Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

  

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

 

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Una presa per il culo.

Stefano Cucchi è morto per il via libera di un giudice. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 4 Novembre 2022

Ci sono almeno due verità sul caso della morte di Stefano Cucchi: una disputata; l’altra negletta. La verità disputata, per quanto infine sigillata in una decisione giudiziaria, è che Stefano Cucchi è stato ucciso, e che la morte è avvenuta a causa del pestaggio cui il giovane è stato sottoposto da parte dei carabinieri che l’avevano in custodia dopo l’arresto. La verità negletta riguarda invece il tempo e i fatti che vanno da quella violenza al decesso. C’è stato un bel film (Sulla mia pelle, 2018) a lambire quest’altra verità, ma non poteva ridondare da quell’opera cinematografica la somma di trascuratezza burocratica e istituzionale che contrassegna questa tragedia.

Molto si è indugiato, e con contrapposte propalazioni, su quel che successe dal momento dell’arresto, la sera del 15 ottobre del 2009, sino al mattino successivo: la sopraffazione patita da Cucchi, il drogato intemperante rimesso in riga, secondo l’oscena rappresentazione di certa pubblicistica, o il povero uomo che entra sano in una caserma e ne esce massacrato; le forze dell’ordine, ingiustamente messe alla berlina per qualche comprensibile eccesso su un malvivente che resisteva alla cautela di cui era destinatario, o il poveretto su cui gratuitamente infieriva l’aguzzino in divisa, impegnato a nascondere le prove del proprio misfatto e a coprire le complicità di chi vi aveva partecipato; lo scrutinio della fedina penale e persino della moralità di questo spostato, vittima della propria devianza e della propria dipendenza dalla droga (“E’ stata la droga a portarlo lì!”, proclamava l’avvocatura d’ufficio del benpensante reazionario), o invece la triste considerazione che una persona fragile, quando è affidata alle cure di chi tutela la pubblica sicurezza, deve riceverne semmai di più, non meno perché tanto è solo un tossico.

E febbrile discussione pubblica si è avuta dopo, con una ricognizione a ritroso dal momento della morte sino a quel mattino del 16 ottobre 2009: quando Stefano Cucchi, dopo il pestaggio, è portato davanti ai magistrati chiamati a convalidarne l’arresto. E furono investigazioni e requisitorie sui depistaggi, sulle contraffazioni dei verbali, sulle responsabilità dei medici, ancora su quelle dei militari e dei secondini… Ma poca attenzione, e tanto meno angosciata, si ritenne di prestare ai motivi per cui Stefano Cucchi era subordinato a giustizia: la gestione di modestissime quantità di stupefacenti, per un’ipotesi di reato moderatamente offensiva e non per caso disciplinata in modo assai tenue.

E nulla, soprattutto, si obiettò circa il fatto che Stefano Cucchi, che versava in condizioni giudicate allarmanti quando si trattava di valutare il comportamento anteriore e noncurante dei militari e dei medici che poche ore prima l’avevano a disposizione, e ai quali si addebitavano autonome responsabilità per aver lasciato correre quella situazione di bisogno e sofferenza, nulla, dicevo, si argomentò, tanto meno per denunciarne l’urtante evitabilità, a proposito del fatto che un magistrato dell’accusa pubblica, prima, e un giudice, poi, quel giorno di ottobre rispettivamente chiesero e ordinarono che Stefano Cucchi fosse imprigionato. Non andò solo, Stefano Cucchi, alla caserma in cui fu pestato: vi fu portato dai carabinieri che percepirono la commissione di quel lieve delitto, quei pochi grammi di sostanza proibita. Ma Stefano Cucchi non andò solo nemmeno nel carcere in cui la sua vita fu interrotta: chiese l’accusa pubblica che vi fosse mandato, e fu un giudice a disporre che ci andasse.

Pestato da quei carabinieri, Stefano Cucchi morì in carcere e di carcere. Qualcuno reclamò e qualcuno decise che quel disgraziato, con gli occhi enfiati e gravi di quei vistosi depositi di sangue, claudicante, carico delle percosse che sarebbero diventate l’esclusiva ragione di scandalo e riprovazione per l’orribile vicenda che lo ha coinvolto, da quell’udienza dovesse essere mandato non a casa propria, eventualmente in ristrettezza domiciliare, non in una struttura sanitaria, non in un centro di riabilitazione, ma dietro le sbarre di un carcere.

Tutte queste cose sono note, ma appunto neglette. Perché si può ancora dire che un cittadino muore malmenato dai carabinieri, ma non che muore in nome della legge. Iuri Maria Prado

E' morta la mamma di Stefano Cucchi, Rita Calore. "Si è arresa per andare a riabbracciare il figlio mai perduto". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 17 ottobre 2022.

A dare la notizia l'avvocato Fabio Anselmo, su Facebook. Nel 2019 la donna aveva scoperto di essersi ammalata. "Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni", aveva raccontato a Repubblica, "poi Ilaria ha detto: "Mamma, ora ti controlli""

"Non ce l'ha fatta. Questa mattina Rita Calore si è arresa per andare a riabbracciare Stefano. Il figlio mai perduto. Lo scrivo con tanta emozione e mi stringo a Giovanni ed #Ilaria. Non mi viene altro da dire a questa grande famiglia". Così l'avvocato Fabio Anselmo su Facebook ha dato notizia della scomparsa della mamma di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 all'ospedale Pertini mentre era in custodia cautelare, una settimana dopo il suo arresto. Calore era la madre anche di Ilaria, recentemente eletta al Senato, che da anni si batte perché sia accertata la verità sulla morte del fratello.

Nel 2019 Rita Calore aveva scoperto di essersi ammalata. "Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni", aveva raccontato a Repubblica, "e infatti continuavo a incollarmi il carrello e le buste della spesa. Figurarsi, ho fatto per quarant'anni la maestra all'asilo, ho cresciuto due figli. Poi Ilaria ha detto: "Mamma, ora ti controlli". E insomma, altro che sciatica. Vabbè".

"Sì. Quando perdi un figlio, muori con lui. E quindi, ecco perché dico "vabbè". Perché ogni mattina che mi sveglio ringrazio il Padre eterno che mi ha dato un altro giorno. E soprattutto penso che quello che è successo a me non è nulla rispetto a quello che hanno fatto a Stefano. Che sarà mai portare il busto, fare la chemio, i raggi?".

Lo diceva sempre a tutti Rita Calore. A chi l’andava a trovare nell’appartamento dove ha cresciuto i suoi due figli. Ilaria e Stefano Cucchi. “Io la stanza di Stefano l’ho lasciata sempre così”. Non l’ha mai cambiata. Non ha mai spostato niente da quando il suo ragazzo non ha fatto più ritorno a casa da quel 15 ottobre 2009. Se Ilaria, la primogenita, era il viso grintoso della famiglia, nella lotta alla richiesta di verità e giustizia, quello di Rita era più “moderato”. Ma per questo non meno determinato.  

Una mamma che non è mai riuscita ad elaborare il lutto fino in fondo. Quando parlavi del suo Stefano gli occhi si riempivano di lacrime. Lei faceva di tutto per ricacciarle indietro. Uno sforzo di dignità. Per apparire sempre composta. 

Era combattiva Rita. Lo era a suo modo. Lo era anche con quella sua presenza fisica, minuta, discreta, sempre educata. Ma lei c’era sempre alle udienze del processo. Assieme a suo marito Giovanni. Seduti agli ultimi posti, uno accanto all’altro, senza mai alzare il tono della voce. Quella loro presenza silenziosa era ancora più efficace. Più difficile da contrastare da parte di chi voleva coprire tutto. Insabbiare tutto. “Non è successo niente. Vostro figlio era un tossico. È morto di epilessia”. Tutte bugie. Sapevano, loro, gli errori commessi da Stefano. Mai negati, nessuna ipocrisia. Aveva capito Rita che qualcuno si era accanito sul corpo di quel figlio fragile. 

Ecco, sembrava la famiglia perfetta su cui consumare un abuso di potere. Mamma maestra, papà geometra e figlia amministratrice di condominio. La famiglia che avrebbe potuto subire un caso smisurato di ingiustizia, senza reagire. E invece Giovanni, Rita e Ilaria si sono rivelati granito. Quando hanno capito quello che stava succedendo, non sono arretrati di un millimetro. Non sono stati scalfiti. Ognuno dei tre ha giocato il suo ruolo senza desistere, anche nei momenti difficili, quando si è chiamati a fare la differenza. Se ne va via Rita, pochi giorni dopo aver visto Ilaria diventare senatrice. Se ne va via una persona per bene, “va - come dice Fabio Anselmo, storico legale e compagno di Ilaria - a riabbracciare il suo Stefano”.

Ilaria Cucchi: "Mamma ha lasciato intatta la stanza di Stefano, ora è lassù con lui". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 18 ottobre 2022.  

Intervista alla sorella di Stefano dopo la morte della madre Rita Calore: "Si è sempre battuta per la verità"

Quanto male ha dovuto subire a causa della battaglia per ottenere verità e giustizia. Quanto? È una donna a cui hanno prima strappato il figlio e poi stavano per negarle anche la giustizia. Infine, in mezzo a tutto questo, ha sopportato insulti gratuiti".

Rita Calore non c'è più. La mamma di Stefano Cucchi "è volata dal suo ragazzo". Lo racconta Ilaria. La figlia combattiva che alle spalle ha sempre avuto il sostegno di Rita e Giovanni. Persona discreta, fisicamente minuta, educata ma per questo non meno determinata. Lo diceva sempre a tutti.

A chi l'andava a trovare nell'appartamento dove ha cresciuto i suoi due figli a Roma spiegava: "Ecco la stanza di Stefano l'ho lasciata sempre così", ricorda Ilaria nel momento più duro. Nel giorno in cui il suo punto di riferimento (l'altro è il padre Giovanni) non c'è più. Non ha mai spostato niente da quando suo figlio non ha fatto più ritorno a casa, quel 15 ottobre del 2009.

Una mamma che non è mai riuscita ad elaborare il lutto fino in fondo. Quando parlavi di Stefano gli occhi si riempivano di lacrime. Lei faceva di tutto per ricacciarle indietro. Uno sforzo di dignità. Per apparire sempre composta.

Come sta?

"È un momento difficile. C'è un vuoto immenso. Adesso mi piace pensare che sia con lui. Ma non posso pensare al male che ha dovuto subire nel tempo. Mia madre ha dovuto pagare un prezzo troppo alto anche a causa di anonimi haters che hanno provocato un'ulteriore sofferenza senza che nessuno facesse nulla".

Ci sono stati "odiatori" anche nel mondo delle istituzioni?

"Sì. Sia perfetti sconosciuti che persone conosciute con importanti ruoli istituzionali".

Cosa le ha trasmesso sua madre?

"Una forza inestinguibile nella giustizia. È stata un grande esempio: un amore immenso per la propria famiglia, il marito, i figli e i nipoti. I momenti difficili, quelli duri, sono serviti per unirci, per cementarci. E lei ha avuto un ruolo centrale in questo". 

Qual è stato il ruolo di sua madre nella battaglia per la verità su Stefano?

"Ha cercato di farmi pesare il meno possible il dolore per la morte di Stefano, di suo figlio. Con mio padre mi hanno guidato in tutti questi anni. Non riesco a pensare che adesso lei non ci sia più. È inspiegabile, non vedere mio padre e mia madre assieme. Uno accanto all'altra".

La malattia può essere in qualche modo collegata al dolore e alle ingiustizie che ha dovuto subire?

"Non si può escludere. Quello che ha dovuto subire sia per la morte del figlio che per essere messa in discussione come madre. Qualcuno si era permesso di dire che Stefano era stato "la gallina dalle uova d'oro". Per lei che amava Stefano sopra ogni cosa era un'offesa enorme, un insulto gratuito che l'aveva profondamente ferita".

Quando vi siete viste l'ultima volta?

"Domenica sera. Stava male, abbiamo parlato...". 

Cosa le ha detto quando è diventata senatrice?

"Un punto di orgoglio e anche un riscatto rispetto a tutto l'odio di questi anni".

C'è un insegnamento che le ha trasmesso?

"La coerenza ad ogni costo"

C'è un ricordo particolare lei, Stefano, sua madre e suo padre tutti assieme?

"Le giornate passate in roulotte nel campeggio di Tarquinia e i viaggi in camper tutti assieme. Poi sì c'è un viaggio, in particolare, uno bellissimo che avevamo fatto sul Monte Bianco".

Caso Cucchi, i depistaggi dei carabinieri: «Versione confezionata» dai vertici. Ilaria Sacchettoni il 4 ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.

Il generale Alessandro Casarsa condannato a cinque anni il 7 aprile scorso è stato «evasivo e ambiguo» durante la sua deposizione 

Il generale Alessandro Casarsa è stato «evasivo e ambiguo» durante il suo processo. Lo scrivono i giudici nelle quattrocento pagine di motivazioni alla sentenza dello scorso aprile. «È dunque poco verosimile che Casarsa (Alessandro Casarsa, imputato ndr) si sia limitato a fornire delle generiche linee guida, disinteressandosi del contenuto delle annotazioni» scrive Roberto Nespeca nelle motivazioni alla condanna per la vicenda dei depistaggi del caso Cucchi che si erano concluse con condanne pesanti per tutti e 8 gli imputati fra i quali, appunto, lo stesso generale Casarsa ex capo dei Corazzieri del Quirinale.

Poco convincenti, per i giudici, le affermazioni di estraneità di Casarsa riguardo alla falsificazione delle annotazioni di servizio sull’arresto di Cucchi. Scrive Nespeca: «Deve ritenersi inverosimile che Cavallo (Francesco Cavallo, altro imputato, sottoposto di casarsa, ndr) avesse potuto assumere autonomamente l’iniziativa di intervenire sul contenuto delle annotazioni».

Secondo i giudici, in sintesi, la modifica delle annotazioni aveva l’obiettivo di allontanare i sospetti dai carabinieri e di evitare problemi alla propria catena di comando già provata dallo scandalo Marrazzo. Secondo i magistrati si cercò di «preservare» i vertici da una vicenda che avrebbe potuto creare ulteriori problemi al comando vista la concomitanza con il caso del ricatto perpetrato da un gruppo di carabinieri nei confronti di Piero Marrazzo. La versione su Cucchi «era stata confezionata» a priori da alcuni appartenenti all’Arma.

Risarciti i familiari di Cucchi, fra cui la mamma assistita dall’avvocato Stefano Maccioni. Ma risarciti anche gli agenti della polizia penitenziaria assistiti dal penalista Diego Perugini che per via dei depistaggi subirono un primo processo. Soddisfazione viene espressa dall’avvocato Fabio Anselmo che assiste la famiglia: «Emozionante — dice — vedere nero su bianco la verità di quanto accaduto dopo l’uccisione di Stefano. Una verità urlata invano dopo tanti anni in cui escono a pezzi alti ufficiali dell’arma e medici legali compiacenti. Dire soddisfazione è un eufemismo. Grazie al dottor Musarò (Giovanni Musarò, ndr) e ai procuratori Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino»

(ANSA il 21 luglio 2022) - La corte di appello di Roma ha condannato a tre anni e sei mesi il maresciallo Roberto Mandolini e il carabiniere Francesco Tedesco a 2 anni e 4 mesi nell'ambito del processo di appello bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. La pronuncia arriva a poche ore dalla prescrizione che scatta alla mezzanotte di oggi. I due sono accusati di falso. 

Per Mandolini il pg aveva chiesto di confermare la condanna di primo grado a tre anni e otto mesi. Per Tedesco, che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini sul caso, il pg aveva chiesto l'assoluzione.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Condannato anche lui". Così in un post su Facebook, con allegata una foto di Roberto Mandolini, la sorella di Stefano Cucchi commenta le nuove condanne in uno dei processi sulla vicenda del fratello. Mandolini all'epoca dei fatti era il comandante della stazione Appio dove fu portato Stefano Cucchi dopo essere stato fermato. Condannato anche Francesco Tedesco che con le sue parole ha però fatto riaprire le indagini sul caso.

Prima della sentenza Ilaria Cucchi aveva scritto un altro post in cui stigmatizzava il fatto che Mandolini non aveva rinunciato, come annunciato, alla prescrizione. "Sono le 10. Inizia il processo bis contro il Maresciallo Mandolini. Sono previste le repliche. La Presidente annuncia che questo è l'ultimo giorno utile per arrivare a sentenza evitando la prescrizione. Mandolini aveva detto che vi avrebbe rinunciato. Ovviamente non ha mantenuto la parola. Posso dire che non mi stupisco?", aveva scritto Ilaria Cucchi.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Giustizia è fatta fino in fondo, ci abbiamo dedicato tanti anni della nostra vita. Oggi è una giornata importantissima che dedico ai miei genitori che purtroppo non sono riusciti ad essere qui". Lo ha detto Ilaria Cucchi commentando la sentenza di condanna per i carabinieri Mandolini e Tedesco nel processo di appello bis per l'indagine sul pestaggio di Stefano Cucchi.

L'accusa della figlia. Incidente per i genitori di Stefano Cucchi, feriti da un pirata della strada in fuga: “Non è giusto la faccia franca”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Maggio 2022. 

Brutta disavventura nella mattina di venerdì per i genitori di Stefano e Ilaria Cucchi, rimasti feriti in un incidente stradale causato da un pirata della strada che poi è fuggito dal luogo del sinistro facendo perdere le proprie tracce.

A raccontare l’episodio è stata la figlia Ilaria sui social, spiegando che l’incidente è avvenuto la mattina di venerdì 13 maggio sull’autostrada Roma-Civitavecchia, all’altezza di Monte Romano.

“Un grosso veicolo pirata questa mattina ha urtato l’auto mandandola in testa coda — spiega Ilaria Cucchi nel post —. Sono esplosi tutti i vetri dei finestrini. A bordo viaggiavano i miei genitori, che sono finiti in ospedale assieme ai due accompagnatori. Sono in corso accertamenti medici ma per fortuna pare che mia madre si sia rotta soltanto una spalla e mio padre un ginocchio. Sto cercando di capire le condizioni dei due accompagnatori, che sono stati ricoverati in un ospedale diverso. Il conducente del veicolo investitore è scappato. La Polizia stradale sta indagando. Mi appello a chiunque potesse aver visto qualcosa. Si faccia avanti. Non è giusto che la faccia franca”.

Per fortuna i genitori di Stefano, il ragazzo morto per i pestaggi subiti nell’ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, se la sono cavata. Il padre Giovanni è stato dimesso nel corso della notte, mentre la madre Rita è stata trattenuta all’ospedale di Civitavecchia per diverse fratture, alla clavicola e a quattro costole.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Caso Cucchi, Cassazione: condanna annullata per i carabinieri Mandolini e Tedesco, prescrizione a luglio. Ilaria Minucci il 09/05/2022 su Notizie.it.

Caso Cucchi: con la nuova sentenza, la Cassazione ha annullato la condanna per falso dei carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco. L’accusa di falso andrà in prescrizione a luglio 2022.

Caso Cucchi, Cassazione: condanna annullata per i carabinieri Mandolini e Tedesco, prescrizione a luglio

Nel pomeriggio di lunedì 9 maggio, i giudici della Cassazione hanno emanato la sentenza sul caso Cucchi in relazione ai carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, rispettivamente condannati in appello a quattro e a due anni e mezzo per le accuse di falso. A proposito dei due militari, per i quali era stato disposto il processo di appello bis, nelle motivazioni della sentenza sul caso Cucchi pronunciata dai giudici della Cassazione, è possibile leggere quanto segue: “I vizi motivazionali rilevati impongono l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Assise d’appello di Roma”.

La prescrizione per l’accusa di falso alla quale devono rispondere i due carabinieri, come sottolineato sempre dai giudici, “si compirà non prima del 25 luglio 2022”.

Le motivazioni della sentenza emanata dai giudici

Con la sentenza emanata, i giudici della Cassazione hanno ritenuto fondati entrambi i ricorsi presentati e hanno sottolineato che la Corte territoriale, “nell’affermare l’oggettiva falsità del verbale di arresto di Cucchi e la colpevolezza degli imputati“, non avrebbe confutato “i rilievi mossi (…) riproponendone il percorso argomentativo oggetto di critica”.

Nelle motivazioni, inoltre, è stato precisato: “In realtà la Corte ha ricostruito la volontà dell’imputato dal comportamento tenuto da Mandolini nei giorni seguenti e più in particolare in quelli successivi alla morte di Cucchi dando apoditticamente per scontato che la preoccupazione di occultare quanto accaduto palesata dal medesimo in quel contesto fosse già insorta nell’immediatezza dei fatti, senza preoccuparsi di motivare sulla sua effettiva consapevolezza dell’entità delle conseguenze subite da Cucchi”.

Ilaria Cucchi,'12 anni, ora posso lasciarti andare fratello mio'. ANSA il 17 aprile 2022. 

"12 anni e sei mesi. È arrivato il momento di dirti addio. E qui e così sognavo di farlo. Ora posso lasciarti andare. Ti voglio bene fratello mio. Te ne vorrò per sempre". Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi riferendosi alla vicenda del fratello Stefano, morto il 22 ottobre del 2009 nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini di Roma mentre era sottoposto alla custodia cautelare. Ilaria Cucchi sceglie una data simbolica per "dire addio" a Stefano, il giorno di Pasqua, e anche una foto eloquente, ovvero lei intenta a piantare dei fiori. Il post arriva dopo la sentenza di primo grado dell'ultimo dei tanti processi sulla tragica morte del giovane: la condanna di otto carabinieri per i depistaggi messi in atto dopo il decesso con una pena di cinque anni al generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e di un anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino, ex numero uno del comando provinciale di Messina. (ANSA).

Il messaggio della sorella di Stefano. Ilaria Cucchi ringrazia Teo Luzi, un momento che tutti aspettavano. Luigi Ragno su Il Riformista il 16 Aprile 2022.

Le parole importanti e attese sono state scritte ieri, 15 aprile, su La Stampa. Un lungo messaggio di Ilaria Cucchi che, nei giorni scorsi, ha rivolto lo sguardo al cielo come per dire a Stefano “ecco, questa volta è finalmente finita e io sono sempre con te”. Il Comandante dei Carabinieri, appresa la sentenza, ha dichiarato che quanto accaduto è lontano dai principi che caratterizzano l’Istituzione e che, chi ha sbagliato, verrà messo fuori dal Corpo. Parole dure, forti, che hanno suscitato qualche malumore all’interno dell’Arma.

Ilaria Cucchi aveva già avviato un dialogo con l’Arma, sia col generale Del Sette che con Nistri. Quest’ultimo aveva offerto piena disponibilità alla sorella del giovane ucciso ottenendo un cenno di reciprocità di intenti. Ma ancora non era chiara la posizione della Benemerita, ancora si voleva difendere l’indifendibile. Ora, però, grazie alla sentenza dei giorni scorsi che ha certificato quanto accaduto nella caserma Casilina nell’ottobre 2009 e alle parole del generale Luzi, vi è finalmente una reciprocità di intenti tra Ilaria Cucchi e tutti i Carabinieri rappresentati da Teo Luzi.

L’alto ufficiale ha sempre seguito con attenzione la vicenda e non ha mai fatto mancare la comprensione alla famiglia di Stefano. Le stesse linee guida interne alla Forza armata ricordano ai carabinieri che essi sono custodi dei diritti di chi subisce un reato ma anche di chi lo compie. Sono tanti, infatti, gli episodi che vedono i carabinieri vicini alle vittime di questa società che, per diverse ragioni, non hanno avuto buone occasioni dalla vita.

Le parole di Ilaria Cucchi aprono a un nuovo periodo storico in questa vicenda che vuole essere da monito, per tutti, nel nostro Paese e la posizione del generale Luzi regala, finalmente, una nuova immagine dell’Arma. C’è dialogo tra le due compagini ferite: quella della famiglia Cucchi e quella della famiglia Arma e, proprio nel ricordo di una vittima innocente, si auspica che possa nascere un progetto affinché Stefano sia ricordato come un esempio di fragilità che ogni giorno la vita riserva nell’operare quotidiano di tutte le forze di polizia.

Luigi Ragno. Utente Apple dal 1984 appassionato di tutto ciò che è tecnologico, il web è la sua casa. 

Ilaria Cucchi per la Stampa il 15 aprile 2022.

«Su Cucchi ha vinto lo Stato di diritto. Ora scatteranno le espulsioni dall'Arma». Queste le parole del Comandante generale dei carabinieri che ho letto ieri. 

Mi sento piccola di fronte a lui e a quel che rappresenta. All'importanza per il mio Paese per ciò che è: l'Arma dei carabinieri. Quell'istituzione che da sempre i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare, riuscendo perfettamente nel loro intento.

La vita di Stefano prima, la nostra poi, sono state distrutte e vilipese da uomini che non avrebbero mai dovuto indossare quella divisa. Non conta ciò che possono aver fatto prima. Non contano i loro meriti di carriera. Conta la violazione della dignità di una persona la cui vita era affidata alle loro mani. Entrambe sono state calpestate e distrutte allo stesso modo in cui, poi, a tavolino, lo sono state le nostre, insieme a quelle degli agenti di polizia di penitenziaria ingiustamente accusati del pestaggio omicida di Stefano Cucchi. 

Gli assassini di mio fratello ora sono in carcere. Coloro che li hanno aiutati, per anni e anni a sottrarsi alla legge, sono stati condannati.

Uomini che hanno posto in essere davanti al Tribunale di Roma una drammatica esibizione di cinica e patologica, financo ossessiva, ambizione di carriera. 

