché l'associazione che costituì nel 2004, Exdon (Ex detenuti organizzati napoletani), ha fatto moltissimo per aiutare chi usciva dal carcere a reinserirsi nella vita sociale e lavorativa. 

E perché non possono essere stati tutti pazzi o ciechi o sordi quelli che hanno creduto in lui. Non Luigi de Magistris che da sindaco, nel 2019, lo nominò Garante dei detenuti del Comune di Napoli; non Ilaria Cucchi che nello stesso anno lo inserì tra i premiati della Onlus intitolata a suo fratello Stefano, riconoscendogli l'impegno in favore dei diritti umani; e nemmeno Marotta e Cafiero, la casa editrice che ha aperto una libreria a Scampia, e nel 2017 ha pubblicato il libro La cella zero, morte e rinascita di un uomo in gabbia. 

Alla fine l'unico che non ha creduto in Pietro Ioia è stato Pietro Ioia. Vissuto troppo a lungo nel male per credere alle favole a lieto fine, o almeno per credere che la favola a lieto fine potesse avere lui per protagonista. E forse in una intervista a Gaia Martignetti di FanPage lo aveva anche detto, a modo suo: «Se Pietro Ioia sbaglia di nuovo, allora dovete infierire su Pietro Ioia». Ecco, ha sbagliato di nuovo.

Sbatti il mostro in prima pagina: il garante Pietro Ioia, il “colpevole perfetto”. In galera perché indagato di aver abusato della sua posizione per introdurre droga e telefonini. Il garante nazionale chiede una linea guida, quelli territoriali temono la messa in ombra della loro funzione. Damiano Aliprandi il 19 ottobre 2022 su Il Dubbio.  

Sono giunti alle cinque di martedì mattina per notificare l’arresto preventivo nei confronti di Pietro Ioia, Garante per i diritti dei detenuti di Napoli. Ironia della sorte, il giorno prima ha partecipato al convegno organizzato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Proprio quel giorno ha denunciato diverse criticità che persistono al carcere di Poggioreale. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare, Ioia avrebbe abusato – in concorso con altre undici persone – della sua funzione di garante per introdurre in quel carcere i telefonini e la droga dietro un corrispettivo in denaro. Un’accusa che però, attraverso i mass media, si traduce già come un fatto certo.

Già condannato da sindacati di polizia penitenziaria e da alcuni partiti

I sindacati di polizia penitenziaria, partiti politici come la Lega – all’epoca critici per l’elezione di Ioia a Garante – già lo condannano. E questo nonostante la riforma Cartabia abbia rafforzato la presunzione di innocenza. Ricordiamo che la critica nei suoi confronti è stata trasversale visto la polemica avuta con il neodeputato dei Verdi Francesco Emilio Borrelli solo perché durante il primo lockdown dovuto all’emergenza Covid, insieme al garante regionale Samuele Ciambriello, si batteva per la tutela della salute anche nelle carceri. Ed è lo stesso Borrelli che ora afferma: «Va rimosso dal ruolo e condannato severamente». Anche i Verdi hanno già emesso la sentenza prima ancora della formulazione dell’accusa e dell’esito di un eventuale processo.

È stato testimone chiave nel processo sulla “cella zero”

Pietro Ioia è il colpevole perfetto, visto il suo passato da narcotrafficante tanto da aver scontato ben 22 anni di carcere tra Spagna e Italia. Nel 2002, finito di scontare la pena, ha iniziato la sua battaglia per i diritti dei detenuti, tanto da essere stato il testimone chiave per il processo sulla “cella zero” di Poggioreale, ovvero dove avvenivano le torture. Eletto garante di Napoli dall’allora sindaco De Magistris e confermato anche dall’attuale nuova amministrazione, ha fatto emergere diverse criticità e mai si è risparmiato nel denunciare più volte le condizioni atroci che si vivono dietro le sbarre.

L’accusa, se provata, è certamente gravissima. In primis perché metterebbe a rischio la credibilità di una istituzione importante come quella dei garanti. A tal proposito, interviene il garante nazionale delle persone private della libertà precisando che, come è noto, non esiste una connessione istituzionale tra il suo ruolo e quello delle figure che territorialmente le singole Amministrazioni nominano.

Ma nonostante ciò ha più volte sollecitato negli anni l’adozione di “Linee guida” per indicare parametri di indipendenza, professionalità e integrità che le Amministrazioni stesse potessero seguire nella delicata individuazione di tali figure. «Indipendentemente da ogni valutazione sull’indagine in corso che ha portato oggi ai provvedimenti restrittivi e nella forte speranza istituzionale che il Garante del Comune di Napoli possa mostrare la sua estraneità ai fatti, nonché, ovviamente, nel pieno rispetto dell’autonomia degli Enti locali, il Garante nazionale auspica che si giunga a una strutturazione organica dei rispettivi compiti e perimetri delle relazioni Istituzionali che dia all’esperienza positiva portata avanti in questi anni una riconoscibile fisionomia di responsabilità istituzionale», chiosa il Garante Nazionale.

Il garante campano Ciambriello: «Spero che dimostri la sua estraneità»

Interviene anche il garante della regione Campania Samuela Ciambriello, sottolineando la sua piena fiducia nella magistratura che con gli interrogatori di garanzia sarà chiamata a valutare il quadro accusatorio. «Spero che, in questa circostanza o nelle future fasi, Pietro Ioia riesca a dimostrare la sua estraneità ai fatti. Intanto, la mia posizione non può che essere orientata verso la presunzione di innocenza», sottolinea il garante campano.

Nello stesso tempo auspica che l’arresto di Pietro Ioia non deve delegittimare o sminuire l’operato di tutti i Garanti, regionali, provinciali e comunali. «Il Garante – chiosa Ciambriello – è una figura istituzionale, che viene eletta o nominati dai rispettivi Consigli. Questo episodio non può e non deve compromettere il lavoro di chi, ogni giorno, si muove nella direzione di garanzia dei diritti dei detenuti. Garantire i diritti non equivale assolutamente a rendersi complici. Accanto alla correttezza individuale di ognuno è necessario mostrare anche una correttezza istituzionale, questo soprattutto per garantire una tutela più soddisfacente e, quindi, impedire che alle esigenze dei detenuti si risponda con l’illegalità». Fa da eco anche Stefano Anastasia, portavoce dei garanti territoriali, sottolineando che «I Garanti nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, da vent’anni svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che è parte della legalità penitenziaria e che non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro».

Bernardini: «questo episodio non metta in discussione l’opera dei garanti»

Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, ricorda che ogni giorno ci sono notizie riguardanti il traffico di cellulari e stupefacenti all’interno delle carceri. A volte sono i familiari, altre volte è il personale (soprattutto agenti), altre volte ancora il traffico si fa con i droni o con pacchi gettati nell’intercinta dell’istituto. Sottolinea che pochi giorni fa è stato arrestato il cappellano del carcere di Enna accusato di portare droga in carcere. «Mai faremo abbastanza – osserva Bernardini – per contrastare il proibizionismo sulle sostanze stupefacenti che è criminogeno a tal punto da arrivare a corrompere interi apparati statali», e mette in guardia: «Non sia questo episodio a mettere in discussione l’opera preziosissima in termini di conoscenza e vigilanza che i garanti svolgono quotidianamente nei quasi 200 istituti carcerari italiani».

Ma ritorniamo a Pietro Ioia. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare avrebbe commesso i fatti – almeno così si evince osservando le date – nell’arco dei primi del mese di dicembre 2021 fino ai primi di gennaio del 2022. In concorso con altri soggetti, avrebbe dapprima consegnato illegalmente due cellulari dietro un compenso di 600 euro, poi altri apparecchi per 500 euro, infine tra il 30 dicembre e l’8 gennaio 2022 avrebbe consegnato a due detenuti un imprecisato quantitativo di hashish dal valore di 10mila euro, i quali poi lo cedevano a terze persone non identificate. Secondo le indagini, un detenuto e sua moglie sarebbero i capi, promotori e organizzatori, con il compito di programmare tali traffici, avvalendosi della complicità del garante Ioia avendo appunto la facoltà di visitare il carcere di Poggioreale.

Ioia è attualmente in carcerazione preventiva. Preventivamente è stato subito rimosso dal suo incarico da Gaetano Manfredi, l’attuale sindaco di Napoli, colui che ad aprile scorso lo ha riconfermato garante comunale riconoscendone le sue qualità. «Era stato individuato precedentemente come garante – ha commentato a caldo il sindaco – e noi non eravamo intervenuti su questa nomina, ma adesso provvederemo subito alla revoca. È molto grave che chi deve tutelare i detenuti possa essere oggetto di un’inchiesta giudiziaria».

La vicenda di Ioia è ancora tutta da capire, così come è ancora da apprendere cosa dirà in sua difesa. Ma non si può sbattere subito il mostro in prima pagina. Il mondo penitenziario è complesso, c’è un sottobosco poco inesplorato e dove basta poco per perdersi dentro. Il giro di droga e cellulari non è una novità. «Alcuni detenuti mi hanno detto che ci sono istituti penitenziari dove vige un vero e proprio tariffario per droga, cellulari o altri oggetti proibiti. Forse non è vero, ma è verosimile», racconta la storica radicale Rita Bernardini.

L'arresto del garante dei detenuti. Nelle carceri si traffica di tutto, il problema è il proibizionismo. Rita Bernardini su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

In tanti siamo stati raggiunti dalla sconvolgente notizia dell’arresto del nostro amico Pietro Ioia con l’accusa di traffico di stupefacenti e di telefoni cellulari all’interno del carcere di Poggioreale. Lo avrebbe fatto approfittando del suo ruolo di garante e ciò, se fosse provato e vero, sarebbe gravissimo. Vedremo a cosa porteranno le indagini e se l’accusa sarà provata. Constato che anche in questo caso poteva essere evitata la custodia cautelare in carcere.

Ogni giorno ci sono notizie riguardanti il traffico di cellulari e stupefacenti (droghe illegali, perché quelle legali sono profuse a gogò) all’interno delle carceri. A volte sono i familiari, altre volte è il personale (soprattutto agenti), altre volte ancora il traffico si fa con i droni o con pacchi gettati nell’intercinta dell’istituto. I mezzi sono i più fantasiosi. Pochi giorni fa è stato arrestato il cappellano del carcere di Enna accusato di portare droga in carcere. Alcuni detenuti mi hanno detto che ci sono istituti penitenziari dove vige un vero e proprio tariffario per droga, cellulari o altri oggetti proibiti. Forse non è vero, ma è verosimile.

Mai faremo abbastanza -come dovremmo- per contrastare il proibizionismo sulle sostanze stupefacenti che è criminogeno a tal punto da arrivare a corrompere interi apparati statali. Non sia questo episodio a mettere in discussione l’opera preziosissima in termini di conoscenza e vigilanza che i garanti svolgono quotidianamente nei quasi 200 istituti carcerari italiani. Qualche benpensante dovrebbe poi spiegarmi come mai le illegalità sistematiche dello Stato nei confronti della popolazione detenuta non vengano mai sanzionate… Rita Bernardini

Il ritratto. Pietro Ioia, dalla cella zero ai diritti degli ultimi: la seconda vita dell’ex narcos. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

Nato al rione Sanità e cresciuto a Forcella, Pietro Ioia si è sempre raccontato come chi non dà tutte le colpe al destino. «Ho sbagliato tanto e ho scontato la mia condanna», ha sempre ammesso parlando del suo passato di narcotrafficante internazionale di hashish e cocaina e della condanna a ventidue anni espiata fra le carceri italiane e quelle spagnole.

A Poggioreale ci rimase rinchiuso sette anni e una volta fuori raccontò quell’inferno, arrivando a denunciare i pestaggi che alcuni agenti avrebbero commesso nella cosiddetta “cella zero” per stabilire rapporti di forza con i detenuti. Da quella denuncia è nato un processo, che a distanza di dieci anni dai fatti ancora si trascina lentamente nella fase del primo grado di giudizio, ed è nato un libro, «La cella zero», scritto dallo stesso Ioia e pubblicato da Marotta & Cafiero editore.

Il libro è diventato poi uno spettacolo teatrale e più in generale la storia raccontata da Ioia è diventata la molla per spostare l’attenzione di tutti, politici e opinione pubblica, sui diritti di chi sconta la pena in cella. Per Ioia fu l’occasione per aprire e aprirsi una nuova strada che lo ha portato, negli anni, a impegnarsi nel sociale e approdare persino al cinema e in teatro. Ha avuto una parte nel film “La paranza dei bambini” di Claudio Giovannesi, premiato al Festival di Berlino per la sceneggiatura e ispirato al libro di Saviano e a un’inchiesta della Procura sui traffici di droga e la guerra tra giovani emergenti nei quartieri del centro storico, e ha collaborato al documentario “Camorriste 2” nel 2017.

Ma a segnare la sua seconda vita sono stati soprattutto l’impegno da presidente dell’associazione Ex detenuti organizzati napoletani e, nel 2019, l’incarico, ottenuto dall’allora sindaco di Napoli Luigi de Magistris, di garante cittadino delle persone private della libertà personale. Ci furono moltissime polemiche per la scelta di Ioia come garante dei detenuti di Napoli, e oggi, alla notizia del suo arresto per droga e telefoni cellulari introdotti nel carcere di Poggioreale sfruttando le prerogative del suo ruolo di garante, quelle polemiche sono tornate a galla come a dire «Ve lo avevamo detto…» e anticipare una sentenza di condanna che mortifica e ignora un sacrosanto principio, quello della presunzione di innocenza.

Non sappiamo come evolverà l’inchiesta, non sappiamo se le accuse ipotizzate nell’ordinanza di custodia cautelare notificata a Ioia e ad altre sette persone saranno confermate o meno. È presto per emettere sentenze. Quel che è certo è che in questa sua “seconda vita” Pietro Ioia ha comunque affrontato tante battaglie accanto ai garanti, ai Radicali, a rappresentanti delle istituzioni in difesa dei diritti degli ultimi. Ora la notizia del suo arresto, la nuova inchiesta della Procura, le accuse contenute in intercettazioni telefoniche e ambientali sembrano inaugurare per lui una terza stagione di vita.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Dal carcere in Spagna alla denuncia della cella zero. Chi è Pietro Ioia, il garante dei detenuti che battaglia “contro” il giustizialismo di Salvini e Borrelli. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 18 Ottobre 2022 

Da poche ore è nuovamente recluso in una cella del carcere di Poggioreale a Napoli. Quello che ha denunciato in passato per le violenze subite sulla sua pelle (la cella zero) e quello che continuava a visitare in questi ultimi tre anni da garante dei detenuti per tutelare e aiutare le persone recluse.

E’ un fulmine a ciel sereno l’arresto di Pietro Ioia, ex narcotrafficante che, dopo aver scontato ben 22 anni di carcere tra Spagna e Italia, ha iniziato la sua battaglia a difesa dei detenuti prima con il movimento “Ex detenuti napoletani organizzati” poi, dal dicembre 2019, attraverso il ruolo di garante cittadino affidatogli dall’ex sindaco Luigi de Magistris e confermato nei mesi scorsi dall’attuale primo cittadino Gaetano Manfredi. Ruolo per il quale, è bene precisarlo, non riceve alcun compenso.

Ioia è accusato dai magistrati della Procura di Napoli di aver sfruttato il suo ruolo per introdurre all’interno del carcere di Poggioreale droga e cellulari. Non abbiamo ancora letto l’ordinanza che ha portato all’arresto di 8 persone per “un giro d’affari di diverse migliaia di euro”. Sappiamo però che Ioia in questi ultimi tre anni è diventato un riferimento assoluto dei familiari dei detenuti.

“Mi definisco un garante abusivo, il mio ufficio è il bar dove incontro i familiari dei detenuti” ha raccontato Ioia in passato al Riformista prima di avere un ufficio dall’amministrazione comunale. “Prendo nota di tutti i problemi denunciati dai loro parenti e li porto al direttore del carcere e al dirigente sanitario”. E ancora: “Mi chiamano a qualsiasi ora, anche di notte, per chiedermi un consiglio o informarmi di quello che sta accadendo in carcere”.

Ex detenuto (è stato in carcere 22 anni per narcotraffico), ha denunciato le “cella zero” di Poggioreale, dove venivano commesse violenze nei confronti dei reclusi, compromettendo definitivamente i suoi rapporti con la polizia penitenziaria che in questi anni, attraverso alcuni sindacati, ha rivolto più di qualche attacco al garante cittadino. Il processo, avviato a dicembre 2017, non ha avuto un iter molto spedito. Dodici agenti della polizia penitenziaria, all’epoca in servizio a Poggioreale, sono imputati a piede libero ma c’è il rischio della prescrizione. Entrare nella cella zero voleva dire essere costretto a spogliarsi, fare flessioni e prendere le botte, stare poi in isolamento fino a quando non si riusciva a reggersi di nuovo in piedi sulle proprie gambe.

“Sono stato arrestato e trattenuto in carcere per 22 anni. Nel 2002 sono uscito e ho deciso di cambiare vita. Da 15 anni lotto per i diritti dei detenuti”, raccontava in una vecchia intervista al Riformista.

Attaccato dopo la sua nomina dalla Lega di Matteo Salvini per il suo passato, è stato definito “garante della chiavicumma” dal neo deputato dei Verdi Francesco Emilio Borrelli solo perché durante il primo lockdown dovuto all’emergenza Covid, insieme al garante regionale Samuele Ciambriello, si batteva per la tutela della salute anche nelle carceri.

Offese pronunciate nel corso di una diretta Facebook. Parole che hanno portato Ioia, assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, consigliere della Camera Penale di Napoli e membro della Direzione Nazionale Radicali Italiani, a presentare denuncia-querela presso la Procura di Napoli. Dopo l’iniziale richiesta di archiviazione avanzata dal pm Francesca De Renzis perché le espressioni adottate da Borrelli “non appaiono idonee a ledere la reputazione della persona offesa”, il Gip del Tribunale di Napoli, Roberto D’Auria, ha accolto l’opposizione dell’avvocato Minieri chiedendo al magistrato la formulazione dell’imputazione coatta.

L’ESULTANZA DI SALVINI E BORRELLI – Adesso sia Salvini che Borrelli gongolano. Siamo ancora nella fase delle indagini preliminari ma da buoni giustizialisti a orologeria (soprattutto Salvini, il caso Morisi avrebbe dovuto insegnargli qualcosa…) hanno prontamente puntato il dito contro Ioia: “Garante dei detenuti, ex detenuto, e adesso ancora arrestato: le grandi nomine della sinistra in Campania…” scrive il segretario del Carroccio sui socia. “Un abbraccio alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria e grazie per il loro straordinario lavoro” aggiunge.

Borrelli è quasi entusiasta dell’arresto: “Va rimosso dal ruolo e condannato severamente. Abbiamo sempre avuto ragione e invece lui mi insultava mi ha anche querelato in passato”.

Nel 2019 Ioia ha vinto il “Premio Diritti Umani Stefano Cucchi onlus” promosso e consegnato da Ilaria, la sorella di Stefano, il ragazzo morto il 22 ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare. Un premio che lo ha particolarmente emozionato perché arriva come riconoscimento della sua instancabile attività in difesa dei diritti dei detenuti. “È un premio che arriva da una famiglia che ha subito un morto in quel modo, un morto in mano allo Stato, una tragedia immane – dice Pietro – Questo premio mi fa capire che le battaglie che si fanno per i diritti umani vanno sempre fatte. E io continuerò a farle con tutte le mie forze”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista

Il caso di Pietro Ioia. Il delirio giustizialista della Lega: in carcere garante per i poliziotti e non per i detenuti. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

La custodia cautelare in carcere di Pietro Ioia, garante delle persone private della libertà per l’area della Città Metropolitana di Napoli, è stato un macigno che si è abbattuto su un terreno già disastrato e rischia, dopo quest’ulteriore deterioramento, di precipitare definitivamente nell’abisso del giustizialismo più deleterio. La condanna mediatica, puntualmente giunta a poche ore dall’arresto, con riferimento virgolettato ad intercettazioni e al contenuto di riprese video, sembrerebbe non lasciare spazio alla difesa dell’indagato, che, nell’interrogatorio di garanzia, si è avvalso- vista la mole di documenti da esaminare – della facoltà di non rispondere.

Una prima riflessione va, dunque, fatta, ancora una volta, sulla pubblicazione di stralci di atti relativi alle indagini, che dovrebbero essere riservati, esclusivamente, alle parti e che, invece, diventano patrimonio comune. Nonostante la legge sulla presunzione d’innocenza, che stabilisce l’espresso divieto di indicare pubblicamente come colpevole la persona indagata, finché l’eventuale responsabilità non sia accertata con provvedimento irrevocabile di condanna, i media hanno illustrato, nel dettaglio, la tesi accusatoria, con precisa distinzione dei ruoli che ciascun indagato avrebbe avuto nel commettere l’azione criminale, unitamente alle prove che accertano tali condotte. È un dèja vu, che non si riesce a fermare. Ma il caso Ioia ci porta ad altre valutazioni.

L’augurio è che possa, al più presto, dimostrare la sua innocenza, per se stesso e per quello che egli rappresenta. La sua storia, infatti, è stata, fino a questo momento, un vero e proprio simbolo di riscatto. Ex detenuto, scontata la condanna – 22 anni per narcotraffico internazionale – si è immediatamente dedicato ad attività che potessero sostenere il reinserimento sociale di coloro che avevano lasciato il carcere. Autore del libro “La cella zero”, poi divenuto opera teatrale. Un viaggio nel mondo sconosciuto della detenzione, con particolare riguardo al sopruso, all’abuso di potere, alla sospensione dei diritti. Da qui la denuncia di quanto avveniva nell’istituto di Poggioreale, in quella stanza luogo di tortura, dove i detenuti venivano vessati da agenti della Polizia Penitenziaria. Il processo, a carico di alcuni agenti della Polizia Penitenziaria, è ancora in corso presso il Tribunale di Napoli. Ieri l’ultima udienza istruttoria. Il 10 novembre prossimo è prevista la discussione del Pubblico Ministero, mentre le difese prenderanno la parola il 22 dicembre, il 5 e il 12 gennaio.

Quello di Ioia è stato un impegno costante, anche quale Presidente dell’Associazione Ex Detenuti Organizzati. Chi lo ha conosciuto, vedeva nei suoi occhi la passione per l’attività di volontariato che svolgeva. La nomina a Garante, voluta dall’allora Sindaco de Magistris e poi confermata da Manfredi, suscitò varie polemiche, proprio per il suo passato. Mentre altri – tra cui chi scrive – sostennero che “era la persona giusta, al posto giusto”. Chi meglio di lui, infatti, poteva conoscere le problematiche relative alla detenzione e quelle dell’effettivo reinserimento sociale, una volta liberi? È presto per dire se avevamo sbagliato, in quanto la verità sarà accertata nell’unica sede possibile, quella giudiziaria. Intanto la notizia di quanto accaduto ha immediatamente aperto il dibattito sui criterio di scelta dei Garanti nominati dagli Enti Locali e sulla stessa loro utilità.

La Lega, che già in passato aveva criticato la figura dei Garanti, si è affrettata ad emanare un comunicato in cui afferma che «al di là del nome del ministro, la Lega avrà certamente un ruolo nel dicastero della Giustizia guidato dal centrodestra. Tra i primi dossier da affrontare, anche alla luce dell’arresto del garante dei detenuti del Comune di Napoli, la necessità di un garante per le donne e gli uomini in divisa che lavorano nelle carceri italiane, troppo spesso in condizioni inaccettabili». Ma la Polizia Penitenziaria non ha già i Sindacati – peraltro molto attivi – a tutelare i loro diritti? Tale dichiarazione, proveniente da un partito della coalizione di maggioranza che si accinge a governare il Paese, è l’ulteriore prova – semmai ce ne fosse stato bisogno – che, in materia di Giustizia ed in particolare di Esecuzione Penale, non vi sarà alcuna possibilità che vengano pienamente rispettati i principi costituzionali.

Per questo, se davvero Pietro Ioia fosse colpevole, la sua azione criminale colpirà non solo la sua persona, ma, come in realtà già sta avvenendo, darà forza a quella deriva giustizialista che ai detenuti nulla vuole concedere, neanche i loro diritti. La sua colpevolezza rappresenterebbe, inoltre, per coloro che in lui hanno creduto e ne hanno ammirato la volontà di riscatto, un vero e proprio tradimento.

Dopo l’arresto dell’ex garante cittadino dei detenuti. Arresto Ioia, dietrofront della penitenziaria: “Si a garanti ma indipendenti”. Francesca Sabella su Il Riformista il 23 Ottobre 2022 

L’arresto dell’ormai ex garante cittadino dei detenuti Pietro Ioia, accusato di aver introdotto all’interno del carcere di Poggioreale droga e cellulari (ricordiamo che fino al terzo grado sarebbe bene osservare il principio della presunzione d’innocenza) ha agitato l’animo dei tanti giustizialisti. Dalla politica alle istituzioni tutti hanno sventolato la bandiera del “colpevole subito, colpevole da sempre”.

Più laica e meno giustizialista è apparsa, invece, la posizione di Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UILPA Polizia Penitenziaria: «L’arresto del già tanto discusso garante dei detenuti del comune di Napoli per gravi reati anche connessi al traffico di droga e all’illecita introduzione in carcere di sostanze non consentite e telefoni cellulari ripropone l’urgenza di dettare linee guida omogenee affinché per tale ruolo vengano individuate figure che rispondano a criteri d’indipendenza e professionalità».

E ancora, si legge nella nota diffusa ieri dal sindacato: «Guardiamo con favore a chiunque operi per la difesa dei diritti e della legalità e il Corpo di polizia penitenziaria ha anche il compito, per dirla con le parole di Dino Petralia, già Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di garantire le garanzie e, dunque, di garantire persino i garanti dei detenuti. Tali figure del resto – aggiunge – possono svolgere, e non di rado lo fanno, una funzione non secondaria per la tenuta dell’intero sistema carcerario e nella ricerca di soluzioni utili a farlo uscire dalla crisi in cui versa. In qualche caso, tuttavia, abbiamo assistito alla designazione di personaggi molto discussi o comunque ‘sui generis’ che hanno destato molte perplessità e, paradossalmente, per restare in metafora, non offrivano alcuna garanzia di poter garantire, rischiando, al contrario, di esacerbare gli animi in un contesto in cui gli equilibri sono intrinsecamente precari».

Da qui la richiesta di linee guida specifiche: «Trovandoci peraltro in sintonia con il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, riteniamo che l’adozione di linee guida che orientino le nomine possa essere la giusta soluzione. Non va dimenticato – conclude – che i garanti locali dei detenuti hanno il libero accesso alle strutture penitenziarie dei rispettivi territori, le quali, come nel caso di Napoli, possono essere più di una, anche di notevoli dimensioni, e ospitare migliaia di reclusi. Per noi, dunque, indipendenza e professionalità costituiscono un indice di competenza, moderazione ed equilibrio, ma anche di sicurezza».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

L’inchiesta su droga e telefoni introdotti in carcere. Garante arrestato, non si usi Pietro Ioia per svilire chi si adopera per la tutela dei detenuti. Viviana Lanza su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

La misura cautelare, il tempismo dell’inchiesta, le accuse ipotizzate dagli inquirenti: la notizia dell’arresto di Pietro Ioia, garante dei detenuti della Città metropolitana di Napoli, arriva come un terremoto. Scuote, coglie alla sprovvista, lascia attoniti. Ioia è accusato di essersi fatto corrompere accettando di far parte di un’associazione a delinquere che lucrava facendo entrare droga e telefoni cellulari in carcere, nel carcere di Poggioreale.

Appena ventiquattro ore prima dell’arresto, Ioia era alla Conferenza nazionale dei garanti regionali e territoriali tenutasi a Napoli e aveva preso la parola per fornire il proprio contributo di idee e denunciare le criticità nella gestione del vitto e del sopravvivo in alcuni istituti penitenziari. Adesso è al centro di accuse gravissime, aggravate dal fatto di aver agito sfruttando il suo ruolo di garante e la possibilità, che da tale ruolo deriva, di entrare nelle carceri e avere contatti con i detenuti. Se queste accuse non dovessero trovare alcuna conferma processuale ci troveremmo dinanzi a un ennesimo caso di gogna mediatica e giudiziaria, se invece la conferma dovesse arrivare si tratterebbe della responsabilità del singolo che non deve intaccare né svilire la figura del garante dei detenuti.

In ogni caso, tuttavia, appare ancora una volta evidente quanto fallimentare sia il sistema carcere così come è strutturato. Il carcere genera violenza, produce aberrazioni, distorce i rapporti tra le persone che lo popolano, siano essi reclusi o chi all’interno di quelle strutture ci lavora. Il grande rischio, in questo momento, è di fare di tutta l’erba un fascio e demolire non solo la figura del garante ma anche la funzione della pena che è poi la sua stessa natura, cioè la funzione di recupero del condannato ai fini della sua rieducazione, di un suo reinserimento nella società. Pietro Ioia ha incarnato proprio tutto questo, diventando una sorta di simbolo del riscatto dopo il carcere, della seconda chance per cambiare vita, obiettivi e frequentazioni.

Da ieri mattina è in carcere, e ironia della sorte proprio a Poggioreale, e, assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, oggi comparirà davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia. I carabinieri di Castello di Cisterna, coordinati dalla Procura di Napoli, hanno intercettato per mesi, a cavallo tra giugno dell’anno scorso e gennaio di quest’anno, il suo telefono e quelli di altri sette indagati e hanno ripreso, con intercettazioni ambientali, i colloqui che da garante cittadino aveva con alcuni detenuti. Accusano Ioia di esseri fatto corrompere per «i soldi per il motorino, i soldi per Natale, i soldi per il primo dell’anno». È duro il gip nel ritenere le esigenze cautelari gravi al punto da non poter scegliere altra misura se non il carcere: «Ioia, sfruttando il suo ruolo di garante dei detenuti, piuttosto che agire nell’interesse della collettività ne approfittava per trarne occasione di ingenti guadagni».

«È una notizia sconvolgente – commenta Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino – Vedremo a cosa porteranno le indagini e se l’accusa sarà provata. Constato che anche in questo caso poteva essere evitata la custodia cautelare in carcere». Si dice «attonito» il garante regionale Samuele Ciambriello: «Ho piena fiducia nella magistratura e spero che il garante Ioia possa dimostrare la sua estraneità ai fatti. Questo episodio non può e non deve delegittimare l’operato di tutti noi garanti». Anche il portavoce della conferenza dei garanti territoriali, Stefano Anastasia interviene su questo punto: «I garanti svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che è parte della legalità penitenziaria e non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro». Intanto il Comune di Napoli ha avviato la procedura per revocare a Pietro Ioia l’incarico di garante cittadino.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanew

Il Comune verso la revoca della nomina. Perché è stato arrestato Pietro Ioia, il garante dei detenuti di Napoli. Angela Stella su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

La notizia è “sconvolgente”, come ha scritto la presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini: il garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Napoli, Pietro Ioia, è stato arrestato ieri insieme ad altre sette persone nell’ambito di una indagine, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Procura partenopea, mirata a sgominare una presunta associazione per delinquere, radicata nel capoluogo partenopeo, finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di delitti tra cui l’introduzione illegale di telefoni cellulari e sostanze stupefacenti all’interno della Casa Circondariale di Napoli – Poggioreale.

Gli episodi contestati risalirebbero al periodo compreso tra il giugno del 2021 e il gennaio di quest’anno. La Direzione del carcere e la polizia penitenziaria hanno collaborato alle indagini nella fase di osservazione dei colloqui. Ioia sarebbe addirittura il deus ex machina di questa strutturata associazione per delinquere (reato contestato a tutti gli indagati nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip) composta da alcuni reclusi e dalle loro mogli, oltre che dal garante appunto. Secondo le indagini Ioia avrebbe approfittato del suo ruolo, e della facilità di accesso alla casa circondariale che questo comportava, per incontrare i detenuti coinvolti nell’organizzazione e consegnare durante i colloqui, dietro un compenso di 500/600 euro, la droga e i cellulari, avuti dalla compagna di uno dei reclusi.

A fare da intermediario tra Ioia e la donna, la moglie del garante. Hashish e cocaina venivano poi spacciati in carcere fruttando all’organizzazione un guadagno che successivamente era ripartito tra i vari partecipanti. Le indagini avrebbero evidenziato l’esistenza di un dilagante fenomeno di spaccio di sostanze stupefacenti (hashish e cocaina), del valore economico di diverse migliaia di euro, all’interno dell’istituto penitenziario. Il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli ha emesso, su richiesta della Procura partenopea, sei misure cautelari in carcere e due ai domiciliari. Dietro le sbarre rimane Ioia, 63 anni, con un passato da narcotrafficante che lo ha portato a scontare ventidue anni di reclusione.

Nel dicembre del 2019 l’allora sindaco Luigi de Magistris lo nominò Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. Alla luce dell’inchiesta giudiziaria, il Comune “sta predisponendo gli opportuni provvedimenti di revoca della carica affidata a Ioia dalla precedente amministrazione”, si è letto in una nota di palazzo San Giacomo. Ioia è anche autore di un libro sulla cosiddetta “cella zero”, una stanza del carcere di Poggioreale che sarebbe stata utilizzata per pestaggi e violenze sui detenuti. Le indagini sono partite nel giugno 2021 con l’intercettazione di una utenza telefonica in uso a diversi detenuti i quali, mentre parlavano con i propri familiari, facevano riferimento ad un certo ‘Pierino’ poi identificato dagli inquirenti con Ioia, che avrebbe usato anche il nome di copertura ‘avvocato’. Da lì sono state poste sotto monitoraggio le utenze della compagna di un recluso e del garante, a cui è stato anche inserito un trojan nel cellulare. In più Ioia sarebbe stato inquadrato dalle telecamere in carcere mentre passava la merce ai detenuti. Il condizionale è d’obbligo e non solo per puro formalismo perché fino a condanna definitiva vige la presunzione di innocenza di tutti i coinvolti.

Diverse comunque le reazioni alla notizia. Non aspettava altro l’onorevole leghista Jacopo Morrone, pronto forse a tornare a Via Arenula nuovamente come sottosegretario: “In attesa di conoscere più dettagliatamente i risultati delle indagini e che la magistratura svolga il proprio lavoro, non possiamo che ricordare le perplessità che furono sollevate in tempi non sospetti rispetto a questa nomina poco meditata e più d’effetto ideologico/propagandistico che determinata da valutazioni obiettive e oggettive e da un curriculum adeguato al ruolo”. Di parere opposto Sandra Berardi, Presidente presso Associazione Yairaiha Onlus: “Non credo minimamente che Pietro Ioia sia stato così stupido da portare droga e telefoni in carcere. Credo, piuttosto, che si stia cercando di infangare e silenziare una voce libera che non ha paura di stare al fianco degli ultimi e di denunciare, invece, i crimini del sistema carcerario”.

Ha parlato anche il Garante nazionale dei diritti dei detenuti che ha precisato come “non esista una connessione istituzionale tra il suo ruolo e quello delle figure che territorialmente le singole Amministrazioni nominano”. Una netta presa di distanza a cui ha aggiunto di aver “più volte sollecitato negli anni l’adozione di ‘Linee guida’ per indicare parametri di indipendenza, professionalità e integrità che le Amministrazioni stesse potessero seguire nella delicata individuazione di tali figure”. Quasi a dire che forse Ioia non sarebbe stato candidabile con quei parametri. Infine il garante auspica che Ioia “possa mostrare la sua estraneità ai fatti”. In realtà nel nostro sistema giudiziario l’onere della prova spetta all’accusa. In una nota si è espresso anche Stefano Anastasia, Portavoce della Conferenza dei Garanti, per cui il lavoro ventennale dei garanti “nella tutela dei diritti dei detenuti non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro”. Angela Stella

Il giorno dopo l’inchiesta su droga e telefoni in carcere. Arresto Ioia, la gogna dei saputelli contro i garanti dei detenuti: lo show della polizia penitenziaria. Viviana Lanza su Il Riformista il 20 Ottobre 2022 

È difficile dire se somigliano più ai saputelli del giorno dopo, quelli del «Te lo avevo detto io…», oppure a quelli dallo sguardo sempre obliquo pronti a cogliere il minimo sbaglio per poter infierire. Sta di fatto che stanno venendo fuori uno dietro l’altro. Viene da immaginarseli mentre gonfiano il petto e si sfregano le mani per commentare l’arresto del garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia, ricordando che è un ex detenuto, e dare fiato al giustizialismo più sfrenato.

Per qualcuno Ioia è già colpevole, da rimuovere dall’incarico e condannare. E questo qualcuno è impossibile che abbia letto tutti gli atti dell’inchiesta, al più avrà letto qualche articolo di giornale o forse soltanto qualche titolo (purtroppo molti fanno così: leggono il titolo e credono di sapere già tutto). E questo qualcuno avrà probabilmente fatto un bel ghigno alla notizia che ieri mattina Pietro Ioia è apparso provato all’interrogatorio di garanzia e si è avvalso della facoltà di non rispondere, e avrà pensato «Ha fatto scena muta» come se questo portasse automaticamente a certe frettolose conclusioni, senza pensare che avvalersi della facoltà di non rispondere è un diritto concesso all’indagato e rientra nel normale iter giudiziario in questa fase dell’inchiesta, quindi non significa nulla sul piano dell’accertamento della responsabilità penale. Questo lo dice la legge, mica noi garantisti!

Assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, Ioia potrebbe scegliere di presentare istanza al Riesame: anche questo rientra nelle sue facoltà di indagato e sempre perché lo stabilisce la procedura penale. Sarà la magistratura a coordinare le indagini e verificare tutti gli indizi e le ipotesi di reato e sarà nel contraddittorio delle parti che si risolverà questa vicenda giudiziaria, sembra pertanto prematuro sparare sentenze già oggi, a due giorni dall’arresto. Eppure in tanti lo stanno facendo. Pietro Ioia è accusato di essersi prestato a consegnare droga e telefoni cellulari ad alcuni detenuti del carcere di Poggioreale dietro compenso in denaro. Queste accuse, se provate, sono sicuramente molto gravi e in questo momento il rischio è che sia messa in dubbio non soltanto la responsabilità del singolo garante ma la figura di tutti i garanti territoriali. Infatti è già iniziata la guerra ai garanti.

I primi ad aver impugnato le armi verbali contro questa figura di tutela dei diritti delle persone private della libertà personale sono stati i sindacati della polizia penitenziaria. Alcune agenzie hanno rilanciato ieri le dichiarazioni di Giuseppe Moretti, presidente dell’Unione sindacati di polizia penitenziaria, che in un certo senso se la prende con i garanti, regionale e nazionale. «Prendiamo atto che il sindaco ha avviato le procedure per la revoca della nomina di Pietro Ioia quale atto dovuto, mentre riteniamo che chi debba tacere dovrebbe farlo, ad esempio il garante regionale della Campania, invece di parlare di “sciacallaggio” sui gravi fatti che stanno emergendo, avrebbe lui dovuto monitorare le attività dei garanti comunali da lui coordinati», ha affermato Moretti aggiungendo che «anche le dichiarazioni del garante nazionale appaiono tardive rispetto alle richieste avanzate dall’Uspp di regolamentazione delle caratteristiche che devono avere queste figure, ricordando le limitazioni previste già per il solo accesso negli istituti penitenziari per chi ha precedenti penali».

E poi il colpo finale: «Resta fermo il fatto che per l’Uspp queste figure in ambito territoriale sono solo un costo per la collettività, visto che per noi i primi garanti delle condizioni detentive restano i magistrati di Sorveglianza. Auspichiamo un urgente provvedimento del nuovo esecutivo per scongiurare altri casi come quello di specie». Insomma, si sta cogliendo l’occasione per dare spazio a posizioni meno garantiste e più giustizialiste, con frasi trite e ritrite. Della serie: sbattiamo il mostro in prima pagina e facciamo di tutta l’erba un fascio.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Aska

A Regina Coeli c’è un detenuto che dorme da 4 mesi e nessuno sa cosa abbia. La denuncia di Antigone: "l'uomo che dorme" ha 28 anni, non mangia, non risponde, non reagisce agli stimoli. In carcere lo chiamano "il simulatore". Il Dubbio il 19 ottobre 2022.  

Nel carcere di Regina Coeli c’è un detenuto che dorme da quattro mesi e nessuno sa cosa abbia. Per tutti è “l’uomo che dorme”. Ha 28 anni, è originario del Pakistan, ed è soprannominato dal personale il “simulatore”.

A raccontare la storia Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone, che ha incontrato l’uomo a giugno scorso. «In questi mesi ho chiesto notizie, spiegazioni, soluzioni. Ma non sono riuscita ad arrivare a capo di nulla», spiega Marietti. «L’ho incontrato in una stanza di degenza del centro clinico del carcere. Dormiva. O comunque era sdraiato sul letto, a occhi chiusi e immobile. L’infermiere mi ha spiegato che il ragazzo dorme sempre. Lui gli svuota il catetere, gli cambia il pannolone, gli infila un po’ di cibo liquido in bocca che l’uomo deglutisce in maniera meccanica. Gli ho domandato da quanto tempo il ragazzo si trovasse in quelle condizioni. Alcuni mesi, mi è stato risposto», dice Marietti che ha raccontato questa storia nel suo blog su Il Fatto Quotidiano e che è stata rilanciata da Antigone in un post su Facebook.

«Il personale del carcere che mi accompagnava in visita si riferiva a lui con l’appellativo di “simulatore”. Ho chiesto il perché e mi è stato detto che i vari controlli medici – molti, anche esterni al carcere, presso l’ospedale Sandro Pertini dove il ragazzo è stato più volte ricoverato – non hanno mai riscontrato nulla di oggettivo. Ho provato a dire – sottolinea Marietti – che la simulazione è un comportamento che viene messo in atto intenzionalmente e che nessuno simulerebbe mesi di morte apparente».

«Il ragazzo – aggiunge Marietti – non ha ancora una sentenza definitiva e nelle settimane passate, secondo quanto mi è stato raccontato durante la mia visita, si erano tenute alcune udienze del processo che lo riguarda. Ma il ragazzo dorme. Quando gli viene domandato se intende rinunciare a presenziare in tribunale, lui semplicemente dorme. Non risponde, né tantomeno afferra una penna per firmare il modulo apposito. Dorme e basta. E la presenza al processo è un diritto procedurale che non si può negare se non su esplicita rinuncia. L’uomo veniva quindi adagiato su una barella, portato in tribunale e fatto stare lì, nell’aula dove si teneva l’udienza, addormentato e immobile, con il suo catetere e il suo pannolone, mentre i magistrati facevano il loro lavoro, per poi essere riportato nella sua stanza del carcere».

«Figure apicali del carcere in queste settimane si sono dedicate con grande impegno a cercare di individuare una soluzione praticabile. Ma sembra non esserci. E il ragazzo è lì, che dorme. Da mesi e forse per mesi. “Hai cambiato il pannolone al simulatore?”, “va pulita la cella del simulatore”, “il simulatore deve andare all’udienza”. La colpa non è di nessuno in particolare. Ma in un sistema che può tollerare la presenza dell’uomo che dorme in una cella al centro di Roma c’è qualcosa che non funziona», conclude Marietti.

Il dramma dietro le sbarre. L’unica libertà concessa in carcere? Impazzire. Raffaella Stacciarini su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

Ogni volta come la prima. La prima cosa a cambiare quando si mette piede in un carcere è la luce: si entra in un mondo altro illuminato da una luce diversa, livida e parassita, che s’attacca alle pareti, agli oggetti, alle persone. Impregna e uniforma tutto. A fine settembre con Nessuno tocchi Caino, Cellula Coscioni Marcuzzo e i rappresentanti delle camere penali di Ascoli Piceno siamo entrati nella Casa Circondariale di Marino del Tronto (Ascoli Piceno), ultima tappa del “Viaggio della speranza” negli istituti penitenziari marchigiani per verificare le condizioni di detenzione e fornire ai detenuti dettagli sulla recente circolare sui colloqui diramata da Carlo Renoldi, capo del DAP.

Nel microcosmo del carcere cambia la luce, ma non la società, che si traspone netta nella separazione tra le sezioni: la media sicurezza sovraffollata da storie di disperazione e povertà, e quindi tossicodipendenti e stranieri; l’articolazione salute mentale che cura (poco e male) chi dovrebbe essere curato altrove; la sezione protetti che protegge i detenuti dimenticandoli; l’alta sicurezza popolata per lo più da persone compassate e preparatissime, come se in qualche modo subdolo il male fosse correlato al livello culturale o spingesse ad accrescerlo per fronteggiare vita e processi.

Nel penitenziario di Marino del Tronto poco o nulla resta di quel ventaglio di attività propedeutiche al reinserimento sociale e alla riparazione del reato presenti fino a cinque anni fa: i percorsi di alfabetizzazione per stranieri, la scuola media e il biennio superiore, i corsi professionali, la pet therapy, il teatro, il cineforum, l’orto sociale interno, le giornate ecologiche. Oggi nessuna attività formativa, nessun accesso allo studio, scarse e mal retribuite possibilità di lavoro interno, celle con sei persone progettate per tre, celle per una persona con una persona che ha due ore d’aria al giorno, l’aria di un corridoio coperto da un reticolato che riflette l’ombra dell’acciaio – pure l’ombra ti ricorda dove sei. Rimangono cappella e palestra, simulacri spaziali dell’espiazione del peccato e della produzione di endorfine funzionali a una più sopportabile sopravvivenza.

Come si fa a convivere col nulla, e di quello vivere per tutta la durata della detenzione? A chi o a cosa serve? Di certo non alle finalità rieducative e riabilitative della pena stabilite in maniera chiara dalla nostra Costituzione. Né alla società né al reo. «L’unica libertà che il carcere concede è quella di impazzire», dice un detenuto della media sicurezza. Quello di Ascoli è un caso critico – acuito dalla presenza/assenza di una direttrice sostituta che ha già la guida dell’istituto di Fermo e dal personale penitenziario perennemente sotto organico – ma simboleggia la spia di un malessere generalizzato e diffuso.

Per le carceri italiane il bilancio del 2022 è tragico, mai tanti suicidi come nei primi nove mesi dell’anno: 67 persone si sono tolte la vita, di queste 3 a Marino del Tronto; l’ultimo in piena estate, ad agosto, un ragazzo di 37 anni da poco dimesso dal reparto psichiatrico dell’ospedale di San Benedetto del Tronto dopo l’ennesimo tentativo di farla finita. A morire sono per lo più giovani dietro le sbarre per reati minori o in condizioni di fragilità psicofisica. Con la chiusura degli OPG, infatti, una grossa mole di detenuti con patologie psichiatriche è stata dirottata negli istituti, un travaso che ha svelato nel tempo l’inadeguatezza dei livelli essenziali di assistenza da parte del sistema penitenziario. Con loro fanno il paio i detenuti tossicodipendenti, che rappresentano circa il 30% del totale e hanno difficile accesso alle misure alternative, peraltro spesso inadeguate al corretto trattamento sanitario, rischiando di compromettere il percorso di recupero sociale dell’individuo.

Nonostante la situazione di per sé emergenziale, il futuro sulla carta non sembra promettere alleggerimenti della popolazione carceraria. Giorgia Meloni ha rimarcato la necessità della certezza della pena, si è già dichiarata contraria ad amnistia e indulto e per risolvere il problema sovraffollamento – che in Italia sfiora il 108% – ha rilanciato la popolarissima e antipopolare proposta di costruire nuove strutture per la detenzione, senza spiegare con quali fondi, in quali tempi e dove. La certezza della pena c’è sempre, è sulla sua umanità e sui diritti chiusi in cella che bisogna continuare a vigilare.

Raffaella Stacciarini

Giustizia e carcere. Riscopriamo l’umanesimo penale: recuperiamo la lezione di Moro su vittima e colpevole. Gennaro Salzano su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

C’è stato un tempo, in Italia, in cui la politica trattava le questioni della giustizia, del reato, della pena tenendo d’occhio innanzitutto l’umanità: quella della vittima, che erano insieme la società ed il singolo, e quella del reo. É l’Italia di Aldo Moro che era leader politico di livello internazionale, ma anche filosofo di profondissimo pensiero. Formato alla scuola positivista del suo maestro Biagio Petrocelli, ne prende le distanze per aderire e, per certi versi, fondare un pensiero penalistico che assume i connotati del personalismo di Maritain.

Per comprendere la “filosofia penalistica” di Moro occorre dare innanzitutto uno sguardo veloce alla sua stessa idea di diritto che era, per lui, strumento etico di unità dell’umanità. Nell’idea di diritto di Moro non vi è nulla di meccanico, di formale: esso è invece lo strumento attraverso il quale lo Stato e, prima ancora, la società, positivizzano i percorsi di normazione che accompagnano l’umanità verso il raggiungimento della sua pienezza che si può dire essere l’unità etica di tutti gli individui-persona nei progressivi stadi di avanzamento dalla comunità familiare, alle formazioni sociali, allo Stato alla comunità internazionale. Il diritto che via via si pone è, quindi, per Moro sempre un diritto giusto, poiché è frutto dello spirito che accompagna questo processo unificante della intera umanità. Non può non essere così, almeno finché esso non si sclerotizza in forme che impediscono l’unità piuttosto che realizzarla. In questa idea di diritto si inserisce la concezione morotea della pena e della coercizione.

La funzione primaria della pena, in Moro, va ricercata nel ristabilimento della condizione di equilibrio etico precedente la commissione del fatto illecito. Non è quindi, per Moro, un semplice, quanto spesso impossibile, recupero della precedente realtà materiale, quanto invece il recupero di una condizione della convivenza in cui trionfa la giustizia. In questa dinamica, avverte Moro, il protagonista è l’umanità: quella dell’offeso e quella del reo. La pena è la reazione che la società pone di fronte alla commissione dell’atto illecito. Affinché essa abbia successo e porti al recupero della condizione di giustizia deve essere personale, legale, proporzionale. Fondata sul diritto essa è personale in quanto non può avvenire senza la piena adesione del reo al cui recupero la pena stessa è funzionale. Il soggetto che ha rotto l’equilibrio sociale col comportamento deviante deve cioè essere messo in condizione di comprendere il suo errore e di aderire liberamente alla punizione che la società ha posto verso il suo comportamento.

Solo così, per Moro, la pena può veramente avere successo e ristabilire l’equilibrio etico che è stato rotto. È un’idea che sottende praticamente tutto il pensiero di Moro, in ogni campo: non c’è vera stabilità e non c’è successo nell’agire umano, se la soluzione ad un problema non trova l’adesione di tutti coloro che sono chiamati a dare soluzione a quel problema stesso. Va da sé, quindi, che in una tale visione, non solo la pena di morte, ma anche la detenzione perpetua sono ritenute delle pene ingiuste. La prima è, di tutta evidenza, la negazione stessa del diritto e della giustizia poiché sopprime uno degli elementi essenziali alla ricostruzione dell’equilibrio, la seconda perché nega la possibilità di riabilitazione del reo e quindi la sua adesione al ristabilimento della giustizia.

«Alla coercizione – sosteneva Moro nelle sue lezioni – non è rimesso il compito della definitiva restaurazione dell’ordine etico giuridico, ma di porre le condizioni che agevolino questo ritrovamento del soggetto (…) che si opera con gli strumenti insostituibili della libertà della persona umana». L’uso della forza come reazione che individuo e società pongono verso il reo, dunque, è «avviamento ad una libera accettazione. E (…) garanzia del successo è la misura dell’amore che individuo e società pongono nella loro reazione; è la sincerità del desiderio di bene, la effettiva imparzialità, la ponderatezza che animano i soggetti i quali entrano in questa vicenda».

Certo Moro prendeva in considerazione la possibilità che il reo permanesse nell’errore: «in quel punto il diritto è fallito e resta un ineliminabile residuo di male». Così come può accadere che sia la forza della coercizione ad essere fonte del male. È questo il caso in cui la resistenza del reo, animato dalla volontà di emendare sé stesso, diventa addirittura trionfo della vita morale. Ecco, in un’Italia dove da anni impera un giustizialismo violento, la riscoperta delle radici dell’idea di giustizia sottesa alla Costituzione stessa, cui Moro diede ampio contributo, sarebbe un esercizio utile al recupero della nostra civiltà politica e giuridica. Gennaro Salzano

Quei 55 giudici e pm in galera per provare l’effetto che fa…. In Belgio sono stati “incarcerati” 55 magistrati tra pm e giudici che volontariamente hanno scelto di sperimentare la vita dei detenuti. Valentina Stella su Il Dubbio il 20 settembre 2022.

In Belgio, sabato scorso, sono stati “incarcerati” 55 magistrati tra pm e giudici che volontariamente hanno scelto di sperimentare la vita dei detenuti. L’istituto di pena che si trova nella zona di Bruxelles è il carcere di Haren, una nuova struttura con una capacità di 1.190 detenuti che sarà inaugurata il 30 settembre. L’obiettivo è stato quello di comprendere meglio la vita quotidiana dei reclusi e cosa significa essere privati della libertà personale.

L’esperimento è però durato poco, solo fino a domenica. I togati hanno dovuto seguire gli ordini e le istruzioni del personale carcerario, è stato tolto loro il cellulare, hanno mangiato gli stessi pasti e compiuto le stesse attività degli altri detenuti. Sono stati impiegati, tra l’altro, in cucina e in lavanderia. E avrebbero potuto ricevere le visite dei familiari. Insomma sono stati trattati come veri e proprio prigionieri.

«I magistrati – ha commentato il ministro della Giustizia belga Vincent Van Quickenborne – sanno ovviamente come funzionano le cose in un carcere, ma viverle in prima persona offre loro un’opportunità unica che può aiutarli a emettere sentenze con piena cognizione di causa». Il funzionario fiammingo, membro del partito liberale Open Vld, ha aggiunto che questa esperienza dovrebbe aiutare a preparare meglio l’apertura di questo nuovo carcere, ottimizzandone la disposizione e «sviluppando un approccio moderno». Certo, come hanno sottolineato Riccardo Radi e Vincenzo Giglio sul blog Terzultima fermata, non va dimenticato “il più formidabile dei benefit” concesso ai magistrati, ossia la possibilità di “lasciare il carcere a semplice domanda, gli basta dire che non sopportano più la clausura”. Giustissimo, ci mancherebbe: tuttavia questa opportunità segna la grandissima differenza a livello di approccio psicologico tra chi entra in carcere e sa di non avere la chance di uscirne presto e quando desidera e chi con una alzata di mano al primo cedimento può tornare in libertà.

In Italia purtroppo non ci sono queste possibilità di sperimentazione. Come ci ha ricordato tempo fa in una intervista il Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, Marcello Bortolato, «quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla perdendo, a mio avviso, un’occasione unica di crescita professionale ed esperienza umana».

Tornando alla prigione di Haren, il progetto di costruzione si è basato sul principio del villaggio carcerario, ovvero una serie di edifici distribuiti sul sito piuttosto che un unico enorme edificio.  Il complesso carcerario è composto, da un lato, da una serie di edifici con strutture comuni come aree di visita, laboratori, un palazzetto dello sport e, dall’altro, da diversi edifici dove saranno alloggiati i detenuti. I detenuti potranno spostarsi tra il proprio edificio e le strutture comuni in modo sicuro e controllato. Eppure, nonostante l’entusiasmo delle autorità, questo progetto di “prigione cittadina” ha incontrato una forte opposizione da parte dei cittadini e delle associazione forensi: la prigione di Haren sarebbe, per molti, l’ultima incarnazione della corsa all’incarcerazione senza riuscire poi a risolvere il problema del sovraffollamento.

Magistrati in carcere, cari pm seguiti l’esempio dei vostri colleghi in Belgio. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

In Belgio cinquantacinque magistrati hanno deciso di trascorrere il fine settimana nel carcere di Haren, nella zona di Bruxelles, per conoscere “dal vivo” la quotidianità della detenzione. La struttura sarà inaugurata il 30 settembre. Non è la prima volta che ciò avviene. Nel luglio 2018 circa cento persone, tra avvocati, giudici, giornalisti, poliziotti, furono rinchiusi per quarantotto ore nel carcere belga di Beveren che si sarebbe inaugurato successivamente, al fine di collaudare il nuovo istituto ed in particolare il corretto funzionamento dei sistemi di sorveglianza e della piattaforma digitale destinata ai detenuti per seguire i corsi on-line. Agli ordini del personale penitenziario, i giudici ed i pubblici ministeri – privati del telefono cellulare – sono stati rinchiusi nelle stanze, hanno mangiato il cibo del carcere, hanno lavorato in cucina e in lavanderia, hanno curato la pulizia dell’istituto e partecipato ad attività trattamentali.

L’esperimento va accolto con favore, pur con gli evidenti suoi limiti. Trascorrere due giorni in una struttura nuova, non ancora deturpata dal sovraffollamento, priva del tanfo che caratterizza i corridoi dove sono collocate le celle e igienicamente ancora intatta, non equivale certo a sperimentare effettivamente quali sono le reali condizioni di detenzione. Né possono essere verificate sulla propria pelle le carenze sanitarie, in caso di malattie ovvero l’effettivo accesso a corsi e laboratori. Ma, come dire, meglio di niente. Crediamo che siano, invece, indispensabili visite periodiche agli istituti di pena da parte di tutti gli operatori della Giustizia, per comprendere davvero la reale situazione e il dramma di una detenzione, nella maggior parte dei casi, fuorilegge. Non è necessario fingere di essere detenuti, ben sapendo che in qualsiasi momento si può chiedere di uscire. Una tale situazione assomiglia più ad un reality e, forse, in alcuni casi, può appagare la voglia di sperimentare qualcosa di diverso. Entrare in carcere, vedere, toccare con mano la quotidianità di un istituto a regime. Aprire il blindato di una cella e vedere persone rinchiuse in pochi metri quadrati a disposizione, in condizioni igieniche disastrose, muffa alle pareti, a volte il water a vista o nascosto da una tendina, poca la luce che entra.

Mortificarsi vedendo lo stato di abbandono del reparto docce. Verificare che sono pochissimi quelli che possono accedere al lavoro ovvero ad attività trattamentali. Mangiare il cibo che proviene dalla cucina che, come nella casa circondariale di Poggioreale, deve provvedere ad oltre duemila persone. Ascoltare e verificare i molteplici drammi personali dovuti a immorali ritardi nelle cure mediche. Informarsi sulle modalità d’intervento per urgenti cure specialistiche. È questo che andrebbe fatto. Su queste pagine, il mese scorso, il giudice Eduardo Savarese ha scritto che la visita delle carceri «andrebbe prescritta come medicina socio-politica ineludibile almeno una volta all’anno a beneficio di molte altre espressioni della classe dirigente cittadina, non solo della magistratura, ovviamente coinvolta in maniera diretta nell’istituzione penitenziaria». Siamo d’accordo. Risale al dicembre 2018, la visita (unica?) della giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati di Napoli alla casa circondariale di Poggioreale, mentre iniziative analoghe in altre città non ci risultano o, comunque, con certezza, si conteranno sulle dita di una mano. Del resto, i magistrati di Sorveglianza che dovrebbero, per compiti del proprio Ufficio, visitare continuamente gli istituti penitenziari, spesso non vi accedono. Gli avvocati delle Camere Penali, da sempre, si recano in carcere con visite periodiche e, con le loro relazioni, descrivono le reali condizioni di vita dei detenuti.

C’è dunque da porsi una domanda? Perché l’avvocatura mostra tale particolare sensibilità che, invece, sembra del tutto estranea alla magistratura? Non vi è dubbio che una maggiore conoscenza delle condizioni di detenzione aiuterebbe l’opinione pubblica a comprendere che quel mondo non va considerato estraneo, ma è parte integrante della società perché dovrebbe svolgere la funzione primaria di recupero del condannato, proprio nell’interesse stesso della collettività. L’Unione Camere Penali, alcuni anni fa, ideò il progetto “Carceri Porte Aperte”, dando la possibilità ai cittadini interessati di visitare gli istituti di pena. Pubblicato l’annuncio sui quotidiani, in poche ore fu raggiunto il numero chiuso stabilito. A Napoli cinquanta persone ebbero la possibilità di entrare nella casa circondariale di Poggioreale e rendersi conto dell’effettivo svolgersi della vita detentiva. La trasparenza è il sale della democrazia e il carcere ne ha un gran bisogno. Riccardo Polidoro

Le pene e le condizioni dei detenuti. Dramma carceri, il problema? Il codice fascista. Alberto Cisterna su Il Riformista il 22 Settembre 2022 

Sessanta suicidi dall’inizio dell’anno. 60 morti tra le mura di un carcere. In gran parte giovani vite che non sopportano la carcerazione, la convivenza forzata, le promiscuità, il caldo, le prospettive della cella con i letti a castello. Il buio che avvolge improvvisamente e repentinamente spegne la vita. Non si tratta di individuare colpe e responsabilità. O meglio non si deve fare solo questo. La polemica è scontata, l’indignazione inevitabile, ma poi la clessidra della morte torna a scorrere e ingoia, come granelli di sabbia, esistenza dopo esistenza. Urgerebbe una riflessione più ampia, una meditazione meno condizionata da posizioni preconcette o polemiche faziose. È innegabile che una parte, tutt’altro che marginale, della società è completamente indifferente a questo dramma. “Qualche delinquente in meno” è l’impronunciabile che tanti recitano a mente o sibilano complici, facendo finta di provare compassione. In fondo il carcere è stato concepito per secoli come una sorta di pattumiera della società, il luogo degli scarti e la sentina degli avanzi (non a caso di galera).

È quasi scontato non ci sia vera pietà o vera compassione per chi è in cella e quindi anche per chi in cella decide di togliersi della vita. In fondo, si sussurra velenosamente, se la sono cercata. Così guadagna spazio e cerca legittimazione una sorta di terrificante doppio binario sanzionatorio: il carcere per tutti e poi la morte per i fragili, per quelli che sopprimono la propria esistenza perché non sopportano le mura e i lori miasmi. Da dove partire, quindi. Da dove prendere le mosse per riannodare le fila di un discorso sulla detenzione che si sfrangia in mille rivoli e perde di vista la sostanza della questione. Non si deve solo depenalizzare, mitigare le pene, contenere il carcere come luogo privilegiato della punizione, sostituirlo con misure alternative, trasformare la detenzione domiciliare (soprattutto per la carcerazione preventiva) come lo strumento privilegiato della costrizione personale, certo con tutte le precauzioni del caso (in primo luogo i cosiddetti braccialetti elettronici). Cose necessarie, reclamate da decenni, sempre al centro del dibattito e sempre affossate dalle folate giustizialiste che attraverso il paese cavalcando le vesti di questa o quella forza di politica a caccia di facile consenso.

Il punto cruciale sta nel fatto che la misurazione delle pene, per come concepita nel codice penale fascista tuttora in vigore e alimentata dalle cicliche emergenze del paese – il terrorismo interno, la mafia, il terrorismo internazionale, gli omicidi stradali, lo stalking e via seguitando – prescinde dalla reale percezione di quale sia la condizione dei detenuti nelle carceri del paese. Si guarda sempre e soltanto alla pena dall’alto, la si contempla nella sua astratta capacità dissuasiva, inibitoria, preventiva e la politica, impreparata e ignara, pensa semplicisticamente che più alta sarà la sanzione comminata più speranze vi sono che ci si astenga dal delinquere. Quasi che l’ubriaco alla guida, il picchiatore delle risse, il compagno ossessivo – prima di commettere delitti efferati – vadano a compulsare il codice penale per verificare quale pena gli tocchi. Una società polverizzata dalle pulsioni mediatiche, sorvegliata dai social che ciascuno adopera e in cui ciascuno si disvela all’altro, disarticolata dall’affievolimento delle relazioni interpersonali, isolata dall’indifferenza consumistica non risponde più agli strumenti della dissuasione punitiva o al diritto penale totale (come lo definiva il compianto Filippo Sgubbi) inteso come panacea per ogni devianza.

Per cui la cella, le promiscuità, la società carceraria sono vissute, dai più, come un dramma gigantesco, inaspettato, inatteso, impreparato. Per secoli le mura hanno recluso i delinquenti e li hanno così tenuti separati da una società civile che poi era non così diversa nelle sue condizioni di vita materiale tra un “dentro” e un “fuori”. Tra la vita carceraria e le condizioni della stragrande maggioranza delle classi di popolazione da cui provenivano i reclusi non vi era l’abisso di questi tempi. È vero che anche oggi tanti sono extracomunitari, molti sono soggetti dediti allo spaccio di droga e ai microreati, ma obiettivamente pochi di costoro hanno condizioni di vita che possono anche solo avvicinarsi alla detenzione in carcere di questi tempi. La modernità, il complessivo miglioramento delle condizioni di vita hanno interrotto la linea di continuità che rendeva almeno tollerabile la reclusione carceraria. Finita l’osmosi, le carceri sono diventate il luogo della totale separazione, dell’irreversibile interruzione tra il “dentro” e il “fuori” e così le vite implodono e si spezzano spesso nelle coscienze, altre volte con la violenza dell’autodistruzione.

Alberto Cisterna

Un privilegio concesso a pochi reclusi. Sbattiamoli in cella e facciamoli lavorare… magari: in carcere solo il 13% dei detenuti lo fa. Viviana Lanza su Il Riformista il 22 Settembre 2022 

Il lavoro nobilita l’uomo, recita un antico proverbio. La mancanza di lavoro è tra le cause del degrado e della criminalità, sostengono quelli che studiano le dinamiche sociali. Il lavoro sarà la priorità, promettono i politici salvo poi non riuscire quasi mai a mettere i pratica quello che dicono. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, recita la nostra amata e a volte dimenticata Costituzione. Già, il lavoro. Un tema centrale nella vota di ognuno. Anche di chi vive dietro le sbarre, se è vero che è l’ago della bilancia negli equilibri della vita di ogni cittadino. In Campania, regione con i più alti livelli di disoccupazione, sembra quasi un’incongruenza parlare di lavoro per i detenuti, perché ci sono migliaia di disoccupati nel mondo fuori dal carcere.

Ma questo non può essere l’alibi per evitare di affrontare di petto uno dei nodi centrali del sistema penitenziario, uno dei tanti nodi irrisolti che ingarbugliano la funzione rieducativa della pena costituzionalmente prevista, mortificano i diritti di chi vive dietro le sbarre, rendono un inferno i luoghi della pena. I dati sui suicidi e sulle morti in cella hanno raggiunti cifre che urlano tutta la violenza che c’è nel mondo penitenziario, tutta la drammaticità, tutto il fallimento dell’intero sistema. Di carcere si è sempre parlato poco, perché non è un tema che interessa alla politica, non fa avere voti, non incide sui consenti populistici e popolari. Anzi, per decenni si è cavalcata l’onda del populismo giustizialista e tutti a dire che bisognerebbe buttare la chiave, salvo poi ritrovarsi con una società sempre più votata alla violenza, con tassi di recidiva alti e un senso di insicurezza ancora più diffuso di prima.

Che vuol dire? Vuol dire che la direzione deve essere un’altra, che bisogna rendere i luoghi della pena luoghi di responsabilizzazione e reinserimento sociale in modo da ridare alla pena la sua naturale funzione, quella di rieducare come dice la Costituzione. Vuol dire tener presenti studi ed esempi europei secondo cui la recidiva si abbassa nei casi di detenuti che hanno seguiti percorsi alterativi alla reclusione finalizzata a sé stessa, che in carcere hanno avuto la possibilità di studiare e di lavorare. Torniamo al lavoro. Che in carcere non c’è. Che a volte non c’è nemmeno per quelli che potrebbero beneficiare di misure alternative, figurarsi per chi è in cella e basta. «Eppure il lavoro in carcere dovrebbe essere una parte fondamentale del percorso trattamentale e del processo di risocializzazione delle persone detenute», ci ricorda Antigone, associazione impegnata da anni nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. «Eppure in carcere il lavoro è poco e nella maggior parte dei casi dequalificato e con scarsa spendibilità all’esterno». Antigone ha visitato diversi istituti di pena e raccolto dati relativi alla presenza di esperienze lavorative nei percorsi di recupero dei detenuti. Il risultato è questo: in media solo il 33% dei detenuti è impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 2,2% dei reclusi è in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti.

Questi numeri descrivono la situazione all’inizio dell’anno. E sono numeri ancor più avvilenti quelli che fanno riferimento alla realtà napoletana, e più in generale campana. In Campania, infatti, queste percentuali scendono drasticamente fino ad arrivare allo 0,3%. A Poggioreale, tanto per prendere come riferimento il più grande carcere della città, della regione e per la verità dell’Italia intera, su una popolazione di oltre duemila detenuti (si arriva a sfiorare e talvolta a superare i duemiladuecento reclusi) è merso che lavorano solo in 280, cioè meno del 13%. Antigone sottolinea che inoltre gli istituti scelgono di far lavorare i detenuti solo per poche ore e per pochi giorni, così da offrire possibilità lavorative a più persone possibile. «Ma questo – fanno notare – fa sì che lo stipendio percepito sia molto ridotto e spesso basti solo a pagare i costi del mantenimento».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Detenuti votate, la libertà è partecipazione: i giustizialisti se ne faranno una ragione. Francesca Sabella su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Le sbarre di ferro del carcere possono imprigionare il corpo, non devono fare lo stesso con la mente, con le idee, con i diritti di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena. L’Italia, infatti, fa parte di quei Paesi che non negano in modo assoluto la possibilità di votare ai detenuti (come invece succede in Bulgaria e nel Regno Unito), ma nella maggior parte dei casi tale diritto si considera soltanto sospeso e questo avviene solo per alcune categorie di reclusi: per chi è condannato all’ergastolo e per chi deve scontare una pena superiore a cinque anni. Tutti gli altri, quindi, possono votare? La risposta è sì. E quindi… detenuti votate! Votate! E votate! Sappiamo già che giustizialisti e forcaioli a questo punto dell’articolo saranno già caduti dalla sedia, ma lo dice la legge, non noi, che i detenuti possono e devono votare. È un diritto e un dovere civico. Il carcere serve (o almeno dovrebbe servire, ma questa è un’altra storia) a rieducare, a reinserire chi ha sbagliato nella società, ecco perché è importante che anche loro contribuiscano a cambiare la società nella quale ritorneranno a vivere.

«Andate a votare, esprimete la vostra preferenza di voto, divenendo così cittadini attivi – afferma il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello – Sarebbe un errore madornale non recarsi alle urne, il voto è un diritto e un dovere sacrosanto per tutti i cittadini; è l’espressione massima della democrazia. Anche i detenuti, chiaramente coloro su cui non pende un’interdizione dal diritto di voto, possono e devono esercitare questo diritto/dovere». Ma per un recluso qual è l’iter da seguire per poter votare? Il detenuto che desidera esprimere il suo voto deve fare una istanza, considerata valida fino a tre giorni dalle elezioni, al sindaco del suo Comune che, una volta appurato che il richiedente ha diritto al voto, spedisce al carcere il certificato elettorale. A quel punto viene instituito un “seggio speciale” all’interno del carcere. «Mi dispiace solo che le procedure per accedere al voto negli Istituti di pena sono farraginose, lunghe, complesse e che i detenuti siano poco informati sui loro diritti e non sanno nulla rispetto alle modalità di come esercitarli – afferma Ciambriello – I politici, pur avendo la possibilità di entrare in carcere per ispezione e controlli, non lo fanno. Il vento che spira è assai preoccupante: il “populismo penale” si coniuga con il “populismo politico” e così si evita di parlare di carcere».

Ma le carceri esistono, esiste l’inferno in terra ed è per questo che è importante che i detenuti chiedano di poter votare. «L’invito ai detenuti è di esprimere la propria idea politica – ribadisce Ciambriello – ai direttori degli istituti di pena di avviare una giusta informazione sulle modalità di voto, così da preparare per tempo tutta la documentazione necessaria per poter barrare un simbolo. Anche se privati della libertà, i detenuti possono contribuire alla formazione del Parlamento. Devono essere consapevoli del fatto che anche loro possono essere attori dei processi di cambiamento e non semplici spettatori. Solo esercitando il diritto al voto, però, possono essere protagonisti – conclude il garante –chi non lo fa, non potrà proferire parole di lamentela sulle condizioni delle carceri e più in generale del nostro Stato, perché decidere di non votare equivale ad ammettere di non voler partecipare». E se guardiamo alle precedenti elezioni, i numeri non sono per niente confortanti. Ecco perché è importante che si parli di politica in carcere e ancor di più che la politica parli di carcere. Alle elezioni Europee del 2019 l’affluenza è stata quasi pari allo zero. Hanno chiesto di poter votare due detenuti del carcere di Aversa, uno del carcere di Salerno, sette in quello di Secondigliano. Nel 2016, invece, in Campania parteciparono alle elezioni Amministrative solo nove detenuti. Votate, perché libertà è partecipazione. Anche se si vive ancora in pochi metri quadri circondati da sbarre di ferro.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La testimonianza. La mia prima volta in un carcere, a incrociare sguardi che chiedono ascolto. Sarah Brizzolara su Il Riformista il 16 Settembre 2022 

Ho visitato per la prima volta un carcere nei giorni di ferragosto, come Consigliera Comunale di Monza. Qualche giorno prima, a San Quirico, nel carcere della mia città, un detenuto di 24 anni si era tolto la vita. Era in prigione dal 2018 e mancavano due anni al suo fine pena. Era il terzo suicidio da inizio anno nella Casa circondariale di Monza e la notizia aveva provocato una mezza rivolta di molti altri detenuti.

Ho visitato un luogo di confine, di transito, dove arrivano e stanno tutti coloro che la nostra comunità ha lasciato indietro. È uno specchio che riflette la società attuale, troppo frenetica per creare legami, aiuti e reti di supporto verso il prossimo. Indubbiamente il carcere di Monza, come tutte le altre carceri d’Italia, soffre del problema del sovraffollamento. Oltre la metà dei detenuti sono stranieri, e molti hanno enormi difficoltà culturali e linguistiche. Lo abbiamo visitato tutto. Dai blocchi nuovi a quelli più vecchi, i cui muri hanno visto passare più storie e più intrecci di vite. Sicuramente quello che colpisce sono le persone, il loro vissuto. Non puoi fare a meno di riflettere sul perché non sei tu al loro posto. E ti senti sicuramente privilegiato. Perché sai che alla fine tu uscirai, e ad aspettarti ci sarà una casa con tutti i confort, che magari spesso sottovaluti.

Parli con i detenuti. Ti colpisce un ragazzo in particolare, della Repubblica Dominicana, che sta lì nella sua cella seduto e ti fissa con degli occhi pieni di rabbia. C’è tanta rabbia in carcere. Ma c’è anche tanta umanità. Parlando capisco che ha la mia stessa età e dice di essere dentro perché ha tentato due volte di compiere un omicidio. E lì ti chiedi quali strade hai percorso tu così diverse rispetto a lui. E se magari potevi esserci tu al suo posto. Ci sono varie sezioni super controllate. I lunghi corridoi vuoti che collegano le varie sezioni si chiamano tangenziali. Ho parlato con la direttrice e il capo degli agenti penitenziari. Ci hanno sottolineato tutti i problemi legati alla salute mentale che hanno i detenuti e le difficoltà e la carenza di personale per poter realizzare per loro delle terapie serie e con una prospettiva di lungo periodo. Il reparto psichiatrico è forse quello più emotivamente denso. Poche celle, singole, piccole e spoglie. Con persone dagli sguardi persi. Alcuni carcerati a un certo punto ci hanno con gentilezza fatto capire che era il momento per la loro partita a calcetto settimanale. Un momento magico.

A Monza alcuni detenuti possono partecipare a laboratori per imparare diversi lavori per reinserirsi un domani. Hanno un orto, possono lavorare con diverse aziende esterne per assemblare cartellette per la scuola e bulloni, lavorare i tessuti, scannerizzare gli Archivi storici della Cassazione di Milano e lavorare il legno per creare arredi in collaborazione con il Politecnico di Milano. Riguarda ancora troppo pochi, ma è una strada, fondamentale, importante. Raccontare il carcere solo come un luogo di pazzi e di rivoltosi non aiuta a far entrare le aziende in questa realtà, ma credo che il Comune possa e debba implementare le reti con le aziende, contribuire a rilanciare progetti per rilanciare la serra e la sala della musica. E allora emergono gli sguardi. Sguardi di detenuti che hanno una prospettiva. Che vedono un orizzonte oltre i loro sbagli, quelle mura. Che vivono nelle celle più nuove nell’area dell’ex carcere femminile che è stato finito di ristrutturare a fine luglio. Sguardi. Sguardi di una speranza che chiama il nostro impegno.

E la necessità di far conoscere e far capire che se un detenuto in carcere riceve un trattamento umano e positivo, esce migliore; che ci sussurra che la paura crea solo odio e che quest’ultimo alimenta la contrapposizione; quella coscienza che ci sussurra che il diverso siamo noi e che il carcere è solo il modo per lavarci quella stessa coscienza nel momento in cui non è alimentata dalla conoscenza. È molto facile l’appiattimento di tutto verso il basso, è facile dire che un delinquente deve andare in carcere e rimanerci, è facile schiacciare ancora più in basso chi striscia per terra. Di contro è facile anche scadere nel buonismo a prescindere, ci si sente redenti e fiduciosi del prossimo, unici. E quindi è anche facile e comodo mettere etichette e categorie, ci semplifica la vita, ci aiuta a mettere ordine nel nostro ragionamento. Ma non si può fare per gli esseri umani. Per gli esseri umani bisogna provare ad andare oltre, dare ad ognuno la possibilità di divenire, di essere diverso, di cambiare. Sarah Brizzolara

L'iniziativa dei penalisti. Codice ristretto, arriva il vademecum per i detenuti: la guida per comprendere regole e agevolazioni. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Settembre 2022. 

Avrebbe potuto pensarci l’amministrazione, invece lo hanno fatto gli avvocati, con il contributo dei garanti. Poi lo Stato si è accodato. Meglio di niente, si dirà. Sta di fatto che adesso il “Codice ristretto” c’è. È un opuscolo per i detenuti, soprattutto per quelli più soli e più deboli, quelli che hanno meno possibilità di essere informati pur avendo il diritto di esserlo come gli altri. “Codice ristretto” è dunque un vademecum, fornisce informazioni sulle norme che regolano i percorsi di risocializzazione.

Si tratta di una rapida guida che serve anche a non ingolfare la Sorveglianza di fascicoli destinati ad essere definiti con provvedimento di inammissibilità, perché indica al detenuto tutta una serie di informazioni per renderlo consapevole dei suoi obblighi e dei suoi diritti, di ciò che può richiedere e di quello che non può essergli concesso in base alla pena che sta scontando: parliamo di liberazione anticipata, lavoro esterno, permessi ordinari e quelli speciali, affidamento in prova ai servizi sociali o affidamento di tossicodipendenti, detenzione domiciliare, semilibertà. Uno strumento di informazione, quindi, che diventa per il detenuto un modo per acquisire maggiore consapevolezza di sé e della realtà, quella penitenziaria, in cui si trova ad essere nel momento in cui varca la soglia di un carcere. Uno strumento utile soprattutto a quei detenuti più soli, più deboli, quelli che non possono permettersi la guida costante di un avvocato, quelli che non hanno famiglia o non hanno una famiglia che li affianca e li aiuta nel percorso detentivo e rieducativo.

Quelli, insomma, che pur avendo una condanna da scontare potrebbero avere accesso a dei benefici ma non ne chiedono perché non hanno tutte le informazioni necessarie per avanzare richieste in tal senso. Inoltre, il “Codice ristretto” può rivelarsi un vademecum utile anche per chi opera all’interno di un istituto di pena, quindi per gli operatori della giustizia che intendono conoscere e confrontarsi con i diritti e con le preclusioni previsti dalle norme che regolano l’esecuzione della pena. Sabato il “Codice ristretto” realizzato per gli istituti penitenziari della Campania (e già in parte distribuito) è stato presentato a Santa Maria Capua Vetere, nella sala convegni del Palazzo San Carlo, alla presenza del presidente del Tribunale sammaritano Gabriella Maria Casella, del procuratore della Repubblica Carmine Renzulli, del magistrato di sorveglianza Marco Puglia, dell’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile nazionale dell’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali italiane, del garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello.

Il “Codice ristretto” nasce da un’iniziativa della Camera penale di Bologna con il patrocinio dell’Osservatorio Carcere delle Camere penali. «Valutato il pregio dell’opera – ha sottolineato l’avvocato Polidoro -l’Osservatorio carcere ne ha proposto la diffusione a tuti i presidenti delle Camere penali territoriali. La suddivisione in tre tabelle (una per i detenuti ordinari, una seconda per quelli condannati per delitti inseriti nell’articolo 4bis e una terza per i casi speciali) consente, con l’incrocio dei dati, di comprendere immediatamente se vi sono le condizioni per l’applicazione di una misura alternativa». «Ho accolto con entusiasmo la proposta dell’Osservatorio Carcere di diffondere in Campania il “Codice ristretto” – ha spiegato il garante Ciambriello -. Questo testo è uno strumento per fornire informazioni comprensibili e immediate. Non vuole sostituite la consultazione delle norme di legge ma esclusivamente agevolare la comprensione del possibile accesso ai benefici. Il supporto del difensore – ha concluso – rimane un riferimento fondamentale e irrinunciabile per la piena tutela dei propri diritti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L'iniziativa. Codice Ristretto, una guida per chi vive in cella. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Aprile 2022 

Conoscere è sempre il primo passo. Anche per chi entra in carcere. Aiuta a capire, ad avere consapevolezza, a orientarsi. Per questo il Codice Ristretto, promosso dal garante dei detenuti della Campania, «è un’opera importantissima destinata ai detenuti campani, che può snellire il lavoro di molti: delle direzioni delle carceri, della magistratura di Sorveglianza, degli avvocati», ha spiegato lo stesso garante Samuele Ciambriello presentando l’opuscolo nella sala Nassirya della sede del Consiglio Regionale della Campania. Il Codice Ristretto contiene informazioni utili sui diritti dei detenuti e sulle modalità con cui tali diritti possono essere esercitati, fornendo consigli pratici sulla vita durante la detenzione.

L’opuscolo è stato realizzato anche in collaborazione con il Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria, l’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane e la Camera Penale di Bologna. «Il detenuto – ha aggiunto Ciambriello – leggendo queste poche tabelle è già in grado di comprendere se possiede i requisiti necessari per avanzare richieste di misura alternativa. Non è cosa da poco, specie se si considerano i numeri, in Italia e in Campania, di tutti i soggetti condannati in maniera definitiva». Il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, ne ha sottolineato l’utilità, la direttrice del provveditorato regionale Assunta Borzacchiello, ha aggiunto: «L’opuscolo è intuitivo, valido e un ottimo strumento per agevolare non solo i detenuti ma anche gli operatori». «L’opuscolo è composto da tabelle grazie alle quali il detenuto comprende le informazioni essenziali per l’espiazione della sua pena – ha sottolineato l’avvocato Riccardo Polidoro, responsabile dell’Osservatorio carcere Unione Camere Penali italiane – La Campania è stata la prima regione, ma sono state già sollecitate altre Camere penali, affinchè si possa ultimare presto questo lavoro eccellente anche altrove».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La Procura di Taranto chiede il processo per la Baldassari ex direttore del carcere di Taranto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2022 

La Procura di Taranto aveva chiesto l'archiviazione per le accuse della Papa alla Baldassari, ma il gip Francesco Maccagnano ha disposto l’imputazione coatta, ed adesso l' ex direttrice del carcere di Taranto dovrà rispondere anche delle accuse di ripetuti maltrattamenti elencati nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vittoria Petronella, nei confronti della funzionaria Vincenza Papa in servizio nel carcere di Taranto

Si terrà il prossimo 26 ottobre l’udienza preliminare dinnanzi al Gip Giovanni Caroli del Tribunale di Taranto nei confronti dell’ormai ex-direttore del carcere di Taranto Stefania Baldassari, che è anche indagata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce per altre vicende giudiziarie inerenti ad un presunto voto di scambio avvenuto in occasione delle elezioni amministrative del 2017 quando la Baldassari si candidò a sindaco di Taranto, con il clan del noto pregiudicato Michele Cicala, accuse per le quali è stata sospesa sine die dal servizio dal suo ruolo dal DAP il dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria del Ministero di Giustizia.

L ’inchiesta della Direzione distrettuale Antimafia di Lecce nei confronti di Stefania Baldassari, ex direttrice del carcere di Taranto verte sulle accuse per aver chiesto e ottenuto, secondo gli inquirenti, voti da alcuni ex detenuti durante la campagna elettorale per le amministrative 2017 che la vedeva candidata sindaco del capoluogo ionico. I militari della Guardia di finanza nei giorni scorsi si erano recati presso la casa circondariale di Taranto per sequestrare numerosi documenti che riguarderebbero proprio gli anni della direzione della Baldassari. 

Documenti che adesso dovranno essere verificati dagli investigatori del Nucleo di Polizia Economico Finanziaria della Guardia di Finanza, guidato dal colonnello Valerio Bovenga sotto il coordinamento del sostituto procuratore della Dda di Lecce Stefano Milto De Nozza . Appare chiaro che gli inquirenti vogliano verificare tutti gli atti compiuti dalla Baldassari nel suo incarico al vertice del penitenziario ionico.

La Procura di Taranto aveva chiesto l’archiviazione per le accuse della Papa alla Baldassari, ma il gip Francesco Maccagnano ha disposto l’imputazione coatta, ed adesso l’ ex direttrice del carcere di Taranto dovrà rispondere anche delle accuse di ripetuti maltrattamenti elencati nella richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pm Vittoria Petronella, nei confronti della funzionaria Vincenza Papa in servizio nel carcere di Taranto, nei cui confronti incurante del suo stato di salute in quanto invalida al 75% per sclerosi multipla, le urlava continuamente “Se devi stare malata con quella faccia malata stattene a casa“, “Non capisci niente ! Smettila di fare la malata, tanto si vede che è finta la tua malattia“, “Sapete i cessi dove si trovano nei lunghi corridoi ? Di solito in fondo a destra. Beh lì si trova l’ufficio della dottoressa Papa” con “rifiuti e richieste della Papa di usufruire di ore di riposo compensativo” umiliandola al punto tale che la Papa si vedeva costretta a richiedere il distacco lavorativo presso il carcere di Bari “pur distante dalla propria dimora in Taranto e nonostante il suo stato di salute, già compromesso“. Redazione CdG 1947

Detenuto morto a Regina Coeli: nel mirino della Procura la mancata sorveglianza. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022

L’ipotesi di una negligenza. Arrestato all’inizio dell’estate per rapina e tentato omicidio Carmine Garofalo era a Regina Coeli in attesa di giudizio. É morto il 16 agosto scorso 

Il sospetto di omicidio e l’ipotesi di una sorveglianza lacunosa. Nell’attesa che il medico legale de «La Sapienza» depositi il risultato degli esami sul corpo di Carmine Garofalo, il detenuto fragile trovato morto il 16 agosto scorso nella sua cella a Regina Coeli, il pm Edoardo De Santis ragiona sulle poche certezze acquisite. Una di queste sarebbe la negligenza dei piantoni disposti dalla direzione carceraria e anche se, al momento, nel fascicolo non sono ipotizzate vere e proprie omissioni la Procura vuole rispondere a un basilare interrogativo: perché nessuno, all’interno della settima sezione, intercettò tempestivamente il suo malore?

Due detenuti che avrebbero assistito alla scena (e che si sono rivolti alla garante capitolina dei diritti dei detenuti, Gabriella Stramaccioni, dalla quale è partita l’inchiesta) sostengono che si sia trattato di un omicidio. Garofalo, dicono, sarebbe stato stretto alla gola con un avambraccio e poi, una volta soffocato, abbandonato sul pavimento della sua cella. La vita non è stata generosa con Carmine Garofalo, 49 anni, avviato sul piano inclinato di un’esistenza precaria. Arrestato all’inizio dell’estate per rapina e tentato omicidio — coltello in pugno aveva cercato di rubare il camper di un tipo salvo colpirlo quando questi aveva tentato di fermarlo — era a Regina Coeli in attesa di giudizio. Nel frattempo, oltre a una serie di risse e devastazioni, aveva tentato il suicidio e dal 2 agosto scorso era piantonato a vista come soggetto fragile.

Un’ulteriore possibilità, tutta da esplorare, è che il decesso di Garofalo sia dovuto a stupefacente, teoricamente (ma solo in linea di principio) proibito. Da qui la perizia tossicologica disposta dal pm. Questo aprirebbe un altro scenario. Chi e con quali complicità avrebbe introdotto la sostanza nel perimetro carcerario?

La Procura ha disposto un nuovo sequestro del corpo in modo da poter effettuare tutti gli accertamenti del caso. Una misura che ha impedito la cremazione inizialmente richiesta dai familiari fra cui il figlio Samuel Garofalo, attore nella serie «Le fate ignoranti». Nei giorni scorsi il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha eseguito un’ispezione all’interno della sezione nella quale Garofalo era detenuto. Ispezione che potrebbe raccontare i dettagli di quanto avvenuto e isolare alcune responsabilità all’interno del carcere. I risultati potrebbero essere acquisiti agli atti delle indagini.

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per "il Messaggero" il 28 settembre 2022.

Lo hanno trovato steso in terra, nella sua cella di Regina Coeli, la numero 24, in pieno pomeriggio. Carmine Garofalo, 49 anni, detenuto per tentato omicidio e tentata rapina, è morto il 16 agosto scorso, mentre era appoggiato alle sbarre in attesa di un caffè. Un decesso che il carcere ha catalogato come legato a cause naturali, ma sul quale ora indaga la Procura di Roma, dopo la segnalazione della Garante dei detenuti del Campidoglio, Gabriella Stramaccioni: Garofalo sarebbe stato ucciso, preso alle spalle e soffocato, forse dal compagno di cella.

LA DENUNCIA

A raccontarlo sono stati altri due detenuti, che hanno detto di avere assistito alla scena. Hanno spiegato che nell'ultimo periodo a Garofalo era stato cambiato compagno di reclusione: secondo la loro versione, il secondo letto della cella sarebbe stato occupato da un uomo pericoloso, con problemi psichiatrici e che aveva tentato di uccidere il suo precedente compagno di cella. Lo hanno sentito urlare diverse volte, hanno detto di avere assistito a scontri e liti. 

 […] A distanza di una decina di giorni, la segnalazione dei detenuti: Garofalo sarebbe stato afferrato da dietro, la persona che era insieme a lui gli avrebbe stretto un braccio intorno al collo fino a farlo soffocare. I vicini di cella avrebbero anche detto che, all'arrivo degli agenti penitenziari il compagno di reclusione di Garofalo si sarebbe infilato a letto facendo finta di dormire.

Poco prima sarebbe anche stato visto pulire in terra con uno straccio.

Alla Garante è stato detto che la versione ufficiale fornita parla di una caduta accidentale, a causa della quale Garofalo avrebbe sbattuto la testa a terra. Subito dopo i fatti, alcuni detenuti avrebbero iniziato a battere le inferriate gridando: «Assassini». […]

Estratto dell'articolo da "il Messaggero" il 28 settembre 2022.

Ci sono sei segnalazioni sul comportamento carcerario di Carmine Garofalo che ora potrebbero finire agli atti del fascicolo aperto dalla Procura. Rapporti interni della casa circondariale di Regina Coeli che parlano di atti di protesta, gesti di autolesionismo e, soprattutto, liti e risse con il compagno di cella. Lo stesso compagno di cella che, secondo le dichiarazioni choc di altri due detenuti, potrebbe averlo soffocato e che, tempo prima, avrebbe cercato di uccidere il precedente vicino di letto.

I DUBBI

[...] Una morte che è stata inizialmente dichiarata accidentale, ma sulla quale i vicini di cella sembrano non avere dubbi: «È stato ucciso, il compagno di stanza faceva finta di dormire quando sono arrivati gli agenti», avrebbero raccontato. Ma c'è anche un altro dettaglio che ha attirato l'attenzione: il compagno di cella di Garofalo - sempre a dire degli altri reclusi - era pericoloso: aveva problemi psichiatrici e qualche tempo prima avrebbe aggredito il suo precedente vicino. Garofalo, trovato morto sul pavimento della sua stanza il 16 agosto scorso, in pieno pomeriggio, si sarebbe lamentato più volte.

IL RACCONTO

 «Lo sentivamo urlare», avrebbero raccontato i due detenuti che hanno anche detto di avere praticamente assistito al suo omicidio. Sarebbe stato afferrato alle spalle e soffocato. Un caso su cui ora sta indagando la Procura di Roma. 

Ci sono sei segnalazioni su cui gli inquirenti dovranno fare chiarezza. Vanno dagli ultimi giorni di luglio fino a poco prima del presunto omicidio. Il primo rapporto parla di atti di autolesionismo: Garofalo si sarebbe procurato escoriazioni e ferite alla fronte, forse come atto di protesta. Circostanza che aveva portato il medico di guardia a disporre a suo carico il regime di grandissima sorveglianza.

LA RISSA

Il giorno seguente, il cinquantenne aveva litigato con un altro detenuto per motivi legati alla convivenza forzata. […] . Qualche giorno dopo, il cinquantenne avrebbe cercato di impiccarsi utilizzando una maglia. Da quel momento per lui era stato disposto il regime di sorveglianza a vista. Passati circa dieci giorni, per due volte, il detenuto aveva distrutto il suo materasso, gettando i pezzi nel corridoio della sezione. 

 L'ultimo rapporto parla di una nuova rissa all'interno della cella, sempre per problemi di convivenza. […]

Estratto dell'articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” il 29 settembre 2022.

Gli addii social, dai quali traspare tutto l'amore di un figlio e l'affetto, misto alla rabbia, della moglie. Sulla sua pagina Instagram, il giorno dopo la morte di Carmine Garofalo, deceduto nel carcere di Regina Coeli il 16 agosto scorso mentre era nella sua cella insieme a un compagno forse violento - che dopo i fatti non è stato trasferito di sezione - il figlio Samuel ha pubblicato una fotografia e un messaggio: «Ciao papà, ti voglio ricordare così, felice e spensierato, proteggici sempre». 

Samuel è un volto noto: attore in film e serie televisive. Ha esordito al cinema nel 2012 in Anni felici di Daniele Luchetti, ed è uno dei protagonisti della serie Le fate ignoranti, diretta da Ferzan Ozpetek, reboot dell'omonimo film del 2001. […]

IL RAPPORTO

[...] Il rapporto dell'istituto penitenziario parla di «decesso per cause naturali», circostanza che sembrava confermata dal primo esame effettuato dal medico legale. Dopo le dichiarazioni choc di altri due detenuti, che hanno detto di avere visto Garofalo afferrato alle spalle e poi soffocato dal compagno di stanza, però, la Procura di Roma ha disposto nuovi accertamenti autoptici. Il pm Edoardo De Santis indaga per omicidio e ha incaricato un pool di esperti di effettuare rilievi. 

[…] I detenuti non sono ancora stati ascoltati in Procura: il magistrato attende i risultati dell'autopsia, per decidere come procedere.

L'ARRESTO

[…] Dal 21 luglio fino al giorno del decesso, risultano sei segnalazioni a carico di Garofalo: atti di autolesionismo, gesti di protesta e, soprattutto, liti e risse «per motivi di convivenza forzata» con il compagno di cella che, sempre secondo i due detenuti, aveva problemi psichici e in passato aveva aggredito il precedente vicino di letto. L'ultimo litigio, tre giorni prima della morte, il 13 agosto. Dal 2 agosto, inoltre, dopo un tentativo di impiccagione, Garofalo era stato sottoposto al regime di sorveglianza a vista. 

Nonostante questo, a parte i due compagni di sezione, al momento del decesso sembra non fosse presente nessuno. I detenuti hanno raccontato che il compagno di cella di Carmine è stato visto pulire il pavimento subito dopo e poi infilarsi a letto facendo finta di dormire. Il corpo di Garofalo è arrivato all'obitorio del policlinico Umberto I il 17 agosto: il motivo della morte è stato attribuito a un ictus. […]

Arrestati agenti penitenziari a Reggio Calabria responsabili di torture a un detenuto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Novembre 2022

Le indagini avviate dopo la denuncia dei familiari. Lo hanno lasciato seminudo per ore e lo hanno poi pestato con manganelli, calci e pugni: 8 i poliziotti coinvolti.

Avrebbero fatto spogliare un detenuto lasciandolo seminudo per due ore in una cella per poi colpirlo ripetutamente con i manganelli in dotazione e con pugni. E’ quanto si legge nell’ordinanza di applicazione di misure cautelari del Gip Valerio Trovato, eseguita dalla polizia, su delega del dell’aggiunto Giuseppe Lombardo, e del sostituto procuratore Sara Perazzan della Procura di Reggio Calabria guidata dal procuratore capo Giovanni Bombardieri , nei confronti di 8 appartenenti alla Polizia Penitenziaria in servizio presso la Casa Circondariale “G. Panzera” di Reggio Calabria a cui sono stati contestati i reati di tortura e lesioni personali aggravate. I fatti contestati agli indagati risalgono al 22 gennaio 2022 e vedono come parte offesa un solo detenuto campano Alessio Peluso, 30 anni, considerato un esponente di spicco della camorra, rifiutandosi di far rientro nella cella dopo aver usufruito del previsto passeggio esterno.  

Secondo la ricostruzione operata contenuta negli atti giudiziarie, per coprire tali condotte,  Stefano Lacava Comandante del Reparto per mettersi al riparo da conseguenze avrebbe poi redatto per una eventuale denuncia da parte del detenuto, una serie di relazioni di servizio, comunicazioni di notizie di reato ed informative al Direttore del carcere, in relazione alle quali gli sono state contestati i delitti di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, di omissione d’atti d’ufficio e di calunnia.

Nei giorni successivi, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, lo stesso ufficiale avrebbe tentato di costringere, illegittimamente, un suo sottoposto a mostrargli delle relazioni di servizio relative alla sorveglianza dello stesso detenuto, e per tale motivo è stata formulata a suo carico anche l’ipotesi di tentata concussione.

Le indagini condotte dalla Squadra Mobile reggina, diretta da Alfonso Iadevaia. su delega dalla Procura di Reggio Calabria, sono state avviate a seguito della denuncia depositata dai familiari di alcuni detenuti, tutti di origine campana, a cui le persone recluse, nel corso di colloqui telefonici, avevano riferito di essere stati malmenati all’interno del carcere. I successivi approfondimenti investigativi, anche attraverso l’escussione dei reclusi da parte del pm titolare delle indagini, hanno permesso già in una prima fase di circoscrivere ad un solo detenuto le condotte violente, così come poi confermato dalla visione e analisi delle telecamere interne alla casa circondariale.

“Va segnalato che le gravi condotte contestate sono ascrivibili alla responsabilità personale solo di alcuni appartenenti alla Polizia Penitenziaria, – evidenzia la Questura di Reggio Calabria in una nota – che presta servizio all’interno della struttura penitenziaria in questione con abnegazione, sacrificio e senso del dovere, e con pieno rispetto dei diritti e della dignità dei detenuti ivi ristretti“. 

I nomi

Sei gli indagati colpiti dalla misura degli arresti domiciliari: il comandante della Penitenziaria, Stefano Lacava (classe 1974, nato a Firenze e residente a Reggio Calabria); Fabio Morale (1977, Messina); Domenico Cuzzola (1977, Reggio Calabria); Pietro Luciano Giordano (1967, Villa San Giovanni); Placido Giordano (1971, Taurianova); Alessandro Sgrò (1983, Sant’Agata MilItello).

Due gli indagati sospesi dall’esercizio di un pubblico ufficio: Alessandro Guglietta (1969, Sant’Agata Miltello Messina) e Carmelo Vazzana (1970, Reggio Calabria).

Diversa, e più attenuata, la posizione di altri sei indagati, che il Gip di Reggio Calabria si è riservata la decisione all’esito dell’interrogatorio: Stefano Munafò (1988, Villa San Giovanni), Angelo Longo (1981, Barcellona Pozzo di Gotto), Diego Ielo (1965, Reggio Calabria), Antonio Biondo (1976, Melito Porto Salvo), e il medico Sandro Parisi (1959, Reggio Calabria), Vincenzo Catalano (1969, Reggio Calabria) ed Egidio Vincenzo Catalano (1969 Reggio Calabria). Redazione CdG 1947

Giuseppe Legato e Lodovico Poletto per “La Stampa” il 23 novembre 2022.

L'infortunio sul luogo di lavoro era falso. E quel braccio rotto non era altro che la conseguenza delle botte che gli avevano dato gli agenti. Tante. Senza pietà. Eppure agli atti del carcere quelle ferite al detenuto erano classificate come un semplice infortunio. Perché così nessuno faceva domande. Anche se, in realtà, tutti, o quasi, sapevano e tacevano. 

Carcere di Ivrea: 240 reclusi in uno spazio che ne potrebbe contenere a malapena 200. Parte da questo episodio l’ultima inchiesta che squarcia il velo su ciò che accade in quel cubo di cemento e acciaio alla periferia della città. Indagine corposa, partita in estate e arrivata ieri ad una svolta. Con perquisizioni nel cuore della notte. Computer sequestrati. Agenti prelevati da casa e accompagnati al penitenziario ad aprire gli armadietti: frugati anche quelli.

Quarantacinque gli indagati. Sono agenti di custodia, il loro comandante, tre educatori, alcuni medici, il direttore della struttura e il suo predecessore. Per i primi le accuse sono gravissime. La prima è tortura. Ma ci sono anche le violenze, fisiche e psicologiche. Ciò che fino ad oggi - e nelle cinque inchieste precedenti - non era mai stato contestato. I reati più abbietti. Nei confronti degli altri indagati, invece, le accuse sarebbero di carattere omissivo: sapevano e avrebbero taciuto. Oppure non avrebbero scritto nei documenti ufficiali tutta la verità. Come, appunto, accaduto nella storia del braccio spezzato al detenuto. 

Teatro delle violenze due locali di quel carcere già ampiamente citati nelle precedenti indagini: la «cella liscia» e l’«acquario». Dove - e qui vale la pena citare le parole del procuratore capo di Ivrea, Gabriella Viglione - «i detenuti venivano picchiati e rinchiusi in isolamento senza poter avere contatti con alcuno, nemmeno con i loro difensori». Ecco le torture. Le violenze psicologiche. 

Quindici i casi ricostruiti dagli inquirenti, tutti nell’ultimo biennio. Ma quelli più recenti risalgono all’ultima settimana di luglio e alle prime due di agosto. Vale a dire proprio nei giorni in cui la Procura generale di Torino raggruppava i fascicoli di precedenti indagini. Riprendeva i fili di storie vecchie e fascicoli archiviati e abbozzava un quadro di quel penitenziario tutt’altro che idilliaco. Ecco, mentre il Pg Francesco Saluzzo e il sostituto Gian Carlo Avenati Bassi esaminavano le carte, a Ivrea la pm Valentina Bossi lavorava già su altro.

In quel mare di carte ancora tutte segrete ci sono anche quelle che raccontano del «trattamento» riservato al detenuto Vincenzo Calcagnile finito a Ivrea a scontare un «cumulo pene» lo scorso mese di luglio, e trasferito d’urgenza a Lecce a fine agosto dopo aver perso 18 chili. Durante la detenzione quell’uomo di 37 anni aveva anche cercato di suicidarsi. Il giorno in cui La Stampa pubblicò la coraggiosa denuncia della madre, fu interrogato nel penitenziario salentino da due ispettori. A loro disse: «Non abbiatene a male, ma parlerò solo davanti a un magistrato».

E cosi la dottoressa Bossi lo ha fatto salire su un aereo. Interrogatorio: «Sono entrati in cinque nella mia cella, mi hanno costretto a bere tranquillanti in dosi massicce, molto superiori a quelle che dovevo assumere per una blanda terapia che mi era stata prescritta». Parlò a lungo delle botte. E sui presunti aggressori disse: «I nomi non li so, ma se mi fate vedere le foto sono in grado di riconoscerli». Da lì è partita l’indagine. Da lì si è iniziato a parlare di torture. Di silenzi complici. A tanti, troppi livelli.

Tra di loro anche alcuni medici. Botte e torture ai detenuti del carcere di Ivrea: nuova inchiesta sulla polizia penitenziaria, 45 indagati. Redazione su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Sono 45 gli indagati tra appartenenti alla polizia penitenziaria, medici, funzionari e direttori pro-tempore del carcere di Ivrea nell’ambito di una nuova inchiesta, coordinata dalla procura, in merito ai pestaggi subiti dai detenuti della casa circondariale. I reati ipotizzati sono quelli di tortura con violenze fisiche e psichiche nei confronti di numerosi detenuti, falso in atto pubblico e reati collegati. Nella notte personale della polizia penitenziaria, dei carabinieri e della guardia di finanza, su disposizione della Procura di Ivrea, ha eseguito 36 perquisizioni, all’interno del carcere e nelle abitazioni degli indagati.

La nuova indagine, che segue quella della Procura Generale riferita a fatti del 2015, riguarda diversi episodi dell’ultimo biennio, fino all’estate 2022. Le indagini hanno permesso di raccogliere numerosi elementi a conferma delle denunce presentate nel corso degli anni, anche in merito all’esistenza di una “cella liscia” e di una cella “acquario”, all’interno delle quali i detenuti venivano picchiati e rinchiusi in isolamento senza poter avere contatti nemmeno con i legali. “I reati risultavano tuttora in corso, situazione che ha reso inevitabile l’intervento degli inquirenti“, fanno sapere dalla procura di Ivrea.

Nel frattempo, in concomitanza con la notizia della perquisizione, è arrivata puntuale la denuncia del sindacato Sinappe, che ha dichiarato di un’aggressione ai danni del personale della polizia penitenziaria da parte di un detenuto. L’agente sarebbe stato colpito con calci, pugni e sputi, tanto da essere costretto a ricorrere alle cure del pronto soccorso. “Come se ciò non bastasse, il detenuto ha continuato a danneggiare i beni dell’amministrazione – ha segnalato Raffaele Tuttolomondo, segretario regionale del Sinappe – la situazione delle carceri è disastrosa. Abbiamo informato il sottosegretario alla giustizia, Andrea Delmastro, da sempre dalla parte dei poliziotti, con l’auspicio che il nuovo Governo presti attenzione quanto prima alle condizioni in cui i nostri colleghi sono costretti a lavorare“.

Andrea Bucci e Irene Famà per “la Stampa” il 23 settembre 2022.

Il carcere è pensato per scontare una pena, non per espiare i peccati come se fosse un girone dell'inferno. E Taufic, che stava scontando la sua condanna nel penitenziario di Ivrea, voleva solo poter sentire i propri familiari, i suoi figli e la moglie. «Vorrei fare una chiamata, ma non è possibile». Ha fatto richiesta agli agenti di custodia, ma «ho preso calci e schiaffi. Ho domandato di poter fare una telefonata e per punizione sono finito in isolamento per dieci giorni». E no, «non è successo solo a me. È capitato a tanti altri. Hanno preso botte gratuite, io li ho visti».

Taufic, nel 2016, raccontava tutto questo alla garante dei detenuti di Ivrea e all'associazione Antigone. Come lui, Gerardo che è finito con «uno zigomo tumefatto e un labbro rotto». E ancora Hamed: «Mi hanno immobilizzato e trasportato di peso». Hanno denunciato le violenze. Hanno parlato per sé e per gli altri che non trovavano il coraggio di farsi avanti. Perché il timore era più o meno questo: se ne ho prese così tante per aver chiesto di fare una telefonata, chissà succede se denuncio. E ancora. Chi potrebbe credere a dei malviventi? A chi ha rubato, rapinato, magari ucciso?

Lo ha fatto l'associazione Antigone, che quelle denunce, su fatti tra il 2015 e il 2016, le ha portate in procura. Dopo una rivolta, scoppiata sei anni fa nel penitenziario e repressa con violenza spropositata, è partita un'inchiesta, poi archiviata. Ora la procura generale di Torino ha avocato il fascicolo e ha indagato 25 persone tra agenti e medici. «Avevamo più volte sollecitato la procura di Ivrea, ma non arrivavano mai risposte», commenta l'avvocata Simona Filippi che rappresenta la onlus. Detto in altri termini: «Finalmente qualcuno ci ascolta».

Violenze e omertà. Ecco il quadro che raccontavano i detenuti. Qualcuno, con qualche operatore del carcere, si era pure confidato. Era finito nella stanza delle punizioni, quella che chiamavano «acquario» perché il vetro era quasi totalmente oscurato ma da fuori si poteva assistere a tutto ciò che accadeva dentro. Uno dei difensori degli indagati, l'avvocato Celere Spaziante, ribatte: «Il quadro che emerge dalle indagini non è veritiero». E aggiunge: «Credo sia più che mai opportuno sottolineare le difficoltà in cui, ad Ivrea, operano gli agenti con analogo disagio da parte dei detenuti che stanno scontando la loro pena nel rispetto delle leggi».

Che in quel penitenziario ci fossero «tensioni e gravi conflittualità» lo ha annotato, in visita nel novembre 2016, anche l'allora garante nazionale dei detenuti. Che per ricostruire gli accadimenti incontrò non poche difficoltà: «Nell'istituto sono assenti i registri degli eventi critici e dei provvedimenti disciplinari, sostituiti dall'archiviazione in un unico database informatico degli eventi quotidiani». Tensioni, dunque. Com' è normale in un carcere. E nelle denunce è spiegato bene: «Il fatto che Gerardo fosse un detenuto "fortemente aggressivo", se può rappresentare il movente delle violenze, non ne può elidere la valenza illecita». La legge è cosa ben diversa dalla vendetta. E dall'esaltazione della forza. Vale per tutti.

Giuseppe Legato e Lodovico Poletto per “la Stampa” il 22 settembre 2022.

Botte e omissioni, violenze e bugie. Un'infermeria trasformata per alcuni mesi nella stanza dei pestaggi. E ancora: verbali falsificati per raccontare un'altra storia, per coprire le percosse, i pugni, i calci, le manganellate che alcuni detenuti avrebbero subito nel carcere di Ivrea tra il 2015 e il 2016 con preoccupante regolarità.

Una decina, i casi finiti agli atti dei magistrati, 25 gli indagati tra agenti, medici interni del penitenziario e detenuti omertosi che l'altroieri hanno ricevuto l'avviso di garanzia dalla procura generale di Torino (Pg Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano). Le accuse: lesioni e falsi aggravati. Gli inquirenti non contestano il reato di tortura, ma solo - pare di capire - perché l'entrata in vigore della fattispecie è successiva alla consumazione dei presunti reati.

L'11 novembre 2015 Hamed fu picchiato - secondo l'accusa - con pugni e calci da sette agenti. In due gli tenevano ferme le braccia, gli altri menavano. «E il medico di turno della casa circondariale continuava a sorseggiare il caffè alla macchinetta automatica». Non un cenno «non un intervento per fermarli».

Nemmeno «una comunicazione al direttore come sarebbe stato suo dovere». scrivono i pm. Ma è lunga la lista di casi diventati oggi - dopo decine e decine di audizioni di testimoni - titoli di reato. Il 25 ottobre del 2016 il detenuto Angeli G. viene accompagnato dagli agenti in infermeria. Lo prendono a pungi, lo colpiscono con manganello. Il certificato medico dirà che lo avevano conciato male: «estese ferite al volto, a naso, al costato». Uno degli agenti che per i pm avrebbe partecipato al pestaggio, scriverà poche ore dopo in una falsa relazione di servizio che «il detenuto perdeva l'equilibrio sul pavimento reso scivoloso dall'acqua utilizzata per spegnere i focolai accesi da alcuni detenuti in sezione e sbatteva la faccia contro una cella».

Manganellate, schiaffi, pugni e calci li avrebbe subiti anche Marco D. Al costato, al viso, sulle braccia: «Dopo le botte - si legge agli atti - lo hanno lasciato per un'intera notte in infermeria nudo». Seguono anche in questo caso false attestazioni di servizio che parlano di «scivolamento su materiale residuo lanciato per terra dai detenuti». Senza vestiti, al freddo dell'infermeria, dopo essere stato picchiato, è rimasto anche Edoardo S.

ma al comandante della polizia penitenziaria arriverà tutt' altra narrazione in un verbale firmato dai suoi agenti. 

E cioè che «era il detenuto che mentre si trovava nella saletta di attesa dell'infermeria cominciava sbattere violentemente la testa contro un vetro pronunciando testuali parole: Ora mi faccio male cosi vi rovino pezzi di m». Tra le ferite riportate dai carcerati lacerazioni del timpano, zigomi e nasi fratturati. La spiegazione dei secondini al comandante sempre la stessa: «Ha battuto volontariamente la testa contro un pilastro dicendo che ci avrebbe messo nei guai sostenendo che eravamo stati noi».

Tra i legali che difendono gli indagati, tutti attesi in procura nei prossimi giorni per un primo interrogatorio ci sono Enrico Calabrese e Celere Spaziante. Quest' ultimo assiste una decina di agenti: «Al netto del fatto che confidiamo di provare l'insussistenza delle contestazioni, faccio presente come siamo lontanissimi dagli scenari già evocati nell'inchiesta del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I miei clienti sono amareggiati per le bugie dette sul loro conto. I manganelli? Non sono in dotazione in carcere e non ci possono entrare».

L'indagine avviata inizialmente dalla procura di Ivrea su due episodi sui quali i magistrati eporediesi avevano chiesto l'archiviazione è stata avocata dal procuratore generale in persona Francesco Saluzzo.

Ivrea, detenuti torturati in carcere: la procura generale di Torino indaga 25 persone. Tra le accuse più brutali c’è quella rivolta a un medico del penitenziario in servizio il 7 novembre 2015 che avrebbe assistito al pestaggio del detenuto Ahmed Alì da parte di 4 agenti di polizia penitenziaria mentre altri 2 lo tenevano fermo. Le difese evidenziano la mancanza di riscontri rispetto ai fatti contestati. Il Dubbio il 23 settembre 2022.

Calci e pugni, manganellate, isolamenti in celle vuote, detenuti costretti a dormire nudi dopo i pestaggi e referti medici falsificati. Sono accuse pesantissime quelle che la procura generale di Torino muove a 25 fra agenti di polizia penitenziaria e personale della casa circondariale di Ivrea – chi ancora in servizio, chi trasferito in altra sede – per fatti commessi fra 2015 e 2016 e che ora devono rispondere a vario titolo di lesioni aggravate in concorso e falso ideologico in atto pubblico.

Il procuratore Giovanni Saluzzo ha avocato una serie di fascicoli aperti a Ivrea per i quali i pm locali, guidati all’epoca dal procuratore Giuseppe Ferrando, avevano chiesto l’archiviazione per «assenza di riscontri», spiega a LaPresse l’avvocato Michele Celere Spaziante che difende 8 agenti penitenziari. «Allo stato attuale delle indagini – dichiara – nego ogni addebito per gli agenti che assisto». «Le indagini di Ivrea appaiono sotto vari profili carenti», si legge nei decreti di avocazione emessi a Torino.

L’associazione Antigone da cui sono nati alcuni degli esposti parla, per bocca della propria legale, Simona Filippi, di indagini «dopo anni di disinteresse» e di «sostanziale immobilismo» della Procura di Ivrea. Per il presidente della onlus che si occupa di garanzie nel sistema penale, Patrizio Gonnella, si tratta di fatti che «si riferiscono pienamente alla fattispecie di tortura», reato non ancora presente nel codice penale italiano. Ora i sostituti procuratori torinesi Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano avranno il compito di dipanare la massa di gravi accuse e angherie denunciate da almeno 7 detenuti, incrociando date, testimonianze, orari, documenti e referti.

Le accuse sono nate in particolare dal lavoro di raccolta del Garante comunale per i detenuti di Ivrea e il Garante nazionale, Mauro Palma. Che nel 2016 ha anche stilato un Rapporto ispettivo sul carcere piemontese dove si parla di una «sala accanto all’infermeria, cosiddetta “Acquario“. Soprannome nato per via di un vetro oscurato tranne che per una striscia di 15 centimetri da cui è possibile guardare dall’esterno ciò che accade all’interno, utilizzata come «cella di contenimento di natura afflittiva» violando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Tra le accuse più brutali c’è quella rivolta a un medico del penitenziario in servizio il 7 novembre 2015 che avrebbe assistito al pestaggio del detenuto Ahmed Alì da parte di 4 agenti di polizia penitenziaria mentre altri 2 lo tenevano fermo, il tutto sorseggiando una bevanda accanto alle macchinette per poi refertare lui le ferite sul corpo dello straniero. Un’altra delle ipotesi di reato riguarda 4 agenti che avrebbero lasciato un detenuto «tutta la notte» in una cella vuota «privo di indumenti» dopo aver subito un pestaggio da agenti che lo avrebbero «colpito con il manganello e con calci, pugni e schiaffi sul viso, sulla bocca, sul costato e su tutto il corpo».

Agenti di polizia, medici e detenuti omertosi sotto accusa. Carcere di Ivrea, 25 indagati per i pestaggi. Angela Stella su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Per i possibili pestaggi (la presunzione di innocenza vale sempre per tutti) perpetrati dalla polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti del carcere piemontese di Ivrea e per i successivi tentativi di insabbiamento ci sono 25 indagati. Tra loro ci sono agenti di polizia penitenziaria e medici, alcuni ancora in servizio nel carcere eporediese, altri nel frattempo trasferiti. Tra gli indagati, come riferisce La Stampa, anche detenuti omertosi. I casi indagati dalla Procura si riferiscono al periodo che va dal 2015 al 2016. Le accuse per le quali procedono i magistrati sono: lesioni e falsi aggravati. Non è stato possibile procedere per il reato di tortura perché i fatti sarebbero stati commessi prima dell’entrata in vigore della norma. «Anche se i fatti in oggetto, se confermati, si riferiscono pienamente alla fattispecie di tortura – ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone – questo reato non è stato contestato poiché non ancora presente nel codice penale al momento della presentazione degli esposti e dell’apertura delle indagini.  Fortunatamente oggi questo reato c’è e ci consente di perseguire pienamente chi commette questi crimini, nonostante ci sia ancora chi ritiene che sia di impedimento ai poliziotti nello svolgimento del proprio lavoro, tanto da avanzare la richiesta di abolizione o ampia modifica della fattispecie penale».

Antigone – ha sottolineato l’avvocata Simona Filippi, che per l’associazione segue il contenzioso legale – «era venuta a sapere di diversi casi di presunte violenze e aveva presentato alcuni esposti alla Procura di Ivrea, territorialmente competente, anche a seguito delle denunce presentate dal Garante comunale della città piemontese. Nei mesi successivi abbiamo registrato un sostanziale immobilismo da parte della Procura eporediese che portò a ben due richieste di archiviazione a cui ci opponemmo. Proprio a seguito di quello che, a nostro rilievo, era un mancato esercizio dell’azione penale, chiedemmo l’avocazione delle indagini al Procuratore generale presso la Procura di Torino che, a due anni di distanza, avrebbe emanato questi avvisi di Garanzia». Sono infatti sette anni che si cerca di far luce su quello che accadeva nel carcere di Ivrea.

«Le indagini espletate dalla Procura della Repubblica di Ivrea appaiono, sotto vari profili carenti» scrivevano, con parole dure, il procuratore generale Francesco Saluzzo e l’allora sostituto Otello Lupacchini nel 2020 dopo aver firmato i provvedimenti di avocazione delle inchieste sulle violenze per le quali il procuratore capo di Ivrea aveva chiesto l’archiviazione. Nell’atto dell’accusa – come ricorda sempre l’associazione- si legge che «Hamed, uno dei detenuti il cui caso Antigone aveva segnalato con un esposto e ora oggetto delle indagini, fu picchiato con pugni e calci da sette agenti. In due gli tenevano ferme le braccia. Gli altri menavano. E il medico di turno della casa circondariale continuava a sorseggiare il caffè delle macchinette automatiche. Non un cenno, non un intervento per fermarli. Nemmeno una comunicazione al direttore come sarebbe stato suo dovere». Anche il Comitato per la Prevenzione della Tortura (Cpt), in un suo rapporto pubblicato a seguito di una visita svolta nell’aprile del 2016, aveva segnalato le violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Ivrea.