L'arroganza gonfia dei gradi delle loro divise, è stata espressa in tutta la sua violenza, come a voler significare che, per loro, la legge non poteva essere uguale agli altri cittadini comuni. Per loro no. Si consideravano al di sopra di tutto e tutti. Mai una nota di empatia per me, la sorella del morto perché il morto era un rifiuto. Un tossicodipendente in stato avanzato, anoressico e sieropositivo. 

Tutto inventato e scritto a tavolino senza il supporto di alcun documento medico. Falso. Ma sapevano che vi sarebbero stati medici legali che, supini al loro potere, avrebbero prontamente supportato le loro infamanti teorie, destinate a una propaganda mediatica che ci ha sempre accompagnati nella nostra ricerca di verità e di giustizia.

Politici con incarichi istituzionali le hanno dato forza e voce e continuano a dargliela "ignari" del fatto che quegli atti sono stati tutti dichiarati falsi. Mi sento piccola di fronte a tutto questo. Devo essere forte di fronte a tutto il dolore inflitto alla mia famiglia e che continuerà a esserle inflitto. Mentre lavoro sto studiando per prendere il secondo diploma, quello di geometra. Mi piace studiare. Voglio proseguire la strada di mio padre. 

Ciò che apprezzo di più nel pubblico intervento del generale Luzi è il lodevole progetto di introdurre «rinnovate e più efficaci procedure di controllo interno all'Arma» affinché, dico io, non ci sia più un'altra Ilaria Cucchi. Ilaria Cucchi ha già dato. Basta. Generale, ho fiducia in lei. Non mi tradisca. Non tradisca l'Istituzione che ho sempre amato nonostante tutto. 

Caso Cucchi, il comandante dei Carabinieri: “I condannati saranno espulsi dall’Arma”. Chiara Nava il 14/04/2022 su Notizie.it.

Il comandante dei Carabinieri, Teo Luzi, ha spiegato che gli agenti condannati per il caso Cucchi verranno espulsi dall'Arma.

Teo Luzi, comandante dei Carabinieri, ha spiegato che gli agenti che sono stati condannati per il caso Cucchi verranno espulsi dall’Arma, sottolineando che ci saranno anche dei provvedimenti per gli altri. 

Caso Cucchi, il comandante dei Carabinieri: “I condannati saranno espulsi dall’Arma”

Il comandante generale dei Carabinieri, Teo Luzi, ha commentato in un’intervista per La Stampa, la decisione della Cassazione sui responsabili del caso Cucchi e la sentenza di primo grado sui depistaggi. Ha promesso che chi è stato condannato verrà espulso dall’Arma, ma ha sottolineato che arriveranno anche provvedimenti per gli altri. “Rimane il dolore di tutti. Per primo, quello della famiglia Cucchi, alla quale esprimo ancora una volta la mia sentita vicinanza.

Per tutti gli altri militari tuttora imputati a diverso titolo nei due distinti processi, auspichiamo una rapida definizione delle loro posizioni” ha spiegato Luzi. “Indipendentemente dalla presunzione di innocenza e dall’esito di entrambi i processi, sento il dovere di dire che l’Arma ha vissuto con profonda sofferenza l’intera vicenda per la gravità delle condotte contestate, radicalmente lontane dai principi e dai valori che da sempre contraddistinguono l’impegno dei carabinieri al servizio del Paese e dei suoi cittadini” ha aggiunto. 

Caso Cucchi, Luzi: chi è stato condannato in primo grado trasferito a incarichi d’ufficio

Teo Luzi ha spiegato che gli otto militari condannati in primo grado sono già stati trasferiti all’epoca del rinvio a giudizio “da incarichi di prestigio e funzioni di particolare responsabilità a incarichi d’ufficio. Ribadisco che, nel rispetto del principio di legalità, al passaggio in giudicato delle sentenze, saranno tempestivamente definiti i procedimenti disciplinari nei loro confronti, così come previsto dalle norme in materia“. Nei prossimi giorni saranno posti a disposizione per svolgere compiti interni, senza personale alle dipendenze.

“Si tratta dello stesso tipo di provvedimento adottato in casi analoghi da altre Amministrazioni dello Stato e che garantisce – fino al giudicato – l’assenza di qualsiasi vulnus nell’esercizio delle funzioni svolte” ha spiegato. 

Caso Cucchi: i condannati in via definitiva “perderanno lo status militare”

I condannati in via definitiva “perderanno lo status militare, già in applicazione delle pene accessorie di interdizione perpetua dai pubblici uffici”. Per i condannati in primo grado nel secondo processo “l’Arma darà comunque corso ai procedimenti finalizzati all’accertamento delle relative responsabilità disciplinari sulla base delle risultanze processuali disponibili“. Il Comando Generale dell’Arma provvederà anche ai risarcimenti decisi per le parti civili. “Lo dobbiamo a tutti i carabinieri e ai cittadini, la cui fiducia alimenta il nostro impegno ed è motivo stesso del nostro essere. Eventuali somme risarcitorie saranno incamerate dall’Erario” ha spiegato Luzi.

Il caso Cucchi. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Valentina Calderone su Il Riformista il 10 Aprile 2022. 

Dodici anni, cinque mesi e tredici giorni. Questo è il tempo che la giustizia italiana ha impiegato per decretare definitivamente le responsabilità per l’uccisione di Stefano Cucchi. Il geometra romano di trentuno anni che nei primi mesi dopo la sua morte è stato variamente definito, da stampa e personaggi politici, come il “piccolo spacciatore di Tor Pignattara”, “anoressico, tossicodipendente, larva, zombie”. Nessuno potrà più dire adesso che Stefano è morto per colpa della sua magrezza, delle sue abitudini, delle sue debolezze. La sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri responsabili dell’arresto e del trattenimento di Cucchi sancisce la fine di una vicenda giudiziaria incredibilmente lunga e travagliata, con centinaia di udienze, numerose perizie, diversi soggetti imputati e un’attenzione dei media mai vista prima per un caso di abusi da parte delle forze dell’ordine.

Con l’associazione A Buon Diritto abbiamo conosciuto la famiglia Cucchi a una settimana dalla morte di Stefano, e studiando i primi atti d’indagine chiedemmo sin da subito di indagare su quanto accaduto la notte dell’arresto. E invece le indagini sono state dirottate per anni, sviate per spostare l’attenzione dalla caserma di carabinieri all’interno della quale, oggi lo sappiamo con assoluta certezza, Stefano ha incontrato la morte. Il processo di primo grado per i depistaggi messi in atto con l’intento di coprire le responsabilità degli operatori si è concluso giovedì scorso con una sentenza di condanna: otto uomini appartenenti all’Arma sono stati ritenuti colpevoli di favoreggiamento, calunnia, falso ideologico. Un’opera complessa di depistaggi durata anni.

Da una parte, quindi, non dovrebbero stupirci questi tredici anni impiegati per arrivare alla verità, dall’altra però, non possiamo non farne tema di riflessione. La vicenda di Stefano Cucchi è stata paradigmatica da molti punti di vista, ha permesso di svelare un sistema estremamente complesso, il funzionamento di una macchina ben rodata di azioni messe in atto a tutti i livelli al fine di coprire le responsabilità, ma ha anche rappresentato la possibilità di parlare pubblicamente di queste vicende e ha consentito una crescita della consapevolezza collettiva su temi che continuano a essere molto difficili da trattare. Di Stefano Cucchi si è parlato nei telegiornali, nei libri, nei film, la sua vicenda è stata rapidamente conosciuta a livello nazionale, approfondita e utilizzata per raccontare altre storie. La famiglia, e soprattutto la sorella Ilaria, sono diventati voce che chiedeva incessantemente verità e giustizia e, nonostante tutta la caparbietà dimostrata e l’attenzione ricevuta, c’è voluto un tempo enorme per arrivare a ottenerle, quella verità e quella giustizia.

Ma se allora ci sono voluti quasi tredici anni per arrivare a capo di una vicenda che ha provocato fortissime emozioni e scosso l’opinione pubblica, che è stata raccontata e analizzata, che esito possono avere le altre decine e centinaia di storie di abusi che non conosceremo mai? In questi anni alcune le abbiamo raccontate: Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Michele Ferrulli, Francesco Mastrogiovanni, Andrea Soldi, Mauro Guerra, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva. Vicende diverse, con molti tratti in comune, uno su tutti l’incommensurabile dolore delle famiglie che devono affrontare processi in cui spesso è la vittima a essere sotto accusa, la sua vita, le sue abitudini, le sue relazioni.

Lo scandalo suscitato dalla morte di un uomo che si trovi sotta la custodia dello Stato non sarà purtroppo sufficiente a far sì che storie come queste non accadano mai più. Ma se c’è una cosa che possiamo imparare dalla vicenda di Stefano Cucchi, e dalle emozioni che ci ha provocato, è che ora più che mai dobbiamo continuare a monitorare, fare domande, pretendere verità. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Stefano Cucchi ce lo ha insegnato. Valentina Calderone

Dedicato a Stefano Cucchi: 13 anni di vergognose dichiarazioni politiche. Falsità, calunnie, cattiverie, superficialità. E mancate scuse. Da quel 22 ottobre del 2009 sulla sua morte, sulla sua persona, sulla sua famiglia è stato detto di tutto. Da ministri, sottosegretari, leader politici, sindacalisti e giornalisti. Oggi, dopo che si è finalmente arrivati alle sentenze definitive, vogliamo ripercorrere quel calvario. Per non dimenticare. Wil NonLeggerlo su L'Espresso l'11 aprile 2022.

Anoressico, tossicodipendente, sieropositivo e spacciatore abituale. Epilettico e pure un po' spocchioso. Uno zombie che “aggrediva e derubava le vecchiette”. A condannarlo a morte i suoi eccessi, non di certo le mazzate: nessuna relazione tra percosse e decesso, nessun dubbio sull'operato delle forze dell’ordine. Anche questo si è detto di Stefano Cucchi, da quel terrificante 22 ottobre 2009. Falsità, calunnie, cattiverie, superficialità, sfociate in una narrazione capace di confondere vittime e carnefici, avvelenare il dibattito, mortificare il terzo articolo.

Tanto altro si è raccontato sulla sorella Ilaria, paladina ostinata e preziosa, descritta come “befana” a caccia di riflettori elettorali, “lobbista” in cerca di risarcimenti. Non era ancora il momento giusto, per questa raccolta. Ora però sì. Ora che le sentenze definitive certificano botte fino a morire, ora che la verità giudiziaria pare degna di uno Stato di Diritto, come da requisitoria: “Una via crucis notturna”, “si è voluto infliggere a Cucchi una severa punizione corporale di straordinaria gravità”.

Omicidio preterintenzionale per due carabinieri. Al riparo dai depistaggi, condannati in otto, pure per quelli. Un calvario lungo 13 anni che vogliamo ripercorrere qui, attraverso tutto ciò che di peggio abbiamo visto, letto e ascoltato: ministri, sottosegretari, leader politici, sindacalisti, giornalisti. Dedicato a Stefano Cucchi, alla battaglia di Ilaria, a tutte le famiglie come la sua.

LA CORRETTEZZA DEI CARABINIERI

“Non ho strumenti per accertare. Di una cosa però sono certo: del comportamento corretto dei carabinieri in questa occasione”

(Ignazio La Russa, ministro della Difesa del governo Berlusconi, intervistato da Radio Radicale sul caso Cucchi – 30 ottobre 2009)

FAKE

“Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo”

(Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con deleghe alla Famiglia e alla droga – Ansa, 9 novembre 2009) 

ZOMBIE

“La droga ha devastato la vita di Cucchi. Sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie”

(Carlo Giovanardi a 24 Mattino su Radio 24 – 9 novembre 2009) 

SPACCIATORE ABITUALE

“Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto – e la verità verrà fuori – soprattutto perché pesava 42 chili”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 novembre 2009) 

BARBARI

“Esprimo a nome mio e del Governo tutto la totale solidarietà a Carlo Giovanardi. Le minacce ricevute rappresentano un inaccettabile imbarbarimento”

(Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio – Ansa, 12 novembre 2009)

FAME E SETE

“Stefano Cucchi è stato lasciato morire di fame e di sete”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 13 novembre 2009)

NON SE NE PUÒ DAVVERO PIÙ: GUARDATE IN FAMIGLIA...

“È davvero il momento di smetterla con le pesanti recriminazioni contro il sistema istituzionale perchè non se ne può veramente più. Basta con il rifiuto delle sentenze, ma solo quando non fanno comodo. Basta con questa smania giustizialista che punta agli Appartenenti alle Forze dell’Ordine e che spinge sempre e solo a cercare la pagliuzza negli occhi degli altri... Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo, perché a dire la vera verità le morti realmente violente che oltre tutto non hanno trovato giustizia né responsabili a cui far pagare il conto sono ben altre. Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia”. “Non possiamo che considerarli deliri dovuti al grande dolore della perdita di una persona amata, chiedendoci però se altrettanta foga e perseveranza sia stata profusa quando quella persona era in vita per affrontare altre questioni. In tutti i casi, certamente affermare che la morte di Stefano Cucchi sia colpa dei giudici che non hanno ravvisato responsabilità in chi lo ha avuto in consegna o, prima ancora, di chi lo ha avuto in consegna secondo i precisi dettami della nostra professione, è qualcosa che non sta né in cielo né in terra e di cui, sinceramente e bando all’inutile pietismo, non se ne può davvero più”

(Franco Maccari, presidente del sindacato di polizia Cosip, Sindacato Indipendente di Polizia – 1 novembre 2014)

TIPICO...

“Cucchi è stato vittima di una vita segnata dalla droga e dalle relative gravi patologie tipiche di chi ne fa uso e della negligenza di medici che lo hanno lasciato morire di fame e di sete”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 13 dicembre 2012)

EVENTUALI PERCOSSE...

“Tutte le perizie arrivano alla conclusione che non c'è nessuna relazione tra la morte di Cucchi ed eventuali percosse subite”

(Carlo Giovanardi a 24 Mattino, Radio 24 – 1 febbraio 2013)

LO SFRUTTAMENTO DI ILARIA

“La candidatura di Ilaria Cucchi? È evidente che sta sfruttando la tragedia del fratello...”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 1 febbraio 2013)

NON CI STO

“La Provincia di Roma gli voleva intitolare le scuole come se fosse un esempio ai giovani: non ci sto. È come con Carlo Giuliani: certo, Giuliani è una vittima, poveretto. Ma si possono intitolare a lui le sale del Parlamento? Io dico no, perché quando è morto stava per ammazzare tre carabinieri”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 1 febbraio 2013)

UN PESTAGGIO MAI AVVENUTO

“Il tempo è galantuomo e ha fatto giustizia di pregiudiziali ideologiche, enfatizzate dai media, che attribuivano responsabilità agli agenti di custodia per un pestaggio mai avvenuto”

(Carlo Giovanardi, in una nota – 5 giugno 2013)

LE BOTTE NON C'ENTRANO NIENTE

“Le ecchimosi sul corpo di Stefano Cucchi sono dovute alla mancanza di nutrizione, non c’entrano niente le botte, né quei tre poveri cristi degli agenti di custodia, che prendono 1200 euro al mese e hanno vissuto quattro anni d’inferno”

(Carlo Giovanardi, senatore Pdl, a La Zanzara su Radio 24 – Fatto Quotidiano, 7 giugno 2013)

LE FORZE DELL'ORDINE NON C'ENTRANO NIENTE

“Il povero Stefano Cucchi aveva una vita sfortunata, segnata dall’uso di stupefacenti e dal fatto di essere uno spacciatore. Ha avuto 16 ricoveri al pronto soccorso, per percosse risalenti agli anni precedenti, ma non c’entravano niente polizia e carabinieri”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 7 giugno 2013)

LO SCIOPERO DELLA FAME

“Quello che è successo a Cucchi deriva dal mondo che frequentava: è morto perché i medici, anziché curarlo, hanno preso per buone le dichiarazioni di sciopero della fame”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 7 giugno 2013)

VITA DISSOLUTA? NE PAGHI LE CONSEGUENZE

“In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità”, “se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”

(Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap – Ansa, 31 ottobre 2014

IL CANNIBALE

“Nelle perizie si legge che Cucchi ha mangiato se stesso, quando è andato in ospedale pesava 36 chili”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24 – 31 ottobre 2014)

L'ALTRA TEORIA...

Ma perché Cucchi ha fatto lo sciopero della fame? “Protestava per l’arresto. Poi c’è un’altra teoria, qualcuno dice che aveva lasciato la roba in casa ed era preoccupato che gliela sequestrassero e che chi gliela aveva fornita lo scoprisse”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 31 ottobre 2014)

QUALCUNO L'HA FATTO, SI SCOPRIRÀ POI...

“Stefano Cucchi era stato già ricoverato per 17 volte a causa di percosse, lesioni, ferite determinate nell'ambiente in cui viveva. Mi domando: è possibile che la diciottesima volta sia stato picchiato da tre agenti di custodia?”

(Carlo Giovanardi, senatore del Nuovo centrodestra, in una videointervista per Secoloditalia.it – 4 novembre 2014)

ILARIA CUCCHI ABBANDONA E ISTIGA ALL'ODIO

“Stefano Cucchi è stato abbandonato dalla famiglia. Come mai oggi la signora Cucchi si interessa tanto del fratello?”. “Denunciamo la signora Cucchi per istigazione all’odio, offende la polizia penitenziaria. Se lei e la sua famiglia avessero seguito da più vicino Stefano e avessero fatto più prevenzione, probabilmente l’avrebbe salvato da quella cattiva strada che aveva intrapreso, cioè quella dello spaccio della droga. Potevano recuperarlo, e invece Stefano Cucchi è stato abbandonato al suo destino”

(Donato Capece, segretario del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, dopo aver querelato Ilaria Cucchi – La Zanzara, Radio 24, 4 novembre 2014)

ROBA VECCHIA...

“Le lesioni? Erano pregresse al momento dell’arresto. Sono fratture vecchie. È stato picchiato, ma probabilmente prima”

(Donato Capece – Radio 24, 4 novembre 2014)

FORMIGONI NON CREDE

“Stefano Cucchi morto in mano allo Stato? Non credo che la vicenda possa esser ricostruita in questi termini. Lui è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”

(Roberto Formigoni, senatore Ncd, a Un giorno da pecora su Radio Due – 5 novembre 2014)

TWITTERONI PROTESTONI

“Finora le indagini hanno portato alla sentenza di assoluzione, e le sentenze si possono criticare ma si devono rispettare. Non è questo l'insegnamento che la sinistra e i twitteroni protestoni hanno sempre sostenuto?”

(Roberto Formigoni – Radio Due, 5 novembre 2014)

VITTIMA? PUTTANATA

Stefano Cucchi, per Giuliano Ferrara è come Carlo Giuliani: “Puttanata dire che è vittima”. (…) Bianca Berlinguer, ospite di TvTalk su Rai Tre, interrompe subito il direttore del Foglio: “Cucchi è stato picchiato o non è stato picchiato?”. E Ferrara risponde ancora polemico: “Non lo so, ci sono due sentenze contraddittorie, ma Cucchi non faceva la vita di un normale ragazzo che va a scuola o che va a lavorare. E non mi pareva molto in salute, a prescindere da tutto”

(Blitz Quotidiano – 10 novembre 2014)

GINOCCHIO SBUCCIATO? CAZZI TUOI

Il leader della Lega, Matteo Salvini, si schiera contro il reato di tortura (“idiozie”, ndr), al centro di un aspro dibattito dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sul G8 di Genova e casi come quello di Stefano Cucchi. In una manifestazione davanti a Palazzo Chigi insieme al Sap, dichiara: “La Corte europea dei diritti umani potrebbe occuparsi di altro. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”

(La Repubblica – 25 giugno 2015)

FORSE GASPARRI LO AVREBBE SALVATO

“Se Cucchi, prima di morire, avesse avuto una mano tesa per andare in comunità, e lo dico perché io mi occupo molto di tossicodipendenti, forse oggi sarebbe vivo”. “È andato incontro a un destino assurdo e drammatico perché era vittima della droga, bisognava un attimo prima portarlo su una strada diversa“. Immediata la replica di Ilaria Cucchi: “E quindi l’avremmo salvato in quel modo, secondo lei?”. “Io ho salvato tante persone dalla droga, signora...”

(Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, a L’Aria che tira, in un confronto con Ilaria Cucchi – La7, 2 novembre 2015)

LO SCHIFO

“Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo, è un post che fa schifo. Ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi. I carabinieri possono tranquillamente mettere una foto in costume da bagno sulla pagina di Facebook. O un carabiniere non può andare al mare? È assolutamente vergognoso. I legali fanno bene a querelare la signora e lei dovrebbe chiedere scusa. La sorella di Cucchi si dovrebbe vergognare”

(Matteo Salvini, segretario della Lega, a La Zanzara su Radio 24 – 5 gennaio 2016)

A SALVINI SEMBRA DIFFICILE...

Ma ci sono carabinieri accusati di aver picchiato Stefano Cucchi, dicono i conduttori: “Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri. Se l’1% sbaglia deve pagare. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo...”

(Matteo Salvini – Radio 24, 5 gennaio 2016)

UN GROSSO SPACCIATORE

“Quando leggo sui giornali che il caso Cucchi viene affiancato al caso Regeni, mi indigno e mi vergogno. Il povero Regeni, preso non si da chi, torturato e ucciso barbaramente. Vogliamo dire che i poliziotti e i carabinieri italiani si sono comportati nella stessa maniera? A me sembra di essere dentro un teatrino dell’assurdo. Cucchi di attività faceva lo spacciatore, tra le altre cose neanche piccolino, ma di dimensioni piuttosto grosse”

(Carlo Giovanardi, ex Ncd e ora aderente al gruppo Idea, nel corso di un'intervista rilasciata a Ecg Regione su Radio Cusano Campus – 4 aprile 2016)

GOTTA CATCH 'EM ALL

“Ho catturato un Pokémon!!! Se non lo rilascio in fretta rischio di essere condannato per il reato di tortura?!?!”

(Il tweet di Geo Ceccaroli, dirigente della Polizia postale dell'Emilia-Romagna, scatena l’indignazione di Ilaria Cucchi e della Rete – La Repubblica, 25 luglio 2016)

UNA VERGOGNOSA MONTATURA CONTRO LE FORZE DELL'ORDINE: È STATA L'EPILESSIA

“Stefano Cucchi non è morto per un presunto pestaggio. È stata l’epilessia a causare la morte improvvisa ed inaspettata dell’uomo fermato per droga, che soffriva da anni di patologia epilettica ed era in trattamento con farmaci anti-epilettici. A confermarlo sono i periti nominati dal gip per condurre un esame tecnico-scientifico nell’ambito della nuova inchiesta avviata dalla Procura di Roma nei confronti di cinque carabinieri. Insomma ancora una conferma alla vergognosa montatura mediatico-giudiziaria che per anni è servita a gettare fango su tutte le Forze dell’Ordine. Aspettiamo le scuse da parte di tutti coloro che – familiari, giornalisti, politici e quant’altro – hanno sposato ad occhi chiusi la tesi dell’uccisione dell’uomo, un violento pestaggio senza neppure attendere un riscontro dei fatti. Fango su fango, diffamazione su diffamazione, per dipingere le Forze dell’Ordine come schiere di violenti”

(Franco Maccari, Segretario Generale del COISP, il Sindacato Indipendente di Polizia, in una nota – 4 ottobre 2016)

GLI ASINI VOLANO

“Se Stefano Cucchi avesse fatto una vita sana, se non si fosse drogato e non fosse entrato in un tunnel che poi lo ha portato agli arresti non sarebbe morto. Ilaria Cucchi dice che il decesso del fratello Stefano è stato causato dalle fratture? Davanti a 20 periti e a 4 dei più grandi luminari italiani che si sono pronunciati, io non credo di certo agli asini che volano...”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara, Radio 24 – 5 ottobre 2016)

SODDISFAZIONI

“Ilaria Cucchi ha già ottenuto un milione e mezzo di risarcimento dall'ospedale, sicuramente ha ottenuto soddisfazione”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 5 ottobre 2016)

“IO NE HO SALVATI MOLTI”

“Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell'attenzione di oggi sarebbe ancora vivo”. “Evidente che non lo aiutarono ad uscirne”. E rispondendo alle critiche di alcuni follower: “Ho la tranquillità di chi ha salvato tantissimi ragazzi dalla droga”; “Andava aiutato da vivo, quando fu abbandonato”; “Io ho molta esperienza, ho salvato decine di persone avviandole in comunità, Cucchi fu abbandonato al suo tragico destino”; “Taccia, abbiamo salvato decine di persone immerse nella droga. Cucchi era stato abbandonato”; “Cucchi abbandonato da tutti, oggi tanti ne parlano, allora nessuno gli tese una mano”; “Io ho salvato molti, lei non lo meriterebbe, out”

(Maurizio Gasparri, parlamentare di Forza Italia, su Twitter – 5 ottobre 2016)

ESCLUDIAMO LE BOTTE

“Io credo che la strada dell’omicidio preterintenzionale cadrà totalmente nella fase processuale. Tutte le perizie hanno escluso che ci sia qualsiasi tipo di relazione con le botte ricevute”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara, Radio 24 – 18 gennaio 2017)

LA LOBBY CUCCHI

“Ilaria Cucchi, il suo compagno l'avvocato Anselmo, il senatore Manconi, fanno parte di una lobby, un gruppo di pressione. Loro hanno interessi economici, sono stati liquidati con un milione di euro dai medici che erano innocenti. Anselmo si vanta di vincere i processi sui media e hanno una grande capacita' mediatica. Ieri erano subito al Tg1 senza che nessun carabiniere sia intervenuto dall'altra parte”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 18 gennaio 2017)

DIFFAMAZIONE? GIOCHIAMOCI IL RISARCIMENTO

“Non mi turba, né preoccupa, dormirò sonni tranquilli. La Signora Cucchi ne sta già facendo una bandiera, ma resterà delusa. Di questo ne sono sicuro e posso giocarmi lo stipendio. Se la signora Cucchi si vuole giocare quello che ha ricevuto a risarcimento io non ho problemi”

(Gianni Tonelli, deputato della Lega e segretario aggiunto del sindacato di polizia Sap, condannato dal tribunale di Bologna per diffamazione nei confronti della sorella e dei genitori di Stefano Cucchi – Ansa, 11 aprile 2018)

LASCIAMOLI LAVORARE

Giorgia Meloni shock: “Il reato di tortura impedisce alla Polizia di lavorare”. La sorella di Stefano Cucchi risponde al tweet della leader Fdi: “Vuole dirci che senza la possibilità di picchiare è impossibile fare l’agente di Polizia?”

(Rolling Stone – 12 luglio 2018)

SCUSE DE CHE?

“Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi, perché dovrei farlo? Non mi vergogno di nulla”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 11 ottobre 2018)

“LA RUSSA NON CHIEDE SCUSA”

Nei giorni della morte di Stefano Cucchi, nel 2009, Ignazio La Russa era ministro della Difesa e difendeva l'operato dei Carabinieri. Il giorno dopo le ammissioni in aula di uno degli agenti imputati, che ha denunciato due colleghi per il pestaggio, la sorella del giovane, Ilaria, ha chiesto le sue scuse. “Rispetto la sorella di Cucchi e chi sbaglia deve pagare - spiega il vicepresidente del Senato - ma continuerò a difendere l'Arma come istituzione”, “sono contro a chi cerca di usare questi episodi drammatici per buttare fango sull'Arma”

(RepTv, Adnkronos – 12 ottobre 2018)

SPACCIATORE EROINOMANE

“Sto leggendo post di ogni genere sullo spacciatore eroinomane Cucchi. Potete pensarla come volete e per qualcuno potrà sembrare un eroe ma se non moriva lui in carcere chissà quanti giovani sarebbero morti grazie alla sua eroina che avrebbe continuato a spacciare il giorno seguente”

(Fabio Tuiach, consigliere comunale a Trieste, ex Lega e Forza Nuova, su Facebook – TriestePrima, 13 ottobre 2018)

CAZZO VUOLE LA BEFANA?

“Posto che lo spacciatore Cucchi é stato ucciso da due carabinieri (al processo si vedrà), posto che la sorella ha cercato, invano, di essere eletta deputato comunista, posto anche, e di più, che la sorella e la famiglia hanno avuto un risarcimento di un milione e 300centomila euro, cazzo vuole più quella befana della sorella?”

(Edoardo Usai, avvocato, ex consigliere regionale di Alleanza Nazionale, ex assessore comunale di Cagliari, su Facebook – La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2018)

BOTTE? VEDREMO...

“Di cosa devo chiedere scusa? Non mi vergogno di nulla”, “vedremo nel corso del processo se le botte dei carabinieri sono state causa della morte”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 14 ottobre 2018)

“PIAZZA CUCCHI, SPACCIATORE”

Il consigliere comunale di Ladispoli appartenente al gruppo Fratelli D’Italia Giovanni Ardita e l’ex candidata sindaco a Cerveteri Candida Pittoritto, esponente Msi, sono stati protagonisti di una gaffe social: sul profilo Facebook Ardita ha pubblicato l’immagine di un’iscrizione stradale con su scritto “PIAZZA STEFANO CUCCHI – SPACCIATORE”, sul modello di quelle che si sono viste per Carlo Giuliani

(Terzobinario.it – 18 ottobre 2018)

SE L'È CERCATA

Stefano Cucchi, Ilaria denuncia: “Insulti, minacce e auguri di morte da profili di simpatizzanti della Lega”. Recapitata all’abitazione dei genitori a Roma una lettera anonima scritta a mano con insulti: “Dovreste essere voi, e non Salvini, a scusarvi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga. Mi spiace abbia pagato con la vita, ma se l’è cercata”

(Fatto Quotidiano – 20 ottobre 2018)

CUCCHI NO, ALE E FRANZ SÌ

Il presidente della Camera Roberto Fico porta il film su Stefano Cucchi alla Camera. Matteo Salvini all’agenzia Dire: “Non ho tempo per il cinema”. Due giorni dopo, ospite del Maurizio Costanzo Show: “Sono andato a teatro dopo mille anni, ho visto lo spettacolo di Ale e Franz, due grandi”

(13 novembre 2018)

FORZA NUOVA NON CI STA

Torino, striscione di Forza Nuova contro l'Anpi e Ilaria Cucchi. Il movimento di estrema destra contro la decisione di conferire la tessera onoraria alla sorella di Stefano Cucchi e al sindaco di Piace Mimmo Lucano. “Anpi, oggi come ieri traditori del popolo”

(Corriere Torino, 17 novembre 2018)

PURE I MASSONI

“Cucchi è un eroe della sinistra e visto che è un martire per i massoni anti italiani ogni giorno ai tg si parla di lui”. Lo rileva il consigliere comunale Fabio Tuiach

(TriesteCafe.it, 28 febbraio 2019)

BASTAVA UN BICCHIERE D'ACQUA

“C’è una sentenza che dice altro: bastava un bicchiere d’acqua per salvare Cucchi”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

FRATE INDOVINO

“Carlo Giovanardi: 'Scusarmi con la famiglia Cucchi? E perché mai? Ho fatto riferimento solo agli atti giudiziari'. Già, e quel 'sieropositivo, epilettico, anoressico, tossicodipendente' (detto a proposito di Stefano), dove l'ha trovato? Sul calendario di Frate Indovino?”

(Luigi Manconi su Twitter – 10 aprile 2019)

COSE NAZISTE

“Il comportamento dei Carabinieri che avevano Cucchi in custodia? Aspetto la condanna definitiva: i linciaggi sono nazismo”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

SCENEGGIATI

“Famiglia Cucchi isolata? Ma se ha avuto sostegno, film e sceneggiati... non sono mancati gli appoggi!”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

MELUZZI: LA FAMIGLIA CUCCHI SI SCUSI

“Come il comandante generale dell'Arma ha chiesto scusa alla famiglia Cucchi, per un principio ovvio la famiglia Cucchi dovrebbe chiedere scusa a tutte quelle famiglie di giovani a cui il geometra Cucchi spacciava la droga”. I conduttori ricordano a Meluzzi: Cucchi ha trovato la morte mentre era “affidato alle mani dello Stato”. E lo psichiatra: “Questo lo accerterà la magistratura...”

(Alessandro Meluzzi a La Zanzara, su Radio 24 – 12 aprile 2019)

PRECISAZIONI

Ilaria Cucchi risponde a Giorgia Meloni su HuffPost: Cucchi non è mai stato condannato, indagato ma nemmeno sospettato per spaccio di droga fino al giorno del suo arresto. Quando voi politici avete qualche vostro collega che viene coinvolto in inchieste per corruzione, mafia o altro, vi dichiarate giustamente garantisti…

(Globalist.it – 18 aprile 2019)

CUCCHI COME GARIBALDI E CAVOUR? NO!

“Una strada può essere intitolata solo ai benemeriti di una nazione. Ora, dire che Cucchi sia come Garibaldi o Cavour mi sembra esagerato. Vittima della droga, vittima delle circostanze, magari vittima dei carabinieri, vedremo al processo, ma benemerito della nazione no...”

(Carlo Giovanardi all'Adnkronos – 8 ottobre 2019)

CUCCHI AGGREDIVA LE VECCHIETTE

“Cucchi era un drogato che rubava ed aggrediva le vecchiette per drogarsi”. Questo è quanto si è permessa di scrivere Pina Bernardini, Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, sul gruppo Facebook “Sostenitori Polizia Penitenziaria”

(Dal sito del giurista Emilio Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani – 18 ottobre 2019)

GLI INTERROGATIVI DI FELTRI

“Cucchi morì ammazzato, dice il tribunale. È sempre colpa dei carabinieri. Sarà vero?”

(Vittorio Feltri, direttore di Libero, su Twitter – 15 novembre 2019)

TOSSICO E PURE SPOCCHIOSO

“IO NON STO CON ILARIA CUCCHI! Stefano Cucchi ha avuto finalmente giustizia (Bah)! La sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare). Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso. Per carità nessuno può morire e deve morire di botte ma neanche può passare per vittima o per eroi lui e tantomeno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!”

(Adriano Palozzi, consigliere regionale del Lazio di Cambiamo!, ex Forza Italia, su Facebook, per poi cancellare il post – 16 novembre 2019)

TUO FRATELLO UCCIDEVA LE PERSONE

“I carabinieri avranno anche sbagliato!!!!... ma tuo fratello rimarrà sempre un drogato e spacciatore che uccideva altre persone... Non c’è nulla da festeggiare!!!! Ilaria Cucchi Vergognati”. In allegato, un meme di Ilaria Cucchi con il seguente virgolettato: “A mio fratello Stefano. Da vivo ti abbandono, da morto ti adoro”

(Candida Pittoritto, esponente di Cambiamo!, su Facebook – Tusciaweb, 17 novembre 2019)

ILARIA SPECULA

“Sicuramente aveva diritto di vivere, sicuramente i carabinieri hanno sbagliato e li condanno, ma la sorella sta speculando sulla sua morte. Quando era in vita, Ilaria non lo voleva vedere e lo aveva cacciato di casa, adesso che è morto lo adora. Stefano Cucchi non era un santo, anzi spacciava e uccideva altre vite umane. Perciò, per quanto mi riguarda io condanno tutti e tre, carabinieri, Stefano Cucchi e Ilaria Cucchi”

(Candida Pittoritto in un commento su Facebook – Tusciaweb, 17 novembre 2019)

QUI ANDAVA ANCORA D'ACCORDO CON SALVINI

“La sorella di Cucchi ha querelato Salvini perché questi ha detto che la droga fa male. Se il tribunale lo condannasse vorrebbe dire che gli stupefacenti fanno un sacco bene. Cose folli”

(Vittorio Feltri su Twitter – 19 novembre 2019)

TUTTO NASCE DALLA DROGA

“Tutti gli episodi di violenza nascono dalla droga. La droga fa male. Se Cucchi è stato ammazzato, chi l'ha fatto va in galera, ma mi spiace che si sottovaluti il problema della droga”

(Matteo Salvini a Fuori dal coro, su Rete 4 – 19 novembre 2019)

DROGA ZERO

“Dopo Carola Rackete, mi querela la signora Cucchi? Nessun problema, sono tranquillissimo, dopo le minacce di morte dei Casamonica e i proiettili in busta, non è certo una querela a mettermi paura”, “una querela in più o una in meno non mi cambia la vita”. “Spero che il Parlamento approvi subito la legge 'droga zero' proposta dalla Lega, per togliere per sempre ogni tipo di droga dalle strade delle nostre città”

(Matteo Salvini – Ansa, Rete 4, 19 novembre 2019)

ANCONA, FORZA ITALIA CONTRO “VIA CUCCHI”

“Le strade si intitolano agli eroi, non ai tossicodipendenti”. Arriva un comunicato a firma Daniele Silvetti, coordinatore provinciale, Teresa Stefania Dai Prà, commissario comunale, e Luca Mariotti, vice commissario comunale

(AnconaToday, 21 novembre 2019)

ANDAVA CONDANNATA LA FAMIGLIA

“Sfruttare la morte per fare soldi e avere notorietà è come averlo ucciso una seconda volta. Cucchi andava aiutato e non ucciso da Istituzione e famiglia”. A scrivere il post shock su Facebook contro la famiglia Cucchi, accusata di aver speculato sulla morte di Stefano, è Antonio Galizia, 68 anni, per 20 anni interamente trascorsi al comando della stazione di Giovinazzo, in provincia di Bari, e un presente da politico nelle liste di 5 Stelle nonché padre di una deputata grillina, che ha aggiunto: “Forse condannare la famiglia e la sorella per aver abbandonato un figlio e un fratello sarebbe stata vera Giustizia”

(Repubblica Roma – 8 aprile 2022)

UNA SPINTA E UN CALCIO

“Se i carabinieri, quando Cucchi si è rivoltato per colpire un carabiniere, gli hanno dato una spinta e un calcio, era assolutamente giusto che venissero condannati per la spinta e il calcio. Quando però una sentenza di Cassazione mi dice che non c’è relazione tra spinta e calcio e la morte perché la morte dipende dai medici che non l’hanno curato, io dico che i carabinieri devono essere condannati, ma faccio notare che le sentenze sono contrastanti”

(Carlo Giovanardi intervistato da Nextquotidiano.it, in merito alla sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato i due carabinieri a 12 anni per omicidio preterintenzionale – 8 aprile)

GIOVANARDI HA REMATO VERSO LA VERITÀ

Ma dei medici Cucchi non avrebbe avuto bisogno, se non avesse subito il pestaggio. Nel 2019, lei ha insistito sull’assenza di nessi tra la morte di Cucchi e le percosse subite. Affermazioni che hanno portato Ilaria Cucchi a querelarla. Oggi pensa di dovere delle scuse alla famiglia? “Ma di cosa devo chiedere scusa? Io ho sempre remato verso la verità. E mi sono limitato a riportare le sentenze. Ilaria Cucchi mi ha querelato, ma il pm di Roma e il gip hanno archiviato la vicenda dicendo che io ho sempre dichiarato cose vere e con linguaggio continente, facendo riferimento a carte processuali e perizie”. Secondo la sorella della vittima, lei avrebbe infamato la memoria di Stefano intervenendo continuamente sulla vicenda in questi anni. “Del caso mi sono interessato fin da subito perché avevo la delega alle politiche antidroga. E non si può negare che la droga abbia avuto un ruolo in questa vicenda”

(Carlo Giovanardi al Corriere di Bologna – 9 aprile)

TRE ANNI PRIMA: 9 APRILE 2019

“Chiedere scusa? Di cosa? Per cosa? Non c'è nessuna relazione tra le percosse dei Carabinieri e morte di Cucchi: lo dicono le perizie”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

AH NON POSSO? (FINALE)

Senatore Salvini, è arrivata la sentenza di condanna per i carabinieri che hanno ucciso Cucchi, lei si sente finalmente di chiedere scusa alla famiglia dopo tutti questi anni e dopo quello che ha detto di Cucchi?

“Perché, io ho ucciso qualcuno?”.

No, però lei ha attaccato più volte la sorella, che ha chiesto delle scuse. Disse anche: “Non credo che i carabinieri si divertano a pestare la gente”. Forse non per divertimento, ma il pestaggio c’è stato e ha provocato la morte di Cucchi.

“Se qualcuno l’ha fatto ha sbagliato e pagherà”.

Lei non crede di doversi scusare?

“Ma devo chiedere scusa anche per il buco nell’ozono? Se vuole chiedo scusa... Io ripeto tutto quello che ho detto”.

Lei ha candidato Tonelli, uno che ha detto che Cucchi è morto per la vita dissoluta che faceva, e Tonelli è oggi un suo deputato.

“Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l’ho invitata al Viminale, se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la DROGA fa male sempre e comunque, e io combatto la DROGA in ogni piazza”.

Ma che c’entra?, mica è morto per la droga Cucchi, è morto per le botte…

“Sto dicendo che condanno e sono vicino, per quello che mi riguarda da senatore e da papà combatterò la DROGA in ogni angolo d’Italia”.

Cosa c’entra con il pestaggio?

“Ma lo posso dire o no? Posso dire che sono contro ogni genere di spaccio e di DROGA?”.

Ma perché lo dice in relazione alla vicenda Cucchi?, c’è una sentenza che dice che è morto per le botte, non per la droga.

“Forse sono io che non riesco a spiegarmi, lo faccio lentamente. Se qualcuno ha sbagliato paga, in divisa o non in divisa, incontrerei volentieri la sorella. Punto, accapo. Frase numero due. Sono contro lo spaccio di DROGA sempre e comunque, punto. Posso dirlo? Posso dire che sono contro lo spaccio e la DROGA sempre e comunque?”

(Matteo Salvini commenta la sentenza Cucchi con alcuni cronisti, uno in particolare: Marco Billeci – Fanpage.it, 14 novembre 2019)

Caso Cucchi, Salvini prende atto della sentenza ma non si scusa con la famiglia. Il Domani il 12 aprile 2022.

«Mi devo scusare per le mie idee? Io sono contro ogni tipo di droga senza se e senza ma», ha detto il leader della Lega, che aveva querelato Ilaria Cucchi che lo definì «uno sciacallo»

«Ne prendo atto», è il commento del leader della Lega, Matteo Salvini, a chi gli ha chiesto una risposta alle dichiarazioni dell’avvocato della famiglia di Stefano Cucchi, Fabio Anselmo, che avrebbe dedicato a lui e ad altri «supergarantisti» la sentenza, che ha confermato la condanna dei due carabinieri.

«Mi devo scusare per le mie idee? Io sono contro ogni tipo di droga senza se e senza ma», ha detto. «Quando c’è di mezzo un morto c’è solo da pregare, le mie e le sue idee vengono dopo. Detto questo, la droga uccide. I ragazzi di oggi che dopo il lockdown si “strafanno” di farmaci e di psicofarmaci», ha continuato. 

Alla domanda dei cronisti se fosse disposto a chiedere scusa a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, l’ex ministro dell’Interno ha risposto che non si sarebbe scusato e che gli «spiace se lei è a favore di qualche tipo di droga».

Lo scontro tra Salvini e la famiglia Cucchi è iniziato nel 2019, quando il segretario della Lega aveva commentato la sentenza di condanna dei carabinieri dicendo che la decisione provava «che la droga fa male sempre e comunque». Ilaria Cucchi lo aveva definito «uno sciacallo», e Salvini la querelò per questo, ma incassò un’archiviazione del gip, che aveva riconosciuto il «diritto di critica» alla sorella di Stefano.

L’OMICIDIO. «La morte di Stefano Cucchi si spiega solo con il pestaggio». I legali di parte civile hanno depositato una memoria in vista dell’udienza del 4 aprile in Cassazione dove sono imputati, tra gli altri, per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 13 anni in Appello a Roma. Il dubbio il 25 marzo 2022.

«Se si sottraggono il pestaggio e le lesioni dal percorso causale, non c’è alcun modo logico e scientifico di spiegare la morte di Stefano Cucchi». È quanto si legge nella memoria degli avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni, legali di parte civile di Ilaria Cucchi e dei genitori di Stefano Cucchi depositata in vista dell’udienza del 4 aprile in Cassazione dove sono imputati per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 13 anni in Appello a Roma, il carabiniere Roberto Mandolini, condannato a quattro anni per falso, e per lo stesso reato il militare dell’Arma Francesco Tedesco.

«La morte di Cucchi, per i legali di parte civile, «anche attraverso percorsi causali composti – persino quando complicati ad arte da chi voglia sfumare il nesso di causalità (con le ipotesi della morte per inanizione) – arriva inevitabilmente a trovare la sua causa scientifica, logica e, soprattutto giuridica, nel pestaggio e nelle lesioni».

Per Anselmo e Maccioni, «poiché seria è la gravità della condotta, intenso il dolo e deprecabile il comportamento successivo al reato tenuto dagli imputati, le attenuanti generiche non si possono concedere e vanno riconosciuti i futili motivi essendo provato che i due imputati dell’omicidio hanno pestato violentissimamente Stefano Cucchi traendo pretesto dal suo comportamento irrispettoso ma innocuo».

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 4 aprile 2022.

«Si è trattato di una punizione corporale di straordinaria gravità, caratterizzata da una evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi». 

Così in Cassazione il pg Tommaso Epidendio in merito al processo bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. «Si tratta di soggetti professionalmente preparati che si trovano ad affrontare una reazione prevedibile, e nemmeno delle più eclatanti, durante il fermo di Stefano Cucchi che rifiuta di sottoporsi al fotosegnalamento», sottolinea ancora il Pg.

Arrestato per possesso di hashish (21 grammi) la sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi muore all’ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo. Il legame fra la sua morte e un violento pestaggio subito mentre era nella custodia dello Stato appare evidente fin dal principio mentre la (sofferta) divulgazione delle foto del suo corpo livido e martoriato all’obitorio annuncia che per rintracciare i colpevoli si dovranno superare ostacoli imprevisti. 

Malgrado almeno tre testimonianze (quella del carabiniere Pietro Schirone e di due detenuti albanesi che videro Stefano) indichino gli esecutori dell’arresto, ossia i carabinieri della stazione Appia, come sospetti del pestaggio, la prima inchiesta della Procura di Roma vira con decisione verso gli agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici) estranei ai fatti. 

Morale: un primo processo per omicidio colposo, esteso anche ai medici (Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo) dell’ospedale che nulla fecero per interrompere quel piano inclinato al quale era avviato il paziente dopo le percosse, non portò a nulla.

Ma intanto la famiglia Cucchi, Ilaria in primis, continuava imperterrita a chiedere giustizia finché nel 2015 la Procura riapre il caso, stavolta assegnandolo a un nuovo pm (Giovanni Musarò) e a un’altra polizia giudiziaria, la Squadra Mobile. 

Ora l’inchiesta valorizza quelle testimonianze inascoltate e vi aggiunge il racconto del detenuto Luigi Lainà che raccolse le confidenze di Cucchi circa le botte ricevute: «Sono stati i carabinieri, si sono divertiti con me...» e le inoltrò al procuratore capo Giuseppe Pignatone.

Il nuovo processo per omicidio preterintenzionale nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco (più un quarto militare Roberto Mandolini accusato di falso) giunge a una svolta l’11 ottobre 2018 quando Tedesco, con una chiamata in correità, accusa per la prima volta i suoi colleghi del pestaggio: Cucchi si rifiutò di collaborare sia alle perquisizioni che al fotosegnalamento e perciò, racconta, venne massacrato di pugni e calci da Di Bernardo e D’Alessandro.

È un momento topico che si conclude con la simbolica stretta di mano fra il carabiniere Tedesco e Ilaria Cucchi, mentre lei assistita dall’avvocato (e compagno) Fabio Anselmo, finisce per commuoversi. 

Successivamente la testimonianza in aula del professor Francesco Introna il quale ammette l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi fa il resto e il cosiddetto Cucchi bis si conclude con pesanti condanne nei confronti dei carabinieri.

In appello, la conferma dell’impianto accusatorio con 13 anni inflitti a Di Bernardo e D’Alessandro più 4 anni per il falso di Roberto Mandolini e 2anni e mezzo per lo stesso reato a Francesco Tedesco. 

Oggi la Cassazione dovrà decidere le pene definitive per i quattro militari. Il pg della Cassazione, Tomaso Epidendio, nella requisitoria scritta e depositata nei giorni scorsi in vista dell’udienza, aveva chiesto di confermare le pene per tutti tranne che per Tedesco che, a suo giudizio, va sottoposto a un nuovo dibattimento. 

In parallelo si avvia alla conclusione anche il processo ter sui depistaggi avvenuti ad opera dei carabinieri, secondo l’accusa. Il terzo troncone processuale vede imputato, tra gli altri, il generale Alessandro Casarsa ex guida dei corazzieri al Quirinale e comandante del gruppo nel 2009. Giovedì è prevista la sentenza.

Grazia Longo per “La Stampa” il 4 aprile 2022.

Si sono aperte le porte del carcere, ieri sera, per Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 per detenzione di 21 grammi di hashish e morto sette giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini di Roma. 

La Corte di Cassazione li ha infatti condannati a 12 anni, uno in meno della sentenza di appello, per omicidio preterintenzionale. Ci sarà invece un nuovo processo di appello per gli altri due carabinieri accusati di falso: Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti comandante della stazione Appia, che era stato condannato a 4 anni di reclusione, e per Francesco Tedesco, che con le sue dichiarazioni aveva squarciato il velo di omertà sul pestaggio, condannato a 2 anni e mezzo di carcere. Ma su queste due condanne c'è il rischio della prescrizione sull'appello bis.

«A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull'omicidio di Stefano - commenta la sorella Ilaria Cucchi che da 13 anni lotta in nome della verità -. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di loro che ce l'hanno portato via. 

Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui». E la madre di Stefano, Rita Calore, aggiunge: «Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte».

Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Tomaso Epidendio, nella requisitoria pronunciata davanti ai supremi giudici della V sezione penale della Cassazione, aveva definito quella di Stefano come «una via crucis notturna. Senza i calci, gli schiaffi, le spinte, ci sarebbe stata la frattura della vertebra? La risposta è palesemente negativa». E gli Ermellini gli hanno dato ragione. 

Si chiude così una vicenda giudiziaria lunga e tortuosa, dopo sette processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione e più di 150 udienze. In questi anni Stefano Cucchi è diventato, più delle tante vittime «nelle mani dello Stato» come Giuseppe Uva e Federico Aldrovandi, simbolo della battaglia per i diritti umani dei carcerati e contro ogni sopruso del potere sugli ultimi.

Una battaglia portata avanti con coraggio da sua sorella Ilaria che si è battuta contro tutte le incongruenze e le distorsioni della verità che si sono accavallate nel corso del tempo. Inizialmente, infatti, a finire nel mirino degli inquirenti furono tre agenti di polizia penitenziaria più sei medici e tre infermieri del Sandro Pertini. Che vennero processati e assolti.