Bruno Mellano, Garante piemontese dei diritti delle persone private della libertà personale, commenta al Riformista: «Le vicende di Ivrea sono seguite dalla rete dei Garanti in modo assiduo da diversi anni. I vari garanti cittadini che si sono susseguiti, e che mi risulta essere stati sentiti pure loro in queste settimane di indagini, hanno sempre segnalato i racconti fatti dai detenuti, lasciando sempre alla magistratura il compito della verifica. Bene ha fatto il procuratore generale di Torino Saluzzo ad avocare a sé i fascicoli perché occorre capire cosa è veramente successo durante quelle notti nel carcere di Ivrea». Mellano ci dice che anche dopo i fatti del 2015-2016 «sono arrivati all’attenzione degli inquirenti altri esposti di detenuti che sono o sono stati in quell’istituto, quindi nulla esclude che possano aprirsi altri fascicoli di indagine. La stessa cosa è successa a Torino e a Santa Maria Capua Vetere». In ultimo il Garante Mellano ricorda: «Nell’immediatezza delle notizie emerse sulle presunte violenze avevo partecipato ad una missione molto ficcante insieme ad Emilia Rossi del Collegio Nazionale del Garante nel carcere di Ivrea. Registrammo diversi elementi da chiarire, come una cella liscia e la famosa stanza denominata ‘acquario’, sala di attesa dell’infermeria. Era priva di riscaldamento, senza passaggi di circolazione dell’aria, inadatta ad ospitare persone che necessitano di assistenza sanitaria. Infine facemmo presente che nei quattro piani dell’istituto non era presente un sistema di video-sorveglianza. In questi anni siamo riusciti ad ottenere che venissero messe le telecamere almeno su due piani». Angela Stella

Il dramma al carcere di Ariano Irpino. Costantino è morto in carcere il giorno prima dell’udienza: “Voleva andare in comunità, ma non c’era posto”. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Novembre 2022.

Costantino aveva 45 anni, era originario di Bellizzi, in provincia di Salerno. Era tossicodipendente, aveva bisogno di aiuto, ne era consapevole e lo voleva. Il 15 novembre era atteso per l’udienza in Tribunale. È morto in carcere di Ariano Irpino, in provincia di Avellino, il giorno prima. Era lì da una settimana appena. “Sono 186 le persone morte nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno , 77 si sono suicidate – ha detto Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Regione Campania – In Campania in 6 si sono tolti la vita. L’ultimo è Costantino che si è tolto al vita nel carcere di Ariano Irpino. Il male oscuro dei suicidi, va fermato”. Secondo la ricostruzione di Emilio Fattorello, consigliere nazionale del sindacato autonomo Osapp, Costantino si è impiccato all’inferriata della cella utilizzando una cintura. Per lui sono stati inutili i soccorsi, è morto in carcere.

“Su questa morte saranno fatti accertamenti. Certo è che era una morte che si poteva evitare. Costantino era un tossicodipendente e voleva andare in comunità. Da maggio lo chiedeva, ma per lui, come per tanti altri, non c’è mai posto”, ha detto l’avvocato Stefania Pierro, legale di Costantino che da anni si batte per i diritti dei detenuti tossicodipendenti che sono i più fragili e meno tutelati. Quelli che hanno bisogno di maggiore attenzione e di aiuto concreto, di strutture idonee al loro trattamento. Ma sembra che in Campania tutto ciò non sia previsto.

“La morte di Costantino mi ha sconvolta – continua l’avvocato Pierro – Per i tossicodipendenti il carcere non rieduca e non recupera affatto. Costantino voleva andare in comunità, lo stava chiedendo da maggio. Era fiducioso che ci sarebbe riuscito ed eravamo in attesa di trovare una disponibilità in una struttura in Campania. Ma il posto non si trovava. Mi domando: se non ci sono posti nella nostra regione, perché non mandarli fuori? La sanità penitenziaria prevede che un detenuto debba stare in una comunità nella regione di appartenenza, salvo casi eccezionali. Ma in Campania non ci sono posti. Quindi perché non mandarli altrove?”.

L’avvocato racconta di un altro detenuto tossicodipendente, suo assistito, che aveva avuto l’affidamento terapeutico in una struttura. La mattina stessa della sua scarcerazione al comunità aveva avvertito che il posto non c’era più e il suo assistito è tornato in carcere dove sta ancora rinchiuso. “Come Costantino sono tanti i detenuti tossicodipendenti a cui vengono concessi affidamenti in strutture ma che poi restano in carcere sempre perché non c’è posto”.

Ciambriello spiega che Costantino era tossicodipendente da “doppia diagnosi”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la Comorbidità o Doppia Diagnosi la “coesistenza nel medesimo individuo di un disturbo dovuto al consumo di sostanze psicoattive ed un altro disturbo psichiatrico”. In che modo il carcere avrebbe potuto rieducarlo? “Voleva andare in comunità – dice Ciambriello – In passato ci era stato e stava meglio. Poi era finito nuovamente in carcere. Aveva anche ingerito una lametta in passato. Faceva laboratori di serigrafia e falegnameria. Ieri nessuno avrebbe sospettato che volesse togliersi la vita”. È morto in carcere, dove era recluso da Aprile in custodia cautelare.

“Oggi – continua l’avvocato Pierro – saremmo dovuti comparire davanti al giudice. Avremmo chiesto il giudizio abbreviato e i domiciliari in comunità. Ma comunque non avevamo il posto”. “Ci sono soggetti che non dovrebbero stare in carcere: penso ai tossicodipendenti, ai malati psichiatrici, ai soggetti fragili – continua il Garante regionale dei detenuti – Occorre liberarsi dalla necessità del carcere per queste persone. Il carcere deve essere una estrema ratio. Bisogna incrementare più figure sociali nella carceri: educatori, psicologi, volontari. Anche più spazi, più telefonate, più liberazione anticipata. Il carcere non può più continuare ad essere una discarica sociale e un ospizio dei poveri”.

Ciambriello e Pierro ricordano che Costantino quando era in carcere a Salerno è stato il testimone di un’altra triste vicenda, la morte di Vittorio Fruttaldo, il detenuto di 35 anni, originario di Aversa stroncato da un malore il 10 maggio scorso, dopo uno scontro fisico con gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Fuorni. Sul suo corpo, da un primo esame, furono trovati segni di violenza, riconducibili a percosse subite nei giorni precedenti. Come appreso dal Riformista nel tempo emersero dettagli raccapriccianti che smentirono la versione fornita dal sindacato di polizia penitenziaria secondo cui il detenuto, affetto da problemi di natura psichiatrica (circostanza smentita dai referti medici), avrebbe aggredito due agenti con un coltello rudimentale e, nel corso della colluttazione, sarebbe stato stroncato da un malore.

Costantino era uno dei testimoni chiave di quanto accaduto a Fruttaldo, che, secondo quanto appreso dal Riformista, era un detenuto che aveva problemi di tossicodipendenza. Avrebbe finito di scontare la sua pena a ottobre 2022 e anche lui necessitava di una terapia per disintossicarsi. Per il caso saranno fondamentali le testimonianze degli altri detenuti che dovrebbero essere ascoltati dagli investigatori per far luce su quanto accaduto nel carcere di Salerno ed evitare che si ripetano episodi analoghi alla mattanza di Santa Maria Capua Vetere quando, prima delle misure cautelari e delle devastanti immagini che sconvolsero l’opinione pubblica, i detenuti, impauriti di subire ulteriori ripercussioni, derubricavano le percosse subite con l’oramai celebre “sono caduto dalle scale”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

I numeri del Garante nazionale dei detenuti. Strage nelle carceri, 79 suicidi da inizio anno nell’indifferenza di media e politica: è il dato più alto da dieci anni. Carmine Di Niro su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

Una strage silenziosa, visto che i ‘grandi media’ raramente se ne occupano o la lanciano in prima pagina. Dall’inizio del 2022 sono stati 79 i casi di suicidio nelle carceri italiane, il numero più alto mai registrato negli ultimi 10 anni. Allargando l’arco temporale al 2012, sono stati invece 583 le persone che si sono tolte la vita quando erano nelle mani dello Stato.

Il dato ufficiale è inserito in un rapporto stilato dal Garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma. Numeri ancora più allarmanti se rapportati al totale delle persone detenute negli istituti di reclusione del paese: nel 2022 sono infatti 11mila in meno rispetto al 2012, ma ci sono stati 23 suicidi in più.

Si tratta di 74 uomini e 5 donne, 33 erano riconosciute con fragilità personali o sociali, senza fissa dimora, persone con disagio psichico; circa un suicidio su 5 si verifica nei primi 10 giorni dall’ingresso, il 62% dei suicidi in carcere avvengono invece nei primi sei mesi di detenzione.

Delle 49 persone che si sono tolte la vita nella fase ‘inziale’ della detenzione, 21 si sono uccise nei primi tre mesi dall’ingresso in Istituto e 15 nei primi 10 giorni, 9 dei quali addirittura entro le prime 24 ore dall’ingresso. Significa circa un suicidio su cinque si verifica nei primi dieci giorni dall’ingresso nel carcere Inoltre, fra le 79 persone suicidatesi 5 avrebbero completato la pena entro l’anno in corso, 39 avevano una pena residua inferiore a 3 anni; solo 4 avevano una pena residua superiore ai 3 anni e una soltanto aveva una pena residua superiore ai 10 anni. Un picco si è registrato nel mese di agosto, quando in carcere gran parte delle attività si fermano, con ben 17 casi.

Secondo Mauro Palma, i numeri dimostrano come “le condizioni della vita detentiva o la durata della pena ancora da scontare o della carcerazione preventiva spesso non sembrano risultare determinanti nella scelta di una persona detenuta di togliersi la vita“. “In questi casi – prosegue il Garante nazionale dei detenuti – sembra piuttosto che lo stigma percepito dell’essere approdati in carcere costituisca l’elemento cruciale che spinga al gesto estremo”.

Un rapporto commentato a stretto giro dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, impegnato in audizione alla Commissione Giustizia del Senato sulle linee programmatiche del suo dicastero. “Abbiamo vissuto con grande dolore la sequenza di suicidi, anche per questo il ministero si sta attivando con una pressante energia per limitare i tagli previste dalla legge di bilancio e per devolvere al settore eventuali risorse disponibili“, ha spiegato il Guardasigilli.

Nordio ha promesso attenzione alla salute dei detenuti, in particolare “tutele per i fragili, potenziando il coordinamento con le autorità sanitarie gli enti locali e le comunità terapeutiche. L’obiettivo è individuare fin dall’inizio le persone con problematiche da dipendenza o con patologie psichiatriche o rischio di autolesionismo“.

 Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Ancora suicidi nelle carceri italiane: le ragioni di una strage senza fine. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 12 novembre 2022.

È stato trovato con un lenzuolo stretto attorno al collo, legato alle sbarre della sua cella, nel padiglione C. Si è suicidato così Antonio, detenuto di 56 anni rinchiuso nella Casa Circondariale Lorusso e Cutugno di Torino dallo scorso agosto con l’accusa di stalking nei confronti dall’ex compagna (ma non aveva ancora ricevuto un giudizio definitivo). Nei giorni precedenti nessun campanello d’allarme: non aveva parlato con nessuno dei suoi problemi, racchiusi tutti in un biglietto trovato accanto al corpo in cui Antonio ha spiegato la scelta del suo gesto, principalmente dovuta a “motivi personali”.

Prima di lui, nello stesso penitenziario, dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita altre tre persone. Anche Tecca Gambe, un ragazzo del Gambia finito in cella per essere stato complice del furto di un paio di cuffiette, si è ammazzato lo scorso 28 ottobre soffocandosi con un lenzuolo. Di lui le autorità sapevano poco, e in realtà non erano convinte neppure che quello fosse il suo vero nome. Cioè che è tuttora noto, invece, è che la sua morte è avvenuta circa 48 ore dopo l’arresto. «Se potessi tornare indietro non chiamerei la polizia. Non si può morire per delle cuffiette Bluetooth che costano 24 euro», ha detto la proprietaria del negozio dove è avvenuta la rapina. Un paradosso, dal momento che è giusto che chi subisce un furto denunci, così come è giusto che chi commette un reato paghi. Ma non con la vita e non in maniera così poco dignitosa. Prima ancora di Tecca e poi di Antonio, il 24 luglio si era impiccato anche un altro uomo, Nuammad, originario del Pakistan, e la stessa fine se l’è procurata il giorno di ferragosto Alessandro, un 24enne di origini brasiliane, con passaporto italiano.

Seppur diversi per storie e origini, tutte queste vittime raccontano di un’unica grande e drammatica situazione: quella delle carceri italiane, dove i morti per suicidio, dall’inizio dell’anno, sono ormai vicini agli 80. Altrettanto emblematico è il fatto che gli ultimi episodi si siano verificati a Torino, città in cui negli ultimi anni gli arresti sono passati dai 2.466 del 2014 ai 3.538 del 2019, ma il 77% dei detenuti è già in libertà dopo 48 ore, una volta cioè stabilita la sua posizione giuridica.

«Alla prima visita non c’erano segnali di alcun problema che facessero intuire la necessità di un percorso particolare. Nessuno», e per questo, come ha spiegato Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno, anche Gambe avrebbe potuto lasciare il carcere da lì a breve ed eventualmente scontare la pena in altro modo. Ma non c’è stato il tempo.

In generale l’Italia, con i suoi 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, è tendenzialmente considerato un Paese con il più basso tasso di persone che si tolgono la vita a livello europeo. Questa realtà però cambia totalmente dietro le sbarre, con 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute (nel 2019 era 8,7 ogni 10mila, circa 13 volte superiore a quello delle persone libere). Tra le altre cose la fascia più colpita è quella che va dai venti ai trent’anni, ragazzi che in molti casi si trovavano in carcere da poche ore o che potrebbero essere liberati nel giro di poco, usciti in misura alternativa. Per quale motivo i numeri cambiano così tanto fuori e dentro le celle?

Partiamo dal presupposto che «ogni suicidio, va ricordato, è un atto a sé, legato alla disperazione di una persona», come ha sottolineato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Tuttavia «quando i suicidi sono così tanti e in carcere ci si uccide 16 volte in più che nel mondo libero, l’intero sistema penitenziario e quello politico non possono non interrogarsi sulle cause di questo diffuso malessere».

E una fra queste è senza dubbio la condizione di vita di chi finisce dietro le sbarre. In base alle visite effettuate da Antigone in 85 istituti penitenziari negli ultimi 12 mesi (dal luglio 2021 al luglio 2022), nel 31% dei casi (1 su 3) gli istituti hanno celle in cui non sono garantiti i 3mq calpestabili per persona. Oltre al sovraffollamento che ne scaturisce, l’Associazione ha rilevato che metà delle carceri visitate non sono dotate di doccia (seppur previste dal regolamento penitenziario del 2000) e che nel 44% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che limitano il passaggio di aria.

In Italia ci sono circa 120 detenuti ogni 100 posti disponibili, con circa 20mila (37%) fra i detenuti attualmente rinchiusi che devono scontare un residuo pena inferiore ai tre anni: molti di loro potrebbero ad esempio accedere a misure alternative, lasciando spazio in cella. Per non parlare di chi è ancora in attesa di giudizio. Se consideriamo che il 34,8% dei detenuti è in carcere per violazione delle leggi sugli stupefacenti, «intervenire sulla legge sulle droghe potrebbe già ridurre di molto il numero delle persone in galera». In generale il nostro Paese ha sempre mostrato una tendenza a concepire il carcere più come luogo di espiazione anziché di rieducazione. E lo dimostrano i dati. In Italia il personale dedicato all’amministrazione penitenziaria e alla custodia è superiore all’80% (la media europea è del 55%). Mentre i dipendenti occupati in attività educative e di formazione professionale sono circa il 2% (la media è del 3,3%). In sintesi, nelle carceri ci sono 1,6 detenuti per agente e più di 80 per educatore. La sfera psicologica ed emotiva dei carcerati è infatti spesso messa in ultimo piano. Le strutture molte volte limitano i contatti con l’esterno, le visite e perfino le chiamate. In molte carceri non esistono spazi adeguati a permettere gli incontri, che finiscono per essere rimandati e alla fine cancellati. Il rischio, come stiamo vedendo accadere, è di perdersi per strada tantissime vite umane. [di Gloria Ferrari]

Altro che stare "al fresco". Acqua razionata, sovraffollamento e un suicidio ogni 5 giorni: viaggio nel disastro del pianeta carceri. Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Luglio 2022. 

Nelle carceri non si sta “al fresco”, come da luogo comune quando una persona viene sbattuta dietro le sbarre. Anzi, i penitenziari italiani sono sempre più vicini ad un inferno climatico, una sorta di fardello supplementare per chi sta già scontando la sua pena con la giustizia, magari in celle sovraffollate.

È questo il quadro che emerge dal rapporto di metà anno dell’Associazione Antigone, che da anni si occupa di monitorare i diritti delle persone private della libertà nelle 197 carceri italiane.

Istituti in cui mancano i frigoriferi, i ventilatori e in casi estremi anche l’acqua, come a Santa Maria Capua Vetere, il carcere casertano finito sulle prime pagine per la mattanza compiuta dalla penitenziaria contro i detenuti: lì non c’è alcun collegamento con la rete idrica comunale, così per ‘sopravvivenza’ agli ospiti vengono forniti 4 litri di acqua potabile al giorno, prelavata da pozzi artesiani.

Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, illustrando il rapporto ha sottolineato che dalle osservazioni dell’associazione “è emerso che sono troppi i luoghi dove non si respira, si vive male. Sono condizioni durissime di vita per i detenuti e per coloro che lavorano all’interno delle carceri”. Dalle visite effettuate da Antigone è emerso infatti che in quasi un terzo degli istituti non sono garantiti i 3 metri quadri di spazio calpestabile per persona, nel 58% delle celle non c’è la doccia (anche se sono previste da regolamento dal 2005), e nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio d’aria. Quanto ai ventilatori, il cui acquisto è stato autorizzato da una recente circolare del Dap, nelle carceri ve ne sono ancora pochissimi.

L’affollamento

Il sovraffollamento delle carceri resta un problema ormai storico per il Paese. Stando agli ultimi dati aggiornata al 30 giugno 2022 dal Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria, sono 54.841 le persone detenute negli istituti di pena, a fronte di una capienza regolamentare di 50.900 posti, con un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%.

Per Antigone questi numeri però non sono veritieri perché sul territorio nazionale ci sono al momento 3.665 posti non disponibili negli istituti di reclusione: la capienza effettiva dunque scende a 47.235 posti e il sovraffollamento effettivo sale al 112%.

Ci sono poi alcuni casi limite, i 25 istituti dove il sovraffollamento reale è superiore al 150%, con picchi di oltre il 190%. Tra quelli più critici, segnalati dall’associazione, gli istituti di Latina con un tasso di affollamento reale del 194,5%; Milano San Vittore, che con 255 posti non disponibili ha un tasso di affollamento del 190,1%; Busto Arsizio al 174,7%. A livello regionale il tasso più alto si riscontra in Lombardia (148,9%), che è anche la regione con più detenuti, 7.962, seguita da Campania (6.726), Sicilia (5.955), Lazio (5.667) e Piemonte (4.015).

Il record di suicidi

L’altra grande emergenza segnalata in questi primi sei mesi del 2022 è quella dei suicidi. Sono 38 i detenuti che da inizio anno si sono tolti la vita dietro le sbarre, uno ogni cinque giorni. Di questi 18 erano di origine straniera, due le donne, mentre 14 persone avevano tra i venti e i trent’anni.

Guardando al passato, il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 tale numero si avvicinava a quello di oggi, rispettivamente con 33 e 34 suicidi. Anni in cui però il sovraffollamento aveva raggiunto picchi ancora più alti rispetto a quelli odierni: i detenuti oggi sono in numero assai minore, eppure i disagi e i suicidi continuano.

La soluzione

Una soluzione per risolvere almeno parzialmente i problemi all’interno delle carceri ci sarebbe, ma servirebbe anche una volontà politica difficile da trovare in Parlamento. Il ‘jolly’ sarebbe quello di concedere agli oltre 6mila detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni di accedere a misure alternative, intraprendere cioè percorsi di esecuzione penale esterna.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

La vergogna dietro le sbarre è la disumanità. Rissa tra 40 detenuti nel carcere della mattanza, la penitenziaria ci ricasca e carica… i numeri. Andrea Aversa su Il Riformista il 28 Luglio 2022. 

Nessuna apocalisse. I 40 detenuti, protagonisti della rissa avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sarebbero stati in realtà in tre-quattro. Emilio Fattorello, Segretario regionale del Sindacato autonomo della polizia penitenziaria (Sappe), ha dichiarato ieri che «era scoppiata una rissa che ha coinvolto quasi la totalità dei ristretti della IV Sezione del reparto Nilo (quello della “prima accoglienza”, purtroppo diventato “famoso” per la mattanza del 2020, ndr) che si sono serviti di oggetti contundenti come i piedi dei tavolini per scontrarsi».

Pare invece che ci sia stato soltanto un acceso litigio tra poche persone al termine dell’ora d’aria. I motivi sono sconosciuti, i fatti accaduti sono purtroppo la normalità. «D’estate il carcere è una polveriera – ha spiegato a Il Riformista Emanuela Belcuore, Garante dei diritti dei detenuti per la provincia di Caserta – nel penitenziario le condizioni di vivibilità sono al limite a causa del caldo, della mancanza di acqua, del sovraffollamento e dei casi di covid». A Santa Maria il personale della Polizia penitenziaria è in sotto organico e lavora in estrema difficoltà. Per 900 detenuti ci sono soltanto una psicologa fissa ed uno mobile. Il personale sanitario e quello degli educatori è ridotto all’osso. Questo causa anche lo stop delle varie attività trattamentali.

Non ci sono mediatori per i detenuti stranieri e molti reclusi con patologie psichiche sono costretti a convivere con tutti gli altri e viceversa. «Di positivo – ha affermato la Belcuore – ci sono l’estremo impegno della Direttrice Donatella Rotundo e l’azione dei magistrati di Sorveglianza che nell’ultimo periodo si sono attivati per affievolire la piaga del sovraffollamento, facendo uscire dal carcere detenuti che possono scontare la pena in modo alternativo». Un pizzico di umanità in queste celle infernali e degradanti.

Andrea Aversa

“Abolire il carcere”, il pamphlet illuminista rilancia la sfida. Il saggio di Manconi, Anastasia, Calderone e Resta, è ora in edizione aggiornata con il racconto della detenzione nell’emergenza Covid. Federica Graziani su Il Dubbio il 18 luglio 2022.

Non c’è niente in questo libro di ciò che c’è nella maggior parte dei saggi italiani che circolano oggigiorno. Al posto delle dispute di scuola, l’osservazione diretta della realtà di cui si scrive. Al posto delle descrizioni scorate e orfane di pars costruens un decalogo di proposte cui manca solo la buona volontà per essere applicate. Al posto di una sola voce, e gravata dai dettagli biografici, quattro autori che si avvicendano nei diversi capitoli in modo indistinguibile ma contribuendo ognuno con un’ottica e una professionalità sue alla tesi condivisa. Questo carattere anomalo di “Abolire il carcere” viene fuori proprio dall’anomalo genere di cui questo libro è esempio.

Tra il saggio filosofico e il racconto storico, tra il reportage e il manuale d’istruzioni, tra la monografia giuridica e il libello polemico, sono tanti i fili che si possono tirare da questa lettura. E tutti quei fili precipitano intorno alla tesi, perentoria fin dal titolo, che il carcere si possa e si debba abolire. Una tesi che si scontra con l’abito mentale dell’ineluttibilità della prigione innanzitutto dimostrando una verità tanto evidente quanto misconosciuta: il carcere così com’è non funziona allo scopo che si prefigge. Con le loro parole: “il carcere non costituisce un efficace strumento di punizione, dal momento che quanti vi si trovano reclusi sono destinati in una percentuale elevatissima, più del 68 per cento, a commettere nuovi delitti”. E per dimostrare quanto e come il carcere sia inutile, i quattro autori procedono con una strategia argomentativa da illuministi.

Prima sfatano il mito che il carcere sia sempre esistito, indagando la storicità della pena detentiva. Poi confrontano i principi costituzionali che reggono il nostro sistema delle pene con le condizioni concrete della vita negli istituti penitenziari: con le carenze strutturali degli edifici, con la mancanza di operatori qualificati e di attività risocializzanti, con la scarsità di opportunità formative e lavorative, con l’assenza di una reale presa in carico da parte dei servizi sul territorio e di percorsi individuali, con la composizione della popolazione carceraria rappresentata, per la maggior parte, da poveri, tossicomani, stranieri. E infine, stendono il loro programma minimo di modifiche al sistema penale e penitenziario. Dieci cose da fare subito, dieci presupposti per un percorso di avvicinamento all’abolizione del carcere, dieci proposte concretissime che vanno dal superamento dell’ergastolo alla riduzione della carcerazione preventiva, dalle misure alternative alla soppressione della detenzione minorile.

Ma non solo. Il libro, in questa nuova edizione aggiornata, contiene anche il racconto del carcere durante la pandemia. Si racconta della “mattanza della settimana santa”, nome dell’indagine scaturita dalle prime denunce della violenza massiccia e organizzata a opera di centinaia di agenti e funzionari di polizia penitenziaria ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vedere il 6 aprile 2020. E si racconta di Stefano Cucchi, dei fatti di Asti, della vicenda di Rachid Assarag. È qui che il tono del libro cambia. È qui che le buone ragioni per l’abolizione ordinate fino a questo punto svelano l’urgenza etica degli autori. Che scrivono perché vogliono rispondere alla sofferenza altrui, svelandone l’assurdità e limitandola, come possono.

L'emergenza dietro le sbarre. Le carceri scoppiano di poveri, derelitti ed emarginati: altro che giustizia sociale. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

È dagli anni Settanta del secolo scorso che la magistratura deviata si esercita a orientare la propria giurisprudenza in senso “sociale”, e tutto si potrà dire di quel malcostume tranne che abbia portato i benefici di giustizia diffusa che pure erano posti a giustificazione di quelle forzature. Analogo risultamento di ingiustizia si è avuto nei decenni più recenti di barbarie della giurisdizione penale. Anche su quest’altro fronte si pretendeva che l’impostazione punitiva avrebbe ricondotto a giustizia una società oltraggiosamente proclive all’indulgenza verso i privilegiati, i potenti, gli ammanicati, come se il traguardo sicuritario di un ordinamento finalmente capace di assicurare più catene per tutti fosse il meglio cui ambire.

Ma il verbo sanzionatorio e il culto del rimedio carcerario hanno prodotto l’opposto di quel che intendevano perseguire, e cioè le galere piene di umanità derelitta, le galere piene di poveri, piene di immigrati, piene di emarginati, piene di malati di mente, cioè piene della gente che quella supposta giustizia avrebbe dovuto risarcire, pensa un po’, con lo spettacolo della tortura inflitta una buona volta anche ai colpevoli di lusso abituati a farla franca. I propositi sociali del penalismo giudiziario engagé si sono platealmente ridotti all’ottenimento di una giustizia profondamente classista, che in omaggio alla persecuzione dei privilegiati, che sono meno, accetta senza perplessità quella dei disgraziati, che sono i più.

E, quando si tratta di ipotizzare provvedimenti che intervengano per limitare l’abuso carcerario, puntualmente la reazione pan-penalista ricorre all’armamento demagogico che denuncia le manovre per il salvataggio di quei pochi, i privilegiati, e pazienza se il costo delle mancate riforme lo pagano invece quei tanti, i disgraziati cui si riconosce il privilegio di condividere la cella coi colletti bianchi. La perequazione sociale dell’ora d’aria. Grossa come una casa, grossa come un carcere, c’è una questione di classe a condannare l’amministrazione della giustizia. Iuri Maria Prado

La relazione del Garante Palma. Sovraffollamento, ergastolo ostativo, violenze e detenuti in cella con condanne brevi: la fotografia impietosa del sistema carceri. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2022. 

La fotografia del ‘pianeta’ carceri in Italia resta a tinte fosche. Il quadro della situazione lo ha spiegato questa mattina Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà, nella sua relazione al Parlamento, l’ultima del suo mandato iniziato nel 2016.

Lo stato delle carceri italiane è inaccettabili per chi vi è ristretto e per chi vi lavora, tra spazi inadeguati e dunque sovraffollati, al cui interno vi sono migliaia di persone che in realtà il carcere potrebbero evitarlo perché condannati a pene brevi.

Dei 54.786 detenuti registrati (rispetto a una capienza effettiva di 50.883 detenuti) e dei 38.897 che stanno scontando una sentenza definitiva, “1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni“, ha spiegato Palma nella sua relazione.

Si tratta di detenuti che, come prevede il nostro ordinamento, potrebbero godere di forme alternative di detenzione ma che invece restano reclusi dietro delle sbarre. Per Palma questo è “sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa ‘macchina’ della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo“.

Oltre al carcere per le pene brevi, il focus della relazione è incentrato su altri due punti di crisi del sistema carcere su cui il Parlamento “può e, in parte, deve” intervenire in questo scorcio di legislatura, ha auspicato Palma.

Uno riguarda la malattia psichica in carcere. Nella relazione si legge che al 22 marzo erano 381 le persone detenute cui è stata accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento negli istituti, giuridici e penitenziari, predisposti per affrontarla, “ma la soluzione non è e non può essere solo sanitaria e tantomeno di sola sicurezza: va cercata nel coinvolgimento attivo di figure professionali ulteriori e nuove”.

Altro punto chiave è la questione dell’ergastolo ostativo. Al 31 marzo erano 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. Numeri che, ha sottolinea Emilia Rossi, vice del Garante, “dicono che nel nostro Paese l’ergastolo è essenzialmente ostativo: una pena diversa, quasi di specie diversa, rispetto a quelle previste dal codice penale, perché non definitiva bensì sostanziata dal tempo“.

Ma nella relazione del Garante Palma c’è anche un fortissimo richiamo sul numero inaccettabile di suicidi in carcere: sono 29 ad oggi, di cui oltre la metà era sottoposta a misure non definitive, oltre a 17 decessi per cause da accertare. Altra questione centrale è quella delle violenze, che hanno occupato le prime pagine dei giornali dopo i drammatici fatti di Santa Maria Capua Vetere.

Per Palma sono situazioni che richiedono “capacità di accertamento rapido” e “rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione”. 

La bocciatura del ‘nuovo’ ergastolo ostativo

Nel suo intervento Palma ha criticato aspramente il testo licenziato dalla Camera sull’ergastolo ostativo e che dovrà essere licenziata dal Senato prima dell’8 novembre, “in tensione” con le indicazioni di ben altro tipo date dalla Corte Costituzionale e che introduce “disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui essa è intervenuta“.

“È francamente difficile ricondurre quest’opera di riforma ai principi e ai parametri di revisione delle preclusioni assolute previste dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, segnati, i primi, e indicati, i secondi, dalla pronuncia della Consulta“, scrive il Garante Palma nella sua relazione, segnalando tra le disposizioni peggiorative della disciplina attuale l’aumento del termine di tempo, da 26 anni a 30, per l’accesso alla richiesta di liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo ‘ostativo’ e quello di durata della libertà vigilata, passata da 5 anni a 10.

“Il punto che appare di maggiore tensione rispetto alle indicazioni della Corte, tuttavia, sta proprio nei presupposti prescritti per l’accesso a qualsiasi beneficio (tutti, inclusi i permessi premio) o misura alternativa previsti dalla legge nonché alla liberazione condizionale. Una serie complessa di adempimenti probatori di difficile se non impraticabile adempimento e che, soprattutto, sono rivolti al passato, alla storia della persona spesso condannata in un tempo lontano oltre che riferiti a previsioni prognostiche che tanto somigliano a una prova diabolica”, scrive Palma nella relazione.

La relazione annuale del garante dei detenuti. Carceri stracolme tra ex terroristi colpevoli di reati commessi 40 anni fa e detenuti con condanne inferiori ai 24 mesi. Angela Stella su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Sovraffollamento, ergastolo ostativo, carcere anche per pene molto brevi, malattia psichica: sono i punti di crisi delle nostre carceri e del nostro sistema di esecuzione penale emersi ieri durante la presentazione della Relazione annuale al Parlamento da parte di Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. L’evento è stato aperto dalla Presidente del Senato, Elisabetta Casellati, alla presenza del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Per la seconda carica dello Stato « il primo pensiero non può che andare all’annosa questione del sovraffollamento delle nostre strutture – ha detto la seconda carica dello Stato – . Nonostante gli importanti sforzi compiuti in questi anni, anche sul piano legislativo, per contenere i flussi in ingresso e allargare quelli in uscita dalle carceri, il numero delle persone attualmente detenute in Italia continua ad essere pericolosamente al di sopra dei limiti di capienza, con un tasso medio del 105/110% dei posti disponibili».

Su una capienza regolamentare di 50.859 posti ci sono – si legge nella Relazione – «54786 persone registrate (a cui corrispondono 53793 persone effettivamente presenti)» di cui «38897 in esecuzione penale, essendo le altre prive di una sanzione definitiva». Ma il dato stigmatizzato da Emilia Rossi, componente del Collegio del Garante, è che «al 7 giugno, sono 1.317 le persone presenti in carcere per scontare una condanna inferiore a 1 anno, 2.467 per una condanna compresa tra 1 e 2 anni, numeri che sollecitano la ricerca di soluzioni diverse dalla detenzione in carcere». Ha aggiunto Palma che scontare in carcere pene così brevi in presenza delle quali il nostro ordinamento prevede forme alternative alla detenzione, «è sintomo di una minorità sociale che si riflette anche nell’assenza di strumenti di comprensione di tali possibilità, di un sostegno legale effettivo, di una rete di supporto. Una presenza, questa, che parla di povertà in senso ampio e di altre assenze e che finisce col rendere meramente enunciativa la finalità costituzionale delle pene espressa in quella tendenza al reinserimento sociale: perché la complessa “macchina” della detenzione richiede tempi per conoscere la persona, per capirne i bisogni e per elaborare un programma di percorso rieducativo».

Per quanto concerne la malattia psichica in carcere, al 22 marzo erano 381 le persone detenute cui è stata accertata una patologia di natura psichica che ne comporta l’inquadramento negli istituti, giuridici e penitenziari, predisposti per affrontarla, «ma la soluzione – ha detto Rossi – non è e non può essere solo sanitaria e tantomeno di sola sicurezza: va cercata nel coinvolgimento attivo di figure professionali ulteriori e nuove». Mentre il Garante ha richiamato anche l’attenzione sui suicidi carceri – «29 a oggi a cui si aggiungono 17 decessi per cause da accertare» e sulle gravi vicende sulle violenze nelle carceri, come a Santa Maria Capua Vetere, che richiedono «capacità di accertamento rapido» e «rapida individuazione di responsabilità anche a tutela delle persone su cui pende una incriminazione così grave quale quella di tortura o quella altrettanto grave di favoreggiamento nei confronti di coloro che di tale reato sono imputati. I tempi non stanno andando in questa direzione» avverte il Garante che ha ritenuto «inaccettabile» nel caso di Torino il rinvio a giudizio nel luglio del 2023 per accertare quanto accaduto e le responsabilità. In questo contesto il Garante nazionale ha ribadito, ancora una volta, «l’inaccettabilità di archiviazione di inchieste dovute all’oggettiva impossibilità di individuazione delle specifiche responsabilità personali e chiede che sia numerato ogni strumento o mezzo di difesa in dotazione, che l’identificativo numerico sia apposto in maniera visibile su ciascuno di essi e che sia istituito un registro per l’annotazione dell’assegnazione ai singoli operatori, in ogni singola occasione per cui si è fatto ricorso a essi».

In tema di 41-bis il Garante «ha sempre ritenuto essenziale che in questi casi si adottino e si mantengano tutte le misure volte a non consentire il perpetuarsi di tali legami. Ritiene tuttavia importante continuare la propria azione di vigilanza affinché nessuna misura sia introdotta o mantenuta sulla base giustificativa di altri criteri, dettati dalla volontà di maggiore afflittività, e che provvedimenti relativi a tale misura abbiano ogni volta una base di fondamento che tenga conto dell’evoluzione del singolo e dei contesti». Sono invece 1.822 le persone condannate all’ergastolo, di cui 1.280 all’ergastolo ostativo. Il testo licenziato dalla Camera sull’ergastolo ostativo «è in tensione» con le indicazioni date dalla Corte costituzionale e introduce «disposizioni decisamente peggiorative rispetto alla disciplina su cui essa è intervenuta». Per il Garante «è francamente difficile ricondurre quest’opera di riforma ai principi e ai parametri di revisione delle preclusioni assolute previste dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, segnati, i primi, e indicati, i secondi, dalla pronuncia della Consulta». Basti pensare che sono «aumentati il termine di tempo, da 26 anni a 30, per l’accesso alla richiesta di liberazione condizionale dei condannati all’ergastolo ‘ostativo’ e quello di durata della libertà vigilata, passata da 5 anni a 10». Un passaggio è stato dedicato anche al terrorismo. Appare «ineludibile la contraddizione di ricondurre in carcere persone che hanno condotto un percorso di vita senza commettere reati, spesso cercando di compensare quanto commesso con azioni volte al recupero sociale, pur se responsabili di gravissimi reati nel passato».

Il riferimento è agli ex protagonisti dei cosiddetti Anni di piombo: si ricorda come nelle nostre carceri continuino ad esserci «una ventina di persone, condannate per reati legati alla lotta armata degli anni ’70 e ’80» mentre «almeno una decina delle persone allora condannate si trova in Francia in attesa degli esiti della procedura di estradizione avviata sulla base di una richiesta formulata dal governo italiano: sono colpevoli di reati commessi tra i 30 e i 40 anni fa e da tempo hanno formalmente ripudiato la lotta armata – nulla risulta a loro carico nel periodo francese». «Certamente – si legge nella Relazione – il rendere giustizia richiede che chi ha avuto lacerazioni per le loro azioni, veda riconosciuta la colpevolezza di chi ne è stato artefice e veda uno Stato in grado di chiamare questi rei a risponderne. Ma lo stesso imperativo del rendere giustizia chiede anche che non possano essere la negatività della detenzione e l’interruzione drastica delle esistenze ricostruite la forma in cui tale esigenza si concretizzi. Richiede azioni, gesti, imposizioni che abbiano il sapore della positività e non dell’addizione di negatività a quanto di negativo già da essi commesso. E chiede anche che per chi ha scontato ormai lunghi anni di vita detentiva sia costruito un percorso di ritorno alla collettività, anche superando quel senso di durezza identitaria che le posizioni soggettive talvolta trasmettono».

Infine il Garante ha sottolineato sì la positività della Commissione presieduta da Marco Ruotolo, che ha indicato per il carcere azioni da compiere sul piano amministrativo e regolamentare, ma ne ha richiesto «una rapida attuazione: l’oggi preme. Perché la vita delle persone ristrette corre con un ritmo irreversibile ben diverso da quello degli accordi per complessive riforme». Nella Relazione, tra i numerosi interventi esterni, anche quello del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei: «Dovremmo avere un progetto per ogni persona, preparare il tempo, cioè il futuro, avviare dei processi personali positivi, di consapevolezza, di costruzione umana, di formazione» e «quando questo non c’è, cioè il futuro per i detenuti, la speranza di cura per i non autosufficienti, il valore della persona negli anziani, allora si è condannati allo spazio. E questo è inaccettabile, oltre che oneroso e senza senso».

Sul fronte immigrazione, invece, nel 2021 meno della metà delle persone transitate nei Cpr è stata effettivamente rimpatriata: «l’inefficienza del sistema di tali Centri, già rilevata nelle precedenti Relazioni al Parlamento, dunque permane e interroga su quel tempo sottratto alla vita e sulla legittimità stessa di tale privazione della libertà», ha detto Daniela de Robert, componente del Collegio del Garante. Per Stefano Anastasìa, Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante della Regione Lazio, «e indicazioni contenute nella Relazione annuale al Parlamento costituiscono uno stimolo e uno sprone per tutti i Garanti territoriali, nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, a esercitare al meglio le proprie funzioni». Angela Stella

A quando i fatti? Inferno carcere, da 74 anni la Costituzione non entra in cella. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

La relazione al Parlamento del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale è stata trasmessa, quest’anno, in diretta televisiva. Non solo i numerosi autorevoli presenti – tra cui il Presidente della Repubblica, la Presidente del Senato, il ministro della Giustizia, onorevoli e senatori – hanno potuto ascoltare le parole di Mauro Palma, ma anche «taluni nei luoghi di cui tratta la Relazione», come ha specificato lo stesso garante. Il pensiero si è allora allontanato da quella bella sala e ho immaginato una stanza della casa circondariale di Poggioreale, dove otto detenuti, stremati dal caldo, hanno il televisore acceso e seguono quanto sta accadendo nella Capitale. «Parlano di noi… della situazione delle carceri… quanta bella gente… ci sta pure il Presidente… Silenzio che inizia!».

Alle parole di saluto della Presidente del Senato, che afferma, tra l’altro, «occorre un cambio di passo… c’è un’urgenza morale di trovare soluzioni…», i detenuti applaudono e, quando il loro applauso si unisce a quello dei presenti in sala, l’entusiasmo è grande. «La signora è la seconda carica dello Stato… Avete visto, pure la prima, il Presidente, ha applaudito… d’accordo… applaudono tutti… e poi ha citato anche Voltaire, la civiltà di un Paese si misura dalle sue carceri… questa frase non so quante volte l’ho sentita, la dicono tutti, ma questa volta pronunciata da chi e a chi ha il presente e il futuro della nazione in mano, ci può far ben sperare…». All’analisi precisa, puntuale e, come sempre, garbata del garante, che ha come filo conduttore il tempo, declinato sia come quello della pena che va riempito di contenuti sia come urgenza ad intervenire, i detenuti si scambiano parole di sconforto: «Il nostro tempo è vuoto… già! Un vuoto a perdere… a perdere per noi e per la società… un tempo che dovrebbe mirare al recupero sociale, ed invece l’ozio ci abbrutisce e ci rende peggiori…».

E quando il garante afferma: «Il tempo è necessario e non va sprecato, perché è un regalo, un regalo che non si conserva», alzano le braccia verso lo schermo annuendo. Sovraffollamento, pandemia, emergenza sanitaria, cattiva informazione, immigrati, Rems, ergastolo ostativo, misure alternative, provvedimenti da adottare sono i temi toccati da Mauro Palma. Un esame approfondito della situazione reale, nel segno della Costituzione dove – come è stato evidenziato – la parola «solidarietà» compare già nel suo secondo articolo, mentre la parola «emergenza» non c’è e l’aggettivo «eccezionale» è richiamato solo per contenere i poteri non per estenderli. Nella stanza sempre più calda – ormai sono quasi le 12 e il sole è alto – gli otto telespettatori condividono quelle parole: «La solidarietà la conosciamo solo tra noi… e, a volte, la dobbiamo ricambiare… qua è tutta un’emergenza. Dicono “ti mando al fresco” quando ti arrestano e il caldo ci uccide, nemmeno un ventilatore ci danno, qui l’eccezione è la regola».

Dopo gli interventi degli altri componenti l’Ufficio del garante, Daniela De Robert ed Emilia Rossi, gli applausi dell’intera platea hanno sancito la fine della presentazione e, mentre il pubblico in piedi attendeva l’uscita del Presidente della Repubblica, ecco che il pensiero lascia Poggioreale e fa apparire sul palco uno degli otto detenuti. «Scusate signori belli! Un minutino di attenzione… Innanzitutto voglio ringraziare il Garante…una fotografia della situazione fedele e completa… le cose da fare sono chiare … qui ci siete tutti, o quasi… ma comunque quelli che possono contare… Noi contiamo solo gli annunci, le promesse non mantenute. Dal 1948 ad oggi sono 74 anni che la Costituzione non entra in carcere; dal 1975 ad oggi sono 47 anni che attendiamo l’applicazione concreta dell’ordinamento penitenziario; dal 2013 ad oggi, sono 9 anni che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato il nostro Paese per palesi violazioni di norme e per trattamenti inumani e degradanti e nulla, o comunque poco, è stato fatto. Come ha detto il garante il tempo è importante e di tempo ne è passato davvero tanto. I vostri applausi che stanno a significare? Riempiamoli di contenuti, di fatti, di azioni seguendo la linea già tracciata e indelebile della Costituzione». La sala si è ormai svuotata e un gentile commesso mi riporta alla realtà. Tutti corrono, con o senza scorta, al lavoro quotidiano. Vi sarà tempo per i detenuti?

Riccardo Polidoro

Carcere di Catanzaro poche educatrici, nessuna speranza. Francesco Iacopino e Dario Gareri, Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro e Redazione su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

“Visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, è un viaggio della speranza da infondere nei luoghi dove rischiano di prevalere sfiducia e rassegnazione. In questa estate dei suicidi che tra luglio e agosto hanno raggiunto numeri mai visti, Nessuno tocchi Caino ha fatto visite negli istituti di pena calabresi e pugliesi. Altre visite saranno effettuate nelle prossime settimane. Questa è la prima di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che abbiamo visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. Catanzaro è la parte che ben descrive il tutto di una realtà, quella carceraria, che a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire sempre più appare fuori dal tempo e fuori dal mondo.

Il nostro viaggio nella “realtà parallela” del carcere inizia in un caldo mattino di luglio. Dopo i controlli di rito, accompagnati dal Direttore e dal Comandante, con Rita, Sergio ed Elisabetta ci accingiamo a visitare le sezioni che compongono l’affollato istituto penitenziario del capoluogo calabrese, intitolato all’Agente reggino Ugo Alberto Caridi. All’ingresso, accanto alla statua della Vergine, è presente una tomba in pietra molto curata, con la foto di Whisky, cagnolino dal pelo fulvo che ha svolto il ruolo di mascotte dell’Istituto, prima di congedarsi dalla vita.

Nel tunnel che ci catapulterà nella monotona e soffocante quotidianità dei detenuti, ci concediamo una breve e piacevole sosta in cucina. Saggiamo una gustosissima granita al caffè preparata dal team di cuochi – tutti ristretti – guidato da F. V., ergastolano “ostativo”. Con i suoi “Dolci cReati”, F. cerca ogni giorno di riscattare un passato ingombrante e difficile, che a 19 anni lo ha costretto a caricarsi sulle spalle, troppo presto, il peso di una vita che non aveva scelto e di scelte che non era in grado di rifiutare, né aveva la maturità di affrontare. Dopo circa 30 anni di soggiorno in carcere e un percorso serio e “sudato” di risocializzazione, meriterebbe quel minimo di credito fiduciario che lo Stato è disposto ad accordare a chi porta cicatrici profonde come le sue. Non è l’unico, in sosta a Catanzaro, che ha creduto nella possibilità di un riscatto intramurario. Ma da queste parti, come capiremo più avanti, di permessi premio è vietato parlare. Su oltre 200 detenuti “ostativi” non se ne conta neppure uno, ci diranno mezz’oretta dopo, nella litania delle “lamentele”, i detenuti dell’AS1.

Proseguendo il percorso guidato, ci vengono incontro le poche educatrici in organico. Avvertono il bisogno di denunciare la totale paralisi della loro attività e, soprattutto, di trovare qualcuno disposto ad ascoltare il loro disperato grido di aiuto, evidentemente troppo spesso infranto sui muri sordi dell’indifferenza. In fondo, a quanti interessa sul serio la (ri)educazione dei carcerati? Su una popolazione di circa 700 detenuti, in pianta organica si registrano appena 9 educatori. Di fatto, operano in tre. Uno ogni 230. Anche un profano intuisce che in queste condizioni è impossibile progettare un trattamento risocializzante. È già un miracolo se si riescono a evadere le mansioni urgenti e basiche. Sono eroiche. Hanno persino deciso di rinunciare alle ferie per evitare che in una realtà già pesantemente rallentata da una burocrazia esasperante e pletorica, il loro meritato riposo possa rendere ancora più pachidermica la inceppata macchina istituzionale. È fin troppo chiaro che lo Stato, almeno qui, ha rinunciato alla propria opera di reinserimento sociale dei detenuti. Come se il risultato della “partita trattamentale” non producesse effetti fuori dal recinto di giuoco. Un finto risparmio. Che solo una ostinata cecità e una colpevole indifferenza possono calcolare.

Se si perde la sfida del “trattamento”, concependo il carcere come discarica sociale, si differisce il “conto” solo al check-out. E si paga due volte. Perché chi è abbandonato alla sua solitudine, ci insegnano la storia e la statistica, quando uscirà, non solo sarà più esposto alla recidiva e, quindi, a commettere nuovi reati (con inevitabile costo individuale e sociale) ma si ripresenterà, con elevata probabilità, al check-in di un nuovo istituto di pena (con ulteriore costo umano ed economico, visto che lo Stato spende 140 euro al giorno a detenuto), alimentando brutalmente il circuito vizioso. Giungiamo, finalmente, all’ultimo piano, e inizia il nostro giro. Siamo al vertice dell’Alta Sicurezza, la cosiddetta AS1, nella sezione del “fine pena mai” dedicata agli ergastolani e ai detenuti ritenuti più pericolosi, dagli ex 41bis ai promotori delle associazioni criminali. Qui non esiste la “pena di morte”, ma si conosce bene il significato della “morte per pena”.

Non è possibile sintetizzare le successive 5 ore di intensi colloqui, affrontati attraversando anche la “AS3” e la Media Sicurezza (“MS”), ma alcune disfunzioni sono emerse in modo prorompente. 

Francesco Iacopino e Dario Gareri, Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro

L’inferno del carcere di Catanzaro, zero permessi premio ai detenuti: lasciate ogni speranza voi che entrate! Dario Gareri, Francesco Iacopino su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Questa è la seconda di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che Nessuno tocchi Caino ha visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. La prima puntata è stata pubblicata sul Riformista del 12 agosto.

All’ultimo piano, al vertice dell’Alta Sicurezza, inizia il nostro giro. Con lucidità di analisi, ci vengono segnalate le aree critiche del carcere. All’apice si pone l’area sanitaria, seguita da quella lavorativa. Ma, ancor prima, in emersione sono posti i (difficili) rapporti con il locale Ufficio di Sorveglianza, particolarmente per i detenuti per reati “ostativi”. Di certo, per tali categorie di ristretti, dalla biografia penale ingombrante, è molto difficile il contemperamento tra le esigenze di difesa sociale e il rispetto dei diritti individuali. Lo comprendono anche i “residenti” al piano. Ma, aggiungono, si fa fatica ad accettare alcuni processi decisionali, poco decifrabili al di fuori di una logica di rigore.

Dopo la sentenza ‘Viola’ dei Giudici di Strasburgo e l’intervento della Corte Costituzionale, nulla è cambiato. Su 200 detenuti “ostativi”, nessuno è riuscito a ottenere un permesso premio. Neppure uno che si sia affacciato a quella finestra sulla speranza che non ammette “aprioristiche” chiusure ed è la base giustificativa dei moniti europei. Eppure non mancano, proprio a Catanzaro, esperienze serie e feconde di percorsi trattamentali “meritevoli” di un minimo credito fiduciario. E, in assenza dei protagonisti, ci vengono segnalate almeno due esperienze innegabilmente feconde. È il caso di F.V., cuoco e autore del libro “Dolci cReati”, presentato in carcere alla presenza di tutte le autorità civili e religiose, capace di disegnare un’iniziativa imprenditoriale che si spera, a breve, possa prender corpo. E anche quello di S.F., laureato in sociologia con il massimo dei voti grazie anche alla guida sapiente e illuminata del Prof. Charlie Barnao.

Sono esperienze che testimoniano plasticamente come, proprio lì dentro, con costanza e tanta forza di volontà, cambiare è possibile. Che anche la notte più buia è attesa dalle prime luci dell’alba. Esperienze che, nondimeno, non sono ancora riuscite a guadagnare un “affaccio” sul davanzale della vita, anche solo per il tempo di un permesso. Niente “premi”. Eppure, ci pare evidente che proprio l’agognato “permesso” permetterebbe a F.V. e a S.F. di mettere alla prova la loro scelta di archiviare un passato ingombrante, di scrivere un’altra storia sulle pagine ancora intonse del libro della vita. Di dimostrare che il desiderio di riscatto non è una chimera. Che a 50 anni, 30 dei quali vissuti in carcere, dopo essersi riconciliati con se stessi e con le ferite rimarginate della società, si può (si deve) sognare e segnare un percorso diverso, tracciare un solco positivo, diventare seminatori di speranza, coltivare la passione per il bene possibile, per un mondo migliore possibile e così riscattare il male commesso. Che, in fondo, la mission e la vision dei nostri padri costituenti non è un’utopia.

Quale grande iniezione di fiducia sarebbe il loro definitivo “successo”, la loro riuscita, per tutti gli altri ancora imprigionati nella rete della rassegnazione. Per quelli che non credono che la ruota del destino possa davvero cambiare direzione. Che esiste anche per loro, ciascuno per nome, la chiamata a giocare la partita di un vero riscatto. Ci vuole tanta visione umanistica e tanto coraggio! Proseguendo il viaggio, raccogliamo storie di trattamenti che appaiono, non solo ai detenuti, contrari al senso di umanità. È il caso di B.M. Nel giugno 2021 ha chiesto un permesso (consentito dall’art. 30 O.P.) per far visita al papà in “imminente” pericolo di vita. Permesso negato. Non è facile misurare lo spazio di applicazione dell’aggettivo. E così, mentre la semantica pone geometricamente un argine all’accoglimento dell’istanza, il papà, in appena due giorni, si congeda dalla vita. Senza quel saluto. L’ultimo.

Analoga storia per il detenuto C., e altri come lui, che lamentano di essere stati autorizzati solo all’uso di videochiamate. Di fronte alla più terribile delle prove, il fine vita di un familiare o di un convivente, il formante giurisprudenziale ha istituito la visita all’infermo “da remoto”, così inserendo nel catalogo dei prodotti virtuali anche il sentimento della pietà. O, ancora, la drammatica vicenda di M.C., classe 1980. Per lunghi e interminabili giorni ha accusato dolori e febbre. Raccontano i compagni di piano che avrebbe chiesto, inutilmente, di essere ricoverato in ospedale. Chi doveva assumere decisioni, ci dicono, era convinto che M.C. simulasse il proprio dolore. Dopo 15 giorni ci finirà in ospedale. Ma con una setticemia che, in brevissimo tempo, gli presenterà il conto della vita. Aveva solo 41 anni. Lascia una giovane famiglia aggrappata alle lacrime di una perdita senza senso. È umano tutto ciò?

*Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro

La terza parte. Inferno Catanzaro, nel carcere è vietato ammalarsi di notte: mancano medici, farmaci e la riabilitazione non funziona. Francesco Iacopino, Dario Gareri, Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro, su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Questa è la terza di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che Nessuno tocchi Caino ha visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. La prime due puntate sono state pubblicate sul Riformista del 12 e del 19 agosto.

L’area più critica del carcere è quella Sanitaria. Manca il medico notturno, nonostante vi siano pazienti che richiedono assistenza continua perché affetti da gravi patologie. Straziante il caso di L.I., malato di cirrosi epatica. Una notte ha accusato dolori lancinanti, che lo hanno portato a contorcersi e a piangere per ore, fin quando non è giunta la guardia medica, dall’esterno, che ne ha disposto il ricovero.

Oltre al personale, mancano anche i farmaci. Chi può, li compra da sé. Chi è povero, non ha diritto di ammalarsi. La salute, da queste parti, non è un lusso che si possono concedere tutti. E poi, in fondo, il cuore del problema: chi è disposto a indossare il camice in carcere?

I posti ci sono. Ma restano vacanti. Eppure, sulla carta, Catanzaro è considerato un centro clinico nel quale si trasferiscono i malati gravi. Sulla carta. Nella sostanza non funziona. E non solo per mancanza di medici. E così, i viaggi della speranza si trasformano in gironi infernali, con l’aggravante di aumentare il carico di un’area già al collasso. L’Istituto è anche accreditato per l’attività riabilitativo-motoria. Tra le dotazioni, una piscina e una sala per la ginnastica. Peccato, però, che la piscina non ha mai funzionato e nella sala riabilitazione vi sono una pedana e pochi attrezzi ammassati in un angolo. Morale: i detenuti vagano per la sezione con le stampelle o con la sedia a rotelle, increduli rispetto a un destino doppiamente beffardo.

Quando affrontiamo il tema, si leggono sul viso del Direttore lo sconforto e la rassegnazione. Nonostante il suo temperamento forte e la grande passione che infonde nel proprio lavoro, nota a tutti, ammette di non accettare più detenuti che necessitino di cure h/24 perché l’istituto non è (più) in grado di assicurare assistenza sanitaria continua. La situazione di disagio non muta nell’area lavoro, nella quale la mancanza di fondi si riflette sulle retribuzioni, poche e inadeguate. Parlare di paga proporzionata alla qualità e quantità di lavoro prestato è un’offesa alla Costituzione. In fondo, è vero che i salari sono (più) bassi, ma siamo pur sempre in intramoenia.

Man mano che il livello di sicurezza si “abbassa”, dall’AS1 all’AS3, aumenta il numero di detenuti per cella. In AS3, al 4° Piano, sono in 3. Chiedono che le porte siano aperte di giorno, per combattere il caldo nei pochi metri quadrati ove si fa fatica perfino a rigirarsi. Al terzo piano, mentre l’ala sinistra è stata ristrutturata, quella a destra è composta da celle vetuste, senza docce e senza acqua calda. Puoi mitigare il rigore dell’acqua fredda, utilizzando le docce in comune. E specie in autunno e in inverno, è opzione inevitabile. Il quadro non migliora nella media sicurezza, dove colpisce la natura multirazziale e multiproblematica dei residenti. Oltre alla loro povertà. Una suora tenace usa la leva del volontariato per contenere gli ulteriori effetti desocializzanti prodotti dalla miseria.

Il dato che molti di loro siano extracomunitari e tossicodipendenti, ci rafforza nella convinzione che il carcere, per tali categorie di soggetti, i disperati del nostro tempo, è sempre di più concepito quale pattumiera sociale. Altro che finestra di speranza sulla vita. Per non parlare della mancanza degli spazi ‘minimi’ indicati dalla sentenza Torreggiani. Una convinzione che diventa certezza quando, dalle periferie esistenziali, scopriamo che un piano è dedicato ai malati psichiatrici. Un grande giurista del secolo scorso, riflettendo sul tema, affermava causticamente che “nella nostra allegra Repubblica i pazzi li hanno aboliti per Legge”. Aveva ragione. Come se la malattia mentale e la tossicodipendenza possano trovare rimedio restringendo gli spazi di libertà. Soldi spesi male, che non curano le ferite, né quelle del corpo né quelle dell’anima, e non promettono prospettive di sicurezza futura. Ma per lo Stato va bene così.

Al termine del viaggio, rimane l’amarezza di un mondo pieno di potenzialità, di persone che sarebbero ben disposte a combattere la lotta col proprio destino, a mettercela tutta sulla via del riscatto, ma con le armi spuntate. Nessuno, pur volenteroso, può pensare di vincere da solo una battaglia così impegnativa. Siamo ancora lontani dal percorso di reinserimento sociale disegnato nella nostra Magna Charta. Aveva ragione Voltaire nel dire “non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La nostra, nonostante gli sforzi dei naviganti, sulla rotta della civiltà veleggia ancora in alto mare. Francesco Iacopino, Dario Gareri, Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro

Viaggio nel penitenziario napoletano. Io, giudice e quel giorno a Poggioreale: vedere il carcere ci rende meno ignoranti verso il dramma dei detenuti. Eduardo Savarese su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Fino a quando non si entra e non ci si trattiene del tempo dentro l’istituzione carceraria, è difficile comprendere effettivamente di cosa si parla quando si parla della condizione di vita in essa. Tanto più nella realtà italiana, vergogna che si perpetua nella più cinica indifferenza generale. Tanto più in Campania, e a Napoli, nel carcere cittadino di Poggioreale. Per questo in carcere bisogna entrarci, bisogna visitare i carcerati (a poca distanza da Poggioreale riposa la visione di misericordia dipinta per Napoli da Caravaggio: tra le opere di misericordia c’è anche quella), per questo bisogna pretenderlo dagli uomini che rappresentano le istituzioni, non solo giudiziarie, e che esercitano pubblici poteri.

A dicembre 2018, la giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati di Napoli organizzò appunto una “visita” dentro gli spazi di Poggioreale. Attraversammo i corridoi, ci affacciamo o entrammo dentro le celle. In alcuni reparti c’era la possibilità per i detenuti di passeggiare per un certo tempo al di fuori delle singole celle, che rimanevano aperte. Demmo un’occhiata al padiglione dove scontavano la pena le persone transgender. Siccome si era sotto Natale, per qualche minuto assistemmo alle prove per la recita che detenuti e operatori sociali stavano mettendo su. A ogni passo si respirava dolore, un peso indefinito, ma terribile, gravava addosso a noi, magistrati in visita.

Un’operatrice disse che quelle prove teatrali le stavano tenendo soprattutto i detenuti tossicodipendenti. Aggiunse che era una fatica quasi insostenibile, quella condizione duplice di carcerazione: la detenzione per esecuzione della pena e l’essere ostaggio della dipendenza da droghe o alcool. Non mi dilungo su una visita che andrebbe prescritta come medicina socio-politica ineludibile almeno una volta all’anno a beneficio di molte altre espressioni della classe dirigente cittadina, non solo della magistratura, ovviamente coinvolta in maniera diretta nell’istituzione penitenziaria.

Quel che tentai dopo qualche settimana, fu però un’esperienza di volontariato in carcere, e ne feci cenno a un caro amico, eccellente magistrato di sorveglianza, Marco Puglia (che, tra le altre cose, del teatro coi detenuti ha fatto un’esperienza umana rara e preziosa). Volli cioè fare ingresso in carcere non certo nella veste di magistrato, ma come scrittore, per tenere qualche laboratorio di scrittura creativa. Era la primavera del 2019. Incontrai una direttrice contenta e disponibile e così, in jeans e camicia, feci il mio ingresso nel padiglione dei detenuti omosessuali. Il primo e l’ultimo ingresso. E non certo a causa dei detenuti, che erano affascinati, ma anche straniti dal fatto che un magistrato facesse lì il volontario, per scrivere, o meglio per farli scrivere liberamente di sé. In quell’occasione ognuno scrisse di chi e cosa gli mancava stando in cella. Come sempre, quando la scrittura è autentica, leggemmo insieme cose piene di vita, colme di verità.

Una cosa per un detenuto in particolare fu pressante: raccontarmi la condizione bestiale in cui erano costretti a vivere. Mi fecero vedere le macchie verdi di umidità alle pareti, anche nello stanzino che ci diedero a disposizione per il laboratorio. Mi spiegarono il freddo che pativano. Mi chiesero perché non ottenevano risposta alle loro richieste. Per me fu troppo: essere gettato (in senso esistenzialista) in quella condizione all’improvviso, senza la presenza di un assistente sociale, di un intermediario dell’istituzione, e dover rivestire i panni incoerenti di uno che era parte dell’istituzione, in qualche modo, e che però andava lì a fare il volontario e l’artista, non seppi gestirlo. Non ci tornai più. Probabilmente il lunedì successivo mi attesero. Mi è rimasto un senso di colpa importante per quella sorta di abbandono. E spero che, prima o poi, troverò il modo di recuperare.

Di certo non ho dimenticato quei volti, quelle storie, quelle espressioni, e anche quella breve gioia di poter prendere la penna e scrivere, anche solo per esprimere un momento di nostalgia nell’invenzione. Non sono mai stato magistrato di sorveglianza. Non ho mai approfondito i grandi temi strutturali dell’istituzione carceraria. Non saprei elaborare metodi e soluzioni. Posso solo dire che almeno la gelida patina di indifferenza e ignoranza che scende sui nostri sguardi quando si tratta della condizione dei detenuti, almeno quella abbiamo il dovere e il potere di rimuoverla. Per vedere, ascoltare, comprendere. Quanto meno per non smettere di “visitare”. Eduardo Savarese

Un contenitore che marcisce. Così è il carcere bollente in estate. ISABELLA DE SILVESTRO su Il Domani il 21 agosto 2022

Oltre alle zanzare, nelle celle dilagano blatte e acari. I detenuti vengono colpiti dalla scabbia, docce e ventilatori sono pochissimi. A Milano e Napoli si sono verificate proteste, il caldo straziante aumenta anche i casi di suicidio.

Aprire le finestre serve a poco: le strutture carcerarie, vecchie e fatiscenti, moltiplicano l’afa estiva. L’aria è stantia, l’umidità imperversa e gli odori ristagnano. Le alte temperature associate ad elevati valori di umidità favoriscono il diffondersi di muffe e acari.

Anche la doccia è un lusso per la maggioranza dei detenuti: il 58 per cento delle celle nelle galere italiane ne è privo, malgrado il regolamento del 2000 desse tempo cinque anni al sistema carcerario per dotare di docce tutte le celle delle strutture penitenziarie. A Opera una sezione di 54 persone dispone di quattro docce, una delle quali è rotta. Le pareti circostanti sono ricoperte di muffa.

Entrare in un carcere ad agosto è un’esperienza straniante. I lunghi corridoi in genere trafficati appaiono spogli e silenziosi. Gli agenti penitenziari sono avvolti da una nuvola di sopore, qualcuno sonnecchia sulla sedia, qualcun altro ascolta la radio per tenersi sveglio. L’impressione generale è che la svogliatezza e l’incuria, quelle che incombono sugli ambienti carcerari durante tutto l’anno, ad agosto prendano definitivamente il sopravvento.

La scuola carceraria durante la pausa estiva è utilizzata dai pochi detenuti iscritti all’università che nelle ore del mattino possono occupare le aule per preparare gli esami della sessione estiva. La temperatura delle aule-celle è infernale, il silenzio è spezzato dal ticchettio incessante delle infiltrazioni che sgocciolano sui banchi e sul pavimento, scrostano le pareti e rendono irrespirabile l’aria.

Tra parassiti e cibo marcio

Aprire le finestre serve a poco: le strutture carcerarie, vecchie e fatiscenti, moltiplicano l’afa estiva. L’aria è stantia, l’umidità imperversa e gli odori ristagnano. Le alte temperature associate ad elevati valori di umidità favoriscono il diffondersi di muffe e acari. Tra i detenuti sono molti i casi di scabbia. Si ha l’impressione di stare dentro un contenitore che marcisce a vista d’occhio. Un detenuto mostra la pelle arrossata da strane punture su tutto il corpo. Oltre alle zanzare, in parecchie celle dilagano le blatte.

Il cibo inviato dalle famiglie, in mancanza di un numero sufficiente di frigoriferi, si guasta velocemente e deve essere buttato. Nelle cosiddette “stanze di pernottamento” si suda in due, in quattro, in sei, uno sopra l’altro, stipati, col naso a pochi centimetri dalla branda superiore o dal soffitto.

Nel carcere milanese di Opera nelle scorse settimane i detenuti hanno protestato battendo pentole e stoviglie contro le sbarre delle celle. Chiedevano ventilatori. L’amministrazione ha risposto mettendo in funzione due ventilatori in corridoio per l’intera sezione. Una protesta simile è avvenuta a Napoli il 7 giugno scorso: fuori dal penitenziario di Poggioreale i familiari dei detenuti insieme agli attivisti hanno manifestato per denunciare le misere condizioni di vita in una delle carceri più sovraffollate del paese, dove sono ospitati 700 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare: 2.200 anziché 1.500, in pratica il 50 per cento in più.

In galera l’estate è la stagione più dura e, nonostante il livello di malessere dipenda dalla struttura del carcere, dallo spessore delle mura e dalla posizione, il disagio riguarda tutti i penitenziari.

MATERASSI BAGNATI

Racconta un detenuto: «Sulla mia cella batte il sole fino a sera. Per riuscire ad addormentarmi mi stendo sul pavimento. Dopo un paio d’ore mi sveglio per il mal di schiena e mi trasferisco sulla brandina, dove sudo fino a bagnare addirittura il materasso. In sezione non ci sono lavatrici e ogni giorno laviamo a mano le lenzuola fradice di sudore».

Le celle delle prigioni italiane sono stanzini incandescenti dove le temperature possono raggiungere i 40 gradi. Ottenere un ventilatore è quasi impossibile. Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha permesso alle amministrazioni carcerarie di metterli in vendita, ma con molte limitazioni: le pale rotanti sono considerate pericolose e si prediligono i ventilatori a batteria dal momento che spesso nelle celle mancano le prese di corrente e, quando ci sono, si teme un sovraccarico dell’impianto elettrico.

Così solo un’esigua minoranza ottiene un minimo di sollievo dall’aria mossa da un ventilatore. Il resto della popolazione detenuta è condannato a rigirarsi nel letto senza riuscire a prendere sonno nell’afa soffocante. La situazione è tragica soprattutto per chi abita le celle che hanno da una parte finestre schermate da fittissime grate che impediscono quasi del tutto il passaggio d’aria, dall’altra la chiusura ermetica delle porte blindate.

NON C’È ACQUA

Anche la doccia è un lusso per la maggioranza dei detenuti: il 58 per cento delle celle nelle galere italiane ne è privo, malgrado il regolamento del 2000 desse tempo cinque anni al sistema carcerario per dotare di docce tutte le celle delle strutture penitenziarie. A Opera una sezione di 54 persone dispone di quattro docce, una delle quali è rotta. Le pareti circostanti sono ricoperte di muffa.

Ma c’è di peggio. In diverse carceri manca direttamente l’acqua. Come a Santa Maria Capua Vetere, dove la struttura penitenziaria non è collegata alla rete idrica comunale e si è affrontato il problema consegnando a ogni detenuto quattro bottiglie d’acqua al giorno. In altre galere l’acqua è razionata.

Non si tratta di una misura legata alla siccità straordinaria di quest’anno, ma di una situazione che si ripresenta ogni estate, senza che le amministrazioni intervengano in maniera organica con misure risolutive. Mancano i fondi per ristrutturazioni e bonifiche urgenti e si procede mettendo toppe su strutture che, anche se il modo di dire suona beffardo, fanno acqua da tutte le parti.

PASSEGGIO SOFFOCANTE

Nei regimi a celle chiuse, dove si è condannati a passare venti ore al giorno sulla propria branda, l’unico momento di respiro è rappresentato dal passeggio. Ma i cortili di cemento, su cui è concesso camminare per un paio d’ore la mattina e un altro paio subito dopo pranzo, più che un sollievo assomigliano a una forma di tortura supplementare. Niente prati a smorzare il riverbero del caldo o alberi sotto la cui ombra ci si possa riparare.

Alcuni detenuti passeggiano a petto nudo, bagnandosi di tanto in tanto con una bottiglietta d’acqua per resistere al caldo. I carcerati più anziani sono spesso costretti a rinunciare all’unica attività fuori dalla cella perché il sole delle due del pomeriggio risulterebbe per loro insostenibile.

L’agosto in galera è un tempo speso a boccheggiare, augurandosi che passi in fretta. Tutte le attività che alleviano la monotonia e l’angoscia della detenzione cessano. La scuola è chiusa, i laboratori e i seminari sono sospesi e sono pochissimi i volontari che attraversano le porte blindate delle strutture per raggiungere i detenuti. Chi lo fa è deriso più o meno benevolmente dalle guardie che non si stufano di chiedere se in agosto il malcapitato non abbia di meglio da fare che entrare in galera per il suo volontariato.

PIÙ VIOLENZE

La mancanza di stimoli e di relazioni con gli esterni, insieme alle temperature infernali e all’insalubrità dell’ambiente, alimentano tensioni e disordini fra i detenuti. In estate si registra una crescita di eventi critici come risse e violenze, chiaramente collegati all’acuirsi dei sintomi di depressione e ansia.

Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa l’Italia si colloca al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere, dove l’incidenza del suicidio è 16 volte più alta che fuori. Quest’anno si sono già tolte la vita 39 persone detenute, una cifra che non si raggiungeva da oltre un decennio, e gli episodi di autolesionismo sono all’ordine del giorno.

La pena è inflitta anche ai visitatori, perlopiù parenti dei detenuti, che in molti casi si vedono costretti ad attendere per ore sotto il sole il turno del colloquio. Le file con genitori anziani, bambini ancora in fasce o donne incinte prese a sventolare ventagli ed asciugarsi il sudore descrivono un malfunzionamento e un’ingiustizia verso persone innocenti che, se durante l’anno è grave, d’estate si fa insopportabile nella sua insensatezza.

L’estate carceraria è insomma l’inferno dell’inferno. Il caldo non fa che esasperare problematiche antiche che vengono aggirate da decenni e per le quali non è sufficiente qualche intervento sporadico: sovraffollamento, strutture fatiscenti, lungaggini burocratiche, mancato rispetto dei diritti e della dignità delle persone detenute e insufficienza di attività rieducative. Tutte cose che con la calura di Ferragosto si vedono molto meglio. 

ISABELLA DE SILVESTRO. Giornalista freelance, classe 1997. Scrive di diritti umani, cultura e sociale. Ha vissuto in Colombia, Germania e Inghilterra per poi tornare in Italia, dove ha conseguito la laurea in Storia. 

Dario Gareri, Francesco Iacopino. Il disinteresse della politica per le carceri. “Siamo cani in un canile”, la parole di Cagliari prima di uccidersi: cari politici andate nelle carceri. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Dopo l’appello e l’inizio del digiuno di Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, che tra l’altro si rivolge ai partiti perché inseriscano nel proprio programma di governo sia riforme sull’esecuzione penale e sull’ergastolo ostativo, ma anche amnistia e indulto, ci piace immaginare che ci sarà una gara a chi arriverà primo, tra sinistra, centrodestra e terzo polo.

Primo a gridare che la situazione della giustizia e del carcere con i suoi suicidi è uno scandalo, e che risolvere questo scandalo è il primo punto di un programma di governo su cui il 25 settembre si chiederanno i voti ai cittadini. Così come vorremmo veder passare davanti ai nostri occhi la lunga fila di deputati e senatori che in questi giorni affollano gli ingressi delle carceri dove 53, dicasi cinquantatré (se non sono aumentati mentre scriviamo) esseri umani, cioè persone, donne e uomini, hanno detto semplicemente “basta”. Si sono uccisi. Gesto di ribellione nei confronti dello Stato che, dopo aver preso in consegna i loro corpi, non ha saputo averne cura, anzi ha pensato bene di sopprimerli. Così il problema non esiste.

I rappresentanti delle istituzioni sono autorizzati dall’ordinamento penitenziario nato dalla riforma carceraria del 1975 a visitare gli istituti di pena senza particolari autorizzazioni, per verificare le condizioni di vita e di salute sia dei prigionieri che degli agenti di polizia penitenziaria. Sono autorizzati, ma in genere non lo fanno. L’argomento non interessa, semplicemente. Anche coloro che si occupano di giustizia e che si appassionano al processo penale, ritengono il momento della condanna definitiva il punto terminale dell’amministrazione della giustizia. Tutto quel che succede dopo, e che è la conseguenza che separa la buona dalla cattiva giustizia, non li riguarda più. Il parlamentare in genere si risveglia di soprassalto solo quando capita che finisca in galera un suo amico o compagno di partito.

Ecco allora che ci si ricorda di quell’articolo 57 dell’ordinamento, e si scopre che esiste la custodia cautelare come privazione della libertà personale prima del processo, e il sovraffollamento e l’invivibilità dell’istituzione totale. Ma pochissimi sono i deputati e i senatori che sanno, che hanno visto e toccato con mano che cosa è quel luogo che tiene prigionieri i corpi e distrugge le persone. Quando – e sono ormai passati quasi vent’anni- il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nelle lettere scritte prima di togliersi la vita diceva ”siamo cani in un canile”, non parlava solo di sé e della propria sciagurata situazione processuale. Voleva dire, e a qualcuno lo aveva anche spiegato nel dettaglio, che la separatezza del luogo dalla società comportava anche il disinteresse delle istituzioni nei loro confronti.

Non è un caso che, nei giorni in cui San Vittore era pieno di politici arrestati nelle inchieste di Tangentopoli, rinchiusi tutti nel medesimo raggio, lui, pur potendolo fare, aveva rifiutato di andare nel luogo “privilegiato”, meta delle visite di tanti parlamentari. Lui aveva voluto toccare con mano la realtà vera, vi si era immerso, aveva vissuto insieme a lui la sorte di quel ragazzo del Ghana che, in un processo celebrato senza interprete, aveva beccato dieci anni di condanna in dieci minuti. I problemi di quel 1993 erano gli stessi di oggi. Il sovraffollamento che, come dice Rita Bernardini, vuol dire illegalità, e l’abbandono, il disinteresse.

Eppure, a partire dagli operatori penitenziari, dal medico allo psicologo fino all’educatore, e poi i direttori e i giudici di sorveglianza, fino ad arrivare al neo-direttore del Dap Carlo Renoldi e alla ministra Marta Cartabia, quante persone per bene e di buon cuore ci sono a occuparsi della vita e della morte dei detenuti? Tante. Tante persone per bene e di buon cuore. Pure, non se ne esce. Quel che diceva Cagliari vent’anni fa è ancora lì, cani in un canile. E in 53, dall’inizio dell’anno, hanno detto basta. Il più giovane, 25anni, incensurato, ha usato il sacchetto di plastica, proprio come quell’antico presidente dell’Eni, poi si è rannicchiato sotto le coperte e ha chiuso gli occhi.

Dove sono i leader politici, di destra sinistra e centro, mentre si sta consumando questa strage? Dove sono i direttori dei grandi giornali e i famosi editorialisti? Ce ne fosse almeno uno pronto a dire che si vergogna perché ha lasciato sola Rita Bernardini con il suo digiuno. Che è pieno di rossore perché, pur sapendo che “una telefonata allunga la vita” non ha strillato perché un po’ di umanità non entri dalla porta principale delle carceri, perché un po’ di giustizia non entri nei tribunali, perché un grosso faro vada a illuminare questo mondo dove non si curano i malati psichici, non si aiutano i tossicodipendenti, non si contano gli atti di autolesionismo e i tentati suicidi, oltre a quelli realizzati. E cavolo, deputati e senatori, uscite un attimo dai vari cerchi magici dove state sbavando per la candidatura e girate gli occhi a guardare il mondo. È mondo anche quello, sapete? E un giorno potrebbe togliervi il consenso, persino il voto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La crisi delle prigioni. Finché c’è il carcere non ci sarà giustizia, serve una rivoluzione copernicana. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

Un buffetto di incoraggiamento arriva all’Italia da Strasburgo appena poche ore dopo che uno sconsolato Garante per le persone private della libertà Mauro Palma lascia l’incarico dopo sette anni lanciando l’ennesimo allarme sul carcere e il permanente tragico sovraffollamento. L’Italia, dice il Consiglio d’Europa, è uno dei sette Paesi che hanno registrato un “aumento significativo” dell’uso della libertà vigilata. La misura di sicurezza è infatti aumentata del 6% tra il 2020 e il 2021, tanto che al 31 dicembre scorso il numero di persone sottoposte a libertà vigilata (93.415) superava di 40.000 unità il numero dei detenuti. Il dato è derivato dalla ricerca “Space II” condotta ogni anno dall’Università di Losanna sulle misure alternative al carcere adottate dagli Stati membri del Consiglio d’Europa.

Numeri che, presi in sé, paiono davvero confortanti. Anche se poi la stessa ricerca osserva che tra il 2019 e il 2020 l’aumento del ricorso alla libertà vigilata era stato del 10%. E anche se occorre ricordare che stiamo parlando dei due anni appena trascorsi, che sono stati un periodo veramente anomalo per tutti, cittadini liberi o detenuti. L’emergenza per l’epidemia da Covid è stata affrontata in modo sensato prima di tutto dal procuratore generale della cassazione Salvi, che aveva invitato i magistrati ad arrestare di meno, e poi dallo stesso ministro della giustizia Bonafede con il progetto “Cura Italia”, e infine dal capo del Dap Basentini con la famosa circolare in cui sollecitava la sospensione dell’espiazione della pena per detenuti anziani o malati, provvedimento che alla fine gli costerà il posto. E poi la situazione è cambiata e si è tornati ai numeri precedenti. Tutto quel che è accaduto nel biennio che sta alle nostre spalle va dunque letto e riletto senza gli occhiali dell’emergenza. Facendo però anche una semplice constatazione: se Salvi, se l’attuale ministro della giustizia, se l’attuale capo del Dap rendessero permanenti quegli allarmi e soprattutto quel modo di ragionare, i numeri delle persone recluse sarebbero ben diversi.

Sempre che sia poi così rilevante stare attaccati a numeri e percentuali per valutare che cosa è il carcere oggi. Perché bisognerebbe prima di tutto afferrare il bandolo da cui parte il filo rosso che percorre le vite delle persone cui viene tolta la libertà. Parliamo della giustizia e del processo, che sono la nuova violenza di Stato, quella che ha preso il posto della tortura, dello squartamento, della pena di morte. È un problema culturale. Nessuno, o quasi, oggi potrebbe dirsi d’accordo sull’amministrazione della giustizia come veniva esercitata nel seicento, così come sulle pene corporali o sulla schiavitù. Però, se alle stesse persone chiediamo di pronunciarsi sull’abolizione dell’ergastolo, e prima di tutto su quello cosiddetto “ostativo”, cioè quello che impedisce a determinati soggetti di fruire dell’applicazione di misure alternative, ecco che sotto sotto vedremmo rispuntare quel desiderio di chiudere la cella e buttare la chiave che è poi la cultura del “monopolio del carcere” come applicazione prevalente se non unica della pena.

Ma aiutiamoci ancora con i numeri per constatare come questa cultura del “monopolio del carcere” sia quella prevalente nel corpo della magistratura. L’ostilità da parte dei dirigenti sindacali delle toghe nei confronti di un quesito referendario che cercava di porre limiti alla custodia cautelare. E la constatazione, rilevata dai dati forniti due giorni fa dal Garante, che un terzo della popolazione carceraria è tuttora composta da persone non ancora processate e innocenti secondo la Costituzione. Due elementi espliciti di questa mentalità, che esplode ogni volta in cui, davanti a clamorose assoluzioni, ascoltiamo l’ipocrita lamento di chi chiede le scuse degli avversari politici. Ma la questione non riguarda gli innocenti e i colpevoli. Riguarda il diritto all’integrità del proprio corpo, al suo bisogno di essere libero. Soprattutto in assenza di condanna.

Ha qualche senso il fatto che ci siano in questo momento nelle prigioni italiane 1.319 persone che sono rinchiuse perché condannate a una pena inferiore a un anno e altre 2.473 a meno di due? Mauro Palma nella sua relazione ha giustamente definito “superfluo…chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta”.

È vero, perché quel che conta è il fatto che il giudice che ha preso la decisione sa perfettamente che quei pochi mesi di prigionia non potranno che cambiare in peggio la vita di quel condannato, destinato non certo alla rieducazione prevista dalla Costituzione. Ma nel migliore dei casi destinato alla noia, alla perdita di minuti, ore e giorni che una misura alternativa al carcere avrebbe potuto far utilizzare in modo migliore. Per non parlare dei famosi “residui di pena”. Parliamo di persone perfettamente reinserite nella società e nel mondo del lavoro, chiamate improvvisamente, nel momento in cui una sentenza diviene definitiva o viene perfezionato un ricalcolo, a consegnarsi a un cancello che si apre su un mondo separato, che non è più violento in senso letterale, ma violento nella sua inutilità e nocività.

Ecco perché i dati sul carcere, il suo perenne sovraffollamento, i suicidi, le patologie psichiche sempre trascurate, la tossicodipendenza volutamente ignorata, vanno giustamente sempre raccontati e segnalati con un certo allarme nel quadro del loro punto di partenza, il processo. Pur senza nascondere nessun dato di realtà. Anche perché, se i posti per “alloggiare” dignitosamente i prigionieri sono cinquantamila e ne devi stipare quattromila in più, si sta stretti e scomodi. E se sei malato o comunque fragile, diventi una persona a rischio. E ventinove suicidi (con altre diciassette morti da accertare) dall’inizio dell’anno sono un dato pazzesco, una cosa da strapparsi i capelli dalla disperazione. E aggiungiamo anche che sono tante le persone di buona volontà che ogni giorno si adoperano per migliorare il carcere e la vita di chi vi alloggia. A partire dalla ministra Cartabia, che si appresta a inaugurare con il collega Colao due laboratori per attività nel settore delle telecomunicazioni nelle carceri di Torino e Cagliari, con importanti progetti per il reinserimento sociale attraverso il lavoro.

Così come riteniamo fondamentale il fatto che nelle carceri italiane si dedichi del tempo allo studio, specialmente nel settore dei giovani adulti e degli stranieri. Anche se è sconvolgente apprendere dalla relazione del Garante che nell’anno passato ben 3.385 reclusi, di cui oltre 300 italiani, hanno seguito corsi di alfabetizzazione. Cioè non sapevano leggere né scrivere. Ma altri 4.000 hanno frequentato corsi delle scuole elementari e medie, e poi 6.000 sono andati alle superiori e circa 1.200 all’università. Cui vanno aggiunti coloro che hanno frequentato corsi professionali che hanno aperto loro la strada verso un futuro da uomini e donne liberi e possibilmente reinseriti con un lavoro. In trentanove si sono persino laureati! Ma stiamo parlando sempre di buona volontà, cioè di aggiustamenti sul punto terminale di quel filo rosso che parte dal processo e da quella cultura del “monopolio del carcere” come unica forma non solo di applicazione della pena ma anche come soluzione della devianza e dei conflitti sociali. È lì che andrebbe invece affondato il bisturi di una vera rivoluzione copernicana, oggi più che mai indispensabile.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

 Carcere di Lecce, Garante: «Detenuto di 250 kg non può stare in cella». Ciambriello, 'trasferito da Lecce a Poggioreale, inconcepibile'. La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Luglio 2022

Un detenuto di 250 kg è stato trasferito dalla casa circondariale di Lecce al Carcere di Poggioreale. Una decisione «inconcepibile» la definisce il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello.

«Non capisco la logica di questo trasferimento - spiega - Già è per me inconcepibile che Francesco, un uomo di 48 anni, che pesa 250 chili, ha diverse fratture, è cardiopatico ed ha già avuto quattro infarti, stia ancora in carcere e non in detenzione domiciliare in una struttura sanitaria o ospedaliera. Ancor più inaccettabile è che adesso stia in un istituto di pena come Poggioreale».

Il caso di Francesco si somma ad altri casi, primo tra tutti quello di Mario, l’uomo di 270 chili che da Poggioreale, proprio nei giorni scorsi, è stato mandato ai domiciliari.

«Troppi ammalati, anziani, detenuti con disturbi psichiatrici che riempiono le nostre carceri. Per loro dovrebbero essere pensate soluzioni diverse, misure alternative, anche in ragione del fatto che nelle carceri campane mancano medici, sia generici che specialistici, infermieri, psichiatri e psicologi - sottolinea il garante - Lo Stato non può rimanere inerme davanti a storie come quelle di Francesco, che merita di scontare la sua pena in maniera dignitosa e soprattutto avendo le necessarie cure e non lontano da casa, da sue familiari, sapendo, per esempio, che la Casa circondariale di Bari ha un reparto Sai ben attrezzato e già anche collegato con il locale ospedale e con la facoltà di Medicina dell’Università barese. Le strutture carcerarie, così come Poggioreale, non possono farsi carico di un caso clinico così delicato. Si corre un rischio troppo alto». 

"Si corre un rischio troppo alto". Detenuto obeso (250 kg), cardiopatico e infartuato, nuovo caso clinico a Poggioreale: “Perché trasferirlo qui?” Redazione su Il Riformista il 22 Luglio 2022 

Pesa 250 chili, ha diverse fratture, è cardiopatico e ha già avuto quattro infarti. E’ il profilo del detenuto arrivato nelle scorse ore nel carcere di Poggioreale a Napoli. Prima era ristretto nella Casa circondariale di Lecce e, su disposizione del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, adesso allocato nel reparto Sai (Servizio di assistenza intensificato) del carcere di Poggioreale.

“Non capisco la logica di questo trasferimento – dichiara il Garante campano, Samuele Ciambriello – Già è per me inconcepibile che Francesco, un uomo di 48 anni, che pesa 250 chili, ha diverse fratture, è cardiopatico ed ha già avuto quattro infarti, stia ancora in carcere e non in detenzione domiciliare in una struttura sanitaria o ospedaliera. Ancor più inaccettabile è che adesso stia in un istituto di pena come Poggioreale”.

Il caso di Francesco è solo l’ultimo di una serie episodi analoghi, primo tra tutti quello di Mario, l’uomo di 270 chili che da Poggioreale, proprio nei giorni scorsi, è stato mandato ai domiciliari dopo vari appelli e ben tre anni in cella.

“Troppi ammalati, anziani, detenuti con disturbi psichiatrici che riempiono le nostre carceri. Per loro dovrebbero essere pensate soluzioni diverse, misure alternative, anche in ragione del fatto che nelle carceri campane mancano medici, sia generi che specialistici, infermieri, psichiatri e psicologi. Lo Stato non può rimanere inerme davanti a storie come quelle di Francesco, che merita di scontare la sua pena in maniera dignitosa e soprattutto avendo le necessarie cure e non lontano da casa, da sue familiari, sapendo -per esempio – che la Casa circondariale di Bari ha un reparto Sai ben attrezzato e già anche collegato con il locale ospedale e con la facoltà di Medicina dell’Università barese. Le strutture carcerarie, così come Poggioreale, non possono farsi carico di un caso clinico così delicato. Si corre un rischio troppo alto”.

I drammi dietro le sbarre. La storia di Francesco, 250 kg e 4 infarti. Il regalo del Dap: “Mandatelo nel carcere di Poggioreale”. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Luglio 2022 

La settimana scorsa era stato il caso di Mario a destare scalpore e indignazione tra i garantisti e tra coloro che davvero credono nei diritti e nei principi della Carta costituzionale. E la “giustizia” era subito corsa ai ripari provando a salvare il salvabile. Il caso era quello di Mario, detenuto obeso di 41 anni, con un anno e quattro mesi di pena da scontare, tenuto in carcere nonostante i suoi 270 chili e la cardiopatia e messo ai domiciliari solo da alcuni giorni. Non era un caso isolato. E lo conferma la storia di Francesco, un detenuto di 250 chili che proprio ieri è stato trasferito nel carcere di Poggioreale.

«Il carcere non è un luogo per obesi e ammalati, ancor meno un carcere che non ha una struttura sanitaria adeguata per questi casi», tuona il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, denunciando l’ennesimo episodio che mette in evidenza distorsioni, incoerenze, criticità del sistema penitenziario che finiscono molto spesso per mortificare i più elementari diritti. È infatti di ieri la notizia del trasferimento del detenuto di 250 chili e con una serie di problemi di salute non da poco. Il detenuto, dapprima recluso nella casa circondariale di Lecce, è stato portato, su disposizione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nel reparto Sai del carcere di Poggioreale. «Non capisco la logica di questo trasferimento – aggiunge il garante campano – Già è per me inconcepibile che Francesco, un uomo di 48 anni, che pesa 250 chili, che ha diverse fratture, è cardiopatico ed ha già avuto quattro infarti, stia ancora in carcere e non in detenzione domiciliare in una struttura sanitaria o ospedaliera. Ancor più inaccettabile è che adesso stia in un istituto di pena come Poggioreale».

Già, Poggioreale, il carcere vetusto e sovraffollato dove già un detenuto in salute incontra mille e una difficoltà, immaginarsi un detenuto obeso e con un quadro sanitario precario. Poggioreale, il carcere, inoltre, dove il personale sanitario scarseggia quanto quello che garantisce la rieducazione e dove anche gli agenti della polizia penitenziaria non sono in numero sufficiente a far fronte al surplus di reclusi e al deficit di personale educativo e di assistenza. Come si farà, per esempio, a garantire l’ora d’aria a un detenuto nelle condizioni di Francesco? Come si farà a coinvolgerlo in percorsi di riabilitazione? Come si farà ad assisterlo e curarlo? Quante domande aperte lascia questa storia. Ma davvero è questo il carcere con cui pensiamo di risolvere i problemi della società, ripristinare la legalità e garantire il rispetto della legge e dei diritti? Il caso di Francesco si somma a chissà quanti altri. Il fatto è che il problema è annoso e rientra tra le aberrazioni del sistema carcere da anni mai risolte.

«Troppi ammalati, anziani, detenuti con disturbi psichiatrici che riempiono le nostre carceri. Per loro dovrebbero essere pensate soluzioni diverse, misure alternative, anche in ragione del fatto che nelle carceri campane mancano medici, sia generi che specialistici, infermieri, psichiatri e psicologi. Lo Stato – sottolinea il garante Ciambriello – non può rimanere inerme davanti a storie come quella di Francesco, che merita di scontare la sua pena in maniera dignitosa e soprattutto avendo le necessarie cure e non lontano da casa, dai suoi familiari, sapendo, per esempio, che la casa circondariale di Bari ha un reparto Sai ben attrezzato e già anche collegato con il locale ospedale e con la facoltà di Medicina dell’università barese. Le strutture carcerarie, così come Poggioreale – conclude il garante – , non possono farsi carico di un caso clinico così delicato. Si corre un rischio troppo alto»

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Bimba di sei mesi deve essere operata, ma il padre non può registrarla all’anagrafe. L’uomo è detenuto in Alta sicurezza a Cosenza e la piccola non ha ancora né Codice fiscale né medico, entrambi necessari per prenotare l’intervento. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'8 giugno 2022.

C’è una bambina di sei mesi che deve fare una operazione urgente. Per avere il riconoscimento di paternità è necessaria la presenza del padre, ma l’uomo è detenuto in Alta sicurezza e da circa sette mesi è in attesa della concessione del permesso per recarsi all’anagrafe: per ben tre volte, le richieste sarebbero state rigettate. Per poter programmare l’intervento, tramite il centro unico di prenotazione (Cup), è necessario che la piccola abbia un medico di base, ma senza la registrazione all’anagrafe la piccola non è ancora in possesso neanche del Codice fiscale e quindi per lo Stato italiano non esiste.

Una vicenda denunciata dall’Associazione Yairaiha Onlus e segnalata al ministero della Giustizia, al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al Garante nazionale delle persone private della libertà. L’associazione denuncia che il diritto alla salute di una minore ancora in fasce non possa essere pregiudicato da ulteriori lungaggini burocratiche e, per tale ragione, «portiamo alla vostra attenzione la seguente segnalazione». Segnala che a M. L., detenuto in Alta sicurezza presso la Casa Circondariale di Cosenza “S. Cosmai”, da circa 7 mesi non viene concesso di potersi recare all’anagrafe di Casali del Manco (Cs) per il riconoscimento di paternità della figlia, nata il 30 novembre del 2021.

«La bambina – scrive Yairaiha Onlus – necessita di un delicato intervento al più presto ma, a causa del mancato riconoscimento di paternità, non dispone del Codice fiscale e non esiste agli occhi dello Stato!». Il detenuto, che teme per l’aggravarsi delle condizioni di salute della piccola, ha presentato per ben tre volte regolare istanza sia alla Corte d’Appello che al Magistrato di Sorveglianza competente, ma – come segnala l’associazione – tutte le richieste sono state rigettate. Nella segnalazione, Yairaiha Onlus rileva che tale situazione di stallo si pone di certo in contrasto con il superiore interesse del minore, tutelato da Convenzioni nazionali e internazionali: la posizione giudiziaria del padre, infatti, «non dovrebbe costituire un pregiudizio per diritti costituzionalmente garantiti di chi non ha commesso alcun reato, soprattutto se si tratta di una bambina in tenera età».

“D’estate il carcere è rovente, i nostri cari trattati come bestie in 10 in una stanza”, la protesta dei familiari dei detenuti a Poggioreale. Rossella Grasso su Il Riformista il 7 Giugno 2022

“L’estate è senza dubbio il momento peggiore per i detenuti: in 12 o 13 persone in celle strettissime, fa caldissimo, non ci sono ventilatori o frigoriferi. Non c’è aria, è come l’inferno. E io che sono stato un detenuto lo so bene. Per questo sono sceso in piazza per protestare, per dare voce a chi sta in carcere e non può dire niente”. E questo che ha detto un ragazzo di 30 anni, arrivato fuori al carcere di Poggioreale per protestare contro le condizioni che definisce “disumane” in cui vivono i detenuti. Suo padre è attualmente ristretto nel carcere napoletano e lui non si dà pace: conosce bene cosa significa essere ristretto nel carcere più sovraffollato d’Europa. Ed è proprio lì che si è radunato un gruppo di altri familiari dei detenuti delle carceri di tutta Italia sono accorsi al grido di “dignità” per i detenuti i tutte le carceri. Al loro fianco, in marcia, il Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello e quello del Comune di Napoli, Pietro Ioia.

“Famiglie dei ristretti in movimento – siamo la voce dei detenuti”, è lo striscione che ha aperto il corteo che dai cancelli del carcere si è spostato lungo tutto il perimetro del penitenziario. Una protesta pacifica per far accendere i riflettori sulla tutela dei diritti umani delle persone ristrette in tutta Italia perché “uno ha sbagliato, ha fatto un reato e deve pagare per questo, ma con dignità”. “D’estate stanno in mezzo alle blatte e ai topi”, dice una mamma preoccupata per il figlio ristretto in un carcere del nord. “Ieri mio marito mi ha chiamata dal carcere e mi ha detto che faceva un caldo micidiale, non si può vivere così…è dura”, dice un’altra signora arrivata da Brindisi per protestare senza riuscire a trattenere le lacrime.

“In carcere petto di pollo a peso d’oro”

“Abbiamo diritto solo a una chiamata di 10 minuti che se hai protestato o fatto qualcosa non ti fanno nemmeno fare – continua la signora di Brindisi – Hanno sbagliato e devono scontare una pena ma umanamente. Qui invece vivono come gli animali”. C’è anche un altro problema che scalda gli animi dei familiari: i costi in carcere. “Un pacco di piatti di plastica in carcere costa 7 euro – dice la mamma di un altro detenuto – Hanno comprato di tasca loro i ventilatori, pagandoli 20 euro e poi devono pagare 3 euro al mese per la corrente”. “Mio figlio è detenuto in un carcere al Nord Italia – continua un’altra mamma – un petto di pollo è arrivato a costare 17 euro. Poi dicono che un detenuto costa allo Stato 150 euro al giorno. Ma da mangiare è sempre poco”.

“Non c’è più l’essere umano nel carcere – dice una ragazza ventenne con uno striscione in mano – è solo un numero di matricola”. “Anche noi familiari lo diventiamo – le fa eco un’altra ragazza – Sappiamo che la penitenziaria sta in affanno però ogni volta per fare 1 ora di colloqui arriviamo in carcere alle 8 e andiamo via alle 3. Ore e ore in attesa. Anche la distanza materiale fa il suo nel rendere la vita di detenuti e i loro familiari sempre più difficile. La territorialità della pena in Italia sembra un lusso per pochi. Succede così che la signora Paola di Catania debba percorrere ogni mese 580 chilometri per andare a trovare per un ora il marito ristretto in Calabria: “Porto con me i nostri figli piccoli per salutare il padre, anche questo trauma devo fargli subire – dice – Poi lo stress di dover stare chiusi in quella stanza…per i bambini è una grossa sofferenza”.

“Per un detenuto è impossibile trovare lavoro una volta uscito dal carcere”

“In carcere li tengono in brandina, giornate intere seduti senza far nulla – dice la mamma anziana di un detenuto – Che riabilitazione è questa? Usciranno e nessuno gli vorrà dare un lavoro perché hanno precedenti penali. E che faranno? Hanno famiglie, per vivere dovranno andare a delinquere nuovamente?”. C’è anche chi invece ha deciso di investire il tempo della prigione per migliorarsi e laurearsi. “Mio figlio a Genova frequenta l’Università – racconta una mamma – gli abbiamo portato un pc che gli serviva mesi fa. Gli hanno disattivato tutte le connessioni e quello che va disabilitato. Ma ancora non glielo danno. Perché? È una persona che sta facendo di tutto per cambiare”.

“In cella niente frigoriferi e ventilatori”

Alcuni dei familiari dei detenuti denunciano che nelle roventi celle affollate di Poggioreale non ci sono né ventilatori né frigoriferi. “I familiari portano ai loro cari il cibo – dice Pietro Ioia – ma poi va quasi tutto buttato perché in assenza di frigorifero va tutto a male. Abbiamo organi8zzato una raccolta e presto consegneremo frigoriferi e ventilatori”. “Da qui, da Poggioreale, abbiamo lanciato un messaggio per attirare l’attenzione su tutte le carceri – ha detto Samuele Ciambriello – Pochi spazi di vivibilità, poche misure alternative, pochi spazi di lavoro. Il Governo almeno facesse la liberazione anticipata di 70 giorni e 70 giorni. Noi che siamo liberi abbiamo avuto i ristori, loro niente. La politica rifiuta la parola indulto, dovrebbe recuperare la parola dignità”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’inferno dietro le sbarre. In dodici in una cella, questo carcere non è umano: “Da qui si esce più criminali di prima”. Viviana Lanza su Il Riformista l'8 Giugno 2022. 

La cella 55bis è nel carcere di Poggioreale. Si trova nel reparto dei cosiddetti sex offender, cioè dei detenuti che si trovano in carcere per reati a sfondo sessuale.

La descrivono come una cella da cui il cielo è ridotto a uno spazio di pochi centimetri quadrati. Lo si vede a stento, il cielo. In alcuni giorni si fa quasi fatica a capire se sia giorno o sera. La luce, dentro la cella 55bis, non riempie mai lo spazio tra le quattro mura. C’è una sola finestra. Una sola. Mentre all’interno della cella 55bis si arriva a stare anche in dodici. Sì, dodici persone. Di notte dormono in letti sistemati uno sull’altro. Di giorno provano a resistere e convivere fra equilibri delicatissimi. Non ci vuole molto a comprendere che trovarsi in dodici in uno stanzone rende la vivibilità sempre ai limiti. Con questo caldo, poi, può diventare un inferno.

Ma a chi interessa? Intorno a queste storie calano silenzio e indifferenza. Un muro che il garante regionale dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, con il garante della città metropolitana di Napoli, Pietro Ioia, cercano di rompere. Ieri a Napoli i garanti hanno partecipato al corteo e alla manifestazione che i parenti dei detenuti hanno organizzato nella cittadella giudiziaria del Centro direzionale, tra la sede del Tribunale di Napoli e il carcere di Poggioreale. Parliamo delle due realtà giudiziarie più grandi d’Italia: il Tribunale con la Procura sono gli uffici giudiziari con i numeri di processi e inchieste più alti a livello nazionale, il carcere è la struttura penitenziaria più grande che c’è e arriva a contare oltre duemiladuecento detenuti. Ha la popolazione di un paese di provincia. È come una piccola città chiusa tra quattro mura. «Chiediamo carceri più umane in grado di produrre cittadini votati alla legalità e non alla criminalità», ripetono i parenti dei detenuti.

Al corteo partecipano anche persone provenienti da altre regioni d’Italia. Marciano attorno alle mura grigie del carcere di Poggioreale, fino a uno dei varchi del Tribunale di Napoli, quello che si apre su piazza Cenni. «Queste famiglie – dice il garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello – non vogliono altro che attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema delle carceri. Domenica c’è un referendum importante sulla giustizia. Il tema del carcere è un tema centrale». Eh già, il 12 giugno gli italiani sono chiamati a esprimere il proprio voto ai cinque quesiti referendari che affrontano nodi delicati del sistema giustizia. In questi mesi, in queste settimane, soltanto poche voci hanno informato i cittadini sul contenuto dei quesiti referendari e sull’importanza del voto, per il resto sull’argomento è calato un silenzio vergognoso, un silenzio voluto da una buona parte della politica e dalla magistratura contraria alle proposte di riforma contenute nei quesiti del referendum. Uno dei cinque quesiti tocca il tema del carcere, perché riguarda i limiti agli abusi della custodia cautelare.

Le statistiche degli ultimi anni dicono che ogni anno nel solo distretto di Napoli si contano circa cento casi di ingiusta detenzione. «Molte persone entrano in cella da innocenti – aggiunge Ciambriello -, parecchie da persone sane per poi uscire ammalate. Uno dei temi che solleviamo oggi è quello della sanità. Tante aggressioni ai danni degli agenti vedono protagoniste persone con problemi psichici. A Poggioreale c’è un Sert per i tossicodipendenti ma le condizioni sono disumane: anche 8-10 persone in una stanza. Nella sezione dei cosiddetti sex offender c’è una stanza, la 55bis, che ospita 12 detenuti e ha solo una finestra». Per Pietro Ioia le carceri, sono diventate «scuole di criminalità». «Da questi posti – dice parlando delle carceri – ormai si esce più criminali di prima». Bisognerebbe invertire questa tendenza, puntando sulla rieducazione, sulle misure alternative, su percorsi di legalità.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il lavoro in carcere. Chi era Carlo Smuraglia, il padre della legge per il reinserimento dei detenuti. Rita Bernardini su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Partigiano, avvocato, accademico, Carlo Smuraglia, è stato senatore prima del PCI, poi del PD. Comunque la si pensi sui temi affrontati con passione nel corso della sua vita, è impossibile non riconoscergli un attaccamento viscerale ai principi della nostra Costituzione unito ad una grande intelligenza e lucidità di pensiero. Nell’archivio di Radio Radicale, per esempio, ritroviamo un suo intervento di un anno e mezzo fa, quando di anni il Presidente emerito dell’Anpi ne aveva 97, contro quello che definiva il referendum truffa sul taglio dei parlamentari. Lamentava soprattutto la mancanza di dibattito sui media, vitale se si vogliono portare i cittadini ad un voto consapevole. Ci risiamo oggi con il silenzio sui 5 referendum di prossima votazione per almeno avviare una improcrastinabile riforma della giustizia.

Chi si occupa di esecuzione penale e di carcere, il nome di Carlo Smuraglia lo ha sentito pronunciare infinite volte quale padre della buona e giusta legge, la n. 193 del 2000, che prevede importanti agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono persone detenute. Una legge che, se fosse veramente utilizzata, contribuirebbe a far vivere e non languire (come accade oggi) l’art. 27 della Costituzione. «Cara Bernardini, a te che chiedi di raddoppiare i fondi della legge Smuraglia per incrementare il lavoro in carcere, rispondo che lo scorso anno non sono stati nemmeno spesi tutti quelli stanziati in bilancio!». Rimasi basita quando l’ex capo del Dap Dino Petralia mi diede questa notizia rispondendo ad una delle tante sollecitazioni radicali volte a migliorare le drammatiche condizioni di detenzione.

È incredibile, ma in Italia accade che le nostre imprese, pur in presenza di sgravi fiscali inimmaginabili soprattutto in un periodo di crisi economica come l’attuale, non approfittino dei vantaggi previsti dalla legge. Si dirà: i detenuti non hanno voglia di lavorare, non sono affidabili. Non è così! Ricordo quando incontrai l’ingegner Silvio Scaglia, ex AD di Fastweb, detenuto ingiustamente in carcere quale vittima di uno dei tanti processi finiti nel nulla con la completa assoluzione dell’imputato. Da imprenditore e dirigente d’azienda che di lavoro se ne intendeva, mi disse «qui, reclusi con me, scopro che ci sono tante potenzialità, tanti talenti, persone intelligenti e capaci: se si desse loro l’opportunità di lavorare anziché stare a disperarsi senza fare niente tutto il giorno, io credo che le condizioni di detenzione migliorerebbero molto e queste persone, una volta finito di scontare la pena, non tornerebbero a delinquere». Silvio Scaglia, un uomo di successo internazionale che ha dovuto pagare il prezzo della ingiusta giustizia italiana, la pensava esattamente come il senatore Carlo Smuraglia.

Un altro illuminato manager ha avuto un’idea brillantissima durante i due appena trascorsi anni di pandemia, anni che nelle carceri sono stati devastanti anche in termini di vite umane perse. Davide Rota, AD di Linkem (e da poco di Tiscali), durante il lockdown, con il blocco del commercio internazionale, aveva l’esigenza di rimpiazzare i modem rotti, necessari per i collegamenti veloci alla rete Internet. Trovò subito la disponibilità della bravissima direttrice del carcere di Lecce Rita Russo (ora promossa a Provveditore del Piemonte) e, mentre tutto era fermo, organizzarono la formazione di una ventina di detenuti per il riciclo dei modem. Al termine del corso, 15 di loro furono assunti con un regolare contratto di lavoro rivelandosi bravissimi. Ho avuto modo di vedere con i miei occhi cosa sono capaci di fare, dallo smontaggio, alla igienizzazione fino alla riprogrammazione e all’inscatolamento. Il fatto miracoloso è che ognuno dei 15 “ragazzi” è in grado di svolgere qualsiasi fase della lavorazione. Il “modello Lecce” è stato poi esportato in altri istituti italiani. Lavoro vero, spendibile una volta finita di scontare la pena.

Ma allora, cos’è che blocca il lavoro esterno che le imprese o le cooperative potrebbero portare dentro gli istituti penitenziari? La fotografia ad oggi ci dice che circa duemila detenuti svolgono questo tipo di lavori qualificanti, cioè meno del 4% della popolazione ristretta. Perché? I motivi sono tantissimi, ma occorre tenere presente che ogni penitenziario è una repubblica a sé, nel senso che molto dipende dalla bravura e determinazione del direttore nel ricercare le collaborazioni esterne, dalla disponibilità della polizia penitenziaria e dall’impegno degli educatori. La carenza di personale in ogni settore delle professionalità certo non aiuta. Basti pensare che i direttori, cioè coloro che dovrebbero essere un po’ manager del carcere, sono una categoria in via di estinzione: in Sardegna, su dieci istituti ci sono solo tre direttori titolari.

Il primo scoglio da superare è però quello del sovraffollamento, con migliaia di detenuti vicinissimi al fine pena sui quali è difficile investire, visto che non lo si è fatto prima. Purtroppo, le proposte di Nessuno Tocchi Caino e del Partito Radicale non vengono nemmeno vagliate dalla politica istituzionale italiana. Basterebbe quella della liberazione anticipata speciale, già adottata all’epoca della sentenza Torreggiani, per far “respirare” gli istituti penitenziari e trovare gli spazi fisici necessari per insediare le lavorazioni. Infine, c’è il problema dei problemi in un’amministrazione che storicamente dimostra di non funzionare. Mi riferisco alla mai attuata parte dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 riguardante la costituzione presso ogni circondario di Tribunale dei “Consigli di aiuto sociale” che hanno (avrebbero) come finalità istituzionale proprio quella del reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta.

Si tratterebbe di trovare nel tessuto economico locale gli imprenditori che, risparmiando, intendano investire sugli ultimi, i dimenticati. Tutti ne trarrebbero beneficio anche dal punto di vista della tanto sbandierata sicurezza sociale. Finora solo il Presidente del Tribunale di Palermo, il dott. Antonio Balsamo, ha risposto all’appello e il prossimo 20 giugno si terrà una riunione del costituito Consiglio di aiuto sociale dentro il carcere dell’Ucciardone, alla presenza delle persone detenute. Che sia la volta buona? Spes contra spem, rispondo. Per onorare – non solo a parole – l’indimenticabile senatore Carlo Smuraglia. Rita Bernardini

"Fu innovazione legislativa importante". Smuraglia, la legge per dare lavoro ai detenuti che da quando è nata ha sempre pochi fondi. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

Avvocato e presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, morto oggi a Milano all’età di 98 anni, è stato anche senatore dal 1992 al 2001 e, un anno prima della fine del suo mandato, fu promotore della legge, che porta il suo nome, che prevede sgravi contribuitivi per chi assume persone in stato di esecuzioni penali. “Fu la sua determinazione a consentire un’innovazione legislativa importante” spiega Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, da sempre in prima linea per la tutela e la dignità del mondo detenuto. “Il lavoro è fonte di reddito nonché di emancipazione dai circuiti dell’illegalità e Carlo Smuraglia, partigiano e uomo delle istituzioni, lo aveva capito”.

La cosiddetta legge Smuraglia (193 del 22 giugno 2000) promuove l’attività lavorativa dei detenuti con agevolazioni contributive in favore dei datori di lavoro che impiegano persone detenute o internate, ed ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari. ”Si onori la memoria di Smuraglia facendo funzionare al meglio la sua legge, ossia dotandola di fondi che ne consentano il funzionamento” aggiunge Gonnella. ”Oggi il numero di persone detenute che lavora è purtroppo non alto. La legge Smuraglia aveva invece l’obiettivo di favorire opportunità di impiego qualificato. Sarebbe bello se la si dotasse di fondi adeguati per raggiungere gli obiettivi che voleva Carlo Smuraglia”, conclude il presidente di Antigone.

Una legge quella di Smuraglia, che da avvocato negli anni ’50 difese numerosi partigiani dopo la seconda guerra mondiale, che tuttavia nel corso di questi 22 anni è stata applicata parzialmente a causa della carenza di fondi che impediscono all’amministrazione penitenziaria di pagare i contributi a favore di cooperative e imprese che hanno assunto detenuti dentro il carcere o detenuti fuori dal carcere.

La legge prevede la riduzione del 95% delle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute per i detenuti o internati assunti all’interno degli Istituti penitenziari da parte di imprese private e cooperative o ammessi al lavoro all’esterno presso cooperative. L’agevolazione trova applicazione anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno, a condizione che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno; per i 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno, a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre il soggetto era ristretto.

Nel XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, il quadro che emerge in materia di lavoro e formazione professionale è assai variegato. “Da un lato – si legge – troviamo situazioni virtuose in cui i detenuti svolgono tutti un’attività lavorativa (che sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o per datori di lavoro diversi dal carcere), e all’estremo opposto istituti in cui le poche attività lavorative presenti sono quelle cosiddette domestiche alle dipendenze dell’amministrazione, come le pulizie, la cucina e la spesa. Discorso più complesso è quello che riguarda la formazione professionale che appare essere davvero carente in linea generale”

“Dai dati da noi raccolti nel 2021 è risultato anzitutto che il budget medio annuale previsto per le mercedi sia di 645.049,6 euro ad istituto, per un totale medio annuo a dipendente, ovviamente lordo, di 7.414,2 euro. In media – spiega Antigone – nei 96 istituti visitati il 33% dei detenuti presenti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria; di questi buona parte è impiegato sempre in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti era invece in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Il dato è peraltro molto disomogeneo. In Emilia-Romagna questa percentuale era del 4%, in Campania dello 0,3%. In 37 istituti visitati, più di un terzo del totale, non abbiamo trovato alcun detenuto impiegato per un datore di lavoro diverso dal carcere stesso”.

Ecco la vera pena corporale, la galera uccide i cinque sensi. ISABELLA DE SILVESTRO su Il Domani il 06 giugno 2022

Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell'udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. Poi l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità. 

«Era rimasta senza grata una finestra. Sembrava un televisore, anche se dava su un paesaggio orripilante». Una delle conseguenze della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione.

La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali.

Il primo rumore che si sente la mattina è quello insopportabile delle chiavi. Grandi chiavi appese alle cinture dei secondini che attraversano i corridoi e aprono le celle una a una. Il risveglio carcerario è fatto di rumori metallici, porte blindate che si aprono e si chiudono, battitura delle sbarre per accertarsi che i detenuti non le stiano segando per evadere. Si alza poco dopo il brusio televisivo o radiofonico, telegiornali, talk show, voci che si fondono con quelle dei residenti nelle celle. Richiami, cognomi gridati, “buongiorno appuntà!”. Sono i rumori della galera, sempre gli stessi, pochi ma costanti e pervasivi.

UDITO

«In carcere non c’è mai un vero silenzio: ci sarà sempre un generatore, un lamento, una televisione accesa che funge da anestetico. Quando entri fai caso a tutto in maniera ossessiva, ma dopo qualche tempo diventa solo rumore di fondo», racconta un ex detenuto. Uno dei primi effetti della detenzione è l’acutizzarsi dell'udito, che cresce insieme ad un senso di paura. Dopo mesi sopraggiunge una sordità difensiva. La reazione emotiva ai suoni si attenua quando l’insieme di stimoli angoscianti viene appiattito nella quotidianità.

GUSTO

Sono le otto del mattino, il portavitto si avvicina con il suo carrello per distribuire la colazione. Al caffè sbiadito o al tè si aggiunge parecchio zucchero. Sul pane, spesso di bassa qualità, mal cotto e insapore, si spalma tutto ciò che si può per renderlo più saporito. Essendo uno dei pochi stimoli sensoriali che il detenuto può gestire in autonomia, il consumo di zucchero nelle celle è molto alto. «In una cella di due persone è facile che si faccia fuori un chilo di zucchero a settimana», racconta un altro detenuto. «Per quanto riguarda il corpo, si hanno due atteggiamenti estremi: c’è chi si lascia del tutto andare e chi invece si cura ossessivamente. Chi smette di mangiare e chi si butta sul cibo cercando consolazione». Quando l’alimentazione diventa uno strumento di compensazione psicologica non sono rare patologie come il diabete e l'ipertensione.

VISTA

D’altronde il movimento fisico garantito si riduce ai passi che si possono fare “all’aria”, ovvero i giri intorno a cortili spesso claustrofobici a cui si ha diritto per qualche ora al mattino e al pomeriggio. Il detenuto esce dalla cella di 8 metri quadrati che deve condividere con qualcun altro, dato l’affollamento delle carceri italiane che in alcune regioni raggiunge il 134 per cento della capienza, secondo l’ultimo rapporto dell’associazione Antigone. Prima di uscire butta uno sguardo alla finestra per capire che tempo ci sia, se serva la giacca o basti il maglione. Ma la finestra non permette di vedere granché. Ci sono le sbarre, e oltre le sbarre una fitta grata metallica che chiude lo sguardo. Da qui la vertigine di cui molti ex detenuti parlano quando tornano a guardare fuori da finestre senza sbarre dopo la liberazione. In cella, oltre i fori di due centimetri, la vista è tagliata dalle alte mura di cemento che delimitano la struttura penitenziaria.

Il detenuto infila la giacca e attraversa il lungo corridoio illuminato artificialmente. Scende le scale. Raggiunta l’aria si guarda intorno e ciò che vede è ancora cemento. A terra, a destra, a sinistra. In alto il cielo con le sue nuvole e forse qualche uccello. «Nel carcere di Cremona avevano messo le grate su tutte le finestre. Era rimasta senza grata una finestra in corridoio. Ci fermavamo lì dopo l’aria per guardare fuori a turno. Sembrava un televisore. Dava su un paesaggio orripilante ma ci sembrava una grandissima cosa. La gente diceva che se non avesse avuto la grata in cella sarebbe stata mezza giornata a guardare dalla finestra». C’è uno sguardo lungo e uno sguardo corto. Lo sguardo del prigioniero è forzatamente accorciato e mutilato, scriveva Adriano Sofri dopo lunghi anni di esperienza detentiva. Una delle conseguenze più comuni e immediate della prigionia è il precipitoso calo della vista, che continua a peggiorare durante tutta la durata della carcerazione. L’oscurità delle celle non aiuta. Chi riesce cerca di fare qualche esercizio per la vista, ma gli stimoli rimangono scarsi.

OLFATTO

È ora di pranzo. Il detenuto cucina con il suo compagno di cella. Gli odori del cibo invadono la stanza impregnando le pareti, ma chi la abita li sente poco. Anche l’olfatto è regredito nel tempo. La galera è un luogo di odori grevi e compositi che ristagnano. Il ricambio d’aria è scarso, il cemento sigilla. Finito il pranzo la cella viene presto ripulita. L’alto livello di stress psicologico a cui i carcerati sono sottoposti genera spesso la necessità di esercitare un forte autocontrollo sulle poche attività su cui si ha libertà, tra cui la pulizia. Si fa largo uso di candeggina e detersivi per la sanificazione di quello spazio ristretto che ospita ogni funzione vitale e in cui molti detenuti passano più di venti ore al giorno. Gli odori chimici sono i più comuni e persistenti, si respirano per anni, fino a non sentirli più. Un detenuto racconta di essere passato da un carcere dove era permesso bruciare dell’incenso. Il profumo forte e penetrante era uno stimolo stupefacente, del tutto diverso dai soliti e ripetuti odori. Come quello della muffa che ricopre le pareti scrostate di strutture fatiscenti. In galera sono molto comuni le malattie respiratorie, aumentano i casi d’asma e si nota subito fra i reclusi un raffreddore costante dovuto al malfunzionamento del riscaldamento e alle infiltrazioni di umidità in cella.