Ma nel 2015 la Procura ha riaperto il caso e valorizzato le testimonianze del carabiniere Pietro Schirone e di due detenuti albanesi che videro Stefano picchiato dai militari. Inoltre si è aggiunto il racconto del detenuto Luigi Lainà che raccolse le confidenze di Cucchi circa le botte ricevute. 

Fino al processo concluso ieri in via definitiva. Il Comando generale dei carabinieri dichiara: «La sentenza della Cassazione, sancisce la responsabilità di due dei 4 carabinieri coinvolti, a diverso titolo, nella drammatica morte di Stefano Cucchi. Per questo vanno le scuse alla famiglia di Stefano e la promessa che i procedimenti disciplinari verranno conclusi con il massimo rigore. 

Lo dobbiamo alla famiglia Cucchi e a tutti i carabinieri che giornalmente svolgono la loro missione di vicinanza e sostegno ai cittadini». Ma non è ancora finita. Dopodomani ci sarà la sentenza per il processo sui presunti depistaggi dopo la morte di Stefano. La Procura di Roma ha chiesto la condanna degli otto carabinieri coinvolti.

Cucchi, la sentenza in Cassazione: condanne confermate, 12 anni ai carabinieri. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Diminuita di un anno la precedente condanna. L’accusa era di omicidio preterintenzionale, per il pestaggio in caserma. Processo da rifare per altri due imputati accusati di falso. 

Il verdetto è arrivato. Questa volta definitivo. La parola fine su un storia lunga 13 anni, quella di Stefano Cucchi. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro ritenuti responsabili della morte del ragazzo sono stati condannati in via definitiva a 12 anni di carcere, uno in meno rispetto alla precedente sentenza. La Suprema Corte ha invece disposto un nuovo processo, un appello-bis, per gli altri due carabinieri finiti alla sbarra, Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, che erano stati condannati a 2 anni per falso.

Immediate le reazioni. «A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che che l’hanno portato via», è stato il commento a caldo di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, subito la sentenza della Cassazione. «Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori, che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musaro’ che ci ha portato fin qui». Pure la mamma di Stefano e Ilaria, Rita Calore, sentita telefonicamente, ha dimostrato di sentirsi sollevata dal verdetto: «Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni, almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte».

Il sostituto procuratore generale della Cassazione Tomaso Epidendio aveva chiesto la conferma delle condanne inflitte in appello, il 7 maggio scorso, e un nuovo processo «limitatamente al trattamento sanzionatorio» per il carabiniere Francesco Tedesco. In particolare, l’accusa aveva chiesto la conferma delle condanne a 13 anni di carcere, per omicidio preterintenzionale, comminate ai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, e di quella per falso, a quattro anni, per il maresciallo Roberto Mandolini.

«Fu una Via Crucis notturna quella di Stefano Cucchi, portato da una stazione all’altra — ha sottolineato in aula il Pg — e tutte le persone che entrarono in contatto con lui dopo il pestaggio sono rimaste impressionate dalle sue condizioni: si tratta di un gran numero di soggetti tra i quali infermieri, personale delle scorte, detenuti, agenti di guardia. Davvero si può ritenere che questo numero impressionante di soggetti abbia congiurato contro i carabinieri?»

Cucchi, sentenza Cassazione: condanna a 12 anni per due carabinieri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2022.  

Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro condannati per omicidio preterintenzionale, andranno in carcere. Ilaria Cucchi: "Messa la parola fine, Stefano è stato ucciso di botte"

Caso Cucchi, la Cassazione ha condannato a 12 anni, un anno in meno rispetto alla sentenza di appello, i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale in relazione al pestaggio e alla morte di Stefano Cucchi. Lo hanno deciso i giudici della Quinta sezione penale della Suprema Corte dopo una camera di consiglio durata 5 ore. Per i due Carabinieri condannati si apriranno le porte del carcere.

Per Di Bernardo e D’Alessandro i supremi giudici hanno riconosciuto valida la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Roma che li aveva condannati a 12 anni. Ci sarà un processo di appello bis per il reato di falso nei confronti dei Carabinieri Roberto Mandolini e per Francesco Tedesco, in relazione al pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009 nella caserma della compagnia Casilina, condannati in appello a 4 e a 2 anni e mezzo. Lo ha deciso la Cassazione, per questo reato però il rischio di prescrizione è imminente, a maggio. 

Disposto il processo d’appello bis per il maresciallo Roberto Mandolini – comandante della stazione Appia dove venne portato Cucchi dopo il pestaggio – per la compilazione del falso verbale di arresto, e per il carabiniere Francesco Tedesco, anch’egli accusato di falso. Per questo reato, però, sarebbe prossima – a maggio 2022 – la prescrizione.

“I giudici si sono resi conto che l’impostazione della Procura recepita dalle due sentenze di merito si scontrava con un dato di fatto insuperabile: Mandolini avrebbe commesso il falso la notte del fermo di Cucchi ma in quel momento non c’era nulla che faceva pensare che le condizioni di salute sì sarebbero aggravate fino alla morte. Che motivo aveva quella notte di coprire i due carabinieri? Tanto che aveva dato atto della presenza dei due nel verbale di perquisizione a casa di Cucchi. Non ha senso pensare che quella sera volesse coprire i due Carabinieri”, afferma  l’avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore di Mandolini all’ Adnkronos. Sul rischio prescrizione che incombe sul reato di falso, Naso spiega: “Stiamo pensando se rinunciare alla prescrizione ma prima leggeremo le motivazioni”. 

“E’una sentenza che consentirà di poter allineare il dato processuale a quello reale e che permetterà di dare completa giustizia a Tedesco. Aspettiamo ora di leggere le motivazioni”. Così l’avvocato Eugenio Pini, difensore del carabiniere Tedesco che è il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio. Tedesco, fa sapere il suo difensore, “era lieto di apprendere la notizia”.

“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui, ha detto Ilaria Cucchi dopo la sentenza. “Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte“. Queste le parole di Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, riportate dal suo legale Stefano Maccioni.

“Questi occhi hanno visto finalmente Giustizia. Stefano Cucchi è stato ucciso dai due carabinieri che lo arrestarono la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Questa sentenza la dedichiamo ai medici legali Arbarello e Cattaneo che parlarono di caduta probabilmente accidentale e di lesioni lievi. Ora i responsabili dell’omicidio di Stefano saranno incarcerati”. Così in un post su Facebook l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi, dopo la sentenza. 

Con un comunicato ufficiale il Comando Generale dell’ Arma dei Carabinieri ha commentato la sentenza emessa oggi dalla Corte di Cassazione che sancisce le responsabilità di due dei quattro

carabinieri coinvolti, a diverso titolo, nella vicenda della drammatica morte di Stefano Cucchi. “Una

sentenza che ci addolora, perché i comportamenti accertati contraddicono i valori e i principi ai

quali chi veste la nostra uniforme deve, sempre e comunque, ispirare il proprio agire. Siamo vicini alla famiglia Cucchi, cui condividiamo il dolore e ai quali chiediamo di accogliere la nostra profonda sofferenza e il nostro rammarico. Ora che la giustizia ha definitamente terminato il suo corso, saranno sollecitamente conclusi, con il massimo rigore, i coerenti procedimenti disciplinari e amministrativi a carico dei militari condannati. Lo dobbiamo alla famiglia Cucchi e a tutti i Carabinieri che giornalmente svolgono la loro missione di vicinanza e sostegno ai cittadini.” Redazione CdG 1947

“Finalmente andranno in galera”: così Ilaria Cucchi sulla sentenza. Giampiero Casoni il 05/04/2022 su Notizie.it.

“Finalmente andranno in galera coloro che hanno colpito più e più volte mio fratello infliggendogli sofferenze e morte in solitudine”: così Ilaria Cucchi. 

“Finalmente andranno in galera”: così Ilaria Cucchi si è espressa a caldo sulla sentenza di condanna definitiva per i due carabinieri colpevoli di aver causato la morte del fratello Stefano al di là delle intenzioni e travalicando i criteri di custodia cautelare.

La sorella del geometra romano ucciso di botte ha commentato la condanna a 12 anni per i due imputati organici all’Arma.

“Finalmente andranno in galera”

E ha detto: “È finita. Andranno finalmente in galera coloro che hanno colpito più e più volte mio fratello”. E che lo hanno colpito “infliggendogli sofferenze che poi lo porteranno a morte in totale e obbligata solitudine“. La sorella di Stefano, dopo la sentenza emessa in punto di Diritto dalla Suprema Corte di Cassazione che ha confermato la condanna nei confronti dei carabinieri coinvolti ha anche parlato del suo stato d’animo attuale.

Ilaria Cucchi: “Mi sento disorientata”

E ha spiegato: “Come mi sento? Mi sento disorientata. Persa in un immane dolore per quanto inflitto alla mia famiglia durante tutti questi anni”. Gli “ermellini” di Piazza Cavour hanno condannato a 12 anni di reclusione i due carabinieri imputati per l’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi. Con quel pronunciamento i massimi giudici avevano ridotto di un anno quanto era stato già statuito dopo camera di consiglio dalla Corte di Appello.

Per gli altri due militari dell’Arma dei Carabinieri imputati per falso, invece, è stato decretato un Appello Bis e il processo di secondo grado dovrà celebrarsi di nuovo.

La sentenza della Cassazione. Omicidio Stefano Cucchi, condanna ridotta ai carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro: processo da rifare per altri due. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

La Cassazione ha ridotto la condanna per omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro: la pena passa da 13 a 12 anni di reclusione. Nuovo processo in Appello invece per i due carabinieri accusati di falso nell’ambito della morte del geometra romano di 31 anni. Processo bis dunque per Roberto Mandolini, che era stato condannato a 4 anni di reclusione e per Francesco Tedesco, condannato a 2 anni e mezzo di carcere.

A oltre 12 anni dall’omicidio di Stefano Cucchi, arriva la sentenza della Cassazione per i quattro carabinieri imputati nel processo nato dall’inchiesta bis che ha fatto luce sul violento pestaggio subito dal geometra la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Percosse che l’hanno portato al decesso, avvenuto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo una camera di consiglio di oltre sei ore, i giudici della Quinta Sezione Penale della Suprema Corte hanno ridotto di un anno la condanna comminata in appello per i due autori del pestaggio.

In aula presente la sorella di Stefano, arrivata questa mattina accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo. “Questa vicenda ha restituito speranza e fiducia a tante persone, speriamo che questa fiducia non venga delusa” aveva detto entrando al ‘Palazzaccio’. “Dopo 15 gradi di giudizio e più di 150 udienze è una vicenda estenuante, siamo stremati ma siamo arrivati sin qui e abbiamo fiducia nella verità” ha aggiunto l’avvocato Anselmo.

“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di loro che ce l’hanno portato via”. Lo ha detto, così come riporta l’agenzi Dire, Ilaria Cucchi subito dopo la lettura della sentenza da parte dei giudici della Corte di Cassazione. “Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie va anche al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui”. 

In secondo grado Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro erano stati condannati a 13 anni, il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, condannato in secondo grado a 4 anni di carcere per aver coperto quanto accaduto. Francesco Tedesco, che, inizialmente imputato per il pestaggio, durante il processo di primo grado denunciò i suoi colleghi diventando un teste chiave dell’accusa, era stato condannato a due anni e mezzo per falso.

Nella sua requisitoria, il sostituto procuratore generale della Cassazione, Tomaso Epidendio, aveva chiesto la conferma delle condanne a 13 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, e la conferma della condanna per falso, a quattro anni, per il maresciallo Roberto Mandolini. Chiesto un nuovo processo “limitatamente al trattamento sanzionatorio” per il carabiniere Francesco Tedesco che denunciò i suoi colleghi divenendo un teste chiave.

Quella di Cucchi è stata “una via crucis notturna, in cui tutti coloro che lo hanno visto sono rimasti impressionati dalle sue condizioni” ha detto Epidendio. “Si è voluto infliggere a Cucchi una severa punizione corporale di straordinaria gravità, per il suo comportamento strafottente. Tutto qui é drammaticamente grave e concettualmente semplice – aggiunge – Eliminiamo le spinte, i pugni e i calci e domandiamoci se ci sarebbe stata la frattura della vertebra e la lesione dei nervi. La risposta è semplice: no”.

Giovedì 7 aprile sentenza di primo grado sui presunti depistaggi: imputati 8 carabinieri

La sentenza della Cassazione arriva a pochi giorni di distanza da quella, prevista per il prossimo 7 aprile, nel processo sui presunti depistaggi seguiti alla morte di Cucchi. Sul banco degli imputati ci sono otto carabinieri, accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Per loro il pm Musarò ha chiesto condanne che vanno dai 7 anni a un anno e un mese.

LA STORIA – Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, nei pressi di in una chiesa che si trova vicino al parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, il 31enne aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto, che non erano presenti la sera prima. Venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ma le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e, due giorni dopo, 17 ottobre, venne trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Per i medici aveva riportato lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. I medici ne chiesero il ricovero che lui rifiutò insistentemente, tanto da essere rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove morì il 22 ottobre.

Cucchi, sentenza finale. Due dei carabinieri condannati a 12 anni. Stefano Vladovich il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Omicidio preterintenzionale, ridotta di 12 mesi la precedente pena. La sorella: "Giustizia è fatta".

Caso Cucchi. La Cassazione condanna definitivamente i due carabinieri che hanno pestato a morte Stefano Cucchi. Gli «ermellini» di piazza Cavour, dopo sei ore di camera di consiglio, infliggono 12 anni di carcere ad Alessio Di Bernardo e a Raffaele D'Alessandro, colpevoli di aver causato il decesso del geometra romano in stato di fermo nella caserma Appia della compagnia Casilina.

«Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte» commenta Rita Calore, la mamma di Cucchi. I due carabinieri vengono condannati per omicidio preterintenzionale in primo grado a 12 anni e in secondo grado, con aumento di pena, a 13 anni. Processo d'Appello, come richiesto dal pg della Cassazione Tomaso Emilio Epidendio, per il maresciallo Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha stravolto le indagini sulla morte del 30enne fermato in strada con alcune dosi di cocaina. Epidendio, in particolare, ha chiesto un processo bis «limitatamente al trattamento sanzionatorio» per Tedesco, condannato a due anni e mezzo per falso assieme a Mandolini. «A questo punto - ha detto la sorella Ilaria Cucchi - possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull'omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l'hanno portato via».

Tredici anni di indagini, fra depistaggi, minacce e false testimonianze, sette processi alla lunga catena di comando che ha prima coperto i responsabili del drammatico pestaggio, poi falsificato atti e verbali mandando sotto processo anche degli innocenti. Come gli agenti penitenziari accusati, poi prosciolti da ogni accusa, di avere picchiato Cucchi all'interno della struttura carceraria. Una lunga odissea giudiziaria soprattutto per i familiari della vittima, a cominciare dalla sorella Ilaria che ha portato alla sbarra i carabinieri che avevano in custodia Stefano e che, invece, l'hanno malmenato selvaggiamente. «Una punizione corporale di straordinaria gravità - sottolinea il pg - per essersi rifiutato di sottoporsi a fotosegnalamento». Cucchi nel 2009 ha 30 anni, è tossicodipendente e spaccia per procurarsi la «roba». Il giovane viene fermato al Parco degli Acquedotti da una pattuglia dell'Arma mentre è in auto con un amico. È la sera del 15 ottobre del 2009. Quello che accade nella caserma dove viene portato si saprà solo dopo anni. Il giorno dopo il fermo, alla direttissima, l'arrestato si presenta con ematomi al volto, non riesce quasi a parlare e cammina a stento. Il giudice, Maria Inzitari, non lo guarda nemmeno in faccia, lo bolla come un «senza fissa dimora» e convalida l'arresto. Cucchi viene portato a Regina Coeli. Sta male. Si scoprirà solo dopo l'autopsia che i calci inferti, anche quando è ammanettato e a terra, hanno lesionato la spina dorsale. I medici del carcere lo visitano. Le sue condizioni peggiorano, alle 23 viene portato al pronto soccorso dell'ospedale Fatebenefratelli. Il referto parla di lesioni ed ecchimosi alle gambe, al volto con frattura della mandibola, all'addome con perdita di sangue, e al torace con frattura della terza vertebra lombare e del coccige. Cucchi rifiuta il ricovero e viene riportato in cella. Ai familiari non viene concessa alcuna visita. Sette giorni di agonia poi Cucchi viene trasferito al reparto detenuti dell'ospedale Sandro Pertini dove muore il 22 ottobre. Pesa 37 chili.

I carabinieri in cella: "Cucchi, non siamo assassini". Stefano Vladovich il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.

I due militari accusati dell'omicidio si sono consegnati. Nessuna parola alla famiglia.

«Non sono un assassino». Prima notte di galera, nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, per i due carabinieri condannati in via definitiva a una pena di 12 anni per aver ucciso Stefano Cucchi. Dopo la sentenza della Cassazione, Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono presentati in caserma e trasferiti nella struttura carceraria campana. «Cucchi non è morto per colpa mia», ha detto D'Alessandro. «Sono amareggiato per tutto questo - continua - ma rispetto la decisione dei giudici perché sono un carabiniere nell'animo». Non una parola alla famiglia Cucchi. Nei vari gradi di giudizio i carabinieri si sono sempre ritenuti non colpevoli della morte del geometra romano. Il motivo lo spiega uno dei loro legali: «La perizia certifica - dice l'avvocato De Benedictis - che Cucchi è morto come conseguenza dell'ostruzione di un catetere. Non è giusto parlare di omicidio preterintenzionale». Alle parole di D'Alessandro risponde la sorella della vittima: «D'Alessandro - commenta Ilaria Cucchi - deve riflettere ancora per comprendere cosa ha fatto se dice di non sentirsi colpevole. Ricordo quando disse alla moglie come si era divertito assieme al collega Alessio Di Bernardo a pestare quel tossico di merda. Quello di Stefano è stato un omicidio. Sono ancora frastornata ma serena per essere giunta alla fine di questo percorso per quanto riguarda gli autori del pestaggio. Sul maresciallo Mandolini, per il quale è stato disposto un nuovo processo d'Appello, non finisce qui. Ricordo che al primo processo, quello agli agenti di custodia, raccontò di quanto Stefano era stato simpatico quella notte sebbene fosse a conoscenza di quel terribile pestaggio».

Sette processi, uno alle guardie carcerarie e uno ai medici dell'ospedale Pertini nonostante i carabinieri sapevano cosa era accaduto la notte in cui Cucchi viene fermato con la coca. Gonfiato di botte anche quando, ammanettato, è a terra. È la «punizione» per il suo rifiuto alla fotosegnalazione. Alla direttissima i militari non spiegano al giudice che Cucchi non è un senza fissa dimora e, nelle sue condizioni, sarebbe potuto andare agli arresti domiciliari. Lesioni alla spina dorsale, versamento all'addome, costole fratturate. Poi la morte. Domani la sentenza di primo grado per gli 8 ufficiali alla sbarra per depistaggio. Il pm Giovanni Musarò ha chiesto 7 anni per l'ex comandante del Gruppo Roma, generale Alessandro Casarza, cinque anni e mezzo al tenente colonnello Francesco Cavallo, ex comandante del Reparto operativo, 5 anni al maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Montesacro e per il carabiniere Luca De Cianni, 4 anni per Tiziano Testarmata, ex comandante del nucleo investigativo, tre anni e mezzo per Francesco Di Sano, in servizio a Tor Sapienza, tre anni per Lorenzo Sabatino, 18 mesi per Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza.

Il corpo di Stefano Cucchi, la forza della verità. Luigi Manconi su La Repubblica il 5 Aprile 2022.

Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari ci consegnano le foto del suo cadavere sul tavolo dell'obitorio. Dopo altri due giorni, la conferenza stampa organizzata da "A buon diritto onlus": da lì è iniziato il percorso che ha portato alla sentenza di ieri, la condanna a 12 anni dei carabinieri Di Bernardo e D'Alessandro.

Ieri la Corte di Cassazione ha condannato per omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Dovranno scontare dodici anni di carcere, un anno in meno rispetto alla sentenza d’appello. La Cassazione, inoltre, ha stabilito un nuovo processo di appello nei confronti di Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, in precedenza condannati, rispettivamente, a quattro anni e due anni e mezzo di carcere per aver mentito su ciò che è realmente accaduto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella caserma Casilina.

Giovedì prossimo, poi, è prevista la sentenza di primo grado a carico di otto carabinieri (tra i quali il generale Alessandro Casarsa), accusati di aver “depistato” le indagini della magistratura. Siamo, dunque, agli atti finali di una vicenda che, con la sentenza di ieri, ha trovato la sua definitiva soluzione. Dopo dodici anni e mezzo: e questo è un punto sul quale è necessario riflettere. Allo stesso tempo è utile tornare a uno dei momenti di svolta - il primo e principale - di questa lunga storia.

Al centro si trovano alcune fotografie. Sono quelle di un cadavere sul tavolo dell’obitorio. Riprendo qui una ricostruzione dei fatti, risalente ai primi mesi del 2011. Quel corpo, incredibilmente e disperatamente magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani.

Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari di Stefano Cucchi consegnano quelle foto a Valentina Calderone, Valentina Brinis e a me. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica, ne scandivano la successione e disegnavano una sorta di anatomia degli abusi patiti. Eravamo turbati e perplessi. Le immagini avrebbero potuto mettere in moto un meccanismo emotivo destinato a suscitare più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento.

Non solo: ricorrere a una dinamica emotiva quando la questione affonda in dimensioni giuridiche e politiche avrebbe rischiato di spostare l’attenzione su una dimensione impropria e avrebbe potuto prestarsi a speculazioni di segno opposto.

Avvertivamo, inoltre, un’ulteriore preoccupazione: si penetrava, con tutta la prevedibile forza dell’interesse mediatico, nella sfera più intima della personalità, laddove il corpo inerme è il corpo senza vita. E là, quel corpo, acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo morto è così sacro, sempre e comunque, che qualunque offesa subisca è definibile, presso tutte le culture, come appunto sacrilegio. Sarebbe stato meglio, di conseguenza, preservare quelle immagini dall’offesa di sguardi forse morbosi?

Parlammo con Ilaria, la sorella di Stefano, la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevamo sbagliato anche solo comunicare la nostra opinione e che avremmo aspettato la loro decisione e a quella ci saremmo attenuti. Passarono circa tre ore e mezzo e Ilaria, nonostante non avesse ancora preso visione di quelle immagini, aveva deciso, insieme alla famiglia, per la loro diffusione il giorno successivo. Quindi, nel corso della conferenza stampa di giovedì 29 ottobre, organizzata da "A Buon Diritto Onlus", distribuimmo una cartella contenente alcune fotografie, autorizzandone la pubblicazione. Si registrò subito un notevole mutamento nell’opinione pubblica e, così, iniziò il percorso che ha portato, infine, alla sentenza di ieri.

Con la sentenza Cucchi ha vinto la famiglia ma anche lo stato. FABIO ANSELMO, avvocato, su Il Domani il 05 aprile 2022.

«Guardi, il signor Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa, anche abbastanza….quindi posso soltanto dire che era abbastanza tranquillo, si… si è anche scherzato, aveva anche dei tratti molto spiritosi, con un linguaggio romanesco simpatico insomma» diceva il maresciallo Mandolini di Stefano Cucchi. 

La mattina del 22 ottobre quell’arrestato viene trovato cadavere, nel suo letto, ricoverato all’ospedale Sandro Pertini, struttura protetta. Così si chiamava e suona drammaticamente stonato.

La giornata della sentenza di Cassazione che ha messo un punto sul caso Cucchi è stata durissima. Un’attesa che pareva non finire mai. Una tensione palpabile di chi vuole continuare a credere nella giustizia con la fottuta paura di non poterne essere più capace.

«Guardi, il signor Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa, anche abbastanza….quindi posso soltanto dire che era abbastanza tranquillo, si… si è anche scherzato, aveva anche dei tratti molto spiritosi, con un linguaggio romanesco simpatico insomma».

Parlava cosi, di Stefano, il Maresciallo Mandolini, durante l’udienza in Corte di Assise a Roma il 28 aprile 2011. Questi sarebbero, a suo dire, i loro momenti vissuti insieme alla Stazione Appia subito dopo il suo arresto. Fatto sta che Stefano Cucchi si rifiutò di firmare quasi tutti i verbali che vennero redatti in quell’occasione. Era la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Un paio di giorni dopo, i Carabinieri Casamassima e Rosati videro Mandolini dal collega Mastronardi a Tor Vergata. Era preoccupatissimo. Parlava del fatto che i suoi sottoposti avevano esagerato con un arrestato. Le sue condizioni fisiche lo preoccupavano e non sapeva come fare.

La mattina del 22 ottobre quell’arrestato viene trovato cadavere, nel suo letto, ricoverato all’ospedale Sandro Pertini, struttura protetta. Così si chiamava e suona drammaticamente stonato.

13 ANNI DI LOTTA

Inizia così la storia della nuova vita di Ilaria Cucchi, la sorella di quel tossico arrestato dai militari dell’Appia. Una storia di dolore tremendo e di violenta ingiustizia.

Una storia di rabbia composta, di impegno civile e di disperata ricerca della verità. Inizia cosi la lotta di Ilaria contro i muri di gomma, contro i pregiudizi di coloro che non sanno e le menzogne di coloro che, viceversa, sanno.

Ilaria, col suo corpo esile mentre regge a fatica, il peso della enorme foto del volto devastato dalle violenze del fratello già cadavere, diventa l’immagine di quella lotta.