TATTO

Che cosa si tocca nel tempo in cui si sconta la pena? Di certo il cemento e il metallo. Per il resto poco altro, la plastica delle posate con cui si mangia, se si è fortunati la carta di un libro. Pochi i contatti con altri corpi, forse qualche stretta di mano. Addirittura la propria nudità diventa evento raro, dal momento che la doccia si fa rigorosamente in mutande e gli spazi privati non esistono. Anche per la percezione del proprio corpo c’è un declino evidente. L’orto è una delle attività più ambite perché permette di entrare in contatto con odori e consistenze dimenticate. Non è un caso che fra i detenuti siano frequenti le patologie dermatologiche: irritazioni, pruriti, scabbia. Tre coimputati raccontano di essere stati presi contemporaneamente da un prurito incessante e al quale i medici non riuscivano a trovare una spiegazione. Tutti e tre sono guariti pochi giorni dopo la scarcerazione. «Mi fa pensare che non fosse un problema solo fisico, forse eravamo entrati nello stesso loop tutti e tre, eravamo isolati insieme da 40 giorni», ipotizza uno di loro.

Malattie del corpo e della mente si confondono. I disturbi depressivi e d’ansia agiscono sulla sensorialità, estremizzandola o spegnendola. Quando i sensi sono così violentemente compressi la mente cerca di compensare: si viene assaliti da allucinazioni visive, auditive, tattili, del gusto e dell’olfatto; ne risentono i ritmi del sonno e della veglia, diventa difficoltosa la digestione, il sistema nervoso si deteriora in maniera costante e le difese immunitarie calano, ancora una volta per mancanza di stimoli.

Ciò che i corpi dei detenuti ci raccontano è che il carcere è un luogo pensato per la loro gestione disciplinata in termini esclusivamente securitari, di isolamento e repressione. Questi corpi mangeranno qui, dormiranno qui, uno sopra l’altro, qui passeranno per andare all’aria, qui verranno guardati senza poter vedere.

Tutti gli aspetti qualitativi della vita corporale che vanno oltre la sopravvivenza biologica saltano. Quest’idea, inscritta nell’architettura delle galere, rende difficile mettere in atto cambiamenti, anche quando le direzioni ne hanno l’intenzione. Per alcuni corsi e laboratori, che sarebbero di estrema importanza per il recupero e lo stimolo della sensorialità, non ci sono gli spazi. Se ci sono è probabile che siano pochi e quindi già occupati.

LE PENE CORPORALI

La prigione ti condanna a essere solo un corpo. Ma di questo corpo perdi il controllo. Nonostante il passaggio dalla pena come supplizio alla pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli, in Italia la galera infligge ancora pene corporali. ISABELLA DE SILVESTRO

Guido Mariani per Tag43 il 31 maggio 2022.

Qualche anno fa il World Travel Awards, quello che qualcuno definisce il premio Oscar del turismo, nominò Spike Island, una fortezza ed ex prigione al largo delle coste meridionali dell’Irlanda, la maggiore attrazione turistica europea dell’anno, riservandole anche la nomination in ambito internazionale accanto alla Muraglia Cinese e al Pan di Zucchero di Rio de Janeiro. 

Considerare una prigione una “attrazione turistica” può lasciare un po’ perplessi, ma in realtà  quello che dovrebbe lasciarci perplessi è l’accezione, gioiosa e vacanziera, che noi associamo ormai quasi sempre alla parola “turismo”. Il turismo è spesso un’esplorazione di altre culture e di luoghi del passato, che non necessariamente dobbiamo legare al divertimento e alla dimensione ludica del viaggio.

Quelli che in diverse epoche furono istituti di pena o centri di detenzione, rappresentano momenti di storia e di memoria che possono benissimo rientrare in una meta di una vacanza senza che questo significhi banalizzare il dolore a cui questi posti sono associati. È anche per questo che le vecchie prigioni stanno oggi vivendo una nuova vita come luoghi che attirano sempre più viaggiatori curiosi che vedono il “turismo” come l’immersione più autentica in una cultura locale. 

Spike Island e Kilmainham Gaol: un tuffo nella storia dell’Irlanda

Spike Island è aperta al pubblico dal 2010, è un’isola, a 15 minuti dalla costa nei pressi di Cork, che ha un’estensione di poco inferiore alla Città del Vaticano ed è in gran parte occupata da una grossa fortezza-penitenziario. Sede di un antico monastero, divenne alla metà del XVII secolo un punto di raccolta per i prigionieri dell’esercito inglese di Oliver Cromwell che avevano conquistato l’Irlanda. La prima tappa di un viaggio di deportazione diretto nelle colonie inglesi al di là dell’Oceano.

Alla fine del 700 vennero erette delle fortificazioni e all’inizio del secolo successivo venne costruito Fort Mitchell, la struttura che si visita oggi. L’imponente complesso di edifici, ispirato ai castelli medievali italiani, era capace di ospitare fino a 3 mila soldati, ma divenne anche un penitenziario nell’epoca vittoriana che rinchiudeva i condannati irlandesi nell’era della grande carestia. In quegli anni fu il carcere più grande del mondo. 

In Irlanda si può anche visitare, a Dublino, Kilmainham Gaol, aperta nel 1796 e destinata in un primo tempo a delinquenti comuni, migliaia dei quali vennero poi mandati ai lavori forzati in Australia. Fu, successivamente, uno dei principali luoghi di detenzione per i nazionalisti irlandesi. Venne chiusa, dopo l’indipendenza, nel 1924; uno dei suoi ultimi detenuti fu proprio Eamon de Valera destinato a diventare Primo Ministro irlandese.

Dai Piombi all’Asinara: le ex prigioni italiane

Senza partire per l’isola verde, in Italia diversi ex luoghi di detenzione di varie epoche sono oggi visitabili. Tra i più noti ci sono ovviamente i Piombi, le carceri di Palazzo Ducale a Venezia. Costruiti alla fine del 500 furono chiusi due secoli più tardi, il detenuto più celebre che ospitarono fu Giacomo Casanova. 

Il Carcere Mamertino o Tullianum è il più antico di Roma con costruzioni che risalgono fino al VII secolo a. C. Divenne per molti secoli luogo di reclusione per condannati all’esecuzione e per i nemici di Roma catturati in guerra come il re numida Giugurta e il condottiero gallico Vercingetorige. La tradizione lo ricorda come ultima dimora degli apostoli Pietro e Paolo prima del martirio e per questa ragione divenne poi luogo di culto. È stato restaurato e aperto ai visitatori dal 2016.

A Procida, capitale italiana della cultura 2022, è possibile visitare il cinquecentesco Palazzo D’Avalos. Nel 1830 l’edificio fu trasformato in carcere per essere chiuso definitivamente nel 1988. Vi furono imprigionati personaggi come Luigi Settembrini e Cesare Rosaroll, oltre a diversi generali di matrice fascista come Junio Valerio Borghese, Graziani Rodolfo e Attilio Teruzzi che vi trascorsero gli ultimi giorni della loro vita. Nel cortile si trova ancora la camionetta che accompagnava i prigionieri al porto, fedele alla descrizione che Elsa Morante fa ne L’isola di Arturo.

In Sardegna si può visitare il carcere dimesso dell’Asinara che ha ospitato tra i suoi ultimi residenti il boss dei boss Totò Riina. Oggi è parte del Parco Nazionale dell’Isola dell’Asinara. 

Rocca Albornoz, oggi è il Museo Nazionale del Ducato di Spoleto. Edificata nel XV secolo come fortezza dello Stato Pontificio diventò bagno penale nel 1817 e mantenne il suo uso carcerario fino al 1982. Durante il periodo fascista fu anche utilizzato per rinchiudere prigionieri politici e antifascisti jugoslavi, alcuni dei quali furono protagonisti di una rocambolesca fuga. 

Alcatraz, attrazione da 1 milione di turisti l’anno

La prigione più visitata al mondo è però quella sull’isola di Alcatraz nella baia di San Francisco, uno dei primi luoghi carcerari contemporanei a essere aperti al turismo di massa. Prima della pandemia era meta di più di un milione di turisti all’anno, un flusso che ha giustificato nel 2015 un piano di restauro e di ammodernamento costato 3 milioni di dollari. 

In realtà una delle carceri più celebri del mondo ebbe una vita brevissima, meno di 30  anni. Il carcere federale infatti venne inaugurato nel 1934, dove prima sorgeva una base militare che ospitò anche prigionieri della guerra ispano americana e altri detenuti sottoposti alla corte marziale. La struttura chiuse nel 1963. La gestione era diventata economicamente insostenibile.

Nel frattempo Alcatraz si era guadagnata la fama di penitenziario spietato e aveva accolto nelle proprie celle alcuni dei più celebri criminali americani, tra cui il boss Al Capone. I tentativi di evasione dall’isola-prigione costituiscono una mitologia a sé stante. Il più noto, avvenuto nel 1962, è stato raccontato nel film Fuga da Alcatraz di Don Siegel con Clint Eastwood: tre galeotti si scavarono con dei cucchiai una via di fuga dalle celle, ma nessuno ha mai saputo nulla di certo sulla loro sorte.

Negli Stati Uniti, a Philadelphia, è diventata museo anche l’Eastern State Penitentiary, fortezza edificata nel 1829 e che ai tempi fu l’edificio pubblico più costoso mai realizzato in America. L’aspetto imponente, cupo e neo-gotico, fu scelto appositamente per incutere timore nei reclusi che fino al 1913 furono tenuti in isolamento. 

Le celle in origine erano state concepite con un’unica finestra sul soffitto per simboleggiare “l’occhio di Dio” e invitare al pentimento. Charles Dickens e Alexis de Tocqueville vi fecero tappa nei loro viaggi americani. La prigione, antiquata e sovraffollata, chiuse definitivamente nel 1971. 

Tra il mito e la storia: lo Chateau d’If e la Conciergerie di Parigi

Ci sono fortezze note anche per detenuti che in realtà vi sono stati rinchiusi solo nelle pagine di un romanzo. È il caso del leggendario Chateau d’If, fortezza cinquecentesca che sorge su una piccola isola dell’arcipelago delle Frioul, nel golfo di Marsiglia e che fu prigione per quattro secoli. Oggi viene visitata soprattutto da chi si immagina nelle sue celle il condannato Edmon Dantes, Il Conte di Montecristo nato dalla fantasia di Alexandre Dumas. 

Ma in Francia una delle tappe d’obbligo è la Conciergerie di Parigi, originariamente costruita come parte del palazzo reale, ma celebre per essere stato luogo di detenzione durante la Rivoluzione francese. Le celle erano solo una stazione di transito verso la ghigliottina, destino che toccò ai prigionieri più celebri: la regina Maria Antonietta, e i rivoluzionari Danton e Robespierre.

Robben Island e il Memoriale Hohenschönhausen: luoghi della memoria

In giro per il mondo diversi centri di detenzione sono diventati luoghi di storia e di memoria. Robben Island è un’isola a mezz’ora di traghetto da Città del Capo, in Sudafrica. Fu per tre secoli utilizzato come luogo di confino e carcere e oggi è un sito riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità. Qui Nelson Mandela fu privato della libertà per 18 dei suoi 27 anni da carcerato. Nel 1964 fu condannato all’ergastolo. Trent’anni dopo divenne il presidente del Paese.

A Berlino il Memoriale Hohenschönhausen è l’ex prigione della Stasi, il servizio segreto della Germania dell’Est. Nelle stanze i prigionieri venivano sottoposti agli interrogatori del ministero per la Sicurezza di Stato. In Senegal, al largo di Dakar, l‘isola di Goreé conserva ancora la Maison des Esclaves, il centro di raccolta in cui erano rinchiusi gli schiavi destinati ad essere venduti per lavorare nelle piantagioni delle Americhe. 

Carceri diventate hotel di lusso e ostelli

Alcuni ex istituti di pena hanno trovato un’altra vocazione. È il caso di Het Arresthuis, casa circondariale di Roermond, cittadina dei Paesi Bassi più vicina a Düsseldorf che ad Amsterdam. Ha rinchiuso criminali dal 1863 al 2007 ma dal 2011 è un albergo di pregio da 200 euro a notte. Le celle sono state riconvertite in eleganti suite, ma la struttura interna e le porte delle stanze, così come le sbarre sulla facciata, ricordano che il relax tra quelle mura è storia assai recente. 

A Karosta, cittadina Lettone sul Baltico, quella che fu una prigione nazista prima e sovietica poi è diventata un ostello. Qui si è voluto conservare però l’aspetto opprimente di una galera e, scivolando nel cattivo gusto, si può anche aderire all’iniziativa “notte estrema” in cui i visitatori vengono accolti e (mal)trattati come dei veri prigionieri

Oggi nel mondo ci sono circa 10 milioni e mezzo di persone incarcerate. Un quarto delle quali solo negli Stati Uniti, il paese con il più alto numero, percentuale e assoluto, di reclusi. Innumerevoli studi, e il caso americano ne è la prova, hanno dimostrato che le prigioni di oggi non servono a prevenire i reati.

«Sono solo il centro di reclutamento per l’esercito del crimine» disse il filosofo francese Michel Foucault che dedicò una parte importante dei suoi studi ai sistemi di pena. L’auspicio è quello che un giorno gran parte delle carceri possano diventare dei musei.

Il silenzio degli innocenti. Il carcere è una tortura e colpisce anche chi non ha fatto niente. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 31 Maggio 2022.

La definizione non è esagerata: la privazione della libertà è una delle cose più crudeli che possano essere inflitte all’uomo. Chi lo sottovaluta (o, peggio, considera la prigione una soluzione ottimale) dovrebbe pensarci due volte.

Quanto vedete un Dio-Patria-Galera (ma Manipulite-Onestà-Galera è lo stesso) che alza il sopracciglio perché sente dire che il carcere è una tortura, domandategli questo: «Prova a immaginare che qualcuno più forte di te, esercitando un potere inoppugnabile, sequestri la tua libertà e ti impedisca di fare una per una tutte le cose che quotidianamente integrano le ore della tua vita, che magari giudichi malandata. Prova a immaginare che in forza di quel potere ti si impedisca di vedere la moglie, il marito, i figli, gli amici. Che in forza di quel potere ti si imponga la solitudine che non desideri o una compagnia coatta. Che a causa di quell’imposizione tu non possa leggere quel che vuoi, ascoltare la musica che vuoi, mangiare quel che vuoi. Che tu non possa camminare, lavorare, studiare, preparare la colazione a tuo figlio, festeggiare il suo compleanno, far visita a un parente moribondo, partecipare al funerale di una persona a te cara, insomma che tu non possa fare nulla di tutto ciò che consideri un’acquisizione irrevocabile della tua esistenza. E prova a immaginare che questa somma di privazioni si squaderni nei luoghi in cui sei costretto, tanto angusti e malsani che perfino per il bestiame sarebbe troppo, e dove sei esposto a ogni genere di sopraffazione, di violenza, di degradazione, per soprammercato nell’indifferenza, quando non nel compiacimento, della comunità di cui facevi parte. Ebbene, come considereresti questo trattamento ai tuoi danni, questo accanirsi di un potere più forte di te sulla tua vita sino a svuotarla di tutto, come lo considereresti se non per quel che è, e cioè tortura? E dunque: che altro è se non questo, il carcere? Non è forse fatto delle stesse cose, delle stesse angherie, della stessa brutalità, della stessa ignominia che tu, se toccasse a te, chiameresti tortura?».

Se l’interrogato in tal modo rispondesse che basta non delinquere per non subire quel trattamento, non varrebbe la pena di obiettare che nemmeno al delinquente più incallito sarebbe legittimo infliggerlo. Basterebbe ricordargli che uno su due, in carcere, è innocente quanto lui. Non gli si chiede – sarebbe troppo – di immedesimarsi nel colpevole. Gli si chiede di mettersi nei panni dell’innocente.

«Per decidere sul carcere bisogna aver visto. Per questo la Consulta ha iniziato il suo viaggio». Intervista al giudice costituzionale Francesco Viganò: «Non si può continuare a pensare al carcere come un luogo in cui si spediscono gli autori di reato per farli sparire per un po’ dalla circolazione, pensando così di proteggere efficacemente la società». Valentina Stella su Il Dubbio il 20 giugno 2022.

Il professor Francesco Viganò, giudice della Corte Costituzionale dal 2018, ha redatto alcune delle più importanti decisioni della Consulta degli ultimi anni. Dalla nota sentenza 18/2022 con cui è stata dichiarata illegittima la censura sulla corrispondenza del detenuto in 41 bis con il difensore, alla 22/2022 che ha ammonito il legislatore affinché elabori al più presto una legge per superare le criticità dell’attuale sistema delle Rems. Dalla 150 del 2021 che ha ritenuto incostituzionale l’obbligo del carcere per punire il reato di diffamazione a mezzo stampa, alla 260 del 2020 per cui l’esclusione del rito abbreviato per i delitti punibili con l’ergastolo non è irragionevole né arbitraria. Con lui oggi ragioniamo di carcere ed esecuzione penale.

Cosa le ha lasciato il recente incontro avuto con detenuti e detenenti al carcere di San Gimignano?

Ogni visita in carcere mi lascia, più di ogni altra cosa, il ricordo degli sguardi delle persone che incontro. Dei detenuti, ma anche degli agenti, degli educatori, dei volontari, e naturalmente dei direttori e dei comandanti. Il carcere è una comunità chiusa, e tutti coloro che ne fanno parte hanno un grande bisogno di parlare, di trovare qualcuno che ascolti i loro bisogni, i loro problemi, le loro ansie quotidiane. Passare del tempo con loro crea sempre dei canali di umanità e di empatia anche in una realtà difficile come quella del carcere. Ed è fondamentale, io credo, che le istituzioni nel loro complesso dedichino più attenzione a tutti i protagonisti di quella comunità: non dimenticando gli agenti della polizia penitenziaria, che sono pur sempre in prima linea nella gestione dei problemi del carcere. San Gimignano, poi, è un carcere complicato, anche perché popolato da condannati a lunghe pene detentive, a volte ergastolani, per lo più in regime ostativo. Ripetere, in quel contesto, ciò che la Corte ha scritto nelle proprie sentenze – e cioè che la Costituzione scommette sul cambiamento, qualunque sia il reato che sia stato commesso, foss’anche il più orribile – è lì più difficile che altrove, dal momento che le prospettive di uscire dal carcere sono oggi, per quei detenuti, drammaticamente limitate.

Luigi Manconi ha parlato del ‘paradigma bidet’: “come è possibile che, nell’anno di grazia 2022, nemmeno nelle sezioni femminili delle prigioni italiane vi sia quell’indispensabile apparecchio igienico?”. Di cosa ha bisogno il carcere ora affinché possa concretizzarsi l’art. 27 della Costituzione?

Ha bisogno, prima di tutto, di molta più cura da parte dell’opinione pubblica e della politica, e ha bisogno di maggiori investimenti. Non si può continuare a pensare al carcere come un luogo in cui si spediscono gli autori di reato per farli sparire per un po’ dalla circolazione, pensando così di proteggere efficacemente la società. Perché quelle persone, prima o poi, usciranno e ricominceranno a minacciare la società attraverso i loro reati. Per spezzare il circolo, occorrerebbe credere molto di più nel grande progetto di rieducazione disegnato dalla Costituzione: immaginando e realizzando carceri non solo provviste dei servizi igienici indispensabili, ma in generale più rispettose della dignità umana di ogni detenuto e capaci di offrire percorsi reali di cambiamento. Carceri più “aperte”. Perché se questi percorsi non possono che iniziare dentro il carcere, attraverso lo studio, lo sport, il teatro, il lavoro intramurario, devono poi necessariamente svilupparsi al di fuori delle sue mura, per accompagnare il condannato – con gradualità e prudenza – all’interno della società. Assicurandogli, soprattutto, adeguate opportunità lavorative, anche dopo che la pena sia stata interamente eseguita.

È sottovalutato il problema dei detenuti con malattie psichiatriche e quello dei suicidi?

In ogni nostro incontro nelle carceri il tema dei detenuti con disagio psichico viene sempre indicato come uno dei problemi più difficili da gestire per l’amministrazione e, naturalmente, per la polizia penitenziaria. E il dramma dei suicidi – dei troppi suicidi che continuano a verificarsi nelle carceri italiane – non è che la punta di un iceberg, in questo contesto. Nella recente sentenza sulle REMS, la Corte costituzionale ha ribadito, all’unisono con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che le persone affette da patologie psichiatriche non devono stare in carcere. La loro collocazione in carcere lede i loro diritti fondamentali, traducendosi in un trattamento inumano e degradante, e assieme crea enormi difficoltà per la polizia penitenziaria e gli altri detenuti. Se una persona che ha commesso un fatto di reato soffre di un disagio psichico ed è al tempo stesso pericolosa per la collettività, il suo posto non è il carcere, ma una struttura in grado di avviare un serio percorso terapeutico, contenendone al tempo stesso la pericolosità. Ma, anche qui, occorre che la società divenga consapevole della necessità di investire adeguate risorse, umane e finanziarie, per affrontare questo problema. Se necessario – come ha sottolineato ancora la Corte – anche realizzando nuove REMS, le cui attuali disponibilità di posti sono enormemente inferiori rispetto al numero delle persone che vi sono state teoricamente assegnate in base ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria.

Nel 2011 il professor Marco Ruotolo ricordò: «A quanto mi consta Valerio Onida è stato il primo ad avvalersi della facoltà riservata ai giudici costituzionali di visitare, senza necessità di autorizzazione, gli istituti penitenziari». Condivide l’idea per cui chi deve decidere delle vite dei detenuti, a partire dai magistrati di sorveglianza, dovrebbe trascorrere sempre più tempo dei luoghi di privazione della libertà?

Certamente. Solo chi ha visto il carcere dovrebbe decidere sul carcere. Anche per questo la Corte costituzionale ha sentito il bisogno di intraprendere un viaggio nelle carceri italiane: non una passerella ma un incontro vero con questa realtà, che fosse uno scambio di conoscenze ed esperienze. Tutto il Viaggio è documentato sul sito della Corte, tappa per tappa e in modo dettagliato, e in parte anche da un film prodotto dalla RAI. Da lì poi sono nati altri incontri che in molti di noi hanno continuato a compiere. Io stesso, dopo l’intensa visita a Marassi documentata nel film, sono stato a Torino, a Milano, e ora – dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia – a San Gimignano. Più in generale, ho sempre pensato che chi si occupa di diritto penale, a ogni livello, dovrebbe conoscere a fondo la normativa e la prassi penitenziaria, e avere un’idea precisa di come si vive quotidianamente nelle carceri. Per questo sono un convinto sostenitore dell’idea che i magistrati in formazione trascorrano un periodo del loro tirocinio in carcere, avendo contatti diretti con i detenuti, ma anche con l’amministrazione, con gli agenti di polizia, con i formatori, con i volontari. Mandare una persona in prigione, e stabilire quanto debba essere lunga la sua pena, è una grande responsabilità, che richiede piena consapevolezza delle conseguenze delle proprie decisioni.

Carmelo Musumeci da due mesi, dopo 27 anni di carcere, è finalmente libero. In una intervista ci ha detto: «se sai che devi morire in carcere, non metti un calendario sulla parete come gli altri detenuti. Desideri solo che ti venga applicata la pena di morte». Anche il Papa aveva parlato dell’ergastolo come di «pena di morte nascosta». Ma già Anton Cechov nel 1890 scriveva che «la pena capitale, sia in Europa che da noi, non è stata abolita, bensì camuffata sotto altre vesti, meno scandalose per la sensibilità umana». Pensa che abbiano ragione?

Diciamo anzitutto che l’ergastolo è, oggi, ritenuto compatibile con la Costituzione – e con l’art. 3 della Convenzione europea – solo a condizione che ci siano concrete possibilità per il condannato di ottenere la liberazione condizionale dopo un congruo periodo di espiazione della pena. Una pena detentiva senza questa prospettiva sarebbe frontalmente contraria alla dignità umana, e per questo illegittima: lo ha da ultimo affermato a chiare lettere, nel panorama internazionale, anche una bella sentenza della Corte Suprema canadese del marzo scorso. Ciò posto, credo che la sfida reale per l’ordinamento italiano sia quella di assicurare effettività alla prospettiva di uscire dal carcere per gli ergastolani, attraverso un percorso graduale che passi attraverso i permessi premio, il lavoro all’esterno, la semilibertà, e infine sfoci nella liberazione condizionale. Le relazioni del Garante ci restituiscono purtroppo un quadro in cui questo obiettivo è troppo spesso estremamente difficile da raggiungere per gli ergastolani: anche per quelli non ‘ostativi’. Occorre interrogarsi sulle cause di tutto ciò, e lavorare perché il diritto alla speranza non si riduca a una mera proclamazione di principio.

 In una recente intervista al Dubbio abbiamo discusso con il professor Fiandaca di abolizione del carcere. Per lui occorre ‘promuovere forme di pedagogia collettiva che pongano e diffondano le basi culturali per una drastica riduzione dell’utilizzo del carcere, spiegando alla maggioranza dei cittadini che il carcere quasi mai è la medicina e che in non pochi casi funziona come un veleno e che perciò può risultare non solo inutile ma anche controproducente’. Che ne pensa? 

Purtroppo, credo che si dovrà ancora convivere molto tempo con il carcere. Chi critica la pena detentiva – con mille ragioni, intendiamoci – non sempre si fa carico dell’onere di indicare precise alternative in grado di tutelare efficacemente la società contro la pericolosità espressa, in particolare, da talune categorie di condannati, per i quali è difficile pensare ad una radicale rinuncia allo strumento della privazione della libertà personale. La grande sfida, allora, è quella di lavorare per rendere più efficiente il carcere rispetto alla finalità di risocializzazione e quindi di riduzione della recidiva, minimizzandone al tempo stesso gli effetti negativi sulla persona. Il che passa per un’idea di carcere completamente diversa da quella oggi dominante, ma che già i Costituenti avevano già tracciato nell’art. 27, con un’intuizione allora rivoluzionaria rispetto al panorama delle costituzioni nazionali contemporanee. E al tempo stesso occorrerebbe investire, con coraggio e fantasia, su percorsi esecutivi sin dall’inizio alternativi al carcere, per tutta una fascia di reati di bassa e media gravità. Percorsi che sarebbero certamente più efficaci in termini di prevenzione della recidiva, e assieme meno gravosi per le finanze pubbliche.

Secondo Erving Goffman le caserme e le carceri sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica. Conosciamo i fatti accaduti in molte carceri. La giustizia sta facendo il suo percorso. Cosa bisognerebbe fare affinché certi episodi non si ripetano? Sarebbe d’accordo a porre un codice identificativo sugli strumenti utilizzati dagli agenti penitenziari?

Per fortuna, nell’ordinamento italiano le carceri non sono sottratte al controllo dell’opinione pubblica, principalmente grazie al lavoro svolto dal Garante nazionale e dai Garanti regionali, oltre che all’impegno dei volontari e degli stessi avvocati che meritoriamente si occupano sempre più della difesa dei diritti dei detenuti, compresi i condannati in via definitiva. Inoltre, sempre più spesso accade che la magistratura reagisca con prontezza ed efficacia agli abusi di potere commessi in carcere. Ma a me pare che nell’ottica di una migliore prevenzione di simili episodi – che letteralmente violentano la Costituzione – sia soprattutto necessaria un’opera di formazione dell’amministrazione e della polizia penitenziaria. Non solo per diffondere in modo più capillare una cultura dei diritti e del rispetto della dignità dei detenuti; ma anche nel senso di una formazione sulle best practices relative alla gestione di situazioni critiche all’interno del carcere, incluse quelle in cui non può essere evitato un uso proporzionato della forza fisica.

Il concetto di giustizia riparativa è praticamente sconosciuto nella nostra cultura, improntata più alla vendetta semmai. Eppure la Ministra Cartabia ha più volte ripetuto: “La giustizia riparativa può diventare il pilastro della giustizia di domani”. Crede che il nostro Paese sia culturalmente pronto ad accettare questo importante cambio di paradigma?

Mentre sono scettico, come dicevo, sulla possibilità di un superamento del carcere a breve o medio termine, sono molto più ottimista sulle prospettive di un maggiore ricorso alla giustizia riparativa, di cui oggi finalmente si parla intensamente nel dibattito pubblico sulla pena. Ma su questo punto bisogna essere chiari: la giustizia riparativa presuppone il coinvolgimento delle vittime, assieme ai rei, nel processo di risanamento della ferita provocata dal reato. Il che impone anche alla dottrina penalistica e processualpenalistica, così come all’avvocatura, un ripensamento profondo sul ruolo della vittima nell’orizzonte della penalità e dello stesso processo penale.

Nel suo ultimo saggio “Giustizia mediatica – Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo”, il professor Vittorio Manes scrive, prendendo in prestito una definizione di Filippo Sgubbi, che la vittima è «l’eroe moderno, ormai santificato», istituita come tale «ante iudicium, ma anche fortemente protagonizzata a scapito del presunto reo». Condivide questo suo pensiero? 

Non c’è dubbio che la discussione politica tenda a privilegiare le istanze di tutela della vittima su quelle dell’imputato e poi del condannato, con effetti distorsivi che la dottrina ben conosce e da tempo denuncia. Ma bisogna guardarsi dal demonizzare le giuste aspirazioni delle vittime del reato, che non sempre cercano vendetta, ma – questo sì – pretendono di essere ascoltate e di essere aiutate a superare la sofferenza provocata dal reato. La stessa Corte costituzionale ha più volte riconosciuto che il processo penale ha un particolare significato per le vittime del reato, che hanno il diritto di parteciparvi in modo attivo e informato; e ha altresì sottolineato, proprio nella sentenza sulle REMS, come l’ordinamento abbia un preciso dovere di tutelare i diritti fondamentali delle potenziali vittime dei reati che autori di reato pericolosi potrebbero nuovamente commettere. Ma anche la giustizia riparativa, cui Lei faceva cenno poc’anzi, presuppone un percorso che prenda sul serio il dolore della vittima, e che la coinvolga assieme all’autore verso un esito diverso, e in definitiva più utile per l’intera collettività, dalla mera vendetta.

"Il contatto diretto con questa realtà è molto importante". “Colleghi magistrati entrare in carcere vi fa bene, l’ergastolo ostativo ci lega le mani”: intervista a Marco Puglia, giudice che scoprì la mattanza. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

«Bisogna vedere, onorevoli colleghi. Viverci in quelle celle. In certe carceri italiane bisogna starci per rendersene conto», diceva Piero Calamandrei. Oggi a vedere cosa accade in carcere ci vanno sempre meno politici, persino meno magistrati di sorveglianza. Eppure sarebbe così utile, così costituzionalmente giusto. «Sarebbe opportuno che la conoscenza del carcere non si arrestasse al magistrato di sorveglianza, che istituti di pena entrino anche altri operatori del diritto, pm, giudici avvocati, per avere una conoscenza immediata di cosa significhi lo spazio del carcere», afferma Marco Puglia, magistrato di sorveglianza a Santa Maria Capua Vetere.

Fu lui il primo ad entrare nel reparto dei pestaggi dopo quel pomeriggio del 6 aprile 2020. A sorpresa bussò alle porte della casa circondariale per verificare con i propri occhi quello che timidamente qualcuno gli aveva riferito. La storia delle violenze è ora al centro di un processo. Ed è solo la punta dell’iceberg in un sistema che è un mare di casi e norme che faticano a seguire una corrente realmente garantista.

Perché è importante che un magistrato conosca il carcere nella sua cruda realtà, che lo visiti, che si renda conto con i propri occhi del luogo a cui destina indagati, presunti innocenti?

«Il contatto diretto con questa realtà è molto importante. Il magistrato di sorveglianza entra nelle carceri come è normativamente previsto, dotato di un potere di ispezione da esercitare, entra per conoscere quello spazio e quell’ambiente e verificare che all’interno siano correttamente applicate le norme dell’ordinamento penitenziario e della Costituzione. Entrare in carcere significa entrare in contatto con la quotidianità di tanti soggetti: agenti penitenziari, direttori, operatori giuridico pedagogici e popolazione detentiva che vive l’ingresso del magistrato di sorveglianza con grande partecipazione. Diventa un momento di confronto e di colloquio. Il magistrato di Sorveglianza in quel momento è lo Stato che cammina all’interno dell’istituto penitenziario, è il potere giurisdizionale che entra in un luogo che ha una sua sacralità legata alla compressione di un bene fondamenta quale la libertà personale, ed è quindi giusto che tutti i magistrati di sorveglianza entrino all’interno degli istituti per segnare questo momento. Ma anche tutti gli altri operatori del diritto».

Mitterad in Francia abolì la pena di morte. Qui in Italia si fa fatica ad abolire l’ergastolo ostativo, un fine pena mai che equivale a una condanna fino alla morte.

«L’ergastolo ostativo è la fotografia incancellabile, scolpita nel tempo e imperturbabile dei fatti che hanno generato la condanna, un istituto insensibile ai percorsi trattamentali di rinnovamento che la persona condannata può fare. Sono tanti i soggetti che pur condannati per reati feroci, grazie al percorso fatto in carcere, hanno dimostrato di essere persone nuove, ma si sono viste chiuse le vere porte di un rinnovamento proprio dall’ergastolo ostativo che è condanna di un peso tale che svilisce quello che è l’obiettivo costituzionale. Perché l’ergastolo ostativo è legato a una valutazione lontana nel tempo che non richiede una riattualizzazione della valutazione di pericolosità. Tutto ciò che è ostativo nell’ordinamento penitenziario mette a dura prova la magistratura di sorveglianza che ha le mani legate, salvo adire la Corte costituzionale, anche davanti a percorsi che anelano un passo avanti, un’apertura trattamentale».

Si parlava di persone nuove. Diventare persone nuove si può, meritare una seconda opportunità appartiene a uno Stato di diritto, a una giustizia giusta. Va riconosciuta, no?

«Certo. E di persone nuove ne ho conosciute tante. Una mi ha colpito particolarmente. C’era un condannato per traffico internazionale di droga, aveva una condanna importante per fatti che lo vedevano coinvolto sin da quando era adolescente. Questa persona era detenuta a Carinola e quando si prospettò la possibilità di una misura alternativa, con la cooperativa “Al di là dei sogni” di Sessa Aurunca, decisi di sperimentare. La misura alternativa prevedeva che quel ragazzo lavorasse, regolarmente retribuito, coltivando la terra nei possedimenti di questa coop che fa parte del circuito di Libera. Questo detenuto iniziò così un percorso di totale rinnovamento per cui oggi con la famiglia si è trasferito a Cellole e lavora con la coop, lavora anche la moglie, e lui con Libera racconta la sua storia, dalla scelta iniziale di essere un ragazzino di Scampia che guadagnava con la droga alla decisione di ricalcolare la propria vita dedicandosi alla legalità e al lavoro. Questa storia mi ha colpito perché io e questo detenuto siamo coetanei: io sono di Secondigliano e lui di Scampia, siamo cresciuti a distanza di pochi chilometri, l’uno inconsapevole dell’altro, scegliendo percorsi diametralmente opposti. Mentre io studiavo giurisprudenza lui diventata elemento di spicco del clan, mentre io mi laureavo lui entrava in carcere, poi grazie ai percorsi magici della legalità ci siamo incontrati: io ho dato un’alternativa a lui e lui ha dato a me il coraggio di credere negli altri come magistrato di sorveglianza e di credere che non sempre tutto sia perduto».

Ci vuole il coraggio delle scelte, il coraggio del garantismo.

«Concedere una possibilità a chi è in un momento del percorso adeguato significa dare a quella persona l’opportunità di uscire dal circuito criminale, ma significa anche far del bene alla società che riaccoglie una persona rinnovata. Solo la criminalità potrebbe giovarsi della volontà di chi è stato in carcere di tornare a commettere reati, far sì che chi è in esecuzione di pena torni a noi nel migliore dei modi è un bene per tutti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Parla la dottoressa Donatella Ventra. “Non guardate con sospetto noi magistrati di sorveglianza, venite in carcere”, intervista a Donatella Ventra. Francesca Sabella su Il Riformista il 7 Settembre 2022 

La strage silenziosa in carcere, giudici che non conoscono la realtà dove troppo spesso e con troppa facilità spediscono chi siede sul banco degli imputati. Un sistema penitenziario da rivedere e una cultura da cambiare. Ne abbiamo parlato con Donatella Ventra, magistrato di sorveglianza presso la Corte d’Appello di Salerno.

Dottoressa Ventra, in carcere ci sono stati 59 suicidi in otto mesi, 14 solo nel mese di agosto e vale a dire più di uno ogni due giorni: è una strage. Un paese nel quale si muore in carcere e di carcere può definirsi civile?

«Sono dati veramente allarmanti, abbiamo già superato il numero dei casi totali del 2021 (quando ce ne furono 57) con la differenza che siamo a settembre. Un altro dato che mi ha colpito molto è che i detenuti di origine straniera che si sono suicidati in carcere sono stati 28, costituiscono quindi il 47,5% dei casi. Questi sono dati molto preoccupanti, ma che purtroppo tristemente non mi sorprendono. Andando oltre i numeri, ci accorgiamo che ci sono tre categorie di soggetti a rischio suicidario: gli stranieri, i tossicodipendenti e soggetti con problemi di infermità psichiatrica».

Mi scusi, ma tossicodipendenti e persone con problemi di salute psichiatrica non sono due categorie di detenuti che in carcere non dovrebbero proprio starci?

«Eh… Questa è una questione molto lunga. Purtroppo oggi i soggetti in cella che hanno queste problematiche trovano una struttura carceraria inadeguata sia a livello strutturale che organizzativo. Mancano i mediatori culturali per gli stranieri, manca un’adeguata assistenza sanitaria per la salute mentale. I mediatori culturali per gli stranieri, per esempio, sono importantissimi e la stessa cosa vale per i detenuti tossicodipendenti e con problemi di salute mentale: così la pena assume connotati afflittivi enormi. E non dimentichiamo che il carcere, anche nei soggetti che non hanno fragilità, crea di per sé un trauma. A tutto questo si aggiunge il sovraffollamento e la mancanza di agenti della polizia penitenziaria».

Eppure, il carcere non è affatto considerato come extrema ratio come invece dovrebbe essere per sua stessa natura, anzi vige una smania di manette a fronte di una società sempre più giustizialista. Lei cosa pensa?

«Da anni si pensa di affrontare il problema del sovraffollamento come se fosse un’emergenza momentanea e invece è un problema strutturale. Il legislatore nel corso degli anni ha sempre pensato di apporre dei rimedi che si sono rivelati ben presto fallaci. In realtà ci sono state misure che hanno finito per sostituirsi alle misure alternative, in primis alla semilibertà che invece si basa su tutt’altro: principio rieducativo della pena e principio della gradualità del trattamento».

La soluzione troppo spesso, però, è “servono nuove carceri”, quando in realtà si dovrebbe cambiare questa cultura manettara…

«No, non servono nuove carceri. Bisognerebbe innanzitutto migliorare le condizioni di vita all’interno del carcere e poi bisognerebbe incrementare l’accesso alle misure alternative. Per fare questo sarebbe necessario un cambio di orientamento culturale che purtroppo non c’è, perché bisognerebbe finalmente iniziare a considerare la fase dell’esecuzione della pena non come un’inutile appendice di un processo da liquidare in fretta e in modo semplicistico, ma come la fase più importante: quella in grado di attribuire un reale significato in termini di giustizia a tutto ciò che la precede. Capisco che l’appeal del carcere a livello politico è prossimo allo zero perché parlare di carcere non porta voti, però bisognerebbe invece invertire questa tendenza facendo capire che un sistema penitenziario efficiente, con maggiore accesso alle misure alternative al carcere, non soltanto consentirebbe di dare concreta attuazione ai principi di pari dignità umana e uguaglianza sostanziale che sono previsti dalla nostra Costituzione, ma consentirebbe anche di ab bassare il tasso di recidiva. La stessa figura del magistrato di sorveglianza oggi viene guardata quasi con sospetto, come se fossimo quelli che quasi distruggono le condanne, ma non è così. Io penso che per ogni magistrato bisognerebbe prevedere un periodo obbligatorio di lavoro in carcere. Ci sono colleghi che in carcere non ci sono mai entrati e questo è profondamente sbagliato».

Quanto sarebbe importante per un magistrato conoscere da vicino la realtà carceraria?

«Sarebbe importantissimo. Noi abbiamo una Costituzione bellissima e ci dice che la pena deve essere rieducativa e non contraria al senso di umanità, ma questa funzione rischia di rimanere una formula astratta e priva di contenuti. Per un giudice che applica le leggi e in primis la Costituzione, ritengo che sia una carenza grave non conoscere le carceri.

Dottoressa, mi dice una frase garantista…?

«Direi ai miei colleghi di entrare in carcere almeno una volta perché altrimenti si ha una visione monca del sistema giustizia. Dobbiamo pensare che tutto ciò che precede la fase dell’esecuzione della pena e quindi indagini preliminari, processo di primo grado, appello, Cassazione, viene vanificato se dopo la condanna non ci si interessa più di quello che succede. Tutto quello che accade prima ha un senso se poi la pena viene eseguita in modo da darle un senso, altrimenti è tutto inutile».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti. 

Alessandro Stomeo su L'Inkiesta il 18 Maggio 2022.

La pena di morte è stata abolita definitivamente in Italia con l’entrata in vigore della Costituzione, il gennaio del 1948, mentre ha resistito nel Codice Penale Militare fino ai primi anni del 1990, cedendo poi il passo all’ergastolo. Io abolirei anche l’ergastolo, ma sarebbe velleitario solo parlarne nel contesto in cui viviamo.

L’idea di fondo che domina la Costituzione rispetto alla pena quale sanzione per l’autore di reati, è quella della cosiddetta «rieducazione», ma non mi sembra che l’anelito contenuto nell’art. 27 costituzionale si sia mai tradotto in realtà, con ciò scontentando tutti.

La realtà, comunque, ci dice che la detenzione in carcere, per come vissuta, è probabilmente uno dei più visibili e nefasti errori della società moderna, che non ha saputo cogliere ed approfondire la grande innovazione e la lucida prospettiva che i grandi giuristi, filosofi ed intellettuali avevano introdotto con l’umanizzazione delle pene corporali, della tortura, della pena di morte.

Ma cosa è diventata e come si è evoluta la pena della detenzione in carcere, quanto è aderente al dettato della Costituzione e, soprattutto, quale è lo scopo condiviso della pena detentiva al nostro tempo? Lo Stato che irroga le pene detentive e le esegue in che modo affronta i nodi problematici che gravitano intorno al carcere ed alla funzione della pena?

Purtroppo i dati e le oggettive evidenze dicono che il carcere (ed anche la pena) rimangono argomenti demagogici da utilizzare a scopo elettorale. C’è chi vorrebbe «gettare le chiavi» per i corruttori e i corrotti, chi per i ladri d’appartamento, chi per gli «zingari» e gli immigrati irregolari, chi per gli stupratori o gli spacciatori, molte volte sulla scia di freschi fatti di cronaca.

Intanto, però, il carcere è diventato un luogo di morte, senza pena di morte, oramai appunto abolita. Si muore perché si sceglie di farlo, per suicidio; l’ultimo nel carcere di Foggia il 12 maggio 2022, che si aggiunge ad altri 22 suicidi solo nell’anno in corso, oltre a 50 decessi per altre cause. I suicidi in carcere nell’anno passato sono stati 54, mentre 62 nel 2020 con 68 e 90 decessi per altre cause negli stessi anni. Il tasso percentuale di suicidi in carcere è circa 10 volte superiore che all’esterno, più o meno 10 suicidi ogni 10.000 detenuti.

L’idea iconoclastica del carcere come luogo di isolamento dei pericolosi e come luogo di «redenzione» per i deviati, si è rivelata falsamente rassicurante e fallimentare, lasciando il posto ad una realtà ben diversa nella quale gli istituti di pena sono luoghi vuoti di speranza di reinserimento sociale, approssimativi nella architettonica, fatiscenti, con carenze di organico sia tra le Forze di Polizia Penitenziaria che, soprattutto, tra gli operatori sanitari, sociali e di supporto amministrativo.

Il carcere, insomma, con i problemi che porta, è diventata una patata bollente che si vuole accollare tra le mani del primo che passa, visto che non è neanche un affare economico tanto che con il PNRR Italia pare che gli stanziamenti siano di 132,9 milioni di euro, utilizzabili dal 2022 al 2026 per la «costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture». Solo pochissime strutture in tutta Italia ne potranno usufruire.

Nessun Governo ha avuto ed ha una progettualità condivisa su come uscire da una impasse che riguarda decine di migliaia di individui. Il lavoro della Commissione «Ruotolo», voluta dal Ministro Cartabia, e il progetto di riforma della stessa Cartabia sono buone intenzioni che dovranno fare i conti con un assetto parlamentare tutt’altro che stabile.

Lo Stato spende ogni giorno 164 euro per ogni detenuto. Il carcere non vale la pena e costa sempre di più ma il 60% delle spese è per polizia e magistrati. Viviana Lanza su Il Riformista il 12 Maggio 2022. 

Il carcere non consente alcuna sicurezza sociale. Pensare che chiudere nelle strutture penitenziarie chi è accusato di reati possa rendere la comunità più sicura è soltanto un’illusione. Fior di studi hanno dimostrato che la recidiva è bassa tra coloro che hanno scontato una condanna con misure alternative ed è invece alta (anche fino al 70%) tra coloro che hanno vissuto la reclusione in carcere fine a se stessa, con pochi e sporadici percorsi di rieducazione. Basterebbero questi numeri, e gli esempi di sistemi penitenziari europei come quelli della Norvegia o della Spagna, per rendersi conto che il nostro sistema carcere è fallito. Eppure questo “fallimento” ci costa ogni anno milioni di euro. E ogni anno sempre di più.

Per il 2022 la bozza del bilancio del Ministero della Giustizia aumenta di 124,4 milioni di euro i fondi a disposizione per l’Amministrazione penitenziaria, che passano da 3,1 a 3,2 miliardi. Nell’annuale rapporto sulle carceri l’Associazione Antigone affronta, tra gli altri, il tema dei costi del sistema penitenziario, un argomento sul quale nei dibattiti pubblici e politici si tende molto spesso a sorvolare. Leggendo, invece, i dati nel dettaglio ogni facile entusiasmo, di quelli su cui la politica punta quando ha interesse a fare colpo sull’opinione pubblica, si spegne. Più fondi per le carceri non significa affatto più investimenti per rendere finalmente le carceri un luogo più umano (e sarebbe pure ora, visto che l’Italia è stata condannata dall’Europa per il trattamento inumano e degradante dei suoi istituti di pena).

Più euro per l’amministrazione penitenziaria non si tradurranno in maniera proporzionale in iniziative per fare più manutenzione delle strutture fatiscenti e per potenziare le attività di reinserimento?. Non è detto. Quel che è certo è che la spesa giornaliera per detenuto è in aumento rispetto agli anni scorsi: ammontava a 128,28 euro nel 2017 ed è salita a 164,33 euro nel 2022. Il carcere, quindi, costa alla collettività sempre di più, ma per non svolgere la sua funzione sociale e costituzionale. Assurdo, no? Di questi 3,2 miliardi che il Ministero mette in campo, 2 (quindi più del 60%) sono destinati al corpo di polizia penitenziaria. Cioè si continua ad investire sulla repressione, sulla reclusione finalizzata a se stessa.

In particolare si investe anche su personale amministrativo e magistrati (quasi 30 milioni, +14,5% secondo i dati del report Antigone). Ora, è vero che ci sono nuove assunzioni di personale da fare ma perché far diminuire i fondi dedicati alla manutenzione ordinaria degli immobili e prevedere un incremento dei fondi per l’edilizia penitenziaria (passati da 127, 3 milioni del 2021 ai 203 milioni del 2022, sicuramente anche grazie al Pnrr ma per costruire qualche nuovo padiglione)? E ancora, perché far diminuire di quasi 6 milioni (-1,8%) il capitolo dedicato all’accoglienza, al trattamento penitenziario e di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie, come emerge dal report di Antigone?

A fronte di due milioni in più alla voce “Spese di ogni genere” riguardanti la rieducazione dei detenuti e quattro milioni per generiche “Altre spese” relative a mantenimento e assistenza dei detenuti, si trovano 15 milioni in meno destinati alla riqualificazione di impianti e attrezzature per le lavorazioni penitenziarie all’interno degli istituti di pena. «Una diminuzione che desta qualche preoccupazione», commenta Antigone. Forse sui bilanci relativi alla giustizia in generale, e su quelli relativi al sistema penitenziario in particolare, bisognerebbe fare delle riflessioni in più. Basti pensare che la spesa legata ai ricorsi dei detenuti per le condizioni di detenzione in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nel 2020 è stata di 617,5 milioni. Che le somme per i risarcimenti per ingiusta detenzione nei casi di errori giudiziari ammontano a 50 milioni di euro mentre le somme per la riparazione per la violazione del termine ragionevole del processo, quindi per le lungaggini processuali, ammontano a 64 milioni di euro. Soldi della malagiustizia che gravano sulle tasche della comunità. soldi che potrebbero essere spesi per rendere tutto migliore. Anche le carceri.

Viviana Lanza.

Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il carcere tra la privazione di tutto e l’espropriazione di sé stessi. COSIMA BUCCOLIERO su Il Domani il 10 maggio 2022

Il carcere è soprattutto privazione, non è solo perdita della libertà personale: una duratura condizione di privazione totale. In carcere per qualunque situazione, esigenza, bisogno, si deve chiedere il permesso a qualcuno.

Tutto quello che qui si muove, si inventa, si immagina è regolato dalla pratica della scrittura su svariate tipologie di moduli. Ho bisogno di una sveglia diventa: “Alla cortese attenzione ecc. avrei bisogno di una sveglia ecc”. Stesura, rilettura. Firma. 

Il carcere è anche un luogo di espropriazione. Se io ho mal di testa apro un cassetto, frugo, prendo una scatola di analgesici ed è fatta. Se un detenuto ha mal di testa, la gestione del suo dolore diventa collettiva. Cosima Buccoliero è l’autrice del libro: Senza sbarre. Storia di un carcere aperto.

COSIMA BUCCOLIERO dirige la Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. In precedenza ha ricoperto la vicedirezione della Casa di reclusione di Opera a Milano, la più grande in Italia, mantenendo anche la guida dell’Istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria. È stata vicedirettrice e poi direttrice della II Casa di reclusione di Milano Bollate. In questi anni ha rivoluzionato l’approccio alla detenzione, contribuendo a trasformare Bollate in un carcere modello ove si incontra «l’umanità che non ti aspetti»

Celle ancora strapiene, ma il carcere non doveva essere l’extrema ratio? Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Maggio 2022. 

Basta con questa visione carcerocentrica. Le celle scoppiano, i diritti sono mortificati, la detenzione non ha altra funzione se non quella di rendere la condanna una vendetta. «Il carcere deve essere integrativo, deve essere rete», dice Fra’ Giuseppe Pulvirenti, cappellano di Poggioreale, parlando da Scampia dove si presenta il libro “Carcere” del garante Samuele Ciambriello. L’incontro si svolge nell’Officina delle Culture “Gelsomina Verde”, organizzato da Ciro Corona, presidente dell’associazione “Resistenza”. Carcere come extrema ratio, dunque.

Non si tratta di uno slogan da garantisti, lo prevede la legge. Il direttore del carcere di Poggioreale Carlo Berdini, intervenendo al dibattito, afferma che «bisogna capire in che misura e come il carcere possa essere necessario». «Ritengo – aggiunge – che il carcere debba essere considerata una misura residuale. Deve far sì che le persone non escano peggiori e il miglioramento dei detenuti deve passare necessariamente dal lavoro, dalla cultura, da tutto ciò che prevede l’ordinamento penitenziario». Lavoro, parola che dice tutto ma che spesso si traduce in niente. Eppure quanto il lavoro sia importante nel percorso di riscatto di chi vive la privazione della libertà personale è cosa nota, lo ricorda Pietro Ioia, garante della città metropolitana di Napoli. «Il carcere si dovrebbe reggere su tre pilastri: diritti, lavoro e inclusione territoriale – aggiunge Enzo Vanacore, rappresentante della cooperativa L’uomo e il legno – Tre obiettivi difficili ma vanno perseguiti».

Il percorso passa per il reinserimento sociale. Adriana Sorrentino, referente Uepe Campania, spiega come «il discorso sull’inserimento territoriale dei nostri ragazzi è il motivo per il quale spesso sono in giro per il mondo per progettare interventi che si possono fare». Servono ponti. «È necessario che prima di tutto si crei una coscienza civica – conclude Ciambriello – . Non bisogna continuare a pensare che il carcere sia una risposta certa e immediata, che ci è dovuta per la sicurezza sociale. Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire. Siamo qui a Scampia con diverse associazioni, cooperative e detenuti in affidamento in prova. Il Terzo settore è una “zattera” che può remare controcorrente nel mare dell’indifferenza e della repressione».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Viviamo in una bara nell’attesa di essere sepolti. Giuseppe Grassonelli su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

Alla fine di marzo è “evaso” dal carcere di Opera un altro detenuto, morto di – come si dice – “morte naturale”. Ma nessuna morte in galera può essere detta “naturale”. Alfio Laudani aveva settantasei anni ed era gravemente malato. Stava scontando diverse condanne all’ergastolo e ogni mese partecipava in stampelle al laboratorio di Nessuno tocchi Caino. All’ultimo, a metà aprile, non si è presentato. I suoi compagni detenuti lo hanno commemorato con parole commosse che riecheggiano in questo scritto.

Quando Virginia Woolf scrisse Al faro, aveva in mente un’elegia che portasse con sé il sapore della vita che si perde. Dopo trent’anni di carcere, io sono giunto alla conclusione che noi tutti riusciamo davvero a raccontare solo quello che perdiamo, affidando alla parola il tentativo di trattenere il tempo. Si tratta di un tentativo disperato, affermerebbe qualcuno, ma noi siamo Spes contra spem e con questo nome, sotto l’egida di Nessuno tocchi Caino, ci incontriamo da anni nel Carcere di Opera. Ci narriamo di un tempo che non ci appartiene più, un passato dal quale ci siamo emancipati, e a questo sovrapponiamo i decenni di reclusione, tirando le somme con i giorni appena trascorsi.

L’ultimo laboratorio si è aperto con la commemorazione di un nostro caro compagno, venuto a mancare a marzo. Sergio D’Elia, il nostro Segretario, ha aperto le riflessioni dicendo che il cuore si ferma quando non c’è l’amore, perché non gli è concesso di amare ed essere amato. Si può, infatti, essere vivi solo nel rapporto con l’altro e ognuno è delegato a rappresentare la vita solo nella misura in cui ama ed è riamato. In altre parole, l’unica obiezione che possiamo muovere al tempo che se ne va è l’amore, che è come un calco capace di imprimere con il ricordo una pergamena che scorre inesorabile. Il nostro racconto si allunga dei giorni trascorsi e con essi cresce il numero dei compagni che in carcere hanno perso la vita e che vogliamo ricordare. Ciò che più ci rattrista è che in noi sia subentrata una certa abitudine alla morte, consapevoli di abitare in un cimitero vivente, pronti alla bisogna, sapendo che domani l’ennesimo sacco nero accompagnato da sguardi vuoti attraverserà il corridoio della sezione, portando via nel silenzio assordante un altro detenuto. Noi non abbiamo nulla e siamo privati anche del possesso del tempo: non possiamo fare programmi per domani, non sappiamo quando ci sarà una lezione o un laboratorio, gli incontri li sappiamo quando accadono.

Viviamo in regime di completa espropriazione del tempo, eppure abbiamo una certezza: domani il sepolcreto tornerà ad animarsi della morte e la sua porta si spalancherà per un’altra vittima. A ogni gesto, la prigione recita al detenuto il suo memento mori con la negazione degli utensili più banali, con l’impossibilità di una vita affettiva e sentimentale, col divieto di umanità. È un’impresa sbucciare una mela o trovare una superficie che rifletta per radersi senza tagliarsi con un rasoio in momentanea concessione. In carcere non ci si specchia in nessun modo. La filosofia mi ha insegnato che noi ci specchiamo negli amici e negli affetti, attraverso quelle relazioni di cui parlava Sergio. L’immagine che di noi vediamo nell’altro, diverso da noi, ci consente di evadere dalla prigione del nostro essere. «Non siamo forse tutti prigionieri?», diceva Virginia Woolf attraverso Mrs Dalloway.

Sì, siamo tutti prigionieri – rispondo io – ed è per questo che abbiamo un vitale bisogno di amare, ma in carcere un detenuto può solo guardarsi negli occhi di un altro uomo recluso come lui e lì trovare il riflesso della sua stessa prigionia: viviamo in una bara. Dalla parte opposta, si dice che la giustizia debba preservarsi dalle emozioni e dai sentimenti, essere asettica e razionale come una scienza. Ma – vi domando – come può dirsi giusta una giustizia che disconoscendo la pietas si veste della freddezza che nel linguaggio quotidiano si attribuisce agli omicidi? Portare testimonianza sulle morti dei compagni detenuti è un nostro dovere morale, lo abbiamo sempre fatto nel modo migliore che ci era dato e non avremmo potuto non farlo.

Noi detenuti siamo i superstiti, i testimoni di una conoscenza di cui siamo diventati consapevoli a poco a poco. Siamo una minoranza insolita e minuscola, quelli che per capacità o per una strana sorte sono ancora vivi perché non hanno raggiunto il fondo o forse, banalmente, perché siamo stati arrestati giovanissimi. Dice un verso di Cristina Campo che «non si può nascere ma si può restare innocenti». Quei ragazzi criminali arrestati trent’anni fa hanno appreso che colpevoli si può diventare, ma qualche verso dopo Cristina scrive: «Non si può nascere ma si può morire innocenti». Ecco noi non sappiamo ancora credere che la colpa si possa perdere e si possa morire innocenti. Giuseppe Grassonelli. Ergastolano detenuto a Opera

Dopo la mattanza di Santa Maria, spazio alla fantasia. Detenuto telefona a carabinieri e garante, la penitenziaria continua a sfornare fake: “Affermazioni ridicole”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Un detenuto avrebbe utilizzato un cellulare per lanciare una richiesta di aiuto all’esterno del carcere di Poggioreale a Napoli. Avrebbe telefonato “dalla cella ai carabinieri e al garante dei detenuti per segnalare di aver subito minacce, non si sa bene da chi”. Un caso “eclatante e gravissimo” quello denunciato nella mattinata di mercoledì 24 agosto da Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di Polizia Penitenziaria, e relativo alla sera precedente.  Un caso che però, come spesso capita quando a denunciare sono i sindacati di polizia penitenziaria, non ha avuto alcun riscontro effettivo. Il fantomatico detenuto non ha telefonato né ai carabinieri né al garante del comune di Napoli, Pietro Ioia, né a quello regionale, Samuele Ciambriello.

Di Giacomo, da giorni in sciopero della fame per protestare contro l’organico sempre più eseguo degli agenti penitenziari presenti nelle carceri campane e dopo l’escalation di suicidi di detenuti registrata ad agosto, è stato smentito da tutte le parti chiamate in causa. All’ufficio stampa del Comando provinciale dei Carabinieri di Napoli non risulta alcuna chiamata al 112 o ad altri militari dell’Arma da parte di un detenuto di Poggioreale. Stesso discorso vale per i due garanti. “Anche io, come il mio collega Samuele Ciambriello, non ho avuto nessuna telefonata da un detenuto dal carcere di Poggioreale. Affermazione fatta da un sindacalista della polizia penitenziaria. Affermazione priva di fondamento e ridicola in un momento molto delicato per la questione carcere” taglia corto Ioia.

Duro anche il commento di Ciambriello: “Poiché mi è stato chiesto da più giornalisti, vorrei chiarire, per quanto mi riguarda, di non aver ricevuto alcuna telefonata cellulare dal carcere di Poggioreale in cui mi siano state segnalate violenze. Se l’avessi ricevuta avrei immediatamente informato le autorità competenti. Aggiungo che trovo davvero molto triste che ci sia chi affronta i temi delicati del mondo penitenziario (che comprende non solo i detenuti, ma anche operatori, educatori, agenti, personale amministrativo, familiari) facendone sempre occasione di polemiche pretestuose. Sono certo che meritiamo tutti di meglio“.

Nella sua nota-fake, Di Giacomo ripropone la sola retorica: “Si pensi all’uso dei cellulari che ne fanno i capo clan e i più pericolosi criminali per impartire ordini agli uomini dei clan sui territori oppure come riprovano tanti episodi di cronaca per minacciare cittadini e persino compiere estorsioni. È il caso di ricordare che nel 2020 nelle carceri italiane sono stati rinvenuti 1.761 telefoni cellulari. Erano stati 1.206 nel 2019 e 394 nel 2018. Solo una piccola parte arriva attraverso droni contro i quali non credo serva a molto la “schermatura” delle carceri come pure qualcuno ha proposto tenuto conto che, come è stato accertato la “consegna”, avviene in tanti altri modi”.

“E’ del tutto evidente che non basta aver inserito, dall’ottobre 2020, il reato per chi introduce o detiene all’interno di un istituto penitenziario telefoni cellulari o dispositivi mobili di comunicazione, a differenza del passato quando era derubricato a semplice illecito disciplinare. Servono pene più severe perché chi introduce il cellulare se la cava con una sanzione amministrativa o con pene irrisorie e chi lo usa non ha nulla perdere – conclude – Sarebbe sufficiente innalzare nel minimo a quattro anni la pena in modo da disincentivare seriamente il fenomeno. L’alternativa per lo Stato è dotare di ogni cella di un comodo impianto telefonico tanto per contribuire al clima, per boss e capi clan, da albergo a quattro stelle”.

Non è la prima volta che i sindacati di polizia penitenziaria forniscono ricostruzioni assai fantasiose di quanto accade in carcere. Dopo l’orribile mattanza di Santa Maria Capua Vetere, il cui processo inizierà a breve (oltre 100 gli imputati appartenenti alla penitenziaria), sono state diverse le segnalazioni di presunte risse con il coinvolgimento di decine e decine di detenuti puntualmente smentite. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Violentato e abbandonato in cella senza cure, il dramma di Michele: “Ha tentato il suicidio”. Andrea Aversa su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Ha solo 31 anni ma la sua vita è stata praticamente segnata. Una cosa purtroppo normale per chi è detenuto. Michele (nome di fantasia per tutelarne la privacy) è recluso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quello della mattanza, quello della mancanza di acqua. Infatti, proprio in una cella del reparto “Nilo”, è stata consumata l’ennesima violenza.

Michele è stato abusato sessualmente. Il presunto aggressore sarebbe un altro detenuto impegnato in attività lavorative di manutenzione nei vari reparti. Michele ha denunciato i fatti e per questo è stato bollato come un “infame”. È in isolamento nel reparto di accoglienza. A 31 anni Michele è detenuto e traumatizzato – a causa della violenza subita – e anche solo, perché isolato dagli altri reclusi. Ma cosa ben più grave, pare che a Michele sia stato negato il diritto alla salute. «Non sarebbe stato sottoposto al protocollo clinico previsto per le vittime di abusi sessuali – ha spiegato a Il Riformista la Garante per i diritti dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore – Non avrebbe fatto un tampone anale, un test nè per l’Hiv, nè per l’epatite, non avrebbe fatto una visita urologica, non sarebbero stati fatti accertamenti volti a individuare possibili tracce di sperma rilasciate dall’aggressore e non sarebbe stato neanche trasferito al pronto soccorso».

Michele è in attesa di alcune risposte da parte dell’amministrazione penitenziaria e dell’autorità giudiziaria. Perché nonostante i solleciti, né lui, né il presunto carnefice sono stati trasferiti. «Michele andrebbe trasferito, eppure la prima richiesta è stata inspiegabilmente rigettata – ha detto la Belcuore -. Dovrebbe andare in un’altra struttura che gli consenta di stare vicino alla famiglia». Ma come ben sappiamo la burocrazia ha i suoi tempi e le sue procedure. Prassi che spesso sono in contrasto con l’affermazione dei diritti individuali. E così la pratica di Michele pare sia stata rallentata da un cavillo: il 31enne non avrebbe indicato nella denuncia il nome e cognome del suo aggressore. Cornuto e mazziato, “infame” solo a metà. Per questo motivo non ci sarebbe stato un deciso intervento delle autorità competenti.

La storia di Michele è drammatica come quelle di tante altre persone finite dietro le sbarre. Lui è finito in cella per reati legati alla droga. Probabilmente è uno dei tanti in attesa di giudizio. Spesso di detenzione si muore. A dimostrarlo i dati sui suicidi: ben 54 i detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Sei solo in Campania. Un 2022 da record per un primato di morte. Una carneficina rispetto alla quale lo Stato e le istituzioni restano indifferenti. La politica ha deciso di tenere da parte il tema carceri. Meglio rimuoverlo in tempi di campagna elettorale. Gli ultimi non portano voti ma levano consensi. E Michele sarebbe potuto essere uno di quei numeri, una cifra che avrebbe aumentato questa infernale statistica. Il 31enne ha infatti più volte tentato il suicidio.

Un modo per farla finita, per dire basta a una vita da incubo. L’unica soluzione per mettere fine ad una vita di degrado e disumanità. E lui ha messo tutto nero su bianco, in una lettera che Il Riformista ha avuto la possibilità di leggere. «Il mondo carcerario è complesso – ha affermato la Belcuore – È un contesto che ha le sue situazioni, di fatto estremamente complesse e incomprensibili per chi non le conosce. I politici dovrebbero visitare più spesso i penitenziari per potersene rendere conto». Infine, sul capitolo sanità, la Belcuore ha dichiarato: «Il sistema sanitario delle carceri, da quando è passato di competenza alle Asl, non funziona in modo efficiente. Per quanto mi riguarda l’area sanitaria dei penitenziari della provincia di Caserta andrebbe commissariata. Non per le professionalità delle singole persone che ci lavorano ma per la mancanza di risorse, personale e per l’enorme dispendio di energie che va a discapito dei detenuti». Andrea Aversa

"Mi hanno detto che se voglio impiccarmi per loro è uguale". La lettera del detenuto violentato in carcere: “Coltello alla gola e mi hanno penetrato, sono morto dentro”. Andrea Aversa su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

«Il direttore e il comandante non si sono fatti vivi per parlare con me. Ho tentato il suicidio perché per me non c’è più vita, mi hanno tolto tutto, sono morto dentro. Non sto ricevendo nessun supporto morale. Anzi sono in accoglienza, nascosto come se fossi stato io ad aver fatto del male a qualcuno» e ancora: «Mi hanno detto che se voglio impiccarmi per loro è uguale perché chi piange è solo la mia famiglia. Mi hanno costretto a pulire il bagno due volte al giorno, a cucinare come uno schiavo». Sono alcune delle parole che Michele (nome di fantasia per tutelarne la privacy) ha scritto lo scorso 4 agosto in una lettera.

Parole di dolore e angoscia che hanno descritto l’incubo che il giovane detenuto ha vissuto. Ieri Il Riformista ha pubblicato un articolo proprio in merito a questa vicenda. Oggi il 31enne è stato “magicamente” trasferito dopo che l’istanza era stata inspiegabilmente respinta. Il caso è stato segnalato dalla Garante per i diritti dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore. Michele avrebbe subito una violenza sessuale in cella: «Mi hanno messo un coltello alla gola, mi hanno costretto a fare sesso orale e mi hanno penetrato. Io voglio ancora amare ma ad oggi solo il pensiero di andare a letto con qualcuno mi fa vomitare. Ho paura, ho sbagliato ma voglio la mia vita, voglio anche io una famiglia. In questo buco sto perdendo la testa, non voglio più pensare alla morte. Aiutatemi».

La lettera, di cui pubblichiamo alcune parti, è un cazzotto allo stomaco. Un testo che dovrebbero leggere le massime istituzioni dello Stato italiano per cercare di comprendere un minimo ciò che può accadere dietro le sbarre di un penitenziario. Cosa ben più grave, pare che a Michele non sia stato garantito neanche il diritto alla salute. Al giovane detenuto non è stato applicato il protocollo clinico previsto per gli abusi sessuali. Al 31enne non è stato fatto un tampone anale, né un test per l’epatite, né per l’Hiv, non è stata fatta una visita urologica e non è stato neanche portato al pronto soccorso. Se tutto dovesse essere confermato ci troveremmo di fronte ad un caso più che di tortura. Altro che comportamenti disumani e degradanti.

Michele ha avuto l’onore di parlare solo con una psicologa: «Una visita di 30 secondi. La dottoressa viene una volta a settimana. Non ne posso più, sto impazzendo. Mi stanno riempiendo di gocce e tranquillanti, ma io non voglio impazzire qua dentro. Non li prendo gli psicofarmaci, voglio restare lucido. Meglio morto che zombie». Michele sa di aver sbagliato ma sa anche di non sentirsi a suo agio in un contesto come quello del carcere. Lui vorrebbe solo indietro la sua dignità, la sua vita. Vorrebbe riabbracciare la madre che «non mi ha insegnato ad essere un criminale, mamma mi ha insegnato ad aiutare le persone a condividere il dolore o un pezzo di pane». Per Michele non è stato affatto facile denunciare la violenza subita, non solo per la difficoltà nel rivelare questa tipologia di trauma ma anche perché da allora è stato bollato come un “infame”. Gli auguriamo, dalla nuova struttura nella quale è stato trasferito, di riprendere a sognare perché fino ad oggi, di notte ha pianto e pregato, «Dio di farmi morire e farmi andare nelle sue dolci braccia».

Del resto Michele sarebbe potuto diventare il 55esimo suicidio avvenuto in un carcere italiano dall’inizio dell’anno. In Campania sarebbe stato il settimo. Un’altra mattanza ma di Stato. Numeri che farebbero impallidire qualsiasi democrazia. Ma non quella italiana, le cui istituzioni continuano a calpestare sia la Costituzione che lo Stato di Diritto. Per rendersi contro dello scempio, basta assistere all’attuale campagna elettorale: per i partiti il sistema penitenziario non esiste. Andrea Aversa

Il caso. Detenuto morto in carcere, due agenti indagati per “l’omicidio” di Vittorio: aveva pochi mesi da scontare. Viviana Lanza su Il Riformista il 14 Maggio 2022. 

Le notizie che arrivano da Salerno, dopo la morte, l’altro giorno, di un detenuto nel carcere di Fuorni, sono un’ennesima testimonianza di quanto a rischio sia la tenuta del sistema penitenziario e di quanto complicato e inumano sia viverlo. Questo vale sia per i detenuti sia per chi in carcere ci lavora. Vittorio, detenuto con problemi di salute mentale, è morto tre giorni fa stroncato da un malore per il quale non è servito nemmeno il tentativo del 118 di rianimarlo e portarlo in ospedale. Due agenti della polizia penitenziaria, gli ultimi ad avere avuto contatto con lui, sono ora iscritti nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio preterintenzionale. Da qualunque prospettiva la si guardi, questa storia testimonia le criticità di un sistema che non funziona come dovrebbe, in cui i cortocircuiti sono frequenti e spesso drammatici.

Ancora un morto in cella, ancora agenti indagati. Di nuovo un’indagine della Procura a puntare la lente su quello che accade nei padiglioni, nelle celle, nel vecchio e inadeguato sistema penitenziario. Di nuovo dubbi e domande su questo sistema in rovina. Un anno fa parlavamo di Santa Maria Capua Vetere, della mattanza di Stato, dei pestaggi organizzati da una squadra di cento agenti contro un centinaio di detenuti. Adesso parliamo di un detenuto poco più che trentenne morto a causa di un malore dopo una colluttazione con due agenti della penitenziaria. Secondo gli agenti, si sarebbe trattato invece di “un’azione di contenimento” come risposta all’aggressione da parte del detenuto. Una versione che al momento non è stata sufficiente a far chiudere il caso. Anzi.

La Procura di Salerno ha deciso di aprire un’inchiesta e indagare sulla dinamica dei fatti. La versione degli agenti è al vaglio e sarà confrontata con le varie testimonianze che nel frattempo si stanno raccogliendo. Bisognerà aspettare innanzitutto i risultati dell’autopsia sul cadavere del povero detenuto: questo esame, previsto per lunedì, darà dettagli sulle cause della morte utili poi per ricostruirne le circostanze. È il primo step dell’inchiesta, poi ci saranno l’esame delle testimonianze e l’analisi dei filmati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza. Non si sa quanti e quali scene della colluttazione tra Vittorio e gli agenti siano state catturate dagli occhi elettronici presenti all’interno del carcere. I due agenti della polizia penitenziaria risultano indagati per omicidio preterintenzionale: sono stati gli ultimi a vedere in vita Vittorio, gli ultimi ad avere un contatto con lui. Gli altri dettagli sono nodi da sciogliere. Mentre sullo sfondo iniziano a delinearsi episodi e circostanze che hanno segnato gli ultimi giorni e le ultime ore di vita in cella di Vittorio. Classe 1986, nato ad Aversa, Vittorio aveva solo pochi mesi da scontare, a ottobre sarebbe uscito di prigione.

Detenuto psichiatrico aggredisce due agenti e muore stroncato da infarto, che ci faceva in carcere?

Cosa ci faceva in cella? Viene da chiederselo visto che è emerso che era un detenuto fragile, con problemi psichiatrici. Una situazione che aggrava una piaga del sistema penitenziario. E che sommata alle carenze di professionalità adeguatamente formate all’interno degli istituti di pena diventa un male incurabile. Due giorni prima di morire Vittorio aveva rifiutato il colloquio con il suo avvocato che era andato in carcere a incontrarlo. «Perché era nella sesta sezione? Aveva o no provvedimenti di grande o grandissima sorveglianza come previsto?» sono le domande che si pone adesso anche il Sappe, sindacato della penitenziaria, scendendo in difesa degli agenti indagati. «I nostri colleghi vivranno le pene dell’inferno, ma ci domandiamo se si parla di detenuto psichiatrico perché era dimesso dall’articolazione mentale?». Le stesse domande le poneva il garante regionale Ciambriello già immediatamente dopo la notizia del decesso del detenuto. Ma in quel caso erano in ballo solo i diritti di un detenuto e nessun sindacato si era schierato a sostenerle.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Regime di celle chiuse nel carcere della mattanza. Carcere di Santa Maria, dopo le violenze detenuti chiusi in gabbia come gli animali. Andrea Aversa su Il Riformista il 2 Agosto 2022 

Ci sono alcuni messaggi finiti nell’occhio del ciclone. Parte della corrispondenza sequestrata dagli inquirenti durante le indagini. Stiamo parlando dell’ormai purtroppo nota “mattanza”. Quella avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 e per la quale il prossimo 7 novembre avrà inizio un processo. Il procedimento vedrà sul banco degli imputati 105 persone, tra poliziotti, medici e personale amministrativo. Secondo quanto spiegato dalla delegazione dell’osservatorio campano di Antigone a Il Riformista, in quei messaggi traspariva uno degli obiettivi di quelle violenze: costringere i detenuti da un regime di celle aperte a uno di celle chiuse. Lo scopo è stato raggiunto considerato che da allora i reclusi del “reparto Nilo” sono segregati in gabbia per 20 ore al giorno. Come i detenuti del reparto di massima sicurezza, solo che il “Nilo” sarebbe quello di prima accoglienza.

«Durante l’ultima visita (avvenuta lo scorso 20 luglio, ndr), abbiamo dovuto constatare che nonostante gli sforzi della nuova direzione di investire in nuovi percorsi di reinserimento, in tutti i reparti – tranne che per il “Volturno” – vige questa tipologia di regime detentivo». Sono state queste le parole dell’avvocato Gaia Tessitore, a capo di quella delegazione. Con lei l’avvocato Paolo Conte: «Una situazione drammatica, considerata anche la piaga del sovraffollamento e le elevate temperature che d’estate trasformano le carceri in un inferno». Persino il Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria (Sappe), in seguito ad alcuni episodi di violenza avvenuti all’interno del carcere casertano, ha denunciato tale situazione. «Così non si può andare avanti – ha dichiarato il Segretario regionale Emilio Fattorello – Il lassismo che caratterizza il penitenziario di S.Maria Capua Vetere è imbarazzante ed intollerante. Da mesi il Sappe denuncia che non ci sono un direttore ed un Comandante di Reparto titolari, fissi, in pianta stabile, eppure i vertici regionali e nazionali del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ndr) non assumono provvedimenti urgenti». Anche per gli agenti della penitenziaria, in costante sotto organico, la vita in carcere è dura: eppure nulla lo Stato ha fatto fino ad oggi per risolvere il problema della mancanza di personale.

«In carcere quello che manca è il lavoro – ha affermato il Segretario generale del Sappe Donato Capece – che dovrebbe essere obbligatorio per tutti i detenuti dando quindi anche un senso alla pena ed invece la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella venti ore al giorno, nell’’ozio assoluto. E farli stare fuori dalle celle dodici ore al giorno senza fare nulla non risolve i problemi, anzi!». E c’è dell’altro: venti dei poliziotti imputati sono ancora in servizio all’interno del penitenziario di Santa Maria. «Manca il numero sufficiente di educatori e del personale sanitario – ha detto Emanuela Belcuore, Garante per i diritti dei detenuti per la provincia di Caserta – E questo causa due gravi problematiche: da una parte una difficile assistenza sanitaria, dall’altra l’assenza delle attività trattamentali. Inoltre non dimentichiamo i tanti casi di covid riscontrati in cella».

Ma c’è una “buona” notizia. Dopo 26 anni, ovvero da quando il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato costruito, dovrebbe essere presto concluso il processo di allaccio del penitenziario alla rete idrica cittadina. Perché purtroppo nel 2022, in Italia, questa è una novità positiva: il fatto che all’interno di una struttura detentiva ci sia l’acqua corrente. Andrea Aversa

Dal ritorno in libertà al suicidio, il giallo della morte in carcere di Erasmo. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Giugno 2022. 

Erasmo aveva 47 anni. Lo hanno trovato morto in cella. Impiccato, con un lenzuolo intorno al collo. Eppure, appena quarantotto ore prima aveva ricevuto la notizia di essere stato ammesso all’affidamento in prova ai servizi sociali. Un provvedimento che gli avrebbe consentito di lasciare il carcere, avere la possibilità di un lavoro e con esso una prospettiva di futuro diversa da quella da recluso, dietro le sbarre. Perché ha deciso di farla finita? Come è potuto accadere che nessuno sia riuscito a intervenire in tempo?

Si tinge di mistero la morte di Erasmo, trovato senza vita in una cella del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Nuove ombre si allungano sul mondo penitenziario. Morire in carcere di carcere: succede ancora. Su questo caso è stata aperta un’inchiesta. Il garante regionale Samuele Ciambriello mostra di avere dubbi sulle circostanze di questo decesso. Sicuramente ci sono interrogativi a cui bisognerà dare risposta. «Il detenuto – afferma il garante – si sarebbe impiccato con un lenzuolo a poche ore dalla notizia di aver ottenuto l’affidamento in prova che gli avrebbe consentito di riprendere a lavorare. La sua morte è chiaramente avvolta da numerose ombre. Troppi interrogativi che necessitano di risposte immediate che restituiscano verità e giustizia». Così, in una nota, il garante campano delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale interviene sul suicidio del detenuto 47enne nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Si tratta, prosegue il garante, di una «morte inaspettata che lascia sgomento dentro e fuori il carcere» e sulla quale «ci sarebbero delle incongruenze».

Per questo la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha disposto l’autopsia sul corpo del detenuto, l’esame si terrà oggi pomeriggio e servirà ad avere qualche dato in più su circostanze e cause del decesso. Impossibile archiviare frettolosamente il caso come suicidio. «La sua morte è stata classificata come suicidio, ma dietro al folle gesto si celano dubbi – aggiunge Ciambriello – : il detenuto, con problemi di tossicodipendenza, nella giornata di venerdì, avrebbe ricevuto dalla compagna la notizia di aver ottenuto un provvedimento di misura alternativa al carcere, quella dell’affidamento in prova ai servizi sociali, tanto che avrebbe ricominciato a lavorare presso una cooperativa di Caserta. A quarantott’ore da quella notizia, però, si è tolto la vita», riepiloga il garante. Solo quarantotto ore prima Erasmo era al telefono con la compagna e si mostrava felice di poter finalmente uscire dal carcere. «Invece da quella cella è sì uscito, ma senza vita», tuona Ciambriello.

«Non si può rimanere inermi davanti a storie come queste. Non si può continuare a morire di carcere. In Campania nel 2022, c’è stato un suicidio nel carcere di Salerno, altre morti sono ancora sospette e ci sono in corso indagini della magistratura, e un detenuto è morto per Covid – aggiunge – . Restare insensibili davanti al suicidio di un detenuto significa non ammettere che il sistema carcere ha fallito. La politica, a vari livelli, si preoccupa di trovare soluzioni che evitino queste morti? Come si previene? Penso che l’indifferenza sui temi del carcere sia una concausa a». Nell’ultima relazione sullo stato delle carceri in Campania è emerso il dato allarmante sugli eventi critici all’interno degli istituti di pena e in particolare, in quello di Santa Maria Capua Vetere, un aumento delle infrazioni disciplinari (622 casi nel 2021, quasi il doppio di quelle costatate nell’anno precedente) e un preoccupante aumento degli atti di autolesionismo (196 casi in un anno), oltre a un suicidio. Il caso di Erasmo, dunque, è il secondo suicidio nel carcere samaritano nell’arco di un breve periodo di tempo, e il terzo nella regione se si considera che un mese fa un altro detenuto, nel carcere di Salerno, è stato colto da malore ed è morto in circostanza da chiarire. Di carcere si muore ma sembra non importi quasi a nessuno.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Ombre sul presunto suicidio. “Esci dal carcere, vai a lavorare in cooperativa”, dalla gioia al dramma: detenuto trovato morto in cella. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

Un detenuto di 47 anni è morto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. A darne notizia è il garante campano Samuele Ciambriello secondo cui l’uomo, che si chiamava Erasmo, “si sarebbe impiccato con un lenzuolo, dopo appena 48 ore dalla notizia di aver ottenuto un provvedimento di affidamento in prova ai servizi sociali, che gli avrebbe consentito di riprendere a lavorare. La sua morte – riconosce il garante – è chiaramente avvolta da numerose ombre; troppi interrogativi che necessitano di risposte immediate che restituiscano verità e giustizia”.

Una morte inaspettata, che lascia sgomento dentro e fuori il carcere, su cui ci sarebbero delle incongruenze. Per questo, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere ha disposto l’esame autoptico sul corpo del detenuto, in programma domani pomeriggio. La sua morte è stata classificata come suicidio, ma dietro al folle gesto si celano dubbi: il detenuto, con problemi di tossicodipendenza, nella giornata di venerdì, avrebbe ricevuto dalla compagna la notizia di aver ottenuto un provvedimento di misura alternativa al carcere, quella dell’affidamento in prova ai servizi sociali, tanto che avrebbe ricominciato a lavorare presso una cooperativa di Caserta. A quarantott’ore da quella notizia, però, si è tolto la vita.

“È necessario indagare sulle cause che hanno spinto Erasmo a compiere l’estremo gesto – commenta Ciambriello – Al telefono con la compagna era felice di poter finalmente uscire dal carcere e, invece, da quella cella è sì uscito, ma senza vita. Non si può rimanere inermi davanti a storie come queste. Non si può continuare a morire di carcere. In Campania nel 2022, c’è stato un suicidio nel carcere di Salerno, altre morti sono ancora sospette e ci sono in corso indagini della magistratura; un detenuto è morto per Covid. Restare insensibili davanti al suicidio di un detenuto significa non ammettere che il sistema carcere ha fallito. La politica, a vari livelli, si preoccupa di trovare soluzioni che evitino queste morti? Come si previene? Penso che l’indifferenza sui temi del carcere sia una concausa”.

Massimiliano Peggio per “la Stampa” l’11 novembre 2022. 

Di fronte al giudice, tre giorni fa, si è era dimostrato sereno, collaborativo: accusato di stalking dall'ex compagna, aveva spiegato di aver violato i divieti di avvicinamento per fare un regalo al figlio minorenne. «Ho sbagliato, lo so: volevo solo consegnare una busta di denaro a mio figlio per il suo compleanno, non volevo importunare la mia ex».

Antonio, 56 anni, autotrasportatore torinese, era in carcere dall'agosto scorso, in una cella del padiglione C del Lorusso e Cutugno. Detenuto sottoposto a misura cautelare. Tra pochi giorni, grazie a quella buona impressione fatta in udienza, sarebbe sicuramente uscito. L'altra notte, dopo aver strappato le lenzuola a striscioline per ricavarne una corda, si è impiccato alla grata della porta. Un agente della polizia penitenziaria ha trovato il cadavere al mattino, durante il controllo di routine. Prima di togliersi la vita, Antonio ha lasciato sul tavolino una lettera-testamento. «Scusatemi».

Ieri sera c'è stata una protesta dei carcerati torinesi poi rientrata. Dall'inizio dell'anno sono 77 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane, il numero più alto di sempre. Nel 2009 erano stati 72. «I suicidi - afferma Stefano Anastasìa, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà - costituiscono il 51% dei casi di morte registrati in carcere nel corso dell'anno, anche questa percentuale mai così alta da inizio secolo ».

Pochi giorni fa un detenuto, di 22 anni, originario della Repubblica Dominicana, si era tolto la vita nel carcere di Udine, in attesa di giudizio per tentato di omicidio, dopo una rissa a Trieste. A Torino, dall'inizio dell'anno si sono registrati quattro casi: il precedente, meno di un mese fa. Un giovane di origine africana, Tecca Gambe, si era tolto la vita nello steso modo, annodando strisce di tessuto strappate dalle lenzuola. Era in cella per un piccolo furto.

Antonio era accusato di atti persecutori. «A luglio era stato arrestato una prima volta, su ordine di custodia cautelare, a seguito della denuncia della sua ex compagna - spiega il suo legale, Margherita Pessione - Dopo tre settimane trascorse dietro le sbarre era uscito ma aveva l'obbligo di non avvicinarsi alla donna. Ad agosto aveva violato il divieto presentandosi sotto casa della madre di lei: così era scattato un secondo provvedimento cautelare.

«Ormai eravamo in dirittura d'arrivo, sarebbe stato scarcerato a breve: in sede di udienza preliminare avevano definito la situazione, chiarendo i motivi di quel comportamento. Il mio assistito poteva sembrare assillante ma, a detta della stessa donna, non si è mai dimostrato violento, testualmente non le ha mai torto un capello».

Nelle carceri, stando alle continue denunce dei sindacati della polizia penitenziaria, la mancanza di personale è cronica: non solo per tenere a bada la violenza dei detenuti, ma anche per proteggere le loro vite in preda alla disperazione. 

«Salvo poche, ammirevoli, esperienze di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale la grande maggioranza dei detenuti e delle detenute vive la carcerazione come un periodo più o meno lungo di abbandono e di disperazione - aggiunge Anastasìa - Il numero di suicidi ne è una drammatica testimonianza».

Stroncato da un malore nel corso di un scontro con due agenti (ora indagati). Detenuto morto in carcere, l’autopsia: sul corpo segni di percosse che andavano avanti da giorni. E’ caduto dalle scale? Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Maggio 2022. 

Segni di violenza, riconducibili a percosse subite da giorni, sul corpo di Vittorio Fruttaldo, il detenuto di 35 anni stroncato da un malore dopo uno scontro fisico con gli agenti di polizia penitenziaria nel carcere di Fuorni a Salerno. E’ quanto emerge da un primo esame esterno sul cadaere dell’uomo deceduto lo scorso 10 maggio durante il trasporto in ambulanza all’ospedale San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona. L’autopsia, iniziata ieri, verrà completata oggi e il quadro sarà più chiaro.

Nel frattempo emergono dettagli raccapriccianti che smentiscono la versione fornita dal sindacato di polizia penitenziaria secondo cui il detenuto, affetto da problemi di natura psichiatrica (circostanza smentita dai referti medici), avrebbe aggredito due agenti con un coltello rudimentale e, nel corso della colluttazione, sarebbe stato stroncato da un malore.

In realtà, stando a quanto appurato dal professore di medicina legale dell’Università di Salerno incaricato dell’autopsia, sul corpo di Vittorio sono presenti lividi e segni di violenza riconducibili a percosse che andavano avanti da giorni, da tempo, non relative alla sola giornata del 10 maggio. Vittorio, secondo quanto appreso dal Riformista, era un detenuto che aveva problemi di tossicodipendenza. Avrebbe finito di scontare la sua pena a ottobre 2022 e necessitava di una terapia per disintossicarsi.

Che ci faceva dunque in carcere? E perché gli agenti penitenziari lo ritengono un soggetto affetto da problemi di natura psichiatrica pure in assenza di un referto medico che cristallizzi il tutto? Il 35enne, originario di Aversa, sarebbe stato ‘rieducato‘ dai poliziotti dopo essersi reso protagonista di un’aggressione avvenuta a inizio maggio. Fruttaldo avrebbe rifilato uno schiaffo a un agente in seguito a un alterco e da quel giorno, sempre secondo quanto appreso dal Riformista, sarebbe stato sistematicamente picchiato.

Una circostanza che saranno le indagini della procura di Salerno a dover confermare. Tuttavia restano i segni di violenza risalenti anche ai giorni precedenti il decesso e la richiesta, nella prima perizia mandata ai pm (ieri però in scipero), di acquisire anche le telecamere di videosorveglianza relative ai giorni precedenti, in modo tale da far luce sui presunti pestaggi che il detenuto subiva.

Oggi nel frattempo verrà completata l’autopsia che fornirà ulteriori dettagli sul decesso del 35 anni. Al momento i due agenti “aggrediti” (secondo il sindacato) sono indagati per omicidio preterintenzionale (quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente). Accusa che potrebbe cambiare dopo l’esito dell’autopsia.

Fondamentali saranno anche le testimonianze degli altri detenuti che dovrebbero essere ascoltati dagli investigatori per far luce su quanto accaduto nel carcere di Salerno ed evitare che si ripetano episodi analoghi alla mattanza di Santa Maria Capua Vetere quando, prima delle misure cautelari e delle devastanti immagini che sconvolsero l’opinione pubblica, i detenuti, impauriti di subire ulteriori ripercussioni, derubricavano le percosse subite con l’oramai celebre “sono caduto dalle scale“.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Ida Artiaco per fanpage.it il 9 agosto 2022.

“So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più". È questo uno dei passaggi della lettera firmata dal giudice di Sorveglianza Vincenzo Semeraro del Tribunale di Verona e letta durante il funerale di Donatella, la detenuta 27enne nel carcere di Montorio che si è suicidata la scorsa settimana. 

Durante le esequie, che si sono tenute nella Chiesa Parrocchiale di Castel d’Azzano, un'amica della giovane ha letto la missiva del magistrato: "Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente", è un altro passaggio del testo. "Inutile dire che la sensazione che provo è quella di sgomento e dolore. So che avrei potuto fare di più per lei".

Presente al funerale di Donatella anche il fidanzato Leo, a cui aveva inviato una lettera di addio prima di compiere il drammatico gesto. "Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami". aveva scritto la 27enne, che si trovava in carcere per una serie di furti. 

"Parlare di lei, al passato, mi riesce difficile – ha detto il ragazzo alla Gazzetta del Sud, incredulo – Al momento, posso dire poche cose, perché tanti sono i pensieri che affollano la mia mente. Io voglio che passi il messaggio giusto. Dona era una ragazza solare e spensierata, che sognava di tornare a fare l’estetista. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini. E io avevo anche preso una casa per lei. Ma poi, negli ultimi 8 mesi, non so cosa sia successo".

E poi ancora: "Era triste. Il suo sorriso è stato spento e oggi mi chiedo cosa sia successo in quei minuti. In cui, probabilmente, si poteva fare qualcosa. Oggi mi faccio tante domande, ma spero che la sua morte lasci una traccia nella nostra società. E che non si dica che si è suicidata una drogata e non si discuta frettolosamente del suo passato. Spero davvero che nessuno si dimentichi di lei".

Donatella, 27enne suicida in cella. Il giudice: «Anch’io ho fallito, il carcere non è per le donne». Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022

Il magistrato di Sorveglianza Vincenzo Semeraro seguiva Donatella da 6 anni: «Ho pianto abbracciando il padre... Mi chiedo cosa avessi potuto fare di più per lei? Non ho capito che il malessere era divenuto profondo» 

«Siamo persone prima che giudici. E io, come magistrato ma soprattutto come uomo, sento di aver fallito adesso che una ragazza di 27 anni di cui mi occupavo dal 2016, si è tolta la vita in carcere».

Vincenzo Semeraro è il giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona che ha scosso le coscienze scrivendo una lettera che è stata letta in chiesa durante i funerali di Donatella Hodo, giovane che lottava contro problemi di dipendenza da stupefacenti e una grande fragilità. Usciva e rientrava in cella di continuo per alcuni furti legati alla droga, si è lasciata morire la notte del 2 agosto inalando del gas dal fornelletto in cella.

Perché si sente in colpa, giudice Semeraro?

«È da una settimana, da quando Donatella ha attuato il suo tragico gesto, che continuo a pormi mille interrogativi. Dove ho sbagliato, in che cosa? Ogni volta che una persona detenuta in carcere si toglie la vita, significa che tutto il sistema ha fallito. Nel caso di Donatella, io ero parte del sistema visto che seguivo il suo caso da sei anni. Quindi, come il sistema, anche il sottoscritto ha fallito».

In che cosa crede di aver sbagliato?

«Sono proprio questi i dubbi che mi affliggono. Cosa avrei potuto fare di più per questa ragazza? Forse l’ultima volta che sono andato a farle visita nel penitenziario, a giugno, avrei potuto dirle due parole in più? Perché, nonostante la conoscessi da quando aveva 21 anni, non ho captato che il malessere era divenuto così profondo?».

Donatella aveva un passato difficile.

«Alle spalle aveva vicissitudini pesanti come macigni. Per andare avanti si era costruita una corazza, voleva sembrare forte ma in realtà celava una sensibilità estrema. Era fragile come un cristallo».

Ne parla come uno psicologo, non solo come un giudice...

«Il punto secondo me è proprio questo. Quando sei magistrato dell’Esecuzione e gestisci le varie vicende carcerarie e detentive, non hai a che fare solo con un detenuto ma innanzitutto con una persona. Uomini, donne con storie diverse. Non vanno trattati come numeri, come pedine di un ingranaggio, ma come individui differenti l’uno dall’altro. Sono persone, certo recluse in cella, ma pur sempre persone».

Donatella che persona era?

«Mi crede se le confesso che ho impiegato anni prima di instaurare con lei un vero dialogo? Sembrava invalicabile dietro quel muro che si era eretta, solo a marzo di quest’anno credo di aver installato con lei una connessione, in quel momento Donatella ha capito di potersi fidare di me».

A marzo era stata trasferita in comunità.

«Infatti, avevo fatto in modo che uscisse dal carcere perché la cella non era il posto idoneo per lei. Purtroppo poi era scappata, tornando quindi lì. A breve era in arrivo per lei una misura alternativa con affidamento terapeutico al Sert, doveva solo pazientare un po’. Purtroppo la sua fragilità ha preso il sopravvento nella solitudine di quella cella».

Perché «il carcere non era il posto idoneo» per questa giovane donna?

«Aveva bisogno di un adeguato sostegno psicologico, un servizio di supporto che l’intero sistema non riesce a garantire non solo nel carcere di Verona ma in tutti i penitenziari d’Italia. Le strutture detentive non sono a misura di donna, le detenute vanno approcciate in modo totalmente diverso, hanno un’emotività che non ha nulla a che fare con quella maschile. Vanno seguite in modo specifico e del tutto peculiare. Per Donatella ciò non è avvenuto».

Dopo i funerali lei ha voluto incontrare privatamente il papà di Donatella.

«Ci siamo abbracciati, piangevamo entrambi. Tutti e due ci sentiamo in colpa, io come giudice, lui come genitore. Ciascuno ha detto all’altro di farsi forza, è stato toccante. Ma il momento più lacerante è stato quando il papà di Donatella mi ha ringraziato, perché sua figlia gli parlava di me come di un secondo padre. Da brividi».

La lettera del giudice: «Quel suicidio è anche colpa mia…». Le parole di Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, al funerale della giovane morta suicida in carcere. Simona Musco su Il Dubbio il 10 agosto 2022.

«Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente…». Le parole di Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona, suonano come un monito e, insieme, un’autocritica lucida. La sua lettera, letta ad alta voce da un’amica di Donatella, ha rotto il silenzio della chiesa di Castel d’Azzano, dove lunedì è stato celebrato il funerale della 27enne, morta suicida in carcere lo scorso 2 agosto. Il suo nome è uno dei tanti sulla triste lista che, ormai, viene aggiornata ogni giorno. Nomi che non fanno notizia, generalmente. Ma la storia di Donatella, sintetizzata da una straziante lettera d’addio indirizzata al fidanzato Leo, ha squarciato il velo, mettendo a nudo le storture di un sistema che la politica tende a ignorare, salvo invocare regole più rigide, più dure. Regole che vogliono i detenuti solo come numeri e non come persone, con storie e fragilità. Un sistema non piace nemmeno a chi ci vive dentro per mestiere. «So che avrei potuto fare di più per lei – ha scritto il magistrato che l’ha seguita negli ultimi sei anni -, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più».

Semeraro, in Veneto dal 2009, ha conosciuto Donatella nel 2016, quando la giovane ha iniziato ad entrare ed uscire dal carcere per via dei suoi problemi di tossicodipendenza. Una storia personale molto difficile, la sua, «per ragioni privatissime», spiega al Dubbio il magistrato, che non riesce ad accettare che questa storia sia finita così. «Facendo questo tipo di lavoro si hanno ovviamente contatti con i detenuti, contatti che devono essere molto frequenti: per mestiere io devo godere della fiducia dei detenuti e devo avere fiducia in loro, dovendo decidere se concedere benefici o misure alternative. Ed è quasi inevitabile che a qualche detenuto ci si affezioni di più», racconta. Negli ultimi 13 anni Semeraro ha sempre avuto a che fare con detenute donne, prima nel carcere di Venezia e ora a Verona. «Quello di Donatella era un caso che avevo preso particolarmente a cuore, perché nell’arco di sei anni l’ho vista finire in carcere più volte. Aveva un carattere particolare: era fragile come un cristallo di Boemia e al tempo stesso aveva paura di mostrare agli altri questa sua fragilità. Per questo si era costruita intorno una corazza e il suo carattere, al primo approccio, poteva risultare particolarmente difficile – racconta -. Io ho dovuto sudare le proverbiali sette camicie, forse anche di più, per riuscire a conquistare la sua fiducia e ad avere fiducia in lei. All’inizio dell’anno l’ho inviata in comunità, un esperimento che, purtroppo, è finito male, perché forse lì non ha trovato l’ambiente adatto per lei». Da quella comunità, infatti, Donatella è scappata, motivo per cui è finita di nuovo in carcere, dove si è tolta la vita. «Credo davvero a ciò che ho scritto in quella lettera – aggiunge Semeraro -: quando si muore così vuol dire che il sistema dell’esecuzione penale, così come è concepito in Italia, ha fallito. E tra i primi soggetti che hanno fallito io metto me stesso». Ma cosa poteva fare di più un singolo magistrato? «Non lo so. So che avrei potuto. Magari parlandoci 10 minuti in più, magari dicendole due parole di conforto in più o tenendola mezz’ora di più a colloquio quando veniva da me. Non lo so, credo che avrei potuto fare mille cose. Ed è vero, è il sistema che ha fallito, io però sono un ingranaggio del sistema», aggiunge.

In Italia, però, c’è una certa difficoltà a guardare l’esecuzione della pena in un’ottica costituzionalmente orientata. E così il carcere diventa un non-luogo, un posto in cui i diritti, spesso, vengono sospesi e il fine rieducativo della pena messo in soffitta. E se ciò è vero normalmente, quando a finire in carcere è una donna i problemi raddoppiano. «Il carcere come istituzione è pensato per gli uomini – sottolinea Semeraro -, perché è un’istituzione che ha come scopo primario quello di contenere la violenza e l’aggressività, che sono caratteristiche tipicamente maschili. Un carcere che dia modo alla emozionalità, caratteristica tipicamente femminile, di esprimersi, in Italia non c’è. Trattare la detenuta come se fosse un detenuto è un errore marchiano. Poi i risultati sono questi». Ma più in generale, a non convincere il magistrato è la filosofia del “chiuderli dentro e buttare la chiave”. «Tutto ciò è sicuramente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione, che non parla di pena, ma di pene. È chiaro che il legislatore del 1948 non poteva pensare alle misure alternative alla detenzione, forse erano troppo in là da venire – aggiunge -, però già da allora non si pensava alla reclusione o all’arresto come unica forma di esecuzione della pena. E questo è molto importante. Ora, al di là del fine costituzionale della pena, fingiamo che le misure alternative non esistano e che la pena vada scontata interamente in carcere. Chi paga? Noi tutti, con le tasse. Ma se il condannato, anziché stare in carcere, sta in misura detentiva, ai domiciliari o meglio ancora in affidamento in prova al servizio sociale e lavora, guadagna e paga le tasse, c’è una ricaduta migliore per la società tutta. Basterebbe riflettere su questo, al di là dell’adesione ai principi della rieducazione, che sono fondamentali». Principi più volte ribaditi dalla Corte costituzionale, che non più tardi di due o tre anni fa, ha riconosciuto che la pena ha una natura polifunzionale. «C’è l’aspetto preventivo, quello retributivo – aggiunge -, ma quello rieducativo non può mai mancare e deve essere prevalente su tutti gli altri».

Ma c’è anche un altro aspetto da considerare: la piaga della tossicodipendenza in carcere, problema che la politica aveva iniziato ad affrontare con gli istituti a custodia attenuata per i tossicodipendenti, salvo poi far finire tutto in un nulla di fatto. «La questione è stata ripresa in mano con i tavoli della riforma penitenziaria, che però hanno sortito poco, perché il governo gialloverde ha fermato le riforme prospettate – spiega Semeraro -. Pochissimo di ciò che era previsto è stato tradotto in legge. E non dobbiamo nasconderci: la droga in carcere purtroppo circola, soprattutto grazie ai detenuti che – più o meno direttamente – sono legati alle organizzazioni criminali e che si avvalgono dei più deboli per lo spaccio». Di fronte a questi problemi si invocano, in genere, pene più severe. Ma tutto questo «non servirebbe a nulla», spiega il magistrato. «Andrebbero colpite le organizzazioni criminali – conclude -, soprattutto con le confische, che consentono di disarticolare l’organizzazione. Ma se dopo la confisca i beni e i patrimoni rimangono sotto sequestro senza essere utilizzati con uno scopo sociale, chi vince non è lo Stato, ma l’organizzazione criminale».

La 27enne si è tolta la vita nel carcere di Verona. Donatella morta suicida in carcere, il papà incontra il giudice: “Ci siamo chiesti perdono”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Agosto 2022. 

“Se in carcere muore una ragazza di 27 anni così come è morta Donatella, significa che tutto il sistema ha fallito. E io ho fallito, sicuramente…”. Sono queste le parole di Vincenzo Semeraro, giudice di Sorveglianza del Tribunale di Verona, in una lettera letta durante il funerale di Donatella, la 27enne che si è tolta la vita in carcere. Il papà di Donatella ha deciso di incontrarlo. Si sono abbracciati e hanno pianto insieme.

“Io e il giudice piangevamo tutti e due. Ci sentiamo sconfitti e perdenti, ci siamo chiesti perdono. Avevo i brividi, la mia Donatella mi parlava sempre di questo magistrato come di un secondo padre, diceva che era l’unico ad aver preso a cuore la sua situazione. All’inizio nessuno trovava la forza di parlare, solo lacrime”, ha detto il papà, come riportato in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. La storia di Donatella, il 47esimo suicidio in Italia stringe il cuore. Pochi giorni dopo il numero è salito ancora, il 10 agosto se ne contano 49 solo da gennaio.

La lettera del magistrato alla famiglia ha colpito molto. “Conoscevo Donatella dal 2016 – continua la lettera – avevo lavorato con lei e per lei in tante occasioni, ultima delle quali nel marzo scorso, allorché la inviai in comunità a Conegliano. Inutile dire che la sensazione che provo è quella di sgomento e dolore… So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più!”. Il giudice ha chiesto all’amica di “portare le mie condoglianze ai familiari, anche se in questo momento ho pudore, perché è ragionevole che chi era vicino a Donatella possa provare rabbia nei confronti delle istituzioni e di chi, più o meno degnamente, le rappresenta”.

Invece poi c’è stato l’incontro tra i due in un momento di commozione e condivisione del dolore. Due padri che piangono la morte di una figlia. “Ecco, quando ci siamo visti ho proprio voluto dire al magistrato che non deve sentirsi in colpa, perché Donatella mi raccontava sempre l’impegno che lui ci metteva nel seguire la sua vicenda. Questo giudice seguiva il caso di mia figlia con vera dedizione, le faceva visita in carcere, cercava soluzioni. Certe volte ho avuto la sensazione che la seguisse di più lui di me. Lei me lo descriveva come un secondo padre”.

Il papà ha raccontato al Corriere del passato burrascoso di Donatella, quel vortice buio che per lei era la droga. Di tutte quelle volte che la figlia è caduta e con fatica ha cercato di rialzarsi. Il papà era sempre al suo fianco ma non riesce a esimersi dall’avere un grosso senso di colpa in cuor suo: “L’ho detto prima anche al giudice Semeraro: lui non ha fallito perché ha fatto il massimo, sono io che probabilmente ho fallito come genitore. Potevo fare di più? Forse ho sbagliato a rimproverarla quando era scappata dalla comunità? Le avevo parlato in modo rigido perché aveva sbagliato ad allontanarsi da quella struttura, però l’avevo fatto per il suo bene…”.

Il papà non si sarebbe mai aspettato un gesto estremo dalla figlia. “Soltanto Donatella sa cosa ho fatto io per lei negli ultimi dieci anni, volevo a ogni costo aiutarla a uscire dalla dipendenza. L’ho accompagnata dappertutto, anche in vari centri specializzati fuori dall’Italia per guarire dalla droga, tutte strutture private a pagamento, avrei fatto qualsiasi cosa per salvare mia figlia dalla micidiale eroina, ho provato qualunque tentativo”.

Donatella voleva davvero disintossicarsi. Il papà racconta di averla accompagnata in Spagna, Croazia e Belgio, era lei stessa che trovava le cliniche private su internet. “Salvarla era diventata la mia ragione di vita”, continua il papà. E non si dà pace: “Quando lei mi chiedeva una mano non ho mai detto di no, l’ho sempre aiutata per qualsiasi cosa. L’avrei fatto anche stavolta, perché non mi ha cercato? Forse dovevo cercarla io? Io sono sempre stato a sua disposizione per aiutarla. Qualche volta mi faceva arrabbiare, ma io volevo soltanto che Dona stesse bene, lo desideravo più della mia stessa vita”.

Racconta di tutte quelle volte che a notte fonda è sceso per cercarla, di quando la trovava stesa a terra quasi morta per l’eroina assunta e di quella volta che la ritrovò i Spagna in condizioni paurose. Pesava appena 24 chili. Lui, la riportò a casa e la curò senza lasciarla mai da sola finchè non stette meglio. Poi però ci è ricascata di nuovo ma lui non ha mai smesso di esserci per lei. “Ora che l’ho persa per sempre, sento che la mia vita senza Dona non vale più niente, sono io che ho fallito, non il giudice”, dice.

E resta amarissima la sua conclusione e la voglia di giustizia. “Su mia figlia non ho sbagliato solo io. Tutto il sistema ha fallito, e secondo me anche i controlli in carcere non sono stati adeguati. Per questo ho sporto denuncia, mia figlia purtroppo non tornerà però merita verità e giustizia”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Disperazione carcere: ecco chi la contrasta. Chi sono i giudici di sorveglianza e cosa fanno i veri ‘eroi’ della giustizia italiana. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

Siamo a quarantanove, sette suicidi nei primi dieci giorni di agosto. L’ emergenza carcere andrebbe trattata come quella del contagio da covid, per non trasformare gli istituti di pena, che sono già pattumiere, in lazzaretti, luoghi dove si va solo a morire. Altro che rieducazione! Le ultime due persone a essersi tolte la vita erano a Napoli, rispettivamente a Poggioreale e Secondigliano. Colpisce la storia di Francesco, malato di anoressia, pesava 43 chili, detenuto per piccoli reati e con un fine pena al 2024. E l’interrogativo è ormai uno stanco ritornello: perché l’ltalia, paese di eroi e di santi, non può essere come la Svezia, dove negli scorsi anni molte carceri sono state chiuse per carenza di detenuti? O come la Norvegia, dove l’80% delle pene è alternativo alla privazione della libertà?

Ci vorrebbe proprio un grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Che sappia cogliere le occasioni delle due grandi ondate di calore di questo agosto, quella del meteo e l’altra della politica e delle elezioni anticipate. Che sappia trasformare l’emergenza di questi 49 suicidi in una corsa ai ripari almeno quanto lo fu, all’inizio del 2020, l’allarme per l’epidemia da covid. Quando, a dispetto di quel che andava dicendo il procuratore Gratteri (“le carceri sono il luogo più sicuro”), ci fu una vera mobilitazione per lo svuotamento di luoghi che sono già patogeni in tempi normali, e figuriamoci con un’epidemia in corso. Ma, mentre nessuno esitava a chiamare “eroi” i medici e tutto il personale sanitario in lotta contro il virus assassino, in pochi si sono accorti di un’altra forma di eroismo, quella dei giudici di sorveglianza. Erano stati loro per primi, e prima ancora che il governo e il procuratore generale si rendessero conto della strage che era già sulle porte delle carceri, a destare scandalo con i loro provvedimenti di alternativa alla prigione. Si, furono “scandalosi”, quei giudici e quei tribunali di sorveglianza. E lo pagarono caro, con dileggi, insulti e richieste di interventi disciplinari nei loro confronti. Tanto che un giorno tre di loro furono costrette a chiedere al Csm una pratica a tutela. Agirono a mani nude, prima ancora che l’ineffabile ministro Bonafede facesse il proprio dovere con i decreti “Cura Italia” e “Ristori”, per mandare a casa almeno tutti coloro che avevano ancora da scontare meno di 18 mesi di pena. Non proprio tutti, a dire il vero, perché quelli del 4 bis ne erano esclusi, proprio come coloro che avessero avuto un procedimento disciplinare, che in genere erano gli stranieri e i poveri. Ma i giudici e i tribunali di sorveglianza avevano tenuto duro sui principi costituzionali. E li avevano applicati a tutti, indistintamente. E poi, seguendo anche la decisione della Consulta che aveva esteso la possibilità di permessi premio anche ai condannati al cosiddetto ergastolo ostativo, avevano interpretato in modo diverso il concetto di “pericolosità sociale”. Senza lasciarsi intimidire dalla forsennata campagna di stampa sulle scarcerazioni facili di boss e delinquenti abituali. Lì era anche saltata la testa del direttore del Dap Francesco Basentini, per la famosa circolare, sollecitata proprio dagli interventi dei giudici, per la concessione di provvedimenti di sospensione della pena per le persone anziane e malate. Il capo del Dap perse il posto, Bonafede fu messo alla gogna e i giudici esposti a processi popolari in cui venivano chiamati con nome e cognome come “amici dei mafiosi”. La Repubblica, peggio ancora del Fatto quotidiano, strillava che tre o quattrocento boss erano in libertà, quando in realtà, tra sospensioni della pena e detenzioni domiciliari, non più di tre usciti dalle mura carcerarie erano detenuti per reati connessi alla mafia. Ma la primavera del diritto e della salute durò poco.

Decreti e circolari furono presto ritirati e nell’ottobre i detenuti in carcere erano già passati da 52.800 54.800, duemila in più. Nessuno era scappato, tutti si erano fatti ri-arrestare, docili come agnellini. Ma i problemi sono rimasti. E’ facile dire “sovraffollamento”, senza domandarsi come nasce. Perché basterebbe sommare quel quarto di detenuti in attesa di giudizio che poi verrà assolta a quell’altro quarto che è fatto di soggetti fragili, cioè tossicodipendenti, anziani, malati (soprattutto psichici), portatori di handicap, per ridurre in modo considerevole l’affollamento. E salvare molte vite. Che senso aveva il carcere per Donatella? Crediamo che i giudici abbiamo fatto tutto il possibile per lei, anche se il dottor Vincenzo Semeraro ha ripetuto con angoscia “So che avrei potuto fare di più per lei, non so cosa, ma so che avrei potuto fare di più”. No, dottor Semeraro, probabilmente lei ha fatto tutto quello che le competeva. Ma Donatella non doveva stare in prigione, proprio come l’anoressico Francesco.

Ma che cosa si può fare, adesso? Certo, possiamo continuare a denunciare che ci sono tutte le carenze di personale, in particolare di psicologi e psichiatri, soggetti fondamentali per il trattamento dei detenuti. E mancano 18.000 agenti, come denunciano da tempo i sindacati, e lo hanno ripetuto ancora ieri, dopo i due suicidi a ridosso della circolare del Dap dell’8 agosto. Ma, ironizza Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa polizia penitenziaria, che pure quella circolare condivide nei contenuti, “mentre il medico studia, il paziente muore”. Che cosa fare dunque nell’immediato? Prima di tutto quel che abbiamo già detto e ripetuto, lasciare grande spazio all’affettività, con ampliamento di possibilità di visite e telefonate con i parenti. Poi quel che aveva raccomandato l’ex procuratore generale Salvi ai suoi colleghi pm e gip: meno ricorso alla custodia cautelare in carcere. E poi un appello ai tribunali e ai giudici di sorveglianza: siate ancora “scandalosi”, come ai tempi dell’epidemia. Perché 49 suicidi in poco più di sette mesi sono uno scandalo. Siate voi dunque i primi protagonisti di questo grande piano di giustizia sociale che parta dal carcere. Non possiamo aspettarcelo dalla politica. Soprattutto in questo momento. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

«Non ho nulla di cui scusarmi per il suicidio di Donatella». Parla Andrea Mirenda, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Verona a cui era affidata Donatella Hodo, la ventiseienne di origine albanese suicidatasi nel carcere di Montorio questa settimana inalando il gas di una bomboletta. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 13 agosto 2022.

«Io non ho nulla, ma veramente nulla, di cui scusarmi. Ho fatto tutto quello che in questi casi andava fatto». A dirlo è Andrea Mirenda, il magistrato del tribunale di sorveglianza di Verona a cui era affidata Donatella Hodo, la ventiseienne di origine albanese suicidatasi nel carcere di Montorio questa settimana inalando il gas di una bomboletta.

La triste fine di Donatella è balzata agli onori delle cronache non per il fatto in sé, in quanto – purtroppo – i suicidi dei detenuti continuano a essere all’ordine del giorno, ma per una lettera di scuse da parte dell’attuale facente funzione dell’ufficio di sorveglianza di Verona, il giudice Vincenzo Semeraro.

Nella lettera, letta durante i funerali della giovane ragazza, il dottor Semeraro si era scusato pubblicamente per quanto accaduto, affermando che avrebbe “potuto fare di più per Donatella, non so cosa, ma so che avrei potuto”. Parole che, ovviamente, avevano avuto una coda polemica, facendo finire sul banco degli imputati tutto il personale penitenziario e il sistema di sorveglianza nel suo complesso. In alcune interviste all’indomani della tragedia, il padre e il fidanzato avevano poi dichiarato che Donatella era stata “lasciata sola” in carcere, annunciando quindi di voler denunciare gli eventuali responsabili.

Dottor Mirenda, si sente responsabile di questa morte? C’era qualcosa che si sarebbe potuto fare e non è stato fatto?

Guardi, quando qualcuno in carcere decide di togliersi la vita è sempre un dramma che scuote le nostre coscienze. Ci sarebbe bisogno da parte di tutti di rispetto, di silenzio, e soprattutto di evitare strumentalizzazioni di alcun tipo. Fatta questa premessa, che ritengo doverosa, nel caso di Donatella è stato fatto tutto quanto era possibile. Donatella aveva un passato molto complicato, dall’età di 21 anni entrava ed usciva dal carcere in particolare per reati legati agli stupefacenti e contro il patrimonio. Sì. La ragazza stava scontando una condanna definitiva presso una comunità di recupero per soggetti con questo genere di problemi. Il 22 maggio scorso, però, aveva deciso autonomamente di lasciare la comunità ed era tornata in carcere.

Cosa è successo allora?

Appena ritornata in carcere, il direttore, conoscendo bene i suoi problemi, l’aveva subito ammessa al lavoro interno, la produzione di marmellate e prodotti simili. Ed è un fatto molto raro.

Perché?

Come sanno tutti coloro che si occupano di esecuzione della pena, è molto difficile che a colui il quale è stata revocata una misura alternativa alla detenzione venga poi concesso di poter subito lavorare in carcere. Una concessione che, invece, era stata fatta dal direttore proprio per la sensibilità che aveva nei confronti di Donatella e dei suoi problemi personali.

Non è stata mai lasciata sola?

Assolutamente no. E gli è stato subito consentito di avere dei colloqui con il suo fidanzato.

E con il difensore?

Io ho avuto rapporti costanti con l’avvocato Simone Bergamini. E lo dico senza tema di smentita. Nonostante quello che era successo, l’abbandono della comunità da parte di Donatella, stavamo lavorando per un nuovo affidamento terapeutico, da porre in essere appena superati i limiti previsti dall’articolo 58 quater dell’ordinamento penitenziario. Sinceramente non so proprio cosa altro bisognasse fare.

La lettera del suo collega ha fatto discutere.

Io ritengo che si sia trattato di un lettera dal valore sentimentale e affettuoso che però non può assolutamente mettere in discussione la qualità professionale e umana del trattamento che è stato assicurato a Donatella in questi mesi.

Si sente amareggiato? Non si aspettava tutte queste polemiche?

Un po’ sono amareggiato, certo. Però vorrei farmi portavoce di tutti coloro che lavorano ogni giorno, e fra mille difficoltà, in carcere: dal direttore fino agli agenti della polizia penitenziaria, chiamati “guardie” in maniera sprezzante dal fidanzato di Donatella. Ecco, ci vorrebbe un po’ più di rispetto, evitando di lasciarsi andare a facili polemiche senza neppure conoscere i fatti realmente accaduti.

Il fidanzato di Donatella, 27enne suicida in carcere: «Lei abbandonata da tutti. Le scuse del giudice? Facile parlare adesso». Laura Tedesco su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Il fidanzato della 27enne che la settimana scorsa si è tolta la vita nel penitenziario veronese di Montorio: in cella piangeva 

Leonardo Di Falvo, 24 anni, era fidanzato di Donatella Hodo, 27 anni, morta nel carcere di Montorio (Verona) nella notte tra l’1 e il 2 agosto

«Non è stato il suicidio in carcere di una drogata. Donatella, la mia Dona, era pulita da un anno. Ora che non c’è più, leggo e sento commenti al veleno. In troppi stanno dando giudizi senza sapere nulla di lei. Sono arrabbiato... ». Leonardo Di Falvo è il fidanzato della 27enne che settimana scorsa, inalando del gas dal fornelletto in cella, si è tolta la vita nel penitenziario veronese di Montorio, lasciandogli un’ultima dichiarazione d’amore: «Sei la cosa più bella che mi è capitata, Leo, perdonami». Per la prima volta dopo la tragedia, il 24enne rompe il silenzio.

Perché è arrabbiato? E con chi?

«Ce l’ho col mondo intero, con il sistema, il carcere, i magistrati, le guardie, la sua famiglia, i suoi amici. Ma sono inc... anche con lei, con Dona, perché doveva solo pazientare un altro po’. Presto sarebbe uscita, avevo preparato tutto per lei».

A cosa è dovuta la sua rabbia, il tuo rancore?

«L’avevano lasciata sola, ero solo al suo fianco. La ascoltavo, la calmavo, le stavo vicino, le telefonavo, andavo a farle visita. Soprattutto nell’ultimo periodo dopo che l’avevano rimessa in cella perché era scappata dalla comunità, l’avevano abbandonata. Tutti tranne me».

Quando l’ha vista l’ultima volta?

«La mattina del primo agosto, il suo ultimo giorno di vita perché poi nella notte se n’è andata per sempre. Con il suo gesto ha bloccato anche la mia vita. Il tempo per me si è fermato, minuto dopo minuto, ora dopo ora, continuo a chiedermi perché. Cosa le è scattato? È forse accaduto qualcosa che non so?»

Come l’aveva trovata la mattina prima della tragedia?

«Era la solita Dona... con i suoi alti e bassi, aveva avuto anche quel giorno i suoi soliti cinque minuti in cui era partita per la tangente, ma poi l’avevo riportata sui binari. La conoscevo da quando eravamo adolescenti, almeno da dieci anni, ero l’unico che riusciva a rassicurarla».

Come vi siete salutati?

«Ci siamo detti ti amo, ci siamo baciati abbracciandoci. Uscendo le ho assicurato che le avrei telefonato e sarei tornato da lei la settimana dopo, come sempre. Non mancavo mai, avrei fatto tutto per lei, qualsiasi cosa».

Appena lei fosse stata scarcerata, sareste andati a convivere.

«Ho preso una casa apposta per stare insieme, lei sognava di fare l’estetista e io le avevo trovato un primo lavoretto per quando sarebbe uscita. L’avrei aspettata per sempre, perché ha rotto così il nostro sogno? Ci eravamo promessi amore per sempre, perché ha distrutto tutto? Cos’è successo?».

Il papà di Donatella ha sporto denuncia contro il carcere.

«Anch’io mi chiedo cosa sia accaduto quella notte maledetta. Qualcuno in serata l’aveva sentita piangere, sapevano quanto lei fosse fragile. Perché nessuno è andato a parlarle? Magari sarebbe bastata una parola, un consiglio, una pacca sulla spalla per farle passare la tristezza di un attimo e salvarle la vita. Invece l’hanno lasciata tutti sola, nessuno escluso».

Il giudice di Sorveglianza sente di «aver fallito».

«Devo essere franco, è facile adesso parlare. Ora tutti dicono qualcosa, ma dov’erano quando Dona poteva essere salvata? Cos’hanno fatto per aiutarla?».

Irene Famà per “La Stampa” il 17 agosto 2022.

«Come sta mamma? Sono dispiaciuto per quello che ho fatto, per aver deluso i miei genitori». No, queste non sono le parole che un bandito rivolge a un giudice. E infatti Alessandro Gaffoglio non lo era. Ventiquattro anni e un'infanzia complessa, affetto da disturbi psichici, talvolta faceva uso di droghe. Il 2 agosto, a Torino, coltello alla mano, ha rapinato due supermercati. La polizia l'ha arrestato ed è finito davanti al giudice per la convalida del fermo. 

 Il primo arresto, il primo giorno in carcere. Una misura cautelare, non una condanna. In cella Alessandro ha resistito due settimane, poi si è tolto la vita soffocandosi con un sacchetto di nylon.

Alessandro Gaffoglio non era un bandito, era un ragazzo fragile. Come Donatella Hodo, di tre anni più grande, che nella sua cella a Moriondo, nel veronese, il 2 agosto si è uccisa inalando del gas da un fornelletto. Lottava contro la dipendenza da stupefacenti, usciva ed entrava dal carcere di continuo. Piccoli furti, i suoi. Come quelli di Alessandro. Difficoltà che la detenzione ha acuito, solitudini che ha reso insostenibili, paure e fragilità che non hanno lasciato scampo. Dalle loro celle, quei due ragazzi non hanno visto possibilità di riscatto, ma solo fallimento. 

«È un'estate davvero drammatica» dice la ministra della Giustizia Marta Cartabia, dati alla mano: cinquantadue suicidi da inizio anno nelle carceri italiane, nove nei primi quindici giorni di agosto. «Il ministero, l'amministrazione penitenziaria stanno facendo molto per migliorare complessivamente la qualità di vita e di lavoro nei nostri istituti, ma il dramma dei suicidi riguarda tutti».

Le carceri sono sovraffollate, d'estate non ci sono attività, il supporto psicologico non basta. Come sottolinea Cosima Buccoliero, la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno di Torino: «Si interviene sulle situazioni in cui si crea allarme, quelle evidenti. Le altre non si riesce a individuarle». E la richiesta di cambiamenti del sistema carcercario arriva da più voci, dal sindacao Osapp della polizia penitenziaria, dai garanti dei detenuti. 

Alessandro Gaffoglio era nato in Brasile. Poi era stato adottato e in Italia, a Torino, studiava. E lavorava. Lavoretti qua e là, come un periodo in uno dei tanti girarrosti. «Solare, dolce, attento alla famiglia». Chi lo conosceva, lo descrive così: «Proprio la persona che speri non faccia quella fine. Doveva essere aiutato». Aiutato ad affrontare la dipendenza dagli stupefacenti, che l'ha spinto, così pare, ad assaltare due supermercati e a tentare la fuga con un bottino intorno a un migliaio di euro. E forse, questo il sospetto degli inquirenti, a compiere altre rapine nei mesi scorsi.

Seguito e monitorato per quei disturbi pischici. Entrato in carcere, è stato inserito nel cosiddetto "Sestantino", l'area nella sezione dei "Nuovi giunti" per chi ha problemi psichiatrici. Poi è stato trasferito, sempre sotto osservazione, in un altro padiglione. «Stiamo cercando di capire come sono andati i fatti», dichiara l'avvocata Laura Spadaro. 

La procura ha aperto un'inchiesta: al momento non ci sono indagati né ipotesi di reato. È stato sequestrato il fascicolo che riguarda Alessandro Gaffoglio, si cerca di capire se il ventiquattrenne è stato seguito e monitorato adeguatamente. L'indagine torinese riguarda Alessandro. A Verona si riflette sul suicidio di Donatella. Volti e storie differenti, simbolo, entrambi, della sconfitta di un sistema. 

Dramma carcere femminile, in 15 in una cella. Viviana Lanza su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

Il carcere e le donne. Nei giorni scorsi il Riformista si era occupato di questo aspetto, evidenziando come la stragrande maggioranza degli istituti penitenziari non siano a misura di donne, rendendo la reclusione delle detenute una condanna aggiuntiva. Quando poi si arriva a stare in sei, sette o addirittura in quindici, sì quindici, in una cella la situazione diventa molto più critica. D’estate ancor di più. L’aria filtra piano, la disponibilità di acqua non è illimitata, lo spazio vitale è ridotto al minimo, forse anche meno del minimo. In Campania il sovraffollamento è un problema anche nel carcere femminile, quello di Pozzuoli, l’unico della regione organizzato per ospitare donne. Sorge nella sede di un convento risalente al XV secolo, che nel corso della sua storia è stato manicomio criminale e successivamente carcere femminile. La struttura è composta di tre reparti, 26 celle in tutto.

Delle tre sezioni, una è destinata alle detenute affette da problemi di salute mentale e un’altra è destinata alle semi-libere e alle lavoratrici. Attualmente la popolazione detenuta è di 146 donne, a fronte di una capienza regolamentare di 102 posti. Il sovraffollamento, quindi, è una realtà anche qui, il che si traduce in una più difficile gestione di tutta la struttura e di chi la vive. In ogni cella sono presenti letti a castello per un numero che varia dalle sei alle quindici persone per cella. Inoltre, in tutte le celle, a causa di disfunzioni dell’impianto, ci sono problemi per la fornitura di acqua corrente e acqua calda. Le criticità sono state rilevate dalle osservatrici campane dell’associazione Antigone anche durante la loro recente visita all’interno della casa circondariale femminile.

Il sovraffollamento si trascina dietro tutta una serie di altre criticità. «Oltre al sovraffollamento abbiamo riscontrato un elevato numero di detenute che fanno uso di benzodiazepine al bisogno. Molto alto anche il numero di detenute con doppia diagnosi (psichiatrica e di dipendenza)». Eccolo il quadro che emerge, ecco lo scenario dei tanti drammi che si consumano dietro le sbarre. Nel carcere di Pozzuoli sono presenti psichiatri a turnazione per un numero complessivo di 38 ore settimanali, fa sapere Antigone. Da novembre 2020 la nuova direzione si è impegnata nella realizzazione e nell’approvazione di vari progetti, anche di ristrutturazione della struttura sebbene si tratti comunque di un edificio costruito intorno al ‘500 e pertanto difficile da ammodernare. La costante, quindi, resta sempre la stessa: carceri vecchie e sovraffollate. 

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il dramma delle donne detenute: rinchiuse in strutture pensate solo per gli uomini. Viviana Lanza su Il Riformista il 9 Agosto 2022 

Le donne detenute aumentano ma le carceri sono ancora in prevalenza concepite per soli uomini. Ci sono carenze che finiscono per diventare una sorta di aggravamento della reclusione, una sorta di pena aggiuntiva. La questione è stata riproposta dall’associazione Antigone in occasione del rapporto di metà anno, una relazione stilata a conclusione di visite nei vari istituti di pena del nostro Paese. In Italia si contano 2.314 donne detenute, pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta. Una percentuale stabile nel tempo, di poco inferiore alla media dei paesi europei che si attesta sul 4,7%. La Campania è terza per numero di donne detenute (324), dopo il Lazio (405) e la Lombardia (370). «Negli ultimi dodici mesi l’Osservatorio di Antigone ha visitato 84 istituti e in 23 di questi erano presenti donne – si legge nel rapporto -. Nel 30,4% delle celle ospitanti donne non c’era il bidet, nonostante sia previsto dal regolamento penitenziario già dal 2000. Nel 17,4% degli istituti visitati ospitanti donne non era garantito un servizio di ginecologia e nel 30,4% mancava un servizio di ostetricia. Non ovunque, nelle carceri ospitanti bambini, era presente un pediatra, così come volontari che si occupavano di accompagnare all’esterno i bambini che dormivano in istituto.

Forti tassi di autolesionismo hanno riguardato le sezioni femminili degli istituti di Bologna e Palermo, con 3,6 atti di autolesionismo in un anno ogni 10 detenute». Numeri che descrivono drammi silenziosi, crepe di un sistema penitenziario non in grado di rispettare quella funzione costituzionale di recupero e reinserimento del detenuto. Donne detenute in carcere concepiti per soli uomini: sembra una descrizione da medioevo, non certo di uno Stato di diritto nell’anno 2022. Eppure, è realtà. Come è realtà il numero crescente di donne recluse insieme ai figli in tenera età. Sei mesi fa la ministra Cartabia aveva detto mai più bambini dietro le sbarre e in questi mesi il numero delle donne detenute con figli al seguito è salito da diciotto a venticinque. E la politica cosa fa? Praticamente nulla, visti i dati e i numeri che periodicamente confermano i drammi silenziosi del popolo detenuto, soprattutto della fascia debole di quel popolo, donne e bambini.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Quei suicidi spie delle carceri fuorilegge. Di Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Dall’inizio dell’anno 51 detenuti si sono uccisi in cella, non solo la ragazza di Verona. E questo è solo una segnale delle irregolarità che spesso rendono invivibili i penitenziari

Sessantamila italiani che si sono uccisi in un anno: fantascienza? Eppure accadrebbe se la proporzione di chi si sta togliendo la vita in carcere (10,6%) si replicasse nella popolazione in libertà (suicida 16 volte meno). Da quando a Verona è morta Donatella, la 27enne detenuta il cui suicidio ha spinto il suo giudice di sorveglianza a interrogarsi sul fallimento proprio e del sistema, già altre tre persone si sono tolte la vita: 51 da inizio anno, quasi già quanto le 54 dell’intero 2021 accomunate da disagi psichiatrici, dipendenze (1 detenuto su 3 ma solo tre carceri hanno programmi mirati), e sovraffollamento medio al 120% ma con picchi locali anche al 150%.

Ecco perché, sotto l’intermittente commozione per l’eccezione statistica dei suicidi, stride l’ipocrisia del tollerare invece l’ordinaria eccezione alla legalità in carcere, quale registrata dalle visite dei Radicali e dell’associazione Antigone in 85 istituti: 5 minuti e 20 secondi alla settimana in media di servizio psichiatrico per detenuto, psicologi per 10 minuti e mezzo settimanali a cranio, quasi 6 celle su 10 senza docce (benché una norma le imponga dal 2000), quasi un terzo senza i minimi 3 metri quadrati calpestabili, carceri non allacciate alla rete idrica che suppliscono con 4 litri potabili a detenuto, 10 minuti alla settimana di telefonate ammesse dal regolamento del 1975. Ancora non cambiato (introducendo i telefoni in cella anche in chiave anti-suicidi) da una politica che, per calcolo di dividendo nelle urne o per paura di pedaggio elettorale, lascia sul binario morto pure le più complessive riforme proposte in questi anni dalle commissioni Giostra e Ruotolo. E tace agli elettori quanto intanto questa fuorilegge fabbrica-carcere nemmeno riesca a consegnare la supposta merce-sicurezza al consumatore-collettività, se 62 detenuti su 100 sono già alla seconda carcerazione e 18 persino alla quinta o più.

Marcello, Giovanni, Alessio e quella seconda chance che cambia la vita di un detenuto. Dopo anni in cella e storie difficili hanno un lavoro all’esterno per merito degli incentivi previsti dalla legge Smuraglia. E ora, forse per la prima volta, vedono anche un futuro. Silvia Perdichizzi su L'Espresso il 29 Agosto 2022. 

«Calati junco chi passa la china», così Marcello riassume la sua storia, perché in questo proverbio siciliano c’è il senso della sua vita: «Piegati giunco che la piena del fiume passa». Adattati, non opporre resistenza, che poi ti rialzerai più forte di prima.

Marcello è uno dei detenuti che grazie al progetto “Seconda Chance” sta avendo la sua seconda occasione, la possibilità di riscatto da una vita «segnata».

 «Qui dentro non lascereste neppure il vostro cane»: i detenuti denunciano perché ci si ammazza in cella. Il numero dei suicidi nelle carceri sfiora già il totale dello scorso anno e il sovraffollamento tocca punte vicine al 200 per cento. Le voci dei reclusi di Sollicciano arrivate all’Espresso raccontano l’inferno dei nostri istituti. Simone Alliva, Tommaso Gasperini, Massimo Sestini su La Repubblica il 29 Agosto 2022. 

L’ultimo, al momento in cui scriviamo, è un trentenne di Cerignola morto a Foggia nel giorno del suo compleanno. Si è impiccato, come l’italiano di 52 anni che l’ha fatta finita all’interno del reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Piacenza. Arrestato per reati comuni, era in attesa di una decisione del magistrato di sorveglianza e delle autorità sanitarie.

Le prigioni in Italia. Colonia penale per poveri ed emarginati: ecco cos’è il carcere. Marco Chiavistrelli su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Il carcere non è per il popolo italiano ma per una minoranza precisa, con una reiterazione del prelievo “delinquenziale” costante nel tempo e nello spazio sociale. Il carcere è una colonia penale per poveri e altre minoranze emarginate. I detenuti oggi sono circa 56.000. Credo che i più pensino che andare in carcere sia un fatto casuale, di tendenza soggettiva, per cui – per esempio – se in un Paese ci sono 20 persone di cui 10 coi capelli neri e 10 coi capelli rossi in carcere troverai 2 coi capelli neri e 2 coi capelli rossi. Poi negli anni a venire ci sarà magari qualche oscillazione, 3 e 1, e così via. La delinquenza sarebbe soggettiva, quindi casuale e colpirebbe in modo similare più o meno tutti i colori dei capelli, i ceti sociali. Ma ci accorgiamo che non è così, in carcere trovi quasi sempre una maggioranza schiacciante di cittadini coi capelli neri e non un anno a caso, ma sempre. Mistero? No.

Secondo le statistiche il 90% dei carcerati è povero, cioè è assunto da quella fetta di popolazione italiana che vive sotto la soglia di povertà (Istat) che, attenzione, è solo il 6%, cioè 5 milioni di poveri che forniscono il 90% dei carcerati, cioè 50.400 persone che dovrebbero essere 3.300 per percentuale effettiva. Ma dei 5 milioni, 3 e mezzo sono italiani, mentre 1 milione e mezzo sono immigrati irregolari e stranieri, che sono l’8% della popolazione che vive in Italia ma incidono, con circa 17.800 presenze, al 32,4% sulla popolazione carceraria. Ma, attenzione, potremmo pensare che gli stranieri, gli africani delinquono di più ma la percentuale di povertà in loro è del 30% per cui se usiamo la povertà come base, la percentuale di delinquenza è sempre il famoso glaciale 1%. Per i 3 milioni e mezzo di italiani, poveri al 6%, e per il milione e mezzo di stranieri, poveri al 32,4%, esce lo stesso 1% di carcerazione, cioè abbiamo una legge matematica: qualsiasi gruppo povero delinque all’1%. Non c’entra il colore della pelle ma della povertà, che accomuna tutti in un simile destino. È dimostrato che gli immigrati se accolti delinquono meno degli italiani, felici del risultato raggiunto.

Nella parte di popolazione superiore alla soglia di povertà, la probabilità nella propria vita di impattare il carcere è di 1 su 12.000! Mentre 5 milioni di nati male hanno una probabilità di 1 su 100 di finire dentro e forniscono 50.400 detenuti su 56.000. I restanti 55 milioni di italiani “comodi”, non ricchi ma nemmeno disgraziati, forniscono solo 4.600 detenuti o poco più, 1 su 12.000! Ma vi sembra normale? Non bisognerebbe fare qualcosa? Quindi, a parte un 10% di detenuti casuali per provenienza in cui è più alto il contenuto soggettivo del crimine perché non motivato dall’indigenza, il carcere non è per il popolo italiano, è una colonia penale per poveri, per indigenti. Perché se il crimine fosse soggettivo, di indole, i 5 milioni di poveri cristi fornirebbero pochissimi carcerati, poco più di 3.000 mentre superano quota 50.000! Quasi tutti!

Passiamo ora a un’analisi che ci spieghi l’origine dei detenuti per condizione scolastica. Uno pensa che cosa c’entra la scuola? Se sei cattivo, se propendi a delinquere, in carcere troverò un po’ di tutti secondo percentuale. Ma, statistiche ministeriali alla mano, l’83% dei detenuti italiani, 45.650, ha una formazione scolastica bassissima: medie o solo elementari o senza aver mai studiato o analfabeta. Ma come percentuale di popolazione dovrebbero essere solo 9.900 in carcere. Attenzione: su 56.000 detenuti i laureati sono solo 1.100, il 2%, ma in Italia sono il 20% e per logica dovrei trovarne 11.000 in carcere. E i diplomati? Sono 8.250 in galera, il 15%, ma dovrebbero essere 34.100 se il crimine fosse casuale e soggettivo, perché sono il 62% della popolazione. Quindi c’è un nesso catastrofico tra livello di istruzione e carcere che è una colonia penale per pochi milioni di poveri e non istruiti. Allora, se si aiutasse la povertà e l’istruzione i carcerati sarebbero pochissimi.

Ancora, uno pensa: Nord e Sud saranno rappresentati in carcere secondo la loro percentuale di abitanti. Ma no: il 46% dei detenuti, 25.300, è meridionale, anche se quelle stesse regioni hanno solo il 25% della popolazione italiana; quindi, forniscono un contributo di 11.500 detenuti in più alla comunità carceraria. Sono più delinquenti? No, sono più poveri in percentuale (gli indicatori mostrano più povertà al Sud) e riempiono di più le galere rispettando quel famoso 1% dei poveri che delinquono ovunque nella stessa maniera: una legge matematica. Quindi, il carcere non è per tutti, e per i poveri, non istruiti e soprattutto meridionali. Un incubo.

Marco Chiavistrelli

Il numero più alto di sempre. Dramma suicidi in carcere: 77 in un anno è il record del secolo. Stefano Anastasia su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Secondo i dati raccolti da Ristretti orizzonti nel suo dossier Morire di carcere, con gli ultimi tragici casi di Torino e Reggio Calabria, siamo a 77 suicidi accertati nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, il numero più alto di sempre (solo nel 2009 a fine anno i suicidi superarono le 70 unità, fermandosi però a 72). I suicidi costituiscono il 51% dei casi di morte registrati in carcere nel corso dell’anno, e anche questa è una percentuale mai così alta dall’inizio del secolo (non era mai arrivata al 50%, solo il 2018 registrò un 45% di suicidi sul totale dei morti in carcere nel corso dell’anno). Ogni caso è caso a sé, con la storia di quella persona e della sua disperazione, ma il dato generale è impressionante ed è indice di una generale mancanza di speranza nelle nostre carceri.

Salvo poche, ammirevoli, esperienze di sostegno e accompagnamento al reinserimento sociale, la grande maggioranza dei detenuti e delle detenute vive la carcerazione come un periodo più o meno lungo di abbandono. Se le stelle non si allineano in cielo (una forte motivazione personale e una solida rete di sostegno familiare fuori, personale penitenziario quantitativamente adeguato e qualitativamente capace e motivato in istituto, un territorio ricco e capace di accogliere e accompagnare una persona proveniente dal carcere, una magistratura di sorveglianza sensibile e determinata a scommettere sulle alternative alla detenzione e l’ufficio di esecuzione penale esterna che ce la fa), senza questa congiunzione astrale favorevole, la gran parte dei detenuti e delle detenute sono costrette ad aspettare l’ultimo giorno di pena per venirne fuori, spesso avendo perso legami affettivi e familiari, talvolta un lavoro, sempre un po’ di salute e di fiducia in se stessi.

In quel momento, quando il “liberante” si affaccia sulla soglia del portone del carcere, con la sua busta di masserizie residue di anni o mesi di detenzione, spesso senza sapere dove andare, in ognuno di quei momenti si consuma una sconfitta dello Stato, incapace di attuare l’articolo 27 della Costituzione che obbliga le istituzioni, con il concorso della società esterna, ad accompagnare il condannato nel reinserimento sociale, avendogli offerto mezzi e strumenti per una vita diversa. Invece sappiamo che il 30 giugno scorso, 7.658 dei 38.959 condannati in via definitiva scontavano pene inferiori ai tre anni, generalmente ammissibili ad alternative alla detenzione, e addirittura 6.996 avevano un residuo pena inferiore a un anno, prossimi quindi a raccogliere le proprie masserizie per andarsene, eppure ancora in carcere.

Paradossalmente, l’emergenza pandemica dava più stimoli a sopravvivere, facendo sentire i detenuti, seppure chiusi in carcere, parte della società esterna, anch’essa alle prese con la prevenzione e la cura del virus. Ma oggi il carcere è tornato a essere un luogo di isolamento e di disperazione, e il numero di suicidi ne è una drammatica testimonianza. Sulla carta, quel che andava fatto è stato fatto: un piano nazionale di prevenzione del rischio suicidario, decine di piani regionali, centinaia di piani per ogni singolo istituto. Ma la carta non basta, e neanche l’abnegazione degli operatori, a cui non è possibile imputare, a ciascuno di essi singolarmente, la responsabilità di una morte scelta volontariamente da una persona disperata. Se non vogliamo rassegnarci a questa tragedia, o scaricarne la responsabilità sugli operatori penitenziari e sanitari in trincea, bisogna veramente ridurre il carcere a extrema ratio e aprirlo alle attività e al mondo esterno. In questo modo, solo in questo modo il sistema penitenziario può farsi carico di chi debba effettivamente scontare una pena in carcere, e magari – con il concorso della società civile e degli enti territoriali – offrirgli le condizioni per un migliore reinserimento sociale.

Ancora nei giorni scorsi abbiamo risentito la solita litanìa: bisogna costruire nuove carceri per ridurre il sovraffollamento. Ma perché? Per tenere in carcere anziani malati condannati a pochi mesi di carcere, o giovani soli o indisciplinati? Il carcere in Italia è un grande ospizio dei poveri. Gli autori di gravi reati contro la persona o in associazione con organizzazioni criminali non arrivano a 30mila unità. Perché tenerne in carcere 56mila, e domani 60 e dopodomani 70, come qualcuno pensa sia giusto prevedere? Per dare al carcere la funzione che fu dei manicomi, di custodire la devianza e la marginalità sociale, allora etichettata come folle, oggi come criminale (quando non l’una e l’altra cosa insieme)? 30mila o 70mila detenuti? Che società vogliamo essere? Extrema ratio o ospizio dei poveri? Investire nel reinserimento sociale o nella costruzione di nuove carceri? Dalla risposta a queste domande vengono tutte le scelte politiche successive, e anche la chance di restituire ai detenuti la speranza in un futuro degno di essere vissuto. Stefano Anastasia

La mattanza di Stato. La mattanza in carcere, l’ultimo suicida migrante e l’assenza di mediatori e psicologi. Andrea Aversa su Il Riformista il 28 Agosto 2022 

Non ha fine la mattanza di Stato. Un altro suicidio avvenuto tra le mura di un penitenziario. Questa volta è successo nel carcere di Terni. Lo ha annunciato il segretario generale del Sindacato Polizia Penitenziaria (SPP) Aldo Di Giacomo. L’ultima vittima della strage è un giovane di origini marocchine. «Un’altra terribile faccia della medaglia dei suicidi – ha spiegato Di Giacomo – Per i detenuti extracomunitari, circa 12mila, l’assenza di mediatori culturali e psicologi è ancora più pesante».

Dei 55 suicidi, questo ha rappresentato il 22esimo che ha avuto per vittima una persona extracomunitaria. «Lo sciopero della fame che ho iniziato la scorsa settimana insieme al tour tra le carceri italiane, tra cui quelle in Umbria dove ci sono alcune centinaia di detenuti extracomunitari (tunisini e marocchini in maggioranza) è ormai l’ultima possibilità per riaccendere l’attenzione sul fenomeno dei suicidi, la spia estrema del profondo malessere che vive la popolazione carceraria. Si pensi solo che l’età media è notevolmente abbassata con un numero maggiore di giovani», ha affermato Di Giacomo che ha poi continuato: «Purtroppo, l’emozione provocata nell’opinione pubblica, grazie alla grande attenzione di giornali e media e della sensibilità dei giornalisti che ringraziamo, non basta. Come non basta una circolare del Dap o una task force istituita dal Ministero ad intercettare il grave disagio, soprattutto psicologico, diffuso in particolare tra detenuti tossicodipendenti e con problemi psichici trasferendo ogni responsabilità ai Provveditori e ai direttori di istituto».

Di Giacomo ha inoltre dichiarato: «Ringrazio quanti da giorni mi fanno pervenire messaggi di solidarietà e sostegno. Purtroppo è troppo facile il classico ‘scarica barile’ delle responsabilità pur sapendo che né provveditori né direttori dispongono di risorse umane (psichiatri, psicologi) e finanziarie, strumenti e strutture per intervenire. Così come è troppo facile, come fa il capo del Dap, invitare i provveditori a garantire una particolare attenzione alla formazione specifica del personale, attraverso cicli di incontri a livello centrale e locale, destinati a tutti gli attori del processo di presa in carico dei detenuti». Ha concluso il Segretario: «L’estate si conferma dunque stagione problematica da gestire nelle carceri, mentre l’unica Regione che ha attivato, sia pure solo di recente, un piano di prevenzione suicidi è la Regione Lombardia che ha provveduto in questi giorni ad un aggiornamento. Come sostengono gli esperti, la pandemia se in generale ha accentuato situazioni di disagio mentale, apprensione ed ansia, ha avuto e continua ad avere ripercussioni ancora più gravi nelle carceri dove il personale di sostegno psicologico come quello sanitario in generale ha numeri ridotti e non riesce a far fronte all’assistenza ancor più necessaria negli ultimi due anni di Covid».

La comunità penitenziaria è allo stremo. Il sovraffollamento continua ad essere una piaga per detenuti ed agenti. L’assenza di personale sanitario e di risorse per i tribunali di sorveglianza, rende il contesto ancora più complesso e difficile. È difficile accedere alle pene alternative e al lavoro. Ci sono ritardi per i pronti interventi clinici e per consentire ai reclusi di poter fare delle visite mediche. La burocrazia su questo è nemica del Diritto. Pratiche ferme per mesi, mentre la salute delle persone peggiora giorno dopo giorno. La mancanza di educatori preclude ai detenuti la possibilità di poter svolgere le attività trattamentali e rieducative. Le istituzioni sono lontane anni luce dalla Costituzione e continuano a mortificare lo Stato di Diritto. E la politica è indifferente: a quale dei partiti in campo interessa davvero riformare il carcere? Quasi a nessuno, basta assistere a questa vergognosa campagna elettorale. Andrea Aversa

La lettera a Capece. In carcere non ci sono buoni contro cattivi. Maria Brucale su Il Riformista il 9 Settembre 2022 

Caro dottor Capece, il carcere è un mondo difficile, di straordinaria complessità, quella che connota le innumerevoli sfaccettature dell’essere umano. Non è un luogo all’interno del quale si contrappongono buoni e cattivi, diritti tutelabili e diritti da calpestare. È, soprattutto, un luogo che appartiene alle istituzioni e le rappresenta, un pezzo dell’ingranaggio chiamato Stato, all’interno del quale le esigenze di sicurezza dei cittadini, tutti, anche quelli reclusi, devono essere curate affinché la società sia più ordinata, sicura. È, ancora, un luogo dove le persone che hanno commesso reati espiano una pena che deve essere utile a reintrodurle produttivamente nel consesso civile. È, infine, un luogo dove talvolta, non così raramente, sono private della libertà in attesa di giudizio persone che verranno assolte da tutte le accuse, che patiranno un’ingiusta interruzione di vita e subiranno le tragiche conseguenze del disdoro e della mutilazione di relazioni connesse alla reclusione.

È, quindi, necessario che ci si doti di risorse umane e materiali dentro e fuori le carceri che consentano a ogni persona che voglia riabilitarsi di poterlo fare senza subire la violenza di una punizione fine a sé stessa che sottrae dignità, priva di autonomia di pensiero e azione, lede il decoro del vivere, annienta gli affetti, nega la speranza. Non possiamo entrare nel cuore e nella mente di chi ha sentito che la propria esistenza non avesse più nulla da offrire, di chi ha pensato che la morte fosse la sola occasione di sollievo per sé e per i propri cari. Sappiamo però che il disinteresse della collettività per la persona che finisce nel circuito stigmatizzante del carcere determina una percezione di abbandono che può risultare insuperabile. Sappiamo che il carcere impone un marchio di infamia indelebile che scalfisce la credibilità personale e pregiudica il ritorno al mondo del lavoro. Che in carcere manca tutto quello che dovrebbe esserci, che la comunità penitenziaria tutta vive in disperante disagio.

Tutti – agenti, educatori, personale sanitario e amministrativo – patiscono il disinteresse dello Stato e una carenza endemica di risorse. Sono assurde, insensate, nocive le contrapposizioni. Ci dice, dott. Capece, che gli agenti di polizia penitenziaria “nel solo primo semestre 2022 hanno sventato 814 tentativi di suicidio da parte di altrettanti detenuti”. Certo, a loro va tutta la nostra gratitudine perché esercitano la professione in condizioni lavorative estremamente penalizzanti, ma il dato su cui tutti, insieme, dobbiamo soffermarci è che 814 persone fossero arrivate a decidere che per loro ogni speranza fosse inutile, morta. La sicurezza sociale passa per il benessere delle persone che stanno in carcere, tutte, quelle che espiano la loro pena, quelle che lo Stato pone quali custodi e garanti che quella pena sia orientata ai suoi scopi costituzionali. Il benessere del carcere inteso come comunità e come parte integrante dello Stato è possibile solo se ogni suo anello è coeso saldamente a tutti gli altri.

L’azione politica nonviolenta di Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino, di quanti di noi la sostengono con il digiuno a staffetta è tesa proprio al recupero della tenuta sociale, è rivolta alle Istituzioni perché attraverso segnali di ristoro dimostrino in concreto alla comunità penitenziaria tutta l’interesse dello Stato e il proposito di includere finalmente quella comunità negletta tra gli obiettivi politici. È chiaro che senza riforme strutturali e senza aiuti adeguati il problema non può essere risolto. Se amnistia e indulto non sono obiettivi perseguibili nell’immediato, va detto però che le situazioni di emergenza a volte richiedono provvedimenti di urgenza tesi a ridimensionare la portata di fenomeni drammatici, ingovernabili e insopportabili in uno Stato di Diritto.

Bisognerebbe anche guardare alla realtà e vedere, ad esempio, che i tribunali non sono in grado di gestire il carico processuale che hanno e rinviano a tempi lontanissimi la trattazione dei processi relativi ai reati più gravi comportando di fatto la malagestio della giustizia, la disattenzione alle attese di chi l’ha invocata, l’impossibilità di pervenire a pene giuste perché inflitte quando hanno ancora una utilità sociale, quando ancora la persona che ha commesso il reato può percepire il senso dell’impeto punitivo dello Stato. Certezza della pena è concetto completamente travisato. Il senso di questa espressione è una pena mite, coerente alla gravità del reato, dinamica, non fissa, che assecondi il fine di un rientro nella vita libera. Nessuno tocchi Caino vuole oggi con il digiuno di Rita e da sempre con la sua azione politica unicamente che sia rispettata la legge nelle carceri e che ogni diritto umano trovi nello Stato il giusto ristoro e la giusta attenzione. Maria Brucale 

Il precedente drammatico primato fermo a 72 perone nel 2009. La strage in carcere, 74 detenuti si sono tolti la vita nel 2022: mai così tante. Redazione su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

L’ultimo a togliersi la vita è stato un detenuto del carcere Antonio Burrafato a Termini Imerese. Era disabile, aveva una protesi e ha avuto problemi con la droga. Dopo due giorni dall’arresto, si è chiuso in bagno e si è tolto la vita con la cintura dei pantaloni. Pochi giorni prima a Torino, Tecca Gambe, 36 anni, originario del Gambia, l’ha fatta finita nemmeno 48 ore dopo il suo arresto, mentre aspettava la decisione del giudice che avrebbe stabilito se trattenerlo in cella o no. Aveva rubato delle cuffiette da 24 euro. Quella nelle carceri sembra una strage senza fine e il 2022 che ancora non è finito presenta numeri da triste primato. Secondo quanto riportato da Antigone, dall’inizio dell’anno 74 persone si sono tolte la vita all’interno di un istituto di pena. Mai così tante da quando si registra questo dato. Il precedente drammatico primato era del 2009, quando al 31 dicembre si erano suicidate 72 persone. Oggi, a fine anno, mancano ancora due mesi.

Scrive Antigone in una nota: “Oltre al valore in termini assoluti, l’indicatore principale per valutare l’andamento del fenomeno è il cosiddetto tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero dei casi e la media delle persone detenute nel corso dell’anno. Non essendo ancora terminato il 2022, possiamo oggi calcolare il tasso di suicidi solo tra il mese di gennaio e settembre, ossia a quando risale l’ultimo aggiornamento sulla popolazione detenuta. Con un numero di presenze medie pari a 54.920 detenuti e 65 decessi avvenuti in questi nove mesi, il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10.000 persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato. In carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero. Quando nel 2009 si suicidarono 72 persone, i detenuti erano circa 7.000 in più”.

Un altro dato drammatico è quello dei suicidi nella popolazione detenuta femminile. Finora sono stati cinque. Con un tasso superiore a quello degli uomini, pari a quasi il 22%. Nel 2021 e nel 2020 “solo” due si erano tolte la vita. Nessuna nel 2019. Quasi il 50% dei casi di suicidi sono poi stati commessi da persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti. Dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con un patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci.

Le Case Circondariali di Foggia e di Milano San Vittore restano i due istituti con il maggior numero di suicidi nel corso dell’anno, con quattro decessi ognuna. Seguono con tre decessi, gli istituti di Roma Regina Coeli, Monza, Firenze Sollicciano, Torino e Palermo Ucciardone.

“Ovviamente non è possibile ricondurre l’accelerazione del fenomeno di quest’anno a delle ragioni precise – continua la nota di Antigone –  Ogni storia è a sé, frutto di personali dolori e personali considerazioni. Quello che però possiamo sicuramente dire è che la maggior parte delle persone che entrano in un istituto di pena hanno alle spalle situazioni già di ampia complessità: marginalità sociale ed economica, disagi psichici e dipendenze caratterizzano gran parte della popolazione detenuta. In questi ultimi anni, Antigone nelle sue visite ha raccolto un numero sempre crescente di segnalazioni relative all’aumento di persone detenute con patologie psichiatriche e alla difficoltà di intercettare e gestire tali situazioni, spesso per mancanza di risorse adeguate e per l’inadeguatezza del carcere come luogo per la loro collocazione”.

“A tutto questo si è aggiunto negli ultimi anni la pandemia e i vari effetti che essa ha avuto su tutta la popolazione, contribuendo in molti casi ad ampliare e acuire situazioni di solitudine e sofferenza. Per chi era già in carcere e ha subito la chiusura di attività e dei contatti dell’esterno per un lungo periodo, ma anche per chi era fuori e arriva alla detenzione con un affaticamento mentale maggiore di quanto non avvenisse presumibilmente in passato”.

Dopo aver analizzato i drammatici dati Antigone fa delle proposte per uscire da questo tunnel buio in cui sono precipitate le carceri italiane. “Oltre a favorire percorsi alternativi alla detenzione intramuraria, soprattutto per chi ha problematiche psichiatriche e di dipendenza, è necessario migliorare la vita all’interno degli istituti, per ridurre il più possibile il senso di isolamento, di marginalizzazione e l’assenza di speranza per il futuro. Vanno in questo senso favoriti interventi che hanno in generale un impatto positivo su tutta la popolazione detenuta e che possono ovviamente avere un effetto ancora più forte su persone con profonde sofferenze”.

Antigone, in questo senso, un anno fa aveva presentato un documento avanzando alcune proposte di riforma del regolamento penitenziario, al fine di sostenere la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato. “Il regolamento dovrebbe a tal fine prevedere in primis una maggiore cura e apertura ai rapporti con l’esterno: più telefonate (da poter effettuare in qualunque momento, direttamente dalla propria stanza detentiva, non solo ai familiari e alle persone terze che rappresentano legami significativi, ma anche alle autorità di garanzia) e allo stesso modo più colloqui”.

“Andrebbe poi garantita particolare attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali anche quest’anno sono avvenuti numerosi casi di suicidio. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi alla nuova condizione e il personale il tempo necessario ad identificare eventuali problematiche e fattori di rischio. Ogni istituto dovrebbe avere reparti ad hoc per i nuovi giunti, un servizio di accoglienza strutturato in cui vengono informati sui diritti e le regole all’interno del penitenziario, la fruizione di colloqui con psicologi e/o psichiatri e maggiori contatti con l’esterno. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, affinché soprattutto per le persone che non dispongono di una rete solida all’esterno, esso non costituisca un momento traumatico da affrontare in totale assenza di supporto. La persona deve essere accompagnata al rientro in società e dotata dei principali strumenti necessari. Gli istituti devono così dotarsi di un vero e proprio servizio di preparazione al rilascio”.

Torino, giovane detenuto suicida in carcere. Aveva rubato un paio di cuffiette bluetooth. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Era stato arrestato mercoledì ed era in attesa dell’udienza di convalida 

Ancora un suicidio nel carcere di Torino. Un giovane detenuto, 22 anni, di origini africane si è tolto la vita intorno alle 8 di questa mattina impiccandosi nella cella del padiglione B, nella sezione «nuovi giunti» del carcere Lorusso e Cutugno di Torino.

Era stato arrestato mercoledì per il furto di un paio di cuffiette bluetooth in un centro commerciale ed era in attesa dell’udienza di convalida. Gli agenti hanno provato a rianimarlo utilizzando più volte il defibrillatore, ma è stato tutto inutile.

Si tratta del 72esimo caso di suicidio in carcere in Italia dall’inizio dell’anno. «Ogni suicidio rappresenta il fallimento non solo della comunità penitenziaria ma di tutta la collettività - le parole di Monica Gallo garante dei detenuti del comune di Torino. Giovani, spesso soli sul territorio con storie faticose e vite ai margini, spesso alla prima carcerazione per reati bagatellari verso i quali si aprono con troppa facilità le porte del carcere per non riaprirsi mai più alla via».

È il 72esimo dall’inizio dell’anno. La strage senza fine, giovane detenuto si toglie la vita nel carcere di Torino: “Era in attesa di convalida”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Ancora un suicidio in carcere, il 72esimo dall’inizio dell’anno. Un giovane detenuto di origine africana si è tolto la vita intorno alle 8 nella sua cella del padiglione B, nella sezione “nuovi giunti” del carcere ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino. Secondo quanto riportato dall’Ansa, era stato arrestato mercoledì per un furto ed era in attesa dell’udienza di convalida. Gli agenti hanno provato a rianimarlo ma non c’è stato nulla da fare.

Il giovane era arrivato in carcere da due giorni dopo essere stato fermato per il furto di un paio di cuffie bluetooth. Il giudice avrebbe deciso se trattenerlo in carcere ma lui non ha aspettato e si è impiccato nella sua cella dopo il passaggio degli operatori che al mattino consegnano la terapia ai detenuti che ne hanno bisogno.

Secondo quanto riportato da Repubblica, l’allarme è scattato subito. Gli agenti della penitenziaria hanno provato a rianimarlo ma per il giovane detenuto non c’è stato nulla da fare. Tra gli agenti c’era anche un volontario della Croce rossa che ha tentato di rianimarlo con le manovre opportune ma purtroppo per il giovane detenuto non c’è stato altro da fare che dichiarare il decesso poco dopo le 8.

“Sono sconfortata – ha detto a Repubblica la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno, Cosima Buccoliero – Il detenuto era appena arrivato, la visita all’ingresso non aveva rilevato criticità: non c’è stato neanche il tempo di accorgersi di qualche problema e di intervenire”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Ruba delle cuffiette e viene arrestato, si toglie la vita a 22 anni: il carcere va abolito! Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Ottobre 2022 

Un ragazzino di 22 anni, africano, si è ucciso nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Impiccato. Non conosciamo il suo nome e neppure il modo nel quale è riuscito a suicidarsi. Sappiamo solo un paio di cose. La prima è che è il suicidio numero 72 nel corso di quest’anno. È un numero record. Pazzesco. Una media di circa un suicidio ogni 4 giorni. Quasi due a settimana. È un’emergenza assoluta.

La seconda cosa che sappiamo è il motivo per il quale questo ragazzo era stato chiuso in carcere: aveva rubato al supermercato delle cuffiette per lo smartphone. Lo hanno beccato e trascinato il prigione. La polizia ha proceduto all’arresto che deve essere stato autorizzato da un magistrato. A quanto si è saputo, ieri si è tenuta l’udienza di convalida dell’arresto e il giudice si è riservato di prendere una decisione nei prossimi giorni. Noi non sappiamo se il Pm che aveva disposto l’arresto, in sede di udienza di convalida abbia o no chiesto che il ragazzino restasse in prigione. È abbastanza probabile, altrimenti il giudice di fronte a una richiesta unanime di scarcerazione da parte del Pm e dell’avvocato d’ufficio, avrebbe sicuramente disposto la scarcerazione.

Se le cose non fossero andate così, e cioè se il Pm che aveva disposto l’arresto ha poi chiesto la scarcerazione, capendo, seppure con qualche ora di ritardo, la follia della sua decisione, ci troveremo di fronte a una situazione ancora più paradossale: un giudice che di fronte a delle cuffiette rubate, a un ragazzino arrivato dall’Africa e a due richieste convergenti di scarcerazione, dovesse riservarsi , incerto, la decisione, sarebbe un giudice dai criteri di giudizio molto singolari. Avete letto fin qui che toni soft stiamo tenendo? Beh, sono un errore i toni soft. La morte di questo ragazzo grida vendetta al cielo. Chi è stato responsabile del suo arresto per il furto di cuffiette in un supermercato è certamente una persona poco equilibrata.

Esiste tra i lettori nostri o di qualunque altro giornale, qualcuno disposto a dire che se un ragazzino ruba delle cuffiette va messo in prigione? Perché allora a un magistrato è permesso compiere un gesto così assurdo di violenza e di sopraffazione? Aveva ragione Berlusconi quando chiedeva una visita psichiatrica periodica per i magistrati che hanno nelle loro mani un potere così sconfinato e assurdo? Si, aveva ragione. Stavolta, se dio vuole, la notizia ha provocato qualche reazione. Innanzitutto nei giornali, che in genere non sono molto interessati ai suicidi in carcere. Ieri invece le informazioni su questo delitto, seppure molto frammentarie, erano nelle home page di molti giornali on line, a partire dai due principali, Repubblica e il Corriere. E questo ha spinto anche i politici a reagire. Il commento fondamentale riguarda la condizione di sovraffollamento e di fatiscenza in moltissime carceri italiane. Denuncia giusta. Ripetuta nei giorni scorsi dal nuovo ministro e anche dalla nuova premier.

In questo caso però sovraffollamento e fatiscenza non c’entrano niente. I commenti sono sbagliati. Il ragazzo era in prigione solo da due giorni e non si è ucciso per via del sovraffollamento ma perché la sua mente e il suo orgoglio non hanno resistito alla violenza inaudita che una prigione esercita per sua natura sui detenuti. La prigione è un luogo estraneo a ogni idea di civiltà, è una istituzione che demolisce le persone, privandole della libertà, sottoponendole a un potere incontrastabile, annientandone il morale e la reputazione, radendone al suolo il morale e la dignità. Bisogna avere una forza morale eccezionale per resistere a questa infamia, della quale, misteriosamente, la modernità e la civiltà non sono ancora riuscite a liberarsi.

Le prigioni sono un insulto al buonsenso e all’umanità. Sono inutili, dannose, sadiche, servono soltanto ad esagerare il potere di alcune piccole categorie di persone, in particolare i magistrati. Vanno abolite. Ha un senso mantenerne un piccolissimo numero, con pochissimi detenuti, solo per ragioni di sicurezza della comunità. Essenzialmente per assicurarsi che gli assassini, o i violentatori, siano messi in condizioni di non nuocere e di raggiungere dei traguardi di ripensamento e di rieducazione. Basta.

L’idea che costruire nuove carceri – come ha detto tra gli appalusi Giorgia Meloni alla Camera – serva a rendere civili le carceri, è fuori dal mondo. Costruire nuove carceri serve solo a moltiplicare i luoghi di tortura e di affossamento del diritto. Se in Italia ci fossero state cento carceri in più, il ragazzo africano che si è ucciso ieri si sarebbe ucciso lo stesso. E se le nuove carceri fossero servite ad aumentare il numero dei detenuti, sarebbe proporzionalmente aumentato il numero dei suicidi. Dopodiché si pongono due problemi ineludibili.

Il primo riguarda la politica. Senza una formidabile depenalizzazione i problemi della giustizia sono irrisolvibili. Perché? Perchè questo codice penale è profondamente ingiusto e repressivo, e con un codice penale ingiusto la giustizia è condannata. Depenalizzazione vuol dire cancellazione di moltissimi reati e riduzione drastica delle pene. Ci sono reati non violenti, e che non prevedono vittime individuali, puniti con dieci o quindici o vent’anni di prigione. È da pazzi.

Il secondo problema riguarda la magistratura. Se vuole riconquistare il prestigio perduto deve fare moltissime cose. Ma la cosa principale che deve fare è smetterla di arrestare la gente senza ragione. Ricchi e poveri. C’è in giro un magistrato che giurerebbe sul fatto che è stato giusto sbattere in cella quel ragazzo? Non credo. Se c’è si alzi in piedi e lo dica a voce alta. Voglio vederlo in faccia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 20

Scatta l’allarme suicidi in carcere: sono 62 da gennaio. «Quei disagi dei detenuti». Chiara Daina su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.

Il tasso di chi si toglie la vita nel 2022 sarà il più alto del ventennio. La causa va cercata nell’enorme disagio delle condizioni detentive. Urgente incentivare le misure alternative e di recupero 

Sesantadue. Dietro a questa cifra ci sono le storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere dal primo gennaio al 19 settembre di quest’anno. In neanche nove mesi è stata già superata la quota dei suicidi in cella di tutto il 2021. A denunciarlo in un dossier l’associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti e delle garanzie del sistema penale. «I numeri di quest’anno generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni» si legge nel documento. Nel 2018 il tasso di suicidi ogni 10mila persone detenute era di 10,4 casi, sceso a 8,7 nel 2019 per poi risalire a 11 nel 2020 (il decimo più alto del continente secondo l’ultimo rapporto disponibile del Consiglio d’Europa, riferito a quell’anno) e 10,6 nel 2021. Nel 2022, considerato il trend dei decessi in aumento, potrebbe toccare il valore più alto dell’ultimo ventennio.

In Italia i detenuti si uccidono 16 volte in più rispetto ai liberi cittadini. Ma «il carcere non è una condanna a morte» ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le morti in prigione si possono prevenire. «In presenza di fragilità e segni di allarme - spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione - occorrono degli interventi mirati di supporto e accompagnamento, per diminuire il senso di abbandono e risvegliare gli stimoli verso la vita. Oggi, invece, le situazioni a rischio vengono gestite in un’ottica di sicurezza, disponendo una sorveglianza a vista continua. Ma la rigida logica del controllo non è la soluzione e va appunto superata con quella flessibile dell’ascolto e dell’accoglienza della persona detenuta da parte degli operatori».

La circolare del Dap

L’impatto dell’arresto e della carcerazione è traumatico. «Avere la possibilità di sentire i familiari nei momenti di maggiore angoscia - sottolinea Miravalle - può essere di vitale importanza, allontanando il detenuto dall’intento suicidario. Per questo in estate abbiamo lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, in cui chiediamo di riformare il regolamento del 2000, che stabilisce una telefonata alla settimana di massimo dieci minuti, liberalizzando i colloqui telefonici nei casi in cui la persona possa contare su una rete sociale esterna e in assenza di particolari esigenze di sicurezza». Vista l’emergenza, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (dap) Carlo Renoldi ha messo a punto una circolare per adottare la videochiamate come strumento ordinario in aggiunta ai sei colloqui in presenza al mese concessi. I più giovani e di sesso maschile sono la categoria più colpita. L’età media dei suicidi avvenuti finora è di 37 anni. La maggior parte aveva tra i 30 e 39 anni, seguiti dai ragazzi tra i 20 e 29 anni. Solo otto i casi over 50. Quasi la metà erano di origine straniera. Le case circondariali di Foggia e San Vittore a Milano sono gli istituti con più decessi registrati al momento.

«Il suicidio nella quasi totalità dei casi - chiarisce Giuseppe Nese, coordinatore della rete regionale di sanità penitenziaria della Campania - non è mai l’espressione di una patologia psichiatria e, pertanto, i comportamenti a rischio non vanno medicalizzati e trattati con psicofarmaci, né la persona che li manifesta va trasferita nella sezione psichiatrica del carcere. Le scelte autolesive e suicidarie sono piuttosto da inquadrare come conseguenza delle condizioni detentive che determinano un disagio intollerabile. La pena non deve essere una punizione ma una rieducazione. Per prevenire i gesti estremi bisogna migliorare la qualità di vita ordinaria dei detenuti, offrendo attività che diano senso alle loro giornate e al loro futuro, dallo sport al lavoro, il teatro e lo studio, e che rispondano il più possibile alle esigenze e inclinazioni personali. Per un padre che ha necessità di far campare i suoi figli e non vuole sentirsi un peso - fa un esempio Nese - sarà utile avere un impiego lavorativo. Come già accade in tanti altri Paesi europei, andrebbero poi allestite le cosiddette “camere dell’amore” per le relazioni sentimentali e sessuali».

Altrettanto prioritario, esorta Nese, è «il monitoraggio dei momenti potenzialmente più stressanti, che potrebbero gettare la persona reclusa in un grave sconforto: dall’ingresso in carcere ai colloqui con i familiari, le reazioni in aula di giustizia e al rientro, la comunicazione di un lutto o di un evento drammatico che coinvolge amici e parenti, la separazione dal coniuge, la tendenza all’autoisolamento in sezione e all’aggressività verso gli altri. Tutti gli operatori, compresi gli agenti, devono e possono cogliere i segnali di pericolo, non spetta soltanto al personale sanitario farlo». L’attenzione costante per i traumi che si trova a vivere la persona detenuta è raccomandata anche dal piano nazionale di prevenzione al suicidio in carcere del 2017, che in una circolare dell’8 agosto il capo del Dap invita i direttori degli istituti ad applicare.

La condizione degli spazi e del tempo all’interno del carcere è determinante dunque. «Il suicidio - ribadisce Miravalle - è legato al malessere della struttura e al sovraffollamento. Su oltre 55mila reclusi, circa 10mila sono sottoposti al regime di 41 bis e di alta sicurezza per reati di criminalità organizzata, il resto è gente che ha alle spalle storie di marginalità sociale e povertà. Per queste persone afflitte da fragilità la risposta doveva essere un welfare più forte e invece sono finite in galera. È fondamentale incentivare le misure alternative alla detenzione. Quelle 62 persone molto probabilmente fuori dal carcere non si sarebbero mai ammazzate», conclude Miravalle. 

Il dossier di Antigone. Dramma carceri, in 8 mesi 59 suicidi: le storie. Sofia Antonelli su Il Riformista il 8 Settembre 2022 

Mai così tanti suicidi nei primi due terzi dell’anno. Cinquantanove in totale, più di uno ogni quattro giorni. In soli otto mesi non erano mai stati registrati così tanti decessi. In tutto il 2021 erano stati 57. Se questi numeri fanno impressione già di per sé, il paragone con quanto avviene nella società esterna desta ancora più clamore: in carcere ci si uccide 16 volte di più rispetto a quanto non avvenga nel mondo libero. Mentre l’Italia in generale è considerato un Paese con un basso tasso di suicidi a livello europeo, se si guarda alle sue carceri la posizione in classifica cambia notevolmente, attestandosi al decimo posto tra i paesi del Consiglio d’Europa.

Questo è quanto Antigone racconta in un dossier realizzato per non far cadere nel silenzio il dramma che sta colpendo le carceri italiane nel 2022. Un documento voluto per raccontare i numeri, ma anche i luoghi e alcune delle storie di quelle 59 persone che hanno deciso di togliersi la vita. Se si guardano le biografie di queste 59 persone si scopre che quasi la metà era di origine straniera. Quattro le donne, una percentuale particolarmente alta rispetto agli anni precedenti. Molte le persone affette da disagi psichici o da dipendenze. Ma, come dicevamo, il dossier di Antigone non parla solo di numeri, ma soprattutto di vite e di storie. Storie di grande dolore, storie di marginalità. Storie di persone che in carcere si trovavano da poco o che avrebbero dovuto lasciarlo a breve. Storie anche di persone che in carcere non ci sarebbero dovute nemmeno essere.

È questo il caso di G.T., un giovane ragazzo di 21 anni arrestato per il furto di un cellulare. A causa delle sue patologie psichiatriche, il Tribunale di Milano lo aveva dichiarato incompatibile con il regime carcerario chiedendo il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza). Dopo diversi mesi da quella pronuncia e un primo tentato suicidio, a fine maggio G.T. si è tolto la vita in una cella di San Vittore. Pochi giorni prima un altro ragazzo si era ucciso a poche celle di distanza. Il dossier riporta poi la storia di A.G., anche lui ventenne, anche lui affetto da disagio psichico, anche lui con un tentato suicidio alle spalle. Neanche due settimane dopo il suo ingresso in carcere si è tolto la vita al Lorusso Cotugno di Torino. Non aveva precedenti penali e quello era il suo primo arresto. C’è poi la storia di D.H., la giovane donna che prima di togliersi la vita nel carcere di Verona ha lasciato un biglietto d’addio al fidanzato.

Il magistrato che da anni seguiva il suo caso, dopo il decesso della donna ha ammesso con dolore che con lei tutto il sistema aveva fallito. Tramite la testimonianza di un signore che ha contattato Antigone abbiamo poi saputo la triste storia di un uomo detenuto per aver rubato una pecora e chiesto il riscatto al proprietario. Affetto da disagio psichico, si è tolto la vita nel carcere di Castrovillari. Nessuno ne ha mai reclamato il corpo e dopo qualche settimana è stato sepolto nel cimitero della città a spese del comune. Queste sono solo alcune delle storie raccolte nel dossier, ognuna frutto di personali trascorsi e sofferenze. Non possiamo però non guardarle nel loro insieme come indicatore di malessere di un sistema da cambiare, in cui il profondo isolamento e l’assenza di speranza la fanno da padrone. Gli interventi da apportare sarebbero molti, c’è bisogno di importanti riforme che andavano però fatte nei mesi scorsi. Oggi, a pochi giorni delle elezioni, non c’è più tempo. Ma c’è tempo per fare due cose.

La prima è quella che Antigone ha chiesto attraverso la sua campagna “Una telefonata allunga la vita”, ovvero la liberalizzazione delle telefonate. Il regolamento attualmente in vigore ne prevede oggi solo una a settimana da 10 minuti, ma la sua entrata in vigore risale al 2000. Si tratta di un intervento semplice ma con un grande impatto sulla vita delle persone, soprattutto nei momenti di difficoltà, quando una voce cara può fare tanto. La seconda è chiedere a tutti i protagonisti della campagna elettorale di impegnarsi per portare avanti quelle riforme necessarie e urgenti per dare un senso alla pena, renderla meno afflittiva, in linea con il dettato costituzionale e la tutela della dignità umana. Sofia Antonelli

Emergenza carceri, in 8 mesi 59 suicidi: mai così tanti. "Persone fragili, tossicodipendenti e malati psichiatrici che non dovevano essere lì". Giulia Torlone su La Repubblica il 2 Settembre 2022.  

Donatella, "delicata come un cristallo di Boemia". Simone, 44enne con problemi psichici che aveva rubato un telefonino. Alessandro, che si è tolto la vita al secondo tentativo: non era più sorvegliato. L'appello del Garante, di Antigone e del sindacato degli agenti: "Pochi medici, celle sovraffollate, l'isolamento dovuto al Covid tra le ragioni dell'impennata. Le regole vanno ripensate". E da Villa Maraini le voci di chi ce l'ha fatta

"Ho fallito, so che avrei potuto fare di più" scrive in una lettera aperta Vincenzo Semeraro, magistrato di sorveglianza del Tribunale di Verona. Sente addosso la colpa di non aver impedito a Donatella Hodo di togliersi la vita inalando gas da un fornelletto nella notte tra l'1 e il 2 agosto, nel carcere di Montorio. Di lei, ragazza ventisettenne, il giudice ha ricordato il suo essere "fragile, fragilissima, come un cristallo di Boemia", con un passato di dipendenza dalla droga e una serie di furti.

In pochi mesi superato il record dell'intero 2021. Dramma carceri, 57 suicidi in 8 mesi: 14 solo ad agosto, più di uno ogni 2 giorni. Redazione su Il Riformista il 27 Agosto 2022 

Quello che sta succedendo nelle carceri italiane è una silenziosa mattanza. Nel 2022 si contano già 57 suicidi, lo stesso numero registrato in tutto il 2021, anno di un drammatico primato. “Il carcere non è una condanna a morte. È necessario intervenire affinché il dramma che sta interessando gli istituti di pena italiani in questo 2022 si possa fermare”, ha detto Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. I numeri ricordati dall’associazione sono drammatici: nei primi 8 mesi di quest’anno sono stati 57 i detenuti che si sono tolti la vita nelle carceri. Gli ultimi due in Sicilia, uno a Caltanissetta e l’altro a Siracusa. Ad agosto abbiamo registrato 14 suicidi, più di uno ogni due giorni. Furono 57 le persone che si suicidarono in carcere in tutto il 2021. Un dramma che è la fotografia della terribile situazione delle carceri.

“Proprio in questo mese così drammatico la nostra associazione – prosegue Gonnella – ha lanciato la campagna ‘Una telefonata allunga la vita’, chiedendo una riforma urgente del regolamento del 2000 che porti ad una liberalizzazione delle telefonate per i detenuti. In un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”.

“Dell’importanza dell’affettività per i detenuti – continua il presidente di Antigone – ci parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020”. Secondo questa, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari.

“All’indomani di quelle chiusure – sottolinea Patrizio Gonnella – la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e constì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”.

“Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” conclude Patrizio Gonnella, che auspica che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato.

Estratto dell’articolo di Federica Angeli per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

[…] Al 10 di agosto, su 54.000 detenuti, 49 si sono tolti la vita: venti volte di più rispetto alla media esterna. Un mese fa è toccato a una trentenne nel braccio femminile di Rebibbia, madre di due bambine […] tossicodipendente con doppia diagnosi, sia psichiatrica che di consumi. Non ha retto, le misure alternative non sono state trovate per lei e si è suicidata in infermeria dove era ricoverata.

[…]sono i numeri a spiegare la disumanità del sistema carcerario che sembra non avere più la sua missione iniziale ovvero […] "vigilando redimere". «A fronte dei 54mila detenuti oggi in Italia […] almeno un terzo, 18mila, avrebbe bisogno di essere trasferito in centri di recupero per tossicodipendenti o in centri psichiatrici». E invece sono chiusi nelle celle in attesa che la loro pena scenda sotto i quattro anni.

[…] «La valutazione si basa sulla pena e sulla condotta, non sulla necessità - spiega Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma - Devi avere una pena al di sotto dei 4 anni per andare in comunità terapeutica, ed è molto raro che ciò avvenga […]». 

E via con altri numeri. «Sa quante sono oggi le persone detenute che si trovano in carcere con una pena inflitta di un anno? […] Sono 1.344. E sa quante sono quelle con una pena residua da scontare di un anno? 7.067. Il carcere è diventato una discarica indifferenziata. La recidiva reale è al 90%: chi esce delinque più di prima. In termini di costi indiretti (i soli costi diretti sono 4 miliardi) non sappiamo quanti miliardi si spendono, cifre astronomiche».

[…] ci sono un educatore e un magistrato ogni 200 detenuti, alcuni attendono 6-7 mesi per un colloquio. Quanto ai direttori di carceri ne mancano 200 su 500 totali: il concorso è stato fatto da poco e non prima della fine del 2023 entreranno in servizio […]

Altri due suicidi: uno a Monza e l’altro a Rimini. Da gennaio sono 51. Il capo del Dap, Carlo Renoldi, e gli altri vertici dell’amministrazione penitenziaria nel giorno di Ferragosto saranno in visita in molti istituti tra i quali l’Ucciardone e il Pagliarelli di Palermo, Poggioreale a Napoli, Santa Maria Capua Vetere e Rebibbia. Francesco De Felice su Il Dubbio il 12 agosto 2022.

L’ultimo suicidio, speriamo, è di ieri mattina presto nel carcere di Monza. Il pomeriggio prima un altro detenuto si era tolto la vita a Rimini. Ormai sembra una escalation inarrestabile che interessa tutti gli istituti penitenziari italiani. In Campania se sono registrati tre in soli cinque giorni. L’ultimo martedì a Secondigliano, dove si è impiccato, nella sua cella Dardou Gardon, detenuto algerino di 33 anni condannato per rapina. In Campania, evidenziano i garanti della Campania e di Napoli, Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, è «il terzo suicidio in soli cinque giorni; la morte di martedì a Secondigliano si somma a quelle di un detenuto di Arienzo e di un detenuto di Poggioreale». I due garanti chiedono che «le parole messe nero su bianco nell’ultima circolare del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per prevenire gli eventi suicidari diventino buone prassi negli istituti di pena» e invitano il Capo del Dipartimento e il ministro della Giustizia «a visitare le carceri del circondario napoletano, Poggioreale in primis, l’Istituto più sovraffollato d’Italia, e a partecipare ad una tavola rotonda con magistrati di sorveglianza, Amministrazione penitenziaria, Garanti regionali e territoriali e Terzo settore».

Sono 51 le persone che si sono tolte la vita da gennaio

Con queste ultime morti è salita a 51 la triste statistica dei suicidi dall’inizio dell’anno, basti pensare che l’anno scorso, nello stesso periodo, erano a 32 e furono 55 alla fine del 2021. Il dossier “morire di carcere”, curato da Ristretti Orizzonti, racconta come da dieci anni a questa parte i suicidi avvenuti tra il mese di gennaio e quello di giugno siano stati un minimo di 19 e un massimo di 27. Solo nel 2010 e nel 2011 si era arrivati rispettivamente con 33 e 34 suicidi. L’associazione Antigone, nel suo ultimo rapporto, aveva lanciato l’allarme: un tasso di sovraffollamento al 112%, troppo caldo, troppi problemi invisibili e irrisolti, come quelli legati allo stato di salute mentale di chi finisce in cella e che oltre a scontare una pena avrebbe diritto a cure sanitarie specifiche, oltre alla violenza e all’esasperazione dietro le sbarre sono una miscela esplosiva. Lo stesso garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, nel corso della sua ultima relazione in Parlamento, aveva descritto la situazione e sollecitato degli interventi.

Antigone fa anche il confronto con quanto accade fuori dagli istituti di pena: con 0,67 casi di suicidi ogni 10.000 abitanti, l’Italia è in generale considerato un Paese con un tasso di suicidi basso, uno tra i più bassi a livello europeo. Secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa, l’Italia si colloca invece al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. A fine 2021, tale tasso era pari a 10,6 suicidi ogni 10.000 persone detenute.

Gennarino De Fazio (Uilpa): «L’ultima circolare del Dap non serve quasi a nulla»

Per Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, la circolare a firma del Capo del Dap, Carlo Renoldi, di pochi giorni fa è «di per sé condivisibile nei principi e negli obiettivi. Crediamo, peraltro, rappresenti il massimo che si potesse fare a livello amministrativo. Tuttavia, a nostro avviso, non serve quasi a nulla per le stesse ragioni già accennate. Da tempo diciamo che la grave emergenza penitenziaria, connotata pure da sovraffollamento detentivo, non è affrontabile, se non marginalmente, per via amministrativa, ma che servono interventi legislativi investendo le risorse necessarie. Sarebbero stati indispensabili un decreto-legge per affrontare le urgenze e, parallelamente, una legge delega per le riforme strutturali. Adesso non rimane che attendere il prossimo esecutivo, sperando che si dimostri all’altezza delle attese, senza sottovalutare che in autunno l’eventuale recrudescenza dei contagi da Covid-19 e possibili tensioni sociali si andrebbero a sommare alle pesantissime criticità preesistenti e potrebbero innescare nuove proteste e disordini generalizzati. Speriamo di sbagliarci».

I vertici del Dap a Ferragosto in visita nelle carceri

Ieri si è fatto sentire anche il capo del Dap, Carlo Renoldi, con una nota del ministero della Giustizia: «L’estate, come spesso accade, si dimostra il momento più critico dell’anno per gli istituti penitenziari. In questo 2022 è reso ancora più doloroso dal drammatico incremento dei suicidi: ciascun episodio interroga le nostre coscienze di uomini e di operatori del sistema penitenziario su quanto è stato fatto finora e su quanto sia ancora necessario fare. Per questo, insieme ai miei più stretti collaboratori, al Vice Capo, ai Direttori generali del Dap e ai Provveditori regionali abbiamo avvertito l’esigenza di visitare degli istituti penitenziari anche nel giorno di Ferragosto. Vogliamo portare un segnale di vicinanza all’intera comunità penitenziaria e ribadire riconoscenza al personale in servizio». Il capo del Dap lunedì, dopo aver partecipato al tradizionale Comitato nazionale ordine e sicurezza pubblica, visiterà la Casa circondariale femminile e la Casa di reclusione di Roma Rebibbia. Gli altri vertici dell’Amministrazione saranno a Viterbo, Palermo Ucciardone, Genova Marassi, Lecce, Taranto, Palermo Pagliarelli, Terni, Napoli Poggioreale e Santa Maria Capua Vetere, Bologna, Modena, Ancona, Pesaro, Aosta, Udine, Oristano e Ariano Irpino. E sempre il 15 agosto il vicepresidente del Csm, David Ermini, e il sindaco di Firenze, Dario Nardella  visiteranno il carcere di Sollicciano insieme al Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma.

È il 49esimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno, il 3 in Campania in pochi giorni. Voleva avvicinarsi alla famiglia ma lo hanno allontanato di più: così si è tolto la vita in carcere a 33 anni. Rossella Grasso su Il Riformista il 10 Agosto 2022 

Aveva solo 33 anni Dardou Garrdon, di origine algerina, detenuto nel carcere di Secondigliano di Napoli. La sua è l’ennesima storia di disperazione e marginalità che lo hanno portato a compiere il gesto estremo. Dardou nel pomeriggio del 9 agosto ha stretto il lenzuolo intorno al collo e si è lasciato cadere mentre era nella sua cella. Inutili sono stati i soccorsi da parte del compagno di cella che si è presto accorto di quello che stava succedendo e ha sciolto il nodo del lenzuolo attorno al suo collo. Inutile il pronto intervento degli agenti che hanno tentato di salvargli la vita. Inutili sono stati i soccorsi del 118 arrivati a stretto giro. Per Dardou non c’era già più niente da fare. Poche ore prima, nel carcere di Poggioreale, a pochi chilometri da Secondigliano, un altro detenuto si è tolto la vita: si chiamava Francesco Iovine, aveva 43 anni e soffriva di anoressia. Sono 5 i detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno in Campania, 3 nel giro di pochi giorni ad agosto, 49 in tutta Italia. Una strage silenziosa e agghiacciante. Un agosto tremendo che è lo specchio della disumanità delle carceri e del totale fallimento del suo scopo rieducativo.

Dardou il 7 agosto ha compiuto 33 anni. Era stato arrestato a Milano il 7 agosto 2018. Il 5 agosto 2023 sarebbe terminata la sua pena. A dare notizia di questo ennesimo suicidio in carcere il garante dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello e il garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia, che subito sono corsi a Secondigliano. Dardou aveva origini algerine e la sua famiglia viveva a Marsiglia. Aveva anche una figlia probabilmente una bambina vista la giovane età del padre. Ha girato tante carceri per poi arrivare a quello di Benevento. Se ne stava sempre solo e in disparte. Parlava poco e male l’italiano, non faceva colloqui con la famiglia che era troppo lontana e per loro era impossibile venire in Italia per vederlo. Dal suo ingresso in carcere non aveva avuto mai colloqui e non aveva nemmeno notizie della figlia. Un uomo solo al mondo rinchiuso in una gabbia in cui era ancora più solo. L’inferno in terra.

Il garante Ciambriello racconta che dal carcere di Benevento aveva più volte chiesto il trasferimento in un altro carcere della Liguria o del Piemonte per potersi avvicinare alla famiglia che con un treno avrebbe potuto raggiungerlo più agevolmente. Già in passato aveva tentato il suicidio per ben 3 volte nel giro di pochi giorni. Il 5 maggio scorso Ciambriello aveva scritto a Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, e a Gianfranco De Gesu, Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria per segnalare la grande sofferenza del 33enne con cui era spesso in contatto. Durante l’ultimo tentativo di suicidio Ciambriello aveva parlato al telefono con Dardou, lo aveva calmato. Ma pochi giorni dopo lui aveva minacciato di buttarsi da un piano alto dell’Istituto.

“Mi sono confrontato con il Direttore del carcere di Benevento, che è favorevole a tale trasferimento – scriveva Ciambriello nella lettera – anche perché si tratta di un detenuto con fine pena il 5 agosto 2023. Vi chiedo di considerare, quanto prima possibile, tale richiesta”. La risposta arrivava il 18 maggio fredda e netta: “In data 6 maggio il competente Ufficio di questa Direzione Generale ha invitato la Direzione della Casa Circondariale di Benevento a comunicare al detenuto il mancato accoglimento delle sue istanze di trasferimento per mancanza di motivazioni”. Gli comunicavano anche la novità: il 7 maggio si sarebbe dovuto trasferire nel carcere di Secondigliano “per esigenze di istituto”. Dunque Dardou che voleva essere avvicinato a casa si è ritrovato in un blindato che invece lo portava ancora più lontano. Chissà con quanta disperazione deve aver appreso la notizia. Tutto questo per scontare una pena di appena 5 anni.

Pietro Ioia racconta che il detenuto era ben seguito a Secondigliano perché non stava bene. “Lo avevano messo nella sezione migliore dell’Istituto, quella con le celle aperte proprio perché così stesse meglio. Il 2 agosto aveva avuto la sua ultima visita psichiatrica. Ma la sua sofferenza ha prevalso. Questa è una sconfitta per tutti. Un omicidio istituzionale”.

“Noi più che garanti siamo diventati becchini – dicono Ioia e Ciambriello – Ormai corriamo in carcere più per i morti che per i vivi. In pochi giorni già 3 suicidi. Non dovrebbe succedere in un paese civile. Chiediamo che il capo del Dap e la Ministra Cartabia vengano qui nelle nostre carceri della Campania. Questa è un’emergenza nazionale”. “Quella di Dardou è una storia di disperazione – continua Ciambriello – Il carcere è come una condanna a morte per chi è completamente solo o ha partenti lontani. Lo Stato in ogni caso dovrebbe evitare che succeda che qualcuno decide di morire. È come un omicidio questo”.

“La cosa più inquietante è che già quando uno entra in carcere diventa un numero – conclude Ciambriello – Quando muore scompare completamente dagli archivi. Non solo in carcere le persone diventano un numero ma poi scompaiono pure”. È questa l’ “umanità” del carcere che non tutela i diritti di persone, esseri umani, che sono di carne, ossa e anima.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Boom di suicidi in carcere, la rabbia dei penalisti: “Cosa state facendo?!” Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Agosto 2022. 

Due giorni fa si sono svolti i funerali di Donatella, ventisette anni, suicida nel carcere di Montorio Verona, detenuta per reati legati a piccole cessioni di sostanze psicotrope. Una persona che non avrebbe dovuto stare rinchiusa. Ce ne sono tanti, e alcuni di loro non ce la fanno più, in questa estate del caldo e di una campagna elettorale da cui è esclusa la giustizia, e figuriamoci il carcere. Raccontata in numeri, Donatella era uno dei 47 che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno nelle prigioni italiane, uno dei cinque dei primi sette giorni di agosto. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è intervenuto finora solo con un’operazione di tipo progettuale e preventivo. Ma nessun provvedimento “salvavita”, cioè quello che servirebbe da subito per spezzare l’angoscia, la solitudine e i tanti problemi materiali quotidiani che producono l’insopportabilità del “malvivere” da prigionieri. Il capo del Dap Carlo Renoldi ha emanato una circolare, indirizzata a tutti i provveditori regionali e ai direttori degli istituti di pena. Un gesto di buona volontà, un progetto per il futuro. Che cozza però da subito, come è stato fatto notare da qualche operatore, con le criticità croniche delle carceri. Il problema del personale, sempre insufficiente, prima di tutto, e anche quella chimera dei corsi di specializzazione professionale di cui si parla molto nei convegni. E che poi rimangono lettera morta.

La circolare si chiama “Linee guida per la prevenzione dei suicidi”, e già questo è singolare. Vuol dire che prima dell’arrivo del dottor Renoldi questi indirizzi non esistevano? Il documento si rivolge allo staff multidisciplinare composto in ogni istituto dal direttore, il comandante degli agenti di polizia penitenziaria, oltre al medico, l’educatore e lo psicologo. Sono questi i soggetti incaricati di esplorare le situazioni a rischio, quelli in grado di far emergere gli “eventi sentinella” del disagio per poi costruire le pratiche operative della prevenzione in ogni situazione. Cioè si spiega agli operatori non tanto quello che dovrebbero fare d’ora in avanti per capire e quindi lanciare il segnale di allarme, ma quello che avrebbero già dovuto fare. L’ovvio, insomma. E infatti insorgono gli avvocati delle Camere penali e anche l’Ordine degli psicologi, cioè tutti quei soggetti che conoscono, al contrario dei magistrati, che cosa significhi per una persona, qualunque sia stata la sua vita fino al giorno precedente, l’ingresso e poi la vita in un carcere.

È indirizzata al capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi e al suo vice Carmelo Cantone e firmata dal Presidente Giandomenico Caiazza e dai responsabili dell’osservatorio carceri, gli avvocati Gianpaolo Catanzariti e Riccardo Polidoro, la lettera con cui l’Unione delle Camere penali chiede un incontro urgente per “essere messa a conoscenza della modalità con cui viene affrontata questa emergenza, che sta rendendo ancor più la detenzione in Italia contraria alle più elementari regole della vita in un Paese civile”. Gli avvocati penalisti chiedono e si chiedono anche in che cosa consisterebbe, concretamente, questo approccio multidisciplinare al grave problema, a questo allarme drammatico. Il che ci fa tornare al punto di partenza. Tutti i dirigenti del Dap che hanno preceduto quelli di nomina recentissima, come hanno affrontato la situazione, visto che non è proprio una novità il fatto che la detenzione produca morte e autolesionismo? Per non parlare delle gravi patologie psichiatriche che hanno ormai raggiunto il 13% dell’intera popolazione carceraria, il che significa parlare di 7.000 detenuti che stanno male, anzi malissimo. Che non dovrebbero essere lì dove sono stati rinchiusi, che sono già di per sé delle “sentinelle” del disagio, e lo gridano a voce alta, prima ancora che di loro si accorga qualunque staff multidisciplinare.

Dalle colonne di Avvenire, uno dei pochissimi quotidiani (insieme al Riformista e al Dubbio) che mostra sensibilità nei confronti di chi soffre, e particolarmente di chi è privato della libertà, si sente anche la voce del dottor David Lazzari, Presidente del Consiglio nazionale dell’ordine degli psicologi, che ci informa del fatto che “i presidi sanitari nelle carceri sono sguarniti di professionisti della salute mentale”. Il che va a sommarsi alla cronica carenza di personale di ogni tipo, mentre la dirigenza del Dap esorta i provveditori a dare particolare attenzione alla formazione specifica di quegli operatori che proprio non ci sono. Non vogliamo infierire, sono questioni antiche e non sarebbe giusto scaricarne le responsabilità su chi è arrivato da poco al vertice del Dap. Ma siamo concreti. E lo diciamo anche ai giudici. Ma è possibile che a nessuno venga in mente che concedere qualche telefonata in più, qualche contatto supplementare a quelli canonici con la famiglia, un po’ di umanità, insomma, per fare qualche passo in avanti e magari salare qualche vita? Tirate fuori il naso dalle scartoffie, per favore. Per la salute mentale di tutti.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Chissà se qualche leader politico alzerà un dito...La strage ignorata delle carceri, 44 suicidi da inizio anno. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 4 Agosto 2022 

Una strage. Una strage voluta. Quattro suicidi in quattro giorni, e siamo a quarantaquattro dall’inizio dell’anno. Si chiama morire di carcere, morire di voglia di libertà, di assenza di giustizia. Il cappio al collo non è solo quello che ti stringe e ti soffoca fino all’ultimo goccio di respiro. È anche il simbolo di quella vita che ti sta stretta, della giustizia che rinchiude il tuo corpo perché non sa in quale altro modo sanzionare le tue trasgressioni. E lo stringe, lo stringe fino a quando non c’è più l’aria né la vita. Donatella e le altre e gli altri non ci sono più. Un cappio al collo nella sezione femminile di Rebibbia. Darsi la morte ad Ascoli Piceno o a Verona a soli 27 anni. O ancora la pena dell’impiccagione data a se stesso a Brescia, a Canton Mombello, mentre stai già un po’ morendo perché sei in un reparto di massima sicurezza, dove dovrebbe esserci anche la massima sorveglianza, e sei spaventato perché ti ritrovi in isolamento causa covid, e stringere il tuo collo, a soli 47 anni, ti sembra la soluzione di tutto, in quel momento. E così, giorno dopo giorno, a Sassari, a Pavia, a Viterbo, e persino a Bollate, il carcere di minima sorveglianza.

Eppure era stato chiaro e perentorio il Presidente Sergio Mattarella, nel giorno del suo secondo insediamento, quando aveva scelto di parlare di giustizia e di carcere. Quando si era impegnato, e aveva impegnato il Parlamento a fare qualcosa, qualunque cosa perché questa strage avesse termine. Invano. E chissà se almeno lui si renderà conto di questa strage in corso. Ma che cosa sta succedendo, se il sovraffollamento ha superato il livello di guardia già alto dell’anno scorso, e se il numero dei suicidi aumenta vorticosamente, e ha già superato di dieci unità i 34 morti del 2021? Certo, fa molto caldo, e le carceri italiane sono sotto ogni standard di dignità umana. Certo, abbiamo tutti sofferto, e in particolare coloro che sono reclusi, lo stress e la paura per l’epidemia da covid. Ma c’è qualcosa di più. C’è la consapevolezza della totale disattenzione del mondo politico, del mondo intero, forse, per le questioni di giustizia, per quelle vere di coloro che, dopo aver strappato il patto con la propria comunità, non riescono più a ritrovare il bandolo che possa portare alla ricucitura. Perché non solo nessuno li aiuta, ma si ha la sensazione che molte forze politiche abbiano un certo godimento a cacciarli sempre più giù, a tenerli costantemente con la testa sotto il pelo dell’acqua. E allora, tanto vale andare giù del tutto. In tanti modi. Con il suicidio esplicito, con il cappio al collo. Ma anche in altri modi. Con l’abuso di farmaci, per esempio. O anche con il lasciarsi morire lentamente, perché se hai una grave patologia, come quelle oncologiche, per esempio, sai già che non ti lasceranno comunque andare a morire in un luogo dignitoso, e quindi ti suicidi in carcere lasciandoti andare. Perché sai che di te, di te numero prima che persona, non importa a nessuno, a parte i tuoi cari. Ma a nessuno delle istituzioni, tanto per dire.

Forse quel discorso di Mattarella aveva dato qualche speranza. Forse l’impegno della ministra Cartabia era parso come un semaforo verde che aprisse qualche porta, e la caduta del governo Draghi proprio mentre il Parlamento stava attuando importanti riforme sulla giustizia, certo non ha giovato. Tra l’altro pare particolarmente preoccupante, come ha ricordato il presidente dell’associazione Antigone, Patrizio Gonnella, il fatto che con l’ultimo suicidio di ieri siamo arrivati a un numero così elevato “che non trova uguali negli ultimi anni. Un numero elevatissimo di suicidi superiore a quello riscontrato nel periodo di maggiore sovraffollamento, quando l’Italia fu condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo per le condizioni inumane e degradati delle sue galere”.

Viene rabbia e un certo furore, a pensare che basterebbe così poco. Non c’è bisogno di pensare in grande, per cominciare a salvare qualche vita. Cominciamo a svuotare, come prima cosa. Se lo si è potuto fare nei giorni del Covid e con un ministro non certo garantista come Bonafede, che cosa si aspetta, per esempio, a trasformare la detenzione in carcere in domiciliare per tutti coloro che stanno scontando l’ultimo anno di pena? Ci sono le leggi, a dirlo, ultima quella del 2015, che occorre privilegiare le forme alternative alla reclusione. E poi, i magistrati, soprattutto quelli che si definiscono ”democratici”, potrebbero dare una bella regolata alla custodia cautelare, e anche lì trovare altri strumenti di tutela. E infine, ci appelliamo ai bravi giudici di sorveglianza, e ai direttori degli istituti di pena (ce ne sono tanti, di illuminati) e ai dirigenti del Dap, e a chiunque abbia titolo per aiutare: l’affettività! Sono ammassati nelle celle come animali da allevamento, non c’è l’acqua, in estate ci sono anche pochi educatori e poche attività culturali e ricreative, fa un caldo come non mai. Ma accidenti, e fagli fare qualche telefonata in più. Ripristinate per tutti, anche nei reparti di massima sicurezza e di regime 41 bis, le videochiamate! Di che cosa avete paura, che qualcuno contatti Matteo Messina Denaro e prepari con lui l’evasione di massa? Ricordate che quando, su iniziativa di tanti magistrati di sorveglianza nei giorni dell’epidemia, tanti detenuti furono mandati ai domiciliari, nessuno scappò. Una bella lezione quando, a decreto ritirato, tutti tornarono nelle loro celle. Compresi i malati gravi.

Chissà se la notizia di queste 44 persone che non ci sono più, di queste ultime quattro che l’una dopo l’altra sono rotolate via, scuoterà qualche coscienza. Se altri media, oltre a noi, se ne sarà accorto. Se qualche leader politico, pur a Camere sciolte, alzerà un dito da qualche parte, se non in Parlamento almeno di fronte alle telecamere che sempre abbondano davanti al Senato, a Montecitorio e Palazzo Chigi. Chissà se quel qualcuno griderà che è una vergogna e che lui stesso è pronto a impegnarsi per salvare qualche vita. Esistono ancora i garantisti Berlusconi e Renzi e Calenda e Bonino e il referendario Salvini? Se nessuno se ne vuole occupare, se nessuno vuole afferrare quel bandolo salvavita, allora ciò significa una cosa sola, che siamo davanti a una strage voluta. E andatevene al diavolo, voi e i vostri piccoli mercanteggiamenti. Non siete degni dei nostri voti. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Pena di morte, morte per pena. Le chiamate carceri ma sono patiboli: la strage dei suicidi in cella. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Agosto 2022

Non conosco il suo nome, so che aveva 26 anni. Era un ragazzino. Stava in cella in un carcere di Frosinone e aspettava che lo trasferissero a Rebibbia. Tra la prigione e la morte ha scelto la morte, non ce la faceva più di stare rinchiuso. S’è ucciso. Come pochi giorni fa si era uccisa, nella prigione di Verona, una sua coetanea, accusata di piccoli furti e tossicodipendente.

È una strage quella dei tossicodipendenti. Che sono un terzo dei prigionieri. Li acciuffano e li sbattono dentro. Lo sanno che sono soggetti debolissimi? Le conoscono le loro sofferenze? Sono al corrente della fragilità, della possibilità che non reggano dietro le sbarre? Chissà. Del resto la legge è legge e non puoi farci niente. Se hai sbagliato paghi. Anzi, paghi anche se non hai sbagliato ma il Pm pensa che tu sia colpevole. Magari, invece, potresti anche farci qualcosa, ma nel clima politico instaurato negli ultimi quindici anni in Italia, tra partito dei Pm e Cinque Stelle e giornali alla coda di Travaglio, è meglio che non ci provi nemmeno a far prevalere ragione e coscienza , sennò ti mettono nel tritacarne.

Qualche giudice di sorveglianza onesto e coraggioso ha provato qualche volta a ragionare, gli hanno dato del mafioso. Poche ore dopo la morte del ragazzo a Frosinone c’è stato un altro suicidio. Nel carcere di Arienzo, provincia di Caserta. Un uomo di cinquantanni. Credo che sia addirittura il suicidio numero 47 dall’inizio dell’anno. E noi lo sappiamo solo grazie al lavoro di vigilanza del Garante dei detenuti e di Antigone. Altrimenti il silenzio sarebbe assoluto.

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Nessuno se ne frega delle carceri, e intanto c’è un suicidio ogni 5 giorni e 25mila sono in cella senza processo

47 morti suicidi, più o meno è il numero delle esecuzioni capitali in un anno in tutti gli Stati Uniti. Chiamatele pure carceri, se volete, prigioni, reclusori. Sono bracci della morte, sono patiboli. Il carcere così non ha nessun senso. È solo uno strumento di vendetta, per dare un po’ di gusto ai “buoni”, alle persone legali, per soddisfare i forcaioli, per mettere al sicuro le pulsioni repressive dei partiti. Ma la civiltà? Il diritto? Si faccia fottere la civiltà. Specie sotto elezioni. Ora bisogna raccogliere voti, non scherziamo, mica si raccolgono voti coi principi di civiltà. Lasciate che si suicidino, che poi se lo fanno ne avranno qualche ragione, no?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Due psicologi per oltre 2mila detenuti, dietro le sbarre addio umanità. Viviana Lanza su Il Riformista il 10 Agosto 2022 

Cinque psicologi sulla carta, due quelli in servizio (che talvolta si alternano). Diciannove educatori sulla carta, nove quelli effettivamente presenti. Facciamo questi due esempi per indicare la voragine negli organici, e di conseguenza nella gestione, del sistema penitenziario. Sono esempi che fotografano la situazione nel carcere di Poggioreale denunciata dal garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello. Due psicologi in un carcere che conta più di duemila reclusi. «Come fanno a incontrare i detenuti? È umanamente impossibile», osserva il garante sottolineando la grande sproporzione tra popolazione detenuta e personale dedito all’assistenza e alla guida dei detenuti. «Chi deve assumere queste figure professionali? Perché non lo fa? – aggiunge Ciambriello, sollevando spunti di riflessione – . Vi sembra normale che in un carcere con duemila detenuti ci siano solo due psicologi e nove educatori? Con chi parlano i detenuti?», conclude evidenziando che l’unica presenza in carcere è quella dell’agente di turno nei vari padiglioni. Un agente che si ritrova a fare, a seconda delle esigenze del momento, il medico, lo psicologo, il cappellano, il mediatore culturale. E facendolo male ovviamente, perché non ne ha la formazione, senza colmare i vuoti che ci sono all’interno del sistema penitenziario e che con il tempo si acuiscono fino a diventare voragini. Il sistema carcere frana sotto l’indifferenza della politica, il populismo giustizialista degli ultimi decenni, sotto i mancati interventi, le carenze e le disfunzioni, i ritardi e il mancato tempismo, l’assenza di progetti e più spesso di iniziative. Questo continua a essere il carcere che punisce più severamente i “poveri cristi”, il carcere della condanna preventiva, il carcere dove finiscono i presunti innocenti in attesa di processi che durano anni, il carcere dove rinchiudere gran parte di quelli di cui la società non riesce ad occuparsi, quelli di cui non riesce ad averne cura o che non riesce ad assistere (tossicodipendenti, senza fissa dimora, extracomunitari, giovani delle periferie degradate, affiliati di camorra, malati psichici). Ad oggi in Campania ci sono 6.660 detenuti, 2.168 dei quali sono reclusi a Poggioreale. Su questa popolazione detenuta una percentuale tutt’altro che rivelante (1,122 reclusi) riguarda i detenuti in attesa di giudizio, il popolo dei sospesi alle lungaggini processuali. Quasi tutti sono lasciati soli nelle celle, senza aiuti ma nemmeno senza alcuna finalità rieducativa della pena. Colpa di croniche carenze, di problemi mai risolti: basti pensare che nelle varie carceri della Campania ci vorrebbero 105 educatori ma ce ne sono solo 70, mancano medici di reparto, mancano figure sociali, mancano psicologi.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Carcere, 44 suicidi: senza psicologi e psichiatri prevenzione impossibile. Un altro recluso si è tolto la vita dopo sei tentativi in tre mesi e mezzo: negli ultimi 4 giorni è il quarto. C’è un’assenza cronica di psicoterapeuti. Antigone: in media uno psichiatra per 10 ore settimanali ogni 100 reclusi. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 5 agosto 2022.

Troppi suicidi, il sovraffollamento persiste ma a incidere è anche la grave assenza nei penitenziari di un supporto per la salute mentale. E ciò è un vero handicap per la prevenzione di questi eventi tragici che quest’anno sono in una crescita esponenziale. L’ultimo suicidio, il quarto negli ultimi 4 giorni, riguarda un detenuto di Ascoli Piceno. Siamo così arrivati a 44 reclusi che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Il garante nazionale delle persone private della libertà ne ha dato notizia, rilevando che l’uomo aveva tentato il suicidio almeno sei volte in tre mesi e mezzo. Ogni storia è a sé ed è sbagliato ricondurre questi eventi tragici al solo problema di salute mentale, ma c’è un dato che non va sottovalutato ed è sempre Antigone, tramite il rapporto di metà anno, a farlo emergere: in alcune carceri dove è risultato un alto tasso di suicidi, risulta carcere l’assistenza psichiatrica.7

Il triste primato: tre casi a Foggia Regina Coeli e San Vittore

Tenendo a mente la sistematicità del problema, Antigone ha dato un breve sguardo agli istituti dove sono avvenuti più suicidi dall’inizio dell’anno. Con tre casi ognuno, al primo posto si collocano le Casa Circondariali di Roma Regina Coeli, Foggia e Milano San Vittore. Seguono con due casi la Casa di Reclusione di Palermo Ucciardone, la Casa Circondariale di Monza, la Casa Circondariale Genova Marassi e la Casa Circondariale di Pavia. In questo istituto nel 2021 si erano tolte la vita altre tre persone in poco più di 30 giorni. Con due decessi avvenuti tra il mese di giugno e luglio, si arrivano così a contare cinque casi di suicidi nel carcere di Pavia in soli nove mesi.

Senza voler ricondurre un fenomeno così complesso alle carenze del singolo istituto, Antigone può però osservare come soprattutto le cinque Case Circondariali siano tutti istituti con situazioni piuttosto complesse. Tutte soffrono da anni di una situazione cronica di sovraffollamento, che nel caso di Foggia, Regina Coeli e Monza si aggira addirittura intorno al 150% della loro capienza. A San Vittore, Pavia e Regina Coeli più della metà della popolazione detenuta è di origine straniera. A Monza in particolar modo vi è un’elevata presenza di detenuti affetti da patologie psichiatriche e il 50% della popolazione è tossicodipendente. A Foggia vi è un educatore ogni 190 detenuti. Dai dati raccolti dall’Osservatorio, emerge poi come tranne a Pavia negli altri cinque istituti via sia una carenza, più o meno elevata, di specialisti psichiatri e psicologi rispetto alla media nazionale.

Partendo da questo dato, Antigone sviscera la questione della cura mentale in carcere e l’assenza cronica di supporto. Sia nel 2021 che nel 2022, la media si attesta intorno alle 10 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psichiatri e intorno alle 20 ore settimanali ogni 100 detenuti per gli psicologi. Gli ultimi dati disponibili mostrano che Palermo Ucciardone, Monza e Foggia hanno una presenza molto inferiore rispetto alla media sia di psichiatri che di psicologi (Palermo: 5,14 ore psichiatri, 5,14 ore psicologi; Monza: psichiatri 6,4, psicologi 6,6; Foggia: psichiatri 3,4; psicologi 10). Regina Coeli ha una presenza molto inferiore alla media di psicologi (6,8 ore). San Vittore ha una presenza inferiore alla media per quanto riguarda gli psichiatri (8,4 ore). A Pavia la presenza di psichiatri è di 10,24 ore settimanali ogni 100 detenuti, mentre degli psicologi di 35,84 ore.

Tante le storie tragiche raccolte nel rapporto di Antigone

Antigone, nel suo recente rapporto, narra alcune storie tragiche di detenuti suicidi che avevano forme di disagio psichico. Dalle storie di queste persone emerge come vi fossero alcune situazioni di probabili disagi psichici. Su un giovane ragazzo di 25 anni morto all’Ucciardone era stata effettuata, proprio per presunto rischio suicidario, una perizia psichiatrica che non aveva però portato a nulla.

A un uomo di 54 anni in custodia cautelare a Terni era stata da poco rigettata la richiesta di scarcerazione, presentata a causa di una forte depressione. Un uomo di 36 anni, detenuto da poco nel carcere di Foggia e a solo due mesi dal fine pena, pare soffrisse di problematiche psichiatriche. L’uomo di 70 anni si trovava invece da poche ore nel carcere di Genova in stato di fermo come detenuto con disagio psichico. Era stato arrestato in stato di shock e aveva già tentato di togliersi la vita pochi mesi prima. Oltre a queste storie, se ne aggiungono altre di particolare gravità, riguardanti persone con problematiche psichiatriche note e diagnosticate.

Un 21enne in carcere per il furto di un cellulare ha atteso 8 mesi il trasferimento in una Rems

Tra queste, Antigone rivela quella di G.T., un giovane ragazzo di 21 anni che secondo il Tribunale di Milano in carcere non doveva stare. Detenuto a San Vittore dall’agosto del 2021 per il furto di un cellulare, nel mese di ottobre il giudice aveva disposto il suo trasferimento in Rems (Residenza per le misure di sicurezza) in quanto una perizia psichiatrica dimostrava la sua incompatibilità con il regime carcerario, a causa di un disturbo borderline della personalità. Nella notte del 31 maggio, a otto mesi da quella pronuncia, G. T. si è tolto la vita. Nelle settimane precedenti ci aveva già provato altre due volte. Pochi giorni prima, il 26 maggio, in una cella dello stesso reparto di San Vittore, si era suicidato un altro giovane ragazzo. Si chiamava Abou El Maati, aveva 24 anni, era un cittadino italiano di origine egiziana.

Altra storia tragica riportata da Antigone è quella di G.P., un uomo di 30 anni con problemi psichiatrici toltosi la vita il 28 giugno nel carcere di Bari, dove si trovava da appena due giorni. Dopo il suo arresto era stato condotto nella ex sezione femminile dell’istituto, inagibile da anni e adibita a inizio pandemia a luogo per svolgere i periodi di isolamento. Da tempo la sezione era però utilizzata di fatto come reparto per detenuti con patologie psichiatriche, nonostante non fosse in alcun modo adatta a tale funzione per carenze di spazi e di personale.

Antigone riporta infine la storia di una donna, di cui il nome ad oggi è però sconosciuto. Si sa solo che era di origine romena, aveva 36 anni ed era detenuta da poco tempo all’interno dell’Articolazione per la tutela della salute mentale (ATSM) del carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Nel pomeriggio del 10 aprile è stata ritrovata senza vita nel cortile dell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario, al termine dell’ora d’aria.

La salute mentale resta il capitolo più problematico

Nell’ambito della questione delle condizioni di salute della popolazione detenuta, quello della salute mentale rimane il capitolo più significativo nei numeri e più problematico nelle risposte date dalle aziende sanitarie e dall’amministrazione penitenziaria. I numeri anzitutto continuano a fotografare il carcere come “psico-patogeno” dove il disagio psichico, diagnosticato e non, è diffuso, capillare e omogeneo sul territorio nazionale. I “disturbi psichici” rappresentano la metà delle patologie rilevate nella popolazione detenuta. Per avere un’idea della consistenza di questo dato, basti pensare che gli altri due gruppi di patologie più diagnosticate in carcere, che sono quelle del sistema cardiocircolatorio e delle malattie endocrine, del metabolismo e immunitarie, sono entrambi al 15% del totale delle patologie rilevate. Dunque il disturbo psichico è di gran lunga la prima categoria diagnostica nelle carceri italiane. Antigone, raccogliendo i dati direttamente dagli operatori sanitari delle singole carceri visitate nell’ultimo anno, ha rilevato che il 13% del totale della popolazione detenuta ha una diagnosi psichiatrica grave, in numeri assoluti significa oltre 7 mila persone. Solo per una piccola parte, dalla diagnosi è seguita una misura di tipo giudiziario. Una rilevazione statistica relativa alla sola Toscana presenta numeri ancora più significativi, sottolineando come su 1.744 persone sottoposte a visita medica in un anno, 610 avessero almeno un disturbo psichiatrico, pari al 34,5% delle persone sottoposte a controllo medico.

La strage senza fine. Sossio si è tolto la vita in cella ad Arienzo, è il 46esimo: “Il carcere è un luogo senza senso, bisogna riflettere”. Rossella Grasso su Il Riformista il 5 Agosto 2022. 

Sossio, 50 anni, di Frattamaggiore, ha deciso di togliersi la vita impiccandosi. Lo ha fatto mentre era in carcere ad Arienzo, in una notte di mezza estate, solo nella sua cella. La sua morte si aggiunge a quella di altri 44 detenuti che dall’inizio del 2022 hanno deciso di togliersi la vita. Una vera strage che sta avvenendo dietro le sbarre: in soli sette mesi sono già 46 le persone che hanno deciso di farla finita nelle carceri italiane. E potrebbero essere ancora di più se si contano anche le morti in carcere su cui sono ancora in corso le indagini. Ancora un suicidio in queste calde carceri italiane. In mattinata si è tolto la vita un giovane di 26 anni recluso nell’istituto penitenziario di Frosinone. Lo riferisce l’associazione Antigone che ricorda come quello di oggi sia il quarantaseiesimo suicidio in carcere dall’inizio dell’anno. Il ragazzo era in attesa di essere trasferito nel carcere romano di Rebibbia.

La morte di Sossio è avvolta nel mistero. A darne notizia è Samuele Ciambriello, Garante dei detenuti della Campania. “È il terzo suicidio in Campania dall’inizio dell’anno, in Italia si è arrivati a 46 – ha detto il garante dei detenuti della Campania – Ci potremmo domandare il perchè il detenuto Sossio di 50 anni ha deciso di togliersi la vita in un carcere piccolo di dimensioni, in una cella singola. Qui era arrivato il 9 luglio da Poggioreale. Ci potremmo fermare alle responsabilità di singoli o responsabilità collettive, ma occorre andare oltre. Il carcere, luogo senza senso e a volte senza elementi relazionali per riprendersi la vita, subisce i rumori populisti delle persone e il populismo politico, alla rincorsa del consenso. E se ci aggiungiamo che non sono evidenti nemmeno i timidissimi provvedimenti deflattivi disposti dal Governo, allora la frittata è fatta”.

Un suicidio avvolto nel mistero perché il carcere di Arienzo è più piccolo, meno affollato e lì ci sono tante attività. “Sossio doveva scontare un reato piccolo, su di lui c’era attenzione. Ma forse la sua fragilità ha prevalso”. La salma, posta sotto sequestro, su disposizione dell’autorità giudiziaria è stata oggi trasportata all’obitorio dell’ospedale di Caserta, dove lunedì prossimo avverrà l’autopsia. In Italia, dall’inizio dell’anno ad oggi, sono 79 i decessi all’interno delle carceri; 8 di questi sono avvenuti in Campania e per due di questi la magistratura ha aperto un’inchiesta per accertarne le cause. “Non sappiamo cosa sia successo e perchè Sossio abbia deciso di togliersi la vita – dice Emanuela Belcuore, garante dei detenuti di Caserta – Potrebbe aver avuto dei problemi personali. Poi il caldo toglie l’aria. Certo è che d’estate i suicidi in carcere aumentano”.

Conclude così il Garante Ciambriello: “Proprio ad Arienzo, insieme al Garante della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, abbiamo potuto apprezzare buone prassi trattamentali sia all’interno dell’Istituto che all’esterno, attraverso la possibilità di lavoro per i detenuti. Noi Garanti volgiamo la nostra azione non solo per denunziare quello che non va, le compressioni dei diritti e delle garanzie dei detenuti, ma incoraggiamo e a volte promuoviamo azioni di prevenzione, progetti di solidarietà, di inclusione sociale per una pena costituzionalmente orientata. e per un carcere dove tutti i presenti, compresa la polizia penitenziaria, le direzioni, gli operatori socio-sanitari e i volontari si sentano uniti da un patto di responsabilità. Intanto si continua a morire di carcere e in carcere”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Carcere: 24 suicidi da inizio anno, l’ultimo a Foggia. Negli ultimi due anni il tasso di suicidi è in crescita. Le proposte di Antigone per controllare il fenomeno. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 15 maggio 2022.

Secondo la redazione di Ristretti Orizzonti, siamo a 23 suicidi in carcere dall’inizio dell’anno. Ma arriviamo a 24 con l’ultimo suicidio avvenuto al carcere di Foggia. Si tratta del secondo, nell’istituto stesso, nel giro di due settimane. Il detenuto avrebbe finito di scontare la pena nel 2027. Secondo il documento sulla prevenzione del suicidio in carcere realizzato l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il suicidio è spesso una delle cause più comuni di morte in carcere.

Il rapporto Antigone 

Per capire meglio la dimensione del problema, ancora una volta bisogna ricorrere al XVIII rapporto di Antigone che parte dai dati dell’anno scorso. Seppur in leggero calo rispetto all’anno precedente, nel 2021 il numero di suicidi in carcere rimane molto alto. Secondo i dati pubblicati dal Dap, sono state 57 le persone detenute ad essersi tolte la vita. Se questo numero viene messo in relazione con le persone mediamente presenti negli istituti di pena nel corso dell’anno otteniamo il tasso di suicidi, ossia il principale indicatore per analizzare l’ampiezza del fenomeno. Nel 2021, a fronte di una presenza media di 53.758 detenuti, tale tasso si attesta a 10,6 casi di suicidi ogni 10.000 persone detenute. Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, Antigone osserva come nei due anni passati il tasso di suicidi in carcere sia particolarmente alto. Purtroppo tale crescita sembra confermarsi anche nel 2022, essendo, come riportato, già numerosi i casi di suicidi avvenuti nei primi mesi dell’anno.

Secondo i dati del Dap, nel 2021 sono decedute 148 persone detenute. Come visto, 57 sono le persone che si sono tolte la vita mentre le restanti 91 sono generalmente indicate come morti avvenute per cause naturali. I casi di suicidi sono pertanto pari al 38,5% dei decessi totali. L’Organizzazione Mondiale della sanità (OMS) ha reso noto come i detenuti – se considerati come gruppo – abbiano tassi di suicidio più elevati rispetto alla comunità in quanto non solo all’interno degli istituti di pena vi è un numero maggiore di comportamenti suicidari, ma gli individui che subiscono il regime di detenzione presentano frequenti pensieri e comportamenti suicidari durante tutto il corso della loro vita.

Antigone osserva che le ragioni per cui in carcere i suicidi sono molto più frequenti, sono probabilmente dovute alla più densa presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. Oltre a fattori personali, numerosi possono essere gli elementi esterni che contribuiscono ad acuire situazioni di pregressa sofferenza soprattutto in un ambiente complesso come quello carcerario. Per questo motivo, tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate a dicembre 2021, Antigone sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria, affinché il rischio suicidario possa essere controllato e ridimensionato.

A tal fine, come propone Antigone, il regolamento dovrebbe prevedere in primis una maggiore apertura nei rapporti con l’esterno, tramite la possibilità di svolgere più colloqui e soprattutto più telefonate e in qualsiasi momento. Grande attenzione va posta al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale, affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società. Oltre alle fasi iniziali e conclusive dei periodi di detenzione, particolare attenzione andrebbe dedicata a tutti quei momenti della vita penitenziaria in cui le persone detenute e internate si trovano separate dal resto della popolazione detenuta perché in isolamento o sottoposti a un regime più rigido e con meno contatti con altre persone.

Ai sucidi, si aggiungono i casi di autolesionismo: costituiscono un importante elemento per raccontare il clima all’interno di un istituto penitenziario, oltre che le caratteristiche della sua popolazione detenuta e delle risorse disponibili. Dalle informazioni raccolte tramite le visite effettuate da Antigone nel corso del 2021, emerge una media di 19,9 casi di autolesionismo registrati in un anno ogni 100 persone detenute.

Il report annuale dell’associazione Antigone. Inferno carcere, in cella si muore 13 volte più che fuori. Viviana Lanza su Il Riformista l'1 Maggio 2022. 

«A Carinola, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo e il letto», si legge nella relazione annuale dell’associazione Antigone sullo stato delle carceri. Sembra un dettaglio, invece non lo è. Dà la misura di cosa sia realmente il carcere e di quanto i bisogni elementari e i diritti fondamentali siano ancora mortificati e non tutelati. Pensate a cosa voglia dire dividere con degli sconosciuti una cella in cui non è possibile avere un minimo di privacy nemmeno quando si va in bagno. Immaginate la mortificazione della dignità quando si è costretti a mangiare e dormire nello stesso luogo in cui c’è water o toilette alla turca, quindi a vista. Come si può uscire migliori da posti del genere? Come si può parlare di rieducazione e rispetto della Costituzione?

«Per quanto appaia incredibile e anacronistico – si legge nel rapporto di Antigone sulla situazione all’interno degli istituti di pena di tutta Italia – nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta ma in un angolo della cella». Eppure basterebbe poco per ripristinare un minimo, ma veramente un minimo di dignità. Basterebbe una porta. Invece, ci sono solo sbarre e poco altro. In Campania nello scorso anno si sono contati sei suicidi in cella su 57 a livello nazionale. Guardando all’andamento del dato nell’ultimo decennio, Antigone osserva come nei due anni appena trascorsi il tasso dei suicidi in carcere sia particolarmente alto. E la crescita sembra confermarsi anche nel 2022.

L’età media delle persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2021 è stata di 42 anni. I più giovani erano due ragazzi di 24 e 25 anni, morti entrambi nel maggio 2021, uno nel carcere di Novara e l’altro nel carcere di Poggioreale a Napoli. Dopo l’istituto penitenziario di Pavia c’è quello di Avellino tra le carceri in cui sono avvenuti più casi di suicidio, tanto per tenere la lente puntata sulla situazione in Campania. L’Organizzazione mondiale della sanità ha accertato che il suicidio è una delle cause più comuni di morte all’interno delle carceri. Secondo statistiche recenti, i casi di suicidio nella popolazione detenuta sono di oltre 13 volte superiori a quelli registrati nella popolazione libera. Accanto a fattori personali, le cause sono da ricercarsi nel fatto che in carcere è più densa la presenza di gruppi vulnerabili, di persone in condizioni di marginalità, di isolamento sociale e di dipendenza. «Per questo motivo – si legge nel report – tra le proposte di riforma del regolamento penitenziario presentate a dicembre 2021, Antigone sostiene la necessità di dedicare maggiore attenzione ad alcuni aspetti della vita penitenziaria».

Una proposta riguarda la necessità di dare più attenzione al momento dell’ingresso e dell’uscita dal carcere, entrambe fasi particolarmente delicate e durante le quali avvengono numerosi casi di suicidi. «L’introduzione alla vita dell’istituto deve avvenire in maniera lenta e graduale – si spiega nel report – affinché la persona abbia la possibilità di ambientarsi. Maggiore attenzione andrebbe prevista anche per la fase di preparazione al rilascio a fine pena, facendo in modo che la persona venga accompagnata al rientro in società». Un altro aspetto da potenziare è quello relativo alle attività che i detenuti possono svolgere in carcere. La rieducazione non può essere privilegio di pochi, la formazione e il lavoro dovrebbero essere percorsi più diffusamente accessibili. In Italia il panorama è variegato: ci sono alcune situazioni virtuose dove i detenuti svolgono tutti un’attività lavorativa alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o di datori di lavori privati, e poi ci sono istituti in cui le poche attività lavorative presenti sono quelle domestiche, pulizie, cucina, spesa alle dipendenze dell’amministrazione. A Poggioreale, per esempio, lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

ESCLUSIVO: LO SCANDALO DI MODENA. Scandalo al carcere di Modena: «Detenuti pestati a sangue». NELLO TROCCHIA su Il Domani il 16 agosto 2022.

«Quel giorno i detenuti sono stati picchiati, chi di noi non voleva partecipare restava fuori dal casermone», rileva un agente della polizia penitenziaria parlando del più grande scandalo della storia carceraria italiana.

Sequestri di persona, violenze, saccheggi e nove morti. Questo è successo nel carcere di Modena, l'8 marzo 2020.

Considerando il numero di detenuti che hanno perso la vita, la distruzione del carcere, le botte nel casermone, denunciate dai reclusi e non solo, si tratta di una pagina nera della nostra repubblica, la più grave avvenuta dietro le sbarre.

Carcere Modena, nove morti, incendi e violenze. Ma è giallo sui video segreti. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 17 agosto 2022

I fatti accaduti l’8 marzo, nel carcere Sant’Anna di Modena, sono episodi che trasformano quella giornata nella più buia della storia penitenziaria della repubblica italiana.

Un carcere in fumo, detenuti liberi di distruggere l’istituto, di strafarsi, in nove muoiono per overdose mentre altri si premurano, sollecitati dal vertice del carcere, di liberare il personale imprigionato.

E lo stato? Le istituzioni? Il ministero? Ci sono due questioni. La prima riguarda le violenze denunciate che sarebbero avvenute nel casermone prima dei trasferimenti dei detenuti in altri istituti. La seconda questione riguarda il ministero e il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La relazione è stata pubblicata oggi dopo la prima inchiesta di Domani sul caso Modena.

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli. 

Pestaggi nel carcere di Modena, il sindacato degli agenti replica a Domani. Il Domani il 17 agosto 2022

Se chi ha rivelato le violenze non denuncia agli organi competenti «non solo non è credibile, ma rischia di commettere molteplici reati» dice il segretario della Uilpa polizia penitenziaria sull’anonimo agente che ha raccontato a Domani l’episodio

«Chi ha notizie in merito a quanto successo nel carcere di Modena, tanto più se agente o ufficiale di polizia  giudiziaria, dunque con specifico obbligo di farlo, riferisca  immediatamente agli inquirenti. Altrimenti, non solo non è  credibile, ma rischia di commettere molteplici reati». Lo ha detto oggi  Gennarino De Fazio, segretario della Uilpa Polizia Penitenziaria a proposito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Modena pubblicata oggi e firmata da Nello Trocchia.

Nell'articolo, un agente anonimo aveva dichiarato: «Quel giorno i detenuti sono stati picchiati, chi di  noi non voleva partecipare  restava fuori dal casermone. I miei  colleghi hanno percosso uomini già resi precedentemente inoffensivi». Si tratterebbe di un episodio simile a quello avvenuto negli stessi giorni nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e ripreso dalle telecamere di sicurezza.

Ma il leader del sindacato De Fazio ritiene che queste testimonianze non siano sufficienti. «Pensiamo che ci si debba affidare alle  responsabilita' e alla perizia degli organi inquirenti e di quelli  che eventualmente saranno chiamati a giudicare e non trarre  conclusioni affrettate e alimentate da dichiarazioni estemporanee,  tutte da verificare».

«Così noi detenuti abbiamo salvato medici e poliziotti». NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 agosto 2022

L'8 marzo 2020, a Modena, viene scritta la pagina più buia, per morti e saccheggio, nella storia penitenziaria dell'Italia repubblicana. Ma c'è una data che precede quel giorno di lutti, incendi e violenze, un giorno che segna un passaggio chiave in questa storia, finora ignorato.

Ma alla situazione emergenziale si arriva con un istituto di pena senza guida e questo è il punto decisivo. La nuova direzione non è stabile, la direttrice, Maria Martone, deve dividersi tra due istituti e, a Modena, si reca due volta a settimana.

La testimonianza choc dei carcerati: «Gli agenti da fuori ci hanno chiesto di aiutare anche le detenute». Il caos della prigione e le scelte del Dap: la storica direttrice era stata rimossa due mesi prima degli scontri

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Quelle rivolte nelle carceri ridotte a uno stereotipo. Luigi Manconi su La Repubblica il 30 Agosto 2022.

Libertà/illibertà del 30 agosto 2022

Era il marzo del 2020 e, a seguito delle intollerabili condizioni di vita nelle carceri italiane, esasperate dalla diffusione del covid, in numerosi istituti penitenziari vi furono forme di protesta che vennero immediatamente classificate come “rivolte”. In effetti, in più di un caso vi furono violenze e distruzioni e i detenuti si appropriarono di sostanze stupefacenti custodite (malamente, come è evidente) nelle infermerie.

Azioni profondamente sbagliate e pericolose che portarono, in alcuni casi, a una repressione indiscriminata e feroce. La «orribile mattanza» (la definizione è del gip Sergio Enea) nel carcere di Santa Maria Capua Vetere non fu, certo, un episodio isolato.

Ma qui non importa tanto evidenziare le molte responsabilità del corpo della polizia penitenziaria nell’imporre un ordine fondato sulla violenza e talvolta sull’esercizio della tortura. Mi interessa sottolineare altro. Il fatto, cioè, che secondo uno schema ricorrente quelle proteste verificatisi in una ventina di istituti furono attribuite pressoché unanimemente a una “strategia occulta” e a un “disegno premeditato”.

I detenuti avrebbero eseguito gli ordini e applicato le direttive provenienti dalla criminalità organizzata e, specificatamente, dalla Camorra. Presentare una simile versione dei fatti rispondeva, non solo al riflesso condizionato della cospirazione come chiave interpretativa dei fatti del mondo, ma anche ad alcune finalità immediate: a) dimostrare che le carceri italiane sarebbero totalmente fuori controllo e che, in esse, dominerebbero le diverse fazioni del crimine organizzato; b) screditare le ragioni dei detenuti e occultare le cause, spesso motivatissime, delle loro proteste; c) legittimare la repressione nei confronti dei contestatori che, assimilati tutti al grande crimine, meritavano la più severa delle punizioni. Ulteriore obiettivo di questa opera di disinformazione, quello di presentare le grandi organizzazioni criminali come potenze capaci di condizionare in profondità la vita degli italiani.

Di conseguenza, quello delle “rivolte organizzate dalla Camorra” è diventato in un batter d’occhio uno stereotipo generalizzato. Dopodiché, qualche giorno fa è stata resa nota la relazione finale della commissione ispettiva del Ministero della Giustizia costituita dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria nel luglio del 2021, che ha analizzato attentamente i fatti accaduti in quel marzo di due anni fa.

La ricostruzione è dettagliata e puntuale ed è uno strumento utile per l’osservazione del sistema penitenziario italiano: e costituisce la possibile premessa di una politica di prevenzione. Ma c’è un passaggio che va immediatamente evidenziato. È laddove si legge che l’attribuzione della responsabilità delle rivolte alla mafia sarebbe stata motivata dal fatto che «la sospensione dei colloqui in presenza avrebbe danneggiato la catena di comunicazioni tra penitenziario e mondo esterno compromettendo gli interessi del crimine organizzato»; e dal fatto che «la contemporaneità degli eventi e le comuni modalità organizzative delle sommosse avrebbero deposto per una 'strategia occulta orchestrata a tavolino'».

Bene, secondo la relazione della commissione ispettiva non si è rilevato nulla di tutto ciò e non è stata riscontrata in alcun modo la minima traccia di una regia della «criminalità organizzata e nemmeno una matrice politica anarchica o insurrezionalista».

E si aggiunge che, a determinare le proteste, sarebbero stati la «paura della pandemia, il rifiuto delle misure limitative della socialità e, tranne la rivolta di Salerno, lo spirito di emulazione delle altre rivolte alimentato dall'aspettativa dei benefici penitenziari».

Tuttavia, la relazione non nasconde il «sospetto che detenuti, loro familiari e gruppi antagonisti abbiano concordato il momento in cui dare l’avvio alle rispettive manifestazioni di protesta dentro e fuori le strutture penitenziarie».

Questo è il massimo di “complotto” che la commissione del Ministero della Giustizia è riuscita a individuare. Come si vede, è il ribaltamento totale di una interpretazione fondata tutta su una concezione dei detenuti quali strumenti passivi nelle mani del crimine organizzato e funzionali ai disegni di quest’ultimo. In sintesi, è quanto scrive Gaia Tessitore sul sito di informazione napolimonitor.it, «l’impossibilità di mettere in relazione la risposta scomposta e violenta degli agenti di polizia penitenziaria con la presunta esistenza di un piano preordinato palesa la preoccupante incapacità dell’amministrazione di una lettura efficace della realtà e dei fenomeni che si sviluppano dentro e intorno al carcere». Un giudizio molto severo, ma che troppe vicende tendono a confermare.

I veleni nel carcere di Modena, le due agenti e la denuncia contro il comandante (che nega tutto). NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 agosto 2022

Dopo l’8 marzo 2020, dopo i nove morti per overdose mentre i detenuti erano sotto la tutela dello stato, dopo la distruzione del carcere, l’abbandono, la trattativa con i reclusi, il ministero non ha assunto provvedimenti. Il comandante della polizia penitenziaria del carcere Sant’Anna è rimasto al suo posto.

Mauro Pellegrino, per molti agenti, ha affrontato con professionalità quella situazione e nessuno avrebbe potuto fare meglio di fronte alla rivolta violenta scatenatasi in carcere. 

Le relazioni di Mauro Pellegrino sostanziano il lavoro della procura. I magistrati hanno aperto tre fascicoli, chiesto e ottenuto l’archiviazione per i nove morti, mentre indagano, da oltre due anni, sul saccheggio e sulle torture in due fascicoli separati. Ma proprio dall’8 marzo nel carcere di Modena i veleni si sommano alla conta dei danni. Veleni che riempiono pile di carte che Domani ha letto.

Violenze nel carcere di Modena, un sindacalista tra gli agenti indagati per tortura (tutti in servizio). NELLO TROCCHIA su Il Domani il 09 giugno 2022

La procura di Modena ha iscritto nel registro degli indagati cinque agenti della polizia penitenziaria che rispondono dei reati di tortura e lesioni aggravate per i fatti accaduti nel carcere di Modena, il giorno 8 marzo 2020.

Domani ha letto la richiesta di proroga del termine per le indagini preliminari, presentata dalla locale procura e firmata dal procuratore Luca Masini e dalla magistrata Lucia De Santis.

Tra gli indagati c’è anche un sindacalista. Sono sette, invece, le persone offese, destinatarie delle presunte violenze e che hanno presentato l’esposto dal quale si è originata l’indagine.  

Rivolta e botte: l’inferno nel carcere di Modena tra morti e saccheggi. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 17 maggio 2022

A Modena la procura indaga su quattro agenti della polizia penitenziaria per lesioni e tortura. Il fascicolo di Modena si incrocia con quello aperto ad Ascoli Piceno, rivelato proprio da Domani, dove la procura locale procede contro ignoti.