Non cede mai. Non arretra di un solo millimetro di fronte a sentenze sfavorevoli ed ingiuste. Le sconfitte le danno nuova forza trascinando dietro di sé affetto, stima ed indignazione della gente che, sempre più numerosa, si identifica in lei.

Non è stato per nulla facile. Tra denunce e conferenze stampa “la sorella” ha via via restituito dignità a quel cadavere martoriato. Ora è e si chiama semplicemente Stefano.

Così come capita sempre più spesso che le persone che la incontrano per strada o al supermercato, riconoscendola, la chiamino “Ilaria!”. La ringraziano emozionandosi.

La giornata della sentenza di Cassazione che ha messo un punto sul caso Cucchi è stata durissima. Un’attesa che pareva non finire mai. Una tensione palpabile di chi vuole continuare a credere nella giustizia con la fottuta paura di non poterne essere più capace.

Dopo 150 udienze e 15 gradi di giudizio si tratta di dimostrare che lo Stato esiste ancora, che la legge è uguale per tutti e che quindi è più forte delle logiche di potere.

Si tratta di poterci continuare a credere. Ma si tratta, soprattutto, della vita di Stefano Cucchi e della sua famiglia.

“Fabio, abbiamo vinto!”, mi ha detto Ilaria questa mattina appena sveglia.

Si abbiamo vinto ma, questa volta, ha vinto anche lo Stato.

FABIO ANSELMO, avvocato. Avvocato penalista, ha difeso i famigliari di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Michele Ferulli, Dino Budroni, Aldo Bianzino, Riccardo Magherini, Davide Bifolco e molti altri.

Grazia Longo per “la Stampa” il 6 aprile 2022.

E così dopo la sentenza della Cassazione dell'altro ieri, che ha stabilito che Stefano Cucchi è morto per le botte dei carabinieri in caserma, domani è attesa un'altra importante verità su questa brutta pagina della storia dell'Arma. 

Perché non solo due militari sono stati condannati per il pestaggio mortale, ma c'è un altro filone di inchiesta che vede otto ufficiali imputati per aver coperto i colleghi. Domani, infatti, ci sarà la sentenza di primo grado per i presunti depistaggi messi in atto dalla catena di comando dell'Arma.

Il giudice monocratico della Capitale è chiamato a decidere sulle richieste di condanna formulate nel dicembre scorso dalla Procura nei confronti degli otto ufficiali imputati. In particolare sono stati chiesti 7 anni per il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma. Nel corso della requisitoria il pm Giovanni Musarò usò parole durissime affermando che «un intero Paese è stato preso in giro per anni in una attività di depistaggio che è stata ostinata, a tratti ossessiva. 

Quello che è emerso dalla fase dibattimentale è che i depistaggi non si sono fermati al 2018 ma sono andati avanti fino al febbraio 2021: sono state alzate tante cortine fumogene».

Nel frattempo Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo sconteranno in carcere i prossimi 12 anni per omicidio preterintenzionale. Prima di entrare nella prigione militare di Santa Maria Capua Vetere D'Alessandro ha dichiarato: «Non sono un assassino, Cucchi non è morto per colpa mia. Sono amareggiato, ma rispetto la decisione dei giudici perché sono un carabiniere nell'animo». 

Immediata la replica della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: «Molto probabilmente deve riflettere ancora per comprendere cosa ha fatto se ancora afferma di non sentirsi colpevole. Ricordo ancora quando disse alla moglie come quella notte si era divertito assieme al collega Alessio Di Bernardo a pestare "quel tossico di merda". Quello di Stefano è stato un omicidio».

La sentenza della Cassazione, precisa il Comando generale dei carabinieri «ci addolora, i comportamenti accertati contraddicono i valori e i principi ai quali chi veste la nostra uniforme deve ispirare il proprio agire». 

La Suprema Corte ha disposto un nuovo processo d'appello per il maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca comandante della stazione Appio e per Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha squarciato il velo di omertà e ha fatto riaprire le indagini. Sono accusati di falso ma sulle loro posizioni incombe il rischio prescrizione. 

Ilaria Cucchi interviene anche sul caso di Mandolini: «Ho ancora in mente la sua espressione quando venne al primo processo, quello che definisco "sbagliato" alle guardie penitenziarie, raccontò di quanto Stefano era stato simpatico quella notte quando invece era già a conoscenza di quanto avvenuto, di quel terribile pestaggio». 

IL DEPISTAGGIO. Stefano Cucchi, otto carabinieri condannati per depistaggi: la sentenza. Ilaria Sacchettoni e Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

Otto condanne nei confronti di altrettanti carabinieri accusati di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi. Il giudice del tribunale monocratico ha inflitto, tra gli altri, 5 anni al generale Alessandro Casarsa e 1 anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino. 

Depistaggi del caso Cucchi, il geometra ucciso il 22 ottobre 2009: il giudice Roberto Nespeca ha condannato gli otto carabinieri che, per la Procura, dirottarono la verità sulla vicenda.

Cinque anni al generale Alessandro Casarsa il più alto in grado nella scala gerarchica dell’epoca e oggi accusato di falso. Quattro anni a Francesco Cavallo, a sua volta accusato di falso. Quattro anni a Massimiliano Colombo Labriola (falso), 1 anno e 9 mesi a Francesco Di Sano (falso), 1 anno e nove mesi a Tiziano Testarmata (omessa denuncia alla autorità giudiziaria), 1 anno e tre mesi a Lorenzo Sabatino (omessa denuncia all’autorità giudiziaria) e 4 anni a Luciano Soligo (falso). Mentre a Luca De Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, sono stati inflitti 2 anni e sei mesi.

In primo grado il processo si conclude con una vittoria per gli uffici della Procura e in primis del pm Giovanni Musarò che aveva istruito approfondimenti accurati sulla vicenda. Nella sua requisitoria il magistrato aveva definito i depistaggi sul caso «ostinati e a tratti ossessivi» protratti per anni.

Per l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo , «è stato confermato che l’anima nera del caso Cucchi è il generale Casarsa»: «Il dato di verità è che tutto quello che hanno scritto su Stefano, che era tossicodipente, anoressico, sieropositivo è falso. È il momento che si prenda le proprie responsabilità chiunque vada contro questa sentenza e quella pronunciata dalla Cassazione lunedì». E la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi : «Non credevo ci saremmo arrivati».

Nel frattempo l’Arma aveva voluto prendere le distanze dai suoi militari infedeli con una costituzione di parte civile al processo. Mentre lunedì scorso, giorno della sentenza in Cassazione che aveva confermato le condanne nei confronti degli autori del pestaggio di Stefano Cucchi, i vertici dei carabinieri avevano espresso «profondo rammarico» alla famiglia. Una vicinanza ribadita dopo il pronunciamento: «La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo, ancora una volta, tutta la nostra vicinanza - sottolinea il Comando generale dell’Arma - La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma». Che ribadisce il «fermo e assoluto impegno» ad agire sempre «con rigore e trasparenza» specie nei confronti dei propri appartenenti.

Secco il commento dell’avvocato Adolfo Scalfati, difensore del colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma: «Non ci aspettavamo questa decisione, riteniamo che questa sentenza sia un errore giudiziario». Nessun commento invece, dopo la sentenza, dal difensore del generale Alessandro Casarsa, l’avvocato Carlo Longari: «Casarsa ha affrontato il processo con serenità e rispetta la decisione del giudice. Le sentenze si rispettano e non si commentano. Adesso aspettiamo le motivazioni».

Cucchi, condannati gli otto carabinieri accusati di depistaggio. La pena più alta, 5 anni, è stata inflitta al generale Alessandro Casarsa. Ilaria Cucchi: "Sono sotto chock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno". Il Dubbio il 7 aprile 2022.

Quello di Stefano Cucchi non solo fu omicidio, ma i carabinieri hanno tentato di insabbiarlo. Dopo la sentenza definitiva della Cassazione sulla morte del giovane romano ucciso nel 2009, oggi infatti arriva la condanna per tutti gli otto carabinieri imputati nel processo per i depistaggi. È la decisione del giudice Roberto Nespeca, arrivata nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, dopo otto ore di camera di consiglio. La pena più alta (5 anni di reclusione) è stata inflitta al generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma. Per lui il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto 7 anni. «Sono sotto chock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono stati la causa, i responsabili, sono stati condannati», commenta la sorella Ilaria Cucchi.

La sentenza

Quattro anni di reclusione sono stati inflitti a Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma. Per lui l’accusa aveva sollecitato 5 anni e mezzo. Per Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, condanna a 4 anni, invece di 5. Stessa pena chiesta per il carabiniere Luca De Ciani, per il quale sono stati dati invece 2 anni e 6 mesi. Per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, condanna a un anno e 9 mesi (invece dei 4 anni richiesti dalla procura). Un anno e 3 mesi al carabiniere Francesco Di Sano (3 anni e 3 mesi per il pm), stessa pena anche a Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, per il quale erano stati sollecitati 3anni. Pena pari a 1 anno e 9 mesi per Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, otto mesi in più di quanto auspicato dal pm previo il riconoscimento delle attenuanti generiche. Le accuse agli otto carabinieri andavano a seconda delle posizioni, dal falso al favoreggiamento, dall’omessa denuncia alla calunnia.

Processo Cucchi, otto carabinieri condannati per i depistaggi: 5 anni al generale Casarsa. Redazione su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Tre giorni dopo le condanne definitive a 12 anni di carcere nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, oggi è il turno della catena di comando dell’Arma accusata di aver insabbiato il caso e occultato le prove del pestaggio.

Il giudice Roberto Nespeca, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, dopo otto ore di camera di consiglio ha condannato gli otto carabinieri imputati nel processo.  I reati contestati, a vario titolo e a seconda delle posizioni, erano: falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.

Tra i condannati c’è dunque il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma: per lui l’accusa chiedeva sette anni di carcere, mentre il giudice ha stabilito una pena di cinque anni di reclusione.

Le altre condanne sono a 4 anni per Francesco Cavallo (all’epoca dei fatti tenente colonnello e ufficiale addetto al comando del Gruppo Roma) e per Luciano Soligo, 2 anni e 6 mesi per Luca De Cianni, un anno e 9 mesi per Tiziano Testarmata, un anno e 3 mesi per Francesco Di Sano e Lorenzo Sabatino, un anno e 6 mesi per Massimiliano Colombo Labriola (già comandante della stazione di Tor Sapienza).

Una sentenza che ha dunque sostanzialmente accolto le richieste del pm Giovanni Musarò: la pena più alta chiesta dal pubblico ministero era stata per il generale Alessandro Casarsa, 7 anni. Cinque anni e mezzo erano stati sollecitati invece per Francesco Cavallo, cinque anni per Luciano Soligo e per Luca De Cianni, quattro anni per Tiziano Testarmata, invece, per Francesco Di Sano tre anni e tre mesi, tre anni per Lorenzo Sabatino e un anno e un mese per Massimiliano Colombo Labriola per il quale il pm aveva chiesto le attenuanti generiche.

Un processo che non è “all’Arma dei carabinieri”, aveva detto in Aula il sostituto procuratore Musarò, ma a quei carabinieri che “hanno preso in giro un intero Paese per sei anni“. L’accusa ha infatti ricordato  come “c’è stata un’attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi durati anni“, con una ‘linea’ tenuta “fino al febbraio 2021“.

“Sono sotto shock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono stati la causa, i responsabili, sono stati condannati“, è stato il primo commento di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, dopo la sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato gli 8 carabinieri accusati di aver depistato le indagini.

Dopo la sentenza di primo grado, arriva anche la nota del Comando Generale dell’Arma dei carabinieri: “La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo – ancora una volta – tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma. L’amarezza è amplificata anche dal vissuto professionale e personale dei militari condannati. Nei loro confronti sono stati, da tempo, adottati trasferimenti da posizioni di Comando a incarichi burocratici e non appena la sentenza sarà irrevocabile, verranno sollecitamente definiti i procedimenti amministrativi e disciplinari conseguenti. In linea con le affermazioni del Pubblico Ministero nel corso del dibattimento, il quale ha evidenziato come il processo non fosse “a carico dell’Arma” – costituitasi peraltro parte civile – si ribadisce il fermo e assoluto impegno ad agire sempre e comunque con rigore e trasparenza, anche e soprattutto nei confronti dei propri appartenenti”.

Grazia Longo per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

Non solo Stefano Cucchi è morto per le botte di due carabinieri, condannati lunedì scorso in via definitiva a 12 anni per omicidio preterintenzionale, ma la verità ha tardato ad emergere perché altri 8 carabinieri hanno messo in moto una macchina di depistaggi. 

Lo ha stabilito ieri, dopo 6 ore di camera di consiglio, il giudice monocratico Roberto Nespeca che ha condannato tutti e 8 gli imputati della catena di comando dell'Arma, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Le pene vanno da 1 anno e 9 mesi a 5 anni. Si attenua così il calvario della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che ammette: «Sono sotto shock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono state la causa, i responsabili, sono state condannate». 

E ancora: «Oggi è un giorno importante, ancora più importante di lunedì: perché un istante dopo la morte di mio fratello si metteva in piedi la macchina dei depistaggi che è costata alla nostra vita anni e anni di processi a vuoto, che ha scritto nero su bianco le sorti del nostro processo, il primo, quello sbagliato. E direi anche le sorti della nostra vita, facendo in modo che entrambi i miei genitori si ammalassero gravemente per tutta quella sofferenza inflitta in maniera brutale». 

Il pestaggio di Stefano Cucchi avvenne la notte del 15 ottobre 2009, in caserma dopo l'arresto per detenzione di 21 grammi di hashish, la morte subentrò 7 giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. E, al di là delle responsabilità per le botte, il pm Giovanni Musarò ha ricostruito quelle del depistaggio. 

Ora il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, è stato condannato a 5 anni, contro i 7 chiesti dalla procura. Quattro anni per Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma. Per lui l'accusa aveva sollecitato una pena di cinque anni e mezzo. 

Per Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, il giudice ha disposto una condanna a 4 anni, il pm Musarò puntava invece a 5 anni. Stessa pena chiesta per il carabiniere Luca De Ciani, condannato invece a 2 anni e 6 mesi. Per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, il giudice ha disposto la pena a 1 anno e 9 mesi, a fronte di una richiesta di condanna per quattro anni. Condannato a 1 anno e 3 mesi il carabiniere Francesco Di Sano, per lui erano stati chiesti 3 anni e 3 mesi.

Per Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, è stata decisa una condanna di 1 anno e 3 mesi, contro i 3 sollecitati. Pena di 1 anno e 9 mesi per Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza. Per quest' ultimo il pm aveva chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche e una pena di 1 anno e 1 mese. L'avvocato e compagno di Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo, chiosa: «È stato confermato che l'anima nera del caso è il generale Casarsa».

Sulla vicenda interviene anche il Comando generale dei carabinieri: «La sentenza per gli otto militari riacuisce il profondo dolore dell'Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo ancora una volta tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell'Arma. Ribadiamo il fermo e assoluto impegno ad agire sempre con rigore e trasparenza».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

Dopo quasi tredici anni, il bilancio giudiziario sulla morte di Stefano Cucchi conta tre assoluzioni definitive per gli agenti di custodia mandati alla sbarra nel primo processo; un'assoluzione e quattro prescrizioni (frutto di annullamenti e rinvii) per i medici e gli infermieri; due condanne definitive di altrettanti carabinieri responsabili del «violentissimo pestaggio» e altre due per falso da rivedere in un nuovo appello; otto condanne in primo grado pronunciate ieri dei militari dell'Arma (tra cui alcuni alti ufficiali) imputati per i depistaggi che hanno accompagnato tutte le indagini svolte dal 2009 in avanti. 

Un cammino lunghissimo e accidentato, tipico dei grandi misteri d'Italia; sentire parlare di Cucchi 1, bis e ter fa pensare ai processi Moro 1, bis e ter , a quelli sulla strage di Bologna (l'altroieri s' è chiuso in primo grado il quater ) o sulla morte di Paolo Borsellino.

Proprio con la strage di via D'Amelio emerge l'ulteriore, inquietante analogia di giudizi durati anni contro persone innocenti: a Palermo si videro infliggere l'ergastolo scontando lunghissime reclusioni, a Roma almeno sono stati sempre assolti. 

Ma resta scolpita la definizione del «Cucchi uno» data dal pubblico ministero del bis e ter Giovanni Musarò: «Un processo kafkiano con i testimoni sul banco degli imputati e gli imputati sul banco dei testimoni». 

Persino la deposizione dell'immigrato africano che riferì di aver ascoltato le percosse inflitte dagli agenti penitenziari evoca i falsi pentimenti che hanno inquinato indagini e sentenze sul delitto Borsellino.

A questo erano giunti i depistaggi sanzionati con il verdetto di ieri: una falsa verità costruita a tavolino attraverso documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati, che ha resistito finché la tenacia di una famiglia mai arresa e tecniche investigative degne delle più complicate inchieste antimafia adottate da una Procura determinata a riaprire un caso di fatto archiviato, hanno smascherato l'imbroglio.

Arrivato fino in Parlamento, dove un ministro è stato indotto a riferire le stesse bugie. Tutto questo - ha sostenuto l'accusa - per un meccanismo di autoprotezione scattato all'interno dell'articolazione romana dei carabinieri, con lo scopo di evitare che le ombre sulla morte di Cucchi coinvolgessero una struttura già provata in quei giorni da altre vicende poco commendevoli. 

Tuttavia le condanne (di imputati che continuano a proclamarsi innocenti, e tali vanno considerati in attesa dei prossimi giudizi) non coinvolgono l'Arma nel suo insieme. Che anzi nel processo s' è costituta parte civile, chiedendo - tramite l'Avvocatura dello Stato - la condanna dei militari imputati, dopo che altri carabinieri avevano collaborato e contribuito alla nuova indagine. Si tratta di precisazioni e segnali importanti.

Così com' è importante che sulla sorte di un anonimo spacciatore morto mentre era in custodia dello Stato sia stata fatta giustizia (per alcuni versi definitiva, per altri ancora parziale e suscettibile di revisione), con uno sforzo solitamente riservato a casi più importanti ed emblematici, entrati nella storia del Paese. Ora ne fa parte, a pieno titolo, anche il «caso Cucchi», non fosse che per il raggiungimento di questo faticoso e inaspettato traguardo.

Le parole sui social. “Cucchi abbandonato, vanno condannati genitori e sorella”, l’accusa dell’ex comandante dei carabinieri. Carmine Di Niro su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Nonostante la condanna definitiva nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, c’è chi ancora oggi prova a scaricare le responsabilità di quanto accaduto oltre 12 anni al giovane geometra romano, nella notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, quando il pestaggio subito dai militari lo portò al decesso una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini della capitale.

L’ultimo a farlo è Antonio Galizia, 68enne ex maresciallo, per anni a capo della stazione dei Carabinieri di Giovinazzo, in provincia di Bari, ora con un presente da politico.

Su Facebook Galizia si lascia andare a parole incredibili, proprio alla luce delle recenti sentenze. “Sfruttare la morte la morte per fare soldi e avere notorietà è come averlo ucciso una seconda volta. Cucchi andava aiutato e non ucciso da Istituzione e famiglia”, scrive sui social Galizia, accusando di fatto la famiglia di averlo abbandonato. 

E infatti l’ex carabiniere ci mette la carica da novanta e accusa: “Fermo restando che nessuno ha il diritto di togliere la vita a nessuno e chi uccide deve essere condannato, allo stesso modo deve essere condannata la famiglia di Cucchi che avevano abbandonato il figlio e fratello a vivere da sbandato”. “Forse – aggiunge ancora Galizia – condannare la famiglia e la sorella per aver abbandonato un figlio e un fratello sarebbe stata vera Giustizia”.

Parole che rievocano quelle dell’ex ministro Carlo Giovanardi, che sosteneva all’epoca che Stefano Cucchi fosse morto perché abbandonato dai familiari e perché “anoressico e drogato”. Giovanardi che, dopo le condanne di D’Alessandro e Di Bernardo, ha chiarito di non aver cambiato e di non dovere alcuna scusa alla famiglia Cucchi: “Quello che ho sempre detto è esattamente quello che la Cassazione penale nel processo contro i medici ha certificato con sentenza passato in giudicato, secondo cui Cucchi è morto a causa dei medici che non l’hanno curato”, ha spiegato l’ex ministro a Repubblica.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Depistaggio Cucchi, il pm: «Un intero Paese preso in giro per anni». Chiesta la condanna per gli otto carabinieri imputati: «Inaccettabili ingerenze e intimidazioni». Il Dubbio il 24 dicembre 2021. «Un intero Paese è stato preso in giro per sei anni». Sono le parole con le quali il pm Giovanni Musarò ha concluso la requisitoria del processo sui depistaggi del caso Stefano Cucchi, per i quali ha chiesto la condanna degli otto carabinieri imputati. Il pm ha evidenziato le «inaccettabili ingerenze» sulle perizie medico legali, le «intimidazioni» su chi nel corso delle indagini ha detto la verità, ricordando anche il giudice Giulia Cavallone, che per prima si è occupata del processo fino alla scomparsa prematura, nell’aprile del 2020. La richiesta più severa – 7 anni – arriva per il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma. Chiesti 5 anni e mezzo di carcere per colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti ufficiale addetto al comando del Gruppo carabinieri Roma, e 5 anni per il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro e il carabiniere Luca De Cianni. Chiesti 4 anni di carcere per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, 3 anni e 3 mesi per Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio la notte del pestaggio, 3 anni per l’ ex capo del Reparto operativo della capitale, Lorenzo Sabatino e 13 mesi di carcere per Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, per il quale si chiede il riconoscimento delle attenuanti generiche. Chiesta inoltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Casarsa, Cavallo, Soligo e De Cianni e interdizione a 5 anni per Sabatino, Testarmata e Di Sano. L’attività di depistaggio sul caso Cucchi «è stata ostinata, a tratti ossessiva», ha evidenziato il pm, raccontando in una requisitoria lunga due giorni una vicenda lunga 12 anni, partita in un momento difficilissimo per l’Arma: «Lo stesso giorno in cui muore Stefano Cucchi, quattro carabinieri vengono indagati per concussione nei confronti di Piero Marrazzo», ha ricordato il magistrato, e dopo la pubblicazione delle fotografie del corpo di Stefano, in obitorio, con il volto tumefatto, «tutti chiedono la verità sulla sua morte». Un’archiviazione non avrebbe fermato la richiesta di verità che arrivava anche dall’opinione pubblica, ha sottolineato Musarò, e per questo gli imputati «non hanno voluto solo depistare l’autorità giudiziaria, ma riscrivere una verità anche mediatica e politica – ha aggiunto – riscrivere una verità per cui il politraumatizzato Stefano Cucchi era morto di suo. E incredibilmente ci sono riusciti, per 6 anni». L’inchiesta ruotava attorno alle annotazioni redatte da due piantoni nel 2009, poco dopo la morte di Cucchi e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che lamentava il giovane la notte dell’arresto, dopo il pestaggio subito in caserma. Gli imputati, secondo la ricostruzione della procura, «hanno indirizzato scientificamente le accuse contro i tre agenti della polizia penitenziaria» imputati nel primo processo e poi assolti. Con una serie di «cortine fumogene» hanno complicato il corso della giustizia, ha detto Musarò, che però ha assicurato: «Questo non è un processo all’Arma e noi vogliamo evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione».

Processo Cucchi, l’avvocato: «Depistaggi come per Ustica e l’attentato a Borsellino». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2022. Il legale che assiste le guardie carcerarie, Diego Perugini: «Verità falsificata contro tre poveri disgraziati. Un testimone costruito a tavolino». Al processo sui depistaggi della vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi è il turno delle parti civili, e in particolare dell’avvocato che assiste la polizia penitenziaria, Diego Perugini: «Questa è una tragedia durata dodici anni. Tra i più gravi fatti nella storia democratica di questo paese. Per trovare fatti di simile gravità bisogna risalire a Ustica o a via d’Amelio. Cercherò di rispondere a una domanda: era davvero necessario? Era davvero indispensabile agire così?». L’avvocato Perugini va avanti e censura il comportamento del ministero della Giustizia. Quindi sottolinea l’incredibile vicenda di Samura Yaya il testimone anti-penitenziaria al primo processo Cucchi. «Testimone falso costruito a tavolino. Tanto è vero che quando sono usciti fuori tutto i depistaggi chiesi a Musarò di accertare se qualcuno, tipo un agente dei carabinieri, fosse entrato in carcere per accordarsi con Yaya ma, sorpresa, i registri erano andati perduti così io che non potrei affermare la falsità di Yaya. Ma lo affermo».

Secondo il penalista «i depistaggi ebbero una regia unica che non può essere ricondotta soltanto in capo al generale Casarsa». Il riferimento è all’allora comandate del comando provinciale, generale Vittorio Tommasone appena andato in pensione. Perugini parla di «miserabile attività di depistaggio: si è falsificato la verità contro tre poveri disgraziati». Infine il capitolo dei risarcimenti giudiziari. La difficoltà fa capire il penalista sta nel quantificare il danno morale scaturito da anni e anni di processi. «Ha dovuto rinunciare a una vita di decoro è stato additato da tutti e dopo il proscioglimento è stato comunque indicato come colui che se l’era cavata» dice il suo avvocato. Perugini allora chiede una provvisionale (che può essere rapidamente disposta dal giudice in sede dibattimentale) di 500mila euro. Quindi è toccato all’avvocato di Riccardo Casamassima — il teste chiave che con le sue dichiarazioni ha consentito la riapertura dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi — dire la sua: «Casamassima è stato descritto come un ‘rompiscatole’, lui invece, quella divisa e quel giuramento li ha sempre rispettati — ha detto l’avvocato Serena Gasperini legale di parte civile dell’appuntato — disciplinarmente lo hanno devastato ma lui non ha chinato la testa».