Un dato emerso dalla lettura degli atti relativi alla morte nel carcere marchigiano di uno dei detenuti, Salvatore Piscitelli, anche lui oggetto di violenza secondo alcuni testimoni.

Nel fascicolo sono state raccolte le testimonianze ci cinque detenuti in merito alle violenze subite l’8 marzo 2020. Hanno deciso di parlare nonostante la paura di ritorsioni.

Pestaggi in carcere, l’altra indagine di Ascoli. Botte «soprattutto contro gli stranieri». NELLO TROCCHIA su Il Domani il 17 maggio 2022

«Individuate gli eventuali responsabili delle violenze che sarebbe state commesse da alcuni agenti della polizia Penitenziaria a danno di alcuni detenuti».

È la richiesta che arriva dall’associazione Antigone, in un esposto presentato in questi giorni alla procura marchigiana alla luce delle testimonianze rese dai detenuti reclusi nella casa circondariale, nel marzo 2020.

Un fascicolo è già aperto contro ignoti e prende l’abbrivio proprio dal racconto degli ospiti del carcere nel periodo iniziale dell’emergenza pandemica, tutti detenuti che erano stati trasferiti ad Ascoli da Modena dove, nel carcere Sant’Anna, c’era stata una violenta rivolta.

L’istituzione totale che non rieduca ma fa tornare bambini. ISABELLA DE SILVESTRO E LUIGI MASTRODONATO su Il Domani il 28 aprile 2022

Si sa dei grandi scandali ma non della apatica quotidianità che tortura i detenuti con una serie ininterrotta di piccoli soprusi e drammatici disagi. 

L’8 marzo 2020 nel carcere di Modena si è consumata quella che un detenuto ha descritto come “la più grande macelleria della mia vita”. Durante una sommossa carceraria e nei momenti successivi sono morti in nove per overdose da metadone ed è stata la peggiore strage del dopoguerra in un penitenziario italiano. Nelle stesse ore altre quattro persone hanno perso la vita in circostanze simili nelle prigioni di Rieti e Bologna.

Qualche mese dopo Domani ha rivelato che il 6 aprile 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere era avvenuta quella che il gip Sergio Enea ha definito «un’orribile mattanza» nei confronti dei detenuti, in risposta a una rivolta del giorno prima. Decine di agenti sono finiti a processo con l’accusa di tortura, un fatto senza precedenti in Italia. Nel gennaio 2021 a Ferrara c’è stata la prima condanna definitiva per tortura in Italia nei confronti di un agente, ritenuto colpevole di aver agito con crudeltà e violenza grave contro un detenuto. Un mese dopo la stessa pena in primo grado ha riguardato altri agenti per fatti simili nel penitenziario di San Gimignano.

Nel 2020 le carceri italiane hanno fatto registrare il record di suicidi dell’ultimo decennio: secondo i dati dell’associazione Antigone, 61 detenuti si sono tolti la vita in cella. Bisogna tornare al 2009 per trovare numeri simili. Nel gennaio 2022 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ha condannato l’Italia per trattamenti inumani e degradanti, per aver trattenuto nel carcere di Rebibbia un 28 enne affetto da disturbi psichici negandogli le cure di cui aveva bisogno.

PUNTO DI NON RITORNO

Violenze, torture, suicidi, privazione del diritto alla salute, condanne nazionali e internazionali. Quelli citati sono alcuni degli episodi avvenuti nelle carceri italiane nell’ultimo biennio e raccontano bene le criticità che sta vivendo il sistema penitenziario. «Io un punto così basso per le carceri italiane non l’avevo mai registrato», ha detto Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino. Sicuramente la pandemia ha avuto un ruolo in questo deterioramento ma non è che prima andasse tutto bene.

Problemi storici a cui ci si era drammaticamente abituati sono solo tornati di attualità. Per esempio il sovraffollamento. Nel 2013 l’Italia è stata condannata dalla Cedu nella sentenza Torreggiani perché non garantiva ai detenuti uno spazio dignitoso, ma negli anni successivi il numero dei carcerati ha continuato ad aumentare.

Quando è arrivato il Covid-19 e certe precauzioni come il distanziamento sociale e l’areazione degli ambienti si sono imposte nella quotidianità del mondo esterno, è apparso evidente che lo stesso non potesse accadere in un luogo come il carcere, in quel momento popolato da 61.230 detenuti contro una capienza di 50.931.

Con il passare dei mesi si è riusciti ad alleggerire la densità penitenziaria, ma ora che la fase emergenziale più dura è passata le carceri italiane sono tornate ad accogliere ben più persone di quante potrebbero, con istituti come quello di Taranto o Brescia che fanno registrare tassi di riempimento vicini al 200 per cento.

La pandemia ha anche sconvolto la quotidianità già precaria dei detenuti. Per ridurre al minimo i contatti con l’esterno sono stati sospesi i colloqui, interrotte le lezioni universitarie e scolastiche, annullati i laboratori. La quasi totalità delle attività interne, fondamentali per i detenuti dal punto di vista psicologico, si sono dissolte da un giorno all’altro. E la popolazione carceraria si è trovata ancora più sola di quanto già non fosse.

Il malessere crescente ha fatto scoppiare nuove rivolte che sono state anche l’occasione per ricordarsi di come in Italia ci sia un problema di abuso di potere, lo stesso che sporcava di sangue le strade di Genova nel 2001 e che poi è passato dalla Ferrara di Federico Aldrovandi e dalla Roma di Stefano Cucchi.

TROPPI SILENZI

Per quanto di tutte queste problematiche carcerarie legate al malessere e agli abusi si stia finalmente iniziando a parlare, intorno a esse rimane un grande silenzio. Si sa dei grandi scandali che riguardano il sistema penitenziario italiano e non si sa di tutto il resto, del modo in cui scorre la quotidianità dei detenuti anche quando le cose vanno, più o meno, come dovrebbero andare. Ed è invece proprio qui, in questa apatica normalità, che si ritrova il livello di disagio maggiore quando si osserva il carcere in Italia.

L’inchiesta “Carcere, inferno quotidiano”, che chiediamo ai lettori di sostenere attraverso il nostro sito editorialedomani.it, indagherà in profondità per raccontare quello che, giorno per giorno, le sbarre nascondono.

GLI EFFETTI DELLA DETENZIONE

Il carcere non ha smesso di essere una pena corporale, nonostante il passaggio da pena come supplizio a pena come rieducazione sia avvenuto, teoricamente, da ormai due secoli. La detenzione abbrutisce, il corpo decade, l’incarcerazione provoca un’involuzione precipitosa di tutta la sensorialità.

Si abbassano le difese immunitarie e la vista cala perché lo sguardo del detenuto è tagliato dalla vicinanza delle mura esterne e delle pareti divisorie. La messa a fuoco è corta, si perde la distanza, la linea dell’orizzonte, svaniscono i colori. Anche l’olfatto è anestetizzato dall’aria stagnante.

L’udito in un primo momento si acutizza - la prigione è un luogo di rumori incessanti tra porte blindate che sbattono, chiavi che girano, urla, lamenti - ma in alcuni casi può sopraggiungere la sordità come difesa.

Del corpo si perde presto la percezione totale: gli specchi a disposizione di un carcerato bastano appena a vedersi il viso, quando mancano anche quelli ci si rade con il retro dei cd, uno degli strumenti di svago che insieme alle radioline, ai dvd e alle lettere con francobolli sempre più difficili da trovare sul mercato, relegano la popolazione carceraria a un tempo irreale, fermo agli anni ’90. Da qui anche il senso di vertigine e spaesamento che spesso segue la scarcerazione.

QUOTIDIANITÀ MALSANA 

Il carcere non è solo un luogo dove si tenta il suicidio o ci si dedica all'autolesionismo. È più spesso un luogo dove il dolore assume forme opache, simili a un sonno cosciente. La vita quotidiana di un detenuto è fatta di piccoli sforzi di resistenza al tempo che scorre vuoto e sempre uguale: la televisione è il più potente anestetico insieme alla “terapia”, ovvero gli psicofarmaci che vengono distribuiti la sera, prima della chiusura delle celle. Un detenuto su due in Italia ne fa uso, non solo per tenere a bada disturbi psichici, ansia e depressione, ma anche per far scorrere le giornate.

Il fine settimana e l’estate sono i periodi in cui se ne assumono di più perché l’isolamento si acuisce, i volontari non entrano, le attività vengono sospese. E allora si dorme, si resta a letto per giorni interi, ci si ribella così alla formula, ripetitiva e presto soffocante pronunciata dagli agenti tre volte al giorno al detenuto che vuole lasciare la cella: «Aria, saletta o doccia?» - i tre vettori della fuga dagli spazi angusti di quelle celle spesso sovraffollate. E aria vuol dire “passeggio”, che a sua volta indica un cortile claustrofobico in cui girare in tondo, ogni giorno, per anni. Il lessico carcerario è fatto di “domandine”, le richieste interne dei detenuti agli agenti, frequenti e totalizzanti come quelle di un bambino alla maestra.

Il detenuto è infantilizzato, deresponsabilizzato, riportato allo stadio infantile della vita. Deve aspettare che si aprano le porte, che venga accolta o negata una richiesta, non ottiene spiegazioni sui dinieghi. In carcere si sente spesso dire che meno chiedi e meglio è, più accondiscendi alle rodate logiche di spoliazione della personalità e più simpatico risulterai a chi può decidere se farti avere o meno ciò che ti spetterebbe di diritto. È difficile immaginare cosa voglia dire poter parlare al telefono con i figli solo dieci minuti a settimana, dover scegliere le parole da dire, che cosa omettere e che cosa raccontare o come spartire un tempo così limitato tra le persone care. Più facile forse è immaginare il fastidio di mangiare con le posate di plastica, come in un picnic al parco quando inizia la primavera, e la tortura di dover mangiare sempre così per anni, per decenni, colazione, pranzo e cena.

Il carcere è, insomma, un luogo di piccoli soprusi quotidiani. L’espropriazione di ogni riservatezza ed intimità, l’azzeramento della sfera sessuale e le continue privazioni e umiliazioni fanno crescere nei detenuti rabbia e frustrazione, a discapito del fine rieducativo.

Sembra che alla pena definita dal dettato costituzionale si aggiunga la pena supplementare inflitta quotidianamente per mezzo di piccole torture spesso legalizzate, altre volte fuori da ogni regola. Il fatto che oggi il tasso di recidiva sia al 70 per cento racconta il fallimento di un’istituzione che reclude e non reinserisce.

Un’istituzione caratterizzata da piccoli abusi, ripicche, complicazioni burocratiche, imposizioni securitarie che fanno meno rumore delle storie di Santa Maria Capua Vetere e di Modena ma sono parte dello stesso racconto e forse aiutano a comprenderlo meglio. Drammi che esistono da sempre e che la pandemia ha solo aggravato.

Il rapporto di Antigone. Rapporto carceri, in Italia sistema in tilt: calano i reati ma crescono ergastolani e recidivi. Federica Brioschi su Il Riformista il 29 Aprile 2022. 

Oltre 2.000 in 24 anni. Un monitoraggio costante che ha permesso ad Antigone di fotografare lo stato del sistema penitenziario nella sua complessità, analizzandolo con spirito critico ma anche costruttivo. Da questa attività parte la realizzazione del rapporto annuale dell’associazione sulle condizioni di detenzione. Ieri, a Roma, è stato presentato il diciottesimo, frutto delle circa 100 visite effettuate nel 2021, dal Nord al Sud del paese, dalle carceri più grandi agli istituti più piccoli.

Il monitoraggio degli osservatori restituisce un’immagine delle carceri italiane non molto lusinghiera. Nel 17% di quelle visitate da Antigone c’erano sezioni prive di ogni ambiente comune, che sono invece fondamentali per organizzare attività volte al reinserimento dei detenuti nella società. In oltre il 30% degli istituti le persone non avevano accesso regolare alla palestra, un modo per mantenersi in salute in un ambiente sedentario. Nel 35% degli istituti visitati mancava l’area verde per i colloqui all’aperto con i familiari prevista dal regolamento, mentre nell’85% non c’erano spazi di culto per i detenuti non cattolici. In varie carceri si trova ancora il water a vista accanto al letto e al fornelletto per cucinare. Infine nel 74% degli istituti visitati le persone non avevano alcuna forma di accesso a Internet.

A fine marzo sono 54.609 le persone private della libertà nel sistema penale italiano, mentre un anno fa erano circa un migliaio in meno. Ufficialmente il tasso di affollamento medio è del 107,4%, tuttavia, se si considerano i posti realmente disponibili, a fronte di reparti e sezioni chiuse o celle inagibili, il tasso supera il 115%. Un dato su cui pesano sempre meno gli stranieri che al 31 marzo 2022 sono il 31,3% sul totale della popolazione detenuta, con un calo del 5,8% rispetto al 2011. Il loro tasso di detenzione (calcolato nel rapporto tra popolazione straniera residente in Italia e stranieri presenti nelle carceri) ha visto una decisiva diminuzione, passando dallo 0,71% del 2008 allo 0,33% del 2021. Stabile la percentuale di donne, che rappresentano il 4,2% della popolazione detenuta, così come i detenuti in custodia cautelare, il 31,1% del totale, un dato sempre superiore alla media europea e su cui non si riesce ad intervenire in maniera ampia.

Se lo scopo principale della pena dovrebbe essere il reinserimento sociale ed evitare che le persone condannate tornino a delinquere, il carcere non sembra riuscire ad adempiere al dettame costituzionale. Infatti al 31 dicembre 2021 solo il 38% dei detenuti presenti nelle carceri italiane era alla prima carcerazione. Il restante 62% in carcere c’era già stato almeno un’altra volta. Il 18% c’era già stato in precedenza 5 o più volte. Aumenta anche il numero di reati medio commesso da ogni detenuto. In media vi si tratta di 2,37 reati per detenuto mentre nel 2008 il numero di reati per detenuto era dell’1,97. Dunque diminuiscono i reati in generale, diminuiscono i detenuti in termini assoluti ma aumenta il numero medio di reati per persona. Ciò è indice dell’aumento del tasso di recidiva. Dati centralizzati sulla recidiva non vengono raccolti e invece sarebbe utile lo si faccia. Per capire quali sono i percorsi che realmente consentono a chi ha scontato una pena a non commettere altri reati una volta fuori. Certamente, da questo punto di vista, aiutano le misure alternative, che consentono al detenuto di riprendere i legami con il mondo esterno prima della fine della pena.

Come ha ricordato durante la conferenza di presentazione del rapporto il Garante dei detenuti della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, non esiste alcuna ragione – che guardi ad un orizzonte risocializzante – per tenere una persona in cella fino all’ultimo giorno della sua pena. Nonostante il calo dei reati che si registra ormai da anni (-12,6% rispetto al 2019), le persone detenute si trovano a scontare pene sempre più lunghe. Al dicembre 2021 fra i detenuti definitivi, il 50% stava scontando una condanna definitiva uguale o superiore a 5 anni e il 29% aveva subito una condanna a 10 o più anni. Dieci anni fa queste percentuali erano rispettivamente il 40% e il 21%. Aumentano anche gli ergastolani: erano 408 nel 1992, 990 nel 2002, 1.581 nel 2012 e oggi sono 1.810. Un aumento impressionante considerando il calo degli omicidi in Italia. Infine, venendo proprio alle misure alternative, ben 19.478 detenuti dovevano scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni.

Una gran parte di loro potrebbe usufruire di alternative alla detenzione ma, alla difficoltà di ottenerli in alcuni casi, spesso si aggiungono anche problemi di carattere esterno, come ad esempio l’assenza di un domicilio che consenta di accedere alla detenzione domiciliare. Di fronte a questi numeri appare evidente la necessità di riformare il sistema e su questo insiste con forza l’associazione Antigone. “I tassi di recidiva ci raccontano di un modello che non funziona e ha bisogno di importanti interventi, aprendosi al mondo esterno, puntando sulle attività lavorative, scolastiche, ricreative e abbandonando la sua impronta securitaria” ha commentato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “A dicembre 2021 – ha ricordato Gonnella – la Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta dal prof. Marco Ruotolo, ha elaborato e consegnato un documento con tutta una serie di riforme che si potrebbero fare in maniera piuttosto rapida.

Inoltre la recente nomina di Carlo Renoldi alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria apre una prospettiva importante da questo punto di vista. Ci auguriamo che si sappia cogliere quest’occasione e si portino avanti tutte le riforme di cui il carcere italiano ha urgente bisogno”. Un ultimo passaggio è stato dedicato al diritto di voto delle persone recluse. In Francia, al primo turno delle politiche, ha votato circa il 15% dei detenuti grazie ad una nuova modalità via posta che ha incentivato la partecipazione (prima votava solo il 2%). “Anche in Italia – è stato l’appello di Gonnella – si trovino degli strumenti per incentivare la partecipazione dei detenuti al voto in vista delle prossime elezioni politiche e i prossimi referendum”. Garantire il diritto al voto significa garantire la partecipazione dei detenuti alla vita sociale, fondamentale in un’ottica risocializzante. Federica Brioschi

Vitto e sopravvitto, Garante del Mercato: «Le aziende alterano le gare d’appalto». L’autorità della Concorrenza ipotizza che le parti si mettano d’accordo alterano le gare, provocando inevitabilmente la riduzione della quantità e qualità del cibo per i detenuti. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 Dicembre 2022

Ipotesi di possibile sussistenza di condotta collusiva e del fatto che le parti potrebbero aver alterato sensibilmente la libera formazione dei prezzi e la selezione dell’operatore più efficiente, con conseguente effetto peggiorativo del servizio complessivo offerto ai detenuti. Dopo la sentenza della Corte dei Conti, arriva il bollettino dell’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che affronta l’affidamento dei servizi di vitto e sopravvitto degli istituti penitenziari.

L’autorità, in premessa, spiega che il 23 febbraio 2022 è pervenuta una segnalazione relativa a comportamenti anticoncorrenziali adottati da alcuni partecipanti a una procedura di gara finalizzata alla conclusione dell’affidamento del servizio per il vitto dei detenuti e internati ristretti nelle carceri della Regione Campania (Gazzetta Ufficiale, 5a Serie Speciale – Contratti Pubblici n. 130 del 10- 11- 2021). Considerato che tale procedura si è svolta parallelamente ad altre indette in distinte aree regionali e/ o aventi ad oggetto il servizio di sopravvitto, la segnalazione risultava incompleta specialmente con riguardo all’estensione e alla consistenza delle condotte, oltre che all’individuazione dei possibili responsabili ai fini dell’avvio dell’istruttoria.

IL GARANTE HA CHIESTO INFORMAZIONI SULLE PROCEDURE SEGUITE DAI PROVVEDITORATI

Pertanto, il 9 maggio 2022, il Garante della Concorrenza e del Mercato ha trasmesso una richiesta di informazioni al ministero della Giustizia, con cui venivano domandati i dettagli di tutte le procedure relative ai servizi di vitto e sopravvitto indette dagli undici Provveditorati regionali dell’Amministrazione Penitenziaria (PRAP) dal 2019 in poi, specificando gli esiti delle stesse e l’indicazione dei punteggi attribuiti a tutti i partecipanti, nonché i ribassi offerti e i nominativi dei partecipanti e degli aggiudicatari. A propria volta, il ministero ha inoltrato la richiesta agli undici PRAP competenti per territorio. Già il successivo 23 maggio il PRAP Veneto, Trentino Alto- Adige e Friuli Venezia- Giulia rendeva nota la difficoltà di reperire tempestivamente quanto richiesto, considerata la mole di informazioni da collezionare. Dopodiché, hanno risposto.

Sempre nel bollettino viene specificato che la notevole quantità di informazioni trasmesse dai PRAP, tuttavia, non si è rivelata sufficiente ad apprezzare compiutamente la complessità e l’estensione delle condotte in esame. Conseguentemente, è stato necessario integrare la documentazione agli atti con quanto reperibile sul sito web del ministero della Giustizia, concernente non solo dati ulteriori a quelli forniti dai PRAP nelle risposte alla richiesta di informazioni, ma anche dati relativi alle procedure di gara aperta o negoziata in corso nel periodo estivo. Infatti, l’ultima procedura considerata nel presente provvedimento di avvio è stata definita con la determina di approvazione della proposta di aggiudicazione del 28 settembre 2022, pubblicata sul sito internet il 30 settembre successivo.

IPOTIZZATE CONDOTTE ANTI- COMPETITIVE PER CONDIZIONARE L’ESITO DELLE GARE

L’autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, arriva direttamente al punto. Nel bollettino denuncia che le vicende in esame concernono ipotesi di condotte anti-competitive volte a condizionare l’esito di molteplici procedure comparative pubbliche relative all’affidamento dei servizi di vitto e sopravvitto bandite da vari PRAP dal 2020 in poi. In particolare, i comportamenti anomali hanno riguardato prima facie l’area centro- meridionale e insulare del territorio nazionale, ovvero le procedure di gara aperta e le procedure negoziate indette dai seguenti PRAP: Lazio/ Abruzzo/ Molise, Campania, Puglia/ Basilicata, Calabria, Sardegna e Sicilia. «Le condotte anti- competitive considerate – scrive l’autorità Garante – consistono in una serie di anomalie riscontrate nell’analisi degli esiti delle procedure imputabili a Ventura, Saep, Guarnieri, Pastore e D’Agostino.

In particolare, l’anomalia più ricorrente risiede nella presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della medesima procedura, tali da favorire di volta in volta una delle sodali nell’aggiudicazione (c. d. "scacchiera")». A tale anomalia, prosegue il bollettino, si accompagnano altre condotte, come la presentazione di offerte c. d. "di appoggio" o le astensioni volte ad avvantaggiare altri concorrenti, che possono essere lette come compensazioni rispetto ad altre contestuali procedure.

RISCONTRATO IL SISTEMA A "SCACCHIERA" NELLE GARE PER VITTO E SOPRAVVITTO

Non solo. Viene sottolineato che, nell’ambito di alcune procedure relative al sopravvitto, si è riscontrata l’assenza di offerte dei sodali che presentano uno sconto esiguo per la procedura per il vitto proprio al fine di favorire l’affidamento della concessione all’operatore favorito per l’aggiudicazione del corrispondente servizio di vitto o già aggiudicatario dello stesso. «Tale comportamento appare idoneo a consentire agli aggiudicatari del vitto di compensare il notevole sconto praticato in alcuni casi, in quanto dal sopravvitto è possibile ricavare maggiore utili», viene sottolineato nel bollettino.

Dopo una lunga e dettagliata analisi, il Garante arriva a ipotizzare che le aziende, in pratica, si mettono d’accordo per la gara d’appalto. «Il pattern partecipativo che pare emergere risulta caratterizzato da: presentazione di offerte estremamente eterogenee tra i vari lotti della medesima procedura tali da favorire di volta in volta una delle sodali nell’aggiudicazione (c. d. "scacchiera"); formulazione di offerte c. d. "di appoggio" o l’astensione dalla procedura allo scopo di avvantaggiare altri concorrenti da interpretare come compensazioni rispetto ad altre contestuali procedure; astensione dalle procedure di sopravvitto al fine di favorire l’affidamento della concessione all’operatore favorito per l’aggiudicazione del corrispondente servizio di vitto o già aggiudicatario dello stesso», denuncia il Garante attraverso il bollettino.

Attraverso l’ipotizzata condotta concertata, sempre secondo il Garante, le parti potrebbero aver alterato sensibilmente la libera formazione dei prezzi e la selezione dell’operatore più efficiente nell’ambito delle gare pubbliche in esame. Nel caso di specie, anche là dove si osservano sconti elevati, questi potrebbero essere compensati dall’esercizio del remunerativo servizio di sopravvitto da parte dello stesso operatore aggiudicatario del servizio di vitto. Tale effetto è riscontrabile non solo nell’ambito delle procedure unitarie del 2020, in cui appunto vitto e sopravvitto venivano affidati contestualmente, ma anche successivamente, «posto che frequentemente gli affidatari del servizio di vitto coincidono con i medesimi aggiudicatari delle pressoché contestuali procedure volte all’affidamento della concessione del servizio di sopravvitto».

LA STRATEGIA POTREBBE PEGGIORARE IL SERVIZIO PER IL NOTEVOLE RIBASSO

Il risultato? Tale strategia esaminata dal bollettino, potrebbe appunto produrre effetti peggiorativi del servizio complessivo offerto ai detenuti, considerato che un notevole ribasso dell’importo a base d’asta (oscillante tra 5,70 a 5,90 euro per i tre pasti giornalieri) può ripercuotersi in una minore qualità e quantità delle forniture, tale da rendere necessario l’acquisto tramite il sopravvitto a spese dei detenuti stessi di alimenti indispensabili per compensare la scarsità dei pasti offerti. «Sarà sufficiente tutto questo a fare capire all’amministrazione penitenziaria che deve adottare provvedimenti immediati?», si chiede Gabriella Stramaccioni, la garante dei detenuti del comune di Roma che si è battuta molto – attraverso denunce pubbliche e segnalazioni alle autorità – per il problema del vitto e sopravvitto.

AFFARE INFINITO IN CAMPANIA. Il cibo in carcere è un affare. Vince la stessa azienda a cifre stracciate. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 18 aprile 2022

Nonostante le promesse di cambiamento, gli interventi della magistratura contabile e amministrativa, la presa di posizione della ministra Marta Cartabia, il cibo in carcere continua a essere un affare per pochi e soprattutto a basso costo.

Le ultime assegnazioni riguardano i pasti “offerti” ai detenuti e alle detenute campane. Il vitto è stato aggiudicato dalla società Ventura con un ribasso di circa il 40 per cento.

Soli 3,29 euro per garantire colazione, pranzo e cena. Già in passato i detenuti avevano lamentato la scarsa qualità del cibo. L’azienda non parla, il dipartimento risponde nel merito e promette verifiche. «Su entrambi i contratti saranno garantiti stringenti controlli», dice Lucia Castellano, provveditore regionale della Campania. 

NELLO TROCCHIA.  È inviato di Domani, autore dello scoop sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Flaminia Savelli per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.

«Mi hanno minacciato con un coltello, se racconti quello che ti abbiamo fatto ti uccidiamo. Poi mi hanno legato e violentato a turno». Inizia così il racconto dell'orrore di un detenuto, romano di 65 anni tossico dipendente e in carcere per reati legati allo spaccio. È l'uomo che sta scontando la pena nel carcere di Regina Coeli e che per due giorni è stato violentato dai compagni di cella: due stranieri di origine bosniaca che approfittando della scarsa sorveglianza, hanno sequestrato e abusato sessualmente del detenuto. I tre erano infatti stati trasferiti in una cella del reparto Covid del penitenziario, nella Settima Sezione, dove vengono reclusi i detenuti contagiati. Per ragioni sanitarie, non ci sono celle aperte e non viene applicata la vigilanza dinamica.

Così come è stato già confermato, la violenza è avvenuta la scorsa settimana nella camera di pernottamento in cui i tre erano ristretti. La procura di Roma ha aperto un fascicolo per sequestro e violenza sessuale. Gli agenti della polizia penitenziaria stanno ora procedendo con accertamenti. Infatti i poliziotti dopo aver accompagnato la vittima prima in infermeria e poi in ospedale dove i medici hanno confermato le violenze subite.

Quindi, hanno inviato una prima informativa. I compagni di cella invece, accusati di violenza sessuale, sono ora in isolamento. Ma nei prossimi giorni si procederà con provvedimenti disciplinari: la misura più frequente adottata in casi analoghi è quella del trasferimento in altri istituti penitenziari. 

«Un episodio vergognoso e raccapricciante certamente favorito dall'allentamento della sicurezza interna dovuto alla vigilanza dinamica» ha commentato Maurizio Somma, segretario per il Lazio del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria che ha denunciato quanto avvenuto.

«La situazione è drammatica e quanto emerso in queste ore ci preoccupa. Il sospetto è che non si tratti di un caso isolato. La vigilanza, a causa del ridotto numero di agenti di polizia è ridotta all'osso. Rischiamo che i detenuti prendano il controllo del carcere» denuncia Donato Capece, segretario generale del Sappe. Sono i numeri a confermare la carenza del personale carcerario: a Regina Coeli si contano 143 unità in meno: «La vigilanza può essere garantita con un poliziotto ogni 10 detenuti. La media che registriamo da due anni a questa parte è molto più bassa, disponiamo di un agente ogni 70 carcerati» specifica il segretario Capece.

Al numero ridotto di unità, si somma l'allarme scattato per la pandemia con i focolai che a più riprese si sono registrati nelle diverse sezioni del penitenziario. L'ultimo, il più grosso che si registra nelle carceri italiane in questo momento è proprio a Regina Coeli con 211 positivi con un numero di detenuti pari a quasi 300 in più rispetto ai posti disponibili. e insieme una carenza di 143 poliziotti penitenziari rispetto quelli previsti in organico. E solo il 4% dei reclusi svolge un'attività lavorativa.

Rosario&Ordine. La politica reazionaria dei sovranisti sui diritti umani dei detenuti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Maggio 2022.

La destra ha contestato il governo per aver finanziato la realizzazione di luoghi dove i detenuti possano stare insieme al loro partner per un giorno al mese. Una misura di civiltà che non piace a chi rivendica il carcere quale esclusiva ignominia afflittiva.

Nel competere in oscenità con la sinistra manettara e con l’armata forcaiola, quella che si compiace se un vecchio malato resta per sempre in carcere e ne esce soltanto «chiuso in una cassa» (così, testualmente, l’altra sera, l’ex magistrato e deputato progressista Giuseppe Ayala), la presunta controparte di destra si è recentemente esercitata nella contestazione dei propositi di stanziamento governativo per finanziare la realizzazione di luoghi in cui i detenuti, per un giorno al mese, possano stare in intimità con il partner.

Ripugna alla destra moderna e cristiana (Rosario&Ordine, per capirsi) anche la sola idea che ai detenuti sia consentito di “sfogare i propri istinti” a spese dei contribuenti, e quindi essa si aduna nella protesta contro il governo per cui (così, ancora testualmente, si bercia dai ranghi di Fratelli di Italia): «La priorità è garantire ai detenuti il massimo comfort e una brillante vita sessuale».

Non c’è neppure, a sorreggere questa requisitoria, la improbabile esigenza sicuritaria evocata da un altro bel campione della giustizia piombata, quel Nicola Gratteri specializzato in rastrellamenti e nella prefazione di libri negazionisti firmati da autori di propaganda neonazista: c’è proprio, e soltanto, la rivendicazione del carcere quale esclusiva ignominia afflittiva, e il solito vellicamento della reazione plebea al lassismo oltraggioso che si preoccupa del sollazzo dei condannati.

Se dovessimo fare ironia potremmo indugiare sulle abitudini di chi considera “brillante vita sessuale” il convegno di ventiquattro ore al mese (discutiamo di questo) in qualche ridotta di una prigione: chissà che tanta acrimonia, tanto risentimento, tanto ribollire di rabbia, non trovino causa in qualche insoddisfazione cui un po’ di esercizio offrirebbe salutare rimedio. Ma non c’è proprio nulla su cui scherzare, perché qui si tratta della disperante dimostrazione (Donna Giorgia perdonerà se usiamo il maschile) che il meglio fico del bigoncio di destra rimane sempre il frutto pessimo dell’eterno albero reazionario e illiberale. Quello che, per quanto la stampa coi fiocchi lo inzuccheri per adibirlo a punto di riferimento fortissimo delle affascinanti avventure alternative, va di traverso a chiunque chieda a qualsiasi leader del 2022 il minimo sindacale di un pizzico di civiltà.

Affettività in carcere, Gratteri non ci sta: «Al governo non interessa la mafia». Il Dubbio il 28 maggio 2022. Il procuratore di Catanzaro: «Hanno trovato più di 28 milioni di euro per costruire le Case dell’Amore. Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea?»

«Nel suo discorso di insediamento Draghi non ha detto una sola volta la parola mafia. Ha un piano? Una visione? Vorremmo sapere se ha delle proposte per contrastare le mafie, ma credo che la giustizia e la sicurezza non interessino a questo Governo e che Cartabia non sia il Ministro che serviva all’Italia. Appena nominata ha incontrato il Garante dei detenuti e Nessuno tocchi Caino, i magistrati li ha incontrati dopo un mese. Non cambia nulla? Forse. Ma la forma è sostanza. E questo fa capire l’indirizzo di questo Governo». Inizia così l’intervento di Nicola Gratteri, Procuratore di Catanzaro, al corso «Le mafie ai tempi dei social», organizzato da Fondazione Magna Grecia e ViaCondotti21 con il Gruppo Pubbliemme, Diemmecom, LaC Network e l’Università LUISS, andato in onda in diretta streaming su LaCNews24.

Nel mirino del procuratore di Catanzaro, in particolare, i fondi per l’applicazione della legge sull’affettività in carcere, che però non è ancora stata discussa in commissione Giustizia del Senato. «Hanno trovato più di 28 milioni di euro per costruire le Case dell’Amore, un luogo dove i detenuti possono incontrarsi per 24 ore con moglie, marito e amanti», ha polemizzato Gratteri. «Avete idea dei messaggi che possono essere mandati all’esterno grazie a questa idea? Questo abbiamo portato a Palermo nel 30esimo anniversario della strage di Capaci, quando tutta la politica è andata a onorare Falcone, le Case dell’Amore».

Il procuratore ha parlato quindi dell’evoluzione delle mafie e dalla ricerca del consenso: «Le mafie oggi sono mimetizzate nel tessuto sociale ed economico, ma non esisterebbe la mafia senza la relazione con le classi dirigenti, sarebbe criminalità comune. La mafia ha bisogno del territorio e del consenso popolare, il boss ha bisogno di pubblicità, è un imprenditore. Così la ’ndrangheta si è presa la Calabria e un quarto di Milano. Certe cose bisogna dirle. Io mi sono creato una vita da recluso, ma sono libero di dire quello che voglio perché non appartengo a nessuna corrente. Il silenzio è complicità».

La bufala sulle “casette dell’amore” è l’ennesima disinformazione dei media. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 giugno 2022.

Ha ragione Ornella Favero, direttrice della redazione Ristretti Orizzonti ad indignarsi dei giornalisti che non hanno verificato la falsa notizia dei 28 milioni stanziati per le “casette dell’amore”, tra l’altro rilanciata puntualmente dal magistrato Nicola Gratteri. Il 24 maggio scorso, Il Dubbio ha pubblicato un articolo rilevando che la proposta di legge sull’affettività è purtroppo ancora nel mondo dei sogni visto che la commissione Giustizia del Senato ancora non l’ha messa all’ordine del giorno, così come gli eventuali fondi serviranno in previsione di tale proposta rimasta nel limbo.

Quando la politica diventa ostaggio della disinformazione

Dalle famose “scarcerazioni” durante il covid alle “casette dell’amore”, il tema carcere affrontato dai giornali si presta a numerose bufale per creare indignazioni e quindi con la conseguenza di regredire sempre di più. La politica diventa così ostaggio della disinformazione. Accade con altri temi dove le persone non possono avere sempre gli strumenti per capire. Basti pensare alle tesi sulle stragi di mafia. Quasi tutti i giornalisti, tranne questo giornale che tenta di approfondire e scavare a fondo, copiano e incollano le tesi evocate e si crea un danno enorme.

Il ministero della Giustizia «non ha assunto alcuna iniziativa»

Ritornando al tema penitenziario, il gioco è ancora più facile perché si cavalca e si amplifica il cosiddetto populismo penale. Vale la pena riportare anche su Il Dubbio, ciò che ha denunciato Ornella Favero. La direttrice di Ristretti Orizzonti spiega come stanno le cose: la Regione Toscana ha presentato nel 2020 un disegno di legge sull’affettività delle persone detenute (e anche la Regione Lazio) e, spiegano fonti del ministero della Giustizia in un comunicato, «nello scorso mese di marzo la 5a commissione del Senato (Bilancio) ha richiesto al ministero della Giustizia tramite il Dipartimento per i rapporti con il Parlamento una relazione tecnica su una stima di massima dei costi di realizzazione». I tecnici del ministero, chiamati a rispondere, hanno trasmesso una valutazione orientativa dell’eventuale impatto economico dell’intervento, ma il ministero della Giustizia «non ha assunto alcuna iniziativa né ha espresso valutazioni politiche, ma è stato chiamato ad esprimere un doveroso supporto tecnico ad attività di tipo parlamentare».

La direttrice di Ristretti Orizzonti: «Possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche?»

A quel punto, la direttrice di Ristretti, giustamente si indigna e si domanda retoricamente: «È possibile che nessun giornalista o politico abbia pensato di fare delle verifiche di notizie, che apparivano veramente sconclusionate al limite del ridicolo? Il fatto è che siamo abituati, nel nostro Paese, a ridicolizzare nel modo più triste e squallido quello che ha a che fare con gli affetti e con la sessualità delle persone detenute, e riteniamo lecito dire qualsiasi schifezza in materia, a partire dalla solita definizione di “celle a luci rosse”, mentre negli altri Paesi, evidentemente più civili del nostro, si pensa a fare leggi sensate e si capisce che in carcere ci stanno persone, che come tali vanno trattate».

Ristretti Orizzonti si “candida” a gestire la comunicazione

Ornella Favero denuncia anche che il ministero della Giustizia e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non sono riusciti a fare una comunicazione attenta, tempestiva, precisa, esauriente su questa vicenda. «Ci candidiamo allora – scrive sempre Favero -, con la nostra Rassegna Stampa quotidiana, Ristretti News, a fare noi questo lavoro, e magari a essere riconosciuti e sostenuti, perché sappiamo che tanta parte dell’Amministrazione Penitenziaria legge il nostro Notiziario, e sappiamo anche che per sopravvivere dobbiamo fare i salti mortali».

La redazione è composta da giornalisti detenuti “dilettanti”

Sottolinea che dirige Ristretti Orizzonti, un giornale di giornalisti detenuti “dilettanti”, e che per giunta, se sono finiti in carcere, «è perché spesso nella vita non si sono distinti per il rispetto delle regole, quindi gli dovrei poter portare come esempio i professionisti dell’informazione che fanno questo mestiere da anni, e invece spesso succede il contrario, che siamo noi che stiamo molto più attenti di loro alle parole, ai contenuti, al rispetto dei lettori». E conclude: «Rispetto dei lettori significa rispetto dei lettori “liberi”, e noi lo abbiamo perché le persone in carcere sanno mettersi in discussione, confrontarsi con le vittime, assumersi le loro responsabilità, e rispetto dei lettori detenuti e delle loro famiglie, che in tutta questa storia si sono visti trattati con disprezzo, volgarità, miserabili bugie».

Affettività e sessualità in carcere: «Ce lo chiede l’Europa». Lo spiega l’avvocata Annamaria Alborghetti, responsabile commissione carcere Camera Penale di Padova, organizzatrice del convegno di martedì “Il cuore oltre le sbarre, affettività e sessualità in carcere: diritti negati”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 28 maggio 2022.

“Il cuore oltre le sbarre, affettività e sessualità in carcere: diritti negati”, è il titolo del convegno organizzato dalla Commissione Carcere della Camera Penale di Padova “Francesco de Castello”. Si svolgerà martedì 31 maggio alle ore 15, presso il Centro Culturale San Gaetano. Una iniziativa che ritorna di attualità grazie alle recenti polemiche provenienti da alcune parti politiche, principalmente Lega e Fratelli d’Italia, totalmente avulse dalla realtà, senza minimamente prendere in considerazione che siamo tra i pochissimi paesi al mondo a rimanere indietro rispetto ai diritti già acquisiti altrove da molto tempo.

«Le relazioni affettive devono avere uno “spazio riservato” e un “tempo disteso”. Vale per tutti. Anche per chi è privato della libertà ma non dovrebbe essere privato dei suoi diritti fondamentali, e quindi del diritto all’affettività e alla sessualità, la “salute sessuale” come la definisce l’Oms», così spiega l’avvocata Annamaria Alborghetti, la responsabile Commissione Carcere Camera Penale di Padova e che concluderà i lavori del convegno. Sottolinea che «ce lo chiede l’Europa» con la raccomandazione 134/ 1997 del Consiglio d’Europa, invitando gli Stati membri a mettere a disposizione dei detenuti luoghi per incontrare la famiglia. Così come c’è la raccomandazione del Parlamento Europeo n. 2002/ 2188 del 2004 secondo cui i detenuti devono avere «una vita affettiva e sessuale attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi».

Chi ha risposto all’appello? Ben 31 paesi su 47 del Consiglio d’Europa senza distinzione di sistemi politici e con soluzioni diverse: dal colloquio prolungato non sorvegliato, come in Croazia o in Romania, alla predisposizione di stanze, come in Spagna, o di veri e propri appartamenti, a volte immersi nel verde e dotati di ogni comfort, dove il detenuto può incontrare il partner, ma anche i figli o gli amici, come in Norvegia, Danimarca e Olanda. O in Francia dove le Unités de Vie Familiale sono piccoli appartamenti con una o due stanze da letto, un bagno e una zona cucina separati dalle sezioni detentive ma all’interno del penitenziario. Nel Canton Ticino c’è il “congedo interno” per incontrare il partner, familiari e amici in una casetta, la c. d. “Silva”, o il “colloquio gastronomico”, un pasto in compagnia di parenti e amici.

«Vivere l’affettività e la sessualità – spiega l’avvocata Alborghetti fa bene a tutti, sicuramente al detenuto, ma anche alla società nella quale il detenuto si reinserisce». Eppure, sottolinea sempre la responsabile Commissione Carcere Camera Penale di Padova, da oltre 25 anni si tenta di adeguare l’Italia agli altri 31 Paesi del Consiglio Europeo: ci aveva provato nel 1997 il dr. Coiro, capo del DAP, con una circolare che invitava a trovare spazi adeguati, e ancora, fino all’eccezione di costituzionalità sollevata nel 2012, fino alle proposte di legge che attendono fiduciose in Commissione Giustizia.

Qualcuno ha tentato di affermare che il diritto a consumare il matrimonio è garantito dalla Costituzione e ha invocato la concessione di un permesso di necessità ma la Cassazione ha detto che «tra gli eventi di particolare gravità può rientrare tutto ciò che ha il carattere dell’eccezionalità e non il diritto ad avere rapporti sessuali, che per sua natura, non ha alcun carattere di eccezionalità». Magari per chi è detenuto anche sì. Il convegno di Padova vuole discutere sullo stato dell’arte e sulle proposte in discussione (forse), ma anche sui danni fisici e psicologici della privazione affettiva e sessuale, sul senso del tempo dell’affettività reclusa e, in concreto, come si progettano e realizzano gli spazi degli affetti dentro un luogo di detenzione.

Da leggo.it il 24 Maggio 2022.

Sesso in carcere per i detenuti: i ministri della Giustizia e dell’Economia hanno approvato lo stanziamento di 28 milioni di euro che servirà alla nuova legge sulle “relazioni affettive dei detenuti. La proposta va nella direzione di riservare stanze specifiche nelle carceri per consentire ai detenuti - sono oltre 50mila quelli presenti nelle carceri della Puglia - di fare sesso con le persone esterne. Un'ipotesi che fa discutere e contro la quale si è già schierato il Sappe (Sindacato Autonomo della Polizia Penitenziaria). «Gli agenti di polizia penitenziaria non sono dei guardoni di Stato. Meglio i permessi premio» tuona Donato Capece, segretario del Sappe.

La protesta: «I nostri agenti non sono guardoni di Stato»

"Ciclicamente, viene fuori la proposta di destinare stanze o celle in carcere per favorire il sesso ai detenuti. Noi ribadiamo quel che diciamo da tempo, con fermezza ed altrettanta chiarezza: per il SAPPE, i nostri penitenziari devono assicurare il mandato costituzionale dell’esecuzione della pena e i nostri Agenti di Polizia Penitenziaria non devono diventare ‘guardoni di Stato! - si legge nella nota - Il sesso in carcere è una proposta inutile e demagogica, che offende anche chi ha subìto un reato anche molto grave.

Si ricorra, piuttosto, alla concessione di permessi premio a quei detenuti che in carcere si comportano bene, che non si rendono cioè protagonisti di eventi critici e che durante la detenzione lavorano e seguano percorsi concreti di rieducazione. E allora, una volta fuori, potranno esprimere l’affettività come meglio credono”.

La vera emergenza? «Episodi di violenza e atti di autolesionismo»

“Altri sono gli interventi urgenti per fronteggiare la costante situazione di tensione che si vive nelle carceri italiane: Nel 2021 abbiamo contato nelle carceri italiane 11.295 atti di autolesionismo, 1.669 tentati suicidi sventati in tempo dalla Polizia Penitenziaria, 8.063 colluttazioni, 1.087 ferimenti: numeri altissimi, i più alti degli ultimi vent’anni. E sorveglianza dinamica e regime penitenziario aperto sono stati concausa di questo pazzesco numero di eventi critici, questa folle spirale di tensione e violenza che ogni giorno coinvolge, loro malgrado, appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria nelle carceri italiane, per adulti e minori. Sospendiamo allora vigilanza dinamica e regime aperto se i detenuti non lavorano, non studiano o non sono impegnati in altre attività”.

Il dibattito sul diritto all’affettività per i detenuti. Abusi in carcere, sesso in cambio di abiti e vino: “Celle dell’amore come in Spagna”. Viviana Lanza su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

Il sindacato di polizia penitenziaria S.p.p lancia un allarme sugli abusi sessuali all’interno delle carceri dopo il caso del detenuto violentato da due compagni di cella nel carcere di Regina Coeli a Roma. «La regione che sembra avere il numero più alto di violenze è la Campania con 20 casi denunciati all’anno, seguita dalla Sicilia con 14 casi», si legge nella nota diffusa dal segretario generale del sindacato, Aldo Di Giacomo, in cui si fa riferimento a una percentuale di denunce comunque bassissima rispetto alla realtà. «Forse solo l’1% delle violenze sessuali in carcere viene denunciato», perché per paura di ritorsioni o per vergogna in molti altri casi si subirebbe invece in silenzio. «Le conseguenze per i detenuti che subiscono violenza – aggiunge Di Giacomo – sono devastanti soprattutto a livello psichico sino a tentativi di suicidio e altre forme di autolesionismo». Il sindacato denuncia, inoltre, episodi di sesso in cambio di abiti, di vino, di droga, di merce varia all’interno delle celle e segnala la necessità di «rivedere il sistema della sorveglianza dinamica». Insomma uno scenario a tinte molto fosche.

In Campania il garante regionale e quello cittadino dicono di non aver mai ricevuto personalmente segnalazioni su violenze di questo tipo da parte dei reclusi a cui fanno visita periodicamente nei vari istituti della Campania, tuttavia non negano che esista, nelle carceri, un problema legato alla gestione dell’affettività e della sessualità. «In carcere la violenza è sempre esistita», afferma Pietro Ioia, garante cittadino con un passato da detenuto. «In carcere viene consentito ai trans di accoppiarsi con i fidanzati detenuti, non vedo quindi perché non si possa consentire anche agli altri detenuti di vivere momenti di intimità con le proprie mogli – aggiunge Ioia – Nessuno finora mi ha mai raccontato di essere stato prelevato con la forza e costretto a subire atti sessuali, in tal caso avrei denunciato senza esitare». «Che esista poi un problema legato alla sessualità questo sì, posso confermarlo – aggiunge – Così come non stento a credere che possano verificarsi atti di violenza perché nelle carceri italiane non c’è affettività». In Spagna e in altri PAesi europei invece sì. Ioia ha vissuto in prima persona l’esperienza del carcere spagnolo dove l’affettività è un diritto riconosciuto ai reclusi.

«Quando ero detenuto in Spagna avevo la possibilità di incontrare mia moglie una volta al mese per quattro ore. Era una possibilità riconosciuta a tutti i detenuti e veniva tolta se non si aveva una buona condotta – racconta Ioia – Questo dava al detenuto un incentivo positivo, perché si viveva aspettando il giorno dell’incontro con la propria moglie. Questi incontri avvenivano nelle stanze di un padiglione allestito come una specie di albergo. Si avevano quattro ore a disposizione per vivere gli affetti, la propria intimità, senza essere disturbati. Ed era una cosa naturalissima». «Del resto – aggiunge – anche gli animali in cattività possono accoppiarsi. Non capisco perché quando si parla di questo argomento con riferimento al carcere ci sono tanti tabù». Gli ostacoli, di fatto, non sono soltanto logistici, benché nelle carceri ci sia una tale carenza di spazi che sarebbe complicato immaginare luoghi dedicati esclusivamente all’intimità dei reclusi, ma sono soprattutto culturali. «È ancora diffusa la cultura in base alla quale il detenuto non deve vivere alcun affetto – spiega il garante cittadino -, invece sarebbe una soluzione a tanti problemi e consentirebbe al detenuto di essere più tranquillo psicologicamente. L’ho sperimentato in Spagna, lì non c’erano mai episodi di violenza di nessun genere».

«Non serve mettere sotto accusa la vigilanza dinamica, il sistema delle celle aperte, la mancanza di personale – sottolinea il garante campano Samuele Ciambriello – È una violenza tenere tante persone in una stanza, bisognerebbe stigmatizzare la convivenza coatta di decine di persone e denunciare il fatto che ai detenuti non si consente di vivere una sessualità libera né alcuna relazione affettiva con i propri cari». «Inoltre – aggiunge – i dati dicono che nelle carceri della Campania ci sono attualmente più persone accusate di femminicidio che di omicidio, questo indica che si vivono le relazioni in maniera tossica e alterata già fuori, nel mondo dei cosiddetti normali. Quindi non è la vigilanza sulla socialità a incidere sui casi di abusi e violenze». Del resto anche lo stesso Di Giacomo, come segretario del sindacato di polizia penitenziaria, sottolinea che il fenomeno delle violenze sessuali in carcere ha come vittime detenuti che subiscono dai compagni di cella.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Franco Bechis per “Verità&Affari” il 21 maggio 2022.

All'improvviso il via libera è arrivato in contemporanea sia dal ministero della Giustizia che dal ministero dell'Economia e delle finanze. Grazie allo sblocco di Marta Cartabia e Daniele Franco ora ci sono i 28,3 milioni di euro che serviranno alla nuova legge sulle “relazioni affettive dei detenuti” che potrà marciare spedita in commissione giustizia del Senato. 

La somma è importante, e certo sarà difficile capirne l'urgenza nel bel mezzo di una guerra in Europa, con imprese italiane e cittadini che soffrono la crisi energetica che ne è derivata e il PNRR che sta mostrando tutti i suoi limiti e lentezze.

Ma evidentemente anche per il governo di Mario Draghi è importante in questo momento pensare alle relazioni affettive dei detenuti. Ed è un pensiero costoso a luci rosse. Perché l'ok che si sta dando è a un provvedimento che punta già nel 2022 a porre un prefabbricato (tipo quelli in cui vivono ancora i terremotati del centro Italia) all'interno di una casa circondariale in ogni regione, ristrutturando rapidamente ove già esistano alcuni fabbricati trasformabili in appartamento.

Venti casette dell'amore entro fine anno, perché questa sarà la loro funzione: ospitare detenuti in regime di carcerazione duro e che quindi non possano godere di permessi premio, fino a un massimo di 24 ore consecutive al mese per fare sesso con la propria consorte, fidanzata, amante (anche per quella sola notte) ammessa per questo motivo alla visita nella casa circondariale.

Con tutto il rispetto per le relazioni familiari stabili e la loro esigenza di carnalità, più che una casetta in ogni carcere dunque arriverà qualcosa di più simile a un casino, perché la sua funzione principale era proprio quella esercitata nelle case chiuse prima della legge Merlin. Nel “modulo abitativo” (così viene definito dal ministero Giustizia) infatti potranno esserci in contemporanea tre detenuti con la propria o il proprio partner. Il costo 2022 dell'operazione è 3,6 milioni di euro nel 2022 cui però si aggiungeranno altri 24,7 milioni di euro in un biennio per pagare 100 casette nuove e ristrutturare allo scopo altri 90 fabbricati esistenti in tutte le altre 190 carceri italiane.

Nella relazione tecnica il governo scrive che “nell'ambito del panorama italiano lo strumento attraverso il quale meglio si realizza la soddisfazione dei bisogni affettivi e sessuali del detenuto e attualmente ancora quello del permesso premio, di cui all’art. 30 ter O.P., che la legge prevede anche al fine di coltivare interessi affettivi. Tale beneficio, tuttavia, non costituisce una soluzione al problema, non essendo fruibile dalla generalità dei detenuti: esso infatti e riservato ai soli condannati che si trovino nelle condizioni descritte dalla legge”.

Il testo che ora si sblocca dunque innova e ha come suo fine “garantire l’esercizio del diritto all’affettività e alla sessualità dei soggetti in stato di detenzione conformandosi agli indirizzi europei richiamati (…) indirizzi che trovano nel dettato costituzionale riconoscimento e forza nel riferimento al diritto alla salute e al suo mantenimento garantito dall’articolo 32 della Costituzione, considerando che la salute psico-fisica viene compromessa da forzati e prolungati periodi di astinenza sessuale”.

Per risolvere questa astinenza dunque si procede con la costruzione dei “casini” dell'amore, e via con i 28,3 miliardi che sbloccano ora un testo all'esame del parlamento su corsie preferenziali, ma che porta la firma del consiglio regionale della Toscana dove fu approvato fra lunghe battaglie del centrodestra dal solo Pd che da quelle parti però ha la maggioranza assoluta.

Il caso a regina Coeli. Detenuto stuprato, come si può prevenire la violenza in cella. Stefano Anastasia su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Un’altra terribile notizia che non avremmo voluto avere da un istituto penitenziario: la violenza sessuale di cui è stata vittima una persona detenuta nel carcere romano di Regina Coeli ad opera di due suoi compagni di stanza. Una persona – come ha sottolineato il Garante nazionale dei detenuti – che peraltro non avrebbe dovuto essere lì, essendo prossimo alla fine della pena per reati non ostativi e che quindi avrebbe potuto essere in misura alternativa alla detenzione. Se le alternative alla detenzione non si possono avere neanche a tre mesi dal fine pena, allora diciamolo che c’è anche qui un doppio binario, tra quelli che in alternativa ci vanno dalla libertà e quelli che in galera ci devono stare fino all’ultimo giorno, mostrando platealmente il fallimento dell’ideale rieducativo in quella pena scontata fino all’ultimo giorno in carcere.

Il Sindacato autonomo della polizia penitenziaria mette ancora una volta sotto accusa il sistema di vigilanza dinamica con le sezioni a stanze aperte vigente a Regina Coeli, e la carenza del personale. A parte che, se è vero che gli aggressori erano compagni di stanza dell’aggredito, la chiusura in stanza dei detenuti sarebbe stato ancora peggio per la vittima, se il problema fosse quello reale della carenza del personale sarebbe come a dire che la violenza è colpa del sovraffollamento, problema anch’esso reale, ma che nulla c’entra con il fatto commesso e la violenza perpetrata. In realtà il grave fatto di ieri apre uno squarcio su un aspetto del mondo della detenzione troppo spesso rimosso: la convivenza coatta di decine di persone private (tra le altre cose) di una sessualità libera e consapevole. Certo la possibilità di avere una vita sessuale libera, attraverso incontri riservati con il/la propria/o partner, non avrebbe cambiato la cultura predatoria della sessualità che le due persone denunciate probabilmente hanno, come quella che tanti di noi, maschi italiani, mostriamo ogni giorno fuori dal carcere, in abusi, violenze e relazioni affettive tossiche che arrivano fino a quell’impressionante numero di femminicidi da anni registrati nel nostro Paese (mentre diminuiscono a livelli mai raggiunti prima gli omicidi per altre cause).

La cultura predatoria della sessualità non si cancella né con una legge repressiva fuori, né con una legge permissiva dentro il carcere, ma se la sessualità in carcere uscisse dal cono d’ombra in cui è nascosta e repressa, sarebbe più facile prevenire ed evitare la sessualità coatta e violenta dentro le comunità dei ristretti. È tema antico, ormai, quello della sessualità in carcere, affrontato e risolto in molti Paesi europei, ma che qui da noi resta soggetto a un tabù perbenista. Dopo una norma di regolamento cassata per motivi formali vent’anni fa dal Consiglio di Stato, una sentenza della Corte costituzionale e le proposte degli Stati generali dell’esecuzione penale, se ne discute in Senato, su iniziativa del Consiglio regionale della Toscana, cui si è aggiunta un’analoga proposta di quello del Lazio. Perché non dargli seguito in quest’ultimo scampolo di legislatura? Stefano Anastasia

Il dramma degli stupri in carcere: una legge sull’affettività può limitarli. Quello di Regina Coeli è solo l’ultimo episodio. L’ultimo studio risale al 2010 e rileva che erano 3.000 ogni anno. Tante le iniziative legislative, l’ultima della Conferenza dei garanti presentata in Parlamento dal Lazio. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 22 aprile 2022.

Ristretto nel carcere di Regina Coeli, secondo quanto ricostruito, un uomo di sessant’anni sarebbe stato abusato da due giovani compagni di cella mentre tutti e tre si trovavano isolamento in quanto positivi al Covid-19. La procura ha aperto l’inchiesta, mentre il sindacato di polizia penitenziaria Sappe approfitta per dare la colpa alla sorveglianza dinamica che però c’entra ben poco.

L’ultimo dato utile sugli stupri in carcere risale al 2010

Si tratta dell’ennesimo caso riguardante un tema poco affrontato: gli stupri in carcere. Non esistono dati ufficiali sulla violenza sessuale dietro le sbarre, l’ultimo dato utile risale addirittura nel 2010, ricavato da una associazione sui diritti umani che si chiamava “EveryOne”. In quell’anno, risultata che lo stupro e la schiavitù sessuale sono stati la concausa del 40 per cento dei suicidi in carcere. Lo studio ha rilevato che erano 3.000 i casi di stupri in carcere ogni anno. I casi non vengono sempre denunciati, e le strutture mediche carcerarie non sono adibite al controllo dei sintomi come abrasioni anali o rettali. Non vengono fatte visite specifiche. Non solo. La mancanza di educazione sessuale e l’assenza di strumenti di prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale – in primis, i preservativi – hanno causato il proliferare di infezioni sessualmente trasmissibili, dall’epatite all’HIV.

Ma ritornando agli stupri in carcere, una soluzione per aiutare a limitare o a contenere i casi di stupro o schiavitù sessuale è da ritrovarsi nella legge – mai ancora approvata – sul diritto all’affettività in carcere. Nel 2015, grazie alla proposta di legge presentata dal deputato del Pd Alessandro Zan sembrava fatta. Invece rimase congelata alla Commissione Giustizia. Poi c’è stata la volta degli Stati generali dell’esecuzione penale che, grazie al tavolo 6 coordinato da Rita Bernardini del Partito Radicale, è stata elaborata una proposta sul riconoscimento e all’esercizio del diritto all’affettività del detenuto. Attenzione. La definizione è molto ampia relativamente al termine affettività: non si tratta solo di rapporti sessuali con mogli, mariti e fidanzati, ma la possibilità di veder rispettato il diritto alla territorializzazione della pena, i permessi, aumentare i colloqui sia visivi che telefonici. Non è solo il sesso, dunque, ma la necessità di garantire ai detenuti la possibilità di passare del tempo con la famiglia come una qualsiasi persona fuori dal carcere. Ma tutto questo non è stato poi recepito dalla riforma dell’ordinamento penitenziario, rimasta tutto incompleta.

Il tema della sessualità, però, è una parte importante dell’uomo e della donna, e deve essere quindi espressa. Una legge che contempli tale diritto, potrebbe far venir meno un elemento di tensione e quindi limitare i casi di stupro. L’ Italia, però, rimane uno dei pochi paesi in Europa (tale diritto esiste in 31 stati su 47 componenti del Consiglio d’Europa) che non prevede alcuna disposizione in merito all’affettività in carcere. Eppure, ricordiamo, che c’è l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo dove stabilisce il “diritto di stabilire relazioni diverse con altre persone, comprese le relazioni sessuali”; “il comportamento sessuale è considerato un aspetto intimo della vita privata”.

C’è anche il diritto di creare una famiglia, stabilito dall’articolo 12 della stessa Convenzione. Il consiglio dei Ministri europeo ha raccomandato agli Stati membri di permettere ai detenuti di incontrare il/la proprio/a partner senza sorveglianza visiva durante la visita. (Raccomandazione R (98)7, regola n. 68). Anche l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha raccomandato di mettere a disposizione dei detenuti dei luoghi per coltivare i propri affetti (Raccomandazione 1340 /1997 relativa agli effetti della detenzione sui piani familiari e sociali). Inoltre, si è stabilito che questi luoghi per la vita familiare debbano essere accessibili a tutte le persone incarcerate e per tutti i tipi di visite: coniuge, figli e tutte le persone con permesso di visita, senza alcuna discriminazione (Consiglio d’Europa: Raccomandazione R (98)7 relativa agli aspetti etici e organizzativi nei luoghi di detenzione Consiglio dei Ministri).

Da più di due anni c’è l’ennesimo disegno di legge, questa volta elaborato dalla Conferenza dei Garanti

Oramai più di vent’anni fa, in un articolo intitolato “Il sesso del prigioniero mandrillo”, Adriano Sofri l’aveva spiegato bene che «la privazione sessuale non ha bisogno neanche di essere presa in conto nei codici, nominata nei regolamenti, per essere imposta come costitutiva della prigionia. Essa appartiene alla necessaria afflizione: di più, essa è il cuore dell’afflizione. Tutto ciò ha fatto dimenticare che la privazione sessuale è una barbarie che si aggiunge alla privazione della libertà e al dolore: e fa apparire l’ipotesi della possibilità regolata di una relazione sessuale come un cedimento spericolato e lussurioso fatto al piacere, cioè alla peccaminosa superfluità, dell’animale umano in gabbia. Vi si svela il fondo sessuofobico di ogni reclusione e di ogni castigo». Da oramai più di due anni c’è l’ennesimo disegno di legge, questa volta elaborato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. È stato sottoposto ai consigli regionali perché lo portassero in Parlamento. Detto, fatto. L’ultima in ordine di tempo è stata la regione Lazio. Naufragherà anche questa legge?

"Ho imparato un mestiere grazie a un’associazione, non certo allo Stato che non esiste". Raffaele, da rapinatore a pizzaiolo: “Ho rivisto la luce, in carcere ci facevano fare tanti corsi, fuori ci abbandonano”. Francesca Sabella su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Un figlio non voluto. Raffaele Criscuolo nasce in una famiglia che non lo aspettava con il fiocco azzurro tra le mani, cresce solo e ben presto l’azzurro che vede è quello del mare del golfo di Nisida. Lui è dietro le sbarre. Rapina. Entra ed esce dal carcere. Raffaele oggi ha 26 anni e due vite: prima e dopo Nisida.

Raffaele, tu hai conosciuto la realtà del carcere da adolescente. Come sei finito in cella?

«Nasco ai Quartieri Spagnoli in una famiglia che non mi voleva. Mia madre aveva già un figlio ed era giovanissima. Mio padre non voleva assolutamente un secondo figlio, cioè non voleva me. Loro si lasciano e lui ci abbandona. Così andammo a vivere con i nonni materni, mia mamma non era in grado di mantenerci e garantirci un tetto sopra la testa. Ma mentre mio fratello è sempre stato il prediletto ed erano tutti in prima linea per lui, io mi sono sentito sempre abbandonato: ero un figlio unico senza genitori e senza nonni. Né mia madre né i miei nonni si accorgevano se tornavo a dormire a casa o passavo la notte in strada. La mattina andavo a scuola e vedevo tutti i bimbi mano nella mano con i genitori e io andavo da solo, ero sempre solo, questi eventi mi hanno segnato la vita. Tutto nella vita si supera ma niente si cancella, ancora oggi combatto con questi pensieri, con questi ricordi e mi chiedo il perché?»

Quel vuoto lo riempi con “cattive amicizie” e la solitudine ti è stata quasi fatale…

«Sì, è così. Inizio a frequentare cattive amicizie e a entrare in brutti giri già a 13 anni. Volevo che si accorgessero di me, volevo dare un segnale per dire: ci sono anche io, esisto. Ho scelto il modo sbagliato per dimostrare la mia esistenza: iniziai a rubare. Iniziai a commettere i primi reati, la prima rapina la feci quasi per gioco, poi continuai a rubare perché non volevo chiedere soldi alla mia famiglia, mi sentivo rifiutato, abbandonato a me stesso. Non avevo nessuna guida, ero solo».

Vieni arrestato e portato a Nisida, mi racconti la tua esperienza nel carcere minorile?

«Pensavo solo alla mia libertà. Da Nisida potevo vedere il mare, ma non potevo toccarlo, vedevo volare un gabbiano ed io ero rinchiuso in una gabbia. Pensavo sempre a quello che avevo fatto ma purtroppo quando sei in carcere pensi “non ci rientrerò mai più” ma ti prendi in giro, appena esci ti ritrovi come prima e torni a delinquere. Perché Nisida più che un istituto è una scuola criminale. A Nisida ho fatto altre “brutte” amicizie, ho conosciuto persone poco raccomandabili e ho iniziato perfino a fumare le canne, cosa che fuori non avevo mai fatto. A Nisida ci entri per sbaglio ma esci da lì che hai una professione. Vieni promosso. Vieni assunto in una scuola criminale, così non ho fatto altro che peggiorare».

Perché hai questa opinione del carcere minorile?

«Perché non è normale che una volta arrestato e portato a Nisida, hanno iniziato a farmi fare mille corsi: corsi di ceramica, corsi per diventare pizzaiolo o barman. Perché questi corsi non si possono fare prima? Perché non ci danno la possibilità di scegliere prima di commettere un reato? Invece no, prima vieni arrestato e dopo ti fanno fare i corsi e ti fanno conoscere un’alternativa. Accorgetevi prima di noi che siamo a rischio e in difficoltà, prima che arriviamo in carcere. E invece in quartieri degradati non c’è niente. Mancano centri sociali e culturali, ci sono le associazioni ma è tutto un dare e avere per interesse, ci sono poche associazioni che lo fanno con il cuore e davvero per i giovani».

Cosa è successo, invece, quando hai lasciato il carcere di Nisida?

«Dopo un anno e qualche mese, esco con una pena sospesa, dopo cinque mesi di libertà ero di nuovo dentro. Sono stato arrestato di nuovo».

Perché hai commesso di nuovo un reato?

«Perché quando sono uscito nessuno mi ha seguito. Mi hanno preso e buttato letteralmente per strada, non era cambiato niente, ero libero e solo, padrone di sbagliare ancora. Questa cosa la trovo assurda, gli assistenti sociali dovrebbero seguirti anche dopo, finito il programma carcerario se è opportuno, devono continuare a seguirti e devono lasciarti solo quando sei una persona avviata, inserita nell’ambiente lavorativo, quando sei arrivato a certi livelli di coscienza e di sapere, quando sei parte integrante della società. Solo allora deve terminare il percorso iniziato in carcere. Ma se mi porti a Nisida, mi fai fare cento corsi e poi mi lasci solo, non cambia nulla. Io uscii un giorno prima di iniziare il corso da barman, esco e chiedo di poterlo seguire lo stesso, mi hanno detto che non era possibile. Così iniziai a lavorare nella pasticceria dei miei nonni, ma continuavo a sentirmi rifiutato. Dopo qualche mese ero di nuovo in carcere».

Poi la svolta.

«Sì. Sono stato in tv, il dottor Catello Maresca ascoltò la mia storia, mi cercò e tramite la sua associazione mi offrì di fare un corso da pizzaiolo. Accettai. Così imparai un lavoro, oggi faccio il pizzaiolo».

Tu sei riuscito a cambiare strada, cosa diresti a un ragazzo che non riesce a vedere che un’altra vita è possibile?

«Gli direi che oggi ciò che lo nutre, lo distruggerà. Gli direi di dedicare più tempo a sé stesso, di amarsi di più. E poi vorrei dirgli che non è vero che se nasci a Napoli non hai scelta, è dura ed è difficile ma volendolo un’alternativa c’è. Un’altra strada è possibile».

E allo Stato cosa diresti?

«Che la sua assenza è fortissima, che si dovrebbe impegnare molto di più nei quartieri difficili. E soprattutto gli direi che deve essere in grado di offrire un’alternativa ai ragazzi che non vanno a scuola, e che non hanno un lavoro, gli direi di sistemare le strutture sportive e i parchi, e di realizzare centri sociali e culturali. La dispersione scolastica e la disoccupazione sono alle stelle, così impugnare un’arma e fare una rapina diventa spesso l’unica strada per sopravvivere».

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Storia di Flavio Patriarca, dal carcere Beccaria alla laurea in Legge con 110 a Milano: «E ora sogno la politica». Federica Cavadini su Il Corriere della Sera il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.  

Mostra la foto della laurea e inizia così a raccontare la sua storia che poi sono due e una inizia dove finisce l’altra. La storia dell’adolescente che entra al Beccaria perché comincia a commettere reati finché una giudice non firma un ordine di custodia cautelare e lo ferma, e la storia del giovane neolaureato in Giurisprudenza che ha scelto di studiare per diventare avvocato dopo il passaggio in carcere e in comunità ed è andato spedito fino al giorno del diploma, 21 aprile, all’università Cattolica.

Cinque anni di studi: voto 110

«Sono uscito con 110 e in cinque anni», dice con orgoglio Flavio Patriarca, 25 anni, da una settimana praticante in uno studio legale. Nella foto è in primo piano e con lui c’è chi lo ha traghettato dalla prima alla seconda storia. C’è Claudia Mazzucato, relatrice della sua tesi sulla giustizia riparativa: «L’incontro che mi ha cambiato la vita — dice emozionato —. Con il suo supporto e la sua umanità ha incarnato lo spirito più alto dell’insegnamento». Silvia Sacerdote, assistente sociale: «Ha sempre avuto per me le parole giuste». Rosanna Calzolari, giudice: «La intervistai per la tesina di maturità sulla “messa alla prova” che avevo superato da poco». Marilena Chessa: «La giudice che mi ha seguito nel programma fino all’estinzione del reato». E Anna Zappia: «Fu lei a firmare l’ordinanza di custodia cautelare in carcere».

La storia di Flavio Patriarca

Era il 2013. Nove anni dopo Flavio Patriarca, che vuole diventare penalista «e sogno anche un futuro in politica» decide di raccontare tutta la storia: «La conoscono in pochi. Qualcuno mi giudicherà ma voglio dare speranza a chi si trova in situazioni difficili». «Si può cambiare — ripete più volte —. Dipende dalle persone che incontri. Tante mi hanno trasmesso fiducia e stima e c’erano tutte il giorno della laurea». È arrivato il preside del liceo Fermi, Giuseppe d’Arrigo: «Scrisse una bella lettera per farmi uscire dal Beccaria ed entrare in comunità e permettermi di andare a scuola». E il responsabile della comunità Arimo, Alberto dal Pozzo: «Sempre vicino». E l’avvocato Sergio Nesti: «È stato per me anche educatore». «Tutti insieme — dice guardando la foto — abbiamo attuato l’articolo 27 comma 3 della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena».

Avere 15 anni alla Barona

Il suo percorso, dall’adolescenza nel quartiere Barona, Patriarca lo ha raccontato nelle scuole superiori e ai detenuti di Opera. «Spiego come ci si può perdere e poi ritrovare. Avevo 15 anni, cercavo figure e ambienti che sembravano affascinanti, volevo soldi facili, così sono finito in carcere. Sono ripartito grazie a chi mi ha dato fiducia. Sono cambiato, ho capito che è ingiusto creare sofferenza agli altri». Poi la scelta di studiare legge. «Al Beccaria e in comunità ho visto giovani con vite rovinate. Ho sentito la responsabilità di provare a cambiare le cose e mi impegnerò per costruire un sistema giuridico migliore». Dice ancora che il suo messaggio è anche «per chi ha un figlio, o fratello come ero io a quindici anni»: «La famiglia mi è sempre stata vicina, senza giudicare e senza chiedere. Zia Marcella aveva 90 anni e mi scriveva in carcere, solo parole di conforto e nessuna domanda. Senza loro non sarei arrivato sin qui».

Quarta laurea e 110 e lode per il salentino Giuseppe Perrone, all'ergastolo per omicidio. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Maggio 2022.

Giuseppe Perrone nel giorno della discussione della sua quarta laurea. Il 56enne di Trepuzzi, da trent'anni in carcere, l'ha discussa all'università Tor Vergata di Roma grazie a un permesso speciale.

Da ergastolano a dottore. Giuseppe Perrone, 56 anni di Trepuzzi, in carcere da trent'anni con l'accusa  di omicidio, si è laureato per la quarta volta.

Il 23 maggio scorso, proprio nel giorno della strage di Capaci, si è laureato all'università Tor Vergata di Roma in «Editoria e comunicazione» con la tesi «Gli abissi di una pena: a partire da Primo Levi». Un'emozione per lui. Ottenuto un permesso speciale l'ha discussa in presenza ottenendo il massimo dei voti, 110 e lode. E per la prima volta ha potuto avere accanto a sé la moglie.

Quello di Perrone è stato un percorso di riscatto e riconciliazione con la vita. Arrestato nel 1993 e condannato all’ergastolo nel 1996, per un omicidio del quale si è sempre dichiarato innocente, Giuseppe, ritenuto vicino alla Sacra corona unita, con lo studio ha cercato di dare un senso ai suoi giorni dietro le sbarre. Prima cinque anni in regime di 41 bis sull'isola di Pianosa, poi il trasferimento nel carcere di San Gimignano e la passione per il teatro e la pittura. E naturalmente lo studio.

In carcere Giuseppe Perrone ha conseguito il diploma di maturità commerciale, poi è arrivata la laurea in «Istituzioni di Regia» al Dams di Bologna con una tesi dal titolo «L'impiccato parlante», e successivamente la specializzazione in «Discipline Teatrali». Ha sostenuto anche alcuni esami di Teologia, all'università di Parma, ma la terza laurea è quella di Lettere e filosofia all'università di Bologna. Pochi giorni fa quella in «Editoria», nella Capitale. Un  motivo di orgoglio non solo per Perrone e per la sua famiglia ma anche per lo stesso Ateneo che ha istituito un programma specifico «Università in carcere» che favorisce proprio l'avvicinamento della popolazione carceraria allo studio.

Giuseppe è il fratello minore di Antonio Perrone, recentemente scomparso, ritenuto boss della Scu e protagonista del film «Fine Pena Mai» di Davide Barletti e Lorenzo Conte, con Claudio Santamaria nei panni di Antonio Perrone. Il racconto della sua vicenda è anche un documentario, «Diario di uno scuro».

La testimonianza. Io non sono il mio reato, non sono il male che ho fatto. Giuseppe Perrone su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

La mia storia detentiva è lunga trent’anni, per questo va raccontata “bene”. Comincio dall’ultimo capitolo, perché sia nota non più e solo la mia biografia criminale, bensì la biografia culturale, famigliare e delle mie relazioni umane. L’identità di una persona non è un monolite. Non siamo statue di sale, immutate e immutabili socialmente o geneticamente. So bene che conta “chi sono stato”, ma credo valga la pena scoprire anche chi sono diventato, e se rappresento ancora un pericolo per la società. In fondo è questo ciò che conta. Il nostro ordinamento giuridico è laico, non moralistico e le carceri non sono istituti di correzione. È opportuno che uno abbia una sua moralità, ma ai fini della libertà non è la morale a fare la differenza. Per essere arrestato devo commettere un reato, per riottenere la libertà devo smettere di commettere reati. Bene! Io non commetto reati da trent’anni. Ho sradicato ogni rapporto con gli ambienti criminali. Non mi passa per l’anticamera del cervello riprendere l’attività delinquenziale. E ripudio ogni forma di violenza in piena sintonia con lo spirito dei laboratori Spes contra Spem di Nessuno tocchi Caino.

È da qui che inizia la mia nuova vita: dalla nonviolenza, dalla legalità, dalla cultura. Nel dicembre 2021, Castelvecchi ha pubblicato un mio romanzo, Sofia aveva lunghi capelli. Per il critico Filippo La Porta è “scritto in una lingua tesa, vibrante, sia riflessiva che fortemente narrativa”. Andrebbe letto per capire che la sofferenza è il viatico molecolare della resipiscenza. Scrivere è la mia passione. La pubblicazione di un libro è un fatto culturale, legale e sociale importante che andrebbe forse considerato nelle decisioni inerenti al mio destino. Alla scrittura unisco la creatività. Ho ideato due giochi di società, non ancora pubblici. Ho quattro lauree e sono titolare di borse di studio. Dal carcere, essere l’82° in graduatoria nell’Ateneo bolognese non è scontato. È frutto della tenacia con cui mi sono dedicato allo studio: otto, dieci, dodici ore al giorno indicano un isolamento detentivo volontario. Ho praticamente consumato il culo sullo sgabello dell’amministrazione, consapevole che la cultura mi avrebbe liberato dalla croce della pena, anche fisica, e mi avrebbe risvegliato la mente… assopita dal male di pensieri e azioni non “banali”.

Dopo la prima laurea, nel 2007, al DAMS di Bologna, l’Alleanza Assicurazioni mi offrì un lavoro, ma allora non mi si volle dare fiducia. Nel 2009, per la seconda laurea, il magistrato di sorveglianza di Parma mi ha concesso un permesso di necessità di due giorni, libero nella persona e affidato a Don Umberto Cocconi. Scaduto il permesso, sono rientrato in carcere. Quel permesso non è caduto dal cielo. La manna, nella mia riabilitazione, non è mai esistita. Proprio come Adamo, per aver “peccato”, ogni frutto mi è costato sacrificio. Il parere favorevole a esperienze di permesso premio non è stato improvvisato. Prima di esprimersi, il carcere mi ha assegnato per un anno alle cure della criminologa. Adesso sto a Rebibbia. Nonostante siano passati trent’anni, ho una moglie che mi ama e siamo genitori di un bambino che non abbraccio dall’inizio della pandemia. Quanta sofferenza in questa assenza. Con Sonia abbiamo deciso di non far entrare più in carcere il bambino, sperando in un beneficio che invece mi è stato negato, malgrado l’ottimo percorso rieducativo. Il 23 marzo scorso, la direttrice Rosella Santoro aveva proposto che io presenziassi a un evento all’Università di Tor Vergata, ateneo nel quale mi sono laureato. Il magistrato di sorveglianza ha prima approvato la proposta, poi ha cambiato idea. Saputo dell’approvazione, Sonia ha preso le ferie, ha comprato i biglietti del treno Lecce-Roma, ha prenotato l’albergo e “preparato” il bambino dicendogli che “sarebbero andati da papà”. Col diniego tutto è svanito. Inevitabile il danno affettivo del bambino, non dico di mia moglie.

Ho scontato 40 anni tra liberazione anticipata e indulto. Nel mio curriculum universitario si contano 80 esami e uno splendido rapporto umano con professori e tutor. In quello teatrale molti spettacoli e la partecipazione al film Rebibbia Lockdown di Fabio Cavalli. Ho seguito un corso di giornalismo. Ho partecipato al laboratorio di pratica filosofica. Sono autore con altri delle seguenti opere: La ferita della pena e la sua cura; Naufraghi in cerca di una stella; Parola e rappresentazione nel teatro antico; Il Senso della Pena. È vero che ho l’ergastolo e che alla collaborazione esteriore con la giustizia ho preferito la strada lunga del cambiamento interiore. Questa categoria del cambiamento dà frutti che non si possono raccogliere né subito né dopo, giacché il cambiamento è un processo inarrestabile che non finisce mai. Ho commesso reato, ma io non sono il mio reato. Ho fatto del male, ma io non sono il male. Giuseppe Perrone

Ergastolano ottiene la quarta laurea in trent'anni di reclusione. Permesso speciale per discutere la tesi a Tor Vergata. Biagio Valerio su La Repubblica il 28 Maggio 2022.  

Giuseppe Perrone protagonista negli anni '80 dell'ascesa della Sacra Corona in Salento, si è laureato in Editoria e Comunicazione. La tesi? “Gli abissi di una pena a partire da Primo Levi" e gli è valsa il massimo dei voti.

Entra in carcere da ergastolano ma se ne uscirà, prima o poi, sarà da umanista e letterato. Giuseppe Perrone, da trent’anni rinchiuso in una cella, consegue la quarta laurea. Questa volta in presenza, nell’ateneo di Tor Vergata, grazie ad un permesso speciale per discutere la tesi che è stato rilasciato per la prima volta in assoluto  nell'ateneo romano. 

Perrone, che oggi ha 56 anni, è originario di Trepuzzi, grosso centro del nord di Lecce, e come diversi suoi conterranei si trovò ad essere protagonista, negli anni Ottanta, nel turbine che portò ad affermarsi la cosiddetta “quarta mafia”, la Sacra corona unita.

È la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea. In carcere da 30 anni, Giuseppe si laurea nelle aule della Facoltà: la tesi dal titolo “Gli abissi della pena”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Maggio 2022. 

“Giuseppe Perrone da trent’anni in carcere, proprio nel giorno della strage di Capaci ottiene il permesso per discutere la sua tesi di laurea magistrale nel nostro Ateneo in Scienze della informazione, della comunicazione della editoria. È il momento della riconciliazione attraverso lo studio e la cultura. Questa è la parola chiave del lavoro di tesi.”. Così Fabio Pierangeli, associato di Letteratura italiana e Letteratura di viaggio contemporanea della Facoltà di Lettere a “Tor Vergata” ha raccontato la straordinaria storia di riscatto di un detenuto di Rebibbia che finalmente corona un sogno: la laurea.

Giuseppe si laurea il 24 maggio alle ore 15 con una tesi di laurea magistrale in Editoria dal titolo “Gli abissi della pena. A partire da Primo Levi”. Ha studiato sodo mentre era in cella grazie al progetto di “Tor Vergata” “Università in carcere”. L’attività formativa predisposta dall’Ateneo di Roma “Tor Vergata” all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia Nuovo Complesso, da oltre un decennio, va oltre la sola presenza all’interno del carcere: rende accessibile alle persone recluse un’offerta formativa universitaria e necessariamente apre un dibattito su questioni di ordine sociale, che vanno oltre la didattica. Interrogativi sul diritto allo studio, e di conseguenza sul diritto al lavoro.

La sua seduta di laurea avverrà nella sede dell’ateneo romano. Giuseppe infatti ha eccezionalmente ottenuto il permesso di discutere la tesi alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “Tor Vergata”. È un evento importante per l’ateneo, da momento che è la prima volta che viene rilasciato un permesso per una discussione di laurea presso l’università.

“Attraverso grandi pagine della letteratura, con un focus importante, su Primo Levi- ha detto il relatore Pierangeli, intervistato dall’Ansa – la tesi ricostruisce la metafora della detenzione. Ma non sono solo parole: Giuseppe Perrone, anche attraverso alcune poesie, ricostruisce la sua esperienza detentiva con profondità e ironia“.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Dal 41bis al 110 e lode: il traguardo di Alessio dopo un percorso ad ostacoli. Veronica Manca su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

Nessuno tocchi Caino, con il suo viaggio della speranza senza fine, ha appena fatto il giro delle carceri sarde. Per la prima volta dopo tanti anni è stato consentito di visitare anche le sezioni del 41-bis a Bancali e Badu e Carros. Un segno tangibile del corso che il Presidente Carlo Renoldi intende seguire nella amministrazione penitenziaria e del “carcere duro” dove nonostante tutto il cambiamento è possibile.

L’inferno dei regimi differenziati è il titolo del libro di Alessio, un detenuto al 41-bis, da oltre vent’anni, che lo scorso 10 maggio si è laureato in giurisprudenza, in diritto penitenziario, con una tesi dal titolo “I regimi differenziati nel sistema penitenziario”, ottenendo il massimo dei voti e la lode. Il merito è sicuramente dovuto alla straordinaria competenza e professionalità con cui il Polo Universitario Penitenziario dell’Università degli Studi di Sassari affianca gli studenti detenuti, anche quelli sottoposti al regime del 41-bis, con infinite e rigidissime preclusioni e, appunto, differenziazioni, come dice Alessio, all’esercizio del diritto allo studio. Una tra tutte, la gestione della seduta di laurea, il coronamento del percorso di studi.

La relatrice, la Prof.ssa Paola Sechi e tutta la commissione, istituita regolarmente, per la seduta di laurea, hanno dovuto assistere alla discussione in videocollegamento dal carcere di Bancali-Sassari, con il laureando invece presente nel diverso carcere di Milano-Opera. L’impegno del PUP e di tutti gli operatori penitenziari ha consentito il regolare svolgimento degli esami finali e della seduta di laurea: una impresa non facile dato che il detenuto, durante la sua espiazione pena al 41-bis e specie negli ultimi mesi, aveva subito diversi trasferimenti: dalla Sardegna a Parma, a Rebibbia, a Spoleto, a Novara, fino a Milano-Opera. 

Come racconta Maria Teresa Pintus, suo difensore e anche consigliera di Nessuno tocchi Caino, la storia di Alessio mette in luce tutte le difficoltà di gestione dei più elementari diritti delle persone ristrette al regime del 41-bis. Al detenuto non è consentito infatti avere diretto accesso con terze persone, siano esse anche tutor o docenti universitari. L’unico contatto consentito, che peraltro si svolge con le stesse modalità di incontro con i familiari (vetro divisorio a tutta altezza e citofono), è previsto in concomitanza degli esami finali e nelle discussioni, tutti momenti sempre vissuti rigorosamente in videocollegamento. Durante tutto il percorso di studi, quindi, il detenuto è lasciato a sé, privato di qualsiasi possibilità di un confronto con i propri docenti.

Allo stesso modo, per i libri e il materiale didattico: l’Avvocata Pintus evidenzia tutte le difficoltà di accesso di libri di testo e la preclusione di ingresso di materiale digitale, oltre all’assenza di supporti economici per l’acquisto – sempre e comunque per il tramite dell’Amministrazione penitenziaria – di libri e materiali. Nel caso di Alessio, anche grazie all’impegno dei docenti e del legale, si sono forniti gratuitamente, in comodato d’uso, tutti i materiali per gli esami, previa autorizzazione e controllo da parte della Direzione del carcere. Un vero e proprio percorso a ostacoli che, tuttavia, non ha impedito con determinatezza, professionalità e negli stretti limiti consentiti dalla legge, di perseguire, in cooperazione con l’Amministrazione penitenziaria, l’obiettivo dell’effettività del diritto allo studio. Veronica Manca

La scomparsa dell'attore e l'eredità che lascia. La lezione di Cosimo Rega, l’ex camorrista rinato in carcere: “La ricerca della libertà ci rende liberi”. Viviana Lanza su Il Riformista il 2 Settembre 2022 

«Ho capito che non esiste la libertà. Esiste la ricerca della libertà e questa ricerca ci rende liberi». Era la frase che amava ripetere nei suoi tour nelle scuole, ai dibattiti, durante ogni sua testimonianza. Cosimo Rega, ex camorrista, ex detenuto, ex ergastolano e attore, era l’esempio di come il carcere debba servire a riabilitare chi ha commesso un reato, non a sottoporlo a una reclusione fine a sé stessa quando non diventa addirittura inumana e degradante. Cosimo Rega è morto il 30 agosto. Aveva 69 anni e un passato che racchiudeva in sé più di una vita.

«Ho studiato, ho scritto, ho tradotto in napoletano Shakespeare e recitato. Ho portato sulle tavole del palcoscenico Eduardo De Filippo, Danti e tanti altri ancora. Ho avuto la fortuna e l’onore di far parte del cast di “Cesare deve morire” dei fratelli Taviani. Ero Cassio. L’arte, la cultura, l’amore dei miei, il dialogo con le istituzioni hanno completamente cambiato e schiarito i miei orizzonti. Ho la consapevolezza di cosa è il male, e di quello che ho inflitto», diceva. La sua storia ha colpito il magistrato Tullio Morello, attuale coordinatore del settore penale del Tribunale di Napoli. «Rega è morto da uomo libero e soprattutto rieducato. Una testimonianza (certamente rara) di quello che prevede la Costituzione sulla rieducazione dei condannati», commenta il giudice sulla sua pagina social. Al Riformista spiega: «Purtroppo il mondo del carcere interessa a pochi. Io l’ho conosciuto avendo iniziato la mia carriera da magistrato di Sorveglianza».

Funzione rieducativa della pena. «Quando lo Stato fa qualcosa in questa direzione i risultati ci sono – aggiunge Morello – Occorrono risorse per farlo e investimenti di tempo e di uomini». Originario di Angri, Rega trascorse l’ultimo periodo di reclusione nel carcere romano di Rebibbia e il teatro fu per lui la mappa verso il riscatto. «Non posso dimenticare – diceva di sé – di essere stato un camorrista. Oggi, guardandomi indietro, vorrei prendere quel ragazzo e dirgli di fermarsi ma non posso. E oggi è giusto che conviva con il rimorso delle mie azioni». Un rimorso trasformato in impegno, grazie a un percorso in carcere che è stato diverso da quello che viene invece riservato ai più. Un percorso di reale responsabilizzazione, di riscatto, di riabilitazione.

«La sua – dicono i referenti di Antigone – è stata una grande storia di emancipazione dalla criminalità e dal carcere. Lui è l’esempio che la cultura, il teatro sono più forti della camorra. In suo nome lotteremo perché sia sempre garantita a tutti una chance di recupero sociale». Attualmente solo il 33,61% dei detenuti è impegnato in attività lavorative e per attività che ammontano a circa 85 giorni all’anno per ciascun detenuto. Anche studio e percorsi di formazione non riescono a coinvolgere tutta la popolazione detenuta ma soltanto una minima parte con il risultato che, per la maggior parte del giorno, i detenuti ciondolano tra i corridoi e le celle in un ozio forzato che alimenta depressioni e violenza.

Il numero di suicidi, in questi primi otto mesi dell’anno, è stato impressionantemente alto (57 casi) e se si considerano anche le centinaia di atti di autolesionismo sventati nelle carceri è chiaro che la vita dietro le sbarre è più un inferno che un luogo di rieducazione. E tutto questo, in barba alla Costituzione che invece invita a puntare sulla risocializzazione, attribuendo alla condanna un valore non vendicativo ed esclusivamente punitivo e immaginando (con una convinzione che il populismo giustizialista di questi ultimi decenni ha scardinato generando soltanto altra violenza e nuovi drammi) che un detenuto possa diventare altro rispetto a quello che era quando ha commesso il reato per il quale c’è stata la condanna. Risultato: abbiamo carceri ridotte a discariche sociali e celle piene di detenuti presunti innocenti e che ancora attendono un processo.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Viaggio tra luci e ombre nel sistema giudiziario e penitenziario militare. L’unico istituto è a Santa Maria Capua Vetere ed è un carcere modello con un numero esiguo di ristretti. Ma pesa il conflitto tra giurisdizione Militare e Ordinaria e la mancanza di una riforma. Damiano Aliprandi Il Dubbio il 10 aprile 2022.

Ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Da poco, i due carabinieri condannati dalla Cassazione a 12 anni per l’omicidio di Stefano Cucchi, hanno varcato la soglia di questo carcere modello: il penitenziario militare di Santa Maria Capua Vetere.

Parliamo di una struttura che fa parte della giustizia militare. Si tratta di un sistema penitenziario e giudiziario parallelo. Ha il suo carcere, la sua amministrazione penitenziaria, i suoi tribunali, magistrati e Consiglio superiore della magistratura annesso. Ad occuparsi di tutta l’organizzazione non è però il ministro della Giustizia ma quello della Difesa.

L’Organizzazione Penitenziaria Militare (Opm), gestisce l’amministrazione

Come ogni sistema penitenziario si rispetti, anche quello militare ha il suo Dap. Però si chiama diversamente: Opm e sta per Organizzazione Penitenziaria Militare. Quest’ultima è inquadrata nell’Organizzazione di Vertice della Forza Armata, e rappresenta l’unica realtà del genere in tutto il territorio nazionale ed europeo, con competenze interforze e molteplici relazioni interministeriali, che assolve il delicatissimo compito di assicurare la detenzione del personale militare e di quello appartenente ai Corpi Armati dello Stato a disposizione dell’Autorità Giudiziaria Militare e di quella Ordinaria.

La ragione di tale particolare collocazione organica è da individuare nell’eccezionalità e assoluta unicità delle funzioni svolte dall’Organizzazione che può essere definito l’Organo di vertice nella gestione del trattamento penitenziario e dei detenuti ristretti presso gli Istituti penitenziari militari. Il 5 giugno 2008 lo Stato Maggiore dell’Esercito ha istituito il distintivo di appartenenza per il personale effettivo all’Organizzazione Penitenziaria Militare. A forma di scudo sannitico ha il bordo dorato su fondo bianco e una banda rossa nel mezzo quali colori tradizionali della Regione Campania. In cuore alla banda rossa è inserita l’Aquila color oro quale simbolo di appartenenza allo Stato Maggiore dell’Esercito.

L’unico carcere militare è a Santa Maria Capua Vetere

Oggi ne esiste solo uno di istituto di pena militare e si trova in Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Fino al 2005 esistevano diverse carceri militari. Si trovavano a Gaeta, Pescheria del Garda, Forte Boccea, Cagliari, Sora, Palermo, Bari, Torino e Pizzighettone. A dispetto di tutti gli altri istituti penitenziari ordinari, quello militare risulta un carcere modello e ha un numero esiguo di ristretti. Molto al di sotto della capienza regolamentare.

I detenuti sono pochi perché le sentenze sono diminuite grazie all’abolizione, dal 2005, della leva obbligatoria nell’esercito, che ha drasticamente abbattuto i reati militari un tempo più diffusi, dalla diserzione alla mancanza alla chiamata.

Il carcere militare può essere posto ad esempio: ha un elevatissimo standard delle condizioni di detenzione, è una struttura considerata di assoluta eccellenza dal punto di vista delle condizioni sanitarie, infrastrutturali e per l’elevato livello tecnologico. Di detenuti militari ce ne sono pochi, paradossalmente la maggior parte sono poliziotti e carabinieri. Parliamo di un carcere dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”: pur nel rispetto dei ruoli, il comandante fa anche da padre, consigliere, a volte amico. Si lavora, esiste la possibilità di coltivare, partecipare a laboratori di cucina e falegnameria. La riabilitazione funziona.

Il garante campano Ciambriello: «Una struttura a misura d’uomo»

A confermarlo è stato il garante regionale Samuele Ciambriello che vi ha fatto visita l’anno scorso. Accompagnato dal tenente colonnello Rosario del Prete, comandante/ direttore del carcere ha visitato le celle (singole, doppie o triple) con bagni dotati di doccia, la mensa collettiva e i vari laboratori di bricolage, pittura, ceramica. «Ho trovato una struttura a misura d’uomo, nella quale le persone “diversamente libere” vivono la privazione della libertà nel rispetto della dignità umana, sia negli spazi (singoli e comuni), che sono funzionali al trattamento, alla rieducazione e al rispetto delle norme di sicurezza. Ho potuto visitare l’area verde, che consente ai detenuti di svolgere attività di giardinaggio, una palestra, la sala colloqui, che è un ambiente familiare e confortevole», ha raccontato Ciambriello.

Almeno nel momento della visita c’erano 52 persone ex appartenenti alle Forze armate che scontano pene detentive a seguito di condanne per reati propri e comuni. «Parliamo di un carcere – come conferma anche il garante regionale – dove non esiste un clima di distacco che solitamente avviene nei penitenziari italiani “civili”», ha confermato il Garante. Nel passato, più volte si è detto di sopprimerlo, ma forse, viste le gravi criticità degli istituti penitenziari, bisognerebbe estenderlo e replicarlo anche ai “civili”.

Da anni la giustizia militare attende una riforma

Ma ritornando, più in generale alla giustizia militare in tempo di pace, bisogna ricordare che da molti anni attende di essere riformata. Correva l’anno 2013 quando l’allora ministro della Difesa Mario Mauro si impegnava di fonte all’apposita commissione della Camera a mettere mano alla giustizia militare, organo a parte della magistratura italiana con un’attività di lavoro irrisoria e impossibile da scalfire, ma con un peso non indifferente sui conti dello Stato.

Parliamo di un totale di 58 magistrati, tra giudicanti e inquirenti, con uno stipendio medio di 150mila euro, che in totale ci costano 20 milioni di euro all’anno. Hanno un loro organo di autocontrollo, il Consiglio della magistratura militare (Cmm) equivalente del Consiglio superiore della magistratura (Csm). Il Cmm è, infatti, competente a deliberare su ogni provvedimento di stato riguardante i magistrati militari e su ogni altra materia ad esso devoluta dalla legge.

Il doppio binario: la giustizia ordinaria e quella militare

La giustizia militare risulta iper efficiente semplicemente perché la mole di lavoro è bassissima. In sostanza è una grande macchina, con posti d’oro, ma con pochi oneri per chi vi opera. Dai dati emerge che la produttività nell’ambito della giurisdizione militare è al limite dell’insignificanza statistica per la pochezza numerica e qualitativa del contenzioso penale.

Per questo c’è necessità di una riforma che però è rimasta nel limbo. Sono due le scuole di pensiero che si scontrano: una ritiene che la magistratura militare abbia esaurito la sua funzione e debba essere soppressa e assorbita dentro i ranghi della magistratura ordinaria perennemente sotto organico, magari in una sezione specializzata; l’altra è quella di non sopprimerla, ma di aumentare la rosa di reati su cui hanno competenza, sgravando in questo modo gli ordinari di una parte – seppur minima – del contenzioso di cui sono carichi.

A questo si aggiunge un altro problema. Facciamo l’esempio di Walter Biot, Capitano di Fregata della Marina Militare italiana. Le accuse contro l’Ufficiale sarebbero quelle di spionaggio per aver ceduto, in cambio di denaro, documenti riservati a un militare Russo. La prima udienza sarà innanzi al Tribunale Militare di Roma. I legali di Biot hanno sollevato il tema del conflitto tra giurisdizione Militare e quella Ordinaria; condizione questa, che allo scopo di ottenere una pronuncia definitiva, li ha indotti ad interessare la Corte di Cassazione.

Cosa significa? Il personale con le stellette, come ha affermato ultimamente anche il Procuratore Generale Militare, si trova ad affrontare doppie spese legali poiché, la stragrande maggioranza delle violazioni, a causa di una confusione stratificata di regole, approda sia alla Procura Ordinaria, sia a quella Militare.

Racconti dal carcere. Lo studio, il teatro, i libri: non sono quello di 30 anni fa. Filippo Rigano su Il Riformista l'8 Aprile 2022.  

Sono stato tratto in arresto nel lontano 1993 e condannato in via definitiva alla pena dell’ergastolo di tipo ostativo per reati di criminalità organizzata. Pertanto, sono detenuto ininterrottamente da quasi 29 anni. Al momento dell’arresto avevo lasciato a casa una moglie e due figlie ancora bambine. Pensando proprio a loro, ho incominciato a riflettere sul mio passato e sul mio futuro e, dopo alcuni anni, ho deciso di dare una svolta alla mia vita. Ho sentito dentro di me che quel malefico passato altro non era stato che fumo, null’altro che una notte buia e triste. Ho compreso che se volevo veramente cambiare, per prima cosa, dovevo trovare la forza e il coraggio di uscire da quella spirale di violenza figlia snaturata dell’ignoranza beata navigante in questa palude infetta e malefica che è il carcere. Attraverso una profonda e dolorosa introspezione, mi sono reso conto che la vera libertà consiste nell’obbedire alle leggi che ci siamo dati.

Non mi vergogno di dire che quando 29 anni fa ho varcato le porte del carcere, come titolo di studio avevo solo la seconda elementare, sapevo a malapena leggere e scrivere. Nel carcere di Catania Bicocca, ho incominciato a frequentare la scuola e, giorno dopo giorno, sono arrivato a conseguire la licenza di terza media. Nel carcere di Fossombrone, dopo cinque anni di scuola superiore mi sono diplomato come ragioniere. Nel 2011 sono stato trasferito nel carcere di Rebibbia e mi sono iscritto alla facoltà di giurisprudenza dell’Università di Tor Vergata. Il 23 ottobre 2019, a 63 anni, sono diventato dottore in legge nella sala teatro del carcere di Rebibbia, davanti ai miei professori, ai compagni di sventura dell’Alta Sicurezza, a mia moglie Giuseppina che da 29 anni aspetta il mio ritorno a casa e davanti a Venera e Cristina, le mie adorate figlie che sono state la mia forza per andare avanti. Con una tesi di laurea in Diritto costituzionale dal titolo “Sopra la Costituzione… l’ergastolo ostativo: per chi ha sete di diritti”, ho preso 110 e anche una “lode” che considero il mio personale riscatto dall’infamia del “fine pena mai” che mi aveva tolto il sonno e cancellato il futuro.

Oltre all’università, per cinque anni ho frequentato insieme ad altre persone detenute un corso di pratica filosofica dal quale è nato il libro Naufraghi in cerca di una stella, un profondo lavoro di scavo interiore che ha fatto emergere il mio essere autentico seppellito sotto le macerie della mia prima vita. Ho frequentato anche un corso di giornalismo e da sette anni sono attore di teatro nella compagnia di Fabio Cavalli, che ha realizzato Rebibbia Lockdown, un film documentario che racconta il carcere ai tempi della pandemia. Da ultimo, ho dato il mio contributo alla stesura di un altro libro, La ferita della pena e la sua cura, pubblicato di recente. Ho completato gli studi e portato avanti la mia revisione interiore. Così, in questi anni passati in carcere in cui mi sono abbeverato e nutrito di cultura, ho conquistato la mia personale “liberazione”. E, vi assicuro, non è stato facile nella prospettiva di una pena che non finisce mai. Se penso alla mia vita passata in “libertà”, neanche con la fantasia più felice avrei potuto mai immaginare un futuro come quello che vedo oggi, che è di una luce e uno splendore indicibili.

Nessun uomo è uguale a quello di venti o trent’anni prima, perciò è doveroso che il giudizio su di lui sia oggi diverso. Si dice: tanto questi non cambiano mai, sempre delinquenti sono. Non è vero, anche la scienza dice che il tempo è un grande scultore, che il cervello si evolve e le persone cambiano. Io non ho nessun contatto con nessuna criminalità, ho avuto il coraggio di recidermi totalmente dalle logiche di un passato maledetto. Sarebbe bello e giusto ascoltarci, perché se nessuno ci ascolta si può pensare che siamo sempre quelli del passato. Mi rivolgo soprattutto ai nostri giudici di sorveglianza: non siate sempre ancorati al passato della persona, guardate alla persona quale essa è oggi, abbiate il coraggio di metterci alla prova.

Io non sono più un ragazzino, ho compiuto da poco 65 anni, la mia vita sta finendo. Ma qui si pena sempre e non si vede mai uno sbocco di libertà. Perciò ascoltateci, solo cosi potete capire il nostro cambiamento, come hanno fatto in questi anni tutti gli operatori dell’area educativa, i nostri professori e le nostre tutor di Tor Vergata. Un aiuto non si nega a nessuno, specialmente quando uno ha capito gli errori del passato e dal male si è convertito al bene. Io, personalmente, ringrazio tutte quelle persone che mi hanno aiutato e che continuano a darmi fiducia, una fiducia che – vi prometto – non deluderò.

Filippo Rigano. Ergastolano, detenuto a Rebibbia

Il pentito: “Nel carcere di Bari entra tutto, i parenti portano fumo e telefoni”. Giampiero Casoni il 10/04/2022 su Notizie.it.

Il verbale di un collaboratore di giustizia coincide con le deduzioni della Dia: “Nel carcere di Bari entra tutto, i parenti portano fumo e telefoni”.  

Il pentito Domenico Milella: “Nel carcere di Bari entra tutto, i parenti portano fumo e telefoni”. Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia schiudono un mondo già attenzionato dall’Antimafia nella sua relazione annuale sulla malavita organizzata in Italia. Il 38enne Milella, arrestato nel 2018 e diventato poi collaboratore della magistratura, è stato indicato come braccio destro del boss japigiano Eugenio Palermiti.

Ed è proprio Milella a denunciare una situazione che, per il teatro specifico a cui è riferita, ha dell’inverosimile. 

“Nel carcere di Bari entra tutto”

Ha detto l’uomo: “In carcere entrano telefoni e fumo, cocaina poca. A Bari di fumo ce n’era una valanga  e pure i cellulari li avevano in tanti. Io penso che il 30% dei detenuti ce li ha”. Poi Milella dà una spiegazione a quella inverosimile permeabilità: “Per quel che mi risulta sia la droga che i telefoni non li portano gli agenti ma i familiari che vanno ai colloqui.

Al di là degli episodi specifici Milella ha confermato un teorema: a suo avviso la criminalità organizzata è riuscita a portare riti e protocolli delle “male” all’interno del carcere di Bari e di altri istituti. E con essi le specifiche gerarchie dei clan, che nell’ambiante carcerario vengono poi accentuate dal regime del detenzione. 

La relazione annuale della Dia

E questa realtà appare anche sottolineata dalla Direzione investigativa antimafia nella relazione sul 2021: “I clan hanno la consolidata prassi di effettuare affiliazioni e innalzamenti di grado perfino all’interno degli ambienti penitenziari, dove svolgono un’instancabile attività di proselitismo soprattutto nei confronti delle giovani generazioni“.

E in tema di pervasività delle male negli istituti penitenziari italiani il racconto che Milella, depositato agli atti di un processo in corso dopo un interrogatorio del 2020, è dettagliato. Lo è perché Milella vi cita anche circostanze relative alla sua permanenza negli istituti di Taranto, Roma, Pescara.

Questa ingiustizia non può passare inosservata. Luigi Melino, l’ex detenuto modello arrestato perché suoi social denunciava le violenze in carcere: “E’ diffamazione…” Umberto Baccolo su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

Quando arrivò il Covid nelle carceri e Rita Bernardini iniziò il primo di una serie di scioperi della fame per chiedere un atto di clemenza, a sostegno della sua iniziativa, con Elisa Torresin creammo un programma su Facebook. In diretta tutte le sere per un anno, abbiamo dato voce a ex detenuti, familiari, avvocati, cappellani, agenti della penitenziaria, volontari… Ci contattò anche Luigi Melino di Foggia. Era stato appena scarcerato e affidato in prova ai servizi sociali. Detenuto modello, autore di poesie, innamoratissimo della moglie Carmela, nonviolento, animo sensibile, aveva capito i suoi errori e voleva rifarsi una vita.

Luigi, però, aveva un “problema”: voleva sensibilizzare sul tema carcere, denunciare ingiustizie e violenze che aveva visto o subito. Lui era a Foggia quando ci fu la rivolta i primi di marzo del 2020 e, a suo dire, anche lì ci fu una spedizione punitiva come quella di Santa Maria Capua Vetere con cui Foggia condivideva la direttrice. Luigi ci raccontò come andarono le cose: non aveva prove, aveva paura a parlare, ma era molto credibile. Poi scoppiò il caso del carcere campano, uscirono i video, le testimonianze e, sorpresa, era tutto esattamente uguale a quello che Luigi ci aveva privatamente descritto molto prima che fosse di dominio pubblico. Fino a quel momento Luigi si era “trattenuto”: aveva partecipato al nostro programma, alla tombola di capodanno di beneficienza per i detenuti, a tutti i digiuni a staffetta che coordinavamo a supporto di Rita Bernardini. Ogni volta che qualche parente di detenuto gli parlava di un abuso, lui lo metteva in contatto con noi. Il lavoro umile che faceva grazie ai servizi sociali lo teneva in indigenza economica, il suo impegno però era pieno di cuore ed esemplare il suo percorso di reinserimento e di aiuto al prossimo.

Sembrerebbe una storia a lieto fine, ma non lo è. Pochi giorni fa Luigi è stato arrestato, ha perso il suo affidamento in prova per un motivo assurdo. Gli hanno contestato reati come diffamazione e istigazione a delinquere, che sarebbero stati consumati tramite video sui social nei quali faceva solo quello che noi facciamo sempre, cioè denunciare gli abusi sui detenuti, invitare al rispetto della Costituzione! Perché, dopo Santa Maria Capua, Luigi non si è più trattenuto, e in un paio di video su tiktok ha raccontato le botte che pure lui ha preso dai GOM a Foggia. Ho paura, diceva, temo ripercussioni, ma qualcuno lo deve fare, se no, queste cose non smetteranno. Questa, quindi, sarebbe la diffamazione: raccontare le violenze subite perché altri non le subiscano più. E l’istigazione a delinquere? Ancora più assurdo: Luigi avrebbe usato i social per chiedere ai detenuti che subivano abusi di denunciarli alla giustizia, per invitare i loro familiari ad aderire agli scioperi della fame di Rita. Stava anche provando a organizzare una manifestazione pacifica per i diritti dei detenuti. Le cose che fa chi si occupa di carcere.

Ma noi possiamo, anche se diamo fastidio: siamo incensurati, politici, giornalisti, avvocati, persone perbene. Lui non può: è un detenuto, e deve stare zitto. Non si deve permettere. Il primo giudice al quale fu portata la richiesta di carcerazione fatta dalla direttrice del carcere di Foggia, letta la memoria difensiva dell’avvocato Michele Sodrio, disse che non si ravvisava nessun reato, che il comportamento di Luigi stava dentro il legittimo diritto di critica. Peccato che l’incartamento sia poi passato a un collega, che invece ha deciso l’arresto di una persona che sul lavoro era stimata, che si stava rifacendo una vita onesta e aveva in programma un figlio con la sua Carmela. Questa ingiustizia non può passare inosservata, perché se Luigi deve stare in carcere per aver denunciato le condizioni inumane dei detenuti e invitato al rispetto della Costituzione e alla partecipazione a iniziative nonviolente, allora in carcere dobbiamo starci tutti noi. Umberto Baccolo

Processo “Cella zero”, prescrizione sempre più vicina: così muore la verità sulle umiliazioni in carcere. Viviana Lanza su Il Riformista il 13 Maggio 2022. 

Dieci anni di indagini e processo non saranno sufficienti per avere una risposta dalla giustizia. Cosa realmente accadeva nella famigerata cella zero del carcere di Poggioreale rischia di rimanere per sempre in bilico tra due verità: quella dei detenuti che denunciarono le umiliazioni, le botte e le punizioni subite in quella stanza al piano terra del più grande penitenziario di Napoli e d’Italia e quella degli agenti accusati di aver commesso quelle violenze che hanno negato ogni cosa. Si rischia di non avere alcuna verità processuale, nessuna risposta dalla giustizia se non quella del tipo: ci dispiace, il processo è durato troppo, i reati sono prescritti. Sì, per ora tre su cinque sono prescritti. Che le lungaggini eccessive del dibattimento potessero affossare questo processo era evidente già dallo scorso anno.

Inizialmente era sembrato che si potesse imprimere un’accelerazione per vincere la corsa contro il tempo. Illusione. Più della metà dei reati al centro del processo, e relativi ai presunti maltrattamenti denunciati da quattro ex detenuti del carcere di Poggioreale nel lontano 2012-2014, sono prescritti. Forse alcuni degli imputati potrebbero fare richiesta di rinuncia alla prescrizione sperando in una assoluzione nel merito: sostengono di non aver commesso abusi né lesioni. In ogni caso la prescrizione piomberà come una pietra tombale sul processo. E sulla verità. Dodici gli agenti della polizia penitenziaria imputati, cinque gli episodi oggetto delle accuse: si va dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute al reato di maltrattamenti. Tutto, stando alla denuncia di quattro ex detenuti, sarebbe avvenuto nella cella zero, la stanza più temuta del carcere di Poggioreale. Un locale spoglio e grigio, senza arredi, con un letto ancorato al pavimento con delle viti, nessun lenzuolo, nessuna coperta.

Si finiva lì se si osava rispondere a qualche agente della penitenziaria, se si usavano sguardi o parole di troppo. «Era il metodo Poggioreale», racconta chi ha vissuto il carcere di Poggioreale più di dieci anni fa. La stessa definizione – il metodo Poggioreale – che alcuni degli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, accusati della mattanza del 6 aprile 2020, evocano commentando l’aggressione di massa compiuta ai danni dei detenuti del reparto Nilo del carcere sammaritano. Sta di fatto che «Cella zero» è stato il primo processo che ha puntato un faro su quel che accade nel chiuso di un istituto di pena. Quando dieci anni fa, dopo le prime denunce, fu avviata l’inchiesta l’argomento carcere era un tabù vero e proprio, nessuna particolare attenzione politica, nessuna indignazione collettiva. Non fecero clamore le dichiarazioni degli ex detenuti, il racconto delle notti da incubo vissute quando la “squadretta” di agenti piombava nella cella a regolare i conti della giornata. I passi pesanti rompevano il silenzio della notte, le mazze di ferro battute contro le sbarre della cella annunciavano il detenuto su cui si sarebbe abbattuta la punizione.

In genere, secondo il racconto di ex reclusi, la scelta ricadeva su chi nella giornata aveva avuto da ridire su qualcosa, aveva avuto un battibecco con qualche agente o tra detenuti, aveva fatto un commento di troppo o alzato i toni. Una volta entrati nella cella zero si era costretti a spogliarsi, a fare flessioni con le mani appoggiate al muro della stanza, incassare schiaffi, calci e pugni tra un insulto e un altro, in un caso botte sulla testa con un mazzo di chiavi, per poi restare in isolamento fino a quando i lividi non fossero andati via. Era l’1 giugno 2017 quando i pm, sollecitati ad indagare dalla denuncia dell’allora garante dei detenuti, chiusero le indagini preliminari con una richiesta di rinvio a giudizio a carico di dodici agenti allora in servizio nel carcere di Poggioreale. A dicembre di quello stesso il giudice dell’udienza preliminare accolse la richiesta e fissò il processo. Da allora dibattimento è in corso. E la prescrizione ora incombe sui reati. Fine.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Violenze nel carcere di Modena, ecco tutti i punti irrisolti sulla morte di Piscitelli. Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, l’avvocata di Antigone Simona Filippi evidenzia le testimonianze di alcuni detenuti sulle condizioni critiche dell’uomo già prima del trasferimento e alcuni punti non chiariti dalla procura. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 aprile 2022.

La morte di Salvatore Piscitelli, uno dei nove detenuti deceduti durante (e dopo) le rivolte dell’8 marzo 2020 avvenute al carcere di Modena, non può finire archiviata. Non solo per l’oggettivo ritardo nel soccorrerlo, ma anche per il contesto dove emergerebbe una indicibile violenza e torture dove sarebbe rimasto coinvolto anche Piscitelli stesso. Per questo motivo, e non solo, l’avvocata Simona Filippi, nella qualità di difensore di fiducia dell’Associazione Antigone onlus rappresentata legalmente dal presidente Patrizio Gonnella, “persona offesa” nel procedimento penale, ha depositato l’opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla procura di Ascoli Piceno.

Per la procura non sono ravvisabili profili di responsabilità degli indagati

Come già riportato da Il Dubbio, secondo il Pubblico ministero, il procedimento deve essere archiviato in quanto non sono ravvisabili profili di responsabilità in capo agli indagati per la morte di Piscitelli poiché la eventuale anticipazione dei soccorsi anche di due ore avrebbe garantito delle “possibilità” di sopravvivenza «ma non concrete ed effettive probabilità di sopravvivenza, essendo la situazione del detenuto compromessa». In sintesi, per la procura ascolana è accertato che c’è stato un oggettivo ritardo nel soccorrerlo, ma non è possibile effettuare un giudizio prognostico in termini di concrete probabilità di sopravvivenza se i soccorsi si fossero attivati con maggiore tempestività. Non può essere liquidata così la questione.

Nella richiesta di opposizione, l’avvocata Filippi di Antigone sottolinea che bisogna innanzitutto soffermarsi sull’analisi di questi aspetti: «La gravità delle condizioni di salute in cui versava Piscitelli già al carcere di Modena al momento del trasferimento e dell’arrivo presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno, le lesioni riscontrate in sede di esame autoptico e la ricostruzione degli orari in cui si sono sviluppati i fatti».

Il racconto del compagno di cella a Modena 

Infatti, come già riportato in esclusiva su Il Dubbio, sono stati ascoltati diversi detenuti che hanno tutti confermato la gravità delle condizioni fisiche di Piscitelli già dal momento della partenza dal carcere Sant’Anna di Modena. In particolare c’è la dichiarazione di un detenuto che condivideva la cella con Piscitelli presso Modena e che con lui starà nel corso della rivolta e che, infine, con lui condividerà la cella anche presso il carcere di Ascoli Piceno. Cosa racconta? Parte dal famigerato stanzone della caserma attigua al carcere di Modena dove sarebbero stati ammassati una ottantina di detenuti e dove sarebbero, appunto, avvenute violenze e abusi da parte di alcuni agenti provenienti anche da altri penitenziari come quelli di Bologna e Reggio Emilia.

Secondo la ricostruzione offerta da questo detenuto, quando lo stesso si trovava presso la caserma del carcere di Modena a seguito della rivolta, trascorsa circa una mezz’ora giungeva anche Piscitelli che «tremava» e che gli aveva detto «mi hanno picchiato». Durante il tragitto per il carcere marchigiano, ha condiviso con Piscitelli la cella all’interno del furgone e ha evidenziato che le condizioni di salute del compagno erano già compromesse in maniera evidente: «Durante il viaggio, Piscitelli non c’era più, era con la testa per terra, non rispondeva e faceva solo un piccolo verso; ho chiamato l’assistente e gli ho detto che non stava bene e lui ha detto testuali parole “quando arriviamo lo sistemiamo”».

Ad Ascoli il Capo posto gli avrebbe risposto «lasciatelo morire»

Una volta giunti a destinazione, il detenuto sentito dalle pm di Modena, racconta che è stato prima messo in una cella differente per poi essere spostato, dietro sua richiesta, ed essere portato nella cella n.52 dove appunto si trovava Piscitelli. Quando è entrato nella cella, testimonia di aver trovato il compagno con delle “chiazze” in testa, lo chiamava ma lui non rispondeva. Specifica poi che, tra le 8.30 e le 10.30, ha più volte chiesto aiuto sia all’assistente che al lavorante e il Capo posto gli avrebbe risposto «lasciatelo morire». Alle 10.30, sempre secondo la ricostruzione offerta, Piscitelli era diventato «pallido e freddo e si sentiva puzza di cacca e pipì».

C’ è anche un altro detenuto, sempre sentito dalle pm, che era presente durante la visita medica effettuata a Piscitelli al momento dell’ingresso in carcere e ha riferito che lo stesso «camminava come una persona ubriaca», «barcollava» e «biascicava». Sempre lui è il detenuto al quale un agente ha chiesto di rifare il letto a Piscitelli in quanto il detenuto non era in grado di provvedere. Conferma che, nel corso della notte, l’altro detenuto si era lamentato e aveva chiesto aiuto. Un altro recluso ancora, anche lui trasferito da Modena ad Ascoli Piceno, ricorda di aver visto Piscitelli che non riusciva a camminare «tanto era fatto di farmaci e metadone». Parliamo sempre dello stesso detenuto che ha raccontato di aver visto picchiare Piscitelli nel famigerato stanzone della caserma attigua al carcere di Modena.

L’opposizione: non si è tenuto conto di circostanze e spunti investigativi

Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione, viene evidenziato che dalla consulenza disposta dalla Procura per accertare la causa della morte di Piscitelli sono emersi dei segni di lesioni. Di fatto, la Procura non ha tenuto conto di alcune circostanze emerse dagli atti di indagine e di alcuni spunti investigativi che necessitano di approfondimento. «A partire – si legge nell’opposizione all’archiviazione – dall’accertamento delle condizioni di salute di Piscitelli al momento del suo arrivo e dell’intera permanenza presso il carcere di Ascoli Piceno sino ad una più attenta valutazione del comportamento tenuto dal medico al momento della visita effettuata nel corso della mattinata del 9 marzo 2020».

Non solo. Emerge un’errata valutazione delle condizioni di salute di Piscitelli al momento del suo arrivo al carcere di Ascoli Piceno. Dagli atti delle indagini – come già riportato da Il Dubbio – emerge che, già dal momento dell’ingresso nel carcere marchigiano, le condizioni di salute di Piscitelli erano compromesse e che, pertanto, la visita medica cosiddetta di “primo ingresso” appare effettuata in maniera approssimativa e superficiale. Non solo. Emerge che le sue condizioni fisiche erano compromesse non soltanto per l’avvenuta assunzione di metadone ma anche per le presunte violenze subite nel carcere modenese come rappresentato dai detenuti ascoltati e come emerso anche in sede di esame autoptico.