·        Gli altri Cucchi.

Cinquant’anni fa la morte di Serantini. L’anarchico pestato dalla polizia. Fu preso durante una manifestazione che Lotta Continua aveva indetto come protesta contro un comizio elettorale del Senatore fascista Niccolai. Ezio Menzione su Il Dubbio il 5 maggio 2022.

Nel pomeriggio del 5 maggio 1972 a Pisa il giovane anarchico Franco Serantini veniva selvaggiamente picchiato da poliziotti del reparto celere durante una manifestazione che Lotta Continua aveva indetto come protesta contro un comizio elettorale del senatore fascista Niccolai. Il giovane, ventenne, veniva portato prima nella caserma della polizia e poi nel locale carcere Don Bosco: probabilmente i maltrattamenti e le botte continuarono per ore. Il mattino dopo egli si presentava dinnanzi al PM in condizioni visibilmente compromesse per il rituale interrogatorio e poi veniva riportato in carcere.

Inutilmente il difensore (d’ufficio, chiamato dalla Procura) insistette perché fosse portato nel Centro Clinico del carcere: così non fu ed egli morì nella notte fra il 6 e il 7 maggio per un ematoma (non l’unico) alla testa, dopo un’agonia di quasi 36 ore, in cui nessuno si premurò di constatare lo stato in cui versava e prestargli le cure necessarie. Anzi, alla rituale visita di ingresso in carcere si adombrava che le ecchimosi e gli ematomi potesse esserseli causati volontariamente. Nella sua morte si rinvengono non solo responsabilità di chi lo picchiò selvaggiamente, ma anche quelle di chi come il PM, il dottore del carcere e gli stessi secondini, nei loro vari gradi, non mosse un dito per salvarlo. Tutte le istituzioni vi furono coinvolte.

Tutta la storia di Serantini, dei tentativi variegati di insabbiare le indagini, che alla fine infatti si conclusero tre anni dopo con un non doversi procedere, è stata mirabilmente narrata in due libri: uno famosissimo, Il Sovversivo, di Corrado Stajano del 1975 ed un altro, dello storico Michele Battini, “Andai perché ci si crede”, uscito recentemente per i tipi di Sellerio. Ad essi rimandiamo perché sono ambedue bellissimi e precisissimi. Qui intendiamo indagare come negli anni ’ 70 sia potuto accadere che un giovane morisse in carcere e nessuno pagasse, anzi, che le indagini fossero continuamente depistate, anche attraverso lo strumento della avocazione. E perché, invece, nel caso Cucchi si sia, sia pure con tempi molto lunghi, arrivati a ricostruire le responsabilità non solo di chi materialmente colpì a morte il giovane, ma anche di chi tentò di coprire tali responsabilità. E Cucchi, ormai, per fortuna, non è un caso isolato.

C’è anche Aldovrandi e numerosi altri, compreso i responsabili delle mattanze nelle carceri di S. Gemignano, Modena e S. Maria Capua Vetere. Insomma, lo Stato sembra giunto a “processare se’ stesso”, sia pure ancora con mille cautele, talora doverose e talaltra francamente eccessive. In realtà, anche nel caso Serantini, forse per la prima volta, si giunse assai vicini alla verità. Fu quando si passò dall’istruttoria sommaria, in mano al PM (e dunque soggetta a possibile avocazione da parte del PG) a quella formale, in mano al giudice istruttore. Nel caso del povero anarchico, caso volle che l’istruttoria andasse in mano ad un giudice abile ed integerrimo, Paolo Funaioli, fra i fondatori di Magistratura Democratica.

Sembra doveroso, questo accenno a Magistratura Democratica perché, appena fondata, essa contribuì a disvelare i meccanismi di un’assoluta e imprescindibile autodifesa dello Stato, e ciò era vero soprattutto a Pisa dove essa era forte di un certo numero di soci fondatori, tutti molto preparati e agguerriti. Funaioli fu un inceppo per chi voleva affossare la verità: non ce la fece a rinviare a giudizio i responsabili, ma almeno contribuì a quella che poi è diventata la verità storica: Serantini fu pestato a morte al momento dell’arresto e forse anche dopo e comunque nessuno gli prestò le cure necessarie per, forse, salvarlo. Questo giudice istruttore fu dunque un granello (importante e significativo) che si oppose, pur senza successo, a che il silenzio calasse sin da subito su quello scempio.

Credo che in tutti i casi citati sia stato necessario che ci fosse un granello che ha inceppato i meccanismi di “autoassoluzione necessaria” da parte dello Stato: è stato così cinquant’anni fa per Serantini, ma è stato così anche per il caso Cucchi. Il granello può essere un giudice, oppure un funzionario dello Stato (responsabile o testimone), un consulente tecnico preparato e non al servizio delle procure, assieme ad una opinione pubblica sempre più vigile e consapevole, alimentata da possibili ricostruzioni alternative rispetto alla vulgata affermata dallo Stato e dai suoi apparati.

In questi cinquant’anni che ci separano dalla morte di Serantini, la prima volta che si sono affermate le inequivocabili responsabilità delle forze dell’ordine, è stato a proposito dei fatti di Genova del G8 del 2001: ci sono voluti anni ed anni di indagini, si è dovuto trovare dei PM incredibilmente onesti e tenaci nel prospettare possibili responsabilità, appoggiati da un’opinione pubblica che è diventata sempre più consapevole che alla Diaz e a Bolzaneto i rappresentanti dello Stato avevano commesso crimini feroci. Temporalmente Genova si colloca a metà strada fra Serantini e Cucchi.

Dopo Genova (o meglio, dopo le indagini e i processi di Genova) la strada è diventata un po’ più facile. E’ possibile riconoscere responsabilità di chi ha commesso il reato e di chi non avrebbe voluto che il reo fosse individuato, poiché appartenente allo stato. Ma anche con riferimento ai fatti di Genova non fu così per l’uccisione di Carlo Giuliani. Insomma, il paragone fra quanto accadde a Pisa nel maggio 1972 e quanto accade oggi in tema di responsabilità di rappresentanti dello Stato induce a ritenere che oggi sia più facile costruire, sia pure faticosamente, un’opinione pubblica che chieda in maniera forte indagini non inquinate e trovare quei “granelli” che inceppano o si oppongono alla volontà di scansare sempre e comunque le responsabilità dello Stato quando abbia in mano un cittadino così che si determini un’incrinatura e possibilmente una rottura della compattezza precedente.

Federico Aldrovandi, ucciso dall’abuso di Stato. Ma la legge contro la tortura è ancora parziale. Patrizia Moretti: «Si sono perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi. In questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché». Adil Mauro su L'Espresso il 23 Settembre 2022.

Cinquantaquattro lesioni, due manganelli rotti e un cuore schiacciato. La domenica mattina del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di soli diciotto anni, moriva a Ferrara durante un controllo di polizia. L’iter processuale di questa vicenda è terminato dieci anni fa, il 21 giugno 2012, con la condanna in via definitiva degli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri.

Cucchi, Aldrovandi, Soldi: quando lo Stato invece di proteggerti ti manda all’altro mondo. Gli abusi di potere e le violenze sono spesso coperte dal muro di gomma delle autorità. Daniele Zaccaria il 15 Settembre 2022 su Il Dubbio.

Sono storie di violenze gratuite e di abusi feroci, di omertà e depistaggi, ancora più raggelanti perché commesse da chi dovrebbe proteggerti, garantire i tuoi diritti, da chi dovrebbe custodire la sicurezza dei cittadini. Stiamo parlando delle vittime dello Stato, persone morte nelle mani della polizia, durante un banale controllo, o nel tempo della carcerazione preventiva; vicende spesso insabbiate dalle stesse autorità e poi venute alla luce del sole grazie alla determinazione e al coraggio dei familiari delle vittime, costretti abbattersi per anni contro i muri di gomma del potere, le intimidazioni della politica, le campagne di diffamazione, la solitudine. Sono decine i casi di violenza di Stato emersi nel recente passato, alcuni dei quali hanno avuto una grande risonanza mediatica, a cominciare da Stefano Cucchi.

È il 15 dicembre del 2009, il geometraromanodi31 anni viene fermato da una pattuglia dei carabinieri che lo trovano in possesso di una modesta quantità di hascisc e cocaina più una confezione di farmaci contro l’epilessia. Il giorno successivo c’è il processo per direttissima che convalida l’arresto per Cucchi, sarà l’ultima volta che la sua famiglia lo vedrà vivo. All’ingresso nel carcere di Regina Coeli le sue condizioni fisiche paiono preoccupanti, viene visitato dai medici che dispongono l’immediato ricovero nell’ospedale Sandro Pertini dove comunque resta confinato nel reparto per i detenuti sotto la custodia dei carabinieri. Per sei giorni nessuno sa nulla di cucchi: il 22 ottobre 2009 viene comunicata la sua morte. Le foto scattate dal medico legale piombano sulle prime pagine dei giornali con un effetto scioccante: il corpo di Cucchi sembra reduce da torture prolungate, contusioni, ferite, fratture.

Ci vorranno 10 anni e la tenacia incrollabile della sorella Ilaria Cucchi per arrivare a stabilire finalmente la verità sulla morte del geometra. Il 14 novembre 2019 la Corte d’Assise di Roma condanna in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Il 7 maggio 2021 la Corte d’Assise d’Appello di Roma conferma la condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri innalzando da dodici a tredici anni la pena stabilita in primo grado.

Federico Aldrovandi invece aveva trovato la morte 4 anni prima, il 25 settembre del 2005. Aveva appena compiuto 18 anni. Viene fermato da una volante della polizia mentre stava camminando in pieno centro di Ferrara; il ragazzo non ci sta, risponde polemicamente agli agenti, nasce un diverbio, sul posto arriva un altra volante e la situazione degenera. Una testimone racconta di aver visto dalla finestra della sua abitazione i poliziotti prendere a bastonate Aldrovandi e poi schiacciarlo con i propri corpi. Muore all’istante. L’autopsia stabilisce la causa del decesso: apossia-asfissia posturale che ha portato all’arresto cardiaco; inoltre sul corpo vengono individuate oltre cinquanta lesioni. Sarà la madre Patrizia Moretti sul suo blog a denunciare l’ignobile pestaggio subito dal figlio, dando il via a una campagna di mobilitazione che raggiunge i media nazionali. La sentenza sette anni più tardi nel 2012 : i quattro agenti vengono condannati in via definitiva per “eccesso colposo in omicidio colposo” a 3 anni e 6 mesi di reclusione e la Corte dei Conti li ha condannati a risarcire lo Stato per 560 mila euro.

E sempre il 2015 quando Andrea Soldi, 45 anni e affetto da schizofrenia, è seduto su una panchina di piazza Umbria a Torino. E raggiunto da una pattuglia di polizia municipale portata lì dal suo psichiatra per sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio in quanto da un po ’ di tempo Soldi rifiuta di assumere farmaci. Come per Aldrovandi comincia una colluttazione, Soldi viene immobilizzato e ammanettato, ma con estrema violenza, un vigile gli stringe il collo. Perde i sensi e tutti non possono non accorgersi che la situazione è molto grave. Ma nel viaggio tra l’ambulanza e l’ospedale è ancora ammanettato e messo a testa in giù: muore pochi minuti dopo aver raggiunto la struttura sanitaria. L’autopsia disposta dalla procura di Torino stabilisce che Soldi è morto per gli abusi subiti durante il Tso con una inequivocabile relazione di causa effetto.

I quattro imputati sono stati condannati in primo grado a un anno e sei mesi di reclusione e le condanne sono state confermate in appello. La sorella Maria Cristina e il padre Renato in questi anni hanno lottato per ottenere giustizia ma soprattutto hanno denunciato gli abusi selvaggi del trattamento sanitario obbligatorio e l’assoluta impreparazione di chi è chiamato a eseguirlo. Una pratica controversa e foriera di tragedie come appare sul libro di Matteo Spicuglia Noi due siamo uno. Storia di Andrea Soldi, morto per un TSO, un lavoro importante che ricostruisce la vita del povero Soldi attraverso i suoi toccanti diari.

La Procura di Roma contesta falso e tentato omicidio. “Hasib Omerovic picchiato e buttato per i piedi dalla finestra”: le accuse ai poliziotti indagati. Antonio Lamorte su Il Riformista l’11 Novembre 2022.

Hasib Omerovic sarebbe stato picchiato, minacciato dai poliziotti intervenuti in casa sua a Roma, preso per i piedi e buttato dalla finestra della camera da letto della sua abitazione. Questo è quanto si legge nella ricostruzione del pm della Procura della Capitale. Quattro gli agenti indagati cui sono contestati il tentato omicidio e il falso. La vicenda era esplosa lo scorso luglio: un blitz della polizia nell’abitazione dell’uomo, disabile, a Primavalle.

I fatti risalgono al25 luglio. Primavalle, periferia di Roma, civico 24 di via Girolamo Aleandro. I poliziotti sarebbero intervenuti presso l’abitazione per “procedere – si legge negli atti – alla sua identificazione”. Di quell’operazione era rimasta una foto sconvolgente: di Omerovic steso sull’asfalto, con tracce di sangue, inerme. La cartella clinica avrebbe riportato fratture alla testa, alle costole e allo sterno, lussazione dell’omero e traumi a milza, fegato, rene, ferite al torace. Cos’era successo in quella casa?

Grottesca la pista che farebbe risalire i motivi dell’operazione a voci che circolavano su Facebook: su gruppi del quartiere si sarebbe parlato di Omerovic come di un uomo che molestava le ragazze in strada – Repubblica scrive forse anche una nipote di uno degli indagati. Si legge altro, come visto, nella relazione di servizio. Repubblica chiarisce nella sua ricostruzione, con anticipazioni dalla Procura, che le accuse sono ovviamente da provare e il movente da trovare.

Il falso contestato dall’accusa si riferisce alla relazione di servizio nella quale si legge che il giovane si sarebbe improvvisamente lanciato “nel vuoto dalla finestra della camera da letto, omettendo anche di indicare che lo stesso era stato percosso, minacciato e che era stata sfondata la porta di una stanza interna dell’appartamento”. L’unica testimone dell’operazione è Sonita, sorella 32enne dell’uomo, affetta da ritardo mentale. Aveva raccontato di aver visto tre agenti picchiare Hasib Omerovic con un manico di scopa nella sua camera da letto.

L’avvocato della famiglia Arturo Salerni aveva inoltre spiegato che i vestiti riconsegnati alla famiglia non erano quelli che l’uomo indossava al momento della caduta dall’appartamento. “L’ospedale – aveva detto il legale – ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite”. La madre del 36enne in conferenza stampa diceva che “anche ora che abbiamo cambiato casa continuiamo ad avere paura, anche per i nostri figli. Vogliamo verità e giustizia per Hasib, deve venire fuori”. Secondo la linea difensiva l’uomo si sarebbe gettato improvvisamente dalla finestra dopo aver alzato la tapparella. La famiglia dell’uomo sostiene che quella serranda era rotta da tempo e che non era possibile aprirla se non forzandola.

I quattro agenti indagati sono tutti in servizio al commissariato di Primavalle. Due di loro hanno già avuto un faccia a faccia con gli investigatori, uno lo ha espressamente richiesto. Quello che al momento sembra accertato è che gli agenti non avevano un mandato di perquisizione quando hanno bussato alla porta del 36enne. Ritrovati anche un termosifone divelto e una porta con la serratura spaccata. Hasib Omerovic al momento si trova ancora in ospedale al Gemelli: è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 13 settembre 2022.

Per la perquisizione di Hasib Omerovich, il rom precipitato dalla finestra di una abitazione a Primavalle a fine luglio, gli agenti non avevano ricevuto alcun mandato di perquisizione della Procura. 

Gli uomini della polizia intervenuti dopo una chiamata al suo domicilio erano privi del provvedimento firmato dai magistrati che avrebbe dovuto aprire le porte della casa dove il giovane viveva con una sorella, anche lei disabile. 

Omerovich, ancora ricoverato in condizioni gravi in ospedale, non risulta infatti indagato per vicende penali. Nel frattempo, i magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani, che procedono per concorso in tentato omicidio, hanno ascoltato già i vicini di casa dell’uomo sordomuto per appurare i dettagli. 

La Procura si sta muovendo con rapidità, e a breve saranno ascoltati i quattro agenti intervenuti. Nel frattempo il rappresentante dei Radicali Riccardo Magi ha presentato una interrogazione al ministero dell’Interno per conoscere la procedura applicata dai poliziotti in questo caso.

Giallo di Primavalle, otto punti da chiarire. «Hasib piange se ricorda quel pomeriggio con gli agenti». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

L'inchiesta sui motivi del controllo della polizia al rom disabile e sulle ferite sulla schiena. Il ruolo dei vertici del commissariato Primavalle e cosa c’è scritto nelle relazioni di servizio acquisite dalla Mobile? Presto sarà sentita la sorella testimone dell’incidente

Otto punti oscuri per capire cosa sia successo ad Hasib Omerovic, ancora ricoverato nel reparto di Traumatologia del Policlinico Gemelli, dopo aver passato più di un mese in Rianimazione. «Adesso piange non appena i parenti cercano di fargli ricordare quel tragico pomeriggio nella casa di Primavalle», racconta l’avvocata Susanna Zorzi, che assiste la famiglia del 36enne caduto dalla finestra del suo appartamento durante un controllo della polizia. Presto potrebbe essere sentita Sonita, la sorella di Hasib, testimone diretta della caduta del fratello. Potrebbe essere interrogata in audizione protetta con l’assistenza di psicologi. «Ha 30 anni ma è come se ne avesse cinque: non sa mentire, racconta quello che ha visto», dice Zorzi.

L’ispezione

I dubbi su quanto accaduto in via Gerolamo Aleandri cominciano dal motivo stesso, ancora non chiarito, del controllo a domicilio effettuato da quattro poliziotti nel pomeriggio del 25 luglio scorso. Un’iniziativa autonoma, si ritiene, perché i superiori degli agenti non sarebbero stati avvertiti e nemmeno la Questura.

Il post su Facebook

Fra le ipotesi, non confermate da San Vitale, c’è quella di un’operazione preventiva in quanto Omerovic era stato citato in un messaggio sul social di quartiere nel quale veniva indicato come molestatore di ragazze. Un’accusa che non trova riscontri, come anche appare singolare che sia bastato questo per effettuare un controllo di polizia in casa senza convocare in commissariato il diretto interessato.

I soccorsi

Dopo la caduta, accanto ad Hasib compaiono altri agenti, questa volta in divisa, insieme con il 118. Non è chiaro tuttavia a cosa abbiano portato le loro indagini iniziate anch’esse il 25 luglio: sapevano che erano coinvolti dei colleghi in quanto accaduto?

I ritardi

E questo porta direttamente a un altro dubbio: perché bisogna attendere il 12 settembre per sapere quello che è successo in via Aleandri? La famiglia ha presentato un esposto in Procura il 10 agosto; l’8 settembre Riccardo Magi, leader di +Europa, un’interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Perché però i testimoni sono stati sentiti solo negli ultimi due giorni?

Le botte

Fra i reperti sequestrati in casa Omerovic un bastone spezzato e un lenzuolo insanguinato. Il 36enne aveva anche ferite alla schiena indipendenti dalla caduta. Secondo la sorella Sonita, anche lei disabile e testimone dell’accaduto, sarebbe stato picchiato dai poliziotti. Ma per alcuni vicini veniva malmenato anche in casa.

Le ferite

Nonostante la gravità delle ferite riportate dal 36enne (in codice rosso al Gemelli e poi in coma per oltre un mese) ai parenti di Hasib viene spiegato che «si è rotto soltanto un braccio». Ma la realtà in ospedale è molto diversa.

La relazione degli agenti

Proprio ieri gli investigatori della Squadra mobile hanno acquisito la relazione di servizio dei quattro agenti. Un documento importante per capire se nel rapporto sia stato scritto tutto quello che è successo in via Aleandri oppure se sia stato omesso qualcosa.

Il ruolo dei funzionari

Ma i superiori dei quattro poliziotti sapevano? Hanno autorizzato il controllo in casa Omerovic o ne hanno preso atto solo dopo che la vicenda si era conclusa drammaticamente? Per questo anche i vertici del commissariato Primavalle potrebbero essere sentiti in Procura nei prossimi giorni.

Hasib Omerovic, caccia al testimone che ha scattato la foto al corpo precipitato. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.  

Per il disabile caduto al suolo durante una perquisizione il pm aspetta di sentire la persona che per prima ha visto il 36enne. Quattro poliziotti sono indagati 

Caccia della procura al testimone che ha fotografato Hasib Omerovic, steso in strada e avvolto in una pozza di sangue nei minuti successivi alla caduta dal primo piano della sua casa popolare di via Girolamo Aleandro, Primavalle. La versione del testimone potrebbe essere fondamentale per capire se la mattina del 25 luglio del 2022 Omerovic – 36 anni, sordo muto, di etnia rom - si è buttato in un tentativo di suicidio, come sostengono i quattro poliziotti indagati per tentato omicidio e falso. Oppure se il ragazzo è stato spinto giù dal balcone dagli agenti, come invece afferma la sorella 30enne di Hasib, anche lei affetta da un ritardo cognitivo, in casa al momento del dramma. 

Soprattutto il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani sperano che il testimone, un vicino di casa, abbia altre foto utili a ricostruire i momenti drammatici della caduta. L’immagine, divenuta emblematica delle condizioni di Omerovic dopo il volo, non è ancora stata acquisita dalla procura. La foto è stata girata alla stampa dai familiari del ragazzo, che, a loro volta, l’hanno ricevuta dal vicino. Gli inquirenti non procederanno ad alcuna consulenza sulla natura delle lesioni riscontrate sul giovane. Motivo: sarebbe impossibile a distanza di quasi due mesi dalla caduta distinguere le ferite dovute all’impatto al suolo con altri tipi di lesioni. Come quelle per esempio causate da un pestaggio. Va ricordato che i medici nella stesura della cartella clinica non hanno rilevato la presenza di ferite o lividi dovuti a percosse. Considerazione, in ogni modo, non risolutiva sul perché della caduta viste le condizioni di Omerovic dopo l’impatto. 

Il controllo dei poliziotti, come è scritto nel verbale redatto dopo l’intervento, è stato svolto per via delle voci di quartiere secondo cui l’uomo avrebbe molestato delle donne. Proprio per questo la procura verificherà se amiche o parenti degli agenti siano tra coloro che Omerovic avrebbe molestato. Sempre se le molestie siano avvenute, perché potrebbe essersi trattato di fraintendimenti nati dalle complicate condizioni di Hasib. Infine l’ultima ombra su cui la procura intende fare luce è la ragione della presentazione della denuncia a quattordici giorni di distanza dalla tragedia. Un buco temporale enorme. I familiari di Hasib hanno affermato di essere stati in commissariato più volte per avere risposte su quanto accaduto a Omerovic. E non avendone ricevuto alcuna spiegazione, hanno deciso di procedere a una denuncia, sentendosi con le spalle al muro.

Estratto dall’articolo di Michela Allegri e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 13 settembre 2022.

È caduto dalla finestra della sua camera, un volo di 9 metri da una casa popolare nel quartiere di Primavalle, a Roma. Quattro agenti di polizia in borghese avevano appena suonato alla porta chiedendogli i documenti. Quel giorno, il 25 luglio, Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, era da solo con la sorella, pure lei disabile. Le sue condizioni sono gravissime - è in stato di coma vigile al policlinico Gemelli - e la denuncia fatta dai familiari è agghiacciante: la madre Fatima, il padre e la sorella sedicenne, sostengono che Hasib sia stato picchiato dai poliziotti (tra i quali c'era una donna) e poi sia stato buttato di sotto. 

È tutto scritto in un esposto presentato in procura, dove il pm Stefano Luciani ha aperto un fascicolo per concorso in tentato omicidio delegando le indagini alla Squadra mobile. Nel documento viene ipotizzato anche un motivo per quel controllo a sorpresa, fatto a casa Omerovic e su cui ora la Procura indaga per capire se l'accesso sia stato concordato con dei superiori e registrato.

Nei giorni precedenti, infatti, era comparso su Facebook un post in cui una donna sosteneva che Hasib avesse fatto delle avances a delle ragazzine: «Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti». Il post era stato rimosso, ma gli Omerovic, assistiti dall'avvocato Arturo Salerni e dell'associazione 21 Luglio, hanno fatto in tempo a fotografarlo e a depositarlo agli inquirenti. 

Poco tempo dopo, una delle sorelle di Hasib sarebbe stata contattata dal proprietario di un bar di zona: «Hasib ha importunato alcune delle ragazze, qualcuno lo vuole mandare all'ospedale», le avrebbe detto. Il giorno successivo, il controllo dei poliziotti.

Sul caso, il deputato di +Europa Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare, raccontando la storia durante una conferenza stampa alla Camera. In casa sono state trovate tracce di sangue: gli inquirenti, il 12 agosto, hanno sequestrato una coperta macchiata e il manico di una scopa, spezzato a metà. 

È stata una vicina ad avvisare i genitori di Hasib. «Al telefono mi ha passato un poliziotto, che mi ha detto che mio figlio era caduto e si era rotto un braccio - ha raccontato Fatima - Non posso dimenticare quel 25 luglio: quando siamo arrivati al pronto soccorso ci hanno detto di aspettare 48 ore per sapere se Hasib sarebbe sopravvissuto». 

La sorella del giovane, Sonita, sotto choc, ha raccontato alla famiglia che gli agenti avevano prima picchiato il fratello con un bastone, per poi afferrarlo per i piedi e buttarlo giù. I poliziotti avrebbero suonato alla porta mentre i genitori e un'altra sorella erano dal meccanico. Nella sala c'è un termosifone divelto dal muro, al quale, secondo il racconto dell'unica testimone, Hasib si sarebbe aggrappato. […]

In questi giorni gli investigatori hanno sentito alcuni testimoni, compresa una vicina che ha chiamato i soccorsi. Gli aspetti da sciogliere sono diversi. Uno su tutti: non è chiaro a che titolo gli agenti abbiano agito e se l'intervento sia stato registrato. In una relazione alla Procura hanno ripercorso quei minuti. 

Al vaglio anche le dichiarazioni dei vicini, che hanno detto di avere sentito quasi ogni sera i lamenti di Hasib provenire da quella casa, e di avere visto più volte i familiari malmenarlo. La finestra della camera del giovane, inoltre, aveva i vetri rotti: erano stati distrutti una ventina di giorni prima, durante una lite.

Di quanto accaduto l'unica testimone è la sorella di Hasib, che avrebbe, però, un ritardo cognitivo elevato. Un'altra ipotesi è che il ragazzo, non capendo cosa volessero gli agenti in borghese, davanti a dei modi bruschi, possa essere stato colto da una crisi di panico fino a sporgersi dalla finestra che, pur essendo l'appartamento al piano rialzato, su quel lato ha un affaccio molto alto. […]

Estratto dall'articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 16 settembre 2022.

«Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione, siamo entrati in casa, c'era un uomo e una donna, ma non c'è stato tempo di fare nulla». La voce calma, lo sguardo fermo. In t-shirt e jeans - scarpe da ginnastica d'ordinanza - risponde così Andrea, proprio di fronte al commissariato Primavalle.

Lui è uno degli agenti che il 25 luglio scorso ha preso parte al controllo in via Gerolamo Aleandro a seguito del quale Hasib Omerovic, il rom di origini bosniache 36enne e sordomuto dalla nascita, è caduto dalla finestra (ora che si è risvegliato dal coma la sua testimonianza potrebbe risultare decisiva). «Si è buttato» dice subito l'agente, finito indagato con (al momento) altri tre colleghi. 

Senza enfasi, senza che il tono della sua voce cambi minimamente: è un poliziotto, anche navigato. Di quelli che conoscono il lavoro di strada a prescindere poi dall'insegnamento che la strada può avergli lasciato. E aggiunge, con uno sguardo che non divaga, di avere in mano le prove necessarie per dimostrarlo.

«Foto e video dell'intervento, sì», tutti confluiti in un dossier ad hoc che racconta cosa è accaduto in quell'appartamento popolare e che «quando verranno richiesti - aggiunge l'agente - saranno forniti e messi agli atti». In quelle immagini sono descritti i 45 minuti, secondo più secondo meno, di un caso su cui la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta per tentato omicidio e falso in atto pubblico dopo che i genitori di Hasib hanno presentato un esposto con un'accusa chiara: «Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto». […] 

Ma lui, l'agente che accetta di parlare, rimanda indietro l'accusa: «Siamo entrati, in casa c'erano un uomo e una donna, abbiamo chiesto i documenti, la procedura era regolare e prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state già identificate ma non è risultato nulla».

Nessuno era andato a cercare gli Omerovic fino al 25 luglio. E allora perché proprio quel controllo in una rovente mattinata d'estate? «Per quel post su Facebook e per alcune segnalazioni arrivate in commissariato», spiega l'agente a cui tuttavia non sono seguite denunce formali. E non è questo un aspetto di poco conto perché a chi ha autorizzato il controllo, ovvero la vice-dirigente del commissariato Primavalle (ascoltata come persona non informata sui fatti insieme ad altri agenti non indagati), è stato contestato l'ordine illegittimo. Non si comanda una verifica per il solo sentito dire. 

Tuttavia, l'agente insieme ad un collega arrivano in via Gerolamo Aleandro, scendono le scalette che conducono al portone. Si fanno aprire e salgono una mezza rampa di scale. Come poi si leggerà nel rapporto di servizio, bussano alla porta. Difficile credere che un sordomuto come Hasib abbia sentito e dunque abbia aperto. Ma loro, stando anche al racconto che faranno ai superiori, entrano e come spesso accade - per precauzione - vengono abbassate le tapparelle della camera dove si trovano. 

Non si può mai sapere che piega possa prendere un controllo, seppur apparentemente banale, ma ad ora non si può ancora decretare che quell'atto non sia in realtà servito ad altro. «Non c'è stato il tempo di identificarli», conclude l'agente dicendo che non può proseguire oltre e che comunque saranno quei filmati e quelle foto a parlare. […]

Estratto dall’articolo di Valeria Di Corrado e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 18 settembre 2022.

Uno degli agenti che è entrato a casa della famiglia Omerovic, nel quartiere romano di Primavalle, era conosciuto dai suoi colleghi per i modi poco ortodossi utilizzati nelle perquisizioni. Il sospetto degli inquirenti è che sia stato proprio lui a forzare la mano la mattina del 25 luglio, quando, insieme agli altri tre poliziotti della pattuglia (due uomini e una donna), si è recato nell'appartamento di via Gerolamo Aleandro, ufficialmente per identificare il 36enne sordomuto che alcuni residenti avevano accusato via social di molestare le ragazze e i minori della zona. 

 La situazione all'interno dell'abitazione, però, sarebbe degenerata e Hasib Omerovic è precipitato dalla finestra dalla sua camera da letto nel cortile condominiale, facendo un volo di 9 metri dal quale è sopravvissuto per miracolo, ma riportando danni probabilmente permanenti.

La posizione processuale più delicata, nell'inchiesta della Procura di Roma per tentato omicidio e falso, è proprio quella del poliziotto chiacchierato tra i colleghi per i suoi modi bruschi. Una quindicina di anni fa era in forze alla Squadra Mobile capitolina. Poi venne trasferito al commissariato di Primavalle, una sorta di diminutio per la carriera. 

Non è mai stato oggetto di procedimenti disciplinari, ma ci sarebbe un episodio che avrebbe infastidito il questore dell'epoca. Durante una conferenza stampa venne fotografato con vistosi tatuaggi sul corpo, che avrebbero potuto renderlo identificabile nel corso di indagini sotto copertura. Un corpo muscoloso il suo, ancora adesso scolpito dalle ore di allenamento in palestra.

All'epoca il poliziotto partecipò a una maxi operazione della Sezione reati contro i minori, Fiori nel fango, che smantellò una rete di pedofili che, dietro regalie, adescava bimbi rom nei campi nomadi della Capitale. Si trattava di facoltosi professionisti a cui i bambini venivano procacciati. Gli investigatori della Squadra Mobile, ora delegati dalla Procura a fare luce sulla vicenda di Hasib, stanno cercando di risalire anche ad eventuali pregressi rapporti tra gli Omerovic e gli agenti indagati tali da creare un pregiudizio verso la famiglia rom. 

I genitori del 36enne, arrivati in Italia negli anni 90 dopo la guerra in Bosnia, erano stati prima nel campo rom di Tor di Valle, quindi in quello di Tor de' Cenci, poi a La Barbuta, a Ciampino. Tre anni fa, finalmente, l'assegnazione dell'alloggio popolare di Primavalle. […]

Sulla vicenda di Hasib ci sono ancora molti punti oscuri da chiarire. Nell'esposto depositato in Procura da Fatima, la madre di Hasib, sono allegate le fotografie della porta della camera del ragazzo. La serratura è scardinata. Gli Omerovic sostengono di averla ritrovata a terra, segno che qualcuno ha sfondato la porta. Forse Hasib, spaventato dai modi irruenti, si era chiuso dentro per sfuggire al controllo. Un'altra immagine riguarda un perno di sostegno del termosifone parzialmente divelto dal muro: Hasib potrebbe averlo danneggiato salendoci sopra per raggiungere la finestra. Oppure è la conseguenza di una colluttazione come sostengono i familiari. valore probatorio.

Estratto dall'articolo di Edoardo Izzo e Grazia Longo per “La Stampa” il 16 settembre 2022.

La sorella disabile di Hasib Omerovic, il sordomuto Rom di 36 anni caduto dalla finestra di casa il 25 luglio scorso a Primavalle, periferia di Roma, durante un controllo della polizia, accusa i poliziotti di averlo spinto giù? Loro si difendono sostenendo di non essere stati neppure nell'abitazione al momento del volo. «Eravamo già sulla porta per uscire», hanno rivelato ad alcuni colleghi. 

Tant'è che nella loro relazione di servizio hanno definito il drammatico episodio come un «tentato suicidio» e non come una fuga del giovane per paura del loro intervento, né tantomeno come l'epilogo di un loro gesto violento. «Siamo andati a casa sua perché su Facebook era stato accusato di molestie sessuali. Ma non stava scappando da noi, non lo abbiamo picchiato. E neppure lo abbiamo buttato giù. Ha cercato di uccidersi». […] 

È stata disposta una perizia sulla caduta di Hasib dalla finestra: sarà riprodotto il volo del disabile per accertare, in base ai punti di impatto con il suolo e alle ferite riportate, se è stato gettato giù o se si è lanciato volontariamente. 

Altre verifiche verranno poi effettuate sugli abiti indossati da Hasib la mattina del 25 luglio, sulla scopa spezzata ritrovata nella sua camera da letto e sul lenzuolo sporco di sangue. L'obiettivo è quello di accertare la presenza di impronte digitali e di Dna dei quattro poliziotti accusati di averlo picchiato a sangue prima di buttarlo giù dalla finestra.

I magistrati punteranno inoltre, in sede di interrogatorio, ad appurare perché i quattro poliziotti hanno scattato fotografie ad Hasib con i loro telefonini. Immagini che sono state poi esibite ai colleghi. Cosa volevano dimostrare con quegli scatti? Servivano forse a dimostrare che Hasib non aveva lesioni? E perché, inoltre, gli agenti non hanno abbandonato l'appartamento non appena si sono accorti che i due fratelli disabili erano soli in casa? […]

Caso Primavalle, rimossi dirigente e vice dirigente del commissariato dopo il ferimento di Hasib. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

La decisione è stata presa dal Dipartimento della pubblica sicurezza dopo gli sviluppi della vicenda legata alla caduta del rom disabile dalla finestra di casa il 25 luglio scorso. I quattro poliziotti coinvolti potrebbero essere sentiti entro breve

Cadono le prime teste per la vicenda del ferimento di Hasib Omerovic, il rom disabile di 36 anni volato dalla finestra della sua abitazione a Primavalle lo scorso 25 luglio durante un controllo della polizia. Il Dipartimento di pubblica sicurezza ha disposto la rimozione immediata del dirigente e della vice dirigente del commissariato di quartiere, Andrea Sarnari (in ferie nei giorni in cui è avvenuto l’episodio) e Laura Buia. Entrambi non risultano fra gli indagati.

Fra le motivazione che avrebbero portato i vertici della polizia a prendere provvedimenti così duri anche la necessità di riorganizzare l’ufficio, uno di quelli storici della Capitale, e anche riportare un clima di serenità fra gli agenti, molto provati dalle notizie degli ultimi giorni che li hanno tirati in ballo per la storia di Omerovic. Il nuovo dirigente del commissariato, già convocato dalla Questura nella Capitale, è Roberto Ricciardi, proveniente da Viterbo.

I quattro agenti coinvolti nel controllo durante il quale il 36enne è caduto dalla finestra in circostanze ancora da chiarire, con la Procura che ha aperto un’inchiesta per tentato omicidio e falso in concorso, appartengono proprio alla squadra di polizia giudiziaria del commissariato. Si tratta di tre giovani e di una loro collega graduata, che potrebbero essere sentiti entro breve dai pm e dalla Squadra mobile per chiarire cosa sia successo quel pomeriggio di quasi due mesi fa, in un’operazione seguita a un post apparso sul gruppo «Primavalle» su Facebook da parte di una donna che aveva asserito di essere stata molestata con la figlia da Hasib in mezzo alla strada, e che aveva sollecitato provvedimenti immediati contro di lui.

Dopo le dure accuse soprattutto di Sonita Omerovic, la sorella 30enne di Hasib, affetta da gravi problemi psichici e presente quel giorno nell’appartamento al primo piano di Gerolamo Aleandro quando gli agenti si sono presentati - secondo la sua versione dei fatti il fratello è stato picchiato e poi buttato di sotto -, hanno replicato alcuni poliziotti coinvolti spiegando di non trovarsi più in casa quando il 36enne ha deciso di lanciarsi dalla finestra da solo e anzi di averlo poi soccorso anche con un’ambulanza dell’Ares 118.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 settembre 2022.

Per la Procura più di qualcosa non quadra nella versione fornita dai quattro poliziotti indagati per la caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto a Primavalle lo scorso 25 luglio. «Abbiamo suonato alla porta dell'appartamento - hanno raccontato gli agenti nella loro relazione di servizio in possesso dei pm di piazzale Clodio -, ci è stato aperto, ma lui come ci ha visto è fuggito nella sua stanza, ha alzato la serranda e si è lanciato di sotto».

È questa, in ordine cronologico, la prima ricostruzione di quanto sarebbe accaduto nello stabile di via Gerolamo Aleandro, ma nei giorni scorsi sulla stampa sono emerse altre due ricostruzioni fatte dagli stessi indagati, tutte da verificare: in una Hasib si sarebbe buttato dopo essere stato identificato, in un'altra dopo che gli agenti erano usciti dall'appartamento. Ancora da stabilire comunque se il gesto del 36enne sia stato fatto per tentare il suicidio da circa otto metri di altezza o per sfuggire ai poliziotti perché spaventato.

In tutti i casi la drammatica conclusione di un'operazione che per gli investigatori era stata organizzata per identificare il 36enne disabile in relazione a presunte molestie a ragazze di Primavalle. Sonita, la sorella della vittima, affetta da gravi disturbi psichici, ha invece raccontato di botte, calci, pugni, foto scattate dagli agenti al fratello, «poi afferrato per i piedi e buttato di sotto». Insomma, una storia completamente diversa. 

Proprio «voci di quartiere», avrebbero spiegato i poliziotti, sarebbero stati alla base degli accertamenti a casa Omerovic.

Come quella - non è chiaro se sia nella relazione degli agenti - contenuta nel post su Facebook scritto da Paola Camacci, madre di una delle giovani che avrebbero subìto le attenzioni di Hasib, con foto e invito a «prendere provvedimenti» contro di lui. La donna sarebbe stata già sentita come il barista Paolo Soldani, l'unico - secondo quanto riferito dai genitori della vittima - a mettere in guardia la famiglia su quello che stava per accadere.

La versione dei poliziotti è tuttora al vaglio della Procura, con l'aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani, che fin dai primi giorni dopo il 10 agosto, data della presentazione dell'esposto da parte degli Omerovic, hanno avviato accertamenti per ricostruire l'accaduto, passando da un fascicolo modello 45 senza ipotesi di reato a quello per tentato omicidio e falso nei confronti dei poliziotti.

 I pm rimangono in attesa dei risultati delle analisi mediche sulle ferite sul corpo di Hasib, per capire se siano state provocate solo dalla caduta o anche da percosse, e degli esami svolti dalla Scientifica nell'appartamento al primo piano allora occupato con diritto dalla sua famiglia, che ora però vive in macchina alla Garbatella, parcheggiata davanti al Dipartimento al Patrimonio del Comune dove ha chiesto un altro alloggio.

Alessandro D'Amato per open.online il 14 settembre 2022.  

C’è una relazione di servizio sull’attività della polizia quel 25 luglio a Primavalle nella vicenda di Hasib Omerovic. I pm l’hanno acquisita agli atti nell’indagine ancora senza indagati sulla caduta del disabile dalla finestra durante una perquisizione. Che si è svolta senza mandato. E a breve potrebbero partire le prime iscrizioni nel registro degli indagati. Anche come atto dovuto. 

Intanto circola un’ipotesi sul perché i poliziotti hanno bussato alla porta del 36 enne disabile di etnia Rom in via Gerolamo Aleandro. Dove viveva in un alloggio assegnato dal Comune di Roma insieme alla sorella Sonita e alla madre. Tutto sarebbe partito da un post sul gruppo Facebook del quartiere. In cui lo si accusava di aver importunato alcune ragazze nel parco. Una diceria senza alcuna denuncia specifica. Si parla anche di segnalazioni ai vigili per aver ammassato materiali ferrosi in una cantina. Ma la Polizia Locale smentisce. 

La perquisizione senza mandato

Di certo c’è che quanto avvenuto nell’appartamento con vista su via Pietro Bembo non è legato ad una attività delegata dall’autorità giudiziaria. I pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani e il procuratore Francesco Lo Voi dovranno adesso chiarire se si sia trattato di una iniziativa coordinata da un funzionario. 

O di una decisione presa dai quattro agenti in borghese che quel giorno sono entrati nell’appartamento, a loro dire, per chiedere i documenti del 36enne, sordomuto dalla nascita, che ora si trova in coma al policlinico Gemelli con varie fratture dopo essere precipitato per circa 9 metri. Le condizioni del ferito sono intanto in leggero miglioramento. Non è più in pericolo di vita ma resta un quadro clinico complesso alla luce dei tre interventi chirurgici a cui è stato sottoposto.

Fatima Omerovic, la madre di Hasib, ha raccontato che lei, l’altra sorella Erika e il marito erano fuori casa per portare l’auto dal meccanico. Sonita ha invece detto alla madre che il figlio «è stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate. Poi i poliziotti l’hanno preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l’hanno percosso. 

La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro». Il 26 luglio la famiglia si è presentata al commissariato di Primavalle per avere spiegazioni. Qui, secondo la denuncia riportata oggi dal Fatto Quotidiano, un agente (“Andrea”) li avrebbe informati delle accuse nei confronti del figlio riguardo le presunte molestie. E ha raccontato che una volta entrati in casa gli agenti gli hanno chiesto i documenti.

La tapparella

Sempre nella denuncia si sostiene che l’agente avrebbe detto ai parenti che Hasib è rimasto tranquillo durante l’attività in casa. Tanto è vero che alcuni di loro gli hanno scattato fotografie con il telefono cellulare. Mentre loro erano a parlare con la sorella, hanno sentito tirare su la tapparella della camera da letto. 

Da lì Hasib si sarebbe gettato nel vuoto. L’agente ha assicurato che la polizia scientifica aveva già effettuato i rilievi del caso. Una circostanza smentita dalla famiglia. Sequestrati intanto alcuni oggetti trovati nell’appartamento: lenzuola macchiate di sangue, il bastone spezzato di una scopa. I familiari hanno anche messo a disposizioni degli inquirenti foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e tracce di sangue intorno alla porta della stanza in cui Omerovic si sarebbe rifugiato per paura.

Il post su Facebook

Il Fatto racconta anche in un articolo a firma di Vincenzo Bisbiglia le accuse nei confronti di Hasib. Per i vicini era “il sordomuto con il carrello” e viene descritto come fondamentalmente innocuo. Ma nel quartiere su di lui si diceva anche altro. «Da mesi si diceva che importuna le bambine nel parco, ma non ci ho mai creduto – ha detto al quotidiano Alessia, 35 anni, che vive nella scala affianco –. A me non ha mai dato fastidio, parlavamo a gesti, era simpatico». 

Nel gruppo Facebook di quartiere un post lo accusava apertamente: «Salve a tutti fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze. Bisogna prendere provvedimenti». Una testimonianza anonima sostiene che Omerovic avrebbe «dato fastidio alla ragazzina sbagliata».

«8-10 agenti, alcuni in borghese»

Mentre altri puntano il dito sull’attività di recupero di materiali ferrosi dai rifiuti. «Ammassava la roba in cantina, nel palazzo sono iniziati a girare scarafaggi e topi. Lo abbiamo rimproverato, ma lui continuava. Ci sono anche le segnalazioni ai vigili». Anche qui, nessun riscontro. Complessivamente nella zona dello stabile, secondo quanto riferito da alcuni testimoni ai legali, sarebbero stati presenti tra gli otto e i dieci agenti, alcuni in borghese. 

Le forze dell’ordine hanno allertato i soccorsi dopo avere assistito l’uomo a terra. Gli uomini della Squadra Mobile, a cui sono state delegate le indagini, hanno già ascoltato i vicini di casa degli Omerovic. Tra i testimoni anche una vicina che avrebbe visto il ragazzo precipitare. «A un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso», ha spiegato una testimone. Il reato ipotizzato nel fascicolo è tentato omicidio.

Finestre e morti accidentali. Questa volta a Roma. Franco Corleone su L'Espresso il 13 Settembre 2022. 

Il 25 luglio, classica giornata di cadute, un giovane (ormai si dice così) di 36 anni, sordomuto e di famiglia Roma, precipita dalla finestra di casa sua ed è tuttora in coma all’Ospedale Gemelli.

Come si usa dire di fronte alle tragedie del Bel Paese, occorre fare luce.

La storia è semplice. Nei giorni precedenti sulla pagina di facebook di Primavalle il malcapitato viene additato come molestatore delle ragazze del quartiere e come bersaglio di una lezione.

Il commissariato di zona, allertato e sensibile alle sollecitazioni securitarie, si reca nella abitazione della famiglia rom che da tre anni abita in una casa popolare regolarmente assegnata per un controllo, in assenza di mandato di perquisizione e di denuncia per reati o atti verificati.

Nell’abitazione oltre Hasib vi è solo la sorella portatrice di un grave deficit e i quattro poliziotti (tre uomini e una donna) chiedono i documenti che vengono prontamente esibiti.

Non si sa che succede dopo. Certamente timore e paura spingono l’uomo a rifugiarsi nella sua stanza e a chiudersi a chiave. I poliziotti allora buttano giù la porta e di fronte alla resistenza di Hasib che  si aggrappa al calorifero, usano maniere forti fino a divellere il calorifero stesso.

Alla conclusione di questa inutile ed eccessiva prova di forza il ragazzo precipita dall’altezza di nove metri, con diverse fratture e ferite.

Un incredibile silenzio ha coperto questa allucinante storia che ricorda le vicende di Aldrovandi a Ferrara e di Cucchi a Roma.

L’omertà è stata rotta dal deputato Riccardo Magi e finalmente bisognerà rispondere alla richiesta disperata di verità della madre.

Una congiura di tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi, lo stigma, la debolezza dell’handicap, la richiesta di giustizia sommaria e l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine.

Lo stato di diritto e la democrazia sono state colpite. La ministra La Morgese il Capo della Polizia devono rispondere immediatamente al parlamento e alla società civile turbata e preoccupata.

Quel silenzio che puzza di omertà nel caso di Hasib Omerovic, volato dalla finestra. Franco Corleone su L'Espresso il 27 Settembre 2022.

Ci sono alcuni aspetti sconvolgenti nella vicenda dell’uomo precipitato durante una perquisizione della polizia nella sua casa. Perché le bocche cucite di troppi fanno tornare in mente il caso Aldrovandi

Il volo dalla finestra della sua abitazione di Hasib Omerovic il 25 luglio in pieno giorno a Primavalle, quartiere storico di Roma, presenta degli aspetti sconvolgenti che obbligano a considerazioni di vario segno, culturale, sociale, politico e istituzionale.

Colpisce il silenzio assoluto che è stato riservato a una tragedia, perché di questo si tratta, visto che il giovane, così viene definito anche se compirà il mese prossimo 37 anni, è stato a lungo in coma e ancora oggi giace in un letto del Policlinico Gemelli in gravi condizioni.

Infatti non si è trattata di una caduta accidentale ma avvenuta in stretta relazione con la presenza in casa di almeno quattro poliziotti per una perquisizione senza mandato e la risibile richiesta di documenti. Pare che la telefonata al 118 per chiamare una ambulanza sia stata effettuata da uno dei poliziotti ma ancora non si conosce il contenuto, neppure che cosa è stato detto agli infermieri e neanche come è stato registrato il ricovero.

Pare che tutto il quartiere fosse mobilitato per dare una lezione a un presunto molestatore di ragazze ed è davvero incomprensibile che nessuna reazione - su Facebook o su altri mezzi di comunicazione o nelle chiacchiere al bar il cui proprietario è stato intervistato da un importante quotidiano e sentito il 25 agosto nel commissariato coinvolto - si sia manifestata.

In Sicilia si definirebbe omertà. Sembra che la soddisfazione popolare per la solerzia della polizia si esprima con le bocche cucite. D’altronde la congiura è fondata su tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi e dei rom in particolare, lo stigma, il disprezzo per l’handicap. Hasib, rom e sordomuto, aveva assunto le sembianze del nemico perfetto.

Il pm Stefano Luciani è orientato a procedere per tentato omicidio ma anche per falso. Questa accusa, sostanzialmente di depistaggio, richiama alla memoria la vicenda Cucchi e quella di Federico Aldrovandi di cui il 25 settembre c’è stato l’anniversario della morte in seguito a un pestaggio immotivato, se non per l’odio verso un giovane (in questo caso davvero, aveva diciotto anni) etichettato come drogato. Anche in quella occasione la gestione della questura di Ferrara fu tutt’altro che limpida, ma ricca di ombre.

Più emergono squarci di luce più lo scenario si fa torbido. Domande inquietanti: perché Hasib non è stato chiamato in commissariato in condizioni efficaci per trasmettere un monito relativo alle sollecitazioni di alcune donne? È vero che uno dei poliziotti, animato da rabbia perché Hasib avrebbe molestato una sua nipote, si sarebbe distinto per farsi giustizia, una giustizia sommaria?