Resta la speranza di un intervento della Corte Europea dei Diritti Umani

Ci sono molti punti da chiarire ancora. Tutti messi nero su bianco dall’opposizione all’archiviazione: «Accertare, con integrazione di consulenza, se la terapia (“Narcan”) praticata a Salvatore Piscitelli nel primo intervento in cella da parte del medico poteva essere effettuata con modalità differenti; accertare, con integrazione di consulenza, se, sulla base di tutti gli elementi di indagine raccolti, Piscitelli doveva essere ricoverato presso il nosocomio già al momento della visita di primo ingresso; accertare quali erano le condizioni di salute di Piscitelli al momento della partenza dalla Casa circondariale di Modena; sentire il detenuto “Nadar” il quale, nel corso della mattinata del 9 marzo 2020, avrebbe visto il Piscitelli emettere gemiti e, per questo, avrebbe chiesto all’appuntato di chiamare un medico e quest’ultimo gli avrebbe riferito di “lasciarlo morire”». La morte di Piscitelli, “Sasà” per gli amici compagni di cella, grida ancora vendetta. Così come le altre morti, che però sono state definitivamente archiviate. Rimane, in questo caso, aperta la speranza di un intervento da parte della Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo. 

Carcere di Modena, violenze e torture da “macelleria messicana”. Nelle testimonianze raccolte dalla Procura si parla di detenuti ammassati in uno stanzone, ammanettati, presi a manganellate e alcuni denudati. Tra loro persone semi coscienti per l’abuso di metadone. Era l’8 marzo 2020. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 30 marzo 2022.

Ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno.

Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro – com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci.

Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito – trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri – morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione.

E l’agente minacciò: «Adesso facciamo un altro G8!»

Ma dagli atti della vicenda Piscitelli emergono altri dettagli che, se confermati dalle indagini tuttora in corso, dipingono un vero e proprio “sistema” di abusi e torture attuato da alcuni agenti penitenziari di almeno tre istituti penitenziari diversi: oltre a quelli di Modena, anche di Bologna e di Reggio Emilia giunti come rinforzo.

E questo, sottolineiamo, riguarda la presunta mattanza avvenuta nel carcere Sant’Anna a fine rivolta. Il Dubbio ha potuto visionare in esclusiva gli atti. Sono diverse testimonianze di detenuti raccolte dalle Pm della procura modenese e tutte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che – come testimonia un detenuto – c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: «Adesso facciamo un altro G8!». Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido «Adesso vi ammazziamo», picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum.

Dopo la rivolta le violenze inaudite su circa ottanta detenuti

Ritorniamo ai fatti di Modena emersi dalla ricostruzione delle testimonianze raccolte dalla procura. L’8 marzo 2020 scoppia una violenta rivolta, prendono fuoco alcune sezioni, compreso l’ufficio di comando. Scene apocalittiche. Alcuni detenuti riescono a prendere le chiavi lasciate dagli agenti, mettendo così in salvo altri reclusi rimasti chiusi in cella. Man mano gli agenti hanno indirizzato i detenuti nel campo dicendo loro di rimanere lì, tranquillizzandoli perché non sarebbe successo niente. Dopodiché, man mano, sarebbero stati ammanettati e costretti a rimanere con la testa abbassata. Hanno attraversato due porte carraie, fino a giungere in un specie di casermone e ammassati dentro una stanza.

Dalle testimonianze raccolte in atti emerge che diversi detenuti sarebbero stati manganellati, insultati e riempiti di sputi lungo il corridoio che portava al locale. Alcuni detenuti, soprattutto stranieri, entravano nello stanzone già con la testa sanguinante. All’interno c’erano agenti penitenziari che provenivano sia da Bologna che da Reggio Emilia. Alcuni testimoni li hanno riconosciuti perché precedentemente erano stati reclusi in quei penitenziari. A tutti i detenuti ammassati nello stanzone, circa una ottantina, sono state fatte togliere le scarpe e costretti a rimanere seduti per terra.

Ed è in quel momento che diversi reclusi avrebbero ricevuto ulteriori manganellate in faccia, nei fianchi, sulle gambe. «Ad esempio c’era un ragazzo straniero – racconta alle Pm un testimone -, non so se tunisino o marocchino. Si vedeva che era in condizioni pietose, al livello di… non so cosa avesse assunto, e gli hanno dato un sacco di manganellate a questo qua, in faccia, in testa, questo ha fatto uno, due, tre, quattro metri e si è accasciato a terra».

Salvatore Piscitelli stava già male ed è stato manganellato

Altri detenuti, come dicono più testimoni ascoltati, sono stati fatti completamente spogliare con la scusa della perquisizione. In quella caserma giunse anche Salvatore Piscitelli. Secondo un altro testimone sentito dalle Pm, era già in condizioni particolari. «Quando lui è entrato già nella stanza lui tremava, tremava – racconta il detenuto –, io l’ho guardato e lui mi fa: “Mi hanno picchiato”». Testimonia che tremava così tanto, che un agente ha chiamato un’infermiera dell’ambulanza, che gli ha dato delle gocce. Un altro testimone racconta che avrebbero manganellato Piscitelli anche dentro quella famigerata stanza.

Nel trasferimento uno di loro è stato lasciato a Rimini e rianimato

Non sarebbe finita lì. Nella notte diversi detenuti sono stati fatti salire nei pullman per trasferirli nel carcere di Ascoli Piceno. Durante il tragitto, un detenuto testimonia di aver visto agenti manganellare alcuni reclusi. Diversi di loro si sentivano male, uno in particolare gli usciva la schiuma dalla bocca e per questo motivo è stato portato al carcere di Rimini, quello più vicino. Giunti sul posto lo hanno messo sull’asfalto, è venuta l’ambulanza, gli hanno fatto una siringa e lo hanno rianimato con il defibrillatore. Ricordiamo che nel tragitto c’era anche Piscitelli che, a detta di alcuni testimoni, stava già visibilmente male.

Giunti al carcere di Ascoli Piceno, l’inferno non sarebbe finito

Sempre tutti i testimoni ascoltati convergono con il fatto che la visita medica effettuata appena sono entrati, sarebbe stata fatta superficialmente. Non solo. Un detenuto testimonia che, nonostante fosse visibilmente pieno di segni dovute dalle percosse, il medico di guardia gli avrebbe soltanto chiesto: «Hai qualche patologia? Prendi farmaci particolari?». A riposta negativa, «A posto, vai!». Tutto qui. Anche Piscitelli stava male, tanto è vero – come raccontano i detenuti -, gli agenti l’avrebbero fatto scendere dal pullman prendendolo per i capelli, perché lui non riusciva a camminare da solo. Un testimone racconta che alla visita medica, Piscitelli ha lasciato bisogni fisiologici sulla sedia. Scene indegne per un Paese civile.

Le violenze sarebbero proseguite anche nel carcere di Ascoli Piceno

Come risulta dalle testimonianze raccolte dalle Pm di Modena, al carcere di Ascoli sarebbero proseguite le violenze da parte degli agenti. Nella notte, i detenuti trasferiti hanno infatti avuto il sentore che potesse accadere di nuovo. Un testimone racconta di come il suo compagno di cella, un serbo, gli ha detto di ripararsi dietro di lui nel caso di una spedizione punitiva. Tutto tace. Ma è stata la quiete prima della tempesta. Il mattino seguente, una squadra di agenti sarebbero entrati nelle celle a manganellare. In seguito, per quasi 15 giorni, avrebbero proseguito la violenza senza manganelli, ma con gli schiaffi. Per quasi un mese sono rimasti scalzi e con gli stessi vestiti e biancheria intima. Emerge una omertà che avrebbe coinvolto non solo gli agenti, ma anche altre figure penitenziarie. Solo grazie all’esposto fatto da sette detenuti, è emerso tutto questo Sistema di torture e lesioni aggravate.

Resta il dubbio: tra i morti c’era qualcuno di quelli picchiati?

Attualmente il fascicolo sulle violenze al carcere di Modena è ancora aperto. Alcuni agenti sarebbero stati identificati grazie al riconoscimento dei detenuti. Nove però sono le morti archiviate. Molti sono detenuti stranieri deceduti per overdose. Rimane il dubbio atroce: alcuni di loro sono quelli picchiati nella caserma del carcere Sant’Anna? Sappiamo che Piscitelli, per la cui morte Antigone ha fatto opposizione all’archiviazione, era tra quelli come dicono più testimoni. Su queste morti sarà investita la Corte Europea dei Diritti umani. Sulle violenze, ancora si attende l’esito delle indagini. Sullo sfondo c’è la commissione ispettiva del Dap istituita per le rivolte del 2020, ed è composta da un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. Darà risposte su questa ennesima mattanza che emerge dagli atti? 

Parla il fondatore di A Buon Diritto. Intervista a Luigi Manconi: “Polemiche su ergastolo e Dap, no alla burocrazia dell’antimafia”. Angela Stella su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

A Buon Diritto, la Onlus per i diritti umani fondata da Luigi Manconi e diretta da Valentina Calderone, compie vent’anni e li celebra domani presso il MAXXI di Roma. Ci saranno artisti e personalità del mondo della cultura, attivisti e rappresentanti delle istituzioni: i messaggi di Roberto Fico e Liliana Segre e del presidente della Federazione delle Chiese Evangeliche italiane Daniele Garrone, e Valerio Mastandrea e Valentina Carnelutti; e poi Jorit, Cinzia Leone, Makkox, Alessandro Bergonzoni, Sergio Staino, Ascanio Celestini e tanti altri e altre. Inoltre il 22 maggio in libreria arriva una nuova edizione di Abolire il carcere, scritto da Manconi con Stefano Anastasia, Federica Resta e la stessa Valentina Calderone.

Presidente Manconi, mercoledì sul Riformista abbiamo pubblicato uno stralcio dell’introduzione di Stefano Ceccanti al volume I cristiani e la pace di Emmanuel Mounier, secondo cui “Non esiste diritto che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza”. È d’accordo?

Sono incondizionatamente d’accordo. E vorrei introdurre una ulteriore distinzione che è quella tra il pacifico profetico e quello politico. Chiunque operi nella sfera pubblica, in qualunque ruolo, – sia un giornalista, un parlamentare, un militante politico o un volontario di un’associazione di soccorso – agisce nel mondo e quindi deve tener conto delle contraddizioni che il mondo rivela e che la politica deve ricomporre. In questo senso non ci sono categorie che possano essere interpretate in maniera integralista. Senza tener conto della loro finitezza e del fatto che devono misurarsi con la scarsità delle risorse, con l’asprezza delle condizioni materiali di vita e con la violenza del male. E questo impone mediazioni e compromessi. Poi c’è il pacifismo profetico che annuncia una utopia, un messaggio di largo respiro, una visione. Io ho bisogno di questo pacifismo per ricordarmi i fini della mia azione, che tuttavia sono diversi dalla profezia. L’azione politica non può essere mai indifferente alle conseguenze degli atti che si compiono e di quelli che si omettono. Deve essere sempre responsabile. E allora io pacifista vado in Ucraina: porto aiuti umanitari, soccorro i bambini e gli anziani, assisto le donne, curo i feriti. Fatto questo devo convincere i contendenti a trattare e promuovere occasioni di confronto e di scambio tra i popoli. Compio così il mio dovere di pacifista. Poi, però, arriva un soldato russo che alza la sua spada per colpire quella donna, quel bambino, quel vecchio. E io come reagirò? Credo che, per essere coerente con le premesse, dovrò fare tutto il possibile, come so e come posso, per rendere inoffensivo l’aggressore. Fino a ucciderlo, se non ci sono altre possibilità.

Con la vostra associazione vi occupate anche di migranti e richiedenti asilo. In questi giorni qualche commentatore ha sollevato la polemica: “E allora lo Yemen?”, “E allora la Siria?”. Esistono guerre e profughi di serie A e di serie B?

L’Ucraina è collocata nel cuore dell’Europa, al centro della sua storia e della sua cultura. E quindi è comprensibile che si avvertano quelle persone come più prossime a noi. Questo è il primo dato. Ovviamente c’è dell’altro: altre guerre e altri milioni di profughi, li sentiamo lontani perché effettivamente lo sono: persone con un colore della pelle diverso e con un’identità estranea e sconosciuta. Se da questo si ricava una teoria e una politica che privilegiano un gruppo etnico a scapito di un altro, siamo di fronte a una manifestazione di xenofobia.

A Buon Diritto si occupa, tra le tante cose, del tema carcere. Il capo del Dap Carlo Renoldi si è insediato due giorni fa. Tra poco verrà approvata una legge sull’ergastolo ostativo. Ma la polemica che accomuna questi due eventi è la stessa: chi vuole un carcere più umano è nemico dell’antimafia.

Mi sembra una polemica tanto vecchia da risultare stucchevole. Io, per esempio, non sono contro una durissima lotta alla criminalità organizzata, figuriamoci, ma sono contro la retorica dell’antimafia e la burocrazia dell’antimafia, nel senso che tutti i fenomeni, compresi i più nobili, tra cui appunto il contrasto alle mafie, possono produrre escrescenze. Ci sono ottimi magistrati, alcuni dei quali indulgono in quei vizi, altri che pur essendo assai competenti talvolta compiono errori. Ma criticare le responsabilità dei magistrati e alcune tendenze culturali regressive non vuol dire mica delegittimarli.

Tra le vostre battaglie ricordiamo quelle contro gli abusi a opera delle forze di polizia. Proprio poco fa si è aperto un processo a carico di un carabiniere accusato di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, avendo bendato all’interno della sua caserma uno dei due americani accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello Rega. Dagli atti sono emerse chat dei colleghi: ‘Ammazzateli di botte – fategli fare la fine di Cucchi”.

Intanto il 7 aprile ci sarà la sentenza relativa ai depistaggi per la morte di Stefano Cucchi. Non è la prima volta che il suo nome viene evocato come una minaccia per persone che si trovano in stato di fermo. È un segnale terrificante che all’interno degli apparati dello Stato possa ancora circolare un certo senso comune. Ignoro se riguardi una gran parte dei membri dei corpi di polizia o solo una piccola minoranza, ma è indubbio che quell’umore sia diffuso e si riproduca. Quello che per una parte dell’opinione pubblica è stato l’accertamento della verità su un gravissimo caso di abuso contro un fermato, è vissuto e rivendicato da parte di alcuni militari, come un modello di giustizia esemplare. E ciò perché all’interno dei corpi di polizia, continua a mancare uno spirito costituzionale e una formazione culturale e legale adeguata all’educazione di coloro che sono chiamati tutori dell’ordine e detengono il monopolio legittimo della forza.

Ultima domanda: si discute in questi giorni del ritardo dell’approdo in Aula della riforma del Csm. Secondo lei la politica è ancora subalterna alla magistratura o è cambiato qualcosa?

È cambiato tantissimo ma temo non abbastanza. Non c’è solo un fattore di subalternità psicologica, ma anche il peso di culture politiche che giocano un ruolo negativo. Culture antigarantiste e illiberali che impediscono una seria riforma dell’ergastolo ostativo, una ulteriore limitazione del ricorso alla custodia cautelare, la separazione delle carriere tra magistratura requirente e magistratura giudicante. Posso aggiungere una cosa?

Prego.

Tutto quello che ha fatto A Buon Diritto non sarebbe stato possibile senza la direttrice Valentina Calderone. Lavora con me da più di quindici anni, mentre io ne combinavo in giro di tutti i colori (senatore, ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, scrivevo libri e articoli…) lei ostinatamente e pazientemente ha guidato con grande ingegno l’associazione. Angela Stella

«Lo Stato mi obbliga a cercare un lavoro, ma poi me lo toglie…». Disposta la sorveglianza speciale con obbligo di dimora per l'ex capo delle cooperative condannato nel processo "Mondo di mezzo". Così Buzzi rischia di perdere il suo lavoro al pub. Valentina Stella su Il Dubbio il 14 marzo 2022.

«Come temevo è giunta la notifica per le misure di prevenzione personali. Due anni e mezzo di sorveglianza speciale che hanno i seguenti obblighi: dimora in casa dalle 21 alle 7 del mattino, obbligo di soggiorno nel Comune di residenza, presentazione una volta a settimana alla stazione dei Carabinieri, ritiro della patente e obbligo di cercarsi un lavoro»: è amareggiato Salvatore Buzzi quando ci racconta di questo nuovo provvedimento a suo carico emesso dal Tribunale per le misure di prevenzione di Roma.

«Quanto mi è stato notificato fa emergere l’ottusità della legge», in quanto «siamo dinanzi ad un incomprensibile paradosso: vengo obbligato a ricercare immediatamente un’attività lavorativa lecita, ma la prescrizione di questa misura incredibilmente mi fa perdere il lavoro che già ho. Come è noto anche i magistrati – perché l’ho fatto mettere a verbale -, io lavoro, assunto regolarmente, in un pub di cui sono il frontman, per usare una terminologia rock, e la mia attività lavorativa si svolge di sera e notte con chiusura del pub che va fino alle 2 del mattino nei giorni di venerdì e sabato e all’una negli altri giorni».

Buzzi ci spiega che è riuscito «a conservare comunque la patente perché una sentenza della Corte Costituzionale del 2021 ne vieta il ritiro se può inficiare l’attività lavorativa e io ho facilmente dimostrato che ne avevo bisogno per recarmi al lavoro». L’uomo ci tiene a precisare: «Non voglio passare per vittima, ma evidenziare la limitatezza del nostro sistema giudiziario eccessivamente burocratico e punitivo». Un’altra prescrizione del provvedimento che gli provoca sconcerto è quella per cui non può partecipare – leggiamo nell’atto – «a pubbliche riunioni senza autorizzazione dell’Autorità giudiziaria». Per questo Buzzi si dice «molto dispiaciuto perché non potrò prendere parte alle assemblee del Partito Radicale, a cui sono iscritto, se non mi danno il permesso».

Per lui, prosegue, «la ratio di questa misura risale all’epoca fascista, quando si era soliti dire che di notte girano ladri e puttane. Da quando sono uscito ho intrapreso un percorso, ho sempre rispettato quanto impostomi dall’autorità. Fino ad ora non potevo allontanarmi dal comune di Roma. Adesso neanche posso uscire la sera: sono tutte misure afflittive accessorie, imposte ad una persona che sta ricominciando a vivere». Buzzi poi precisa: «Le misure di sicurezza personali non sono altro che un addentellato delle misure di sicurezza patrimoniali, quelle necessarie per espropriarti il tuo patrimonio. Nel mio caso: le cooperative che avevano un patrimonio di oltre 30 milioni di euro e davano lavoro a 1300 persone, miseramente fallite, come noto, e due appartamenti e altre proprietà con la motivazione che i redditi derivanti dagli stipendi percepiti dalle cooperative fossero tutti illegittimi. Misura questa, ovviamente, applicata soltanto a me».

Come ci spiega l’avvocato Pier Gerardo Santoro, che assiste Buzzi insieme all’avvocato Alessandro Diddi, «pur essendo caduta l’accusa di mafia, le condanne per alcuni reati sono passate in giudicato. Quindi, venute meno le misure cautelari, è stata applicata quella di sorveglianza speciale. A parere nostro si tratta di una misura che ad oggi non ha più senso: Buzzi ha già scontato cinque anni di carcere, i collegamenti con possibili attività criminali sono recisi, ha rispettato tutte le prescrizioni e limitazioni fino ad ora disposti da parte dell’Autorità giudiziaria. Noi chiederemo al Tribunale di poterlo autorizzare a lavorare, come fatto fino a questo momento. L’attività lavorativa è sintomo di un reinserimento sociale e della ricostruzione della propria vita».

Parallelamente, «ci sarà la richiesta di un nuovo incidente di esecuzione per valutare oggi la posizione di Salvatore Buzzi che non può essere ritenuto un soggetto socialmente pericoloso a cui applicare misure di sorveglianza speciale». Il loro assistito «è stato arrestato nel lontano 2014. Ha scontato 5 anni, ha ammesso le sue responsabilità, si sta reinserendo e ricollocando in questa società. Che senso ha sottoporlo a tutta una serie di limitazioni che confliggono con la finalità rieducativa della pena? Si tratta di prescrizioni prettamente punitive».

Tuttavia sul presente pende anche una prossima decisione della Cassazione che potrebbe addirittura riportare nuovamente l’uomo in carcere. Infatti il 9 marzo 2021 la sentenza d’Appello bis sul “Mondo di Mezzo” rideterminò le pene per alcuni imputati: Buzzi fu condannato a dodici anni e dieci mesi, mentre per Massimo Carminati la pena è stata di dieci anni. «Se venisse accolto il nostro ricorso dalla Suprema Corte – ci racconta ancora Santoro – si annullerebbe la precedente sentenza di appello bis di determinazione della pena. E si potrebbe chiedere per Buzzi l’istanza di affidamento in prova per fargli svolgere lavori socialmente utili, anche alla luce dei nuovi orientamenti della ministra della Giustizia Marta Cartabia, volta a favorire istituti alternativi alla pena del carcere».

Giuseppe Legato per “La Stampa” il 21 aprile 2022.

Botte, umiliazioni, vessazioni. In una parola, torture. Condite da silenzi e omertà per coprire il (presunto) scempio che tra il 2017 e i 2019 si sarebbe consumato all'interno del carcere Lorusso e Cutugno di Torino. 

Ventidue tra agenti e ispettori del penitenziario sono stati rinviati a giudizio ieri dal giudice Maria Francesca Abenavoli. Una delle (poche) prime volte in Italia in cui questo titolo di reato viene ipotizzato dietro le sbarre di una casa circondariale. Il processo - nella forma del classico dibattimento - inizierà fra un anno e mezzo: luglio 2023.

Ma tra poche settimane - nel troncone che si celebra con rito abbreviato - compariranno di fronte al giudice l'ex direttore della struttura Domenico Minervini e l'allora comandante della polizia penitenziaria Giovanni Battista Alberotanza accusati di favoreggiamento e omessa denuncia. 

Vertici o semplici agenti che siano, lo spaccato che emerge dall'inchiesta del pm Francesco Pelosi nel periodo compreso tra il 2017 e il 2019, è inquietante, inquadrato dal magistrato come «trattamento degradante e inumano».

Con una «squadra di picchiatori», un «battesimo per i nuovi giunti nel penitenziario», e le «spedizioni punitive» nelle celle dei detenuti del padiglione riservato ai sex offenders (imputati o condannati per reati sessuali).

Nelle migliaia di pagine di atti risuonano intercettazioni e frasi captate dagli investigatori: «Devi morire qui, pezzo di merda. Ti faremo passare la voglia, non ne uscirai vivo». Ancora: «Quando sono arrivato in carcere a Torino mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. E l'ho nascosto in cella» ha detto piangendo una vittima di fronte al magistrato.

Altra vicenda: «Ero entrato alla matricola, avevo fatto le foto mi avevano preso le impronte digitali, gli agenti hanno cominciato a colpirmi con schiaffi, pugni e calci. In particolare mi dicevano di salire le scale e mentre le affrontavo gli agenti, da dietro, mi colpivano con schiaffi pugni e calci. E ridevano».

Infine: «L'altra sera ci siamo divertiti - confessa un agente alla fidanzata -, sembrava Israele degli anni Cinquanta». Undici detenuti oggetto di violenze si sono costituiti parte civile. Vale lo stesso per la città di Torino attraverso il suo garante Monica Gallo (autrice della prima denuncia) e i garanti regionali e nazionali. Il giudice ha disposto la citazione del ministero della Giustizia come responsabile civile. 

Ma la prima udienza sarà a luglio 2023. Torture nel carcere di Torino, a processo 22 agenti e l’ex direttore Minervini: “squadre di picchiatori” nelle celle per pestare i detenuti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Una mattanza avviata, secondo le indagini, nell’aprile del 2017, e continuata fino all’ottobre di due anni dopo. Sono le torture, le botte, le vessazioni e le umiliazioni alle quali sono stati sottoposti nei confronti di alcuni detenuti del carcere ‘Lorusso e Cutugno’ di Torino.

Per questo scempio democratico, condito da silenzi e omertà per coprire i fatti, verranno processati 22 agenti della polizia penitenziaria coinvolti nell’inchiesta coordinata dal pm Francesco Pelosi. Indagine nata grazie alle segnalazioni da parte del garante comunale dei detenuti Monica Gallo.

Tra gli indagati figurano anche alcune figure apicali del carcere, tra cui l’ex direttore della casa circondariale Domenico Minervini, rimosso dall’incarico dopo l’apertura dell’inchiesta, e l’ex comandante Giovanni Battista Alberotanza. I due, accusati di omessa denuncia e favoreggiamento, hanno scelto il rito abbreviato: Minervini e Alberotanza compariranno davanti a un giudice tra poche settimane.

A processo anche due sindacalisti della polizia penitenziaria, accusati di rivelazione di segreto e favoreggiamento.

Gli episodi di tortura contestati si sarebbero verificati all’interno del Settore C del penitenziario torinese. Il processo, che vede dodici detenuti come parti civili assieme alla città di Torino (tramite il garante Gallo), avrà la prima udienza soltanto il 4 luglio 2023, tra più di un anno. Il giudice ha disposto la citazione del ministero della Giustizia come responsabile civile

Nelle migliaia di pagine di atti che compongono l’inchiesta, emergerebbe secondo il pm Pelosi il modus operandi all’interno del carcere, un trattamento nei confronti dei detenuti “degradante e inumano”, scrive il pubblico ministero.

In particolare, scrive il quotidiano di Torino La Stampa, nel Settore C del ‘Lorusso e Cutugno’ ci sarebbe stata una “squadra di picchiatori” specializzata in “spedizioni punitive” all’interno delle celle del padiglione destinate ai cosiddetti ‘sex offenders’, ovvero quei detenuti imputati o condannati per reati sessuali.

Contro gli indagati ci sono anche intercettazioni, frasi captate dagli inquirenti che dimostrerebbero il regime di terrore all’interno della casa circondariale. “Devi morire qui, pezzo di merda. Ti faremo passare la voglia, non ne uscirai vivo”, dice un agente. Un secondo, parlando alla fidanzata, confessa che “l’altra sera ci siamo divertiti, sembrava Israele degli anni Cinquanta”.

“Quando sono arrivato in carcere a Torino mi hanno portato ammanettato al casellario. Mi hanno chiesto di spogliarmi, ho tolto tutto tranne le mutande. In 4 allora hanno indossato dei guanti, mi hanno sbattuto per terra e mi hanno strappato gli slip di dosso. Ho sbattuto la faccia contro il pavimento e mi sono spaccato un dente, mi è caduto. E l’ho nascosto in cella”, ha invece raccontato piangendo una vittima di fronte al magistrato.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Cartabia: «Nel carcere di Torino ho visto un reparto inguardabile per la sua disumanità». Ieri la visita della guardasigilli al Lorusso e Cotugno. Il reparto a cui si fa riferimento è lo stesso di cui il Garante chiede la chiusura dal 2017. Il Dubbio il 12 marzo 2022.

Nel carcere di Torino ho visto «un reparto inguardabile per la sua disumanità». Queste le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dopo la visita al reparto cosiddetto «filtro» del Lorusso e Cotugno, riprese in una nota del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. «Fin dal 2017 il Garante nazionale chiede la sua chiusura senza che le autorità penitenziarie e sanitarie abbiano adottato azioni risolutive: il Garante auspica che l’intervento della ministra dia un chiaro impulso per la chiusura del reparto», ha scritto il Garante.

Accompagnata dalla neodirettrice della casa circondariale Cosima Buccoliero, dal vice comandante della Polizia penitenziaria, Maurizio Contu, dalla Provveditrice Rita Monica Russo e dalla Garante dei detenuti Monica Gallo, la Guardasigilli ha visitato ieri alcuni padiglioni del carcere e ha incontrato il personale della casa circondariale. Un viaggio che come definito dalla direttrice Buccoliero “rimane uno tra gli Istituti italiani più difficili ma che va considerato anche ” finestra sulle opportunità”, al cui interno, se pur presenti urgenti criticità vi sono sono anche eccellenze. La ministra ha attraversato i padiglioni di alta sicurezza (A-B-C) ma anche avuto modo di vedere gli spazi di camminamento e le aule universitarie dove si tengono le lezioni.

«Non è tempo di distinzioni né contrapposizioni inutili in carcere. Le difficoltà in questo carcere sono tangibili ma se c’è una forza, una sinergia, una collaborazione, una cooperazione e uno spirito di unità come quello che mi è stato segnalato, facciamo in modo che diventi il paradigma per il cammino che ci attende», ha detto la ministra. «Il nesso tra educazione, rieducazione e sicurezza è un nesso fortissimo e se invece che rieducare investissimo di più sull’educazione avremmo bisogno meno di rieducare», ha sottolineato la guardasigilli incontrando i ragazzi del Sermig di Ernesto Olivero ai quali ha parlato, sollecitata da una domanda, della sua visita al carcere torinese. «Non possiamo negarci che ci sono condizioni che rendono davvero difficile che la pena raggiunga davvero il suo scopo che è quello di dare una seconda opportunità a chi ha sbagliato – ha detto Cartabia – ci sono in quel carcere delle esperienze bellissime che accompagnano i detenuti in quella direzione ma ci sono dei bracci in quel carcere in cui credo sia veramente difficile che quel tempo passato reclusi senza una proposta possa raggiungere quell’obiettivo costituzionale».  «Ho visto un reparto A inguardabile per la disumanità tanto per le condizioni in cui deve operare la polizia penitenziaria quanto per quelle in cui si trovano i detenuti ma ho anche visto il volto di un ragazzo che il 30 marzo si laurea dopo aver svolto un percorso di studio proprio all’interno del carcere. La speranza è allargare lo sguardo per vedere gli aspetti positivi – ha concluso la guardasigilli – e sono fiduciosa che il carcere possa diventare ciò che la costituzione prevede che sia».

Le statistiche. Chi c’è in carcere: aggressori e pusher, pochissimi i mafiosi. Viviana Lanza su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Ha un’età compresa tra i 40 e i 60 anni, ha figli. Nella maggior parte dei casi ha anche una moglie o una convivente, e ha un titolo di studio medio alto. E si trova in carcere per reati contro la persona o contro la pubblica amministrazione. Eccolo il ritratto del detenuto medio, il profilo di chi compone la maggioranza della popolazione detenute nelle carceri della Campania, e più in generale di tutto il Paese. È di queste persone che dovrà occuparsi il nuovo capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Altro che mafiosi, a stare in carcere sono soprattutto uomini violenti o truffatori, ladri e spacciatori. Eccolo l’identikit di chi vive dietro le sbarre.

Certo ci sono anche quelli condannati per reati di criminalità organizzata, ma sono una minoranza rispetto alla popolazione che vive nelle celle. Lo dicono le statistiche ministeriali con cui periodicamente il Ministero della Giustizia traccia un bilancio sullo stato del sistema penitenziario. Ebbene, se è vero che i numeri sono utili per descrivere certe realtà, è dai numeri indicati nelle statistiche ministeriali che viene fuori un ritratto del detenuto medio che non è solo e sempre il ritratto dello spietato e potente boss della criminalità organizzata rispetto al quale diventa difficile, come sostengono i meno garantisti, intavolare discorsi su misure alternative e provvedimenti svuotacarceri. Su una popolazione detenuta di oltre 54mila persone, sono 7.274 quelli reclusi per reati di associazione a delinquere di stampo mafioso.

La maggior parte dei detenuti è dietro le sbarre per reati contro il patrimonio, cioè furti e rapine. E per reati contro la persona, quindi aggressioni e lesioni. Nella prima sfera di reati rientrano 31.009 detenuti, nella seconda 23.611 detenuti. E allora come mai, quando si parla di carcere, ci si concentra sempre ed esclusivamente sui boss della camorra? Ragionare su misure alternative al carcere e sulla possibilità di ricorrere al carcere solo come extrema ratio può essere possibile per più della metà della popolazione detenuta. Cosa significherebbe? Innanzitutto la fine di carceri-inferno, e poi di celle strapiene, di diritti mortificati, di spazi inadeguati, di attività di rieducazione non a singhiozzo e non per pochi, di tutela della salute, di tutela dei diritti anche di chi lavora in carcere perché le risorse non saranno inadeguate a gestire il numero di detenuti che sarebbe realmente presente nelle celle.

In due parole, sicurezza e diritti. Di tutti. Di chi vive all’interno delle strutture penitenziarie e di chi vive nel mondo fuori. I numeri, dicevamo. Sono stati, nel 2021, più di 8mila i detenuti per reati contro la pubblica amministrazione e oltre 9mila quelli dentro per possesso di armi. I numeri descrivono anche un altro aspetto della questione carcere tanto dibattuto quanto nei fatti ignorato: i detenuti problematici, quelli per esempio tossicodipendenti. Sono molto numerosi. Nel 2021 si sono contati 18.942 detenuti per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti. Rispetto al passato sono in numero più contenuto (erano più di 23mila nel 2005 e più di 21mila nel 2019), ma sono pur sempre ancora moltissimi, se si considera che più della metà oltre a trafficare in droga ne sono anche assuntori. Sono dunque troppi per le strutture di cui il sistema penitenziario dispone, inadeguate a gestire detenuti con dipendenze e patologie.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Viaggio nel disastro della sanità in carcere: medici precari e gravi carenze di personale. La riforma della sanità penitenziaria è incompleta, liste di attesa infinite, troppo lavoro sulle spalle dei pochi infermieri. Pesa la precarietà dei medici. Casi a Bologna, Sulmona e penitenziari campani. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 marzo 2022.

Troppi sono i detenuti che attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. Una vera e propria emergenza sanitaria che coinvolgono diversi penitenziari. C’è il caso dei penitenziari campani, così come la questione del carcere della Dozza di Bologna dove c’è penuria di medici, o a Sulmona dove a fine marzo ( come in tutta Italia) vanno via gli Oss e l’organico sanitario rimane scoperto.

IL CASO EMBLEMATICO DELLA DOZZA DI BOLOGNA

Partiamo dalla questione bolognese, un caso emblematico. Non si trovano medici che vogliano assumere incarichi nel carcere. Il motivo principale è perché sono precari, li pagano poco e fanno turni pesanti. Accade quindi che tutta la mole di lavoro e soprattutto la responsabilità, cade sugli infermieri. Ciò ha provocato un grave episodio di disorganizzazione registrato fra il 19 e il 20 febbraio nella casa circondariale della Dozza: il penitenziario si è infatti ritrovato privo di personale medico per l’intero turno notturno, con la gestione di qualunque genere di emergenza sanitaria affidata esclusivamente al personale infermieristico in forza al carcere.

«Non è possibile ritrovarsi a lavorare in queste condizioni: la probabilità che nella notte fra sabato e domenica non ci fossero medici a disposizione era già stata prospettata da inizio settimana dalla direzione sanitaria, eppure, in tutti questi giorni, non è stato fatto nulla per cercare una soluzione – ha denunciato Antonella Rodigliano, segretaria territoriale del sindacato Nursind di Bologna -. L’unica comunicazione giunta è stata quella che, poche ore prima dell’inizio del turno, avvisava gli infermieri di dover affrontare la nottata da soli. Si tratta di una cosa gravissima». La situazione all’interno del carcere, come denuncia il sindacato, è al limite: i medici in organico sono appena sedici e la carenza di personale è evidente. Mai però si era giunti ad una situazione simile, con la totale assenza di una figura medica all’interno della struttura per un intero turno. Gli atti di autolesionismo da parte dei detenuti e le aggressioni al personale infermieristico sono spesso all’ordine del giorno alla Dozza, rendendo già di per sé complicato il servizio nella struttura. «Non si può continuare così», ha rimarcato quindi Rodigliano.

UN EPISODIO CHE È RICADUTO TUTTO SULLE SPALLE DEGLI INFERMIERI

Poco prima dell’inizio del turno fra il 19 e il 20 febbraio, gli infermieri in servizio nel carcere sono stati messi al corrente della situazione, senza nessuna possibilità di porvi rimedio o trovare delle altre soluzioni per tempo. Sono state invece fornite indicazioni operative straordinarie, come il potenziamento della continuità assistenziale della guardia medica in condizioni di necessità e la prassi da seguire in caso di nuovi accessi, dando per scontata la disponibilità degli infermieri ad accettare tutto quanto. «Chiaramente non ci tiriamo mai indietro perché siamo dei professionisti che amano il proprio lavoro e lo fanno sempre con grande passione e serietà – ha concluso la segretaria regionale del Nursind – ma non possiamo rischiare di ritrovarci di nuovo in una situazione del genere. È il momento che qualcuno si assuma le proprie responsabilità».

IN CAMPANIA L’ATTESA DI UNA VISITA PUÒ ESSERE PIÙ LUNGA DI UNA PENA

Veniamo ora al caso delle carceri campane. A segnalare l’emergenza è il garante regionale Samuele Ciambriello. In visita all’Ospedale Cardarelli di Napoli ha puntato l’attenzione sull’assistenza sanitaria a chi sconta una pena in carcere. «Al Cardarelli ci sono 12 posti – denuncia il garante-, oggi solo nove perché una stanza con tre posti è inutilizzabile. A Benevento, per volere della direzione sanitaria dell’Ospedale San Pio, non ci sono posti riservati ai detenuti. Perché solo così pochi posti? Tantissimi detenuti attendono di essere ricoverati o per visite specialistiche o per interventi chirurgici. L’attesa a volte è più lunga della pena. Nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e della tutela della salute, credo che la nostra società e le nostre Istituzioni non siano rispettose dei diritti umani dei detenuti».

Per il garante la riforma sanitaria in carcere è ancora una chimera: «Tarda ad avere piena e incondizionata applicazione. Tale diritto deve essere riconosciuto conciliabile e non contradditorio con le esigenze di sicurezza. L’irragionevole incertezza, a volte gelosie tra l’area sanitaria e le direzioni delle carceri sono un’afflizione aggiuntiva per i detenuti. Le aggravanti nelle carceri sono poi gli aumenti dei detenuti con un problema in più: quello mentale e quello delle tossicodipendenze».

A SULMONA SI RISCHIA IL COLLASSO PER MANCANZA DI OPERATORI SOCIO- SANITARI

C’è il caso del carcere abruzzese di Sulmona denunciato da Mauro Nardella, Segretario generale territoriale della Uilpa polizia penitenziaria. In sostanza, non solo carenza di medici ma anche di Operatori socio sanitari ( Oss) dietro le sbarre. Per questo la Uil non esulta sulla fine dell’emergenza pandemica fissata per il prossimo 31 marzo. Alla precarietà dei sanitari ( 4 in servizio sui 7 previsti in organico), si aggiungerà, a partire dal 31 marzo, quella degli Oss ( operatori socio sanitari) che, durante la pandemia, sono stati fondamentali nell’evitare il collasso del sistema dietro le sbarre.

«Con il venire meno dello stato di emergenza gli Oss non sarebbero più contemplati dalla Protezione civile e quindi non più utilizzabili in carcere – scrive Nardella -. La sanità abruzzese non può non farsi carico di questo potenziale e pericoloso scenario futuro. Per questo motivo la Uil invita l’assessore alla sanità Nicoletta Veri e tutta la dirigenza Asl a farsi carico della situazione e a porvi subito rimedio». Il sindacalista offre dei suggerimenti: «A tal proposito può essere utile invitare loro a destinare, con le modalità che la Asl saprà adottare, un’aliquota degli Oss facendo permanere le unità attuali impegnate in loco e che ben sanno cosa fare per continuare a soddisfare le esigenze dell’Amministrazione. Il tutto, nelle more dell’espletamento della procedura concorsuale aggregata ( in corso di svolgimento) per le Asl di Teramo, Lanciano- Vasto- Chieti e Avezzano- Sulmona- L’Aquila gestita dalla Asl di Teramo dalla quale sarebbe auspicabile l’assegnazione di unità presso gli istituti di pena di Sulmona ( 4 per 420 detenuti), L’Aquila ( 3 per 200 detenuti) ed Avezzano ( 2 per 60 detenuti)».

Il problema sanitario è evidente e deve interessare soprattutto il ministro della Salute Roberto Speranza. Ricordiamo che dal primo aprile 2008 la salute delle persone detenute è divenuta formalmente una competenza del Servizio sanitario nazionale e si è venuta così a sanare una delle tante anomalie normative che riguardano la gestione della vita penitenziaria. Calandoci sul piano del diritto vivente, tuttavia, questa anomalia è stata adeguatamente superata esclusivamente sul piano formale. Nella materialità della detenzione permangono le criticità che ostacolano una piena affermazione dell’equivalenza delle cure, principio cardine della riforma stessa. Il trasferimento del personale, strumentazioni e responsabilità alle Aziende sanitarie locali è stato generalmente vissuto come un ulteriore “peso” scaricato sulle spalle già fragile della sanità regionale ( e dei suoi bilanci). Non a caso, come detto inizialmente, c’è il discorso della precarietà che coinvolgono anche i medici, difficilmente disposti a sacrificare la loro vita per pochi soldi rispetto ai colleghi che lavorano nel mondo libero. Ma non solo. La difficoltà principale è quella di riuscire a valutare la questione sanità penitenziaria da un punto di vista nazionale e quindi si creano forti disparità tra territori. Accade nel mondo libero, ma nel carcere tutto si amplifica.

La decisione del Tribunale di Sorveglianza. Scarcerato il detenuto più anziano d’Italia: a 88 anni e con 17 patologie rischiava di morire ogni giorno. Viviana Lanza su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.  

Umanità e giustizia possono incrociarsi senza che l’una annulli l’altra. La notizia della scarcerazione di Carmine Montescuro, il detenuto più anziano d’Italia, restituisce un po’ di umanità al senso e alla funzione della pena. Montescuro è un vecchio boss della malavita napoletana. Ottantotto anni li compirà a luglio ed ridotto in pessime condizioni di salute a causa di diciassette patologie che lo hanno reso cieco, sordo, costretto su una sedie a rotelle, incapace di essere autonomo e bisognoso di cure e assistenza che in carcere era difficile garantire. Un altro detenuto lo piantonava ventiquattro ore su ventiquattro. E rischiava di morire ogni giorno, anche in considerazione dell’aumento dei contagi da Covid registrati nelle carceri negli ultimi mesi.

Da ieri Montescuro è agli arresti domiciliari. Il Tribunale di Sorveglianza ha accolto l’istanza presentata dai difensori di Montescuro. L’anziano detenuto ha quindi potuto lasciare il carcere di Secondigliano dove era recluso da due anni. Finì in cella, infatti, nel 2020, nel pieno della pandemia. Nonostante fosse un ultraottentenne. Nonostante le pattuglie, una sfilza di diciassette voci sulla cartella clinica. Nonostante fosse ridotto a una larva umana, per usare l’espressione utilizzata da chi, tra garanti e politici, si è recato in questi mesi in carcere a visitare il detenuto e constatare con i propri occhi le condizioni sue e della sua reclusione. L’ultima visita c’era stata pochi giorni fa. Il 19 febbraio scorso, il garante di Napoli Pietro Ioia era stata nel penitenziario di Secondigliano insieme alla senatrice del M5S Cinzia Leone e alla criminologa Patrizia Sannino, vice presidente dell’associazione Carcere vivo.

«Stare in carcere a 88 anni non è giustizia ma vendetta, è come una condanna a morte» aveva commentato Ioia al termine della visita. «Finalmente un po’ di umanità», ha aggiunto ieri il garante cittadino alla notizia della scarcerazione di Montescuro. «La dignità di un essere umano è stata rispettata – ha affermato – . Montescuro non poteva più restare in carcere, rischiava di morire da un momento all’altro. Voglio ringraziare il garante regionale Samuele Ciambriello e tutte le persone che si sono attivate con il sottoscritto», ha concluso Ioia ringraziando anche il Riformista per le sue battaglie in nome del garantismo e di una giustizia giusta. La storia di Carmine Monrescuro riaccende i riflettori su uno degli aspetti più delicati e difficili del sistema penitenziario, quello dei detenuti anziani. Nel nostro Paese la percentuale di reclusi over 70 è aumentata negli ultimi quindici anni.

Secondo le statistiche ministeriali, se nel 2005 nelle carceri si contavano 350 detenuti con un’età superiore ai 70 anni, nel 2021 se ne contano 993. Quasi il triplo. Negli anni, infatti, la popolazione detenuta è stata sempre più composta da anziani. Basti pensare che dai 350 detenuti ultrasettantenni del 2005 si è passati a 594 nel 2014, 776 nel 2017, 986 nel 2019. Nel 2020, anche a causa della pandemia, il numero dei detenuti anziani rinchiusi in carcere era sceso a 851 per poi risalire nel 2021 a 993. La Campania segue questo trend, nel senso che è in aumento da alcuni anni anche l’età media della popolazione rinchiusa nelle celle delle carceri di Poggioreale e Secondigliano. Lo avevano segnalato i garanti Ciambriello e Ioia nell’ultimo rapporto sulle carceri: troppi detenuti e troppo anziani era il dato. Numeri che si traducono in una serie di criticità se si considera che in carcere ci sono molte barriere architettoniche e poche risorse per garantire assistenza a un detenuto che si muove sulla sedia a rotelle, che non è autosufficiente, che ha bisogno di visite mediche specialistiche frequenti. criticità che si traducono in diritti mortificati e in una giustizia che rischia di perdere di vista l’umanità.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il carcere è un inferno, lo dicono anche gli agenti. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Il carcere è un luogo invivibile, che esaspera gli animi e schiaccia ogni diritto della persona, anche i più elementari. Ora lo dicono a voce alta anche gli agenti della polizia penitenziaria, quelli che all’interno degli istituti di pena rappresentano lo Stato, lo stesso Stato che lascia che le carceri continuino ad essere un inferno. Ieri a Napoli gli agenti della polizia penitenziaria hanno organizzato una protesta. Con striscioni e bandiere delle più rappresentative sigle sindacali, si sono riuniti davanti alla sede dell’amministrazione penitenziaria della Campania. «Non siamo torturatori ma torturati da un sistema penitenziario poco dignitoso per uno Stato che si definisce civile. Diciamo basta!», hanno affermato gridando i loro i disagi, i loro problemi.

Certo, la loro, è una battaglia di categoria. ma si spera che possa servire per accendere un faro in più nel buio dell’indifferenza con cui i più guardano al sistema carcere e alle condizioni inumane nelle quali sono lasciati i detenuti, in particolare i più soli nella società, gli ultimi. Sventolando bandiere dei sindaci Osapp, Sinappe, Uilpa, Uspp, Fns Cisl, Cnpp, Cgil, agenti della polizia penitenziaria e rappresentanti sindacali hanno partecipato al sit-in di protesta «contro vertici politici e un Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria silente», «che – accusano i sindacati della penitenziaria – intende disporre degli uomini e di donne in divisa come meglio crede». Cosa chiedono i sindacati, che giorni fa hanno anche indetto lo stato di agitazione? «Il ripristino delle non più sostenibili condizioni lavorative del personale di polizia penitenziaria in servizio presso gli istituti per adulti e minorenni e un miglioramento delle relazioni sindacali con i l provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Campania». «Siamo qui, tutti i sindacati della polizia penitenziaria riuniti perché da anni c’è uno stato di abbandono. Soltanto in Campania mancano 600 agenti, serve una riforma del sistema penitenziario», ha affermato Ciro Auricchio, segretario regionale Uspp.

«Il Governo è assente, le norme non sono più adeguate e le carceri sono vetuste e non più in grado di garantire sicurezza sociale», ha aggiunto Lorenza Sorrentino, segretario regionale Fns Cisl. Una battaglia di categoria, dicevamo. Al difficile quadro descritto dai sindacati della penitenziaria aggiungiamo noi, occorre non dimenticare le condizioni spesso invivibili nelle quali si trova a vivere una gran parte dei detenuti della Campania. Il sovraffollamento ne è la principale causa, a cui vanno aggiunti gli scarsissimi investimenti nelle attività di rieducazione dei detenuti, le carenze negli organici di figure come educatori e psicologi, una mancata attenzione per anni all’edilizia e all’architettura penitenziaria, e il fallimento della sanità penitenziaria e della tutela della salute delle persone private della libertà, il fallimento delle Rems, cioè delle strutture sanitarie di accoglienza per autori di reato affetti da disturbi mentali e ritenuti socialmente pericolosi. Fallimenti di cui parlano anche gli agenti della polizia penitenziaria, denunciando la mancanza di figure specializzate all’interno degli istituti di pena e le difficoltà riscontrate dagli agenti stessi nell’improvvisarsi psicologi o operatori nella gestione di detenuti con problemi psichiatrici.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Non c’è più tempo: bisogna fermare la strage. Detenuti o agenti, il carcere è una fabbrica di suicidi: quali sono le cause. Alessandro Capriccioli su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Se c’è una cosa utile che la pandemia ci ha regalato, tra tanti aspetti negativi e spesso tragici, è un minimo di dimestichezza in più con un approccio basato sui numeri, che permetta di interpretare la realtà prescindendo dalle sensazioni soggettive e basandosi sull’obiettività dei dati. Si tratta di un metodo che, epidemie a parte, può essere applicato a qualsiasi fenomeno della nostra società, e che forse è opportuno adottare anche per affrontare la questione dei suicidi in carcere, visto che le sole notizie in merito, ancorché drammatiche, non sembrano sufficienti a destare la giusta attenzione.

Andiamo per ordine, e diamo un’occhiata ai numeri che abbiamo a disposizione. Dall’inizio dell’anno nelle carceri del nostro paese si sono tolte la vita dodici persone detenute (undici uomini e una donna), corrispondenti alla media (spaventosa) di un suicidio ogni tre giorni e mezzo. Naturalmente si tratta di un lasso di tempo troppo ristretto per trarre conclusioni generali. Per costruire una visione d’insieme più solida dobbiamo prendere in esame un periodo più significativo, ad esempio quello che va dal 2000 al 2021: ventidue anni in cui nelle nostre carceri si sono tolte la vita 1.222 persone, pari a una media di 55,5 suicidi l’anno. Poiché dagli inizi degli anni duemila il numero dei detenuti nei nostri istituti penitenziari si è mantenuto relativamente stabile, attestandosi su un livello medio pari a circa 58mila unità (stiamo trattando i numeri in modo approssimativo, ma più che sufficiente a ottenere una stima di massima), si ricava con facilità che la media di suicidi nell’ambito della nostra popolazione carceraria è pari a circa nove suicidi ogni diecimila persone.

Già a prima vista non è difficile comprendere che si tratta di un numero molto alto. Ma per apprezzare appieno la sua entità sarà utile raffrontarlo col tasso di suicidi nella popolazione generale. Grazie ai dati elaborati dall’Istituto superiore di sanità sappiamo che in Italia si registrano ogni anno circa 4.000 morti per suicidio. Prendendo in esame la popolazione con età superiore a 15 anni (non solo perché il suicidio è un evento statisticamente molto raro nell’infanzia, ma anche perché questa operazione ci aiuta a comparare il dato con quello degli istituti penitenziari, nei quali accedono quasi esclusivamente gli adulti) questo dato corrisponde grosso modo a un tasso di 10 suicidi ogni 100mila abitanti, che riportato alla stessa scala utilizzata per i detenuti equivale circa a un suicidio ogni diecimila individui. Dal raffronto tra i due indici si può concludere che il tasso suicidario nella popolazione carceraria è pari a circa nove volte quello riscontrabile nella popolazione generale.

Questo risultato, al di là del modo rudimentale con cui l’abbiamo ottenuto, ci dice in modo molto chiaro che il numero dei suicidi negli istituti penitenziari non è grande: è enorme. La reclusione in carcere rappresenta un gigantesco fattore di rischio in relazione all’eventualità del suicidio, perché chi viene recluso ha una probabilità di togliersi la vita quasi decuplicata rispetto a chi conduce una vita libera. Tutto ciò senza contare i tentativi di suicidio sventati o semplicemente non andati a buon fine, di cui non è materialmente possibile tenere il conto (ma che chi frequenta il carcere sa essere molto numerosi), e la frequenza degli episodi di suicidio tra gli agenti di polizia penitenziaria, anch’essa ampiamente superiore alla media nazionale.

Le cause di questa macroscopica differenza tra probabilità di suicidio in carcere e probabilità di suicidio fuori dal carcere sono ormai arcinote, perché formano oggetto di analisi e studio da decenni. Si tratta di cause sistemiche, più che puntuali: se da un lato è evidente che determinate condizioni (l’abuso della custodia cautelare, il sovraffollamento, le condizioni strutturali dei singoli istituti, la ridotta quantità di attività lavorative e ricreative in determinate realtà) fanno aumentare la possibilità di eventi critici, dall’altro è ormai acclarato che il grosso del rischio si deve alla privazione della libertà in quanto tale, che determina con grande frequenza stati di ansia, di depressione e di disperazione.

Il carcere, insomma, è una fabbrica di suicidi. E meraviglia, perfino al di là del disinteresse endemico che la nostra classe politica nutre nei confronti del mondo penitenziario, che un dato così allarmante non sia sufficiente a indurre un complesso di iniziative che investa almeno due fronti: da un lato gli interventi che sarebbe possibile operare da subito per migliorare le condizioni di vita delle persone detenute, per incrementare il ricorso alle misure alternative e per ridurre ai minimi termini l’istituto della carcerazione preventiva; dall’altro un ripensamento profondo della funzione e dell’effettiva utilità dell’istituzione carceraria, nell’ottica della sua progressiva riduzione al campo dell’extrema ratio e perciò, nella maggior parte dei casi, del suo superamento. Non c’è più tempo da perdere. Perché si tratta, numeri alla mano, di fermare una strage.

Alessandro Capriccioli. Consigliere regionale del Lazio di +Europa Radicali

Carcere di Taranto stracolmo: 700 detenuti su 350 posti disponibili. La denuncia del Sappe: «Inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.

«Taranto è sicuramente tra le carceri più affollate della nazione con circa 700 detenuti a fronte di 350 posti disponibili e con un organico di polizia penitenziaria totalmente insufficiente». Così il segretario nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria), Federico Pilagatti, nel documento che oggi sarà consegnato al sottosegretario alla Giustizia, Anna Macina, a conclusione della visita nel carcere di Taranto. «In ogni sezione detentiva sono ospitati circa 70 detenuti senza spazi nelle stanze, con grave carenza di attività trattamentali, rieducative e sportive», si legge nel documento.

«Praticamente inesistenti per i detenuti i progetti lavorativi all’interno e all’esterno del carcere, propedeutici al reinserimento così come sancisce l’articolo 27 della carta costituzionale. Noi riteniamo che dare la possibilità di impiegare i detenuti in attività lavorative e rieducative, sia l’unico modo per evitare disordini, proteste, pericoli nonché situazioni di degrado», prosegue il Sappe.

«Denunciamo l’insufficiente assistenza sanitaria ai detenuti di cui moltissimi affetti da patologie molto serie e la presenza di un altissimo numero di detenuti con problemi psichiatrici a cui l’Asl risponde con un numero di ore assegnate agli specialisti inadeguato. Da due mesi un detenuto con problemi psichiatrici è dimenticato presso ospedale di Taranto, poiché non si trova una Rems, con enormi costi economici di mezzi e uomini», va avanti il sindacato.

«La sicurezza non può essere garantita né dai poliziotti e nemmeno dalle apparecchiature elettroniche considerata che presso la sala regia si riscontra inefficienza di strumentazioni, con monitor e apparecchi di videosorveglianza e sistemi di sicurezza attivi, assenti o non funzionanti», sottolinea il Sappe. «Vogliamo anticipare che il prossimo 22 febbraio, il Sappe manifesterà davanti al carcere per denunciare tutta la situazione sin qui raccontata, che purtroppo non investe solo il carcere di Taranto ma l’intera regione, considerato che in 20 anni si è ridotto l’organico della polizia penitenziaria nelle carceri pugliesi di circa 600 unità, con centinaia di detenuti in più», conclude il sindacato.

La Consulta: troppi 250 euro al giorno per tramutare il carcere in pena pecuniaria. La Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per la violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

La pena pecuniaria è una seria alternativa a quella carceraria, ma il tasso minimo di 250 euro al giorno previsto dalla legge trasforma la possibilità di sostituire il carcere in un privilegio per i condannati abbienti. Questo, in sintesi, ha affermato la Corte costituzionale nella sentenza n.28 (redattore Francesco Viganò), con la quale ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 53, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, per violazione dei principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena.

La Corte ha perciò ritenuto che ai 250 euro debbano essere sostituiti i 75 euro già previsti dalla normativa in materia di decreto penale di condanna, fermo restando l’attuale limite massimo giornaliero di 2.500 euro. Peraltro, poiché il Parlamento ha recentemente delegato il governo per modificare la disciplina della sostituzione della pena detentiva, la Corte ha sottolineato che il legislatore può, nella sua discrezionalità, individuare soluzioni diverse e, in ipotesi, ancor più aderenti ai principi costituzionali definiti nella sentenza.

La norma censurata dal Tribunale di Taranto prevede che il giudice può sostituire le pene detentive non superiori a sei mesi con una pena pecuniaria, il cui ammontare si ottiene moltiplicando i giorni della pena da sostituire per un importo a carico dell’imputato, stabilito tenendo conto delle sue condizioni economiche. Importo che però, nella formulazione dichiarata incostituzionale, non può essere inferiore a 250 euro al giorno. La Consulta ha rilevato che, se l’impatto di pene detentive della stessa durata è, in linea di principio, uguale per tutti i condannati, non altrettanto può dirsi per le pene pecuniarie: una multa di mille euro, ad esempio, può essere più o meno afflittiva secondo le disponibilità di reddito e di patrimonio del singolo condannato.

Nella prospettiva di un’eguaglianza “sostanziale” e non solo “formale”, allora, la sentenza sottolinea la necessità che il giudice possa sempre adeguare la pena pecuniaria alle reali condizioni economiche del reo, per evitare che risulti sproporzionatamente gravosa. Una quota giornaliera minima di 250 euro, ha proseguito la Corte, è ben superiore alla somma che la gran parte delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di pagare. Moltiplicata poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone.

Emblematico il caso esaminato dal Tribunale di Taranto: una persona condannata per violenza privata, per il parcheggio dell’auto davanti a un passo carraio, aveva patteggiato la sostituzione della pena di tre mesi di reclusione e quindi, in base alla norma censurata, avrebbe dovuto pagare ben 22.500 euro, molto più dei suoi redditi annui. Un coefficiente di conversione così elevato ha determinato, nella prassi dei Tribunali, una drastica compressione della sostituzione della pena pecuniaria, che è invece uno strumento prezioso per evitare che, per un reato di modesta gravità, si finisca in carcere, con effetti più criminogeni che risocializzanti. La Corte costituzionale ha concluso che solo una disciplina della pena pecuniaria in grado di garantirne una misura proporzionata alla gravità del reato e alle condizioni economiche del reo, nonché la sua effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena detentiva, così come di fatto accade in molti altri Paesi.

Chi sono i “liberi sospesi”, 80 mila in attesa di misure alternative per più tempo della pena…Valentina Manchisi su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022. 

Il dibattito sull’irragionevole lentezza del processo penale in Italia è, purtroppo, sempre attuale. Altrettanto tristemente attuale è il dramma del carcere ogni qual volta esso venga applicato. Famiglie, affetti, psiche di chi finisce nelle maglie del sistema penale vengono tragicamente devastati. Nell’alveo delle risposte del nostro sistema sanzionatorio esiste poi una zona grigia, tanto consistente quanto poco dibattuta se non per motivi meramente organizzativi: la fase di concessione delle misure alternative alla detenzione, applicabili quando le pene non sono eccessivamente elevate e se non riguardano condanne per reati ostativi. Sarebbero risposte sanzionatorie da far invidia a qualsiasi sistema special preventivo, se non fosse per una grave falla del sistema: vengono applicate a distanza di parecchi anni non solo dal fatto commesso, ma anche dal momento in cui vengono richieste.

I Tribunali di Sorveglianza scoppiano, e si è tentato di alleggerirne il carico attribuendo al singolo Magistrato di Sorveglianza la competenza per le pene di minore entità, peraltro con una decisione priva di precedente contraddittorio che quindi viene fortemente ridotto seppur in un momento tanto delicato perché direttamente incisivo sulla libertà della persona. Sono anni che Rita Bernardini solleva la questione delle circa ottantamila persone che attendono una risposta alla propria istanza di espiazione della pena in misura alternativa al carcere: ottantamila “liberi sospesi”, persone che in molti casi hanno sì commesso reati nel passato, ma che nei lunghi anni del processo penale a loro carico e dell’attesa del procedimento in Sorveglianza hanno ripreso autonomamente in mano la propria vita, ripagato i danni civili e morali causati con le proprie condotte, trovato lavoro stabile, creato una famiglia. Persone che improvvisamente si ritrovano a temere che un Tribunale o un Magistrato possa applicare loro una misura più o meno privativa della libertà personale, carcere compreso.

Il numero di anni che trascorre tra il momento dell’istanza di misura alternativa del condannato e il momento in cui viene emessa la decisione non di rado supera moltissimo l’entità della pena stessa. Un tempo in cui tante persone, ben prima dell’intervento dello Stato educatore, possono dare concretamente prova di aver ricostruito autonomamente una vita risocializzata. Non esiste nel nostro sistema – penale e penitenziario – un meccanismo che possa avallare un’avvenuta riconciliazione di questi soggetti con la società, quand’anche essi abbiano già restituito e ricostruito. Così, quella di tanti “liberi sospesi” diviene un’espiazione ben più lunga rispetto a quella prevista dalla sentenza di condanna, creando una condizione disumana e che riporta indietro di anni il positivo percorso di vita di costoro. È un’afflizione aggiuntiva, una pena oltre alla pena. Qualcosa di più della sanzione, che però non trova fondamento in una norma di legge bensì solo nell’inerzia, nel malfunzionamento, nella carenza di risorse e di personale: un sistema colabrodo in cui ciclicamente si cerca di salvare il salvabile tra un rattoppo legislativo e un protocollo organizzativo.

Vien da domandarsi se, a tali condizioni, non sia da ridiscutere il concetto di esigibilità della pena quando quest’ultima non risponda più alla primaria esigenza di rieducazione del condannato sancita dall’articolo 27 della Costituzione. La certezza della pena, intesa ciecamente quale risposta automatica e a prescindere dalla realtà fattuale e personale del singolo individuo a cui è stata comminata, nei fatti si traduce in una mera prassi burocratica: deve avere il suo corso perché la legge così stabilisce e anche perché la società non può accettare che un condannato non sconti la sua condanna. Una riflessione va fatta anche in relazione al principio di uguaglianza di cui all’articolo 3 della Costituzione, secondo il quale, con una lettura a contrario, situazioni diverse devono essere trattate in modo diverso e che, perciò, non viene rispettato se la pena viene applicata a prescindere dai profili rieducativi, quand’anche essa non ne abbia.

Esiste la prescrizione della pena, controbatteranno i puristi del codice Rocco. Ma il presupposto di tale istituto è che l’esecuzione non sia in corso e così le richieste di misure alternative alla detenzione finiscono affollate in quell’imbuto chiamato Tribunale. Servirebbe che il legislatore intervenisse per modificare tutte le norme rilevanti sul sistema sanzionatorio e per prevedere, in caso di tardiva trattazione delle richieste di misura alternativa, una valutazione sull’esigibilità della pena in ogni singolo caso concreto, nel pieno rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e di rieducazione, poiché in una società che possa dirsi rispettosa dei diritti umani fondamentali non è ammissibile un meccanismo automatico ove le falle burocratiche minano ogni giorno la vita di chi, invece, nello Stato dovrebbe trovare una maggiore tutela. Valentina Manchisi

Sono un migliaio i detenuti privati del diritto alla misura alternativa. Le istanze di misura alternativa vengono rigettate perché i detenuti con una pena totale o residua inferiore a 3 anni non hanno casa e lavoro. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 31 gennaio 2022.

Il nostro sistema penitenziario tende a far scontare la pena carceraria anche per reati minori, contribuendo quindi all’idea che il carcere possa e debba essere la soluzione unica e definitiva. Una parte di loro, hanno un doppio svantaggio. Nonostante ne abbiano il diritto, non posso usufruire della misura alternativa per via delle loro condizioni di marginalità sociale. La possibilità è offerta a coloro che si trovano a dover scontare una pena totale o residua inferiore a 3 anni.

Ma tanti di loro non possono per mancanza di casa, lavoro e legami familiari. Viene meno, per loro, la volontà di creare un ponte verso l’esterno al fine di garantire un inserimento sociale a tutti coloro che hanno affrontato il percorso rieducativo.

Il Garante nazionale delle persone private della libertà, nell’ultima presentazione della relazione annuale al Parlamento, ha sottolineato la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni. «È un tema – ha relazionato il presidente Mauro Palma – che chiama alla responsabilità anche il territorio perché il carcere da solo non può rispondere ad altre carenze».

Ed è il territorio che non si prende a carico del problema. Emblematico l’esempio di un recente progetto degli “Avvocati di strada”, proprio sul tema dei senza fissa dimora che finiscono in carcere. Fa l’esempio di una persona condannata a 1 anno e 5 mesi, che a seguito delle vicissitudini legate alla precarietà del lavoro, dei rapporti familiari e relazioni che caratterizzano la nostra società, ha perso la casa, magari dopo un mutuo pagato per 10 anni su 20 e che ora vive in strada e quando è fortunato riesce a passare qualche notte in dormitorio e garantirsi una doccia calda.

Ecco, questa persona vedrà rigettarsi la domanda di misura alternativa: alla voce “residente” o “domiciliato in” avrà difficoltà. Qualora sia un minimo fortunato e abbia una residenza da dichiarare, sarà sicuramente difficile compilare la voce attività lavorativa svolta, attività di volontariato svolta, percorso di rieducazione svolto. Soprattutto se da solo di fronte a quel modulo. Per il nostro senza dimora si apriranno, quindi, le porte dell’istituto penitenziario, ma soprattutto si apriranno tutte le porte dei rischi che il carcere oggi comporta in Italia.

«Così un giudice ha salvato un ragazzino dal baratro». Annalisa Costanzo su Il Dubbio il 4 febbraio 2022.  

La nuova vita del 17enne che diede fuoco all’auto di un clochard, che rimase ucciso. Un giudice che ha deciso di interpretare alla lettera l’articolo 27 della Costituzione.

Ha pianto e si è anche disperato in questi anni, al ricordo di quella vita spezzata. Uno stupido e dannato scherzo iniziato «per noia», insieme all’amico13enne, costato però la vita ad Ahmed Fdil, clochard marocchino di 64 anni. Non la dimenticherà mai quella fredda e cupa serata del 13 dicembre del 2017, quando le fiamme si levarono alte nel piccolo centro di Santa Maria di Zevio, nel veronese, e che per colpa sua uccisero “il baffo”.

Dopo l’omicidio, il processo è stato sospeso ed è stata disposta la messa in prova. L’allora 17enne, unico imputato per l’omicidio Ahmed, si è rimboccato le maniche ed ha lavorato sodo, su se stesso soprattutto, per non sprecare quell’unica possibilità di redenzione che il giudice gli ha concesso. Un giudice che ha deciso di interpretare alla lettera l’articolo 27 della Costituzione: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non alla sua espulsione dalla società. Proprio come la stessa procura aveva richiesto.

In questi ultimi quattro anni di «messa alla prova», ha lavorato al servizio della comunità, si è occupato anche dei disabili, li ha fatti sorridere qualche volta, si è affezionato a loro. Ha proseguito gli studi. Si è diplomato e adesso vorrebbe diventare uno chef. Ha poi seguito il percorso di psicoterapia così come disposto dal giudice, ha portato avanti la massa in prova e le relazioni dei servizi sociali su di lui sono state un fiume d’inchiostro positivo.

I sensi di colpa lo accompagneranno per il resto della sua vita, ma adesso è un uomo libero. Oggi ha 21 anni, ma in quella comunità protetta che lo ha visto diventare uomo ci è entrato quando aveva appena 17 anni, pochi giorni dopo che per noia, con un fazzoletto «rubato» da una pizzeria, insieme ad un amico 13enne, diede fuoco alla vecchia Fiat Bravo dove Ahmed stava riposando. Ahmed – come dirà in processo uno dei periti – è stato arso vivo, morendo inghiottito dalle fiamme. Anche se, ancora, non è chiaro come un fazzoletto incendiato abbia potuto scatenare quel fuoco mortale.

Quando nel 2017 per noia bullizzava il 64enne, l’allora 17enne non era di certo un ragazzo facile da gestire. Proveniente da uno stato dell’Europa orientale, non era riuscito ad integrarsi nella comunità veronese. Aveva stretto amicizia con un altro straniero, quel 13enne proveniente dal nord Africa con cui passava molte ore della giornata, compresa quella del 13 dicembre 2017. Un omicidio, due colpevoli e «nessun giorno di carcere per quei ragazzi», dice il nipote della vittima. Il 13enne, infatti, era troppo piccolo per essere imputabile. L’unico ad essere processato fu dunque il 17enne. Maria Teresa Rossi, giudice di quel difficile processo, tenendo conto della giovane età dell’imputato, ha deciso però di escludere la misura detentiva in carcere ed ha scelto di applicare la legge dell’ordinamento italiano che prevede l’affidamento in prova ai servizi sociali.

Il tribunale di Verona ha dunque puntato sul recupero del reo e, viste le positive relazioni dei servizi sociali, non ha fallito. «Chapeau a chi ha capito che poteva tentarci ed a chi dopo, assistenti sociali e comunità, ha lavorato con e sul ragazzo», dichiara al Dubbio il suo avvocato, Giovanni Bondardo, raccontando la storia di un processo minorile in cui «la messa alla prova ha funzionato». Grazie alla parte pubblica, «che ha lavorato – dice – bene e salvato un ragazzo. Gli assistenti sociali hanno fatto un buon lavoro. La struttura che lo ha avuto in affidamento ha lavorato molto bene. Il ragazzo si è impegnato e adesso è cambiato completamente – conclude l’avvocato Bondardo -. È un’altra persona». Non è stato facile per il ragazzo. Gli incontri con la madre venivano monitorati dagli assistenti sociali. Ogni respiro veniva rivelato, ogni passo valutato.

Due volte alla settimana faceva volontariato in una struttura che si occupa di pet therapy. Niente cellulari, niente vita sociale fuori dalla comunità. E, dopo gli anni trascorsi dentro quella zona protetta, il ventunenne, mesi fa, ha potuto riabbracciare la madre, con la quale adesso vive, sempre nel veronese. Da uomo libero ha ripreso a sognare. Vuole una vita normale. Non dimentica e non dimenticherà mai quel che ha fatto. Nessun abitante di quel piccolo centro dell’hinterland veronese, d’altronde, ha mai dimenticato l’orribile morte toccata a Ahmed Fdil. Si era ben ambientato nella comunità veronese il 64enne marocchino, capelli brizzolati e quei baffoni neri per i quali si era aggiudicato il dolce soprannome de «il baffo».

Una vita dignitosa la sua, fino alla perdita del lavoro che l’ha costretto a vivere in macchina. Era così diventato un senzatetto e aveva scelto la sua Fiat Bravo come nuova abitazione, non immaginando però che per la noia di due ragazzini quell’auto sarebbe divenuta la sua tomba. Per giorni, dopo quel 13 dicembre, procura e investigatori sono stati convinti che si trattasse di un incidente.

Nell’immediatezza l’omicidio non era stato preso in considerazione. Santa Maria di Zevio, però, è un piccolo centro e, come in tutte le piccole comunità, la verità ha preso velocemente a passare di bocca in bocca, spingendo i carabinieri ad indagare. E a capire che Ahmed era benvoluto da tutti, tranne che da un gruppo di ragazzetti che in lui vedevano la valvola di sfogo della loro noia.

La verità poi scoperta dai militari dell’Arma fu agghiacciante. «Abbiamo preso le salviette, poi siamo andati nel parcheggio dove c’era il baffo», raccontarono i due ragazzini ormai smascherati, per poi iniziare a rimpallare le accuse su chi avesse acceso e lanciato dentro la macchina quel fazzoletto infuocato. «L’ha lanciato lui», «no, lui». Fino ad ammettere: «Siamo andati lì perché non avevamo niente da fare», con l’intenzione, dissero, di fare uno scherzo a baffo. Uno scherzo che ha ucciso un uomo e cambiato per sempre le loro vite.

Caso Ahmed Fdil, quel ragazzino in libertà può indignare: ma così vince il diritto. Un delitto atroce quello del clochard arso vivo nell'auto che era diventata la sua casa. Ma all'orrore non si ripara con l'orrore. Il commento di Maria Brucale, avvocato di Nessuno Tocchi Caino. Maria Brucale Il Dubbio il 05 febbraio 2022.

Sono trascorsi quattro anni da quando Ahmed Fdil, una persona di 64 anni divenuta senza tetto per aver perso il lavoro, è stata uccisa dal fuoco in una vecchia auto che era diventata la sua casa. Ad accendere l’incendio erano stati due adolescenti annoiati, uno di 13 e uno di 17 anni, che avevano lanciato accanto all’auto due pezzi di carta presi da una pizzeria da asporto e dati alle fiamme, “per scherzo”, così avevano detto confessando il crimine, senza rendersi conto delle conseguenze atroci di quel terribile gesto. Il tredicenne non era allora imputabile.

Per il diciassettenne non si sono aperte le porte del carcere perché il tribunale dei minori ha ritenuto, conformemente alla legge, che il profilo personale del reo e la sua giovanissima età consentissero ampie possibilità di reinserimento e di emenda e che il carcere non avrebbe giovato a quel giovane quanto un percorso serio e responsabile di riparazione condotto in una località protetta prestando assistenza ad anziani e disabili. Oggi il ragazzo ha concluso la prova decisa dai giudici e i servizi sociali danno conto di una concreta utilità del trattamento disposto che ha prodotto una piena maturazione e una fattiva presa di coscienza del crimine commesso. Ove il tribunale, a breve nuovamente interpellato, ravviserà, come appare prevedibile, il buon esito della c.d. “messa alla prova”, l’autore di quel gesto indicibile sarà completamente libero.

Comprensibili tutti i sentimenti di disagio e di sdegno accesi da una condotta che in sé palesa un disadattamento intimo e profondo, indifferenza sprezzante verso la condizione di solitudine e di miseria dignitosa e composta di un clochard, disprezzo della vita. Comprensibili ed empaticamente del tutto condivisibili e, tuttavia, c’è una ragione superiore che deve governare l’agire dello Stato quale tutore della sicurezza sociale e garante di un concetto più alto, esule dalle spinte emozionali, di Giustizia: l’utilità sociale, il risanamento di uno strappo con una visione lungimirante di prospettiva. E allora lo Stato dovrà tenere conto delle necessarie diversificazioni richieste dalla particolare fragilità dei minori che commettono reati, e dalla opportunità di rispondere alle condotte criminose con strumenti che traducano la tensione punitiva in aspirazione educativa e di recupero.

In tale ottica, del rispetto di una particolare condizione di vulnerabilità, della necessità di educare la persona che sia incorsa da minorenne nel crimine e di determinarne la adesione a modelli sociali alternativi e positivi, di sanzionare con intelligenza prospettica ed indulgenza il minore il cui ricorso al crimine può essere stato determinato da condizionamenti esterni – sociali o familiari – cui non è stato in grado di contrapporre una resistenza matura e consapevole, il carcere deve essere considerato davvero come extrema ratio e rispondere a criteri di assoluta inevitabilità. Gli studi ed i progetti di legge elaborati negli ultimi anni, le indicazioni offerte dalla Corte Costituzionale – troppo spesso costretta a vestire i panni di un indolente legislatore – dalle direttive europee, dalle circolari ministeriali, tutti assecondano tale medesima intenzione: relegare la pena in carcere ad un ambito del tutto residuale e prediligere l’esecuzione penale “aperta” o extramoenia tesa alla integrazione sociale ed alla responsabilizzazione di soggetti ancora da educare, non da rieducare. E, allora, la pena detentiva appare del tutto inutile quando non dannosa mentre risponde ad un’ottica concreta di tutela della collettività e tende a prevenire la commissione di ulteriori reati la scelta di favorire la responsabilizzazione, l’educazione e il pieno sviluppo psico-fisico del minore, la preparazione alla vita libera, l’integrazione.

La tutela della società impone, insomma, la declinazione di un nuovo e più sensato e costruttivo concetto di sicurezza sociale. A fronte di una condotta orribile non è utile una pena orribile. La logica della protezione sociale pone a interrogarsi pragmaticamente su quale sia da parte dello Stato la condotta più feconda per sanare una ferita ormai inferta e a volte tragicamente irrimediabile. Non può non tornare in mente il motto fatto bandiera da Marco Pannella e divenuto icona della azione nonviolenta dell’associazione Nessuno Tocchi Caino: Spes contra Spem. Il posto di Caino è in società. Caino rappresenta l’umanità intera e la sua inclinazione all’errore e alla violenza ma la estrinsecazione della ferocia rappresentativa della stessa natura umana non deve essere repressa con pari ferocia. Caino deve avere un’altra opportunità. Abele è morto e su di lui si versano la pietà e il dolore di quanti lo hanno amato e di chiunque abbia subito la lacerazione di una morte cruenta, terribile, ingiustificabile. La punizione di Caino non la ripara, non sana le ferite, non recupera, non restituisce, non offre ristoro alla società se non quello del tutto umano del volere la sofferenza di chi ha determinato la nostra, del bisogno di vendetta, figlio anch’esso della stessa passione umana che conduce all’orrore della violenza.

Un impulso intimamente del tutto condivisibile e, tuttavia, socialmente non utile, determinato dal bisogno di ferire non di sanare, costituzionalmente ammesso solo laddove serva a contenere, a tutelare la società dalla reiterazione del delitto. La punizione fine a sé stessa, quella che ognuno di noi vorrebbe feroce ed estrema a colpire chi ci ha ferito, chi ci ha privato di un affetto, chi ci ha procurato un dolore incancellabile non è ammessa se è socialmente inutile. Se quel giovane ha compreso, se ha tradotto quell’orrore in consapevolezza del valore della vita, se ha maturato empatia per chi soffre e rispetto dei suoi simili e di ogni condizione di vulnerabilità lo Stato di Diritto ha vinto senza procurare nuove ferite.

Le promesse e le proposte di legge dimenticate. La vergogna infinita dei bambini in carcere, uno scandalo che la politica non riesce a evitare. Giulio Cavalli su Il Riformista il 28 Gennaio 2022.  

«Entro il 2015 nessun bambino sarà più detenuto». Era il 2015 e l’allora ministro della giustizia Andrea Orlando nel penitenziario di Rebibbia, di fronte a otto mamme incarcerate con i loro figli aveva promesso «la fine di questa vergogna contro il senso di umanità»: «non possiamo privare un bambino della libertà, è innocente ma allo stesso tempo ha diritto di vedere sua madre. – aveva detto Orlando – Abbiamo tre obiettivi da realizzare prima possibile: il primo è la fine della detenzione per questi piccoli, il secondo è quello di rivedere le modalità con cui avvengono i colloqui tra genitori e figli.

Abbiamo firmato un protocollo d’intesa con l’associazione “Bambini senza sbarre” e con il Garante per l’Infanzia per ridefinire l’accoglienza in carcere». Il 15 luglio del 2015 nei penitenziari italiani c’erano 33 donne che stavano scontando la pena con i loro bambini: 15 accolte negli Icam (gli istituti a custodia attenuata per detenute madri) di Milano, Torino e Venezia e le altre 19 in normali carceri. Sono passati 7 anni e i dati ci dicono che al 31 dicembre scorso nel sistema penitenziario italiano si trovavano 18 bambini reclusi. Un anno fa erano 29 e, al 31 dicembre del 2018, 52. La “vergogna” è rimasta tale, le promesse pure. La legge in vigore è la 62 del 2011 e prevede misure alternative al carcere per le madri con figli fino ai sei anni di età, gli ICAM e le case famiglia protette. Nonostante le premesse e i principi che hanno ispirato la legge, la carcerazione non è stata eliminata: l’accesso alle case famiglia protette è molto limitato perché gli oneri di spesa finora non sono stati a carico dello Stato.

Un esempio? Nel secondo rapporto semestrale dell’Ausl di Bologna (dal titolo “Carcere Bologna: il disastro permanente”) Vito Totire nell’agosto 2020 scriveva: «Irrisolto il problema dello spazio per una persona detenuta con bambino; irrisolto nel senso che, dopo tanti anni, ancora non paiono esecutive le norme che vietano la detenzione in carcere di bambini piccoli che devono invece essere ospitati, con le loro mamme, negli ICAM e/o comunque in una struttura alternativa al carcere e diversa a seconda della posizione giuridica della madre; di recente, ancora una volta, la Dozza ha ospitato una bambina di 4 anni, sia pure per pochi giorni! Comunque, fino a quando esiste lo spazio per donna con bambino, lo spazio “rischierà” di essere occupato a discapito delle strutture alternative extracarcerarie». Pochi mesi dopo la direzione del penitenziario annuncia che al reparto femminile del carcere sarà inaugurato un nido per ospitare di volta in volta fino a due donne con i loro figli. Il garante regionale Marcello Marighelli ricorda che il nido in carcere è una misura che risale al 1975. No, non si tratta di una soluzione: i bambini devono uscire dal carcere.

La differenza l’ha sintetizzata perfettamente il deputato Paolo Siani (PD): «Ho visitato personalmente l’Icam di Avellino e una casa famiglia protetta di Roma. Sono due mondi completamente diversi: il primo è un carcere, il secondo è il luogo adatto a far crescere un bambino quando rimane con la madre detenuta», commenta. Per questo il deputato aveva depositato a dicembre del 2019 la proposta di legge 2298 per superare i “profili problematici” della legge 62/2011, la norma che dieci anni fa ha istituito gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam) per “impedire che bambini varchino la soglia del carcere”. Inizialmente sembrava che ci fosse una larga convergenza ma poi tutto si è arenato in Commissione giustizia. La proposta di legge Siani prevede l’obbligo per lo Stato a finanziare le case famiglia protette per detenute madri e l’obbligo per il ministero delle Giustizia di stipulare convenzioni con gli enti locali per individuare le strutture idonee ad accogliere le mamme detenute con i loro bambini.

Il testo della proposta di legge prevede anche alcune modifiche al codice di procedura penale finalizzate a rendere la custodia cautelare delle detenute madri all’interno degli Icam solo nel caso in cui sussistano “esigenze cautelari di eccezionale rilevanza”. La proposta, se venisse approvata, eviterebbe che per le madri si aprano le porte del carcere ma individuerebbe nelle case famiglia protette la soluzione ordinaria, relegando gli Icam come estrema soluzione.

A dicembre del 2020 con un emendamento alla legge di bilancio era stato previsto un fondo con una dotazione di 1,5 milioni di euro all’anno per il triennio 2021-2024 (4,5 milioni in tutto) per creare un numero di posti sufficiente per accogliere le madri in carcere con bambini.

Si attendeva il decreto attuativo e la ripartizione dell’importo tra le regioni. È arrivato solo 10 mesi dopo (a settembre del 2021) e a oggi le uniche case famiglia protette attualmente attive sono solo a Roma e Milano. Una cosa è certa: in Italia finiscono in carcere bambini che sono innocentissimi perché la politica fatica a trovare una soluzione. C’è una categoria di persone che è condannata a scontare in carcere pene mai commesse, inconsapevoli del destino che gli è stato rilevato.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Il nodo irrisolto delle detenute con figli al seguito. Cartabia non vuole bambini in carcere, ma in Campania ce ne sono 11 dietro le sbarre. Viviana Lanza su Il Riformista il 4 Dicembre 2021. 

Ci sono undici i bambini “reclusi” in Campania. Hanno dai pochi mesi di vita a qualche anno di età. Il loro mondo è chiuso nel perimetro dell’Icam di Lauro, istituto a custodia attenuata per detenute madri. Nella nostra regione è l’unica struttura attrezzata per ospitare donne detenute con figli piccoli al seguito. Secondo i dati ministeriali aggiornati al 30 novembre, nell’Icam campano ci sono attualmente dieci detenute madri e undici bambini, dei quali la metà di etnia rom o proviene dai Paesi dell’Est o del Nordafrica.

Vivono in un contesto che prova a non essere un grigio e desolato vero e proprio carcere, ma che nella realtà resta un luogo di restrizione della libertà personale. Rispetto allo scorso mese una novità c’è: un neonato di due mesi è stato “scarcerato” insieme alla sua mamma e un altro bimbo, la cui nascita è prevista tra pochi giorni, potrà vivere in un luogo diverso dall’Icam di Lauro perchè anche la sua mamma è stata scarcerata. Per il resto, quante battaglie, quanti proclami, quante parole si sono spese in questi anni su questo aspetto del regime penitenziario. E quante volte abbiamo sentito dire che in carcere i bambini non ci dovrebbero stare, per poi constatare che negli istituti di pena i bambini non solo continuano a viverci ma alcuni addirittura ci nascono. «Anche un solo bambino in carcere è di troppo», ha affermato la ministra della Giustizia Marta Cartabia intervenendo ieri alla Quarta Conferenza nazionale sulla famiglia. «L’obiettivo primario della riforma – ha spiegato – è realizzare gli interessi superiori del minore. L’espressione anglosassone primigenia di best interests of the child è non a caso declinata al plurale.

Gli stessi interessi che mi hanno già portato ad occuparmi anche dei bambini in carcere con le loro madri e di cui, anche insieme al garante dell’infanzia, presto tornerò ad occuparmi concretamente». «Non è possibile – ha aggiunto la ministra – che bambini di tenerissima età, innocenti per definizione, scontino la pena che è stata inflitta alla madre. Occorre trovare una soluzione definitiva a questo problema, che grazie a Dio riguarda ormai pochissimi casi anche per la generosa disponibilità di tanti operatori del terzo settore». Grazie all’iniziativa del deputato Paolo Siani, il Governo ha previsto fondi da destinare alle Regioni per la realizzazione di case protette in cui ospitare le donne detenute con i propri figli al seguito. Per la Campania sono stati previsti 240mila euro all’anno per i prossimi tre anni ma al momento non c’è alcuna casa famiglia avviata.

Il garante campano Samuele Ciambriello ha sottolineato la carenza di case protette nella nostra regione. In Italia ce ne sono a Roma e a Milano. Sarebbe quindi ora di passare davvero dalle parole ai fatti ed evitare che d’ora in poi anche un solo bambino debba vivere i suoi primi anni di vita in un luogo di reclusione. Quanta strada c’è ancora da percorrere per la piena tutela dei diritti dei bambini. In Campania il 17,4 % della popolazione è minorenne eppure per bambini e ragazzi si fa ancora troppo poco in termini di opportunità di studio, di sport, di salute, di diritti. Ieri il Riformista si è occupato dell’ultimo report stilato dal gruppo di lavoro per la Convenzione sui diritti per l’infanzia e l’adolescenza, un bilancio dal quale la Campania ne esce piuttosto male con un alto tasso di mortalità infantile, bassi livelli di servizi legati al mondo dei più piccoli e disuguaglianze territoriali. «Sarebbe molto utile – ha commentato Siani – avere un’agenzia che si occupi di infanzia, in grado di monitorare gli interventi a livello nazionale e locale così da poter meglio comprendere la condizione dei bambini a livello territoriale e organizzare politiche di reale tutela e garanzia dei loro diritti».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

 "Innocenti assoluti": quei 18 bambini in carcere con le loro madri. Luigi Manconi su La Repubblica il 25 gennaio 2022.

Mentre la politica rivela, ancora una volta, la sua torpida impotenza e la maggioranza dei “grandi elettori” si comporta come se avesse appena scoperto che: oddio, oggi c’è da votare il Presidente! e cerca un qualche accordo, si susseguono gli esempi di questa drammatica crisi del sistema democratico. E la crisi si mostra con maggiore brutalità proprio nelle situazioni estreme, laddove le contraddizioni sono più acute e dolorose e la mediazione più difficile e delicata. E ciò emerge con tanta maggiore chiarezza quanto più le soluzioni possibili sembrano davvero possibili e quasi a portata di mano. Ecco due casi particolarmente significativi.

Al 31 dicembre scorso, nel sistema penitenziario italiano, si trovavano 18 bambini, “innocenti assoluti” reclusi con le proprie madri: uno scandalo e un oltraggio, prima ancora che per il livello di civiltà giuridica del nostro paese, per il comune buon senso.

Una riforma della materia giace alla Camera dei Deputati ed è richiesta da tanti. Ma anche solo un provvedimento amministrativo sarebbe in grado di cancellare, o quasi, un simile obbrobrio. Una legge del 2011 prevede, infatti, in alternativa alla reclusione in cella, l’istituzione di case famiglia protette destinate alle madri con figli minori, in presenza di una serie di condizioni. Proprio a causa di queste ultime, spesso interpretate in maniera macchinosa e restrittiva, l’applicazione della legge è stata assai complessa: ne è conseguito che, nell’ultimo decennio, alcune centinaia di minori hanno trascorso in una cella i primi anni della loro vita. Un anno fa erano 29 e, al 31 dicembre del 2018, 52. Come si vede, numeri che, se si considera l’intero territorio nazionale, sono esigui: eppure, a fronte di questo, le case famiglia protette attualmente attive in Italia sono appena due: una a Roma e una a Milano.

Certo, è comunque necessaria una riforma della legge che renda più agevole l’accesso a queste strutture alternative, ma ciò che colpisce è anche altro. È proprio il fatto che non vi siano posti disponibili a sufficienza. Eppure, calcoli recenti molto affidabili dimostrano che con una cifra complessiva intorno al milione e mezzo di euro è possibile - concretamente e fattivamente - realizzare, attraverso adeguate opere di ristrutturazione, il numero di case famiglia protette (cinque-sei) necessarie a “liberare” quei bambini.

Non troppo diversa è la situazione dei detenuti affetti da disturbi psichici. A settembre del 2021, le persone illegittimamente recluse in un carcere, nonostante lo stato di salute mentale, erano 12, anche se a queste vanno sommati quei pazienti che si trovano “scaricati” nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc).

Consideriamo una vicenda, seguita dalle avvocate Valentina Cafaro e Giulia Borgna dello studio Saccucci&Partners, che ha avuto un esito positivo. Un paziente psichiatrico affetto da un disturbo bipolare è rimasto a lungo nel carcere di Rebibbia, a Roma, nonostante il magistrato di sorveglianza avesse applicato nei suoi confronti una misura di sicurezza, che tuttavia non aveva trovato esecuzione. Due giorni fa, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU), per aver protratto per due anni la detenzione del ricorrente in regime carcerario ordinario senza garantirgli un adeguato trattamento psichiatrico, in violazione del diritto a non subire trattamenti inumani e degradanti garantito dall’art. 3 della Convenzione europea.

Inoltre, l’Italia è stata condannata per illegittimità della detenzione in carcere in violazione del diritto alla libertà personale e alla sicurezza personale previsti dall’art. 5 della stessa Convenzione. Ciò in ragione delle condizioni materiali degradate vissute in cella, della mancata somministrazione di cure adeguate alla situazione personale e in ragione del mancato trasferimento in una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), dovuto alla ingiustificabile mancanza di posti disponibili. 

Almeno in questa circostanza è forse utile astenersi dai discorsi generali e “di sistema” e fermarsi sul dato numerico. Nel caso dei pazienti psichiatrici reclusi in carcere, si tratta di 12 persone e, pure se probabilmente arrivano al doppio o più, il fenomeno è di dimensioni ridotte. Anche qui, secondo valutazioni attendibili, la spesa richiesta per ovviare alla carenza di posti non supera i due milioni di euro. È chiaro: per sottrarre gli “innocenti assoluti” e i “matti” al carcere è necessaria una politica intelligente e razionale; e sono necessari interventi normativi e investimenti economici, decisioni pubbliche e misure istituzionali. Ma alla resa ultima dei conti, servono tre milioni e mezzo di euro. È questo il costo di due riforme semplici semplici che potrebbero cancellare due ingiustizie assolute.

Nuovi sviluppi nell'inchiesta su Santa Maria, imbarazzanti le parole dei sindacati di polizia. Mattanza in carcere, altri 41 poliziotti indagati: il protocollo diceva ammazzateli di botte? Francesca Sabella su Il Riformista il 7 Ottobre 2022. 

Carcere di Santa Maria Capua Vetere, carcere della mattanza. Fu tortura vera e propria ma c’è chi ancora parla di protocolli. Tra le scale e le celle il 6 aprile del 2020 andò in scena un pestaggio violentissimo da parte degli agenti ai danni dei detenuti, i magistrati scriveranno: tortura. Ci sono altri 41 indagati tra la polizia penitenziaria.

Una violenza inaudita raccontata dai video delle telecamere di sorveglianza, una crudeltà degna del peggiore film sulla prigione di Alcatraz. E invece no, siamo in Italia, siamo a Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, ed è tutto vero. I 41 nuovi indagati sono poliziotti intervenuti ma finora mai identificati in quanto muniti di caschi protettivi e mascherine anti-Covid. Erano almeno un centinaio i pubblici ufficiali che mancavano all’appello tra i tanti ripresi dalle telecamere interne del carcere mentre pestavano i detenuti a mani nude o servendosi di manganelli, facendoli passare anche in un “corridoio” di agenti pronti a sferrare colpi.

La Procura di Santa Maria Capua Vetere (procuratore aggiunto Alessandro Milita, e i sostituti procuratori Alessandra Pinto e Daniela Pannone) ne ha identificati con difficoltà per ora 41, tutti indagati per atti di tortura, e ha così chiesto e ottenuto dal Gip la proroga delle indagini per poter identificarne altri. Pare infatti che al pestaggio presero parte in tutto circa 250 agenti. Dei 41 poliziotti penitenziari indagati, 27 sono attualmente in servizio nel carcere napoletano di Secondigliano, quattro ad Avellino e dieci a Santa Maria Capua Vetere. Si avvicina intanto la data di inizio dibattimento per i 105 tra agenti, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e dell’azienda sanitaria locale, accusati a vario titolo di responsabilità in ordine alle violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere sammaritano.

Il processo partirà infatti il 7 novembre prossimo davanti ai giudici togati e popolari della Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, mentre nei prossimi giorni ci sarà davanti al giudice per l’udienza preliminare, Pasquale D’Angelo, il processo con rito abbreviato per tre agenti che hanno deciso di non andare al dibattimento. Le accuse sono gravissime: abuso di autorità, tortura, lesioni e falso in atto pubblico. Per 12 di loro c’è anche l’omicidio colposo per la morte di un detenuto (il 28enne algerino Lamine Hakimi) avvenuta circa un mese dopo i fatti. E sono ottanta i detenuti che hanno subito calci, pugni, manganellate e umiliazioni e che si sono costituiti parte civile nel processo contro gli agenti. 292, invece, i detenuti che subirono violenze quella sera.

Una pagina tristissima delle prigioni italiane, un episodio gravissimo che ancora una volta sottolinea la non idoneità delle carceri ad accogliere essere umani e a rispettarne i diritti e la dignità. Saranno i magistrati a fare chiarezza e a stabilire le colpe, quel che è certo è che le immagini parlano e raccontano di un massacro. Nel frattempo, dal carcere casertano si dicono tranquilli e fiduciosi. «Ribadiamo la piena fiducia nell’operato della magistratura inquirente, non senza ricordare però che a pagare per quanto accaduto quel giorno, non sono solo gli agenti tutt’oggi sospesi, ma anche le loro famiglie, mogli e figli, che dall’estate dello scorsa versano in gravi difficoltà in quanto senza sostegno e per un tempo indefinito viste le lungaggini dei processi, il cui esito non sarà così scontato come si vuole far credere». Così, in una nota, il segretario regionale dell’Uspp Ciro Auricchio.

Noi vorremmo, invece, sottolineare che anche quei detenuti barbaramente pestati hanno una famiglia che ha assistito inerme al pestaggio dei propri cari. Entrambe le parti coinvolte in questa storia hanno famiglia. Non è una gara a chi soffre di più. E ancora: «Attendiamo – ricorda ancora Auricchio – la definizione di precisi protocolli di intervento da adottare quando accadono eventi critici come quelli che hanno visto protagonista l’istituto penale casertano, che metta al riparo in modo chiaro e preciso la Polizia Penitenziaria da strumentali accuse rispetto alle reali difficoltà che donne e uomini dello Stato sono chiamati ad affrontare ogni giorno». Ma di quali protocolli si sta parlando precisamente? I detenuti erano tutti disarmati e non stavano mettendo in atto nessuna rivolta e quella dei giorni prima era stata pacifica. Fu una mattanza bella e buona, nessuna emergenza e nessun protocollo mai potrà autorizzarvi a massacrare di botte un detenuto. In questo caso quasi trecento. NESSUN PROTOCOLLO.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

(ANSA il 12 luglio 2022) – Sono stati tutti rinviati a giudizio i 105 imputati, tra poliziotti penitenziari, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e dell'azienda sanitaria locale, accusati a vario titolo di responsabilità in ordine alle violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020. 

La decisione è stata emessa dal giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Pasquale D'Angelo, che ha rinviato tutti al dibattimento che inizierà il 7 novembre prossimo davanti alla Corte d'Assise del tribunale sammaritano.

Il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere ha fissato per il 25 ottobre prossimo l'udienza in cui si terrà il processo con rito abbreviato (davanti allo stesso gup) per due imputati che ne hanno richiesta, tra cui il commissario capo della polizia penitenziaria Anna Rita Costanzo, ritenuta tra gli organizzatori delle violenze.

Torture ai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, 105 rinviati a giudizio. I reati ipotizzati dalla Procura sono, a vario titolo, tortura, lesioni, violenza privata, abuso di autorità e, per 12 imputati, l’omicidio colposo per la morte di un detenuto alcuni giorni dopo le violenze. Il Dubbio il 12 luglio 2022.

Il gip di Santa Maria Capua Vetere Pasquale D’Angelo ha disposto il rinvio a giudizio per 105 imputati per le violenze sui detenuti nel carcere sammaritano avvenute ad aprile 2020. È stata così accolta la richiesta presentata lo scorso 26 aprile dal pm Alessandro Milita di rinviare a giudizio 105 imputati tra appartenenti al corpo della Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione penitenziaria.  La Procura sammaritana non aveva chiesto il rinvio a giudizio per uno solo dei 108 imputati dell’udienza preliminare, che ha dimostrato di non essere presente all’interno del carcere nel giorno delle violenze, mentre altri due imputati hanno chiesto e ottenuto il rito abbreviato, che sarà celebrato il 25 ottobre.

I reati ipotizzati dalla Procura sono, a vario titolo, tortura, lesioni, violenza privata, abuso di autorità e, per 12 imputati, l’omicidio colposo per la morte di un detenuto alcuni giorni dopo le violenze. La prima udienza sarà celebrata il 7 novembre davanti alla Corte d’Assise di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, culminata il 28 giugno 2021 con l’esecuzione di 52 misure cautelari, è stata avviata a seguito delle segnalazioni di violenze avvenute all’interno del carcere nel giorno successivo a una protesta dei detenuti dopo l’emersione di alcuni casi di positività al Covid-19.

Tra i primi a depositare una denuncia è stato l’avvocato Carmine D’Onofrio, che nel processo difende tre detenuti. Lo stesso caso è stato sollevato anche dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che si è costituito parte civile nell’udienza preliminare. Nei giorni seguenti l’esecuzione delle misure cautelari hanno trovato ampia diffusione sui media le immagini registrate dalle telecamere di videosorveglianza all’interno del carcere, nelle quali si vedono numerosi episodi di violenza ai danni dei detenuti. Il 14 luglio 2021 hanno visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere il presidente del Consiglio Mario Draghi e il ministro della Giustizia Marta Cartabia.

Violenze in carcere a S. Maria Capua Vetere: 105 agenti e funzionari a processo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2022.  

Tutti rinviati a giudizio gli accusati tra poliziotti penitenziari, funzionari del Dap e dell'azienda sanitaria locale per le violenze ai danni dei detenuti del 6 aprile 2020. Dodici gli imputati che dovranno rispondere di omicidio colposo per la morte di Lakimi Amine

Tutti rinviati a giudizio i 105 imputati, poliziotti penitenziari, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e dell’azienda sanitaria locale, accusati a vario titolo di responsabilità in ordine alle violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020. La decisione è stata emessa dal giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Pasquale D’Angelo, che ha rinviato tutti al dibattimento che inizierà il 7 novembre prossimo davanti alla Corte d’Assise del tribunale sammaritano.

Il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere ha fissato per il 25 ottobre prossimo l’udienza in cui si terrà il processo con rito abbreviato (davanti allo stesso gup) per due imputati che ne hanno richiesta, tra cui il commissario capo della polizia penitenziaria Anna Rita Costanzo, ritenuta tra i principali organizzatori delle violenze in carcere. 

Tra le accuse contestate a quasi metà degli agenti c’è quella di tortura, fattispecie introdotta pochi anni fa e contestata per la prima volta a così tanti funzionari pubblici; c’è anche l‘omicidio colposo del detenuto algerino Lakimi Hamine, addebitato a 12 imputati. Uno degli imputati, su richiesta della Procura, accolta dal Gup, è stato prosciolto: si tratta dell’agente 50enne della Penitenziaria Luigi Macari.

Andranno a processo di novembre davanti alla giuria popolare, tra gli altri l’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone e gli ufficiali della penitenziaria Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato. Insieme a loro decine di agenti, e due medici del carcere, che il 6 aprile 2020 erano in servizio all’istituto di reclusione casertano, mentre restano non ancora identificati gli oltre 100 poliziotti provenienti soprattutto dal carcere di Secondigliano i quali durante le violenze, alle quali parteciparono attivamente, indossavano caschi e mascherina protettiva e quindi non riconoscibili dai detenuti.

Oltre cento parti civili si sono costituite al processo, tra i quali una novantina di reclusi vittime dei pestaggi, il garante nazionale e quello regionale dei detenuti, alcune associazioni (Antigone, Carcere possibile, Agadonlus, Abusi in divisa), ed enti come l’Asl di Caserta ed il Ministero di Grazia e Giustizia, che compariranno anche nelle vesti di responsabile civile per le condotte dei propri dipendenti.

Le torture nel penitenziario. Mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, 105 a processo tra poliziotti e funzionari: restano sconosciuti cento agenti. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Saranno 105 gli imputati del maxi processo per la mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questo il numero di agenti, funzionari dell’amministrazione penitenziaria e medici che andranno a giudizio all’inizio di novembre dinanzi alla Corte d’Assise del tribunale sammaritano presieduta dal giudice Roberto Donatiello.

A disporlo oggi il gup Pasquale D’Angelo del tribunale sammaritano al termine di una udienza preliminare fiume celebrata all’aula bunker, ironia della sorte, proprio all’interno della Casa Circondariale “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere.

Processo che vede costituite oltre cento parti civili, soprattutto i reclusi vittime dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere in provincia di Caserta, ma anche alcune associazioni come Antigone, Carcere possibile, Agadonlus, Abusi in divisa, oltre ad enti come l’Asl di Caserta e il Ministero della Giustizia.

I nomi più importanti tra i 105 a processo sono quelli dell’ex provveditore regionale del Dap Antonio Fullone e degli ufficiali della penitenziaria Pasquale Colucci, Gaetano Manganelli, Tiziana Perillo e Nunzia Di Donato. Con loro decine di agenti che picchiarono selvaggiamente i detenuti, ma anche due medici del carcere sammaritano.

Ma ad oggi restano sconosciuti circa un centinaio di agenti che parteciparono alle violenze, una ‘vendetta’ della penitenziaria contro le rivolte scoppiate il 5 aprile dopo l’emergere di casi di positività al Covid-19 di alcuni detenuti del reparto Nilo: si tratta in particolare di poliziotti arrivati dal carcere di Secondigliano per ‘sedare’ le proteste, muniti di casco e mascherina e per questo non riconoscibili. Quella che doveva essere una “perquisizione straordinaria” si tradurrà in una mattanza: i detenuti vennero fatti inginocchiare e picchiati con manganellate, fatti sfilare tra due ali di agenti e percossi. Le telecamere inquadrarono anche il brutale pestaggio di un detenuto in carrozzina, di recente deceduto dopo la scarcerazione.

Agli imputanti vengono contestati, a vario titolo, i reati di tortura (introdotta pochi anni fa e contestata per la prima volta a così tanti funzionari pubblici), maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale. Nel lungo elenco c’è anche quello di omicidio colposo in relazione alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, deceduto in carcere il 4 maggio 2020, addebitato a 12 imputati.

Il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere ha fissato invece per il 25 ottobre prossimo l’udienza in cui si terrà il processo con rito abbreviato (davanti allo stesso gup) per due imputati che ne hanno richiesta, tra cui il commissario capo della polizia penitenziaria Anna Rita Costanzo, ritenuta tra gli organizzatori delle violenze. Unico prosciolto è stato Luigi Macari per il quale lo stesso procuratore aggiunto Alessandro Milita – titolare dell’inchiesta con i pm Pinto e Pannone – aveva invocato il non luogo a procedere avendo l’indagato dimostrato di non essere in carcere durante la mattanza.

Importanti anche le ripercussioni politiche di quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere. Se da una parte il leader della Lega Matteo Salvini non esitò a sfilare davanti al carcere per dimostrare la sua vicinanza alla polizia penitenziaria, il ministro della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi visitarono la Casa Circondariale per chiedere scusa. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

"Rinvio a giudizio scontato, ora vogliamo giustizia". Mattanza in carcere, l’urlo di una madre: “Mio figlio urinava sangue, ferite scolpite sul corpo e nessuna cura”. Andrea Aversa su Il Riformista il 15 Luglio 2022 

«A causa della mattanza un ragazzo ha perso la vita, poteva essere mio figlio. O il figlio di qualsiasi altra mamma», stiamo parlando di Hakimi Lamine, giovane di origini algerine deceduto in carcere il 4 maggio 2020. A dire queste parole a Il Riformista è stata Gianna Scialdone, figlia di Pasquale Scialdone detenuto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Anche lui è stato una vittima delle violenze avvenute nel penitenziario casertano, il 6 aprile 2020. Immagini che hanno scandalizzato l’opinione pubblica e mobilitato il governo, nella veste del premier Mario Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia. La vicenda ha sollevato diverse obiezioni anche in sede europea. Ma questa non è una novità. L’Italia è già stata sanzionata in passato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) per le condizioni disumane e degradanti in cui versano le carceri del Belpaese.

Proprio tre giorni fa, il Giudice per l’udienza preliminare (Gup) del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Pasquale D’Angelo, ha rinviato 105 persone a giudizio. Agenti della polizia penitenziaria, funzionari del Dap e dell’Asl, imputati in un processo che avrà inizio il prossimo 7 novembre dinanzi la Corte d’Assise. Per due di essi, invece, il prossimo 25 ottobre ci sarà l’udienza con rito abbreviato stabilita dal Giudice per le indagini preliminari (Gip). Tra loro c’è il Commissario capo Annarita Costanzo. Le accuse sono gravi: tortura, lesioni, violenza privata e abuso di autorità. Ad alcuni imputati è stato attribuito anche il reato di omicidio colposo per la morte di Lamine. Quest’ultimo, dal pestaggio al decesso, ha trascorso 28 giorni in agonia e secondo le testimonianze, senza ricevere cure adeguate. Barbarie nella barbarie.

Nel procedimento il Garante nazionale per i diritti dei detenuti, insieme a quello della regione Campania, della città metropolitana di Napoli e della città di Caserta, si è costituito parte civile. Con loro diverse associazioni, tra cui Antigone. «Per i video che abbiamo visto trovo strana l’idea di un processo – ha spiegato Gianna Scialdone – È talmente chiaro quello che è avvenuto che non possiamo non avere giustizia». Per il papà oltre al danno la beffa: «Mio padre è uscito dal carcere di Santa Maria sei giorni dopo la mattanza. Era il 12 aprile. Aveva lividi ovunque e anche psicologicamente non stava bene. Poiché doveva scontare altri 5 mesi, è stato portato di nuovo in carcere. Ed ora si trova ancora a Santa Maria. L’ho sentito sabato e giorni prima ha avuto un colloquio con la garante Belcuore. Purtroppo quel penitenziario è un inferno, non c’è neanche l’acqua potabile. Per ogni detenuto sono messe a disposizione due bottiglie. Se non hai i soldi per fare la spesa muori di sete».

Francesca Cosmo, madre di Emanuele Irollo, è un’altra delle mamme che ha denunciato i fatti accaduti a Santa Maria: «Sono vedova, mio marito è morto nel carcere di Poggioreale. Quando ho saputo delle violenze e non riuscivo a parlare con mio figlio, ho avuto paura. Ho rischiato di ammalarmi. Emanuele urinava sangue ed era pieno di lividi. Per fortuna dopo 15 giorni l’hanno trasferito a Benevento. Quando ci siamo visti con una video chiamata mi ha mostrato le ferite scolpite sul corpo. Non ha ricevuto cure, è stato letteralmente abbandonato». Un altro detenuto vittima della mattanza ha perso la vita lo scorso 18 giugno. Si tratta di Vincenzo Cacace, 60 anni e deceduto per cause naturali nonostante le diverse patologie pregresse di cui era affetto. Cacace suo malgrado è stato uno dei simboli di quelle ore terribili: nelle immagini pubblicate dai giornali era il detenuto sulla sedia a rotelle che veniva percosso e picchiato.

«Il processo servirà ad accertare le responsabilità penali degli imputati – ha dichiarato l’avvocato della famiglia Cacace, Paolo Conte – C’è soddisfazione da parte nostra per la decisione del rinvio a giudizio anche se l’avevamo data per scontata. Non posso escludere che la lunga detenzione del signor Cacace, anche se frammentata ma culminata con la mattanza di Santa Maria, abbia in qualche maniera inciso in modo determinante sulla sua salute, fisica e psichica. Ci auguriamo che alla fine del dibattimento sarà fatta giustizia e che soprattutto siano accertate le responsabilità politiche della mattanza. Chi l’ha voluta, chi l’ha organizzata e perché». Andrea Aversa

Dopo l’“orribile mattanza” era profondamente cambiato. È morto Enzo Cacace, ex detenuto in carrozzina che denunciò i pestaggi a Santa Maria: “Lotteremo per lui”. Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Giugno 2022.  

“Lo hanno ammazzato fisicamente e psicologicamente. Dopo 30 anni di carcere era uscito da 2 anni e da allora non era più lo stesso”. Gino Cacace, figlio di Enzo, è disperato per la morte del papà. Napoletano, originario del Rione Traiano, aveva 60 anni. È stato tra i primi a denunciare quella che il Gip ha definito “orribile mattanza”, le violenze che il 6 aprile 2020 si sono consumate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Enzo era in sedia a rotelle. Nelle immagini restituite dalle telecamere di videosorveglianza del carcere c’era anche la brutale aggressione che subì Vincenzo e che lui stesso raccontò a volto scoperto davanti alle telecamere di tutta la stampa nazionale.

Appena uscito dal carcere, un anno dopo quel drammatico aprile, denunciò tutto quello che gli era successo: “Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella insieme con il mio piantone perché sono sulla sedia a rotelle – raccontò –  Ci hanno massacrato, hanno ammazzato un ragazzo. Hanno abusato di un detenuto con un manganello. Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso. Volevano farci perdere la dignità ma l’abbiamo mantenuta. Sono loro i malavitosi perché vogliono comandare in carcere. Noi dobbiamo pagare, è giusto ma non dobbiamo pagare con la nostra vita. Voglio denunciarli perché voglio i danni morali”.

Dal carcere di Santa Maria Capua Vetere era uscito cambiato, profondamente prostrato nel fisico e nella mente. Lui che tutti chiamavano “il gigante buono”, già con qualche acciacco, era rimasto profondamente turbato da quanto gli accadde in carcere. “Era in stato confusionale, non era più il mio papà – racconta Gino – Voglio giustizia per come lo hanno ridotto loro, lo hanno rovinato, non era più lui. Non riusciva più a dormire la notte. Se riusciva un pochino a prendere sonno diceva ‘amputato spegnete la luce’, poi urlava e piangeva. Mi chiamava nel cuore della notte, era inquieto”.

La nuora racconta che Enzo già da qualche tempo non stava bene ed entrava e usciva dagli ospedali. “All’inizio ci dissero che i suoi reni non funzionavano più bene e aveva bisogno di dialisi – racconta – gli misero una cannetta alla gola per la dialisi. Lui con la testa già non ci stava più. Usciva dall’ospedale e ce lo ritrovavamo qui da noi che voleva mangiare e non voleva stare in ospedale. Il figlio doveva riportarlo in ospedale perché non stava bene. Se si staccava la cannoletta alla gola poteva morire dissanguato. Poi qualche giorno fa dall’ospedale ci hanno detto che aveva avuto un blocco respiratorio e da quel momento si è aggravato. Negli ultimi giorni è stato in coma farmacologico. Ci hanno detto che i reni non funzionavano. Poi hanno iniziato a dirci a giorni alterni che stava meglio o peggio. Ieri mio marito è andato a trovarlo e aveva gli occhi aperti ma aveva ancora la ventola. Poi mi hanno chiamato e mi hanno detto che aveva avuto un arresto cardiaco. Ho sperato fino all’ultimo che riuscissero a salvarlo, perché aveva già sofferto di cuore, ma non ce l’ha fatta”.

Gino è stato l’ultimo a vederlo prima che spirasse. “Diceva il nome di mio figlio e di mia madre – racconta senza riuscire a trattenere le lacrime – Mi ha detto che non ce la faceva più eppure aveva una forza da leoni mio padre”.

“Ha lottato troppo a lungo, l’ultima carcerazione per lui è stata fatale – racconta una delle sorelle di Enzo – Non si sentiva più una persona dignitosa e rispettata dopo essere stato picchiato da chi doveva badare a lui. Mi diceva che non ce la faceva più a vivere perché aveva perso tutta la sua dignità. Ha cercato lui la morte negli ultimi momenti. Pregava di morire perché era stanco. Era in sedia a rotelle quando lo hanno pestato. Quando in televisione ho visto le immagini di quello che era successo nel carcere non potevo credere ai miei occhi: non potevo credere che quello fosse mio fratello. Al telefono ce lo diceva che lo stavano malmenando e minacciando. Io non è che non ci credevo ma ho vissuto anche io il carcere e queste cose non succedevano. Al femminile c’era una sorta di fratellanza ed eravamo seguite”.

Quasi tutti i 107 imputati della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) affronteranno la fase finale dell’udienza preliminare, attesa per il 28 giugno, e l’eventuale dibattimento. La decisione sul rinvio a giudizio è attesa per l’udienza in programma il 28 giugno (potrebbe saltare per l’astensione nazionale degli avvocati), quando sarà passato un anno esatto dal blitz che portò i carabinieri a notificare ad agenti e funzionari del Dap 52 misure cautelari emesse dal giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere per reati gravi, tra cui la tortura.

Enzo ha continuato fino all’ultimo a seguire gli aggiornamenti di quel processo. Si è spento senza conoscerne gli esiti. Ma tra le sue ultime volontà riportate a Gino c’è quella di continuare a combattere per lui. “Mi disse: ‘Se mi succede qualcosa voglio che stai tu dietro al processo e devi combattere’ – ha detto Gino – E io per lui combatto fino infondo. Non mollerò mai, voglio solo giustizia per mio padre, per quello che gli hanno fatto. Mio padre si è vero che ha sbagliato, però aveva il diritto di scontare la sua pena normalmente non con i poliziotti che picchiavano i detenuti. Doveva pagare ma non con la vita”.

“Spero che paghino per quello che gli hanno fatto come facciamo noi quando commettiamo qualche errore – continua la sorella di Enzo – Deve pagare chi gli ha distrutto la vita e gli ha fatto perdere denti, dignità e personalità”. Nel procedimento in corso il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello, quello del comune di Napoli, Pietro Ioia, e la casertana Emanuela Belcuore sono parte civile insieme al garante nazionale Mauro Palma, all’associazione Antigone, ad altre associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e molti dei reclusi che subirono le violenze messe in atto dagli uomini della penitenziaria il 6 aprile 2020.

“Lotteremo per far avere giustizia a Enzo – ha detto Ioia – Quello che ha subito sicuramente lo avrà segnato. Siamo accanto alla famiglia di Enzo, saremo solidali anche dopo la sua morte. Non ci fermiamo e chiederemo giustizia. Quello che Enzo ha subito non è una cosa da paese democratico. Il carcere deve essere un luogo rieducativo e non deve ridurre così le persone. Il carcere continua a uccidere e la politica fa orecchie da mercante e si dovrebbe svegliare. Quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato, ne stanno uscendo altri fuori. Speriamo di ottenere giustizia”. 

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Mattanza in carcere, Enzo è morto senza sapere chi lo ha picchiato: “Codici sui caschi della penitenziaria”. Viviana Lanza su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Vincenzo Cacace, 60 anni, napoletano del rione Traiano ed ex detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere, è morto sabato per cause naturali. La notizia della sua morte ha inevitabilmente fatto compiere un salto indietro nel passato, al 6 aprile 2020, nei corridoi del reparto Nilo trasformati per alcune ore in un vero e proprio inferno. Vincenzo è stato una delle vittime dei pestaggi in carcere per cui ora pende l’udienza preliminare. «Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella insieme con il mio piantone perché sono sulla sedia a rotelle – raccontò un anno dopo quella mattanza, una volta uscito dal carcere – . Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso».

L’immagine di Vincenzo sulla sedia a rotelle mentre si piegava su se stesso per parare i colpi che gli agenti gli scaricavano sulla testa è stata un pugno nello stomaco per chiunque abbia visto i filmati ripresi dalle telecamere del circuito di videosorveglianza del carcere. Vincenzo è morto senza avere giustizia per quel pestaggio, senza sapere tutta la verità sui responsabili della mattanza. Le indagini si sono fermate ai soli agenti che è stato possibile identificare attraverso l’esame dei video, ma ce ne sono tanti altri che ancora non sono stati identificati perché avevano i volti coperti dai caschi scuri con le visiere abbassate. Ed ecco, quindi, l’appello del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello: «Invoco che vengano messi sui caschi degli agenti della polizia penitenziaria dei codici identificativi, e che valga anche per le altre forze dell’ordine che si occupano di ordine pubblico nelle manifestazioni di piazza dove avvengono scontri, come recentemente accaduto sia in occasione delle manifestazioni di studenti sia in quella dei pescatori».

Dotare ogni agente di un casco con codice identificativo consentirebbe, in occasione di interventi antisommossa, di non perdere il controllo della situazione, di poter sempre identificare chi fa cosa. Questo per colmare una lacuna e a garanzia di tutti. Del resto, i fatti di Santa Maria Capua Vetere lo hanno dimostrato: è stato difficile dare un nome a ogni volto ripreso dalle telecamere, ci sono volti nascosti dai caschi senza codici e senza alcun carattere distintivo che non sono stati finora identificati. Questo significa che alcuni presunti autori della mattanza rimarranno impuniti. Chi sono? Tra questi c’è anche chi partecipò al pestaggio di Vicenzo Cacace. «Siamo stati carne da macello», ripeteva Vincenzo Cacace ripercorrendo le ore della mattanza. «Ero sulla sedia a rotelle, provavo ad abbassarmi mentre mi colpivano in faccia, sulla fronte. Mentre gli altri scendevano per le scale io fui portato giù in ascensore, mi picchiarono anche in ascensore».

La mattanza fu organizzata dalle squadre della penitenziaria come risposta alla protesta non violenta che il giorno prima alcuni detenuti del reparto Nilo avevano inscenato per manifestare il proprio disappunto di fronte allo stop dei colloqui per l’emergenza Covid e sollecitare mascherine e tamponi. La risposta della penitenziaria fu esagerata, violenta ed è finita al centro di un’inchiesta da oltre cento indagati, fra agenti e dirigenti. Tra qualche giorno il giudice dell’udienza preliminare di Santa Maria Capua Vetere deciderà se e per chi disporre il processo. In questi mesi quasi tutti gli indagati raggiunti da misura cautelare hanno ottenuto la revoca delle misure e la piena libertà.

«A quasi un anno dall’emissione dell’ordinanza che sottopone gli indagati all’obbligo di dimora, appare normale che il Tribunale del Riesame ritenga non più attuali le esigenze cautelari – commenta il garante dei detenuti dalla cui denuncia partì due anni fa l’inchiesta – Durante quest’anno, alcuni indagati sono stati nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, altri agli arresti domiciliari e altri sottoposti ad obbligo di firma o dimora; tutti sono stati sospesi dal servizio, sia agenti che amministrativi. Per molti di loro i giudici del Riesame hanno dovuto revocare per legge la misura cautelare, non certo per atto di “clemenza”. Io spero – aggiunge il garante – che giustizia venga fatta, che gli agenti coinvolti vengano rinviati a giudizio, e ritengo giusto che arrivino al processo da liberi. Mi auguro però che il processo ci concluda in fretta senza che, nemmeno lontanamente, cali su di esso l’ombra della prescrizione». 

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Accusato da uno degli imputati per la mattanza a Santa Maria. Fu un innovatore, lo demolirono con l’accusa di maltrattamenti: assolto l’ex direttore dell’Opg di Aversa. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Giugno 2022. 

Fu un innovatore, lo osteggiarono fino a puntargli il dito contro. Ne nacque un’accusa – maltrattamenti – che per chi dirige un istituto psichiatrico giudiziario è un’accusa pesante. Fu assolto in primo grado e ora anche in Appello. La Corte di Appello di Napoli ha infatti ribadito l’assoluzione di Adolfo Ferraro, all’epoca direttore dell’ex Opg di Aversa, e di sedici tra psichiatri e sanitari in servizio presso la struttura. La sentenza è stata pronunciata dai giudici della sesta sezione della Corte di Appello e accoglie in pieno la tesi difensiva sostenuta dall’avvocato Domenico Ciruzzi e dall’avvocato Alessandro Motta e la richiesta del sostituto procuratore generale.

È un verdetto che chiude un lungo capitolo giudiziario e restituisce giustizia a Ferraro, da tutti descritto come un innovatore, che aveva introdotto in una struttura difficile come l’ex manicomio giudiziario attività proiettate verso una visione diversa della detenzione, incrociando però la resistenza di quella parte del mondo carcerario legata alla istituzione totale. Tra gli accusatori di Ferraro c’era uno degli attuali imputati per i pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questo per evidenziare lo scontro tra due visioni opposte di detenzione e di gestione della popolazione detenuta. La magistratura deve averlo colto, infatti dopo l’iniziale rinvio a giudizio le accuse contro Adolfo Ferraro si sono sgonfiate in dibattimento fino a portare ad una prima assoluzione e si sono completamente volatilizzate ora, con il processo in secondo grado che ha messo un punto definitivo a questa vicenda.

Adolfo Ferraro assolto; del tutto Infondata l’ipotesi secondo la quale nella struttura aversana erano stati compiuti maltrattamenti e illecite contenzioni degli internati. «Il processo – sottolinea l’avvocato Domenico Ciruzzi – ha dimostrato l’assoluta correttezza della condotta degli psichiatri che, pur chiamati ad operare in una situazione difficilissima quale era quella degli Opg, hanno sempre agito nel pieno rispetto delle norme penali e deontologiche e nell’interesse esclusivo dei pazienti internati». «Il dottor Ferraro – prosegue l’avvocato Ciruzzi – è stato un grandissimo innovatore nella cura dei pazienti psichiatrici ristretti negli Opg. Ha eliminato gradualmente tutti i letti di contenzione, ha coinvolto i pazienti in numerose attività trattamentali quali il teatro, la gestione dell’orto e dell’area verde, la cura degli animali. Ha cercato, in parte riuscendovi, ad aprire alla società luoghi e istituzioni per loro natura chiusi quali erano gli ex manicomi giudiziari ed ha partecipato attivamente alla rivoluzionaria chiusura degli Opg e al passaggio alle Rems. Tutto ciò lo ha portato ad entrare talvolta in frizione con l’apparato penitenziario che continuavano ad avere una visione meramente carceraria dell’Opg e che hanno opposto una dura resistenza alle innovative proposte da Ferraro. L’assoluzione a ristabilisce la verità dei fatti e pone termine al tentativo di mistificare una storia, personale, umana e professionale interamente dedicata alla cura, all’ascolto ed al sostegno di quelli che il dottor Ferraro definisce – con amore e tenerezza – “i matti reclusi”».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso di Santa Maria Capua Vetere. In libertà gli agenti sotto accusa per la mattanza in carcere. Viviana Lanza su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Seguiranno il processo da liberi gli agenti accusati dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A un anno dalla svolta dell’inchiesta sulle violenze del 6 aprile 2020, il tribunale del Riesame di Napoli ha revocato la misura dell’obbligo di dimora per i poliziotti penitenziari Gaetano Manganelli, Giacomo Golluccio e Angelo Iadicicco.

Nei giorni scorsi i giudici avevano revocato la stessa misura per l’agente penitenziario Raffaele Piccolo, mentre il gup di Santa Maria Capua Vetere, Pasquale D’Angelo, dinanzi al quale è in corso l’udienza preliminare che deciderà sul rinvio a giudizio di 105 imputati, tra poliziotti e funzionari del Dap (altri tre imputati hanno scelto la strada dell’abbreviato), aveva disposto la revoca degli obblighi per gli agenti Rosario Merola, Oreste Salerno e Raffaele Piccolo e per gli agenti Alessandro Biondi, Gabriele Pancaro, Gennaro Loffreda, Antonio Di Domenico, Pasquale De Filippo, Felice Savastano, Michele Vinciguerra. Quasi tutti gli imputati affronteranno, dunque, da liberi la fase finale dell’udienza preliminare e l’eventuale dibattimento. Restano in undici gli imputati ancora sottoposti a obbligo di dimora. Quanto all’iter giudiziario, la decisione sul rinvio a giudizio è ormai agli sgoccioli.

Il 28 giugno (salvo rinvii a causa dell’astensione nazionale degli avvocati) è prevista l’udienza decisiva, quella in cui il giudice deciderà se disporre o meno il processo e per chi. Si tratterebbe del primo processo su una delle pagine più tristi e dolorose dalla storia penitenziaria. Era esattamente giugno di un anno fa quando la Procura di Santa Maria Capua Vetere arrivò a una svolta nell’inchiesta sui pestaggi messi in atto nel reparto Nilo da un centinaio di agenti della penitenziaria contro altrettanti detenuti. Un’orribile mattanza.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La decisione del giudice. Processo mattanza in carcere, la duplice veste di Ministero e Asl: sia danneggiati che responsabili. Viviana Lanza su Il Riformista il 16 Febbraio 2022. 

Quello dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere continua ad essere un caso giudiziario più unico che raro. Ieri una nuova singolarità: il Ministero della Giustizia e l’Asl di Caserta, che si erano già costituiti parte civile, sono stati ammessi anche come responsabili civili, il che significa che compariranno nel processo nella duplice veste sia di danneggiati sia di responsabili con riferimento ai danni procurati ai detenuti dai loro dipendenti.

Potranno quindi chiedere un risarcimento ai propri dipendenti nel caso di condanna di questi ultimi per il comportamento violento o omissivo assunto il giorno dei pestaggi in carcere e contemporaneamente potrebbero, nello stesso processo, essere condannati a risarcire in sede civile i danni provocati ai detenuti da agenti o funzionari dell’amministrazione penitenziaria, o dai due medici, tutti finiti sotto accusa, a vario titolo, per i brutti fatti di Santa Maria. Il nodo sui responsabili civili lo ha sciolto ieri il giudice dell’udienza preliminare Pasquale D’Angelo dopo settimane di riflessione e basandosi anche su una sentenza della Corte di Cassazione civile a Sezioni Unite. Una vittoria per i circa cento detenuti che si sono già costituiti parte civile nel processo. In totale si ritiene che le vittime dei pestaggi siano 178, è dunque probabile che altri si facciano avanti nelle prossime udienze, c’è tempo fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.

Intanto l’udienza preliminare è aggiornata al 29 marzo. La Procura aveva presentato proposta di patteggiamento a pene intorno a un anno e mezzo per 32 agenti imputati che avrebbero avuto un ruolo più marginale, ma non si è raggiunto per ora alcun accordo; per gli altri imputati è probabile che i pm chiedano il rinvio a giudizio sempre che qualche imputato non chieda a sua volta di accedere al rito abbreviato. Nel complesso si parla di 108 fra agenti della polizia penitenziaria e funzionari del Dap (quindi del Ministero) e di due medici del carcere (per questo il riferimento all’Asl) imputati a diverso titolo per i pestaggi e le umiliazioni avvenute quel 6 aprile 2020 nel reparto Danubio del carcere sammaritano e per i tentativi compiuti dopo la mattanza per occultarne le tracce e tenere tutto sotto silenzio.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso. Non indagarono sugli abusi nel carcere di Viterbo, Pm finiscono sotto inchiesta. Angela Stella su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

La Procura di Perugia dovrà «procedere ad approfondimenti di indagine» nei confronti dei colleghi di Viterbo per capire chi e perché non ha dato seguito a un esposto presentato l’8 giugno 2018 dal Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, sui pestaggi che alcuni detenuti avrebbero subìto nel carcere Mammagialla. A deciderlo il gip di Perugia Valerio D’Andria. L’ipotesi di reato è quella di rifiuto d’atti d’ufficio. Nella sua ordinanza si fa riferimento a plurimi pestaggi che sarebbero avvenuti nel penitenziario viterbese e, in particolare, quello che avrebbe visto coinvolto Hassan Sharaf. Il giovane egiziano morì il 30 luglio 2018, a seguito di un tentativo di suicidio per impiccagione nella cella di isolamento, dopo avere ricevuto alcuni schiaffi dal personale di polizia penitenziaria.

Eppure il Garante Anastasia aveva chiesto per lui il trasferimento perché il ragazzo aveva detto di essere stato maltrattato da alcuni agenti. Su quanto accaduto ad Hassan pendono due procedimenti a Roma e Viterbo. Comunque è stato proprio il legale della famiglia di Hassan, l’avvocato Michele Andreano, a presentare una denuncia ai magistrati di Perugia. Pochi mesi prima dell’estremo gesto, Hassan aveva raccontato al Garante «di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria che gli avrebbero provocato lesioni per tutto il corpo e con molta probabilità gli avrebbero lesionato il timpano dell’orecchio sinistro in quanto non riusciva più a sentire bene e sentiva il rumore “come di un fischio”. Mentre raccontava quanto aveva subìto Sharaf velocemente si spogliava così da mostrare i segni sul corpo».

Nell’esposto depositato alla magistratura viterbese dal Garante dei detenuti si farebbe riferimento ad almeno otto episodi di violenza. Un detenuto ha raccontato di essere stato picchiato con calci e pugni da dieci agenti nelle scale del carcere. «Dagli atti – scrive il gip perugino – emerge che in relazione a quanto rappresentato nell’esposto del Garante è stato aperto nel luglio 2018 un procedimento per fatti non costituenti reato e tale procedimento è stato definito con trasmissione degli atti in archivio. Deve però rilevarsi che l’esposto presentato dal Garante faceva riferimento ad una pluralità di episodi violenti che avevano interessato numerosi detenuti e per i quali era quantomeno ipotizzabile il delitto di cui all’articolo 571 c.p.», ossia abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

In pratica, secondo il gip di Perugia la Procura di Viterbo non avrebbe fatto il suo dovere, ossia non avrebbe iscritto nel registro le notizie di reato apprese dal Garante. «Si tratta in ipotesi del rifiuto di un atto che si sarebbe dovuto compiere senza ritardo e per il quale non è riconoscibile in capo al magistrato alcun margine di discrezionalità tenuto conto della chiara rappresentanza nell’esposto di una pluralità di notizie di reati perseguibili d’ufficio». Ma c’è altro: il gip ha ordinato indagini anche su un altro episodio, ossia la fissazione al 2024 dell’udienza di opposizione all’archiviazione del fascicolo sulla morte di Hassan.

«Qualsiasi iniziativa possa andare nella direzione dell’accertamento dei fatti – ci ha riferito Anastasia – è benvenuta, sia nell’interesse delle persone che hanno denunciato i maltrattamenti che della stessa amministrazione penitenziaria, che ha interesse a essere trasparente e ad accertare eventuali responsabilità. Come ho detto al Procuratore generale di Perugia, ho fatto degli esposti di cui non ho saputo nulla fino a quando non mi ha convocato la stessa Procura generale di Perugia. Nonostante l’enormità dei casi, ho avuto qualche traccia dei miei esposti quando mi è stato detto che erano citati nel fascicolo processuale aperto per la morte di Hassan Sharaf. Tuttavia dalla Procura di Viterbo nessuno ha ritenuto di volermi sentire o anche solo di informarmi per dirmi che fine avessero fatto questi esposti». Mentre ci riferisce l’avvocato Andreano: «Noi come parti offese non abbiamo mai fatto un can-can mediatico. Riteniamo che le nostre azioni siano fondate, pian piano ci sono dei magistrati che concordano sulla necessità di fare chiarezza nell’interesse di tutti». Angela Stella

Riflettori su Ariano Irpino e Santa Maria Capua Vetere. “Fake news sulle rivolte in carcere”, il garante dei detenuti contro agenti e stampa. Viviana Lanza su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

Nei giorni scorsi alcuni sindacati della polizia penitenziaria avevano diffuso comunicati stampa in cui si faceva riferimento a presunte “rivolte” in carcere. In particolare nelle carceri di Ariano Irpino e Santa Maria Capua Vetere. Proprio l’allarme sul penitenziario casertano aveva destato grande preoccupazione in chi si era trovato a leggere quelle note dei sindacati. Perché Santa Maria è stato teatro della mattanza del 6 aprile 2020 che vede imputati oltre un centinaio di agenti penitenziari per torture e lesioni ai danni di detenuti e perché l’allarme dei giorni scorsi era legato a presunte rivolte dei detenuti, si temeva quindi una nuova spirale di violenza per fortuna non c’è stata.

Purtroppo, però, da parte di alcune testate giornalistiche c’è stata scarsa attenzione alla verifica delle voci su presunte “rivolte”. Di qui il duro atto d’accusa del garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello: «Vorrei stigmatizzare i contenuti allarmistici e da fake news in riferimento a presunte rivolte fatte dai detenuti sia nel carcere di Ariano Irpino che nel carcere di Santa Maria Capua Vetere – ha affermato – . Comunicati stampa diffusi dai sindacati di polizia penitenziaria e pubblicati, incautamente e senza adeguate verifiche, sia da quotidiani che da siti di informazione, persino dalla Rai che ha mandato sul posto due inviati». A detta del garante regionale i fatti avvenuti in quelle carceri non potevano definirsi “rivolte”.

«A Santa Maria Capua Vetere un detenuto ha distrutto il corridoio del reparto Danubio e ha ferito due agenti, a cui è stata data una prognosi di dieci giorni. Ad Ariano Irpino, invece, un gruppo di detenuti ha distrutto le telecamere di videosorveglianza all’interno di un solo reparto, così da poter forzare il cancello e quindi accedere ad un’altra sezione per punire un detenuto – ha spiegato Ciambriello -. Insomma, mi indigno sia per il procurato allarme sociale, sia per il fatto che la stampa non ha controllato la veridicità di ciò che è avvenuto in questi istituti». Un atto d’accusa duro, quello che il garante dei detenuti rivolge a due interlocutori importanti nel panorama collettivo. Sullo sfondo, c’è poi tutta la complessità di un tema, quello che riguarda il mondo penitenziario, che in questo momento più che nel passato è sotto i riflettori.

Dovrebbe esserlo per porre fine alle annose criticità, non per alimentare inutili o infondati allarmi. Ed è da questa considerazione che nasce la riflessione che il garante Ciambriello propone, chiedendo l’impegno a stemperare le tensioni e a collaborare per il fine comune di garantire diritti e dignità a tutti, non solo a chi lavora ma anche a chi vive nelle carceri. Di qui l’ennesimo appello rivolto alla politica. «Proprio ieri ho portato nel carcere di Poggioreale 3mila mascherine Ffp2 e materiale sanitario vario (saturimetri, compresse per ipertensioni e cardiopatie, glucometro e strisce per glicemia). Materiale che si aggiunge alle 13mila mascherine chirurgiche, alle due sedie a rotelle, ai pannoloni e alle coperte per i detenuti ammalati del reparto San Paolo consegnate nei giorni scorsi», ha raccontato Ciambriello. «Il volontariato non può avere un ruolo subalterno – ha sottolineato -. Chiedo alla politica un’assunzione di responsabilità di fronte a una situazione insostenibile».

«Interventi del privato sociale e del volontariato sono piccole gocce nel mare dell’oceano, rispetto al carcere, alla sua dimensione disumana, al sovraffollamento – ha poi aggiunto all’uscita da Poggioreale – È facile dire che le carceri scoppiano e che Poggioreale è il carcere più sovraffollato d’Europa. Sulle carceri non si intravede una via d’uscita: ci sono troppi problemi, situazioni insostenibili, non vengono applicate le leggi esistenti e non si vive con dignità la dimensione detentiva. Occorre subito un decreto svuota carceri. La politica deve attuare una svolta: chiedo al Ministro della giustizia un’assunzione di responsabilità».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Nuove indagini dopo i pestaggi del 6 aprile 2020. Pestaggi in carcere, minacce a due detenuti per indurli a ritrattare. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Febbraio 2022.  

Santa Maria Capua Vetere, pestaggi in carcere, una storia infinita. Sembrava che l’inchiesta sulle violenze avvenute ai danni di centosettantotto detenuti del reparto Nilo il 6 aprile 2020 avesse chiuso il cerchio, che la sequenza benché terribile si fosse esaurita in quelle tre ore di inferno che alcuni dei reclusi hanno poi avuto il coraggio di denunciare e che le telecamere del circuito interno di videosorveglianza dello stesso carcere sammaritano avevano inquadrato.

Sembrava tutto messo nero su bianco nelle pagine dell’ordinanza di custodia cautelare con cui la Procura di Santa Maria Capua Vetere, nel giugno scorso, aveva chiesto misure cautelari per gli agenti più compromessi dai capi di imputazione contestati (arresti poi in larga parte revocati) e sembrava tutto definito in quel pugno di accuse ora al vaglio del giudice dell’udienza preliminare e che è stato un colpo nello stomaco di tutti quelli che credono nelle istituzioni. «Una mattanza orribile» la definì il gip al termine della lettura di tutti gli elementi di indagine, una «mattanza di Stato» l’hanno ribattezzata i garanti e le associazioni in difesa dei detenuti che si sono presentati all’udienza preliminare al fianco dei detenuti picchiati (circa un centinaio) chiedendo e ottenendo di essere parte civile nel processo che ci sarà sui pestaggi del 6 aprile 2020.

Sembrava di aver visto abbastanza orrore, abbastanza abusi, abbastanza violenza. E invece la notizia di un’ordinanza che dispone la sospensione dal servizio, per i prossimi sei mesi, di un vice ispettore della polizia penitenziaria aggiunge un altro tassello a quella drammatica ricostruzione. Il vice ispettore in questione ha svolto fino a ieri il ruolo di coordinatore della sorveglianza generale proprio all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere dove ad aprile 2020 avvennero i maltrattamenti e le umiliazioni, le botte e gli isolamenti di buona parte dei detenuti affinché non raccontassero a nessuno del pestaggio e i lividi sul loro corpo diventassero meno visibili. Secondo i recenti sviluppi investigativi, questo vice ispettore avrebbe minacciato ripetutamente due detenuti per spingerli a ritrattare il racconto di quel 6 aprile 2020 o a modificare le dichiarazioni rilasciate agli investigatori sul suo conto.

Insomma, voleva che i due reclusi cambiassero versione a suo favore in modo da farlo uscire indenne dal processo per i pestaggi. Sulla base di questi sospetti investigativi al vice ispettore è stato contestato il reato di intralcio alla giustizia. L’agente non era stato raggiunto nel giugno scorso dalle 52 misure cautelari emesse dal gip di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di poliziotti e funzionari del Dap, ed essendo solamente indagato aveva continuato a lavorare nel carcere dove l’anno prima avrebbe preso parte alle violenze, a stretto contatto con alcuni dei detenuti che poi avevano denunciato i pestaggi. Un cortocircuito, ancora uno, segnale di un sistema, quello penitenziario, che ha mostrato tutte le sue criticità. L’udienza preliminare su quel che accadde il 6 aprile 2020 intanto va intanto avanti.

Giovedì sono state ammesse 88 parti civili e la Procura ha fatto richiesta di patteggiamento per 32 agenti fra i 108 che sono finiti sotto accusa. Tortura, uno dei reati più gravi fra quelli contestati a vario titolo: introdotto in Italia nel 2017, è contestato per la prima volta proprio in questo procedimento. E poi la cooperazione nell’omicidio colposo di Lakimi Hamine, il detenuto algerino affetto da schizofrenia morto in cella un mese dopo il pestaggio e dopo essere stato messo per giorni in isolamento. E ancora lesioni e ipotesi di falso. Sì, perché alcuni tentativi di depistaggio erano già emersi nella prima fase dell’inchiesta. E ieri si è aggiunto un nuovo episodio alla lista delle ipotesi al vaglio dell’accusa. Si attendono ulteriori sviluppi.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

La storia di una società non è scritta solo sui muri delle prigioni, ma anche sui loro servizi igienici. Luigi Manconi su La Repubblica l'11 gennaio 2022.  

Ho sempre diffidato di quello che in genere viene considerato un antico proverbio cinese. Ma vitaepensiero.it precisa che sarebbe piuttosto “di discussa origine”. Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Devo dire che, in realtà, avverto costantemente la tentazione di osservare con la più scrupolosa attenzione proprio il dito indicante, perché potrebbe rivelare più cose di quanto si creda. E perché quel motto rivela un notevole disprezzo per dettagli e particolari, dove - ancora secondo una massima - si nasconderebbe il diavolo oppure Dio.

Dunque, quando nella mia precedente rubrica ho parlato di “paradigma del bidet”, attribuendo doverosamente il copyright all’avvocata Maria Brucale, sapevo di andare incontro a guai. La totale assenza di bidet, specialmente nelle celle delle sezioni femminili, esprime un notevole disprezzo per la salute e la dignità delle persone recluse, oltre a misurare il degrado generalizzato del sistema penitenziario nazionale. Apriti cielo: la cosa non è passata inosservata e ha scatenato numerose reazioni.

Il riferimento a quell’apparecchio igienico sembra richiamare una immagine del carcere che costituisce una sorta di ossessione paranoide per le fantasie di vendetta che si scaricano su di esso. In altre parole, la richiesta del bidet sembra connotare quel presunto “hotel a 5 stelle”, fornito di “televisione a colori” contro cui si indirizzano tutti i livori, i rancori e le pulsioni più torve del giustizialismo nazionale. Ecco un altro dettaglio interessante: se invece che “a colori”, volessimo che in ogni cella vi fosse un più severo e afflittivo apparecchio in bianco e in nero (non più prodotto in alcun paese al mondo), dovremmo aprire una nuova fabbrica di televisori destinati esclusivamente alla prigione. Ma torniamo al bidet. Tutti gli aspiranti cosmopoliti de’ noantri e i globalisti da Touring Club si sono affrettati a ricordare che il bidet “esiste solo in Italia”. E, addirittura, una lettrice residente in Francia ha voluto spiegare che “come altri 65 milioni di francesi”,  lei “non soffre di questa mancanza”.

Che dire? Tutti critici che non vogliono guardare il dito, ovvero il bidet: e, pertanto, preferiscono non sapere che, in gran parte delle celle, un uomo - e tanto più una donna, per ragioni che forse è superfluo richiamare - può trovarsi a usare lo stesso rubinetto e lo stesso limitato spazio per bere, lavarsi viso, mani e ascelle, per il bucato, per riempire d’acqua una pentola e farla bollire e, infine, per pulirsi genitali e culo. Io mi fermo qui perché, davvero, mi mancano gli argomenti; davvero, se ciò che ho scritto non viene inteso è certamente colpa mia, ma non ho che da arrendermi; davvero, non penso di poter ricorrere a ulteriori motivazioni razionali, se finora non sono riuscito a trasmettere il senso di quella situazione.

Anche per questa ragione è quanto mai preziosa l’attività, così spesso ignorata e denigrata, di quelle migliaia di volontari che operano in carcere, silenziosamente e faticosamente. Non perché sono “buoni”, ma perché hanno un profondo spirito civico e sanno che offrire ai detenuti una opportunità significa offrirla a tutti noi. Penso al lavoro che fanno da decenni associazioni come Ristretti Orizzonti di Ornella Favero e Francesco Morelli, Antigone di Susanna Marietti e Patrizio Gonnella, A Buon Diritto di Valentina Calderone e Federica Graziani, L’altro Diritto di Emilio Santoro e Sofia Ciuffoletti, A Roma insieme di Leda Colombini e Giovanna Longo e numerosi gruppi e comitati locali. E preti, suore, militanti politici, avvocati, filosofi e sociologi, tutti convinti che “la storia di una società è scritta sui muri delle prigioni”.

Il paradigma del bidet e la vita nelle carceri congestionate.  Luigi Manconi su La Repubblica il 4 gennaio 2022.

"Con una suora portiamo dei vestiti a un detenuto, delle coperte ai dializzati del reparto san Paolo e do un passaggio a casa a Gino che ha avuto un permesso premio di sette giorni". Così racconta Samuele Ciambriello, Garante dei diritti delle persone private della libertà per la regione Campania. E già questo dà la misura di cosa sia effettivamente il carcere, se lo osserviamo dal punto di vista dei bisogni elementari non soddisfatti e dei diritti fondamentali non tutelati.

Necessari nuovi modelli. Giustizia e carcere, la pena non può più essere solo sequestro del tempo. Domenico Alessandro De Rossi su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Tra i tanti argomenti interessanti il (mal)funzionamento della Giustizia ogni giorno di più emerge per la gravità delle condizioni in cui si trova proprio l’esecuzione penale. Non è più rinviabile un’ampia riflessione riguardante cosa significhi oggi, ma segnatamente per il domani, la funzione della detenzione alla luce del dettato costituzionale. Urgente oggi è anche un’ampia valutazione su come realizzare tale scopo.

Il ragionamento è ovviamente legato ai problemi dell’edilizia penitenziaria, della gestione del patrimonio preesistente e dei possibili nuovi istituti, oltre al suo eventuale rapporto col territorio. Recentemente Franco Corleone, che di carceri se ne intende, senza tanti giri di parole su Il Manifesto viene al punto: «Non sopporto più l’ipocrisia di chi lamenta il fenomeno senza indicare le cause». In sostanza si dice stanco, anche lui, di questo strano rapporto tra fittizie intenzioni di cambiamento e conseguenti apparenti doglianze per i risultati mai raggiunti che non individuino le responsabilità. Tra le ultime iniziative assunte dal ministro Bonafede nel 2021, poi ereditate dalla Guardasigilli Cartabia (non sappiamo in che termini e con quale entusiasmo), c’è la notizia dell’ennesima istituzione della Commissione per l’architettura penitenziaria.

Titolo altisonante quello del tavolo, promosso in prima persona non si sa da chi. Richiamando in nome dell’arte del costruire la Commissione, l’operazione sembrerebbe essere stata più un assicurare la presenza alle future decisioni che non quello di risolvere quanto di attuale, urgente e necessario pretende la gravissima situazione. Costruzioni complesse sono le carceri. Per lo stato disastroso in cui si trovano oggi, è più rispettoso annoverarle nel campo dell’edilizia penitenziaria, ben lontana questa dimensione dall’architettura. Le Commissioni sono formate in buona parte sempre dagli stessi professionisti che, nonostante puntualmente vengano chiamati per le doverose dissertazioni, ostinandosi a parlare di architettura permangono nei fatti comodamente fuori dalla più semplice discussione edilizia che riguarda gli impianti mal funzionanti, i tetti rotti, gli arredi fatiscenti, gli spazi inadeguati, laboratori inesistenti, celle sottodimensionate.

Pensiamo che al massimo le Commissioni, per dovere istituzionale, l’esistenza dell’ancora non abrogato articolo 27 della Costituzione, accomodandosi così nei più sicuri binari di stretta osservanza formale. Di fatto l’ultima commissione Bonafede, i cui risultati dei lavori svolti sono poco noti, sembrerebbe essere niente di più che il solito auspicio di quanto sarebbe bello se si potesse avere un carcere a misura dei diritti umani, in regola col dettato costituzionale e costruito secondo canoni rispettosi della buona architettura. A detta di chi è meglio informato di me, questo risultato della Commissione sarebbe l’«ennesimo atto della rappresentazione della “stagione dei proclami architettonici” in tema di carcere». Lacrime di coccodrillo? Può darsi. Ma questa affermazione rivela se non altro una coazione a ripetere dei partecipanti riuniti nei soliti riti ministeriali dei tavoli e delle commissioni. Ben sapendo che i risultati non ci saranno. In compenso subito dopo si affretteranno a lamentarsi della loro inconcludenza.

Data la suddetta coazione, sono da escludere debite distanze dalla accertata inutilità delle Commissioni, dei convegni e dei tavoli tecnici. Almeno per coltivare la propria immagine, il partecipare può essere cosa utile, non certo alle carceri, ma sicuramente alla persona. Qui Franco Corleone ha visto giusto. Insomma è veramente necessario che la ministra Cartabia muova verso nuovi modelli interpretativi in concorso con altre competenze ministeriali sulla vera funzione dell’esecuzione penale. Il futuro della riflessione sull’esecuzione della condanna e del suo significato deve passare per la riduzione drastica della recidiva, proponendo nuovi modelli organizzativi destinati a supportare le istituzioni, trasformandosi in servizi per il territorio. Insomma il sequestro del tempo come condanna e vendetta surrettizia deve cambiare nella civile opportunità di recupero e reinserimento nel corpo sociale. Nell’interesse non solo del detenuto. Domenico Alessandro De Rossi

Sul carcere, un muro di gomma. Non so più come parlarne. Troppa la voglia di dimenticare. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.  

La foto che ho deciso di mostrarvi questa settimana ritrae una donna che mostra a sua volta una foto, quella del figlio, Antonio Raddi, il ragazzo di 28 anni morto il 30 dicembre 2019 nel carcere delle Vallette a Torino, dopo aver perso 25 chili in pochi mesi. Antonio era tossicodipendente e aveva un’infezione polmonare. 

Nell’immagine di Jessica Pasqualon, la madre di Antonio Raddi, Rosalia Federico, il 30 dicembre 2021, nel secondo anniversario della morte del figlio in carcere a Torino, mostra una sua foto. Antonio aveva 28 anni e aveva perso 25 chili.

Non più edilizia carceraria, ma meno detenuti. Non l’introduzione di nuovi reati o l’inasprimento delle pene per quelli già esistenti, ma educazione alla responsabilità. Oggi, più che in ogni altro momento della storia, chi fa informazione ha una responsabilità enorme, quella di ragionare insieme a chi legge; quella di non cedere alla scorciatoia del generare panico, dell’accrescere la preoccupazione per rendere il proprio ruolo “fondamentale”. Chi fa informazione fa servizio pubblico anche se per conto di un privato e non gli è richiesta tanto oggettività, ma un’opinione espressa con conoscenza, con cognizione di causa e — si spera — anche con onestà. Non sono molti i giornalisti e i quotidiani che ogni giorno si occupano di carcere. In realtà sono pochi — tra questi Il Dubbio, Il Riformista e il Manifesto — e lo fanno con competenza perché sanno di essere un punto di riferimento. Eppure non riescono, e non per propria responsabilità, a segnare una strada che altri sentano la necessità impellente di dover seguire.

MI SENTO DIRE CHE GIÀ LA VITA NON È FACILE PER CHI NON COMMETTE REATI, PERCHÉ OCCUPARSI DI CHI È IN PRIGIONE?

Si sbatte il mostro in prima pagina senza dare conto delle archiviazioni, delle assoluzioni. Si parla di prescrizione come fosse un regalo all’imputato e non il diritto negato a essere giudicati in tempi umani. E siccome il carcere viene raccontato solo per mappare gli arresti, ci si accontenta di sapere che dentro finisce chi ha un debito con la comunità, chi deve pagare, scontare, essere privato della libertà - e in fondo anche di molto, molto altro - senza preoccuparsi mai di come viene impiegato il tempo che dovrebbe servire al reinserimento. Nemmeno so più in che termini parlarne, di carceri. Trovo un muro di gomma inconcepibile spesso anche tra gli interlocutori più attenti. Come se il solo parlarne potesse compromettere qualcosa, allontanare lettori, telespettatori, finanche amici in una conversazione informale.

Spesso la risposta che ottengo è: la vita non è facile per me che non ho commesso alcun reato, perché mi dovrei preoccupare di chi sta in carcere? E così mi accorgo che manca non tanto e non solo la cultura del diritto, ma la cultura dei diritti e cioè la consapevolezza, che dovrebbe essere un dato condiviso, che di diritti non si occupa solo chi non ha preoccupazioni proprie, chi ha una vita agiata e quindi può concedersi il lusso di pensare agli altri. La cultura dei diritti dovrebbe appartenere a tutti e da tutti essere condivisa, perché un diritto negato diventa automaticamente un privilegio per pochi o, peggio, una concessione; perché siano chiari, una volta per tutte, i ruoli: chi è incudine e chi martello.

La foto che ho deciso di mostrarvi questa settimana ritrae una donna che mostra a sua volta una foto, quella del figlio, Antonio Raddi, il ragazzo di 28 anni morto il 30 dicembre 2019 nel carcere delle Vallette a Torino, dopo aver perso 25 chili in pochi mesi. Antonio era tossicodipendente e aveva un’infezione polmonare che lo ha portato alla morte. Una morte che doveva essere evitata, una morte avvenuta mentre era affidato allo Stato che non ha saputo prendersi cura di lui. Ho voluto ricordare Antonio Raddi perché la famiglia si è opposta alla richiesta di archiviazione del Gip per quattro medici dell’istituto penitenziario indagati per omicidio colposo. E quindi la vicenda ha richiamato l’attenzione dei pochi che si occupano di queste vicende nell’indifferenza generale.

L’indifferenza del rimosso, il rimosso della piaga enorme della tossicodipendenza, il rimosso della sofferenza che questa porta con sé. Il rimosso del disagio e del nulla che lo Stato e la comunità fanno per fornire aiuto concreto. Ho letto le parole che sul caso ha pronunciato la garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo, la quale si è occupata a fondo di questa tristissima e inaccettabile vicenda. In un’intervista sul manifesto, Gallo afferma che Antonio Raddi è stato visitato in carcere «ma con sguardo assuefatto». Assuefatto perché tossicodipendente, assuefatto perché troppi detenuti e poco personale, assuefatto perché ormai sentiamo parlare continuamente di sofferenza tanto da non riuscire più a riconoscerla quando ci troviamo davanti quella vera, profonda e che non lascia scampo.

Quando Netflix ha trasmesso Sanpa ho creduto, ho sperato, mi sono augurato potesse aprirsi un dibattito sul disagio e il crimine legato alle tossicodipendenze. Macché! Se ne è parlato per quanto? Un paio di settimane, forse. Poi silenzio. Meglio dimenticare.

Le lettere dal carcere. Stare chiusi in galera costa un occhio della testa…Rita Bernardini su Il Riformista il 14 Gennaio 2022.  

Due lettere dal carcere con un unico comune denominatore. Tutti e due i detenuti hanno perso l’occhio sinistro. Uno ha paura di perdere anche quello destro, l’altro chiede di essere trasferito in un centro clinico penitenziario perché dopo mesi non si è ancora venuti a capo della malattia “rara” che lo colpisce.

Personalmente sono sommersa dalle disperate segnalazioni che arrivano da tutta Italia e così immagino lo siano tutti coloro che si occupano di carcere, a partire dai garanti e dalle associazioni. La diffusione del Covid  ha aggravato all’inverosimile le condizioni di detenzione strutturalmente “fuorilegge” da decenni. Da qui lo sciopero della fame che ho ripreso e che coinvolge decine di persone; da qui l’essere speranza: per se stessi e per gli altri.

La detenzione si paga con… un occhio della testa.

F. G. è un quarantunenne ed è in carcere per scontare 2 anni e 8 mesi. Nel settembre 2019, mentre era detenuto nel carcere di Lecce, avverte l’area sanitaria di avere un occhio gonfio e molto arrossato. Dopo 37 giorni, arriva l’oculista che gli fa la diagnosi: “congiuntivite”, e gli prescrive un collirio al cortisone. Prende le prime due gocce e la mattina dopo da quell’occhio non ci vede più. Il detenuto chiede di essere portato in ospedale, ma ciò avviene solo dopo 17 giorni grazie alla protesta dei compagni di cella e a una dottoressa del carcere che si impietosisce. I medici dell’Ospedale Vito Fazzi di Lecce si arrabbiano: nell’occhio era finita una piccola scheggia che aveva provocato un piccolo foro: bastava andare subito in ospedale per toglierla e, invece, con il ritardato ricovero e con il cortisone prescritto, quel piccolo foro è diventato molto ampio provocando un ascesso corneale.

All’ospedale di Lecce il detenuto rimane ricoverato per due mesi, con i medici che fanno di tutto per salvargli l’occhio, ma l’impresa appare impossibile. A dicembre gli viene sospesa la pena e lui può andare da “libero” al policlinico di Bari e successivamente al Careggi di Firenze per tentare un trapianto di cornea. Poi arriva il Covid, il detenuto ritorna in carcere e ora si trova ad Ascoli Piceno. Avrebbe bisogno di un monitoraggio costante (impossibile in carcere) perché l’occhio è ancora infetto e può coinvolgere l’altro dove gli mancano già 4 gradi e mezzo. Mi scrive “vivo con ansia e paura di diventare completamente cieco”. Il giudice gli ha concesso i domiciliari per potersi curare, ma il suo problema è che non ha una casa, un posto dove andare e chiede aiuto alle istituzioni. “Vi prego aiutatemi, sono solo senza genitori, non ho nessuno.”

G. M. è un ex tossicodipendente di 34 anni e come molti è in carcere (a Pavia) per scontare una condanna di 5 anni e mezzo per reati legati alla sua condizione di dipendenza da sostanze vietate. Mi scrive: «incoscientemente facevo reati per drogarmi e così ho lasciato a casa moglie e figlio di tre anni. È da due anni che sono in carcere e in tutta la mia vita sono stato detenuto per circa 11 anni. Oggi ho capito i miei errori e ho deciso di cambiare radicalmente la mia vita perché amo mia moglie e il mio bambino. Mi sono anche avvicinato alla Chiesa e prego spesso Dio che stia vicino a me e ai miei cari. Purtroppo, tutte queste preghiere non sono bastate e mi sta capitando una sorta di castigo divino e questa è la ragione per cui le scrivo sperando in un suo aiuto. La mattina del 18 ottobre 2021 mi sono svegliato e ho scoperto che non ci vedevo più dall’occhio sinistro.

Sono stato subito portato al Pronto Soccorso e, da quel giorno, è iniziato il mio calvario. Sono afflitto da una malattia rara che nessuno sa cosa sia: l’unica certezza è una lesione del nervo ottico che mi ha portato alla completa cecità dell’occhio sinistro, dolori muscolari diffusi, forti mal di testa e perdita frequente di sangue dal naso. Il Dirigente sanitario del carcere afferma che quello che mi sta capitando è anomalo alla mia età e pertanto mi sta sottoponendo a vari esami. La stessa comprensione che ho trovato nel dirigente sanitario e nel personale penitenziario spesso non la riscontro però nei medici di turno e negli infermieri che tardano nei soccorsi nei casi di emergenza. Uno di questi, un medico, un giorno mi ha detto “venite in galera e state male, poi una volta fuori state tutti bene!”. Ma ti rendi conto? Eppure, sa che ho perso un occhio e solo da un anno sono uscito da una forte depressione che mi ha portato più volte a tentare il suicidio».

G.M. racconta poi dettagliatamente tutti gli episodi che gli sono accaduti con tanto di date e chiede aiuto perché a Pavia, nel carcere, non sono in grado di curarlo. «Mi può stare anche bene rimanere in carcere, ma almeno mi trasferiscano in un centro clinico! Qui a Pavia ti fanno morire e ne ho visti qui morire o stare molto male, qui è una vera valle di lacrime…» Rita Bernardini

La realtà dietro le sbarre. Non solo i magistrati, tutti dovrebbero vivere un giorno in cella. Riccardo Polidoro su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. «Per ogni magistrato sarebbe utile vivere per qualche settimana la vita del carcere» è una frase che ricorre ciclicamente in quei rari casi in cui i media si occupano di detenzione che, invece, da sempre – non ciclicamente – vive un’insopportabile, ingiusta ed incivile quotidiana emergenza. Oggi più che mai, con il virus che si autoalimenta in ambienti ristretti e priva i detenuti anche di quel poco che avevano. La citazione, questa volta, è di Bernardo Petralia, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, in un’intervista al quotidiano La Repubblica.

Egli ci confida che, quando vinse il concorso in magistratura, fu suo suocero, penalista, a dirglielo e che adesso capisce il significato di quelle parole. All’incirca, quindi, 40 anni fa quest’indicazione fu data, non a caso, da un avvocato ad un neo-magistrato. Il periodo storico è quello della recente entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario del 1975, che prevedeva e prevede, all’articolo 69, che proprio un magistrato – quello di Sorveglianza – deve visitare costantemente gli istituti di pena per vigilare sulla loro organizzazione e prospettare al Ministro della Giustizia le esigenze dei vari servizi, con particolare riguardo all’attuazione del trattamento rieducativo. Deve esercitare, inoltre, la vigilanza diretta ad assicurare che l’esecuzione della pena sia attuata in conformità delle leggi e dei regolamenti. Quanto previsto dall’ordinamento, nella maggior parte dei casi, non avviene. Sono pochissimi i magistrati di Sorveglianza che rispettano tale norma e quelli che lo fanno non prospettano al ministro le innumerevoli e gravissime carenze strutturali, organizzative, sanitarie e igieniche che affliggono le nostre carceri. Una malattia cronica contro la quale coloro che dovrebbero combatterla si sono, da tempo, arresi.

Non ci sfugge che il senso delle parole di Petralia non riguarda i magistrati di Sorveglianza, ma le toghe in generale che non conoscono affatto la realtà del carcere. Egli stesso, infatti, nel riportare le parole del suocero-avvocato, ammette che ora ne capisce fino in fondo il significato, perché, solo dopo la sua nomina dello scorso anno, ha iniziato a visitare gli istituti di pena. Nel febbraio del 2012, su iniziativa dell’allora garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco, ben 21 pubblici ministeri visitarono l’istituto di Napoli-Poggioreale, tra questi l’attuale procuratore della Repubblica Giovanni Melillo, all’epoca procuratore aggiunto, che in più occasioni ha sostenuto la necessità, da parte della magistratura tutta, di conoscere la realtà detentiva. Non a caso la Procura di Napoli, sotto la sua direzione, ha istituito una sezione specializzata in reati commessi in carcere ed ha sottoscritto un protocollo d’intesa con l’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale. Atti che non hanno inciso sulla drammatica realtà delle carceri napoletane, ma che, se non altro, sono il segnale di una particolare sensibilità che, purtroppo, deve fare i conti con un mondo – quello detentivo – chiuso in se stesso, autoreferenziale e che non suscita alcun interesse da parte della classe politica.

Non so se sia davvero importante che i magistrati entrino o meno in carcere. Potrebbe non essere necessario in quanto basterebbe che facessero il loro lavoro nel rispetto di quanto previsto dalle norme, considerando, ad esempio, la custodia cautelare effettivamente l’extrema ratio e non una pena prima del processo, che non di rado, si conclude con un’assoluzione. Le ingiuste detenzioni sono, in media, tre al giorno. Va promossa, invece, nell’opinione pubblica, la conoscenza di come è oggi il carcere e come, invece, dovrebbe essere. Va indicata l’importanza della pena scontata secondo i principi costituzionali e non in loro violazione. Alcuni anni fa, l’Osservatorio Carcere dell’Unione camere penali si fece promotore dell’iniziativa “Carceri porte aperte” e molti cittadini ebbero l’opportunità di visitare i luoghi detentivi, conoscendone il bene ma anche l’enorme male che essi fanno alla comunità tutta. Visitiamole le carceri, magistrati e cittadini e vergogniamoci di quanto tolleriamo. Riccardo Polidoro 

Dopo la proposta del capo del Dap ai magistrati. La prigione di Halden in Norvegia come Poggioreale negli anni ’80: la migliore del mondo. Viviana Lanza su Il Riformista il 5 Gennaio 2022. Prima di diventare il migliore del mondo, anche quello norvegese era un sistema penitenziario in cui molti detenuti avevano problemi psichiatrici, nelle celle circolava droga, i detenuti organizzavano proteste ed evasioni, tre guardie penitenziarie furono uccise e il tasso di recidiva era del 70%. Erano gli anni Ottanta e accadeva quello che più o meno accade ancora oggi nelle nostre prigioni, con la differenza che in Norvegia in questi quarant’anni sono riusciti a rendere possibile la rivoluzione del sistema penitenziario al punto da trasformare Halden e, da struttura di reclusione simile alle nostre grandi prigioni (pensiamo a Poggioreale), portarla ad essere il carcere più umano e vivibile del mondo, mentre da noi ancora si discute di come far arrivare l’acqua potabile in un carcere aperto da metà anni Novanta e con una media di circa mille detenuti (parliamo di Santa Maria Capua Vetere).

Certo, alla base della rivoluzione norvegese ci sono stati investimenti di soldi (il carcere migliore del mondo è costato 250 milioni di dollari nel 2010) ma la spinta più forte ed efficace è arrivata dalla svolta culturale. «Quando sono entrato nel sistema penitenziario, mi è stato detto che non dovevamo parlare con i detenuti dei loro problemi e che il nostro dovere era solo di sorvegliarli, per cui l’interazione degli agenti con i detenuti era minima. Oggi invece gli agenti lavorano e mangiano con i detenuti, fanno sport e passeggiate insieme a loro. Questo è il concetto di sorveglianza dinamica che applichiamo. L’agente è diventato, oltre che una guardia, un operatore sociale», raccontò il direttore del carcere Are Høidal alla delegazione dell’Helsinki Vommitee, associazione per la difesa dei diritti umani in Romania, durante una visita nel carcere norvegese. È il senso di comunità il punto di forza di questo sistema penitenziario, il principio alla base del concetto di sorveglianza dinamica di cui parlava il direttore Høidal.

Il carcere non è un mondo a parte, come dalle nostre parti. In Norvegia, dal 2008, è in vigore una Carta bianca in base alla quale il sistema della giustizia deve essere incentrato sull’idea di normalità e sulla riabilitazione dei detenuti e per rendere questo possibile c’è un protocollo firmato da cinque ministri: Giustizia, Istruzione, Cultura, Salute e Autonomie locali. Un altro fattore cruciale è legato all’organizzazione della vita in carcere: i detenuti di Halden non oziano in cella per quasi l’intera giornata (eppure vivono in una stanza di 12 metri quadrati, da noi ce ne sono otto, persino dieci, in molti meno metri quadrati) e le attività trattamentali non sono centellinate fra la popolazione dei reclusi. I detenuti di Halden devono scegliere tra il lavoro e la scuola, possono specializzarsi in uno dei sette corsi di formazione professionale offerti con il rilascio del titolo di studio a fine corso, o imparare a suonare uno strumento in uno dei tre studi di registrazione del carcere. Purché si tengano impegnati. La struttura resta un luogo di reclusione, ma gli spazi della pena sono concepiti a misura d’uomo e soprattutto rispettando l’uomo in quanto persona in tutti i suoi diritti. Il concetto seguito è quello per cui la vita in cella non deve essere diversa da quella fuori le mura carcerarie e che la pena non deve privare il detenuto di ciò di cui ha bisogno per vivere in maniera dignitosa. Sin dal primo giorno di reclusione, il detenuto in Norvegia viene preparato alla sua liberazione intraprendendo un percorso di responsabilizzazione, per cui deve lavorare, pagare le tasse, coltivare gli affetti e trovare una motivazione. Chi non rispetta le regole viene isolato, ma in genere la convivenza tra i detenuti, e tra loro e gli agenti penitenziari, scorre più serena. E i risultati sono nel tasso di recidiva: solo il 20%. Non ci sono studi su studi, commissioni su commissioni, proclami su proclami. Si applica nel concreto quello che prevede anche la nostra Costituzione.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso rischia l'archiviazione. Antonio muore dopo aver perso 30 chili in carcere, famiglia chiede processo: “Mai avute risposte, non deve succedere più”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. “Mio figlio l’hanno lasciato morire, non è la prima volta che succede e non deve più accadere”. Sono le parole, rotte da emozione e rabbia, pronunciate da Rosalia Federico, madre di Antonio Raddi, il ragazzo di 28 anni detenuto al carcere delle Vallette di Torino morto il 30 dicembre di due anni fa per sepsi, 17 giorni dopo essere entrato in coma.

Una storia dalle tante ombre secondo la famiglia, che chiede che il caso non venga archiviato dal Gip, come richiesto nei giorni scorsi dalla Procura di Torino che aveva aperto un fascicolo per omicidio colposo.

Come ricordato dal legale della famiglia Raddi, Gianluca Vitale, la Procura di Torino ha disposto una prima consulenza medico-legale “che si è chiusa con l’affermazione ‘Antonio e’ morto perché doveva morire’“.

Quindi l’incidente probatorio chiesto dal pm titolare del caso è stato negato dal gip, seguito da una seconda consulenza in cui vi era scritto che il progressivo calo di peso “avrebbe dovuto essere contrastato diversamente, anche con l’ausilio di approfondimenti clinico-specialistici e di laboratorio”.

Antonio, è l’accusa dell’avvocato Vitale, “è stato accusato di non mangiare perché sperava di essere scarcerato, ma in realtà non riusciva più ad alimentarsi. Antonio è morto per un’infezione da batterio, che se contratta in condizioni diverse, senza una perdita di peso significativa, forse avrebbe potuto superare”.

LA STORIA DI ANTONIO – Antonio è morto all’ospedale Maria Vittoria di Torino, dove era arrivato in condizioni disperate e sopratutto dopo aver perso 30 chili in pochi mesi di reclusione, entrando alle Vallete col peso di 80 chili e uscendone praticamente cadavere facendo segnare sulla bilancia 50 chili. 

La sua storia la racconta in una conferenza stampa tenuta oggi, a due anni dal decesso, la Garante dei detenuti di Torino Monica Gallo, che ha seguito personalmente il caso: “Antonio entra in carcere il 28 aprile 2019 e già il 15 luglio il padre esprime grande preoccupazione per un evidente dimagrimento. Ad agosto dall’Asl mi dicono che non c’è alcuna criticità, ma a settembre le condizioni peggiorano. Il 3 dicembre chiedo allora un ricovero urgente. Antonio è in sedia a rotelle, ha le labbra viola, quando lo incontro mi dice che non riesce a mangiare e vomita sangue“. 

“Il 10 dicembre – prosegue la garante Gallo – Antonio viene ricoverato con urgenza all’ospedale Maria Vittoria, ma il giorno dopo riceviamo una rassicurazione dall’Asl e dalla direzione del carcere, dicono che la situazione è sotto controllo. Visitiamo ancora il ragazzo ma sta sempre peggio. Il 12 dicembre il Garante nazionale spiega che va assolutamente ricoverato, ma ormai è troppo tardi. Il 13 dicembre Antonio entra in coma e ci resta fino al 30 dello stesso mese, quando morirà per un’infezione”.

L’APPELLO DELLA FAMIGLIA – Il padre di Antonio, Mario Raddi, spiega quindi che il figlio “non ha mai fatto uno sciopero della fame”, semplicemente “in carcere non gli è mai stato proposto di andare in un reparto sanitario. Dopo l’ultimo ricovero, il primario di Rianimazione del Maria Vittoria ci ha chiamati in ufficio e ci ha detto che in quarant’anni di servizio non aveva mai visto nulla di simile. In quei diciassette giorni di coma, funzionavano solo cuore e cervello, gli altri organi erano tutti compromessi”.

Mario Raddi racconta anche un episodio che fa ben capire le condizioni in cui è morto il figlio: “Gli operatori delle onoranze funebri non sono neppure riusciti a vestirlo, così lo hanno avvolto in un lenzuolo bianco”.

Anche da parte sua l’appello è quello di ottenere la verità sulla morte del figlio 28enne, finito in carcere per condanne per rapine, maltrattamenti ed evasione. ”Speriamo che si dica come sono davvero andate le cose, senza falsità. Antonio stava male da mesi, beveva caffè e fumava tantissimo, l’acqua gli procurava dei fortissimi mal di stomaco. Un ragazzo detenuto con Antonio ci ha detto che l’intera sezione del carcere quando mio figlio stava male, ha protestato affinché lo curassero, ma nessuno li ha ascoltati. Io non potevo fare nulla eppure lui me l’aveva detto ‘papa’ fammi uscire che mi fanno morire qui dentro‘“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Quei troppi detenuti lasciati morire perché sospettati di “simulare” un malessere inesistente. Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio e un terzo per “cause da accertare”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 31 dicembre 2021. Erano detenuti che avevano tumori, leucemie, distrofie muscolari, ulcere sanguinanti, anoressia, ma non curati in tempo perché gli operatori credevano che simulassero. Non è un caso raro quello di Antonio Raddi, detenuto al carcere le Vallette di Torino, che morì il 30 dicembre 2019 a 28 anni per una infezione polmonare dopo avere perso 25 chili di peso, ma che nessuno l’ha curato in tempo perché gli operatori credevano che simulasse.

Nelle carceri italiane muoiono in media 150 detenuti l’anno, dei quali un terzo circa per suicidio, un terzo per cause immediatamente riconosciute come “naturali”, e il restante terzo per “cause da accertare”, che indicano tutti i casi nei quali viene aperta un’inchiesta giudiziaria. È difficile credere che in tutti questi casi la morte sia stata un evento improvviso, inatteso e imprevedibile; più probabilmente ha rappresentato l’epilogo di una malattia che progressivamente si aggrava, con segni clinici e sintomi via via più evidenti che avrebbero dovuto allarmare i sanitari, far disporre il ricovero in ospedale e, quanto meno, dare l’avvio alle procedure per l’ottenimento del rinvio della pena o della detenzione domiciliare.

Perché questo non accade? Spesso non viene prestata sufficiente attenzione ai sintomi della malattia, ai detenuti non sempre vengono creduti quando lamentano un malessere. Tanti, tantissimi sono casi del genere.

Roberto Jerinò, detenuto nel carcere calabrese di Arghillà, morì nel 2014

Il caso emblematico, denunciato già da Il Dubbio, riguarda la morte di Roberto Jerinò, detenuto al carcere calabrese di Arghillà e morto dopo dolori lancinanti a dicembre del 2014 presso l’ospedale di Reggio Calabria. L’allora sessantenne Jerinò, durante la detenzione, cadde per terra perché la sua gamba perse la memoria dei movimenti, poi il braccio e infine la bocca. Venne portato di corsa in ospedale: ischemia, fu la diagnosi, con paresi facciale degli arti. L’avvocato, come logico, chiese la concessione dei domiciliari. Rigettato. Subito riportato in carcere, nonostante la diagnosi.

Secondo la testimonianza di alcuni detenuti, alle 3 di notte del 12 dicembre del 2014, Jerinò sentì assottigliarsi e allargarsi una vena in testa; era un movimento continuo, lievemente doloroso. Chiamò un suo compagno di cella chiedendogli una camomilla; credeva avesse bisogno di tranquillizzarsi. Non riuscì a dormire quella notte. La mattina si segnò in elenco per l’infermeria: gli misurarono la pressione, nessuna anomalia. Fu così per l’intera giornata: un dolore costante, ritmato; la pressione era stabile. Il 13, tutto uguale: dolore e pressione, stabili. Non facevano altro che misurargli la pressione e riportarlo in cella. Stava impazzendo Jerinò, sentiva quella vena come se fosse una sanguisuga. Lamentava dolore. Dopo aver trascorso tre giorni di lamenti, e richieste di soccorso, rimase paralizzato nel letto. Lo portarono in ospedale che era già in coma. Non si risvegliò più. Morì il 23 dicembre del 2014.

Ripeschiamo un altro caso lontanissimo nel tempo, ma particolarmente emblematico. Si chiamava Uzoma Emeka, detenuto nigeriano di 32 anni, il quale muore nel carcere di Teramo il 18 dicembre 2009 per un tumore al cervello mai diagnosticato. Dalla relazione dell’avvocato Alessandro Gerardi, che ha potuto visitare il carcere di Teramo e raccogliere la testimonianza dei compagni di cella di Emeka al seguito di una delegazione di parlamentari radicali, si legge che venti giorni prima di morire, aveva già cominciato ad avvertire alcuni forti capogiri: perdeva i sensi all’improvviso, sveniva in cella e nelle docce, vomitava, non riusciva ad alzarsi dal letto, non mangiava, deperiva a vista d’occhio.

Ogni volta che perdeva i sensi, i compagni di cella lo conducevano in infermeria sulle spalle, ma il medico di guardia, dopo pochi minuti, senza fare né disporre ulteriori accertamenti, lo rimandava in cella prescrivendogli tutt’al più qualche “pillola” per dormire. Anche la notte prima di morire Emeka era stato rispedito dall’infermeria nella cella, ma stava talmente male da non riuscire a rimanere nemmeno steso sul letto e cadeva continuamente a terra. Dopo alcuni tentativi è stato lasciato privo di sensi per terra, con un lenzuolo, per l’intera nottata, nonostante avesse vomitato più di una volta e gli altri detenuti ne chiedessero l’immediato ricovero in infermeria. Risultato: la mattina seguente lo hanno trovato con la bava alla bocca, rigido e privo di coscienza. Solo dopo qualche ora è stata finalmente chiamata l’ambulanza, ma ormai i medici non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso.

Nelle carceri italiane quando si verificano casi di mancato ascolto del paziente, esami clinici non effettuati, diagnosi sbagliate, in definitiva cure non prestate, il vero motivo è spesso lo stereotipo che vuole il detenuto manipolativo e falso, che simula un malessere (o ne esagera i sintomi) allo scopo di ottenere dei “benefici”. Inoltre i medici sono consapevoli che per un detenuto la libertà vale più della salute, quindi spesso “sospettano” che possa aver messo in atto pratiche autolesionistiche per auto- provocarsi i disturbi che lamenta e che, comunque, non seguirà le terapie prescritte in quanto gli “conviene” lasciare che la malattia si aggravi, nella speranza di ottenere l’incompatibilità con il regime detentivo. Tutto ciò porta a un’amara conclusione: tante morti in carcere potevano ( e possono) essere evitate. 

Fa delinquere, fa uccidere e uccide. Perché il carcere è un pericolo per la nostra società e va abolito. Luigi Manconi su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. Carissimi, sono tentato di fare mio quel “sono un detenuto” di Totò Cuffaro perché convinto, come lui, che chi è stato recluso lo è in qualche modo per sempre. Nel senso che chi ha conosciuto la prigione ne subisce gli effetti e i condizionamenti per tutta la vita. Anch’io sono stato in cella per sette mesi, ma richiamare una durata tanto breve suona quasi ridicolo quando si parla davanti a “lungodegenti”: persone che il carcere lo patiranno per anni e per decenni.

D’altra parte, cinquant’anni fa, io ero un detenuto politico, arrestato a seguito di gravi scontri con militanti neofascisti. Questo è un dato importante perché io, quei sette mesi, non solo li ho trascorsi in diverse carceri italiane il cui livello di decoro era superiore a quello attuale, ma perché vivevo la reclusione con un atteggiamento di tranquillità operosa; e perché, soprattutto, la prigionia era conseguenza di una consapevole scelta politica e ciò dava al carcere un suo senso: un effetto collaterale, non voluto ma non sorprendente della militanza politica. All’opposto, è mia convinzione che oggi il carcere non abbia alcun senso. Nessuna razionalità e nessuna utilità. Un sistema totalmente fallimentare rispetto allo scopo indicato dalla Carta costituzionale. Una macchina insensata: criminogena e patogena. Criminogena perché il suo effetto principale è quello di riprodurre all’infinito crimini e criminali. La sola ricerca attendibile sulla recidiva ci dice che, per chi sconta interamente la pena in carcere, la reiterazione del reato sfiora il settanta percento. Patogena in quanto genera malattia, autolesionismo, morte.

Il tasso di suicidi, secondo uno studio condotto insieme al professor Giovanni Torrente, è superiore di sedici-diciassette volte rispetto a quello registrato nella corrispondente fascia d’età tra le persone libere. Da qui la convinzione profonda che il carcere vada abolito. Nel 2015, con Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, abbiamo scritto un libro con questo titolo: Abolire il carcere. Una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini, pubblicato da Chiare Lettere, di cui stiamo curando una nuova edizione per i primi mesi dell’anno. Dico subito che la nostra non è una provocazione né un palpito profetico. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa, cioè, mettere in atto una serie di misure e provvedimenti capaci progressivamente ma concretamente di rendere la cella superflua, di ridurre la sua apparente necessità e ineludibilità: e di lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio.

Quando, qualche tempo fa, mi capitò di essere Sottosegretario alla Giustizia con delega al carcere, insieme al magistrato Sebastiano Ardita, responsabile dell’ufficio Detenuti e trattamento del DAP, commissionammo un’indagine che evidenziò come la quota di reclusi “socialmente pericolosi” superasse di poco il dieci percento dell’intera popolazione detenuta. Per quella minoranza il carcere rappresenta, probabilmente, la sola possibile misura di contenimento. Ma per tutti gli altri? Un programma alternativo è possibile, secondo i seguenti punti. Depenalizzazione. Va prevista una depenalizzazione generale, che sostituisca la sanzione penale con quella amministrativa o civile rispetto a reati non espressione di una particolare pericolosità dell’autore, e per il contrasto dei quali l’adozione di misure alternative non penali possa ritenersi sufficientemente dissuasiva. Decarcerizzazione. Il ricorso al carcere dev’essere limitato ai delitti di gravità e pericolosità tali da far temere il “pericolo della libertà” del loro autore. In sostituzione vanno previste la detenzione domiciliare o sanzioni interdittive, prescrittive e pecuniarie. In alcuni ordinamenti, quali quello tedesco, greco e danese, l’ambito di applicazione della multa è talmente ampio (si stima dell’85% delle pene irrogate in Germania), da limitare le pene detentive ai soli condannati socialmente pericolosi (stimati al 15% nella stessa Germania). Va da sé che le sanzioni pecuniarie debbano essere modulate in rapporto alla capacità economica dei condannati.

Una ulteriore e drastica riduzione della popolazione detenuta si può ottenere attraverso misure che riguardino tre “gruppi” vulnerabili, particolarmente numerosi nelle carceri: tossicomani, pazienti psichici, stranieri che, privi di regolari titoli di ingresso e soggiorno in Italia, finiscono col precipitare, per varie ragioni, nell’illegalità e nel circuito penale. Se questi provvedimenti e la prospettiva nella quale vanno inseriti appaiono irrealizzabili è solo perché manca la volontà politica di tradurli in concreti progetti di riforma. E manca la consapevolezza di un dato generalmente trascurato, eppure rivelatore: la Costituzione non parla mai di carcere, né di pena detentiva. Anche se i costituenti conoscevano solo il carcere, forse l’avevano conosciuto tanto bene sulla propria pelle da non voler aggettivare le pene, lasciando campo libero a un legislatore che volesse cambiare radicalmente la fisionomia delle sanzioni. Siamo dunque autorizzati a osare. O, almeno, a sperare. Auguro un grande successo a Nessuno Tocchi Caino. (Ha collaborato Lucrezia Fortuna)

Luigi Manconi. Intervento al Congresso di Nessuno tocchi Caino 

Chiesta l’archiviazione per 14 reclusi dopo le denunce degli agenti: fu calunnia. Violenze in carcere, i pm: “nessuna rivolta a Santa Maria Capua Vetere prima dei pestaggi”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Dicembre 2021. All’indomani dell’esplosione del caso dell’ “orribile mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, gli agenti penitenziari giustificarono quella che definirono una “perquisizione straordinaria” in risposta a una protesta violenta fatta dai detenuti. La Procura di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) ha chiesto l’archiviazione per 14 detenuti che erano stati denunciati dal personale della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Santa Maria Capua Vetere per le proteste del 5 aprile 2020, che portarono il giorno successivo ai pestaggi da parte di circa 300 agenti della Penitenziaria e violenze ai danni di quasi trecento detenuti del Reparto Nilo.

Lo scenario che viene fuori al momento è tremendo: non ci furono lesioni e minacce ai danni degli agenti della polizia penitenziaria e per questo le loro accuse sono oggetto di una richiesta di archiviazione da parte della Procura. Una violenza che sarebbe dunque scattata senza alcun motivo. Le prove e i tentativi di depistaggio da parte degli agenti sarebbero state costruite ad arte con foto e dichiarazioni che poi i video avrebbero smentito.

Secondo la ricostruzione fatta dall’Ansa la perquisizione straordinaria, che il Gip di Santa Maria Capua Vetere definì nell’ordinanza di arresto emessa il 28 giugno scorso “un’orribile mattanza”, fu motivata dai vertici del carcere e del Dap come una risposta alle proteste avvenute il giorno prima, quando alcuni detenuti del Reparto Nilo occuparono i corridoi dopo aver saputo della positività al Covid di un recluso; la protesta rientrò dopo alcune ore, e il giorno dopo nelle celle dei detenuti furono ritrovate, a detta degli agenti, pentolini con olio bollente e spranghe.

Ma secondo la Procura quegli oggetti furono messi apposta lì dagli agenti, per giustificare il ricorso alla violenza contro i detenuti. Dopo la protesta furono individuati 14 detenuti quali capi della rivolta e denunciati per resistenza e minaccia a pubblico ufficiale e lesioni personali; questi, tra cui l’algerino Hakimi Lamine, furono portati in isolamento. Secondo quanto riportato dal Mattino gli agenti per creare un precedente, per giustificare la violenza, chiesero “le teste” dei capi della rivolta e, scegliendo tra i detenuti “ultimi tra gli ultimi”, gli esecutori di quell’ordine andarono a pescare dalla psichiatria, tra gli ergastolani, e tra gli stranieri. Dodici “predestinati” furono messi in isolamento. E furono “liberati” solo dopo l’arrivo in carcere del magistrato di sorveglianza Marco Puglia. Avevano ancora i vestiti insanguinati. Era l’8 aprile 2020, due giorni dopo la rappresaglia nel Nilo.

Uno dei detenuti indicato tra i capi della rivolta era l’algerino Hakimi Lamine. Secondo la Procura l’uomo morì stroncato dai farmaci ad inizio maggio 2020 dopo un mese di isolamento e per la sua morte sono indagati in 12 tra ufficiali e sottufficiali della polizia penitenziaria e funzionari del Dap. Per la Procura quella morte fu “causata delle torture”. Agli atti anche i racconti dei detenuti che erano con lui negli ultimi istanti di lucidità quando, ormai in agonia, chiamava la madre. Lamine compare in alcuni video mentre durante le proteste mangiava crackers sotto la porta della sua cella. Ed era in una sezione diversa da quella interessata dai disordini, ma la Penitenziaria lo indicò falsamente tra i leader della protesta.

Per la Procura (Procuratore Aggiunto Alessandro Milita e sostituti Daniela Pannone e Alessandra Pinto) quella protesta del 5 aprile non diede luogo a reati, come denunciato dalla penitenziaria; anzi la Procura ha contestato anche il reato di calunnia ad agenti e funzionari che denunciarono i detenuti, e ora il Gip di Santa Maria Capua Vetere dovrà decidere se archiviare le accuse a carico dei reclusi.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA il 26 aprile 2022) - La Procura ha chiesto il rinvio a giudizio per 107 persone, in particolare poliziotti della Penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria (Dap), per le violenze avvenute nell'aprile del 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere.

La richiesta è avvenuta nel corso dell'udienza preliminare davanti al gup Pasquale D'Angelo; per un altro agente coinvolto è stato richiesto poi il proscioglimento, che si aggiunge ad altre dodici analoghe richieste avanzate dalla Procura alcuni mesi fa (in totale erano 120 gli indagati). Due imputati hanno poi chiesto di poter accedere al rito abbreviato.

La mattanza di Santa Maria Capua Vetere. Carcere degli orrori, a processo 107 tra agenti penitenziari e funzionari. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

I racconti dei detenuti che hanno avuto il coraggio di denunciare, i video ripresi dalle telecamere di sorveglianza interne al carcere, le intercettazioni telefoniche degli agenti finiti sotto accusa e le chat tra colleghi e funzionari. C’è tutto questo nella storia dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. «La pagina più brutta» come l’hanno definita in tanti. E come ha ricordato il procuratore Alessandro Milita pronunciando le conclusioni della Procura dinanzi al giudice dell’udienza preliminare.

La pubblica accusa ha concluso con una richiesta di rinvio a giudizio per 107 imputati, fra poliziotti e funzionari della penitenziaria. Ha chiesto il processo davanti alla Corte d’assise, cioè davanti a un collegio composto da giudici togati e cittadini della giuria popolare. La richiesta si fonda sulla contestazione dell’aggravante secondo cui i pestaggi concorsero a determinare la morte di uno dei detenuti picchiati, Lakimi Hamine, detenuto algerino considerato un soggetto fragile per via di problemi di natura psichiatrica e trovato morto in cella un mese dopo quel pomeriggio di violenze e i giorni di isolamento. Ritenendo inoltre la connessione tra le torture e le lesioni ai danni degli oltre cento detenuti del reparto Nilo e il caso Hamine, l’accusa ha chiesto che il processo si celebri davanti alla Corte d’assise non solo per gli agenti e i dirigenti direttamente chiamati a rispondere delle conseguenze che portarono alla morte del giovane detenuto algerino ma anche di tutti gli altri imputati, quindi degli agenti che si armarono di caschi e manganelli formando quel corridoio umano che diede il via alle violenze, di chi li cooptò e li coordinò, di chi seguì tutto a distanza dalle stanze più alte della gerarchia penitenziaria.

La decisione spetterà al giudice Pasquale D’Angelo che concluderà l’udienza preliminare al termine delle discussioni di tutti gli avvocati di parte civile e del collegio di difesa. Forse entro giugno, si vedrà. Centosette imputati, si diceva. Un numero che rende unico questo processo. Per uno solo degli agenti coinvolti la Procura ha ieri concluso con una richiesta di proscioglimento: le indagini hanno accertato che Luigi Macari non era in servizio quel 6 aprile 2020 ed era stato quindi erroneamente inserito nell’elenco degli agenti che parteciparono alla “mattanza”. Altri due agenti imputati hanno invece optato per il rito abbreviato, accettando di definire la propria posizione direttamente in sede di udienza preliminare e sulla base degli atti raccolti dal pubblico ministero, senza gli approfondimenti e le lungaggini del dibattimento. Tutti gli altri, invece, seguiranno la via del rito ordinario. Molti, infatti, in questo processo, che in dibattimento avrà una durata di anni visti i numeri e la complessità dei fatti, si giocano anche il posto di lavoro: in caso di condanna, rischierebbero il licenziamento. I reati contestati spaziano a vario titolo dalla tortura alle lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Macelleria sammaritana, richiesto il giudizio per 107 imputati. Sono agenti penitenziari e funzionari del Dap, accusati a vario titolo di tortura, lesioni e falso per gli episodi di violenza avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile del 2020. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 27 aprile 2022.

Richiesto il rinvio a giudizio per 107 persone per le violenze avvenute il 6 aprile del 2020 nel carcere casertano di Santa Maria Capua Vetere, nello specifico parliamo degli agenti della polizia penitenziaria e funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap).

La richiesta è avvenuta nel corso dell’udienza preliminare davanti al gup Pasquale D’Angelo. Per un altro agente coinvolto è stato richiesto poi il proscioglimento, che si aggiunge ad altre dodici analoghe richieste avanzate dalla Procura alcuni mesi fa (in totale erano 120 gli indagati). Ricordiamo che per 12 agenti era contestato il reato di cooperazione in omicidio colposo relativo alla morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, deceduto il 4 maggio 2020 dopo essere stato tenuto per giorni in isolamento. Proprio per quest’ultimo caso inizialmente la Procura aveva scelto di contestare il reato di “morte come conseguenza di altro reato“, bocciato dal Gip Sergio Enea che la classificò come suicidio. La decisione del Gip è stata però impugnata dalla Procura che ha provveduto a integrare il quadro accusatorio.

Sono accusati di tortura, lesioni e falso

Per gli agenti e funzionai ai quali la procura sammaritana ha chiesto il rinvio a giudizio, le accuse sono a vario titolo di tortura, lesioni, reati di falso. Ricordiamo che, secondo quanto accertato sulla base delle immagini acquisite dal sistema di videosorveglianza del carcere, nonché dalle chat tra gli agenti di polizia penitenziaria e dalle dichiarazioni dei detenuti, il pomeriggio del 6 aprile 2020, tra ore 15.30 e le 19.30, all’interno del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere, numerosi agenti di Polizia penitenziaria – giunti anche dalle carceri di Secondigliano e di Avellino – hanno esercitato una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro.

I detenuti, costretti ad attraversare il cosiddetto corridoio umano (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti. Tra le immagini più crude fecero scandalo quelle del detenuto sulla sedia a rotelle picchiato con il manganello, e dei detenuti fatti passare in un corridoio formato da agenti che li prendevano a manganellate, o a calci e pugni.

Nelle quattro ore di mattanza umiliazioni degradanti

Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria. Dopo le quattro ore di “mattanza”, le sofferenze fisiche e psicologiche venivano perpetrate anche nei giorni immediatamente successivi, in particolare nei confronti dei quattordici detenuti trasferiti dal reparto Nilo al reparto Danubio – perché ritenuti ispiratori della protesta del 5 aprile -, costretti senza cibo, e, per 5 giorni, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati; anche ai detenuti rimasti al reparto Nilo veniva riservato un trattamento degradante, addirittura con l’imposizione, volutamente mortificante della capacità di autodeterminazione, del taglio della barba, secondo quanto orgogliosamente rivendicato in uno dei messaggi inviati sulla chat del gruppo di agenti di Polizia penitenziaria.

Arrivarono agenti da altri istituti che non sono stati ancora identificati

Quel giorno, ribadiamo, arrivarono anche oltre cento agenti da altri istituti di pena come Secondigliano, inviati dal direttore del Dap Antonio Fullone, i quali non sono stati ancora identificati a causa dei caschi e delle mascherine che indossavano in quella circostanza. In totale i detenuti vittime dei pestaggi sono stati 177, tanto che la Procura, per avvisare tutte le parti offese, ha deciso di ricorrere alla notificazione per pubblici annunci, con deposito dell’avviso di conclusione indagini presso il Comune di Santa Maria Capua Vetere e con la pubblicazione di un estratto sulla Gazzetta Ufficiale.

«È nostro dovere riflettere sulla contingenza ma anche sulle cause profonde che hanno portato un anno fa ad un uso così insensato e smisurato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti di questa portata richiedono da un lato una risposta immediata da parte dell’autorità giudiziaria, ma ai miei occhi sono spia di qualcosa che non va e dobbiamo indagare e intervenire con azioni ampie e di lungo periodo perché non accada più».

A dirlo è stata la ministra della Giustizia Marta Cartabia a luglio del 2021, nel corso dell’informativa urgente alla Camera sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. «Fatti di quella portata reclamano un’indagine ampia perché si conosca quanto è successo in tutti gli istituti penitenziari nell’ultimo drammatico anno, dove la pandemia ha esasperato tutti, perché le carceri italiane già vivono in condizioni difficili per il sovraffollamento, per la fatiscenza delle strutture, per la carenza del personale e per tante altre ragioni – ha proseguito -. Dunque occorre guardare in faccia i problemi cronici dei nostri istituti penitenziari affinché non si ripetano più atti di violenza né contro i detenuti né contro gli agenti della polizia penitenziaria e tutto il resto del personale. Il carcere è specchio della nostra società ed è un pezzo di Repubblica che non possiamo rimuovere dal nostro sguardo e dalle nostre coscienze», aveva affermato sempre la guardasigilli tra gli applausi dell’aula.

È aperto un fascicolo per le violenze nel carcere di Modena

In quell’occasione, la ministra Cartabia ha annunciato di avere «costituito al Dap una commissione ispettiva che visiterà tutte le carceri interessate dalle proteste». Va infatti ribadito che non è solo il carcere di Santa Maria Capua Vetere ad essere attenzionato. Come ha riportato Il Dubbio, ci sono altre carceri dove sarebbero avvenuti dei pestaggi. Attualmente è aperto un fascicolo che riguarda il carcere di Modena. Dalle testimonianze raccolte dalla procura, emerge che diversi detenuti sarebbero stati ammassati in una stanza vengono obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Emerge un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno.

Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Sono soprattutto reclusi stranieri a essere stati picchiati, tanti di loro – com’è detto -, in stato di incoscienza dovuto dall’assunzione elevata dose di droga e psicofarmaci. Ma tra loro c’era anche Salvatore Piscitelli, l’uomo che in seguito – trasferito nella notte al carcere di Ascoli Piceno assieme agli altri – morirà dopo essere stato trasportato di urgenza in ospedale con un oggettivo ritardo rispetto alla richiesta di aiuto da parte dei suoi compagni di cella. Come già riportato da Il Dubbio, la procura di Ascoli Piceno ha presentato la richiesta di archiviazione. L’associazione Antigone, tramite l’avvocata Simona Filippi, ha avanzato opposizione.

I pestaggi in cella. Mattanza in carcere e silenzio di Stato: “Noi derisi e umiliati per aver denunciato, detenuti trasferiti per punizione”. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

«Dopo aver subìto critiche e sospetti per le denunce presentate, apprendiamo ora che ci fu un uso smisurato e insensato della forza, una violenza a freddo», afferma il garante regionale Samuele Ciambriello, commentando la notizia della richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura nei confronti di 107 fra agenti e funzionari della penitenziaria nell’udienza preliminare per le torture e i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ciambriello è parte civile insieme al garante nazionale Mauro Palma, all’associazione Antigone, ad altre associazioni che si occupano dei diritti dei detenuti e molti dei reclusi che subirono le violenze messe in atto dagli uomini della penitenziaria il 6 aprile 2020.

Si era in piena pandemia e le tensioni erano altissime ovunque. Il giorno prima un gruppo esiguo di detenuti inscenò una breve protesta per chiedere mascherine e tamponi. La risposta della penitenziaria il giorno seguente fu quella che gli inquirenti hanno definito «orribile mattanza». «Ho sempre detto, sin dai primi giorni rimanendo però inascoltato, che questa storia era una ferita gravissima della dignità delle persone e quando arrivarono i primi avvisi di garanzia subii critiche e umiliazioni di politici che continuavano a dire che era stata una rivolta», aggiunge Ciambriello ricordando il muro di diffidenza da superare. Perché quando si parla di carcere si fa presto a definire vittime e carnefici secondo cliché populisti.

Poi sono arrivate le denunce messe nero su bianco, le foto e infine le riprese video che hanno documentato le sequenze della mattanza, la dinamica e i volti di chi eseguì la spedizione contro un centinaio di detenuti del reparto Nilo. Le indagini durarono poco più di un anno. Nessuno aveva mai parlato di quei pestaggi se non alcuni dei diretti interessati e i garanti. «Per tanto tempo c’è stato molto silenzio attorno a questa vicenda – ricorda Ciambriello – . Si potrebbe parlare oltre che di mattanza di Stato anche di silenzio di Stato». Un silenzio interrotto quando su giornali e web cominciarono a circolare le immagini e i video dei pestaggi. A quel punto il dubbio si dipanò. «Con piacere voglio ricordare che oltre alla nostra costituzione di parte civile c’è anche quella del garante nazionale e del Ministero della Giustizia», aggiunge Ciambriello sottolineando come in questa vicenda ci sia stato anche un momento in cui al danno si unì la beffa.

Fu quando l’inchiesta della Procura sammaritana arrivò alla svolta con le misure cautelari (poi revocate) nei confronti di una buona parte degli oltre cento poliziotti e funzionari indagati e contemporaneamente ci fu il trasferimento di una settantina di detenuti fra coloro che avevano subìto i pestaggi e poi denunciato. Ufficialmente quei trasferimenti furono decisi per tutelare i detenuti che avevano denunciato, ma nei fatti si tradussero in una sorta di seconda punizione per i diretti interessati perché furono portati in carceri fuori regione, alcuni anche a distanza di centinaia di chilometri, con tutte le difficoltà di fare poi i colloqui con i propri familiari. Una trentina di detenuti, in questo anno, sono rientrati in istituti di pena più vicini alla Campania, altri invece hanno deciso di mantenere la distanza fisica dal luogo di quell’inferno.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

·        Le fughe all’estero.

Le fughe all’estero di orchi e killer.  Ogni settimana un’estradizione. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 9 luglio 2022.  

Una rivoluzione rispetto all’immaginario collettivo dell’estradato quale unicamente boss della criminalità organizzata come per esempio Rocco Morabito, il 55enne già «avanguardia della ‘ndrangheta» per dirla con un alto ufficiale dei carabinieri che gli diede la caccia, atterrato a bordo di un aereo Falcon dal Brasile nella notte tra martedì e mercoledì, e adesso destinato a tre decenni di prigione, la durata della sua latitanza in Sudamerica tra cocaina e tesori milionari, rapporti col Potere ed evasioni farsesche. I l ha esaminato il corposo dossier del ministero della Giustizia sulle settanta persone riportate in Italia nel ristretto arco temporale di quindici mesi, in coincidenza dell’insediamento della ministra Marta Cartabia. E ha scoperto una narrazione di storie e biografie criminali, missioni diplomatiche, analisi e gestioni di casi di geopolitica quasi o per niente mediatiche.

Gli ostacoli

L’estradizione è, di suo, un’operazione complessa e complicata, vincolata al dialogo e alle chirurgiche trattative con altre nazioni spesso inserite nella lista nera dei cosiddetti «Stati-canaglia», pertanto riottose a collaborare; ed è, l’estradizione, giuridicamente bisognosa di un gran lavorio sotterraneo e silenzioso che banalmente può venir compromesso da un fax tardivo. Per tacere delle mosse dei latitanti una volta catturati e in attesa di consegna: non rara l’azione di aggredire un agente, macchiandosi così di un reato locale che può innescare provvedimenti nello Stato chiamato alla consegna, bloccando il completamento dell’estradizione. E anche per tacere della «disobbedienza» di elementi di Governi esteri i quali, in conseguenza di una varietà di cause, dalla corruzione alla paura se non alla mera azione di disturbo contro rivali politici, favoriscono la permanenza di un delinquente invece da estradare (che può essere un imputato, in attesa di giudizio penale, oppure un condannato da sottoporre alle sanzioni stabilite dai Tribunali).

Il maniaco dei bambini

Qualcuno conosce il 74enne Marcello Pigozzo ? S’era nascosto negli Stati Uniti dove credeva di divenire fantasma lasciandosi indietro il passato di maniaco pedo-pornografico, i computer intasati d’ogni possibile orrore con abusi contro i bambini. E il 45enne Luca Fiorentino? Scappato in Inghilterra, perseguito per violenze sessuali su, di nuovo, minorenni. Rimpatriato Pigozzo, rimpatriato Fiorentino. Due operazioni rese possibili da Paesi con i quali il dialogo è robusto, le relazioni bilaterali avviate, il rischio di sorprese limitato. È con altre nazioni che le estradizioni bisognano di un’intensa preparazione. Tradotto: soluzioni che sarebbero scontate nel nostro alfabeto non incontrano obbligate adesioni altrove. Come in Albania. O meglio: come un tempo in Albania.

Le rotte della coca

A lungo ha resistito una sorta di certezza ripetuta dagli investigatori specie dell’Interpol: i criminali albanesi le tentano tutte pur di farsi trasferire nei penitenziari di Tirana o Valona perché poi, tanto, pagando escono quando vogliono. Il tema albanese è di rara e intensa complessità e, forse come pochi altri, necessita di distinguo a fronte di generalizzazioni. Ma è indubbio che l’elevata presenza, nell’elenco del ministero della Giustizia, di albanesi dall’Italia condannati e in Italia riportati, ci collega in forma esclusiva alle rotte del narcotraffico. Anni fa, quei malavitosi albanesi attivi nella droga erano notori per l’ossessiva e ottusa capacità di dilaniarsi in guerre intestine, per ambire velocemente a ruoli egemonici stanchi com’erano di fare i galoppini delle cosche; preferivano il guadagno subito e immediato anziché una lungimirante politica di programmazione. Oggi no. Oggi ci sono boss albanesi che trattano alla pari con i narcos sudamericani ragionando da sofisticati manager; boss che reclamano spazio e potere sapendo di poterli ottenere; boss che, per un ulteriore collegamento a Morabito, di sicuro hanno festeggiato la fine dello stesso boss, visto che dal Brasile all’Argentina, dalla Bolivia al Cile, lungo i canali della cocaina si è creata una voragine nella quale (provare a) inserirsi. Sicché le estradizioni di Mateo Gjepali o Julian Mandija, di Kristo Mahmutaj o Arber Kojko, appunto tutti albanesi e trafficanti, sono un marchio netto: segnano uno spartiacque anche per innegabile merito del Governo albanese.

La mamma uccisa

Prevedibile obiezione: tante grazie, Tirana ambisce all’ingresso nell’Unione europea e quindi… Però nella vita contano i fatti, e spostando la geografia – ma il concetto non cambia –, ecco che non era per nulla prevedibile che gli Emirati Arabi, uno dei classici Paesi inseriti nella «black list» e meta d’una apposita missione della ministra Cartabia, consegnassero il potente narcos Raffaele Imperiale, camorrista dotato di ramificate reti nell’Olanda dei quintali di cocaina, e insieme aderissero a un percorso comune con l’Italia firmando appositi e inediti accordi bilaterali. Relazioni migliorate anche con la Tunisia dove si era rifugiato, sicuro d’incontrare protezione assoluta al di là di eventuali sentenze dei giudici e incarcerazioni, Mootaz Chaambi, il quale a Palazzolo, in provincia di Brescia, aveva massacrato la moglie Daniela, mamma di due bimbi: 39 coltellate inferte senza la minima esitazione. La riuscita dell’operazione-Chaambi era fino a poco tempo fa insperabile. Del resto nell’analisi delle estradizioni avvenute, vanno inserite numerose variabili relative alle differenze di leggi, popoli, abitudini, e anche degli orgogli patriottici, della valenza che certe azioni con lo straniero hanno in termini di propaganda e riconoscibilità degli elettori, del circoscritto periodo nel quale avviene la trattativa bilaterale e anche con quale partner specifico.

Falcone e Borsellino

Fin dai tempi dei brigatisti sanguinari e codardi che laggiù scapparono vivendo di sole e d’ozio, il Sudamerica si conferma terra ricettiva per i criminali. Anche qualora la situazione degeneri: le debolezze strutturali delle carceri, l’estesa corruzione e il rischio perenne di fughe di massa a causa di sollevazioni popolari e colpi di Stato, sono le condizioni per le quali a lungo Morabito ha cercato di rimanere in Brasile evitando di salire sul Falcon verso l’Italia, aeroporto di Ciampino. Ma come il pregiudizio è l’errore massimo che un investigatore può compiere, così nella diplomazia internazionale contano i momenti e i loro interpreti, non il prima né il dopo, non le sicurezze apriori e le sottovalutazioni. Rappresenta un innegabile elemento qualitativo, pur se dettata dall’emergenza, la richiesta avanzata dal Paraguay di un aiuto italiano per aggiornare la Costituzione – sì, addirittura la Costituzione – dopo l’omicidio del pubblico ministero Marcelo Pecci, 45enne che ricorda drammaticamente, troppo drammaticamente, i magistrati dei quali in Colombia Pablo Escobar ordinava la morte ottenendola in poche ore. Per tacere di noi, delle nostre vittime delle mafie. Il programma «Falcone-Borsellino» è una misura di diplomazia giuridica – forse la definizione che inquadra anche la filosofia e l’operato del ministro Cartabia – per aiutare nazioni sudamericane e caraibiche ad aggrapparsi alla legge e alla tenacia degli uomini e le donne di legge. Consentendo l’aggiornamento dell’elenco degli estradati, che di caso in caso, in settimana in settimana, ha finora inglobato Walter Morici (dall’Ucraina, per truffa), Graciela Cendy Rodriguez Gonzalez (Uruguay, droga), Amancio Melgarejo (Perù, associazione a delinquere), Silvio Galizia (Capo Verde, violenza sessuale su minore), Veaceslav Banu (Russia, estorsione)… Ogni sei giorni, in media, un ex latitante arrestato all’estero viene riportato in Italia. Nell’elenco, mancano gli ultimi brigatisti trincerati in Francia: alla lunga, con questo ritmo, toccherà inesorabilmente anche a loro.

·        Il 41 bis ed il 4 bis.

L'anomala condotta della Corte. Ergastolo ostativo tra sviste e omissioni: lo strano caso della Corte Costituzionale. Salvatore Curreri su Il Riformista il 13 Novembre 2022.

Per quanto prevedibile e prevista, l’ordinanza – anticipata con comunicato stampa – con cui la Corte costituzionale ha deciso di non decidere sul cosiddetto ergastolo ostativo, rinviando gli atti alla Cassazione penale che aveva sollevato la questione d’incostituzionalità, desta talune perplessità sotto il profilo giuridico e, soprattutto, lascia l’amaro in bocca a chi ancora riesce a scorgere dietro l’apparente astrattezza delle questioni giuridiche la vita di persone che oggi subiscono un trattamento penitenziario illegittimo epperò ancora una volta prorogato.

Illegittimo perché così la Corte costituzionale (ordinanza n. 97/2021), e ancora prima la Corte europea dei diritti dell’uomo (13.6.2019 Viola c. Italia n. 2 confermata dalla Grande Camera, 8.10.2019), ha giudicato il divieto assoluto per i condannati all’ergastolo per reati di particolare allarme sociale (tra cui mafia e terrorismo) che non hanno collaborato con la giustizia di potere accedere dopo ventisei anni di pena alla libertà condizionale, al pari degli altri condannati. Il “fine pena mai” per costoro costituisce, infatti, un trattamento inumano e degradante in contrasto con la finalità rieducativa della pena. Non perché si voglia sminuire o rendere irrilevante il significato della collaborazione (in questo – e solo in questo – può giustificarsi il richiamo alla memoria di Giovanni Falcone) ma perché è irragionevole ritenere questa l’unica condizione per accedere ai benefici penitenziari, escludendo coloro che – ripetiamo: dopo ventisei anni – hanno dato piena prova di essersi allontanati dal sodalizio mafioso e di fattiva partecipazione al percorso rieducativo.

Se, infatti il legislatore può legittimamente premiare chi collabora con la giustizia, di contro non può sanzionare chi non lo fa, presumendo in modo assoluto e senza prova contraria che la scelta di non collaborare implichi la perdurante collaborazione con l’organizzazione criminale d’appartenenza. Come la scelta di collaborare con la giustizia non implica di per sé “un vero pentimento” e la “decisione di tagliare ogni legame con le associazioni per delinquere”, potendo essere dettata da ragioni utilitaristiche di convenienza, così la scelta di non collaborare non equivale ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale, per assenza di ravvedimento o persistenza di contatti con le organizzazioni criminali, ma può essere dettata da ragioni diverse che rendono tale rifiuto non libero (ad esempio, per l’integrale accertamento dei fatti, la limitata partecipazione al reato o il timore di ritorsioni contro i propri cari). Occorre dunque distinguere tra chi oggettivamente può, ma per scelta soggettiva non vuole collaborare (Cass., I pen. 41329/2022) e chi soggettivamente vuole ma oggettivamente suo malgrado non può collaborare (Cass., V pen. 36887/2020) perché come ci si può ravvedere anche senza collaborare, così si può tacere senza per questo essere omertosi.

Sulla base di queste premesse, la Corte costituzionale l’anno scorso ritenne in contrasto con la finalità rieducativa della pena non l’ergastolo ostativo in sé ma l’automatica esclusione dalla libertà condizionale degli ergastolani non collaboranti. Trattandosi però di una condizione di estinzione della pena, e non di sua semplice sospensione (come nel caso dell’esclusione di costoro dai permessi premio, dichiarata incostituzionale: sentenza n. 253/2019), la Corte allora decise – per esigenze di collaborazione istituzionale – di rimettere al legislatore il compito di ridefinire la materia dapprima entro il 15 maggio 2022 (ordinanza n. 97 dell’11 maggio 2021) e poi entro l’8 novembre 2022 (ord. 122/2022), concedendo inusualmente un’ulteriore proroga in considerazione del testo legislativo approvato dalla Camera lo scorso 31 marzo.

Nonostante i 18 mesi trascorsi, le Camere, come al solito, non sono riuscite ad approvare la riforma per cui, in vista della predetta scadenza, è dovuto intervenire il Governo con il decreto legge n. 162/2022 approvato lo scorso 31 ottobre che riprende in massima (ma non totale) parte il testo approvato dalla Camera il 31 maggio 2022 con il consenso di Pd, M5s, Forza Italia e Lega. In realtà il vero obiettivo di Fratelli d’Italia è modificare l’art. 27 della Costituzione per abrogare di fatto la finalità rieducativa della pena e vietare agli ergastolani ogni beneficio penitenziario. Ma poiché, come candidamente ammesso dalla presidente del Consiglio, tale obiettivo è al momento impossibile, si è preferito riproporre il testo approvato dalla Camera. Com’è stato scritto su queste colonne, con chiarezza d’argomenti e vis comunicativa, dal collega Pugiotto, si tratta di un testo che solo apparentemente accoglie quel bilanciamento auspicato dalla Corte tra i diritti dell’ergastolano e le esigenze di contrasto del fenomeno mafioso.

In realtà, esso introduce tutta una serie di condizioni e di limiti che rendono di fatto impraticabile l’accesso alla libertà condizionale agli ergastolani non collaboranti: si aumentano i reati ostativi, includendo i principali contro la pubblica amministrazione nonché i casi di pene concorrenti inflitte per delitti diversi se commessi per lo stesso fine (ecco il peggioramento rispetto al testo approvato dalla Camera); si aumentano, rispetto agli ergastolani collaboranti gli anni di carcere (da 26 a 30) da scontare prima di poter chiedere l’accesso alla libertà condizionata, il cui periodo viene a sua volta prolungato da 5 a 10 anni; si obbliga il richiedente a provare l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata non solo attuali ma futuri (una vera e propria probatio diabolica); si abrogano i casi, oggi previsti, di collaborazione impossibile (perché fatti e relative responsabilità erano stati integralmente accertati) oppure inesigibile perché oggettivamente marginale e irrilevante.

Di fronte ad un decreto legge che formalmente dà seguito alla sentenza della Corte ma ne rinnega di fatto le indicazioni, potevano i giudici costituzionali decidere altrimenti? Per quanto sia ormai inutile chiederselo (e non solo perché la decisione è stata già presa…), ci sono tre elementi critici da evidenziare. In primo luogo, sotto un profilo strettamente giuridico la Corte ha rinviato la questione sulla base di disposizioni contenute in un decreto legge in fase di conversione e che quindi può essere modificato o, per quanto sia politicamente improbabile, addirittura respinto. Prudenza avrebbe voluto quindi che la Corte avesse ulteriormente rinviato la questione di qualche settimana, così da avere certezza dell’approvazione del provvedimento. Evidentemente, invece, la Corte ritiene certa la conversione del decreto legge. Ma questa è una previsione politica, che un giudice che si basa sul diritto vigente (in questo caso provvisorio) non dovrebbe consentirsi.

In secondo luogo, la Corte si è trovata per la prima a giudicare su un decreto legge in fase di conversione il cui contenuto è manifestamente eterogeneo perché contiene misure urgenti, oltreché sull’ergastolo ostativo, anche per il rinvio della riforma del processo penale, di contrasto dei cosiddetti rave party e di riammissione di medici e infermieri no-vax. Insomma siamo dinanzi a uno di quei decreti legge omnibus che la Corte ha diverse volte giudicato incostituzionali a causa di disposizioni presenti nel testo del tutto estranee o incoerenti rispetto al suo oggetto, contenuto, finalità o ratio dominante. La Corte ha affrontato tale profilo d’incostituzionalità o l’ha volutamente omesso ai fini del proprio giudizio?

Infine, in terzo luogo, la Corte dovrebbe prendere finalmente atto che, per quanto ispirate al principio di leale collaborazione, le proprie sentenze monito e da ultimo, le ordinanze con cui, anziché – come dovrebbe per Costituzione – dichiarare incostituzionale una disposizione, fissa un termine entro cui il legislatore deve rimediare, continuano a non trovare seguito. Così è stato per la pena carceraria (ai giornalisti) in caso di diffamazione (132/2020-150/2021), per l’aiuto al suicidio (207/2018-242/2019) ed ora per la revisione dell’ergastolo ostativo. Evidentemente una fiducia mal riposta nelle capacità decisionali del legislatore, il quale, ciò nonostante, gode ora di un’ulteriore apertura di credito ai fini non tanto della approvazione della nuova normativa quanto dell’effettivo recepimento delle indicazioni della Corte.

Si obietterà: verrà comunque il giorno in cui la Corte avrà modo di pronunciarsi sulla nuova normativa e, se del caso, dichiararla illegittima. A parte che ciò significa implicitamente ammettere l’inutilità di tale rinvio, dato che sicuramente di fronte a un peggioramento della normativa, la Cassazione non potrà che ribadire l’eccezione d’incostituzionalità a suo tempo sollevata, peccato che in questa vicenda il fattore tempo non è irrilevante perché, come detto all’inizio, ci sono ergastolani, a cominciare da chi ha sollevato la questione di costituzionalità, che stanno patendo uno stato detentivo che la stessa Corte ha già riconosciuto illegittimo. Forse è da qui che si dovrebbe partire, dalla storia di Domenico Papalia in carcere da 44 anni, per contrastare la narrazione degli ergastolani che devono marcire in carcere. Perché, come scrisse Foster Wallace, noi crediamo di sapere tutto sui diritti umani e sulla dignità umana e quanto sia terribile privare qualcuno della propria umanità ma solo se succede a qualcuno che conosci, allora sì che lo sai per davvero. Salvatore Curreri

Ergastolo ostativo, la Consulta se ne lava le mani: atti in Cassazione.

La Corte Costituzionale decide ancora di non decidere. Sarà la Cassazione a valutare il decreto Meloni: «Le nuove disposizioni incidono direttamente sulle norme oggetto di giudizio». Valentina Stella su Il Dubbio l’8 novembre 2022.

Chissà cosa avranno pensato gli ergastolani ostativi quando per l’ennesima volta hanno visto la Corte costituzionale non prendere una decisione di merito sul fine pena mai. Forse il loro pensiero non è mai entrato in gioco in questa partita, tranne che per il consigliere di Cassazione Giuseppe Santalucia, che sollevò ormai anni fa il dubbio di legittimità costituzionale, dicendo che il diritto alla speranza non andrebbe negato a nessuno. E incredibilmente ora la palla torna proprio a lui, perché la Consulta ha deciso di restituire gli atti a Piazza Cavour.

«Dopo due rinvii disposti per concedere al legislatore il tempo necessario al fine di intervenire sulla materia (ordinanze n. 97 del 2021 e n. 122 del 2022), la Corte costituzionale ha nuovamente esaminato oggi (ieri, per chi legge, ndr), in camera di consiglio, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di Cassazione, sulla disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo. Oggetto di scrutinio sono le disposizioni che non consentono al condannato all’ergastolo per delitti di contesto mafioso, che non abbia utilmente collaborato con la giustizia, di essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale, pur dopo aver scontato la quota di pena prevista e pur risultando elementi sintomatici del suo ravvedimento».

In attesa del deposito dell’ordinanza, la Consulta ha fatto sapere di aver «deciso di restituire gli atti al giudice a quo, a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, che contiene, fra l’altro, misure urgenti nella materia in esame». Il motivo? «Le nuove disposizioni – si legge in una nota della Corte – incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia. Costoro sono ora ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo». Pertanto gli atti vengono «restituiti alla Cassazione, cui spetta verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza».

Qual è lo scenario futuro? Tra due o tre mesi la Cassazione potrà esprimersi. In quel momento il decreto legge sarà stato convertito dal Parlamento e quindi Santalucia potrà esprimersi direttamente su quella legge definitiva. Lì ci sarà un bivio: per l’ermellino la legge di conversione, pur ponendo paletti stringenti, permette in teoria all’ergastolano ostativo non collaborante di poter richiedere l’accesso alla liberazione condizionale. Oppure il giudice risolleva il dubbio dinanzi alla Corte costituzionale che ne valuterà la conformità a Costituzione.

Ergastolo ostativo, la Consulta non decide. Ecco le reazioni

L’avvocato Giovanna Araniti, legale di Salvatore Pezzino, in carcere dal 1984 e dal cui ricorso tutto è iniziato, così commenta: «Prendo atto della decisione della Consulta e mi auguro che la Corte di Cassazione valuti oculatamente, come ha già fatto, la nuova normativa e risollevi la questione dinanzi ai giudici costituzionali». Per l’avvocato Michele Passione, assiduo frequentatore della Consulta, «in attesa di leggere l’ordinanza, dispiace che la Corte abbia deciso di restituire gli atti al giudice a quo e non attendere la conversione in legge del decreto del Governo. Sarebbe stata una decisione non soddisfacente rispetto alle richieste della parte privata ma certamente avrebbe evitato il gioco dell’oca che questa soluzione comporta. Vedremo cosa succederà, intanto tutti gli ergastolani che attendevano una risposta chiara ricominciano ora con una attesa infinita verso una nuova decisione».

Dunque la Corte ha accolto la richiesta dell’Avvocatura dello Stato rappresentata da Ettore Figliolia: «Credo che il legislatore governativo sia stato pedissequo con quanto richiesto dall’ordinanza della Consulta» con la sua ordinanza del 2021, aveva detto ieri mattina. Pertanto il nuovo decreto legge, secondo il legale, è da ritenersi «legittimo». Secondo l’Avvocatura dello Stato c’erano dunque i presupposti per la remissione degli atti del procedimento alla Corte di Cassazione, che aveva sollevato la questione davanti alla Consulta. Quest’ultima ha accolto questa richiesta, senza però entrare formalmente nel merito del decreto legge.

Si era espressa diversamente Araniti, che aveva chiesto alla Corte di dichiarare incostituzionale il decreto legge del Governo Meloni perché vigente. Esso rappresenta, aveva detto, la «morte del diritto alla speranza, spero invece che la Corte emetta una sentenza di illegittimità costituzionale che rappresenti il germoglio di un nuovo umanesimo. Il principio della riabilitazione della pena deve valere per tutti». Aveva proseguito: «Ci troviamo dopo 18 mesi senza una legge approvata dal Parlamento ma con un decreto, proposto alle Camere come antidoto». Ma quel decreto, a parere della legale, non ha «i presupposti per la decretazione d’urgenza».

Sulla decisione della Consulta i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti hanno dichiarato: «Una scelta pilatesca quella della Corte costituzionale, che aveva a suo tempo accertato la incostituzionalità dell’articolo 4bis ma non l’ha mai dichiarata. Sicuramente la Corte se ne è lavata le mani. Ci chiediamo dove sia finita la sua alta funzione, che è quella di valutare le leggi. La Corte ha fatto il passacarte: prima al Parlamento con ben due rinvii – il primo di un anno e il secondo, particolarmente grave, di altri sei mesi – e poi alla Cassazione a cui ha, come ha chiesto il Governo, restituito gli atti per una valutazione del decreto».

L'udienza della Corte Costituzionale. Così la destra ha salvato l’ergastolo (e la Consulta). Andrea Pugiotto su Il Riformista l’8 Novembre 2022

1. Il lapsus mente raramente. La dice lunga, quindi, quel «carcere ostativo» (invece di «ergastolo ostativo») pronunciato alla Camera dalla presidente Meloni in replica al dibattito sulla fiducia al governo. Traducibile nell’hastag #iorestoincarcere, svela l’intima adesione a una teologia della dannazione perenne («fine pena mai», «deve marcire in galera», «buttare via la chiave») che è l’esatto contrario del riscatto rieducativo iscritto in Costituzione. Non a caso, è stata già depositata da Fratelli d’Italia la proposta di legge costituzionale per la modifica dell’art. 27 Cost. (AC 116). Leggetela. Vi si afferma «la netta volontà di subordinare e limitare la finalità rieducativa della pena» a favore delle esigenze di difesa sociale, così da sdoganare «la possibilità, per il giudice, di irrogare pene esemplari».

È in questo orizzonte che si inserisce il decreto legge n. 162, in vigore dal 31 ottobre, contenente «misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari» in assenza di condotte collaboranti. Diverso era il titolo del testo unificato, approvato alla Camera nella scorsa legislatura e ora travasato nel provvedimento del governo: «Disposizioni in materia di accesso ai benefici penitenziari» per i non collaboranti (AS 2574). «Accesso», non «divieto». Torno a dire: il lapsus mente raramente.

2. Sbobiniamo quanto è accaduto. L’ergastolo ostativo è certamente illegittimo, laddove individua nel collaborare con la giustizia l’unica via possibile per accedere alla liberazione condizionale. Nell’accertarlo, la Consulta ha sollecitato il Parlamento a ridisciplinare l’istituto in conformità alla Costituzione, concedendogli un tempo congruo per farlo. Nella scorsa legislatura la Camera aveva approvato una riforma, il cui iter legislativo non si è concluso in Senato «solo a causa dello scioglimento [anticipato] delle camere». Nel frattempo incombeva la data odierna dell’8 novembre, fissata dalla Consulta per adottare la propria decisione in assenza di un intervento legislativo. Ecco perché solo un provvedimento del Governo, di cui «è indubbia la ricorrenza dei presupposti di necessità e urgenza», poteva consentire di adempiere in tempo ai moniti della Corte costituzionale.

Questa è la narrazione accreditata nella relazione illustrativa e nel preambolo del decreto legge. Evidentemente persuasiva per il Quirinale, che lo ha firmato senza rilievi di sorta, nemmeno nella forma soft dell’emanazione con dissenso (secondo una prassi introdotta dal suo predecessore, Giorgio Napolitano). Eppure i decreti legge si giustificano solo a fronte di «casi straordinari» (art. 77, comma 2, Cost.), cioè imprevedibili, e tale non può certo considerarsi un’udienza iniziata 18 mesi fa e calendarizzata da tempo. A Palazzo della Consulta ne saranno certamente sollevati. Lo jus superveniens giustificherà la restituzione degli atti al giudice che aveva eccepito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo (la Cassazione, sez. I penale): ad esso spetterà verificare la rilevanza processuale della nuova disciplina e le sue eventuali criticità costituzionali, anche alla luce delle possibili modifiche inserite in sede di conversione. Se e quando verrà riproposta la quaestio, solo allora la Consulta giudicherà la conformità a Costituzione delle norme effettivamente introdotte dal legislatore. Oggi, i giudici costituzionali potranno cavarsela con una nuova ordinanza interlocutoria, dopo le due precedenti con le quali ogni decisione era stata rinviata allo scopo di rimettere in termini il Parlamento. Messe in fila, esse rivelano un qualche timoroso imbarazzo nel rispondere a un’ovvia domanda: quando dichiarerete l’incostituzionalità di un regime che pure ritenete incostituzionale? «Non ora» (ord. n. 97/2021); «non ancora» (ord. n. 211/2022), «chissà» (ordinanza odierna).

Alle camere è certa la conversione del decreto legge, ricalcante un testo approvato quasi all’unanimità nella scorsa legislatura. Nessun gruppo parlamentare potrà credibilmente sottrarsi al mantra, ripetuto come un atto di fede, secondo cui l’ergastolo fino alla morte è uno strumento irrinunciabile nel contrasto alle mafie: in ciò, davvero, l’unione fa la forca (e questo non è un lapsus). Fratelli d’Italia, all’epoca contrari alla riforma perché scaturita da «gargarismi garantistici» (così l’on. Delmastro Delle Vedove, oggi neo-sottosegretario alla Giustizia), potranno sempre tentare di emendarla in peius, innestando altre norme nella già sadica articolazione numerica del nuovo art. 4-bis ord. penit., con i suoi commi 1-bis, 1-bis.1, 1-bis.2. Le norme bis sono, da sempre, la maschera di obbrobri giuridici.

3. Dunque, l’ergastolo ostativo è stato riformato. Eppure la premier rivendica, «fiera», di averlo conservato. La contraddizione si scioglie nel gioco tra apparenza e sostanza normativa.

Il decreto legge, infatti, ammette la possibilità anche per gli ergastolani non collaboranti di dimostrare l’assenza di legami con il crimine organizzato, ai fini dell’ammissione alla liberazione condizionale. In tal modo, l’originario manicheismo secondo cui «o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi» viene meno, e con esso ogni illegittimo automatismo legislativo. È stato così rimosso il cellophane della presunzione assoluta che avvolgeva l’ergastolo ostativo, ora imballato con una presunzione relativa, suscettibile di prova contraria, valutata dal giudice caso per caso. Tanto basta per dire – come ha fatto il distratto Guardasigilli – che le criticità costituzionali segnalate dalla Consulta sono state superate. Ciò è vero, ma solo formalmente. In realtà, il contenuto del decreto legge configura una stretta alla concessione di qualsiasi beneficio penitenziario, tale da renderla concretamente irrealistica. Vale specialmente per la liberazione condizionale, modificata anche nella sua disciplina sostanziale. Così però l’ergastolo ostativo, intollerabile a parole, risulta tollerabilissimo nella realtà. È superato de jure, ma non de facto.

4. Un primo giro di vite è nell’incremento dei reati ostativi. L’ostica formula tecnica che apre il decreto legge (il divieto di sciogliere il cumulo di pene concorrenti, in caso di accertata connessione teleologica tra reati) produrrà l’effetto di trascinare nel regime penitenziario ostativo delitti altrimenti comuni. Prosegue così la malsana abitudine di ampliare la già lunga blacklist dell’art. 4-bis. L’effettività rinnegante della nuova normativa emerge, poi, nell’abnorme facondia di condizioni da soddisfare per accedere a qualsiasi misura extramuraria. Non sono sufficienti, infatti, le risultanze positive del percorso trattamentale. Né gli ulteriori elementi che comunque il giudice dovrà considerare: dalle circostanze personali e ambientali alle ragioni dedotte a sostegno della mancata collaborazione, dalla revisione critica della propria condotta criminosa alle iniziative a favore delle vittime, fino a ogni altra informazione disponibile. Serve altro. È necessario dimostrare l’adempimento delle obbligazioni civili conseguenti alla condanna (o «l’assoluta impossibilità» di adempiervi).

È necessario dimostrare l’assenza di collegamenti attuali, «anche indiretti o tramite terzi», con la criminalità organizzata e con «il contesto» (?) nel quale il reato è stato commesso. È necessario allegare elementi specifici che escludano il pericolo di un futuro «ripristino» di tali collegamenti (autentica probatio diabolica). Contestualmente, vanno disposti accertamenti patrimoniali nei confronti del reo e del suo nucleo familiare. Siamo di fronte a un perenne “non basta”, introdotto intenzionalmente per rendere difficili cose complicate attraverso richieste impossibili, tanto più se rivolte a ergastolani ristretti in carcere da decenni. Che il decreto legge sia orientato a ostacolare il loro diritto alla speranza emerge anche dalla nuova configurazione della liberazione condizionale. La sua concessione slitta sempre più nel futuro, con l’estensione a 30 anni (contro i 26 attuali) del termine per accedervi e a 10 anni (contro i 5 attuali) della durata della successiva libertà vigilata. È peggio che prima della legge Gozzini. Così, per l’ergastolano non collaborante, il tempo della detenzione si dilata fino a togliere il respiro, obbligandolo ad un’apnea esistenziale prossima a renderlo postumo in vita.

E ancora. Il decreto legge abroga i casi di collaborazione impossibile o irrilevante, assorbiti nella più generica ipotesi di «assenza di collaborazione con la giustizia» all’interno della kafkiana procedura di accesso ai benefici penitenziari già descritta. Viene così sbarrato il solo ponte verso misure extramurarie fino ad oggi transitabile da tutti i condannati per reati ostativi, ergastolani compresi, quando veniva accertata una loro inesigibile collaborazione. Scelta doppiamente irragionevole. Perché non si può chiedere di fare ciò che è impossibile fare, come accade se la collaborazione non è «naturalisticamente e giuridicamente» esigibile (sent. n. 89/1989). Perché non sono assimilabili le posizioni di chi è silente “per scelta” e di chi lo è “suo malgrado” (avendo poco o nulla da riferire per la limitata partecipazione al reato o per l’integrale accertamento di fatti e responsabilità o perché vittima di errore giudiziario): lo ha ribadito la Consulta con una recente sentenza (n. 20/2022) che il provvedimento governativo ignora o finge di ignorare. Questa, nell’essenziale, è la pista da cui dovrebbe decollare, verso il rientro in società, l’ergastolano ostativo che abbia dato prova di «sicuro ravvedimento» (art. 176 c.p.). Cadrà nel vuoto, come un aeroplanino di carta.

5. Alla fine – come denuncia, non a torto, l’UCPI – l’operazione gattopardesca messa in piedi si rivela un «espediente solo formale» per accreditare l’attuazione dei moniti della Consulta, in realtà aggirati con «un vero e proprio atto di ribellione» normativa. Vedremo, oggi, se e come la Corte costituzionale troverà il modo di replicare. Andrea Pugiotto

Anche Woodcock stronca l’ostativo: «È una tortura. Si pretende la delazione». Il pm napoletano scrive a Travaglio. E punta il dito contro chi tira in ballo a sproposito Falcone: «Culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita di leggere sui giornali». Simona Musco Il Dubbio il 9 novembre 2022.

Ergastolo ostativo uguale tortura. A ribadirlo, in una lettera inviata al Fatto Quotidiano, è il magistrato napoletano Henry John Woodcock, che smonta la bufala del “fuori tutti i mafiosi” che ha tenuto banco nella discussione sull’articolo 4 bis dopo la pronuncia della Corte costituzionale di oltre un anno fa. Una bufala che si basa su alcune convinzioni: che la collaborazione con la giustizia sia l’unica prova di una recisione dei legami con il contesto criminale d’appartenenza da parte di detenuti che hanno passato in carcere 26 anni della loro vita (termine che sale a 30 anni con il decreto legge licenziato dal governo Meloni) e che pensare una disciplina diversa, rispettosa della Costituzione, equivalga a infangare la memoria di Giovanni Falcone, tirato in ballo ogni volta che c’è da affrontare l’argomento per far sentire dalla parte sbagliata chi solleva qualche dubbio.

Woodcock – che di certo non può essere accusato di essere “amico dei mafiosi”, come spesso viene tacciato chi osa criticare l’ergastolo ostativo – mette in fila gli argomenti criticando anche la pronuncia della Consulta. Non solo per la decisione di rinviare al legislatore la scelta su come adeguarsi alla cornice costituzionale violata da tale norma, ma anche per il suggerimento fornito allo stesso, che, di fatto, rende quasi impossibile poter ottenere i benefici previsti dalla legge. Il punto di partenza è che la collaborazione con la giustizia, lungi dall’essere un percorso di vera rivisitazione critica delle proprie scelte, finisce con il diventare un’opzione, una scelta di comodo, insomma, per dirla con Woodcock, una «”scelta” imposta». Una volta scardinato l’automatismo che prevedeva la concessione di benefici solo in caso di collaborazione e ribadito «il fondamentale principio della polifunzionalità della pena e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa», la Corte costituzionale ha “suggerito” al legislatore delle opzioni, tra le quali ancorare l’autorizzazione all’accesso ai benefici all’accertamento di «specifiche ragioni della mancata collaborazione».

Ed è qui che il magistrato napoletano cita Falcone, tentando di smentire chi attribuisce a lui quell’automatismo e quella inflessibilità bocciati dalla Corte: «Invero – afferma – ho solo avuto, per ragioni anagrafiche, la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e “moderno”, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali». L’idea di fondo, stando alla discussione interna alla politica e parte dell’opinione pubblica, è infatti che la pronuncia della Consulta renda meno efficace il contrasto alle mafie, tradendo, in qualche modo, l’insegnamento di chi, come il magistrato siciliano, ha pagato con la propria vita la lotta alla criminalità organizzata.

Ma fu proprio Falcone – come più volte ricordato da Damiano Aliprandi dalle colonne di questo giornale – il primo ad essere consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale: con il primo decreto legge del 13 maggio 1991, il numero 152, Falcone, all’epoca direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, non aveva infatti escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, bensì aveva allungato i termini per ottenerla. E fu solo dopo la sua morte, dunque, che venne introdotto quell’automatismo oggi considerato incostituzionale dal giudice della legge. Un discorso che Woodcock, contrariamente ad altri, sembra ricordare bene, nonostante la “durezza” sempre dimostrata dalla toga – spesso criticata anche da questo quotidiano – nella gestione delle sue inchieste.

Ma il pm napoletano va oltre, parlando non di collaborazione, bensì di «delazione»: l’ergastolo ostativo, afferma, in realtà «vuole punire chi non “si pente”» o, peggio ancora, rappresenta «una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione” e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato, e di conseguenza a un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità della tortura». Pensare che la discussione possa esaurirsi attorno alla conta dei mafiosi che possono uscire dal carcere è una visione semplicistica, secondo Woodcock, in quanto la vera questione è stabilire se la collaborazione sia l’unico modo per accedere ai benefici, in tal modo stabilendo «una coincidenza esclusiva e una assoluta sovrapponibilità tra il percorso “rieducativo” cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione e la delazione». Un binomio «aberrante» e in contrasto con la Carta, «che va applicata sempre e comunque e non una volta sì e una volta no», ricorda ai teorici della “Costituzione più bella del mondo” a giorni alterni.

Cosa valorizzare, dunque, per superare il contrasto? La risposta del magistrato è semplice: il tempo trascorso in espiazione della pena. «Il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa – sottolinea -; in oltre un quarto di secolo tutto cambia (o comunque non può a priori escludersi che tutto cambi), dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali». Certo, al tempo che passa occorre che si associ anche un percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dal contesto criminale di origine, «ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di un autentico ravvedimento». Basti pensare, su tutti, al caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, che ha fatto arrestare e condannare molti innocenti, accusati di aver eseguito la strage di via D’Amelio. Ma l’idea di Woodcock non piace a Marco Travaglio, la cui replica è piccatissima: «Solo i criminali chiamano “delazione” il dire la verità». Sempre che di verità si tratti.

Ergastolo ostativo, i docenti di diritto: «Il decreto peggiora le cose». Oggi la pronuncia della Consulta, che potrebbe rinviare ancora la propria decisione, in attesa della conversione in legge del provvedimento governativo.  Valentina Stella su Il Dubbio il 9 novembre 2022.

Oggi la Corte costituzionale si riunirà nuovamente per discutere di ergastolo ostativo. Lo farà a otto giorni dal varo di un decreto legge con cui il governo Meloni ha affrontato pure questa materia. Da quanto appreso, l’Avvocatura dello Stato non ha presentato memorie, ma ha allegato agli atti il testo del decreto con una nota di Palazzo Chigi in cui si lascia intendere che il provvedimento si sarebbe adeguato alle indicazioni della Consulta.

Secondo il professor Marco Pelissero, presidente dell’Associazione italiana di professori di Diritto penale, «la soluzione più lineare è quella secondo cui la Corte domani (oggi per chi legge, ndr) rinvii per la terza volta, in attesa che il Dl venga convertito. È vero che al momento è vigente, ma il testo potrebbe essere emendato dal Parlamento». Quindi, in un contesto connotato da assenza di procedura specifica, lo scenario che ipotizza l’ordinario di Diritto penale all’Università di Torino è che «la Corte si aggiorni in modo da riunirsi di nuovo al termine dei 60 giorni previsti per la conversione, quindi probabilmente a inizio gennaio. A quel punto, se la riterrà contrastante con i principi in precedenza affermati, potrebbe dichiarare incostituzionale la nuova disciplina, sulla quale il giudizio di legittimità costituzionale si trasferirebbe; oppure, qualora ritenesse la nuova disciplina rispettosa dei principi a suo tempo fissati, dovrebbe rinviare gli atti al giudice rimettente, ossia la Cassazione, affinché applichi la nuova disciplina al caso concreto».

E se il decreto- legge non fosse convertito in legge dal Parlamento? «Ritengo questa ipotesi molto improbabile considerata la maggioranza che sostiene questo Governo. Comunque qualora non dovesse essere convertito, la Consulta sarebbe chiamata a pronunciarsi sulla disciplina originaria ( ossia quella vigente prima dell’entrata in vigore del decreto- legge) della quale aveva già evidenziato i profili di illegittimità costituzionale, dichiarandone definitivamente l’incostituzionalità, nei termini che la Corte indicherà».

Intanto il Consiglio direttivo dell’Associazione presieduta da Pelissero ha pubblicato un durissimo documento contro il decreto legge del 31 ottobre su norma anti rave, rinvio della riforma Cartabia ed ergastolo ostativo, appunto. Su quest’ultimo punto i giuristi ritengono che «una serie di profili critici» «inaspriscono la disciplina dei c. d. reati ostativi in termini che vanno ben al di là delle indicazioni che erano state date dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97/ 2021».

In particolare, «da parte dei detenuti o internati per uno dei reati ostativi, l’oggetto dell’allegazione si traduce in una sorta di probatio diabolica, in quanto diventa difficile, se non impossibile, addurre “elementi specifici” “che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”».

A questo si aggiunge il fatto che «non convince il passaggio da ventisei a trent’anni di pena scontata affinché i condannati alla pena dell’ergastolo possano accedere alla liberazione condizionale: il legislatore fa un passo indietro» «anche rispetto all’originaria disciplina, introdotta con l. 25 novembre 1962, n. 1634, che aveva stabilito che l’ergastolano potesse essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventotto anni di pena». Inoltre «la nuova disciplina accentua, in termini manifestamente irragionevoli, la disparità di trattamento tra detenuto collaborante e non collaborante» ; «appare altresì irragionevole l’estensione da cinque a dieci anni della durata della libertà vigilata» ; «risulta parimenti ingiustificata l’estensione del novero dei reati ostativi al di là dei fatti di criminalità organizzata, comune e terroristica».

Insomma una stroncatura netta da parte degli esperti. Che non ci vanno leggeri, anzi, neanche in merito alla norma anti- rave: per i professori di diritto penale la nuova fattispecie di reato «appare frutto di una tecnica legislativa davvero approssimativa e lacunosa, e si distingue per indecifrabilità del tipo criminoso e incontrollabilità della sfera di applicazione». Infatti «rimane imprecisato come e quando si realizzi un pericolo per l’ordine pubblico, per l’incolumità pubblica o per la salute pubblica, referenti di valore che risultano intrinsecamente affetti da irrimediabile vaghezza se non vengono tipizzate le modalità di offesa».

Per i giuristi «non si può fare, inoltre, a meno di rilevare come la previsione – quale massimo edittale della pena – della reclusione fino a sei anni comporti il fatto che, durante la vigenza del decreto- legge, possano prodursi effetti limitativi e restrittivi di diritti e libertà individuali che non sono circoscritti alla sola possibilità di effettuare intercettazioni. E la conseguenza di un evidente difetto di proporzionalità e ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, cui si aggiunge l’ingiustificata previsione dell’obbligatorietà della confisca delle cose indicate nel comma 4».

Ma forse l’aspetto più grave e non abbastanza evidenziato nel dibattito pubblico è l’ «incongruo inserimento di questa fattispecie tra le ipotesi di pericolosità specifica di cui al codice antimafia, legittimando in tal modo persino l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali. In definitiva, la fattispecie di cui all’art. 434 bis c. p. pone seri dubbi di legittimità costituzionale e convenzionale, sotto i diversi profili della determinatezza, della proporzionalità rispetto al diritto di riunione, e della ragionevolezza/ proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio».

Infine, per quanto concerne il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che tra l’altro prevede la riforma di diverse disposizioni del codice di procedura penale, l’Associazione esprime preoccupazione per il rinvio in blocco dell’entrata in vigore del decreto legislativo 150/ 2022, in quanto sono state coinvolte «anche le parti sulla riforma del sistema sanzionatorio penale che, non oggetto di peculiari criticità rilevate dalla dottrina e dalla prassi, avrebbe ben potuto entrare in vigore».

La polemica. La guerra dei Pm contro l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 26 Gennaio 2022. 

I vertici della magistratura italiana sono in larga parte fuori dalla Costituzione e dallo Stato di diritto, in guerra esplicita contro l’Alta Corte e le sue sentenze. Le recenti inaugurazioni dell’Anno giudiziario 2022 sono state veri campi di battaglia. Alla testa dello squadrone si è messo il procuratore generale della Corte di Cassazione, quel Giovanni Salvi ormai soprannominato “lo smemorato”, da quando non ricorda più dove ha messo il telefonino, o anche “il pentito”, dopo che ha capovolto la propria posizione sull’ergastolo ostativo per allinearsi a presenti e passati procuratori “antimafia”.

Quello dell’ergastolo ostativo, uno dei temi più ignorati dalla grande stampa, non è una faccenda tecnico-giuridica, pane e formaggio per barbosi giuristi o perditempo “garantisti pelosi”, come dicono i tagliagole, è semplicemente qualcosa che fa la differenza tra la vita e la morte. Tra la civiltà giuridica dei Paesi liberali e democratici e la barbarie degli Stati totalitari e vendicativi che mantengono la pena capitale. In quale contesto sta l’Italia, dal momento che le decisioni della Corte Costituzionale, oltre che quelle della Corte europea dei diritti dell’uomo, vengono combattute proprio da chi dovrebbe applicarle? E lo stesso Parlamento viene minacciato se non obbedirà ai diktat dei pm “antimafia”? Se qualcuno domandasse al procuratore generale Salvi se è favorevole alla pena di morte, stiamo certi che risponderebbe sdegnato di no, come, crediamo, se qualcuno lo avesse accusato di essere a favore della schiavitù o della tortura. Infatti, pochi mesi fa, in quel mese di marzo 2021 in cui si era in attesa della decisione della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, si era un po’ sbilanciato a dirsi contrario al “fine pena mai”.

Ma era in un ambiente rilassato, un dibattito culturale un po’ fuori contesto rispetto alla necessità di indossare elmetto e giubbotto antiproiettile per la “lotta” alla mafia, come se questa spettasse ai magistrati. L’inaugurazione dell’ anno giudiziario è altra cosa, e allora si deve mandare un messaggio brutale e dire che il “fine pena mai” e il “carcere duro” sono utili, perché servono a “impedire che i boss comandino dal carcere”. Lo squillo di tromba partito da un vertice così autorevole è indirizzato a due interlocutori altrettanto elevati: la magistratura e il Parlamento. Si deve decidere chi comanda. La Corte Costituzionale e il potere legislativo o quello illegittimo del Partito dei Pm? Bisogna spostarsi da Roma a Palermo per trovare la carta assorbente su cui depositare il messaggio. In terra di “trattativa” ritroviamo, tra gli orecchi musicali più sensibili allo squillo guerriero partito dal vertice della magistratura, un vecchio gruppo di toghe che pare uscito dalla fotografia ingiallita della “vicenda Scarantino”. La storia di quel falso pentito coltivato amorevolmente dagli inquirenti siciliani, dopo che era stato torturato nel carcere speciale di Pianosa, fino a che era riuscito a mandare in galera una quindicina di innocenti accusando falsamente anche se stesso per l’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Un bell’esempio di “pentito”, cui non sappiamo si siano ispirati anche il giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario i tre ex pm che di Scarantino si erano occupati, e che poi hanno fatto belle carriere.

Parliamo di Nino Di Matteo, Dino Petralia e Anna Maria Palma. Il primo, oggi membro del Csm, ritiene che, se si mette in discussione il fatto che per accedere ai benefici penitenziari si debba per forza essere delatori, “si fa il gioco della mafia”, “si attua il programma di Totò Riina”. Ecco sistemata l’ Alta Corte, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, dando al Parlamento un anno di tempo, che scadrà il prossimo maggio, per attuare le riforme necessarie ad adeguare le norme emergenziali varate nel 1992 agli articoli 3 e 27 della Costituzione. Di Matteo, pur facendo parte di un organismo di alta giustizia come il Csm, si ribella ai principi cardine della Legge delle leggi come ribaditi dall’Alta Corte. Preferisce usare il palcoscenico di Palermo per invitare la magistratura a proseguire la ricerca “dei mandanti delle stragi del 1992”. Come se la sconfitta nel processo “trattativa” non dovesse ancora bruciargli sulla guancia. Allineatissima la procuratrice generale facente funzioni Anna Maria Palma, che chiede in modo esplicito “non si abolisca l’ergastolo ostativo”. Dino Petralia ha invece dismesso l’abito del pm “antimafia”(persona diversa dall’omonimo Carmelo, che condusse le indagini sul falso pentito Scarantino con i colleghi Di Matteo e Palma), indossando a tutto tondo quello di capo del Dap, cioè di amministratore delle carceri. Vedere qualche prigione gli è servito, e forse anche la contaminazione con “Nessuno tocchi Caino”, l’associazione di cui ha anche partecipato al congresso dello scorso dicembre. Vogliamo trattenere come vera perla la sua seguente affermazione: “La Costituzione parla di pena e non necessariamente di carcere”. Lasciamola lì, senza commentarla.

Torniamo invece all’aggressione violenta che alcuni vertici della magistratura hanno sferrato contro la Costituzione. Ci sono quelli del passato, la cui opinione è però sempre autorevole sui quotidiani (non solo sul Fatto), come Giancarlo Caselli, che fu ai vertici di Magistratura democratica, ma soprattutto procuratore capo di Palermo. Ed è questa seconda veste che gli è rimasta appiccicata addosso anche da pensionato. Un altro è Roberto Scarpinato, che ha lasciato la toga da poco, con una sorta di testamento il cui leitmotif risuona delle parole di Di Matteo sull’uso dei “pentiti”, il timore che con le riforme garantistiche e costituzionali diminuiscano i collaboratori di giustizia. Sempre con l’ossessione dei “mandanti occulti“ delle stragi, cioè di una sorta di trattativa continua tra la mafia e lo Stato. Neanche la sentenza della Corte d’appello di Palermo che ha bocciato questa tesi viene rispettata. La verità è che questo partito dei pm “antimafia” sta giocando una propria partita di potere anche all’interno della magistratura, con la sponda di alcuni partiti in Parlamento. Non è un caso che, non appena sentite le parole di Salvi e di Di Matteo alle inaugurazioni dell’Anno giudiziario, gli esponenti del Movimento cinque stelle si siano svegliati con un sussulto, proponendo che la riforma del Parlamento disattenda subito la richiesta della Corte Costituzionale. In molti modi.

Prima di tutto azzerando le competenze dei giudici e tribunali di sorveglianza territoriali, gli unici che conoscono il percorso rieducativo di ogni detenuto, per accentrare le valutazioni a Roma. E poi scaricando sul singolo prigioniero l’onere di dimostrare di aver rescisso ogni legame con gli ambienti criminali e affidando al procuratore nazionale antimafia e al pm che aveva condotto le prime indagini il compito della decisione finale. Il che significa una cosa sola: inchiodare ogni detenuto alla fotografia di venti-trent’anni prima, al momento della commissione del reato. Quindi negarne ogni possibilità di cambiamento (del resto Caselli l’ha detto chiaro: dalla mafia non si esce mai!) e condannarlo a morte. Si, morte, morte sociale, stillata goccia a goccia, ogni giorno e ogni notte. Ma i magistrati non dovrebbero essere obbligati alla fedeltà costituzionale? E i membri del Parlamento?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Caro Travaglio, quella sentenza sul 41bis andrebbe letta nelle scuole. Dietro l’attacco di Travaglio c’è la moltitudine dei giustizialisti che nelle chiacchiere da bar chiedono al penalista “come fai a difendere un criminale sapendolo tale?”. O peggio, quelli che minacciano di morte il legale dei cosiddetti “mostri”, le persone accusate di reato odiosi come stupro e pedofilia. Ebbene, con la sentenza che vieta il visto di censura nella corrispondenza fra chi è al “carcere duro” e il suo legale, la Corte costituzionale intona uno straordinario inno alla funzione suprema della professione forense. Aurora Matteucci su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Nonostante l’attenzione dei media sia stata in questi giorni assorbita dall’affaire Quirinale, ha destato un’ inaspettata attenzione la recente sentenza della Corte costituzionale che ha censurato l’articolo 41 bis dell’Ordinamento penitenziario nella parte in cui non garantisce la segretezza delle comunicazione tra assistito e difensore imponendo il visto di censura della corrispondenza. Inaspettata se non altro perché i principi che la Corte afferma, ad occhi forse troppo ingenui, possono apparire tutto sommato scontati. Eppure, mai come oggi, repetita iuvant. Ci sono voluti diversi anni (venti, per l’esattezza) per affermare l’ovvio. E cioè che «il visto di censura riflette una generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso».

La disciplina che introduce il visto di censura nella corrispondenza del detenuto in regime di 41 bis è stata introdotta nel 2002, il 23 dicembre: non proprio un regalo di Natale. Fu poi successivamente irrigidita nel 2009. Per la verità non si menziona esplicitamente la necessità di un visto di censura nella corrispondenza tra difensore e assistito, vietata peraltro da altra disposizione dell’Ordinamento penitenziario, l’art. 18 ter. Ma, trattandosi di disposizione speciale che espressamente esclude il visto di censura solo per le comunicazioni tra detenuto e membri del Parlamento o con autorità europee e nazionali aventi competenza in materia di giustizia e non tra detenuto e difensore, secondo la Corte costituzionale ben si sarebbe potuto affermare, sulla base della disposizione censurata, che quella corrispondenza fosse oggetto del controllo e della sorveglianza dell’autorità.

Quella che doveva essere una norma a statuto eccezionale e temporaneo – il 41 bis- è ben presto diventata il manifesto autocelebrativo di uno Stato dal pugno duro, incapace di affrontare i diritti fondamentali secondo Costituzione. Conosciamo la storia del 41 bis. Molti di noi conservano ancora l’immagine dell’autostrada A 29, in zona Capaci, sventrata da 500 kg di tritolo, gli elicotteri intorno, le auto saltate e divelte in una minutaglia di lamiere. L’inutile corsa in ospedale  del magistrato Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della scorta. Il macabro scenario di uno dei più feroci attacchi al cuore dello Stato. A distanza di 16 giorni dall’attentato, il Governo dichiara guerra alla mafia varando, era l’8 giugno del 1992, il decreto legge che avrebbe irrobustito, in un giro di vite strettissima, il regime carcerario dei boss mafiosi.

Vi si introduce la cosiddetta sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario: un 41 bis in versione aggiornata e rinnovata. La conversione in legge non si fece attendere. Era l’8 agosto. Venti giorni prima, il 19 luglio 1992, stessa sorte era toccata a Paolo Borsellino. Della cronaca di quei giorni conserviamo memoria, anche se la storia ha consegnato brandelli di verità, ipocrisie, depistaggi. Il carcere durissimo per i mafiosi doveva risultare, però, una misura eccezionale e temporanea. Era già chiaro allora come questa sospensione delle regole ordinarie del trattamento penitenziario potesse entrare in rotta di collisione con la Costituzione, in particolare con la finalità rieducativa della pena.

Come bene ha detto l’avv. Maria Brucale, in un’intervista resa a Damiano Aliprandi su queste pagine il 22 dicembre del 2017, «l’Ordinamento penitenziario è – coerentemente con l’art. 27 della Costituzione – interamente orientato alla rieducazione del ristretto e a un trattamento intramurario individualizzato, il più possibile rispondente alla personalità del soggetto. Basta soffermarsi su tale aspetto per rendersi conto della vistosa incostituzionalità di un regime che sospende per tempi indefiniti l’accesso del ristretto alla rieducazione. Ci sono persone detenute in regime differenziato fin dal tempo dell’entrata in vigore dell’art. 41 bis dell’Ordinamento penitenziario; 25 anni di carcere duro che isola dagli affetti e costringe in ambiti asfittici ogni anelito di vita emotiva e creativa. Si tratta di carcerazioni punitive sottratte per legge alla finalità cui ogni pena deve tendere, la restituzione dell’individuo alla società».

Ma, come spesso accade ed è accaduto per le libertà personali e per i diritti fondamentali, nuove epifanie emergenziali (o dichiarate tali), hanno avuto lo scopo di trasformare l’eccezione in regola. Così, neanche a dirlo, quel 41 bis viene conservato e rimodulato secondo esigenze sempre nuove, elevato a grimaldello sul quale si misura l’attendibilità di una classe politica incapace ormai di relegare la repressione a fenomeno minimo, ancillare, eventuale.

Ed arriviamo, a colpi d’emergenza, prima al 2002 e poi al 2009, quando la disposizione viene interpolata e ulteriormente irrigidita nei termini oggi giudicati incostituzionali: non è un caso che l’ultimo provvedimento in senso cronologico, quello del 2009, che ha limitato ulteriormente il diritto di difesa, recasse l’altisonante nome di “disposizioni in materia di sicurezza pubblica”. Vien da chiedersi: in che termini il diritto di difesa genera insicurezza? Quando esattamente è accaduto che “difensore” facesse rima con “fiancheggiatore”?

Ha risposto, senza farsi attendere, il direttore de Il Fatto quotidiano in una delle solite invettive contro gli avvocati. Pare che non abbia gradito l’ultima sentenza della Corte costituzionale. “Geniale” -ha scritto- “così i boss mafiosi potranno ordinare omicidi e stragi”. Detto meglio, si serviranno dei loro difensori per consegnare pizzini. Non stupiscono le invettive e gli strali dell’uomo – cui ha fatto eco l’immediata reazione di Ucpi e del Cnf – ma per quanto si sia fatta l’abitudine a questo genere di affermazioni, un pruriginoso senso di indignazione scuote le coscienze dei pochi, ahimè, che ancora credono che il diritto di difesa sia il sacrosanto baluardo di una società democratica, che il suo contrario appartenga a periodi storici che vorremmo relegare in un passato remoto, superato proprio con l’avvento, guarda caso, della Costituzione.

Eppure gli avvocati continuano ad essere minacciati non solo in territori dominati da severe dittature o manifeste sospensioni dei diritti umani. Ma una strisciante, indomita, insuperata sensazione di diffidenza di manzoniana memoria (l’Azzegarbugli) fa da eco alle parole di Travaglio anche nella democratica Italia. “Come fai a difendere un criminale sapendolo tale?” non è solo una litania da bar, ma un dubbio tra i più resistenti, che inanella a cascata sentimenti di sospetto e diffidenza per una delle funzioni più strategiche per la tenuta democratica del paese.

Forme, neppure troppo velate, di minaccia si annidano sui social, vengono scagliate all’indirizzo di chi ha assunto la difesa dei mostri indifendibili: il femminicida, il pedofilo, il terrorista, il mafioso e chi più ne ha più ne metta. In questa era del mainstream manettaro, difendere chi è già stato giudicato indifendibile da una platea male informata di leoni da tastiera non è solo uno spreco di energia, ma il segno tangibile che tra difensore e assistito si suggelli un sodalizio, criminale appunto, al solo scopo di farla fare franca al secondo. È fin troppo ovvio che in questo clima di allarmante impoverimento etico e culturale, il segreto della conversazione tra difensore e difeso, anziché indispensabile declinazione dell’effettività del diritto di difesa, diviene esso stesso cartina di tornasole che tra i due “sodali” possano annidarsi complicità criminali che sfuggono all’occhio vigile dell’autorità.

Andrebbe letta nelle scuole, questa sentenza, pubblicata sui quotidiani mediante un’opera di alfabetizzazione ai principi costituzionali. E ripetere, ad alta voce, come si faceva con le poesie che ci facevano imparare a memoria, che il diritto di difesa costituisce «principio supremo» dell’ordinamento costituzionale e comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore «allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti».

D’altra parte, «se un avvocato non potesse conferire con il suo cliente e ricevere da lui istruzioni riservate al riparo della sorveglianza da parte dell’autorità, la sua assistenza tecnica perderebbe gran parte della sua utilità, mentre la Convenzione mira a garantire diritti concreti ed effettivi» (Corte europea dei diritti dell’uomo, anche nella sentenza del 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia).

Qualche anno fa un pubblico ministero di Torino, Paolo Borgna, scrisse un libro -sulla falsa riga del volume di Piero Calamandrei- che si intitola “Difesa degli avvocati scritta da un pubblico accusatore”. Se solo il dott. Travaglio avesse la pazienza di leggere quelle pagine, avrebbe di che imparare: «Tutti i giorni trattiamo il dolore, la vita, gli affetti degli altri. Spesso ne determiniamo il corso. E lo facciamo quasi senza rendercene conto. Questo è inevitabile e persino salutare: non possiamo farci trascinare nel gorgo delle vicende umane di migliaia di vite che il nostro lavoro ci fa incrociare. L’avvocato – con la sua “professione di carità”, con il suo “tener compagnia a chi si trova a tu per tu con il dolore” – è lì a ricordarci quei destini che noi tocchiamo. È lui il tramite tra le nostre carte e la vita degli altri, è lui a portare sulle proprie spalle i grumi di dolore dei propri assistiti, ad assumere su di sé l’urto delle passioni e delle polemiche, a sollevarci da quel peso indicibile».

Perché l’avvocato è, sempre per Borgna, un mediatore sociale (altro che fiancheggiatore!) che contribuisce, al pari del magistrato, all’unitaria funzione di rendere giustizia.

Caro Travaglio, a tagliare sempre con l’accetta si decapita pure il diritto. A parte l’offesa rivolta agli avvocati, l’ormai famigerato occhiello del Fatto quotidiano sulla sentenza che favorirebbe gli ordini dei boss veicolati dai difensori è soprattutto un insulto alla Corte e alla stessa Costituzione: negare a tutti un diritto per via dell’azione di pochi è un modo alternativo di fare leggi ad personam. Giuseppe Belcastro su Il Dubbio l'1 febbraio 2022.

Sul recente intervento della Consulta, che ribadisce la riservatezza della corrispondenza tra i difensori e i loro assistiti al 41-bis (carcere duro), si susseguono commenti e opinioni. Il Fatto quotidiano, coerente alla sua linea editoriale, attacca frontalmente la decisione. E in questa atmosfera, surriscaldata in vero più dai titoli che dal contenuto dei pezzi, qualcuno della redazione alza l’ingegno e compone – postandolo pure in rete – un occhiello su un articolo di Antonella Mascali, che irride gli Avvocati, la Corte Costituzionale e (forse pure) la Costituzione; così, in un colpo solo. Perché si sa, al Fatto sono ecumenici.

La frase, non c’è dubbio, prima ancora che infelice e persino dissonante dalla misura del pezzo, è urticante perché, mentre censura in modo spiccio la decisione della Consulta, pretende di fondare il dileggio – come vuoi definire l’antifrasi del “Geniale” posta in apertura? – sull’idea che se tu non leggi ciò che il detenuto scrive al suo avvocato va a finire che il primo gli ordina omicidi per iscritto e il secondo, ça va sans dire, trasmette gli ordini a chi di dovere. Una retorica che conosciamo, insomma, niente di nuovo sotto il sole.

L’Unione delle Camere Penali Italiane reagisce con immediatezza e puntualizza assai bene, chiudendo gli spazi; a fianco partono pure altre rampogne al direttore Travaglio che non prende le distanze dal titolista, stavolta sì, davvero geniale. Rampogne, dico io, a maglie larghe: l’unica cosa vera è che, fra l’altro, il titolo offende la funzione difensiva, generalizzando.

Travaglio, allora, che tra i suoi difetti non annovera la stupidità, ghigna (sembra di vederlo) e prova a soverchiare asciuttamente i suoi detrattori: ‘Anche tra gli avvocati ci son le mele marce, cari signori, se ne deve tener conto’. E questo è vero, anzi banale, quasi come dire che tra i giornalisti si annoverano pennivendoli, servi di qualche padrone.

Il punto è però, caro direttore, che se alcuni detenuti possono spedire ordini mafiosi ai loro difensori, i quali talvolta – al suo buon cuore: in una sparuta minoranza di casi – possono pure prestarsi indegnamente a trasmetterli, lei, che è appunto direttore, dovrebbe sapere che le norme (e le sentenze della Consulta tali sono) non disciplinano alcuni casi, ma la generalità di essi; che, cioè, sono leggi ad personam non solo quelle che salvano pochi tra molti, ma anche quelle che affossano i diritti di tutti (e la Costituzione) per l’azione di alcuni.

Dovrebbe prima ancora sapere, visto che vive di questo, che gli accostamenti concettuali possono diventare contumelie e che i cardini costituzionali non sopportano di essere forzati per le cose minute di un avvocato di Merano o di Canicattì.

E dovrebbe soprattutto sapere che deridere la massima autorità giurisdizionale del paese, provando a darla in pasto a una comunità nutrita di bile per anni, è rischioso: se la prenda con gli Avvocati (si difenderanno) ma lasci perdere la Corte e la Carta, che, vivaddio, non le rivolgeranno la parola.

È saggezza popolare che se il dito indica la luna occorra guardare questa; stando attenti alla prospettiva però: sai quante dita tonde e luminose…

Poi finisce che, a seguire queste idee balzane, oltre alle mele marcisce anche il diritto.

Marco Travaglio, la sparata sui boss scatena gli avvocati: "Non siamo mafiosi", rivolta in tribunale. Roberto Cota su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che prevede la censura della corrispondenza tra cliente detenuto in regime di 41 bis e avvocato. La questione di costituzionalità, peraltro, era stata sollevata dalla Corte di Cassazione. Il Giudice delle leggi ha osservato in sentenza come l'esercizio del diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con i propri difensori. Tale diritto spetta a chi è recluso in carcere ed anche a chi è in regime di 41 bis. Direi tutto normale. L'anomalia era la limitazione precedentemente in essere, assolutamente non in linea con uno dei principi cardine dello stato di diritto. Inoltre, la Corte Costituzionale ha sostenuto che la tesi contraria rappresenterebbe "una generale ed insostenibile presunzione di collusione del difensore dell'imputato". Senonché, nel successivo dibattito è intervenuto Il Fatto Quotidiano che con un titolo ad effetto ha così dato la notizia della decisione: "La Consulta cancella la censura della corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi".

Oltre a sposare la tesi secondo la quale chi è in regime di 41 bis non deve avere neppure il diritto di difendersi, il giornale di Travaglio, nella sostanza, qualifica tutti gli avvocati come mafiosi. I sostenitori della campagna giustizialista e manettara utilizzano adesso un nuovo argomento: quello di confondere l'avvocato con il cliente. Se l'avvocato difende un mafioso è un mafioso. Lo schema delegittimante, purtroppo, è quello tipico dei sistemi antidemocratici, dove la figura del difensore viene relegata ad inutile e fastidioso orpello.

La Giunta delle Camere Penali ha giustamente reagito, ma questa tendenza sta prendendo piede, non soltanto sulle pagine de Il Fatto e non sempre può arrivare la Corte Costituzionale a sistemare le cose. Il recente caso Pittelli è emblematico. Pittelli, avvocato ed ex parlamentare, è in carcere perché accusato di aver concorso, nel difendere dei clienti appartenenti alla ndrangheta, nei reati dei propri assistiti. La materia è delicata, ma il problema del perimetro del lavoro del difensore va affrontato e non lasciato al caso. La politica, come al solito, ha la tendenza a non occuparsi delle questioni, soprattutto quelle spinose. Il rapporto professionale avvocato-cliente dovrebbe essere rispettato e tutelato perché siamo in un paese democratico dove i diritti fondamentali han no ancora un senso. Nei mesi scorsi c'è stata una sacrosanta mobilitazione per chiedere all'Egitto il rispetto dei diritti umani nel caso Zaki : da noi è tutto a posto? 

Gli insulti del Fatto agli avvocati e il “sogno” della giustizia sommaria. Sul quotidiano di Marco Travaglio insinuano la collusione dei difensori con gli assistiti mafiosi. L’insulto è nel titolo sulla sentenza con cui la Consulta ha bocciato le “intrusioni” nelle lettere fra reclusi al 41 bis e avvocati. Più che reagire all’offesa, va colto il vero segnale: l’insofferenza per lo Stato di diritto e la segreta aspirazione a una giustizia autoritaria. Anche se sono sacrosante le reazioni di diverse voci dell’avvocatura: dall’editore del Dubbio a Ocf, Aiga e Anf. Errico Novi su Il Dubbio il 25 gennaio 2022.

Sì, non è la prima volta. Già in passato altri avevano insinuato che gli avvocati dei detenuti per reati di mafia fossero istitutivamente collusi con i loro assistiti. Ma un titolo apparso oggi sul Fatto quotidiano (incoerente anche rispetto alla correttezza dell’articolo) trapassa qualsiasi limite: “La Consulta cancella la censura sulla corrispondenza fra i detenuti al 41-bis e avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi”.

In pratica si attribuisce ai difensori dei reclusi al 41 bis uno stigma di mafiosi di default: se assistete i boss, siete pure voi certamente pronti a tutto, collusi o “colludibili”. Forse non vale neppure la pena di soffermarsi troppo nel replicare. Non è il caso di ricordare, a chi ha superato un esame da giornalista professionista, e conosce dunque senz’altro le basi del diritto costituzionale, il contenuto dell’articolo 24.

È più interessante un’analisi sociologica. A partire da un interrogativo: perché? Come si può scrivere una cosa del genere? Non veniteci a raccontare che quello 0,001 per mille di casi in cui si è ravvisata e provata una effettiva collusione di un avvocato con un assistito mafioso basti a giustificare quel titolo. È evidente che non è così: il Fatto allude implicitamente a una moltitudine di casi, quindi non ha agganci col reale. È solo un insulto a casaccio. All’intera classe forense.

La risposta al “perché” è altrove. E per trovarla va citato un altro titolo offensivo apparso oggi sulle pagine palermitane di Repubblica in cui in pratica si descrive la classe forense come un esercito che “se ne approfitta”: “Avvocati in coda: è qui la festa del gratuito patrocinio”. Nell’articolo, anche qui corretto, si segnala che il capoluogo siciliano è il Foro in cui si registra il maggior numero di richieste per il beneficio (che, andrebbe ricordato, non è “gratuito” ma appunto a carico dello Stato). Nella titolazione c’è un disprezzo un filo meno sguaiato di quanto visto su Fatto. Ma si può scorgere lo stesso fastidio per il diritto di difesa, il sogno di una giustizia sommaria, rapida e autoritaria in cui, come in Ritorno al futuro, l’avvocato viene semplicemente “abolito”.

È un’insofferenza non per la categoria degli avvocati ma per il diritto. Nel caso di Repubblica, per il diritto dei non abbienti a essere difesi in giudizio, che per un giornale progressista dovrebbe essere un valore. Perciò forse non c’è neppure da offendersi. Ma da interrogarsi su quanto sia radicata nel nostro paese una cultura autoritaria, del diritto e non solo, con cui sarà sempre difficilissimo confrontarsi.

Le reazioni dell’avvocatura

Sono certo più che giustificate le reazioni di diverse voci dell’avvocatura. Da segnalare innanzitutto la replica, serafica, dell’editore del Dubbio: “L’avvocatura è grata a Travaglio per averla promossa al rango di criminale”.

Se sono indignati, liquidatori ma non privi di un rimando a querele per diffamazione i toni dell’Ucpi (di cui vi diamo conto in altro servizio, nda), sconcertato ma più “piano” è il comunicato di Ocf: quella della Consulta, osserva l’Organismo forense, è una sentenza «ineccepibile» e perciò «stupiscono certi commenti secondo cui in questo modo si favorirebbe la mafia e i boss al 41 bis potrebbero così più facilmente aggirare le restrizioni continuando a gestire i clan dal carcere, magari ordinando la commissione di reati. Non solo. Questo genere di sottolineature», fa notare l’Ocf, «gettano il discredito su un’intera categoria, quella forense, che per il solo fatto di assicurare il diritto costituzionalmente garantito a un boss recluso, automaticamente si presterebbe a veicolare gli ordini della criminalità organizzata».

L’Aiga è ancora più esplicita nell’esprimere «il proprio fermo dissenso» per le parole del Fatto: che, secondo il presidente dell’Associazione giovani avvocati, Francesco Paolo Perchinunno, sono «gravissime e irricevibili». Parole che «mancano di rispetto a tutta l’avvocatura e in particolar modo a quei colleghi, ancora vivi nella nostra memoria come Fulvio Croce e Serafino Famà, che hanno pagato con la vita quel dovere di indipendenza che ogni avvocato assume con il giuramento. Non si può paragonare l’avvocato ad un favoreggiatore o complice del condannato, così si mortifica la funzione difensiva, svolta con grande passione, competenza e dedizione da migliaia di colleghi. Sarebbe il caso di ricordare al Fatto quotidiano, come il diritto alla difesa sia uno dei cardini della Costituzione e di come certi commenti non facciano nient’altro che portare l’Italia verso una deriva giustizialista».

Su un registro non diverso da quello molto aspro della nota Ucpi è la replica dell’Associazione nazionale forense: «Grave, offensiva e inopportuna affermazione del Fatto Quotidiano nei confronti dell’intera categoria degli avvocati». Il giornale, ricorda il presidente dell’Anf Giampaolo Di Marco, «si è lanciato in un’affermazione vergognosa e imbarazzante. Gli avvocati non sono messaggeri di criminalità o corrieri, ma professionisti a cui le persone, anche coloro che sono stati condannati per reati gravissimi, affidano il loro destino affinché ottengano il trattamento più giusto ed equo previsto dall’ordinamento».

Di Marco aggiunge: «L’inaccettabile affermazione non può essere considerata una battuta o una semplificazione e neppure una legittima opinione, ma un attacco giustizialista che mina le basi dello Stato di diritto e non rende un buon servizio alla percezione del sistema Giustizia nel nostro Paese, anche perché con il suo intento acchiappa-like dirotta l’attenzione da quanto correttamente scritto dalla Corte, ovvero che vi sia una “generale e insostenibile presunzione di collusione del difensore dell’imputato, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso”».

41bis, i penalisti: “Dal Fatto miserabili infamie contro gli avvocati”. La replica della Giunta dell'Unione Camere penali dopo l'attacco del giornale di Travaglio sulla sentenza della Consulta: "Ne risponderanno, come meritano gli atti diffamatori". Il Dubbio il 25 gennaio 2022.

«Secondo “Il Fatto Quotidiano”, giornale da poche migliaia di copie vendute e tuttavia idolatrato dai manettari di tutta Italia, la sentenza della Corte Costituzionale che ha finalmente abrogato, perché incostituzionale, la censura della corrispondenza tra detenuti al 41 bis e difensori, farebbe sì che ora “i boss potranno ordinare omicidi e stragi per lettera”». Comincia così la dura replica della Giunta dell’Unione Camere penali all’articolo del quotidiano di Marco Travaglio sulla sentenza di ieri della Consulta, a cui hanno reagito con sdegno anche altre rappresentanze forensi – l’Ocf, ma anche l’Aiga e l’Anf.

«Ci siamo interrogati – prosegue la nota – se valesse la pena replicare ad una simile, miserabile infamia, frutto di un analfabetismo così profondo ed irredimibile da risultare, alla fine, disarmante. Ma pur essendo tali i tempi che viviamo, cioè tali che possano purtroppo trovare voce e risalto pubblico idee al più degne di essere scompostamente vergate su qualche muro un po’ appartato, non possiamo non reagire a difesa della dignità della professione forense, e della onorabilità di chi la esercita».

«L’idea che un detenuto, quale sia il livello di gravità delle accuse che lo raggiungano, non possa liberamente, cioè con intangibile segretezza, corrispondere con il proprio difensore, rimanda alle pagine più buie della storia dell’umanità, ed ai sistemi antidemocratici più feroci e violenti. L’idea poi che, finalmente restituita questa primordiale e davvero incoercibile libertà, il difensore si renda perciò stesso complice di ogni crimine che quel detenuto immagini di poter commettere per suo tramite, è talmente insensata, talmente paranoide, talmente frutto del più cupo analfabetismo, da meritare – insieme al nostro disprezzo – la sanzione che merita – qui davvero, ed in manifesta flagranza- ogni atto diffamatorio. E così sarà».

«Papà fu un avvocato e vittima della mafia, non suo complice». Lo sfogo di Flavia Famà, figlia di Serafino, penalista ucciso dalla mafia nel 1995. «Le parole del Fatto Quotidiano sugli avvocati sono indegne: sono necessarie delle scuse». Simona Musco su Il Dubbio il 26 gennaio 2022.

«L’avvocato è giusto che in aula porti la toga. L’avvocato è giusto che dica al pubblico ministero che deve occupare il posto che il codice prevede non sieda accanto al giudice. L’avvocato è giusto che nell’ambito delle sue funzioni sistematicamente stia attento a che i suoi diritti non vengano disconosciuti. (…) Io mi sono sistematicamente rifiutato di accettare la perquisizione a Bicocca perché la trovo indegna. Trovo indegno il fatto che il poliziotto acquisti la mentalità e la cultura che l’avvocato è istituzionalmente soggetto meritevole di sospetto. È questo il fatto che mi indigna non la perdita di tempo di tre minuti». Era il 1994 quando Serafino Famà, penalista di Catania ucciso dalla mafia il 9 novembre dell’anno dopo con sei colpi di pistola calibro 7,65, pronunciava queste parole. Si trovava ad un’assemblea della Camera penale, in adesione allo sciopero dei colleghi di Napoli, dove denunciò la «sistematica arrendevolezza degli avvocati di fronte ai loro diritti». Di fronte a chi, ad esempio, considera il diritto alla difesa un’onta che estende i “peccati” degli assistiti ai propri difensori. Un pregiudizio, ci racconta oggi Flavia Famà, figlia di quella vittima di mafia, che di fronte all’ennesimo attacco lanciato dal Fatto Quotidiano contro la professione forense ha risposto indignata, ricordando il sacrificio non solo di suo padre, ma anche di Fulvio Croce e Giorgio Ambrosoli.

«Non ci sono vittime di mafia di serie A e vittime di serie B», sottolinea, sorpresa di dover evidenziare l’ovvio di fronte al sistematico attacco ai diritti. Dalla propria pagina Facebook, Famà ha definito «indegne» le parole del quotidiano diretto da Marco Travaglio, secondo cui la sentenza della Consulta che cancella la censura della corrispondenza tra detenuti al 41 bis e avvocati rappresenterebbe l’opportunità, per i boss mafiosi, di “commissionare” omicidi e stragi tramite i propri difensori. «Mio padre si ribellava a questo genere di insinuazioni infamanti che peraltro gettano discredito su tutta la categoria – sottolinea -. Da figlia di un avvocato ammazzato dalla mafia proprio perché svolgeva in modo corretto la professione di difensore mi sento offesa e amareggiata». Affermazioni sbagliate, racconta oggi al Dubbio, al netto della libertà di pensiero e di espressione. «Ricordiamoci che, in teoria, le conversazioni degli avvocati non possono essere intercettate, quindi non vedo perché debbano poterlo essere quelle con un assistito che si trova al 41 bis, solo perché si dà per scontato che sia complice di eventuali reati», afferma. Una cosa intollerabile per chi, «come me, ha vissuto sulla propria pelle un’esperienza del genere – racconta -. Molte volte mi sono ritrovata a dover giustificare quello che è successo a mio padre per il solo fatto di essere un avvocato penalista, come se solo per questo lui fosse colpevole di qualcosa. Come se se la fosse cercata, come molte volte mi sono sentita dire. Questo tipo di giornalismo arreca tantissimo danno, soprattutto nella settimana dedicata agli avvocati in pericolo: sembra una presa in giro. Però quando questi giornalisti così giustizialisti vengono querelati si rivolgono agli avvocati e li cercano altrettanto liberi e altrettanto integerrimi di quelli che in realtà stanno infangando».

Il problema è come sempre uno: identificare il difensore con il proprio assistito ed estendere il reato anche a chi è chiamato a garantire la difesa dei diritti. «Ci si dimentica che la difesa è tecnica, è garantita dalla nostra Costituzione ed è il baluardo della democrazia – spiega -. Senza avvocati a far valere i diritti è un attimo che si trasformi in una dittatura». Famà, come il padre, è appassionata di diritto e si occupa di America Latina. Ed è proprio lì che va il pensiero, cogliendo al volo l’occasione della giornata dedicata agli avvocati in pericolo nel mondo. «In Colombia chiunque non la pensi come il governo è considerato un terrorista e gli avvocati che assistono le vittime di Stato sono considerati allo stesso modo – ha evidenziato -. Ovviamente in Italia non siamo a questi livelli in termini di ritorsioni e pericolosità, ma con una magistratura che sembra concedere un favore quando consente all’avvocato di garantire il diritto di difesa, colleghi arrendevoli davanti ai propri diritti, come li definiva mio padre, e un giornalismo superficiale e meschino, il passo è breve: non ci vuole molte a perdere quel minimo di democrazia che c’è».

Famà venne ucciso per aver detto di no alla richiesta avanzata dal boss Di Giacomo, che pretendeva di far testimoniare al processo una donna, sua cognata e amante, nonché moglie di un pentito, che non ne aveva alcuna intenzione. «Quando leggo cose del genere, scritte da chi magari si straccia le vesti il 23 maggio e il 19 luglio, penso: mio padre non ha contato niente? Delle due l’una: non si possono distinguere le vittime di mafia. Essere avvocato non significa automaticamente non essere onesto. Non voglio scuse in memoria di chi è morto, ma in nome di tutti gli avvocati onesti che sono ancora in vita». L’avvocato, spiega, è come un medico: «Non si può scegliere se operare o meno in base al fatto che il paziente sia una brava o una cattiva persona. L’avvocato fa il proprio mestiere con solitudine e fatica e la consapevolezza che le proprie azioni possono avere conseguenze in termini di libertà personale». E per spiegare chi fosse realmente suo padre racconta un episodio: «Ci fu un processo terribile, in cui fece un’arringa lunghissima, al termine della quale il giudice voleva ritirarsi e decidere alla fine della giornata. Ma, codice alla mano, mio padre disse che andava fatto subito. Il giudice fece così, perché era previsto, e condannò l’imputato – conclude -. I colleghi di studio gli dissero: “Avvocato, ma sempre tu! Ti sei impuntato e abbiamo perso la causa”. Ma lui rispose che aveva vinto, perché aveva fatto rispettare le norme. Un avvocato non sente di aver vinto se il pluriomicida è libero di commettere reati, ma se ha garantito il rispetto del giusto processo. È questo che certi giornalisti dovrebbero ricordare».

Ergastolo ostativo, passa la linea grillina e il decreto è peggiorativo. Il decreto legge non solo riprende il testo già approvato, ma inserisce punti peggiorativi tratti dalla vecchia proposta del M5S. L’allarme UCPI: “Sarà colpito anche chi non è all’ergastolo ostativo”. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'1 novembre 2022.

La prima mossa del governo Meloni sull’ergastolo ostativo non è solo il ricalco della proposta di legge approvata alla Camera, ma presenta punti “peggiorativi” già contenuti nel disegno di legge grillino che fu presentato dall’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi. Nel decreto legge varato dal Consiglio dei ministri ha vinto la concezione illiberale del diritto penale che attraversa – tranne alcune eccezioni come Forza Italia, Terzo polo e parte del Pd -, quasi tutto l’arco parlamentare attuale. Di fatto, già la legge che fu approvata dalla Camera, seppur depurandola di alcuni punti della proposta grillina, non era in linea con le indicazioni date dalla Consulta. Aveva infatti posto ulteriori paletti come l’eliminazione delle ipotesi di collaborazione “impossibile” e “inesigibile”.

Il decreto va contro la sentenza della Corte costituzionale

In sostanza, verrà meno la possibilità per rarissimi casi di ergastolani ostativi di poter accedere ai benefici perché, solo per fare un esempio, l’organizzazione di appartenenza non esiste più e qualsiasi collaborazione con la giustizia non servirebbe. Oppure, altro esempio, l’ergastolano ha avuto una posizione talmente marginale nell’associazione mafiosa, che pur volendo collaborare non può visto la non conoscenza completa dei fatti. Eliminando tutto questo (il decreto legge avanzato dal governo Meloni lo riprende), si va contro le indicazioni della sentenza costituzionale stessa che sancisce la differenza tra la mancata collaborazione per scelta con quella per impossibilità.

Nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione

Il decreto legge Meloni riprende anche l’aumento da ventisei a trenta anni di pena da scontare prima di poter presentare l’istanza di liberazione condizionale. Così come, ed è anche ciò che hanno sottolineato i penalisti delle Camere penali, non si dice che nell’ostatività finiscono anche i reati contro la pubblica amministrazione, proprio insieme ai delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione dell’ordine democratico, riduzione in schiavitù, prostituzione minorile, sequestro di persona e così via. Parliamo dell’abnormità della “spazzacorrotti”, la riforma Bonafede.

Si rende quasi del tutto impossibile la concessione dei benefici

Ha vinto, di fatto, la propaganda di una parte consistente dell’informazione, soprattutto quella che è di “opposizione”. Una opposizione che pretende, riuscendoci, leggi più vicine allo Stato di polizia che di Diritto. Paventando il pericolo inesistente della scarcerazione facile dei boss stragisti (una bufala smentita dai fatti, leggasi le istanze sui permessi premio respinte ai Graviano), si aggirano le indicazioni della Corte costituzionale, per rendere quasi del tutto impossibile la concessione dei benefici per chi si è macchiato di reati ostativi.

Il decreto legge, com’è detto, non ricalca esattamente la proposta di legge votata alla Camera, ma inserisce punti ulteriormente peggiorativi già avanzati dai Cinque stelle. Ad esempio c’è il depotenziamento interpretativo che consentiva il cosiddetto scioglimento del cumulo il quale permetteva di ritenere cessata l’ostatività una volta scontata la parte di pena relativa appunto ai delitti ostativi. Come sintetizza bene Vincenzo Giglio sul blog Terzultima fermata, con il decreto legge lo scioglimento non sarà più permesso nei casi in cui il giudice della cognizione (o, in alternativa, il giudice dell’esecuzione o il giudice di sorveglianza) abbiano accertato la sussistenza di una connessione qualificata tra il delitto non ostativo e quello ostativo, connessione che ricorre in particolare quando il delitto ostativo sia stato commesso «per eseguire od occultare uno dei reati di cui al primo periodo, ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati».

L’allarme delle Camere penali: si aggravano gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati

Per quanto riguarda i due requisiti per accedere ai benefici, ovvero la mancanza di collegamenti e la mancanza di pericolo di ripristino, il decreto legge li riprende dalla sentenza della Consulta sul permesso premio. Ma aggiungendo, come prevedeva già il testo approvato alla Camera, la cosiddetta “probatio diabolica” a carico del richiedente. Dopo 30 anni di carcere, il detenuto stesso deve dimostrare il mancato pericolo di ristabilire il collegamento con il contesto territoriale suo e dei suoi. Cosa significa? La fine delle misure alternative, non solo per i “sanguinari”, ma anche per tutti quelli che verranno condannati a pene anche più contenute. In sostanza, il criterio di ammissione alle misure sarà quello dettato per l’ergastolo ostativo.

E sul punto, come già detto, l’Unione delle Camere penali italiane lancia l’allarme, sottolineando «la manipolazione informativa che sta accompagnando l’adozione di questo provvedimento, indicato come relativo al solo tema dell’ergastolo ostativo, quando invece esso riguarda ed aggrava gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione». Entro due mesi questo provvedimento dovrà diventare legge, martedì prossimo 8 novembre dovrà pronunciarsi però la Consulta. Quest’ultima prorogherà per la terza volta la scadenza?

Patrizia Maciocchi per ilsole24ore.com il 2 novembre 2022.

La mancata collaborazione con gli inquirenti impedisce di ottenere un permesso premio al boss Filippo Graviano. Le porte della cella per il capomafia, tra i mandanti per le stragi del ’92 e del ’93, condannato all’ergastolo anche per l’uccisione di don Pino Puglisi, resteranno chiuse, malgrado «la regolare condotta carceraria e il percorso scolastico». Graviano, classe ’61 è in carcere dal 1994 sottoposto al regime “differenziato”. Sul no alla richiesta di permesso premio - pronunciato dal Tribunale dell’Aquila e confermato dalla Cassazione (sentenza 41329) - ha pesato la sua dissociazione, considerata solo di facciata, e l’aver mantenuto rapporti con i familiari tra i quali ci sono «anche soggetti pure convolti in logiche associative». 

La buona condotta e la laurea

La prima sezione penale della Suprema corte ha, infatti, considerato corretta l’ordinanza con la quale i giudici abruzzesi, il 9 febbraio 2022, avevano respinto la domanda per accedere al beneficio fatta da Filippo Graviano, chiarendo che «il detenuto aveva sottoscritto una dichiarazione di dissociazione, cui non aveva fatto seguito una collaborazione con gli inquirenti».

Oltre ai rapporti con i familiari in coinvolti in logiche di clan. Contro la decisione, la difesa ha fatto ricorso in Cassazione denunciando la violazione dell’articolo 30ter dell’ordinamento penitenziario che regola la concessione dei permessi premio. «Il detenuto - aveva sottolineato il difensore - aveva reso dichiarazione incondizionata di dissociazione ed aveva accettato il confronto con il pentito Spatuzza, che ne aveva riconosciuto l’estraneità a fatti di sangue; non era stato coinvolto in una recente indagine avente ad oggetto il mandamento mafioso di Brancaccio, già di riferimento» del Graviano. 

Inoltre, «la condotta in carcere era sempre stata regolare, tanto che era stata riconosciuta la liberazione anticipata, e di partecipazione al trattamento, come desumibile dal percorso scolastico giunto sino al conseguimento, con il massimo dei voti, della laurea magistrale»: La difesa aveva anche fatto presente che «la sottoposizione al regime differenziato non è incompatibile con l’ammissione all’esperienza premiale». 

Niente collaborazione

La Cassazione ha però chiarito che «l’istituto dei permessi premio costituisce elemento del trattamento penitenziario e quindi va riconosciuto previa valutazione dell’andamento complessivo del percorso riabilitativo e, dunque, se risulta, in relazione ai progressi compiuti e alle prospettive, idoneo a contribuire al conseguimento dell’obiettivo rieducativo». Tuttavia, nel caso di Graviano, secondo i supremi giudici, il Tribunale di sorveglianza «ha dato conto della valutazione negativa compiuta, giustificandola con motivazione in questa sede non censurabile».

La considerazione dei gravissimi reati commessi si è unita al rilievo che non ne era seguita una effettiva presa di distanza «ed anzi - scrive la Cassazione - erano stati mantenuti i contatti con i familiari pure già coinvolti nel medesimo contesto di criminalità organizzata». Dati che «letti alla luce della carente rivisitazione critica dei gravissimi reati commessi, non hanno consentito di valorizzare la pur regolare condotta carceraria e il percorso scolastico».

Passa la linea fasciogrillina. Sulla giustizia nasce l’alleanza tra Travaglio e Meloni: e Nordio se la dorme…Piero Sansonetti su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

È nato un nuovo asse politico. Si chiama Travaglio-Meloni. Al momento si applica solo al capitolo giustizia (sulla guerra il reciproco ribaltamento di posizioni fra Travaglio, ex filoatlantico, e Meloni, ex antiatlantica, rende impossibile la convergenza). La convergenza attuale consiste nella scelta del nuovo presidente del Consiglio di aderire senza obiezioni alla linea dei 5 Stelle, sostenuta con vigoria virile da Travaglio in questi anni, e anche – diamogliene atto – dal povero e vilipeso Bonafede. Qual è la linea? Meno garantismo, più potere alle supposizioni, riduzione ai minimi termini dello Stato di diritto, molte molte punizioni e poi prigione prigione prigione, anche in spregio della Costituzione e delle idee e suggerimenti e richieste dell’Europa.

Il primo provvedimento che il nuovo governo ha voluto adottare non riguarda le bollette, la crisi, l’inflazione, la caduta dell’occupazione, l’aumento delle povertà, le difficoltà delle imprese… no: riguarda la possibilità di bloccare la timida riforma Cartabia (considerata però eccessivamente liberal dalla nuova destra meloniana e travaglista) e soprattutto di evitare che siano smantellate le leggi liberticide sull’ergastolo e sulle norme ostatitve che bloccano per anni e anni in prigione persone che invece potrebbero uscire libere o essere dirottate verso pene alternative.

La svolta è chiarissima e fuori discussione. È di tipo fascista (se mi permettete di usare questo termine semplicistico e un po’ grossolano, ma assai evocativo), non nel senso delle etichette e delle litanie imparate a memoria da un pezzo di sinistra che spesso, su questi argomenti, è fascista come Conte, Travaglio e la Meloni messi insieme. Dico di tipo fascista nel senso che è una svolta autoritaria e illiberale e intollerante che ci riporta ai tempi del governo gialloverde. Voi sapete che questo giornale ha sempre considerato il movimento Cinque Stelle un movimento con forti richiami all’ideologia fascista, e cioè alla parte antipolitica, autoritaria e eticista, che era fondamentale nella costruzione ideologica del vecchio regime.

Ora si vede che su quella linea si trova perfettamente a suo agio la destra-destra di Salvini e Meloni. C’era stata una interruzione della corsa giustizialista col governo Draghi, che era di ispirazione liberale, anche se molto prudente perché comunque doveva fare i conti con una maggioranza che comprendeva anche i ragazzi di Grillo, e quelli di Salvini e i pezzi meno garantisti del Pd (meno garantisti è un eufemismo….). La parentesi draghiana è finita. Ora però si pongono tre questioni. La prima riguarda il ministro, la seconda riguarda Forza Italia, la terza riguarda il Pd. Il ministro si chiama Carlo Nordio. Ha più di 70 anni e per almeno 40 anni ha militato in quella parte piccola piccola di cultura garantista che sopravviveva in magistratura. Questo giornale ha sostenuto qualche mese fa la sua candidatura al Quirinale, e nei giorni scorso ha sempre accompagnato le critiche al governo e alla Meloni con le lodi a Nordio.

Il ministro, per la verità, ci aveva lasciato assai perplessi quando qualche settimana fa in una bella intervista a Libero aveva introdotto – a sorpresa – delle frasi tutt’altro che garantiste sulla legalizzazione delle droghe leggere e sulla depenalizzazione dei reati legati alle droghe leggere. Ci eravamo preoccupati un po’ ma avevamo continuato a battergli le mani, perché continuava a proclamare principi assolutamente garantisti, tipici della sua impostazione culturale. Così come gli abbiamo battuto le mani non molto più di 24 ore fa quando ha detto che il suo principale problema era il carcere.

Noi pensavamo che lui intendesse dire che si sarebbe impegnato per ridimensionare la funzione del carcere nel sistema delle pene. Invece, forse, intendeva dire tutto il contrario: non come fare uscire un po’ di gente dalla prigione, ma di come tenercela dentro. Il decreto sul 4 bis, oltre che sfidare la Costituzione e la Corte Costituzionale, equivale, sul piano ideologico allo slogan dei giustizialisti più estremi: “buttare la chiave”.  Nordio si allinea a questo slogan? È difficilissimo crederlo. Noi continuiamo a immaginare che sia un equivoco. Non possiamo rassegnarci all’idea che il potere sia una categoria dello spirito così malvagia che in pochi giorni ti si mangia tutto il pensiero. Aspettiamo nelle prossime ore una dichiarazione clamorosa di Nordio, o un suo gesto eclatante, che ci permetta di tornare a stimarlo come abbiamo sempre fatto.

2) Ora è chiarissimo il motivo per il quale Silvio Berlusconi voleva la Casellati e non Nordio al ministero della Giustizia. Berlusconi non si fidava. Voleva una avvocata che conosce bene e della cui saldezza non dubita. Conosceva anche le pulsioni travagliane (o contiste) di Giorgia Meloni e sapeva che per dare equilibrio liberale al governo occorreva che una persona solida e non addomesticabile sedesse a via Arenula (Per la seconda volta negli ultimi mesi devo chiedere scusa alla senatrice Casellati.

Stavolta perché mentre erano in corso le trattative io ero nettamente favorevole a Nordio, e chiaramente mi sbagliavo). Ora però si pone la questione di come si muove Forza Italia. In Parlamento il partito di Berlusconi potrà dare il voto favorevole a questo provvedimento ispirato al più totale bonafedismo e che inverte i passi compiuti dalla ministra Cartabia? Sarebbe una sciagura per i liberali. Una resa. Ci troveremmo senza più argini all’ondata reazionaria.

3) Il Pd si trova ora di fronte a se stesso. E alle scelte di fondo che dovrà compiere durante il suo congresso. Vorrà essere un partito giustizialista, come in buona parte è stato finora, o comunque oscillante, o vorrà realizzare la sua vera svolta, quella liberale e garantista che in nessun modo vuol dire svolta a destra. Il garantismo più rigoroso e radicale non entra mai in contrasto con una politica fortissimamente di sinistra. Io che son vecchio, ho militato nel Pci, mi ricordo di Umberto Terracini e di Alberto Malagugini, due giuristi comunisti in dissenso da sinistra con Berlinguer e Longo, e garantisti, garantisti a cinquecento carati. In tutti i campi del garantismo.

Probabilmente molti degli attuali dirigenti del Pd non conoscono questi due nomi, né quello di Sullo, che fu pure ministro della Giustizia nel ‘46, ma la storia della sinistra italiana, che pure è stata sfregiata dal giustizialismo, contiene in se anche molti elementi garantisti. Il Pd deve scegliere. Vuole andare con Conte a caccia di manette, o vuole costruire una nuova prospettiva socialista, liberale ed egualitarista? Intanto c’è questa prima occasione. Opporsi ventre a terra a questo decreto reazionario. Sfidando Conte e il populismo manettaro. Saprà farlo?

P.S, Non ho scritto dei renziani e dei calendiani perché spero che non ce ne sia bisogno. Non posso pensare che si bonafedizzino pure loro…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Giustizia: l'inizio peggiore che si potesse temere. Nordio tradisce se stesso: diceva una cosa, ora ne fa e ne dice un’altra. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

“Questa norma sull’ergastolo ostativo è figlia dell’insegnamento di Falcone e Borsellino. E’ stata molto osteggiata dalla mafia, che ha inserito la richiesta di abolizione nei vari papelli…”. Ha voluto aprire con queste parole la prima conferenza stampa del primo consiglio dei ministri, Giorgia Meloni. Sulla giustizia e nel modo peggiore delle peggiori previsioni. Anche perché, subito dopo ha aggiunto, come era prevedibile, che il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia sul processo penale non è solo tecnico, ma “servirà anche a valutare” se la normativa non vada modificata in qualche sua parte.

Dispiace dover contraddire, così, nel suo vero primo giorno di governo, la Presidente del consiglio. Non è questione di opinioni, ma di notizie. Né Borsellino né Falcone sono i padri di quella pena di morte sociale che ha preso le vesti, nel 1992, dopo che loro erano stati assassinati, dei reati “ostativi”, e in particolare dell’ergastolo. Anzi, lo stesso Falcone aveva messo mano a un provvedimento che diceva esattamente il contrario, lasciando al condannato sempre una vita d’uscita che non fosse quella della collaborazione. Del resto la Presidente del consiglio, che è entrata in politica proprio per l’emozione provata dopo l’assassinio di Borsellino e ha ricordato i depistaggi di Stato dopo la strage di via D’Amelio e l’uso del finto collaboratore Scarantino, avrebbe tutte le ragioni per diffidare della genuinità di certi “pentimenti”.

E credere di più, come ha mostrato di credere l’ex ministra Cartabia, nella forza di un percorso individuale di cambiamento della persona e nella progressiva presa di distanza da parte del condannato, comprovata dai soggetti che stanno vicini al detenuto nella quotidianità come i giudici di sorveglianza, dal proprio passato di trasgressione. Vogliamo sperare che qualche imbarazzo abbia provato nella conferenza stampa il ministro Nordio, cui la Presidente ha detto di aver “tolto il bavaglio”, alludendo a qualche titolo di giornale che salutava con gioia il fatto che quel cerotto sulle labbra gli fosse stato messo. Come conciliare il pensiero del Nordio-uno, quando definiva l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione”, con il Nordio-due quando ritiene che il Parlamento, con il disegno di legge approvato nei mesi scorsi, abbia accolto alcune “criticità” indicate dalla Corte Costituzionale e la Cedu? Eh no, signor ministro, l’Alta Corte aveva dichiarato l’incostituzionalità, proprio come lei nella fase Nordio-uno. Cioè la norma, e anche la legge approvata dal Parlamento, che è in alcuni punti addirittura peggiorativa rispetto alla norma del 1992, è contro la Costituzione, altro che criticità.

La domanda ora è: l’otto novembre, quando si riunirà per deliberare sulla materia, l’Alta Corte avrà la forza di dire al Parlamento che anche la nuova legge, votata “quasi” all’unanimità perché il partito di Giorgia Meloni, Fratelli d’Italia, si era astenuto, è contro la Costituzione? E che l’Italia sta sprofondando nell’illegalità e ripristinando la pena di morte? Ma un’altra domanda sorge spontanea, dopo aver ascoltato anche le parole del ministro guardasigilli: esisterà ancora la riforma Cartabia sul processo penale dopo il 31 dicembre? La domanda non è inutile, dopo il rinvio deciso dal Consiglio dei ministri delle norme, indispensabili anche per l’osservanza dell’impegno assunto sul Pnrr, che avrebbero dovuto entrare in vigore proprio domani. Rinvio tecnico, apparentemente, anche per dare una mano alle difficoltà espresse nei giorni scorsi dai 26 procuratori generali, soprattutto per i provvedimenti che intervengono sulla fase delle indagini preliminari.

Ma è ormai chiaro che non sarà così, e che interverrà qualche “manina”, come ci avevano già informato i saputelli del Fatto quotidiano con le loro interviste anonime (ah, la passione di consultare i citofoni!) a dirigenti di Fratelli d’Italia ansiosi di fare a pezzetti la riforma già ribattezzata, anche dal Giornale, come “salvaladri” o “svuotacarceri”. Nel mirino del partito talebano, soprattutto la norma che prevede la necessità di querela per perseguire una serie di reati. Il che è apparentemente in linea con quel che ha sempre pensato e anche affermato fino ai giorni scorsi il ministro Nordio. Il quale, poche ore prima che la Presidente del Consiglio Meloni si dichiarasse contraria, aveva lanciato come primo provvedimento del suo nuovo incarico quello della depenalizzazione di una serie di reati. E aveva in seguito fatto proprio l’allarme sulle carceri dopo il suicidio numero settantadue dall’inizio dell’anno. Svuotare le carceri da persone in attesa di giudizio o condannate per pene inferiori a quattro anni è meno ancora che depenalizzare. Perché rinviare, quindi?

Tutta la riforma Cartabia del resto potrebbe essere la fotocopia, o viceversa, del Nordio-pensiero, basterebbe leggere i suoi libri. E buttare via la riforma Cartabia sarebbe veramente un insulto alla speranza di svuotare le carceri, che “ospitano” sempre almeno 5.000 detenuti in più del minimo vitale consentito per respirare, e perché la vita, anche da prigionieri, non sia pura sopravvivenza in attesa dell’ultimo giorno. Ma anche per favorire quella ricucitura, attraverso una sorta di patto tra il reo e lo Stato, spesso più utile delle grida manzoniane e del pugno di ferro nei confronti di chi quello strappo sociale ha prodotto. Su due punti precisi è intervenuta la riforma, il potenziamento delle pene alternative al carcere per condanne medio-basse e l’introduzione di una disciplina che regolamenti la giustizia riparativa. Provvedimenti che dovrebbero stare a cuore anche a coloro che vedono la pena solo in termini securitari, perché sono statisticamente quelli che abbattono la recidiva.

È certo invece che l’intervento ci sarà, e bisognerà vedere se la “manina” che avrà in mano il bisturi sarà quella del Nordio-uno o del suo successore Nordio-due. Ma ci sarà. Del resto bastava leggere la relazione allegata al testo del decreto, nel punto in cui diceva che lo slittamento comporterà anche la possibilità di “analisi delle nuove disposizioni normative, agevolando l’individuazione di prassi applicative uniformi e utili a valorizzare i molti aspetti innovativi della riforma”. Ci si domanda però, visto che neppure la stessa magistratura lo aveva chiesto, perché il ministro abbia sentito la necessità di un rinvio della legge in blocco e non abbia deciso di procedere in modo selettivo. Avrebbe potuto per esempio isolare solo la parte di più complessa applicazione, come quella sulle indagini preliminari. Se il motivo è politico, e se davvero nel nuovo governo c’è il problema di prendere le distanze da quella che fino a ora è stata la miglior guardasigilli, prevediamo tempi duri per il ministro Nordio-uno e l’ esordio del Nordio-due.

Possibile che dovremo assistere a scivolamenti come quello di confondere l’incostituzionalità con la criticità? Tra l’altro un ex procuratore non può non sapere che il differimento di una riforma così attesa anche dagli avvocati comporterà anche un bel po’ di confusione nelle aule di giustizia nelle prossime settimane. E ci saranno centinaia di richieste di rinvio a raffica nei processi, da parte dei difensori di imputati che avevano la speranza per esempio delle misure alternative o sulla nuova causa di non punibilità per la tenuità del fatto, su cui la riforma è intervenuta. E sarà quindi in grado il governo di confermare gli impegni presi in sede di Pnrr con la certezza della riduzione del 25% della durata dei processi entro il 2026? Perché occorre un impegno preciso e che abbia la forza di realizzare quel che è la norma nei Paesi anglosassoni, il cui processo ha ispirato la riforma nel 1989, sulle misure alternative al carcere, per ridurre i tempi.

Resisteranno all’intervento del bisturi della “manina” le quattro tipologie previste dalla riforma, cioè la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità e le pene pecuniarie? Il ministro Nordio ha ricordato il fatto che la vittima per esempio di un furto aggravato, uno dei reati per cui si prevede il passaggio dalla procedibilità d’ufficio a quella su querela, si limita alla denuncia, non sapendo di doversi anche querelare, magari anche solo contro ignoti. Ma la riforma aveva fissato un tempo congruo perché tutti fossero informati del cambiamento. Che cosa succederà adesso? Se nelle more di questi due mesi si ascolteranno le trombe di chi ha definito la riforma Cartabia una “salvaladri”, avremo ancora la speranza di ritrovare quel Nordio-uno, quello che voleva avviare una grande campagna di depenalizzazione, quello sensibile ai suicidi in carcere, quello in cui avevamo riposto tante speranze, o via Arenula sarà occupata dagli amici di Travaglio?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Colpi di picconate alla riforma Cartabia. Ira dei penalisti sul 4bis: “Sfregio alla Corte Costituzionale”. Angela Stella su Il Riformista l'1 Novembre 2022 

Ieri il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge contenente, tra le altre, misure urgenti in materia di ergastolo ostativo e rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale al 30 dicembre. Due reazioni opposte da parte di magistratura e avvocatura. Positiva da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati, negativa dall’Unione delle Camere Penali Italiane.

Giuseppe Santalucia, vertice del sindacato delle toghe, ha infatti dichiarato: «Il ministro della Giustizia e l’intero Governo hanno fortunatamente dato ascolto alle indicazioni della magistratura associata in ordine all’opportunità di una disciplina transitoria per importanti settori della recente riforma del processo penale. Il rinvio dell’entrata in vigore del decreto attuativo si pone infatti come passaggio necessario alla definizione della disciplina transitoria e – questione di non minore rilievo – al riassetto organizzativo degli uffici giudiziari. Nel rispetto del complessivo impianto della riforma, che contiene innovazioni significative specie sul versante del sistema sanzionatorio, occorrerà ora adoperarsi affinché il suo concreto avvio non soffra rallentamenti interpretativi e non patisca ostacoli organizzativi», ha concluso Santalucia.

Per quanto concerne il fine pena mai, lo stesso Santalucia all’Ansa ha detto: «Una normativa ci voleva, credo che abbiano attinto a quella approvata da un ramo del Parlamento con qualche modifica. Capisco l’urgenza perché l’8 novembre ci sarà l’udienza della Corte costituzionale» e dunque «non mi sento di condividere il giudizio tranchant degli avvocati penalisti. Sul merito non mi sento di esprimermi- ha aggiunto-. Una disciplina comunque doveva esserci, ne discuteremo, ci sono 60 giorni di tempo per la conversione e se ci sarà da intervenire lo faremo». Critiche invece dall’Unione delle Camere Penali Italiane che hanno redatto un duro documento: «Le addotte (seppure del tutto genericamente) difficoltà di ordine strutturale e logistico degli uffici giudiziari certamente non possono riguardare tutta la parte della riforma dedicata al sistema sanzionatorio e della esecuzione penale.  La pretestuosa estensione anche a questa importante parte della riforma di esigenze di natura organizzativa, qui del tutto irrilevanti, autorizza la convinzione che detto ingiustificato rinvio preluda ad una riscrittura di questa parte della riforma, attesa la sua evidente incompatibilità con la fosca narrazione identitaria del ‘buttare la chiave’ che, all’evidenza, vuole ispirare i primi passi del nuovo governo in tema di giustizia penale».

Sulla questione dell’ergastolo ostativo la Giunta dell’Ucpi ha scritto: «Il Parlamento è stato inadempiente, ed ora la mera pendenza della udienza fissata dalla Corte per il prossimo 8 novembre non può certo tramutarsi in una ragione di urgenza, trattandosi di un esito chiaro e noto sin dalla pronuncia della ordinanza, e già prorogato una volta. Al contrario, con il pretesto della urgenza in realtà si punta a sterilizzare la decisione della Corte, che peraltro si troverà comunque di fronte ad un provvedimento di natura provvisoria perché in via di conversione».

Riguardo al merito della norma, che ricalca sostanzialmente il testo approvato dalla Camera a marzo, i penalisti sono entrati nel merito: «il d.l. propone un inammissibile peggioramento -rispetto a quello già oggetto della valutazione di incostituzionalità della Corte- del quadro normativo in tema di ostatività ed accesso alle misure alternative alla detenzione. In tal modo si pone in essere un inedito, gravissimo conflitto tra il legislatore ed il giudice delle leggi, un vero atto di ribellione del primo verso il secondo, in spregio degli assetti istituzionali e costituzionali che regolano quel rapporto. Inoltre, si opera una inammissibile manipolazione informativa verso la pubblica opinione, rappresentando le misure adottate come riferibili in via esclusiva all’ergastolo ostativo e ai reati di mafia. le misure peggiorative introdotte riguardano tutti i reati ostativi, a cominciare dai reati contro la pubblica amministrazione».

Sullo stesso piano il commento dell’associazione Antigone: «La riforma approvata è un’occasione parzialmente persa», ha detto il presidente Patrizio Gonnella, che ha proseguito: «Il governo è rimasto imprigionato nella paura di fare un regalo alle mafie, innovando in modo non sufficiente la legislazione penitenziaria. È mancato un generale ripensamento dell’attuale disciplina della concessione dei benefici ai condannati per una serie del tutto eterogenea ed illogica di reati anche ben distanti da qualsiasi matrice organizzata, mafiosa o terroristica. Nel decreto c’è finanche un inutile aggravamento di tale disciplina». E ha concluso: «Vedremo se la Corte potrà dirsi soddisfatta. Ricordiamo che sul tema si era espressa anche la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo (Viola c. Italia) segnalando la necessità di un ripensamento dell’ergastolo ostativo. La sicurezza del Paese non è a rischio se i giudici di sorveglianza, nell’esercizio discrezionale delle loro funzioni, possono in casi ritenuti meritevoli favorire percorsi di rientro controllato nella vita libera dopo decenni di carcere. Uno Stato forte e autorevole non teme i propri giudici né deve auspicare la morte in prigione di nessuno». Angela Stella

Carcere ostativo, le nuove norme e a chi vanno applicate. Egidio Lorito su Panorama l'1 Novembre 2022.

Nel primo decreto del Governo Meloni approvata una norma contro i permessi per chi ha commesso reati molto gravi, soprattutto legati alla criminalità organizzata

Con la pubblicazione del decreto legge n. 162 del 31 ottobre su “ergastolo ostativo” e riforma dell’ “ordinamento penitenziario” , rinvio della “riforma Cartabia” , disciplina dei c.d. “rave party” e nuovo articolo 434 bis del codice penale introduttivo del reato di “invasione dei terreni o degli edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica” , è ufficialmente iniziata l’attività del Governo Meloni. Ieri, infatti, attorno alle tredici, il primo Consiglio dei Ministri ha visto la giustizia grande protagonista della nuova era politica targata Giorgia Meloni: e la discussione più attesa è stata, certamente, quella legata al mantenimento del c.d. “ergastolo ostativo” , ovvero quel particolare tipo di regime penitenziario previsto dall’art. 4 bis del relativo Ordinamento penitenziario che esclude in radice, dall’applicabilità dei benefici penitenziari, chi si sia reso protagonista di reati di particolare allarme sociale, ricompresi in un elenco riportato al primo comma della stessa disposizione: ovvero di fattispecie in cui il reo, condannato, si rifiuti di collaborare con la giustizia o di casi in cui la collaborazione stessa si riveli del tutto irrilevante ai fini del ristabilimento dello “status quo ante”. In pratica la permanenza dell’ergastolo ostativo vieta che il detenuto, condannato per particolari e gravi fattispecie di reato, possa usufruire -ad esempio- di un permesso premio come la semilibertà, salvo che lo stesso collabori con la giustizia. Ricordiamo che nella disciplina ordinaria l’accesso al beneficio della semilibertà, disciplinato dall’art. 50 dell’ordinamento penitenziario, dispone che per i condannati all’ergastolo la concessione sia subordinata all’aver già scontato 20 anni di pena. Chi riguarda l’istituto dell’ergastolo ostativo La figura dell’ergastolo ostativo vede come destinatari chi ha ricevuto la pena dell’ergastolo dopo essere stato giudicato colpevole di delitti di mafia e terrorismo, così come di eversione dell’ordine democratico; ovvero di delitti compiuti con atti di violenza, che hanno riguardato la pedopornografia, la prostituzione minorile, la tratta di persone, la riduzione o il mantenimento in schiavitù, la violenza sessuale di gruppo e il sequestro di persona a scopo di estorsione. In queste particolari ipotesi, tutte caratterizzate dal particolare allarme sociale, la pena viene scontata interamente all’interno dell’istituto carcerario, caratterizzandosi per la sua natura di perpetuità: l’ergastolo, cioè si trasforma nel c.d. “fine pena mai” , senza la possibilità che possa avere effetto l’ipotetico ravvedimento del reo. Da punto di vista prettamente penalistico il sistema in oggetto manifesta una particolare presunzione di legge, ovvero quella assoluta della “pericolosità sociale” del detenuto, tratta proprio dalla particolare gravità del reato commesso per il quale è stato condannato. Tra i reati ricompresi al primo comma dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario risaltano, a titolo esemplificativo, quelli commessi con violenza per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico, quelli di associazione mafiosa (art. 416-bis c.p.), quelli delitti commessi col metodo mafioso o per agevolare l'attività di tali associazioni e il c.d. voto di scambio politico-mafioso. La procedura La procedura per la concessione dei benefici penitenziari in parola ad un condannato alla pena dell’ergastolo è piuttosto articolata: il giudice di sorveglianza dovrà obbligatoriamente raccogliere una serie di pareri (quelli del pubblico ministero naturale del processo, del Procuratore nazionale antimafia, vista la materia afferente ai reati di mafia e terrorismo, e dello stesso istituto penitenziario dove la persona è detenuta) e procedere a controlli anche delle condizioni economiche del condannato nonché del suo nucleo familiare e dei suoi conoscenti. La normativa prevede che nel caso in cui tali pareri e accertamenti non dovessero arrivare nel termine di 90 giorni dalla richiesta, il giudice sarà in ogni caso obbligato a prendere una decisione motivata. Inoltre la stessa la Guardia di finanza sarà incaricata della “verifica della relativa posizione fiscale, economica e patrimoniale” per come evidenziato. Oltre ai criteri stringenti già elencati, il decreto legge n. 162/2022 ieri licenziato prevede anche che le persone condannate all’ergastolo non possano accedere ai benefici penitenziari prima di aver scontato almeno 30 anni di pena in carcere. In caso di condanne inferiori all’ergastolo, andranno scontati comunque due terzi della pena. Inoltre è previsto per chi decide di non collaborare che l’accesso alla libertà condizionale e altri benefici sia limitato e arrivi solo dopo molto tempo.

L’importanza della materia per il governo Meloni Attualmente sarebbero circa 1200 i detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per reati di mafia e terrorismo a trovarsi sottoposti al regime dell’ergastolo ostativo. Il decreto legge sull’ergastolo ostativo è considerato dal governo Meloni “uno strumento essenziale” finalizzato a contrastare la criminalità organizzata, in particolar modo “prioritario” e “urgente” visto che il prossimo 8 novembre è in programma l’udienza innanzi alla Corte costituzionale finalizzata alla trattazione delle questioni di legittimità costituzionale afferenti le norme della disciplina. Non potrà sfuggire la circostanza che il testo approdato innanzi a questo primo Consiglio dei Ministri sia esattamente sovrapponibile al disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura (la XVIII, dunque): in pratica, ora come allora si mira ad impedire la possibilità che i mafiosi possano essere scarcerati “facilmente” , consentendo cioè che usufruiscano di benefici penitenziari quei condannati che abbiano dimostrato “una condotta risarcitoria” e “la cessazione dei loro collegamenti” con la criminalità organizzata. Chiamato a questa prima prova del fuoco, dunque, il Governo Meloni si è trovato innanzi ad una vera e propria corsa ad ostacoli per assicurare, nella migliore tradizione, la tranquillità sociale, impedendo che il mafioso condannato e detenuto possa lasciare il carcere. L’intervento della Corte Costituzionale Un anno fa, la Consulta aveva definito l'ergastolo ostativo “incompatibile” con gli articoli 3 e 27 della Costituzione che regolano i principi di uguaglianza e di funzione rieducativa della pena, e con il divieto di pene degradanti per come stabilito dalla Convenzione europea dei diritti umani: i giudici costituzionali avevano, così, sollecitato il Parlamento a intervenire sulla materia, fissando il termine all’otto novembre del 2022. Dichiarando l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo attraverso una ordinanza -che è atto non definitivo-, la Corte aveva previsto quindi un arco di tempo affinché il legislatore intervenisse a riformare l’istituto secondo le indicazioni dei giudici costituzionali, in modo da organicizzare la disciplina all’ordinamento giuridico. Ecco spiegato perché il governo ha inteso agire, a sua volta, con un’iniziativa urgente, ovvero il decreto legge ieri licenziato

Ergastolo ostativo, Meloni sfida la Consulta: niente benefici a chi non collabora. Al primo Consiglio dei ministri dell'era Meloni si punta alla conferma dell'ergastolo ostativo e al rinvio della riforma Cartabia. Ma per Carlo Nordio, l'articolo 4 bis è «un'eresia». Riuscirà a convincere la presidente a non smantellare lo Stato di diritto? Simona Musco il 29 Ottobre 2022 su Il Dubbio.

Sull’ergastolo ostativo Giorgia Meloni sfida la Consulta, con un decreto legge che prevede zero benefici per chi non collabora. La presidente del Consiglio mette così il turbo, portando a Palazzo Chigi un provvedimento che anticipa la decisione della Corte costituzionale, che l’8 novembre deciderà sulla legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Secondo quanto appreso dall’Ansa, l’esecutivo starebbe lavorando infatti a un provvedimento urgente che porterebbe a una stretta dei «benefici penitenziari» con il «divieto di concessione» per chi non collabora con la giustizia, oltre a introdurre una proroga (probabilmente a fine anno) dell’entrata in vigore della riforma penale che dovrebbe scattare dal 1 novembre.

Il decreto in Consiglio già lunedì 

Il decreto, ancora in via di limatura e che sarà al vaglio del pre-consiglio lunedì mattina, potrebbe quindi avere l’ok già lunedì, quando il Cdm dovrebbe riunirsi per la nomina di viceministri e sottosegretari. Una mossa, dunque, che spazzerebbe via la pronuncia della Consulta, che ad aprile dello scorso anno ha stabilito l’illegittimità parziale della disciplina ostativa, in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove fa della collaborazione la sola via, per il condannato, di recuperare la libertà.

Il giudice delle leggi aveva concesso oltre un anno di tempo al Parlamento per adeguare le norme, con «interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi». Ma finita la legislatura, le Camere hanno lasciato il lavoro incompiuto, senza riuscire ad approvare una nuova disciplina e lasciando la palla di nuovo in mano alla Consulta, che nel frattempo, scaduto l’anno concesso al legislatore, ha rinviato ulteriormente la trattazione delle questioni di legittimità dell’articolo 4 bis al prossimo 8 novembre. 

FdI vuole smantellare l’articolo 27 della Costituzione

Il testo che lunedì verrà sottoposto al Consiglio dei ministri ricalca il disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati e punta a evitare «le scarcerazioni facili dei mafiosi»: per accedere ai benefici penitenziari sarà necessario dimostrare una condotta risarcitoria e la cessazione dei collegamenti con la criminalità organizzata. «Una corsa contro il tempo – è il ragionamento del governo – per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo».

Il decreto legge pensato da Meloni farebbe così il paio con la proposta di modifica dell’articolo 27 della Costituzione già avanzata da FdI con il deputato Edmondo Cirielli, che lo scorso 13 ottobre ha depositato alla Camera una proposta di modifica costituzionale finalizzata a «limitare la finalità rieducativa» e «salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”». Un tentativo, quello di Cirielli, che parte da lontano, ovvero dal 2013, con lo scopo di smantellare uno degli articoli della Costituzione più importanti dal punto di vista dell’impianto dello Stato di diritto, ma mai pienamente attuato.

Sul tema dell’ergastolo ostativo Meloni è sempre stata chiara: modificare la norma, secondo la leader di Fratelli d’Italia, significherebbe fare un favore ai mafiosi. Da qui la strenua difesa di uno strumento, scriveva il 25 luglio ricordando il suo impegno per Paolo Borsellino, che, «impedendo ai condannati per mafia non collaboranti di ottenere qualsiasi beneficio di legge e sconto di pena, permette di perseguire due obiettivi: da una parte incentivare i mafiosi a collaborare con la giustizia; dall’altra impedire a coloro che non recidono i legami con il mondo mafioso di ritornare, seppur parzialmente, in società». 

Fratelli d’Italia aveva già presentato due proposte di legge nella scorsa legislatura per ribadire il suo no ai benefici per chi non collabora e «per salvare i principi ispiratori dell’ergastolo ostativo e per impedire che chi non ha dato prova effettiva di aver tagliato i propri ponti con la mafia possa tornare libero. Non possiamo darla vinta a Totò Riina, che aveva messo proprio la cancellazione di questo istituto tra i punti del famoso “papello” di richieste allo Stato per fermare le stragi. Fratelli d’Italia si sta battendo anche per il mantenimento del carcere duro, il 41 bis, che negli anni sta diventando sempre più un colabrodo. La mafia continua a spingere per rendere più morbido il trattamento penitenziario dei detenuti». 

Meloni chiede “aiuto” all’opposizione

 Nel suo discorso alla Camera, la presidente del Consiglio ha ribadito il concetto, chiedendo “aiuto” anche all’opposizione. «Ci vogliamo lavorare insieme? – ha chiesto Meloni – Spero che si possa lavorare insieme nei prossimi giorni per impedire che venga meno uno degli istituti che sono stati più efficaci contro la mafia che è il carcere ostativo. Spero che su questo ci si voglia dare una mano perché sono d’accordo: la questione della lotta alla mafia non è un tema di retorica, è un tema che si affronta con provvedimenti concreti».

 Ma per Nordio si tratta di «un’eresia» 

Per Meloni si tratta però di un terreno scivoloso, anche alla luce del dichiarato garantismo del neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, che sul tema delle carceri sembra pensarla in maniera nettamente diversa rispetto alla leader che lo ha voluto a via Arenula: per l’ex procuratore aggiunto di Venezia la pena non è, infatti, soltanto carcere.

E nell’ultimo libro del direttore del Foglio, Claudio Cerasa, l’ex toga aveva spiegato che «l’ergastolo ostativo, il principio cioè che al reo non venga concessa la possibilità di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione. Bisogna strutturare la legge in modo che l’ergastolo possa rimanere come principio ma bisogna anche ricordarsi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Spiace per chi a destra la pensa così, ma il punto è evidente: il fine pena mai non è compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto». Riuscirà il ministro della Giustizia a convincere la presidente del Consiglio a non smantellarlo? 

Gli altri due punti all’ordine del giorno 

Sempre sul tema della giustizia, lunedì verrà affrontato il rinvio al 30 dicembre 2022 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni della “Riforma Cartabia”, raccogliendo dunque l’appello lanciato dai procuratori generali di tutta Italia con una lettera indirizzata al ministro Nordio. Il provvedimento intende rispettare le scadenze del Pnrr e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari.

Il terzo punto, infine, l’anticipo al 1 novembre 2022 della scadenza dell’obbligo vaccinale per chi esercita la professione sanitaria e la conseguente abrogazione delle sanzioni per l’inosservanza dell`obbligo. «L’obiettivo – è il ragionamento – è dare seguito all’indicazione tracciata dal presidente Meloni nelle sue dichiarazioni programmatiche rese in Parlamento e segnare così un primo atto di discontinuità, rispetto ai precedenti esecutivi, nella gestione della pandemia da Covid-19».

Carcere, l’appello di Woodcock: «Non assecondiamo chi vuole buttare la chiave». Il magistrato napoletano: «Si recuperi il principio di residualità dell'azione penale». Simona Musco Simona Musco il 29 Ottobre 2022 su Il Dubbio.

«Spesso per il pubblico ministero è più facile e meno impegnativo chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato, piuttosto che articolare una ben argomentata richiesta di archiviazione, e per il giudice è altrettanto meno impegnativo disporre il rinvio a giudizio, piuttosto che redigere una sentenza di non luogo a procedere».

Difficile immaginare che a dire queste parole sia proprio un pubblico ministero. Specie se il magistrato in questione è uno dei più in vista, come Henry John Woodcock, sostituto procuratore presso la Dda di Napoli e candidato da indipendente alle ultime elezioni del Csm.

Un’autocritica che conferma uno dei rimproveri più volte rivolti dai “garantisti” alla magistratura, ovvero quello di “innamorarsi” delle proprie inchieste, al punto da non poter fare un passo indietro. E se non si tratta di amore, stando all’intervento di Woodcock sul Corriere del Mezzogiorno, l’alternativa è che si tratti di vera e propria pigrizia.

Per il magistrato napoletano, i problemi del sistema non sono legati ai tempi elefantiaci della giustizia – che pure ci sono –, quanto al numero di processi celebrati. Ce ne sono troppi, spesso per fatti «di modestissima rilevanza penale», e sono tanti anche «quelli che si celebrano – bisogna autocriticamente ammetterlo – anche per fatti in ordine ai quali il pubblico ministero non avrebbe dovuto a monte promuovere l’azione penale, o per i quali il Giudice dell’udienza preliminare, a valle, non avrebbe dovuto disporre il rinvio a giudizio». 

Sì alla depenalizzazione

Un concetto fortissimo che rappresenta anche un’apertura nei confronti di quelle che sono le dichiarate intenzioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, ovvero una forte depenalizzazione, nei confronti della quale ha mostrato apprezzamento anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia.

E anche secondo il magistrato del caso Consip, «solo l’effettivo e concreto recupero del principio di residualità della sanzione penale (attraverso una drastica depenalizzazione), unito alla acquisizione da parte del giudice dell’udienza preliminare della piena consapevolezza della propria funzione di “sbarramento” rispetto a processi inutili, consentirà al nostro sistema penale di fare davvero un passo avanti». Parole che confermano un sospetto: quello di un appiattimento del gup – e prima di lui anche del gip – sulle ragioni dell’accusa. 

«Le carceri sono disumane» 

Ma nel Woodcock-pensiero rientra anche un altro aspetto, molto caro al ministro Nordio: la situazione delle carceri. «Parlo delle condizioni in cui si trovano attualmente i detenuti – scrive il magistrato -, condizioni che, in molti casi, non esiterei a definire “disumane”, o comunque assai lontane da quegli obiettivi che la stessa Costituzione assegna alla sanzione penale».

Il problema è sì legato all’edilizia carceraria, ma è ben più «drammatico» il dato che riguarda il sovraffollamento, «legato ad un eccessivo tasso di carcerazione, che interessa tradizionalmente soprattutto soggetti provenienti, tanto per usare un eufemismo, dalle fasce sociali più sfavorite». Insomma, un uso eccessivo della custodia cautelare che colpisce soprattutto i più deboli. Nordio, da promotore dei referendum sulla «giustizia giusta» si è schierato in favore di una limitazione di tale strumento. Ma sul punto la presidente del Consiglio ha già chiarito di non essere disposta a concedere deroghe.

E mentre per il ministro il carcere non è l’unica pena possibile, nelle fila di FdI si lavora ad una modifica dell’articolo 27 della Costituzione, con lo scopo di «limitare la finalità rieducativa» e «salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”». Ora a confermare che la strada da seguire è un’altra è anche Woodcock, con la speranza che Nordio «voglia inserire nella sua agenda il tema delle carceri immediatamente, conferendo a tale tema assoluta priorità, cercando a tale riguardo di resistere il più possibile alle pur prevedibili controspinte che su tale argomento verranno da quella parte dell’elettorato di centrodestra che ritiene che basti “buttar le chiavi” per risolvere qualunque problema».

Alfredo Cospito: un anarchico detenuto al 41 bis come i mafiosi. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 26 ottobre 2022.

Nella mattina di martedì 25 ottobre un gruppo di anarchici ha occupato la sede di Amnesty International di Roma per mostrare solidarietà ad Alfredo Cospito, anarchico detenuto in Sardegna in regime di 41 bis a causa delle relazioni epistolari che intratteneva con altri anarchici e con riviste affini. Cospito si trova in carcere da dieci anni con l’accusa di strage contro la pubblica incolumità per aver piazzato, nel 2006, due ordigni a basso potenziale presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), la cui esplosione non ha causato vittime. Lo scorso luglio, tuttavia, la Cassazione ha riformulato il capo d’imputazione a suo carico, accusando ora l’anarchico di strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale), reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo (il cosiddetto “fine pena mai”), pur in assenza di vittime. Per intendersi, quella della strage contro la sicurezza dello Stato, è una aggravante che non è stata contestata nemmeno agli autori degli attacchi che uccisero i giudici Falcone e Borsellino. Il 20 ottobre scorso Cospito ha iniziato uno sciopero della fame in segno di protesta conto il regime detentivo al quale è stato sottoposto e contro l’ergastolo ostativo.

Il regime del 41bis, ovvero il cosiddetto “carcere duro”, pensato per costituire uno strumento di contrasto alla criminalità organizzata, è stato introdotto nel 1992 in coincidenza con il periodo di massima diffusione delle stragi mafiose. Ai soggetti che si trovano in tale regime detentivo vengono applicate una serie di restrizioni volte a impedire il contatto con esponenti della criminalità organizzata all’esterno del carcere: una delle condizioni perché venga applicato, oltre alla commissione di uno dei delitti “di mafia”, è la comprovata presenza di “elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica ed eversiva”. A motivare l’applicazione di tale regime detentivo per Cospito sono le relazioni epistolari che questi ha intrattenuto, nei dieci anni già trascorsi in carcere, con anarchici e riviste del medesimo orientamento politico, attività mai nascosta alle autorità carcerarie ma che gli è valsa comunque almeno tre iniziative giudiziarie per il reato di istigazione a delinquere. La decisione di sospendere all’improvviso le garanzie che gli erano state concordate, dunque, appare «ingiustificata» secondo il suo avvocato, Flavio Rossi Albertini, il quale ha sottolineato come tale deliberazione sembri voler impedire all’anarchico di continuare a «esternare il proprio pensiero politico». Appare deducibile, come sottolineato dallo stesso Albertini in un’intervista, che i giudici torinesi abbiano qualificato la Fai (Federazione anarchica informale), della quale Cospito è stato riconosciuto far parte, «come una vera e propria organizzazione».

A queste considerazioni va aggiunto il fatto che la fattispecie di reato recentemente contestata a Cospito (strage contro la sicurezza dello Stato) costituisce una delle più gravi del nostro ordinamento e, come accennato, non vi è stato fatto ricorso nemmeno nel caso delle stragi di Capaci e di via d’Amelio, nelle quali la mafia uccise prima Giovanni Falcone e la moglie e poi Paolo Borsellino, insieme agli agenti delle rispettive scorte.

“Alfredo si trova in carcere ininterrottamente da dieci anni, trascorsi nelle sezioni di Alta Sicurezza fino al trasferimento in 41 bis. Nel 2016 è stato coinvolto nell’operazione Scripta Manent, accusato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo e di molteplici attacchi esplosivi. A seguito della sentenza di Cassazione del luglio di quest’anno, è stata riformulata la condanna per lo stesso Alfredo e per Anna Beniamino in ‘strage politica’, la cui unica pena prevista è l’ergastolo. Lo Stato italiano che ha sempre protetto gli stragisti fascisti ora vuole condannare per strage due anarchici per un attacco che non ha provocato né vittime né feriti” scrivono in un comunicato alcuni anarchici. “Vogliamo che si comprenda anche all’estero che la china repressiva che sta prendendo lo Stato italiano riguarda tutti in prima persona, dato che un precedente di queste dimensioni nel cuore dell’Europa potrebbe essere foriero di ulteriori balzi repressivi anche ad altre latitudini”. [di Valeria Casolaro]

Storia di Alfredo, l’anarchico al 41-bis: un atto totalmente fuori legge. Luigi Manconi su Il Riformista il 26 Ottobre 2022 

Caro Direttore,

la letteratura sul 41-bis si fa via via sempre più nutrita, assumendo i connotati del genere horror. Emerge un interrogativo: esiste un limite all’esecuzione della pena e alla sua afflittività? Viene da chiederselo ripercorrendo la vicenda di Alfredo Cospito, che ha intrapreso lo sciopero della fame all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime di 41-bis al quale è sottoposto dall’aprile scorso, dopo sei anni in Alta Sicurezza. Cospito è un anarchico condannato per strage perché così prevede il dispositivo del reato, anche se l’attentato in questione non ha provocato conseguenze letali.

Nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), esplodono due pacchi bomba a basso potenziale che non determinano morti, feriti o danni gravi. Per questo, la Corte d’Assise d’Appello ha qualificato il fatto come strage (art. 422 del Codice penale): delitto contro la pubblica incolumità, che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. Successivamente, nel luglio scorso, la Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del Codice penale), condannando Alfredo Cospito e Anna Beniamino all’ergastolo.

Il verdetto è palesemente abnorme, tanto più se si considera che non si è fatto ricorso a quella fattispecie penale – come ricorda Damiano Aliprandi sul Dubbio – nemmeno nei casi di attentati quale quello di Capaci, che ha provocato la morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta, e quello di via D’Amelio contro Paolo Borsellino. Tuttavia, nell’immediato, tenuto conto dell’azione non violenta intrapresa da Cospito l’attenzione va concentrata sulle sue condizioni di reclusione. Fino all’aprile scorso, pur sottoposto al regime di Alta Sicurezza, il detenuto poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e così partecipare al dibattito della sua area politica, contribuire alla realizzazione di due libri, scrivere e ricevere corrispondenza. Poi tutto è cambiato.

Da sette mesi le lettere in entrata vengono trattenute e questo, di conseguenza, induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria sono ridotte a due, interamente trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, da passare con tre detenuti. In realtà, con uno soltanto, dal momento che un secondo si trova in isolamento diurno e un altro ormai non esce più dalla propria cella.

La conseguenza di tutto ciò è un sistema di vera e propria deprivazione sensoriale: il perimetro dello spazio destinato all’ora d’aria è delimitato da muri alti che interdicono lo sguardo, e la visione del cielo è filtrata da una rete di metallo. «La mancanza di profondità visiva incide sulla funzionalità del senso della vista – scrivono gli avvocati Rossi Albertini e Pintus – e la mancanza di sole limita l’assunzione della vitamina D».

Lo stato di deprivazione sensoriale viene in genere scarsamente considerato, eppure è una delle più efferate conseguenze della natura nociva e patogena del carcere; oltre alle condizioni igienico-sanitarie spesso degradanti. La limitazione dei movimenti e gli orari imposti d’autorità, l’impossibilità di avere scambi e rapporti liberi, la determinazione dall’esterno dei ritmi quotidiani di vita e il controllo sugli spazi più intimi: tutto ciò produce una “postura del carcerato” che finisce inevitabilmente con l’ottundere e deprimere la personalità.

Si tratta, in tutta evidenza, di una condizione totalmente illegale e di uno stravolgimento della lettera e del senso della legge che affida al regime di 41-bis il solo ed esclusivo scopo di impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna alla quale apparterrebbe. Tutto ciò che eccede tale finalità è fuori legge. Che cosa ha a che vedere, infatti, con la ratio della norma il blocco della corrispondenza o quella miserabile apparenza di ora d’aria e di “socialità”? Luigi Manconi

Articolo 41-bis. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

L'articolo 41-bis è una disposizione dell'ordinamento penitenziario italiano introdotta dalla legge 10 ottobre 1986, n. 663, che prevede un particolare regime carcerario.

Storia.

La disposizione venne introdotta dalla cosiddetta legge Gozzini, che modificò la legge 26 luglio 1975, n. 354, ed era in origine applicabile solo a casi di emergenza interne alle carceri, secondo il testo: "In casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia ha facoltà di sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti e degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessità di ripristinare l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente necessaria al conseguimento del fine suddetto". In seguito nel 1992, dopo la strage di Capaci in cui perse la vita Giovanni Falcone, all'articolo si aggiunse un secondo comma disposto con il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (cosiddetto Decreto antimafia Martelli-Scotti), convertito nella legge 7 agosto 1992, n. 356. Con la nuova disposizione, in presenza di "gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica", si consentiva al Ministro della Giustizia di sospendere le garanzie e gli istituti dell'ordinamento penitenziario, per applicare "le restrizioni necessarie" nei confronti dei detenuti per mafia, con l'obiettivo di impedire il passaggio di ordini e comunicazioni tra i criminali in carcere e le loro organizzazioni sul territorio.

La misura aveva quindi carattere temporaneo, infatti la sua efficacia era limitata a un periodo di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione. Tuttavia, fu prorogata una prima volta fino al 31 dicembre 1999, una seconda volta fino al 31 dicembre 2000 e una terza volta fino al 31 dicembre 2002. Il 24 maggio 2002 il Governo Berlusconi II deliberò un disegno di legge di modifica degli articoli 4-bis e 41-bis dell'ordinamento penitenziario, poi approvato dal Parlamento come Legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), abrogando la norma che sanciva il carattere temporaneo di tale disciplina e prevedendo che il provvedimento ministeriale non potesse essere inferiore a un anno né superare i due anni, con eventuali proroghe successive di solo un anno ciascuna. Inoltre, il regime di carcere duro venne esteso anche ai condannati per terrorismo ed eversione. La legge 15 luglio 2009, n. 94 ne ha cambiato di nuovo i limiti temporali, tuttora in vigore: il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna. Secondo le nuove regole i detenuti possono incontrare senza vetro divisore i parenti di primo grado inferiori a 12 anni di età, ma resta il divieto alla detenzione di libri e giornali, tranne particolari autorizzazioni.

Caratteristiche.

La norma prevede la possibilità per il ministro della Giustizia di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento dei detenuti previste dalla legge in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza per alcuni detenuti (anche in attesa di giudizio) incarcerati per reati di criminalità organizzata, terrorismo, eversione e altri tipi di reato.

Il comma 2-quater dell'art. 41- bis prevede che «i detenuti sottoposti al regime speciale di detenzione» siano «ristretti all'interno di istituti a loro esclusivamente dedicati, collocati preferibilmente in aree insulari, ovvero comunque all'interno di sezioni speciali e logisticamente separate dal resto dell'istituto…». In tal modo è stata recepita dalla legge - e, soprattutto, resa assolutamente inderogabile - la prassi seguita in linea di massima dall'Amministrazione penitenziaria, sin dai primi anni novanta, di allocare in apposite e selezionate strutture penitenziarie i detenuti in questione.

Soggetti destinatari.

Il regime si applica a singoli detenuti ed è volto a ostacolare le comunicazioni degli stessi con le organizzazioni criminali operanti all'esterno, i contatti tra appartenenti a una stessa organizzazione all'interno di un carcere e i contatti tra gli appartenenti a diverse organizzazioni criminali, così da evitare il verificarsi di delitti e garantire la sicurezza e l'ordine pubblico anche fuori dalle carceri.

Misure applicabili.

La legge specifica le misure applicabili:

Isolamento nei confronti degli altri detenuti. Il detenuto è situato in una camera di pernottamento singola e non ha accesso a spazi comuni del carcere

L’ora d’aria è limitata (concessa solamente per alcune tipologie di reato) - rispetto ai detenuti comuni - a due ore al giorno e avviene anch'essa in isolamento.

Il detenuto è costantemente sorvegliato da un reparto speciale del corpo di polizia penitenziaria il quale, a sua volta, non entra in contatto con gli altri poliziotti penitenziari.

Limitazione dei colloqui con i familiari (anch’essi concessi solamente per alcune tipologie di reato) per quantità (massimo uno al mese della durata di un'ora) e per qualità (il contatto fisico è impedito da un vetro divisorio a tutta altezza). Solo per coloro che non effettuano colloqui può essere autorizzato, con provvedimento motivato del direttore dell'istituto, un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti.

Nel caso di colloqui con l’avvocato difensore i colloqui non hanno limitazioni in ordine di numero e durata.

Visto di controllo della posta in uscita e in entrata.

Limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere tenuti nelle camere di pernottamento (penne, quaderni, bottiglie, ecc.) e anche negli oggetti che possono essere ricevuti dall'esterno.

Esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati.

La Corte di cassazione, con ripetute sentenze, ha riconosciuto la legittimità della circolare del 2011 e della regolamentazione che essa prevede.

Delitti puniti

Il "carcere duro" è applicabile per taluno dei delitti indicati dall'articolo 41-bis della legge penitenziaria:

delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza;

delitto di associazione per delinquere di tipo mafioso;

delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'associazione mafiosa ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni mafiose;

delitto di riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù;

prostituzione minorile, consistente nell'indurre alla prostituzione una persona di età inferiore agli anni diciotto ovvero nel favorirne o sfruttarne la prostituzione;

delitto di chi, utilizzando minori degli anni diciotto, realizza esibizioni pornografiche o produce materiale pornografico ovvero induce minori di anni diciotto a partecipare ad esibizioni pornografiche e chi fa commercio del materiale pornografico predetto;

delitto di tratta di persone;

delitto di acquisto e alienazione di schiavi;

delitto di violenza sessuale di gruppo;

delitto di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione;

delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri;

delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope.

Casi di revoca del regime

Il tribunale di sorveglianza ha revocato l'applicazione della misura nei confronti di Michele Aiello, posto ai domiciliari in quanto sofferente di favismo, e a Antonino Troia.[5]. In entrambi i casi la presidente dell'Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili Giovanna Maggiani Chelli ha contestato la decisione.

Critiche

Le reazioni internazionali

Nel 1995 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (C.P.T.) ha visitato le carceri italiane per verificare le condizioni di detenzione dei soggetti sottoposti al regime ex art. 41-bis. Ad avviso della delegazione, questa particolare fattispecie di regime detentivo era risultato il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva. La delegazione intravedeva nelle restrizioni gli estremi per definire i trattamenti come inumani e degradanti. I detenuti erano privati di tutti i programmi di attività e si trovavano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provocava effetti dannosi che si traducevano in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

Negli anni 2000 Corte Europea dei Diritti dell'Uomo è stata varie volte chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del 41-bis con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e non ha ritenuto la disciplina, in linea di principio, in contrasto con la suddetta Convenzione, ma ne ha censurato singoli contenuti e aspetti attuativi

Nel 2003 Amnesty International ha sostenuto che il 41-bis equivale, in alcuni casi, a un trattamento del prigioniero "crudele, inumano e degradante".

Nel 2007 un giudice degli Stati Uniti ha negato l'estradizione del boss mafioso Rosario Gambino, poiché a suo avviso il 41-bis sarebbe assimilabile alla tortura.

I rilievi di costituzionalità

Il regime di 41-bis applicato per periodi molto lunghi, anche a persone non condannate in via definitiva, è ritenuto da alcuni giuristi come incostituzionale, ma finora le pronunce della Corte costituzionale ne hanno confermato, nell'insieme, la legittimità.

Nonostante ciò, nelle sentenze del 28 luglio 1993 n. 349, del 19 luglio 1994 n. 357, del 18 ottobre 1996, n. 351, e ancora con la sentenza n. 376 del 1997, la Corte Costituzionale si è espressa sulla compatibilità del regime 41-bis con i principi costituzionali. Già nella prima di queste sentenze, in riferimento alla funzione di rieducazione della pena, sancito dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, la Corte ha rilevato come ai detenuti venissero riservati "trattamenti penali contrari al senso di umanità, non ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non 'individualizzati' ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di reclusi selezionati solo in base al titolo di reato".

Nel 2013 la Corte costituzionale ha inoltre dichiarato illegittime le limitazioni in materia di colloqui con l'avvocato difensore.

Le strutture in Italia

In data 5 novembre 2009 il Ministro della giustizia Angelino Alfano ha reso pubblica la decisione del governo di riaprire le carceri di Pianosa e dell'Asinara, penitenziari nei quali sono stati storicamente detenuti i boss mafiosi in applicazione di tale misura.[21] Il ministro dell'ambiente Prestigiacomo ha detto che il carcere di Pianosa non riaprirà per motivi ambientali ma si studieranno soluzioni alternative.[22]

Tra le carceri italiane non sono più dotate di strutture idonee il Carcere dell'Asinara di Porto Torres (SS), il Carcere di Pianosa di Campo nell'Elba (LI) e il Carcere delle Murate di Firenze (FI), mentre quelle presenti sono ripartite sul territorio come segue.

Abruzzo

Casa Circondariale dell'Aquila (AQ) (carcere più duro e con più detenuti, e l'unico dotato di sezione femminile

Campania

Casa Circondariale di Secondigliano di Napoli (NA)

Casa Circondariale di Poggioreale di Napoli (NA)

Emilia-Romagna

Casa Circondariale di Parma (PR)

Friuli-Venezia Giulia

Casa Circondariale di Tolmezzo (UD)

Lazio

Casa Circondariale di Rebibbia di Roma (RM)

Casa Circondariale di Viterbo (VT)

Casa Circondariale di Latina (LT)

Lombardia

Casa Circondariale di Opera di Milano (MI)

Casa Circondariale di Voghera (PV)

Marche

Casa Circondariale di Ascoli Piceno (AP)

Piemonte

Casa Circondariale di Cuneo (CN)

Casa Circondariale di Novara (NO)

Sardegna

Casa Circondariale di Badu 'e Carros di Nuoro (NU)

Casa Circondariale di Bancali (SS)

Casa Circondariale di Macomer (NU)

Casa Circondariale di Massama (OR)

Casa Circondariale di Mamone a Onanì (NU)

Casa Circondariale di Uta (CA)

Umbria

Casa Circondariale di Spoleto (PG)

Casa Circondariale di Terni (TR)

Veneto

Casa Circondariale di Vicenza (VI) 

Articolo 4 bis Legge sull'ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354) Da Brocardi.it

Divieto di concessione dei benefici e accertamento della pericolosità sociale dei condannati per taluni delitti

Dispositivo dell'art. 4 bis Legge sull'ordinamento penitenziario

1. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell'articolo 58 ter della presente legge o a norma dell'articolo 323 bis, secondo comma, del codice penale: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell'ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitti di cui agli articoli 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319 quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis, 416 bis e 416 ter del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600 bis, primo comma, 600 ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609 octies e 630 del codice penale, all'articolo 12, commi 1 e 3, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni, all'articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni(1)(2).

1-bis. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall'articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall'articolo 114 ovvero dall'articolo 116, secondo comma, del codice penale.

1-ter. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi, purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 600 bis, secondo e terzo comma, 600 ter, terzo comma, 600 quinquies, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, all'articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, all'articolo 73 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 80, comma 2, del medesimo testo unico, all'articolo 416, primo e terzo comma, del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dagli articoli 473 e 474 del medesimo codice, e all'articolo 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609 bis, 609 quater e 609 octies del codice penale e dall'articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

1-quater. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 583 quinquies, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 609 undecies del codice penale solo sulla base dei risultati dell'osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell'articolo 80 della presente legge. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano in ordine al delitto previsto dall'articolo 609 bis del codice penale salvo che risulti applicata la circostanza attenuante dallo stesso contemplata(3).

1-quinquies. Salvo quanto previsto dal comma 1, ai fini della concessione dei benefici ai detenuti e internati per i delitti di cui agli articoli 583 quinquies, 600 bis, 600 ter, anche se relativo al materiale pornografico di cui all'articolo 600 quater 1, 600 quinquies, 609 quater, 609 quinquies e 609 undecies del codice penale, nonché agli articoli 609 bis e 609 octies del medesimo codice, se commessi in danno di persona minorenne, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza valuta la positiva partecipazione al programma di riabilitazione specifica di cui all'articolo 13 bis della presente legge(4).

2. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione del condannato. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni. Al suddetto comitato provinciale può essere chiamato a partecipare il direttore dell'istituto penitenziario in cui il condannato è detenuto.

2-bis. Ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1-ter, il magistrato di sorveglianza o il tribunale di sorveglianza decide acquisite dettagliate informazioni dal questore. In ogni caso il giudice decide trascorsi trenta giorni dalla richiesta delle informazioni.

3. Quando il comitato ritiene che sussistano particolari esigenze di sicurezza ovvero che i collegamenti potrebbero essere mantenuti con organizzazioni operanti in ambiti non locali o extranazionali, ne dà comunicazione al giudice e il termine di cui al comma 2 è prorogato di ulteriori trenta giorni al fine di acquisire elementi ed informazioni da parte dei competenti organi centrali.

3-bis. L'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, non possono essere concessi ai detenuti ed internati per delitti dolosi quando il Procuratore nazionale antimafia o il procuratore distrettuale comunica, d'iniziativa o su segnalazione del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente in relazione al luogo di detenzione o internamento, l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In tal caso si prescinde dalle procedure previste dai commi 2 e 3.

Note

(1) La Corte Costituzionale, con sentenza 22 ottobre 2014, n. 239 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del presente articolo, comma 1, "nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47 quinquies della medesima legge".

Ha inoltre dichiarato, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale del presente articolo, comma 1, "nella parte in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47 ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell'insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti".

(2) La Corte Costituzionale, con sentenza 23 ottobre - 4 dicembre 2019, n. 253 (in G.U. 1ª s.s. 11/12/2019, n. 50), ha dichiarato "l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti".

Ha inoltre dichiarato "in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimità costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti".

(3) Tale comma è stato modificato dall'art. 12 comma 5 lettera a) della Legge 19 luglio 2019, n. 69.

(4) Tale comma è stato modificato dall'art. 12 comma 5 lettera b) della Legge 19 luglio 2019, n. 69.

Ecco le differenze tra 4 bis e 41 bis. Giovanni Brusca è all’ergastolo ordinario. In questi giorni si fa anche confusione con il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, che prevede regole più restrittive per la detenzione. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l’11 ottobre 2019.

Due sono gli ergastoli, quello “ordinario” e quello “ostativo”.

Quest’ultimo è una tipologia di pena nata dal combinato disposto tra la norma codicistica, che contempla l’ergastolo ordinario e la norma del 4 bis dell’ordinamento penitenziario introdotta dal decreto emanato dopo la strage di Via Capaci. Per i delitti “ostativi” indicati nel 4 bis, l’eventuale condanna all’ergastolo non consente, in assenza della collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art.58- ter., l’accesso ai benefici penitenziari.

Ad esempio c’è Giovanni Brusca, conosciuto per aver trucidato 200 persone e ordinato di sciogliere un bambino nell’acido (Giuseppe Di Matteo), che – avvalendosi della collaborazione – sta scontando un ergastolo ordinario accedendo ai benefici della pena ( permessi premio, etc) e uscirà tra un anno e mezzo.

Mentre altri detenuti ergastolani, anche per aver ucciso una sola persona (di solito di una cosca rivale), se non collaborano con la giustizia – nonostante abbiano intrapreso un percorso trattamentale e critico verso il passato – sono condannati ad una pena perpetua e senza alcuna possibilità di accedere a misure alternative.

In questi giorni si fa anche confusione con il 41 bis, il cosiddetto carcere duro, che prevede regole più restrittive per la detenzione onde evitare che il boss veicoli messaggi all’organizzazione di appartenenza. Non c’entra con l’ergastolo, così come non c’entra nulla con la sentenza Cedu e con la decisione che dovrà prendere la Corte costituzionale il 22 ottobre.

La Corte europea ha semplicemente sentenziato, per quanto riguarda gli ergastolani ostativi, che la legge debba prevedere, dopo un congruo numero di anni, che il giudice possa stabilire – anche in assenza di collaborazione – se la persona che sta eseguendo una condanna all’ergastolo rappresenti ancora un pericolo per la società esterna e abbia o meno ancora legami criminali.

Nessun automatismo concessivo, quindi, ma soltanto la possibilità di valutare la persona, senza inchiodarla al reato commesso 25 o 30 anni prima.

Roberto Cota per "Libero Quotidiano" il 27 gennaio 2022.

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la norma che prevede la censura della corrispondenza tra cliente detenuto in regime di 41 bis e avvocato. La questione di costituzionalità, peraltro, era stata sollevata dalla Corte di Cassazione. 

Il Giudice delle leggi ha osservato in sentenza come l'esercizio del diritto di difesa comprende il diritto di comunicare in modo riservato con i propri difensori. Tale diritto spetta a chi è recluso in carcere ed anche a chi è in regime di 41 bis. Direi tutto normale.

L'anomalia era la limitazione precedentemente in essere, assolutamente non in linea con uno dei principi cardine dello stato di diritto. Inoltre, la Corte Costituzionale ha sostenuto che la tesi contraria rappresenterebbe "una generale ed insostenibile presunzione di collusione del difensore dell'imputato". 

Senonché, nel successivo dibattito è intervenuto Il Fatto Quotidiano che con un titolo ad effetto ha così dato la notizia della decisione: "La Consulta cancella la censura della corrispondenza tra i detenuti al 41 bis e gli avvocati. Geniale: così i boss potranno ordinare omicidi e stragi".

Oltre a sposare la tesi secondo la quale chi è in regime di 41 bis non deve avere neppure il diritto di difendersi, il giornale di Travaglio, nella sostanza, qualifica tutti gli avvocati come mafiosi. 

I sostenitori della campagna giustizialista e manettara utilizzano adesso un nuovo argomento: quello di confondere l'avvocato con il cliente. Se l'avvocato difende un mafioso è un mafioso. Lo schema delegittimante, purtroppo, è quello tipico dei sistemi antidemocratici, dove la figura del difensore viene relegata ad inutile e fastidioso orpello.

La Giunta delle Camere Penali ha giustamente reagito, ma questa tendenza sta prendendo piede, non soltanto sulle pagine de Il Fatto e non sempre può arrivare la Corte Costituzionale a sistemare le cose. 

Il recente caso Pittelli è emblematico. Pittelli, avvocato ed ex parlamentare, è in carcere perché accusato di aver concorso, nel difendere dei clienti appartenenti alla ndrangheta, nei reati dei propri assistiti.

La materia è delicata, ma il problema del perimetro del lavoro del difensore va affrontato e non lasciato al caso. La politica, come al solito, ha la tendenza a non occuparsi delle questioni, soprattutto quelle spinose. 

Il rapporto professionale avvocato-cliente dovrebbe essere rispettato e tutelato perché siamo in un paese democratico dove i diritti fondamentali hanno ancora un senso. Nei mesi scorsi c'è stata una sacrosanta mobilitazione per chiedere all'Egitto il rispetto dei diritti umani nel caso Zaki: da noi è tutto a posto?

La testimonianza. Falcone e Borsellino non sono i padri dell’ergastolo ostativo: in cella da 33 anni difendo la loro memoria. Claudio Conte su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Nonostante io sia in carcere ininterrottamente da quasi 33 anni non mi addolora l’ulteriore rinvio della Corte costituzionale che sospende fino all’8 novembre 2022 gli effetti della sua ordinanza del 2021 sull’illegittimità dell’articolo 4-bis dell’Ordinamento Penitenziario in relazione alla liberazione condizionale. Non che io sia d’accordo sul dare altro tempo al legislatore per una riforma che, dopo la sentenza Viola contro Italia della Corte di Strasburgo, attendiamo dal 2019. O che io non condivida le rilevatissime “questioni costituzionali” che solleva la sospensione di una decisione favorevole in materia di libertà, di cui hanno scritto Andrea Pugiotto e Davide Galliani e alle quali aggiungerei quella sulla compatibilità di un giudice costituzionale che decide su una legge “sostenuta” dal Governo che ai tempi presiedeva.

Non mi addolora il rinvio per altri due motivi. Il primo è che né la sentenza sospesa né la legge auspicata cambieranno il destino del 71,1% dei 1.750 condannati alla pena dell’ergastolo che papa Francesco definisce una “pena di morte nascosta”. Perché, in ventuno anni – dal 2001 al 2022 – si contano solo 32 ergastolani usciti in “condizionale”. Altri 111 sono usciti pure, ma “coi piedi davanti”. Il secondo motivo è l’intempestività di una decisione che avrebbe fatto cadere nel pozzo delle illegittimità la norma simbolo della lotta alla mafia in coincidenza con il mese e nel trentennale della morte di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta. Sarebbe stato un atto di insensibilità umana e istituzionale. Come è pure quello di assegnare la paternità di tale norma ai due magistrati. Non vi è traccia documentale né alcuna intervista in tal senso. Anzi. Per la loro cultura giuridica e umana, Falcone e Borsellino mai avrebbero partorito o consigliato una legge palesemente incostituzionale.

Ma nessuno poteva farlo poiché la modifica del 4-bis con l’introduzione della “ostatività” è avvenuta con il decreto-legge dell’8 giugno 1992 n. 306 e, dunque, dopo l’uccisione di Falcone. E solo per coincidenza, nel 1991, l’alto magistrato arrivò agli Affari Penali di Via Arenula quando l’art. 4-bis rientrava in vigore con il decreto-legge del 13 maggio 1991 n. 152 che era alla sua quarta reiterazione. Esso prevedeva un regime più gravoso rispetto alle soglie di pena da espiare, all’assenza di attualità di collegamenti da dimostrare e alla pericolosità sociale da valutare. Aggravamenti che resterebbero intatti anche se il Parlamento da qui a novembre non legiferasse e la Consulta rendesse esecutiva la sua pronuncia di incostituzionalità del 4-bis (versione 1992) senza “diaboliche” o “magiche” interpolazioni additive. Dunque, nessun rischio di equiparazione agli altri detenuti, i condannati per mafia resterebbero soggetti a regime aggravato. In sintesi, “entrerebbe in vigore” l’equilibrata proposta di legge n. 1951 presentata il 2 luglio 2019 dalla senatrice Bruno Bossio e che le Commissioni giustizia hanno ignorato.

Coinvolgere oggi Falcone e Borsellino fa effetto ma non aiuta né i loro familiari, né la loro memoria, né gli italiani. Non sono loro i “padri” dell’ergastolo ostativo, come ripete Fiammetta Borsellino e come ricordo personalmente, poiché ai tempi ero già in carcere e ne seguivo il pensiero in TV quando erano attaccati quasi da tutti. Ricordo la professionalità, la pacatezza e l’ironia dei due magistrati che oggi vedo trasformati in fanatici giustizialisti quasi ignoranti dei valori costituzionali per i quali invece sono morti. A quel tempo, avevo 19 anni di età ed ero io che ignoravo finanche l’esistenza della Costituzione. L’ho scoperta in carcere dove mi sono laureato in Legge e sono ora impegnato in un Dottorato di ricerca sul nuovo paradigma della Giustizia riparativa: un modo per pensare meno alla punizione e più alle vittime, alla “Verità e Riconciliazione”.

Quella a cui si riferisce il presidente del Tribunale di Roma Alberto Cisterna che, dopo l’incontestabile vittoria dello Stato sulle mafie, parla di necessaria “pacificazione”, perché – sottolinea – non si può essere sempre in “guerra”. Ed è paradossale che, in carcere dal 1989, condannato, salentino, lontano dalle storie siciliane, debba essere io, quasi, a difendere la “verità” in omaggio alla memoria dei due magistrati siciliani. O, forse, paradossale non lo è perché come le “buone idee” restano, così, anche le “persone cattive” cambiano.

Claudio Conte. Ergastolano detenuto a Parma, Consiglio Direttivo di Nessuno tocchi Caino