Giustamente il magistrato della procura di Roma si appresta a nominare un perito per cercare di scoprire le modalità della caduta: spinta da parte dei poliziotti, tentativo di fuga per paura o caduta per effetto di una dura colluttazione.

Purtroppo è passato molto tempo e alcuni elementi sono inquinati. C’è da augurarsi solo che non venga riesumata la formula del malore attivo, usata per spiegare la defenestrazione di Pino Pinelli, anarchico, dai locali della questura di Milano.

L’omertà è stata rotta per merito del deputato Riccardo Magi con una interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora senza risposta. Un silenzio inquietante perché il Parlamento esiste e va rispettato. La società civile non può tollerare una collusione o una protezione dei violenti.

L’INDAGINE PER TENTATO OMICIDIO: I PM SENTIRANNO I POLIZIOTTI. La polizia e l’amico del boss, tutti i misteri sul caso Hasib. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 settembre 2022

Nel caso Hasib restano ancora molti punti oscuri. Per esempio, perché il 25 luglio scorso gli agenti di polizia sono entrati a casa del disabile sordomuto senza un mandato di perquisizione?

Dopo molto silenzi, durati un giorno intero, la procura ha fatto chiarezza su un dato ormai assodato: ha ammesso che non c’era alcun ordine dei pm per entrare a casa di Hasib. 

Come anticipato da Domani, già alcuni testimoni sono stati sentiti da chi indaga. In particolare la vicina di casa, che si trovava sul balcone e ha sentito il tonfo provocato della caduta di Hasib dalla finestra. Un’altra figura chiave di questa storia potrebbe essere il titolare di un bar di Primavalle, citato in un’indagine sulla ‘ndrangheta. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

L’INCHIESTA – IL PROBLEMA DELLA PROFILAZIONE IN ITALIA. Gli abusi delle forze dell’ordine su trans e afrodiscendenti. LUIGI MASTRODONATO su Il Domani il 13 settembre 2022

«Se non collabori ti frego e ti mando in Brasile. Puoi anche scappare perché qui non ti faccio più mettere piede». Sono le parole rivolte da un carabiniere a una persona trans brasiliana ricattata sessualmente, ed emerse dalle intercettazioni dell’inchiesta Odysseus.

Gli abusi di potere nei confronti delle persone straniere, tanto più se transessuali, sono un problema anche in Italia, dove vige un sistema collaudato di controlli, fermi frequenti, atteggiamenti aggressivi che troppo spesso sfociano nella violenza. Eppure la profilazione razziale e sessuale è ancora troppo poco indagata e assente dal dibattito pubblico.

Questo articolo è stato prodotto nell'ambito del progetto INGRiD – Intersecting Grounds of discrimination in Italy finanziato dalla Commissione europea. 

LUIGI MASTRODONATO. Giornalista freelance, classe 1990. Scrive di diritti umani, migrazioni, sociale: tematiche che lo hanno ispirato durante gli studi universitari in Scienze politiche, prima a Milano, poi a Bruxelles, con qualche mese di mezzo a Beirut.

Un altro caso Cucchi: Hasib in coma dopo la visita degli agenti di polizia. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 12 settembre 2022

Sul caso di Hasib, il disabile precipitato dalla finestra dopo un controllo della polizia, si sa solo che la procura indaga per tentato omicidio. Il dato è scritto nell’atto del 12 agosto con cui il pm Stefano Luciani ordina il sequestro del bastone della scopa e del lenzuolo macchiato di sangue.

Oggetti necessari per capire la dinamica dei fatti e menzionati nella denuncia presentata dalla famiglia di Hasib il 10 agosto, quindici giorni dopo la caduta dell’uomo dal secondo piano della sua abitazione durante la “visita” degli agenti del commissariato. In procura e in questura nessuno vuole parlare, confermare o aggiungere altro.

Cosa è accaduto, dunque, ad Hasib il 25 luglio 2022? Si è buttato dalla finestra, è caduto, è stato spinto? Nessuna certezza, ancora molti punti oscuri. Di certo gli inquirenti, risulta a Domani, hanno già sentito un testimone chiave, una vicina di casa dell’uomo.

Luca Monaco e Fabio Tonacci per la Repubblica il 12 settembre 2022

Fine luglio, un quartiere di Primavalle, le case popolari. Un uomo di etnia rom, sordo, vola dalla finestra della sua abitazione al primo piano durante un controllo della polizia. Sono nove metri di caduta. L'uomo, che si chiama Hasib Omerovich e ha 36 anni, dopo l'impatto va in coma. 

Viene portato in ospedale. Ed è ancora in stato di coma vigile. Nell'abitazione ci sono tracce di sangue e la sorella, che ha assistito a tutto, è sotto shock. Che storia è questa che la madre del ragazzo, il suo avvocato, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom e il deputato di +Europa Riccardo Magi raccontano nel dettaglio in una conferenza stampa alla Camera? 

La famiglia Omerovich vive da tre anni in un alloggio popolare regolarmente assegnato. Hasib è un uomo problematico. E' disabile e nel quartiere girano strane voci su di lui. Giusto prima della visita della polizia a casa sua avvenuta il 25 luglio, sulla pagina facebook del quartiere è apparso un post con la sua foto e il seguente commento a corredo: "Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti".

Al post segue un tentativo di avvicinamento. La sorella di Hasib, S., anche lei disabile, viene chiamata dal proprietario di un bar della zona, il quale l'avverte che "Hasib ha importunato alcune delle ragazze del quartiere" e che "qualcuno lo vuole mandare all'ospedale". Il barista le chiede di vedersi l'indomani al bar insieme con il fratello, ma l'incontro non ci sarà. 

Esattamente ventiquattro ore dopo, riferisce la famiglia di Hasib, quattro poliziotti in borghese, probabilmente del Commissariato Aurelio o del Primavalle, si presentano presso la casa mentre i genitori non ci sono, perché sono andati dal meccanico, insieme con la sorella più piccola. 

Nell'appartamento ci sono Hasib e S., la sorella disabile. "Hanno suonato, ho aperto la porta...una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa. La donna ha chiuso la serrranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti a mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato col bastone. Hasib è caduto e a hanno iniziato a dargli i calci. E' scappato in camera e si è chiuso", ricorda la ragazza. 

Fin qui la ricostruzione è chiara. Poi diventa ingarbugliata. La ragazza dice che Hasib corre in camera sua e chiude a chiave la porta. La porta viene abbattuta dagli agenti in borghese. Dopodiché, il 36 enne cade dalla finestra.

"Loro gli hanno dato calci e pugni, lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù", è la versione della sorella. Nella stanza ci sono macchie di sangue sulla coperta del letto, un manico di scopa spezzato che S. sostiene essere stato usato dagli agenti per pestare Hasib e il termosifone sotto la finestra divelto dagli appoggi che lo tengono muro. "Perché mio fratello si era avvinghiato lì, i poliziotti lo tiravano", racconta. Dopo la caduta, Hasib è stato soccorso dagli agenti in borghese a cui si sono aggiunti poliziotti in divisa appena arrivati sul posto. 

Il resoconto di quanto avvenuto è contenuto in un esposto alla procura di Roma che ha aperto un'inchiesta contro ignoti per tentato omicidio in concorso. Il pm è Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Il deputato Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare rivolta alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. "Ci sono degli aspetti da chiarire", dice Magi. "Perché è stato fatto l'intervento a casa Omerovich? C'è un ordine di servizio? La ministra intende prendere provvedimenti disciplinari?" 

Disabile in coma, la mamma di Hasib: "I poliziotti l'hanno massacrato di botte, preso per i piedi e buttato giù dalla finestra come spazzatura". Luca Monaco e Fabio Tonacci su La Repubblica il 12 settembre 2022

La famiglia Omerovich, la madre Fatima con il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, e la figlia 16enne Erika  

Il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare che si trova nell'estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom

"Adesso abbiamo paura anche ad andare all'ospedale a trovare nostro figlio, Hasib amava la vita, non si sarebbe mai buttato da solo dalla finestra. Vogliamo sapere cosa è successo". Scorre la galleria delle immagini sul cellulare e si commuove Fatima Omerovic, davanti all'immagine del figlio che balla sorridente in casa. Perché "Hasib amava la musica, il cinema, anche se non poteva sentire. Era incensurato, non ha mai fatto del male a nessuno".

Parla nella redazione della cronaca di Roma di Repubblica la madre di Hasib, il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare a Primavalle, estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom.

Accanto a Fatima ci sono il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, la figlia 16enne Erika, l'avvocato Arturo Salerni, il deputato di +Europa Riccardo Magi e Carlo Stasolla, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom. 

Partiamo dall'inizio, dove eravate il 25 luglio scorso.

Fatima: "Io, mio marito e mia figlia Erika siamo usciti di casa alle 10,30 per andare a portare la macchina dal meccanico. In casa c'erano solo Hasib che badava alla sorella Sonita che ha 32 anni, ma è affetta da un ritardo mentale. Alle 13,15 ci ha chiamati la vicina di casa e ci ha detto di correre perché Hasib aveva avuto un problema. Poi ci ha passato gli agenti, loro ci hanno detto che Hasib era caduto ed era stato portato in ospedale con un braccio rotto. Così siamo corsi al palazzo".

Cosa avete visto?

Erika: "Appena siamo arrivati abbiamo incontrato due poliziotti in borghese all'ingresso del palazzo, quando siamo arrivati alla porta di casa abbiamo visto una poliziotta che stava uscendo dall'appartamento per ultima, aveva ancora i guanti in lattice. Ci hanno detto che erano entrati in casa per controllare i documenti di Hasib, che la porta della sua camera era già aperta e che lui si era buttato. Ma Hasib non ha mai tentato gesti del genere in vita sua". 

Quando avete capito che quella versione non quadrava?

Fatima: "Appena sono entrata in casa mia figlia Sonita mi è corsa incontro e mi ha abbracciata. Mi ha portata in camera da letto e mi ha detto che mio figlio era stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate e che poi i poliziotti l'avevano preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l'hanno percosso. La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro".

Come si sono svolti i fatti, secondo la vostra versione?

Erika: "Mia sorella mi ha ricostruito tutto, mimando ogni cosa. Mi ha detto che avevano suonato dei poliziotti, che mio fratello aveva aperto la porta di casa e che loro sono entrati, erano quattro, in borghese. Tre uomini hanno chiesto i documenti ad Hasib e l'hanno portato in camera da letto, mentre mia sorella è rimasta in salone con la poliziotta donna, che ha abbassato la tapparella, l'ha fatta sedere sul divano e le ha detto di stare buona li".

Poi cosa è successo?

Erika: "Sonita ricorda che a un certo punto si sono sentiti degli strilli, la poliziotta si è alzata dal salone per andare a vedere cosa stesse succedendo e mia sorella l'ha seguita. Ha visto quei tre che pestavano Hasib. Lui era in terra e loro lo prendevano a calci, pugni, a bastonate con manico di scopa. Poi ha visto che l'hanno preso per i piedi e l'hanno buttato giù dalla finestra". 

Come sta adesso suo figlio?

Fatima: "Lo hanno portato al Gemelli, gli hanno fatto giù due interventi di chirurgia maxillo facciale. È vivo per miracolo. Ha avuto una emorragia interna ed è politraumatizzato".

Si dice che nel quartiere ce l'avessero con lui perché molestava le ragazze e che qualcuno avesse pubblicato perfino un post su Facebook scrivendo che bisognava dargli una lezione.

Erika: "Noi di questa cosa non sapevamo nulla, nessuno nel palazzo ci aveva mai riferito una cosa del genere. Solo il 27 o il 28 ci hanno girato il post che una residente aveva pubblicato sul gruppo di quartiere 'Primavalle', ha scritto che mio fratello meritava una lezione. Il giorno prima, il titolare del bar sotto casa mi aveva fermata e mi aveva chiesto se il 25, alle 21 avessi potuto portare mio fratello al bar e fare da traduttrice, perché giravano delle brutte voci su di lui. Mi ha detto che dava fastidio alle donne e che bisognava chiarire la faccenda prima che le cose si fossero complicate. Mi ha detto: "Mi dispiace se poi lo mandano all'ospedale"".

L'ha rivisto quest'uomo?

Erika: "Si il 25 quando sono andata a dirgli quello che era successo mi ha risposto: "Putroppo abbiamo fatto tardi, hanno fatto il lavoro sporco".

Il giorno stesso siete andati in ospedale?

Fatima: "Quando siamo andati al Gemelli il medico ci ha ricevuti e ci ha detto che la situazione era molto grave, che mio figlio era in coma e che bisognava aspettare 48 ore per capire se sarebbe sopravvissuto".

Avete ripreso i suoi effetti personali.

Erika: "Si. Ci hanno consegnato un sacchetto con dei vestiti, che però non sono i suoi. Lui quel giorno indossava dei pantaloni i lunghi di una tuta arrotolati fino alle ginocchia e delle scarpe nere. Loro ci hanno dato dei pantaloncini corti marroni e delle scarpe nere ma con la striscia bianca. Sono abiti diversi, sporchi anche quelli".

Siete andati a chiedere spiegazioni alla polizia?

MehmedAlija: "Siamo andati al commissariato di Primavalle, non ci hanno mai ricevuto negli uffici. Abbiamo parlato con due agenti nel cortile, che ci hanno detto solo che avevano fatto loro l'intervento in casa per identificare mio figlio, perché c'erano state delle segnalazioni e volevano fare delle verifiche. Ho chiesto loro se avessero un mandato di perquisizione o delle denunce, mi hanno risposto espressamente di no. Senza spiegare null'altro". 

Quando vi siete accorti delle tracce di sangue in camera?

Fatima: "Il 27 è venuta a casa mia sorella, abbiamo messo a posto la stanza di mio figlio. Abbiamo preso le lenzuola per fare il bucato e ci siamo accorte che erano intrise di sangue".

Perché avete deciso di denunciare pubblicamente l'accaduto a quasi un mese di distanza?

Fatima: "Perché dopo quello che è successo abbiamo paura di vivere a Primavalle. Chiediamo al Comune di assegnarci una casa in un altro quartiere, per noi lì e diventato troppo pericoloso. Tanto che ci siamo già trasferiti a casa di alcuni parenti. Adesso vogliamo sapere la verità, vogliamo giustia per nostro figlio". 

Estratto dall'articolo di Giuseppe Scarpa e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 14 settembre 2022.  

"Alle 12,29, al momento dell'accesso all'abitazione Hasib è scappato dalla finestra lanciandosi dal primo piano". Ecco la primissima verità della polizia. La versione, esplicitata in una prima relazione prodotta dagli agenti del commissariato Primavalle e ora confluita nel fascicolo di indagine per tentato omicidio in concorso aperto dalla procura di Roma, respinge al mittente ogni responsabilità. 

Secondo il documento riservato, Hasib, il 36enne di origini rom che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della camera da letto mentre era in corso una identificazione, eseguita di iniziativa, senza un mandato da parte dei pm, "si è lanciato dalla finestra cadendo nel cortile interno del palazzo, dove poi è stato soccorso dal 118 che lo ha trasferito al policlinico Gemelli". Non solo.

La versione ora all'esame della procura prosegue: "Era molesto sebbene sordomuto e al commissariato sono arrivate segnalazioni che lo riguardano, in quanto disturba le donne". 

Al momento i magistrati indagano nei confronti di ignoti per tentato omicidio in concorso. Ma presto potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati i nomi degli agenti che hanno eseguito l'intervento in via Gerolamo Aleandro, alla periferia Nord di Roma.

Secondo la famiglia, in casa, al momento dell'ingresso della polizia, c'erano solo Hasib e la sorella Sonita, una 32enne con un ritardo mentale. Sonita ha raccontato di aver visto gli agenti picchiare il fratello e poi tirarlo giù dalla finestra. Stando agli elementi ritrovati in casa, diversi interrogativi non hanno ancora una risposta. 

La 32enne assicura di aver visto tre agenti picchiare Hasib con un manico di scopa nella sua camera da letto: il padre Mehmedalija, la madre Fatima e la sorella 16enne Erika, che in quel momento erano dal meccanico, tornati a casa hanno trovato le lenzuola sporche di sangue e un manico di scopa spezzato. Entrambi gli oggetti sono stati sequestrati dal pm. 

Il braccio rotto

Alle 13,15 la 16enne riceve una telefonata dalla vicina di casa, Francesca. "Tornate a casa, c'è un problema con Hasib", riferisce. A quel punto uno degli agenti presenti le prende il telefono, si qualifica come poliziotto, e dice: "Hasib è ferito, sta bene, si trova in ospedale". La famiglia Omerovic si precipita a casa, alle 13,30 è davanti al portone. Trovano quattro agenti in borghese che spiegano: "Hasib sta bene, ha solo un braccio rotto. E' stato portato con l'ambulanza al Gemelli". In realtà Hasib è già in coma. […]

Chi apre agli agenti

Quando Mehmedalija va a chiedere spiegazioni al commissariato un agente gli dice informalmente: "Abbiamo suonato, la porta è stata aperta da Hasib, lui era molto tranquillo e si è fatto scattare delle foto mentre ci consegnava i documenti". Però Hasib è sordo, non poteva sentire il campanello. È stata invece Sonita ad aprire la porta. […] 

Secondo la famiglia, però, la serranda della camera di Hasib era rotta da tempo, non si apriva se non forzandola. Quando rientrano a casa dopo la caduta, la trovano spalancata. La porta della camera da letto è scardinata, come un termosifone divelto dalla parete.

"Hasib aveva molestato la nipotina di un poliziotto: poi la spedizione punitiva", la pista shock della procura. Luca Monaco, Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 17 Settembre 2022. 

L'inchiesta sul disabile caduto dalla finestra: l'ingresso da sceriffi dei quattro agenti a casa del rom sarebbe collegato a un fatto privato. Rimossi i vertici del commissariato

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona.

Estratto dall’articolo di Luca Monaco, Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 17 settembre 2022.

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona. 

Forse proprio da Omerovic? È la domanda che quel giorno ronza nella testa dei quattro agenti. Questa è una pista su cui lavora la procura di Roma e che spiegherebbe anche un atteggiamento particolarmente severo dei poliziotti di fronte al 36enne.

Anche perché sul conto di Omerovic, a Primavalle, iniziano a girare parecchie voci, per nulla positive. Si dice che sia un "molestatore di ragazzine". Niente di provato. Ma il chiacchiericcio circola sempre con maggiore insistenza e induce i poliziotti a voler verificarne l'autenticità prima che qualcuno possa passare alle maniere forti e aggredire il 36enne sulla base di meri pettegolezzi di quartiere. 

L'identificazione, in questo senso, diventa un mezzo per muovere una prima indagine embrionale. Una prima verifica. L'atteggiamento degli agenti però, di fronte all'uomo, è particolarmente intransigente perché uno di loro forse sarebbe coinvolto in prima persona. Il motivo? La sua nipotina è stata disturbata da Omerovic. Il pm Stefano Luciani, che indaga per tentato omicidio e falso, lavora a questa ipotesi. Una pista su cui sono impegnati gli agenti della squadra mobile.

Dalla loro gli agenti hanno delle immagini già recapitate ai magistrati e che proverebbero come il 36enne abbia invece fatto tutto da solo. La prima foto scattata ad Hasib da un investigatore di lungo corso, forse il più esperto dei quattro, mostra il ragazzo seduto, in perfetta salute, con lo sguardo comunicativo e senza alcun segno in volto. […] 

La prima istantanea giocherebbe un ruolo determinante se messa a sistema con la seconda immagine, scattata solo due minuti più tardi e che mostra il 36enne sdraiato in terra dopo la caduta, sul retro del palazzo.

Tra il primo e il secondo scatto, stando agli orari registrati sul cellulare, intercorrerebbero solo due minuti, non di più: è il tempo che si impiega a uscire dall'appartamento e poi a fare il giro dello stabile, percorrendo una seconda rampa di scale, fino al ballatoio sul quale Hasib ha rischiato di morire. […]

Estratto dall'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

La fotografia del corpo di Hasib Omerovic disteso sull'asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da letto, non è l'unica istantanea scattata quel giorno. Ci sono alcune fotografie che raccontano ciò che è accaduto in quella casa al primo piano di via al civico 24 di via Girolamo Aleandro, tra il lotti popolari di Primavalle: sono immagini che mal si coniugano con la tesi dei poliziotti, secondo cui Hasib si sarebbe improvvisamente lanciato dalla finestra. 

Piuttosto sembrano confermare il racconto di Sonita, la sorella della vittima, una ragazza che potrebbe non essere ritenuta attendibile per la sua disabilità. A supporto della versione di Sonita ci sono le immagini finite sulla scrivania del pm Stefano Luciani che indaga per falso e tentato omicidio. 

Il sospetto è che si sia trattato di un intervento muscolare, di una spedizione organizzata dagli agenti per intimorire il trentaseienne, nella convinzione che potesse aver infastidito una parente, forse la nipote, di uno dei quattro poliziotti coinvolti. […]

La sequenza di fotografie sono a supporto del racconto della sorella di Hasib. La ragazza dice di aver aperto la porta, «una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa, la donna ha chiuso la serranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti di Hasib» . Ed effettivamente, dicono i parenti del ragazzo mostrando la prima foto, «sul tavolo del salone abbiamo ritrovato in bell'ordine una serie di documenti e altri effetti personali di Hasib».

«Hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con il bastone», continua il racconto che Sonita ripete da quel giorno come un mantra. La seconda immagine mostra infatti «il bastone di una scopa spezzato all'interno della camera da letto». «Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli i calci, è scappato in camera e si è chiuso in camera loro hanno rotto la porta, gli hanno dato pugni e calci», prosegue la ragazza rendendo altre tre foto sospette. 

La prima ritrae «la serratura della porta d'ingresso della camera di Hasib: è completamente divelta ed è stata rinvenuta smontata, a terra, dietro a un secchio della camera". I segni sullo stipite mostrano con ogni evidenza che la porta è stata sfondata, mentre la seconda e la terza foto, quelle che ritraggono i resti di un ventilatore adagiati per terra e «la tubatura esterna del termosifone della camera da letto di Hasib sradicata dal muro», sembrano elementi caratteristici di una colluttazione. […]

E poi ci sono tutti gli altri elementi, le altre foto, le macchie che sporcano di sangue il ponte di Brooklyn e lo skateboard stampati sulla felpa grigia indossata da Hasib, le macchie ematiche sulle lenzuola verdi e le immagini che certificano l'unica verità: Hasib disteso sull'asfalto, dopo un volo di 9 metri. «Lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù», dice Sonita. Una dichiarazione che ha portato la procura a ipotizzare il reato di tentato omicidio.

Estratto dall'articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

Il sospetto che almeno un agente che doveva essere di riposo, appartenente a uffici diversi dalla polizia giudiziaria del commissariato Primavalle, delegati a compiere indagini rispetto ai colleghi incaricati del pattugliamento del territorio, si trovasse invece nel pomeriggio del 25 luglio scorso nell’appartamento di via Gerolamo Aleandro, solo a poche centinaia di metri dal distretto, da dove Hasib Omerovic è volato dalla finestra della camera da letto.

Una nuova ipotesi si affaccia sul caso del ferimento del 36enne rom, sordomuto dalla nascita, tuttora in prognosi riservata al Policlinico Gemelli: non è più in pericolo di vita e potrebbe essere interrogato da chi indaga quando i medici daranno l’ok sulla base delle sue condizioni di salute.  

Lo stesso sarà fatto, in audizione protetta, con la sorella di 31 anni, affetta da gravi problemi psichici, unica testimone diretta dell’irruzione in casa da parte di 4 poliziotti in borghese, come raccontato nell’esposto presentato in procura il 10 agosto scorso dai genitori. […]

Grazia Longo per “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

C'è una testimone del volo dalla finestra di Hasib Omerovic. Si tratta della vicina di casa del quarto piano, C. G., brasiliana che parla benissimo l'italiano e che lavora come mediatrice culturale.

Che cosa ha visto esattamente la mattina del 25 luglio scorso?

«Stavo annaffiando le piante sul balcone e quindi guardavo verso il basso: all'improvviso ho visto Hasib cadere giù. Non riuscivo a credere ai miei occhi eppure l'ho visto proprio mentre precipitava dalla finestra». 

È riuscita a capire se lo avevano spinto o se si era buttato lui di sua iniziativa?

«No, sinceramente non ho potuto rendermi conto di questo. Dall'alto, dal punto in cui mi trovavo io, non sono riuscita a distinguere se la caduta fosse spontanea o indotta da qualcun altro».

Ma lo ha visto cadere di spalle o con il viso rivolto verso di lei?

«Sinceramente questo non lo ricordo. Ero troppo scioccata, ancora adesso al ricordo mi tremano le gambe». 

E dopo, ha notato qualcuno vicino al corpo del giovane?

«Sì, dopo un po' sono arrivati i poliziotti nel cortile». 

Che cosa facevano?

«Cercavano di aiutarlo. Hasib aveva provato a spostarsi, si è trascinato fin quasi alla ringhiera ma poi non ce l'ha fatta più a muoversi e i poliziotti gli stavano prestando i primi soccorsi in attesa dell'ambulanza». 

Lei era sola in casa?

«No, c'era anche mio figlio. Ma stava dormendo quindi lui non ha visto niente».

Prima di assistere al volo dalla finestra, ha sentito provenire urla o lamenti dall'appartamento di Hasib? Ha udito richieste di aiuto?

«No, non ho sentito nulla anche perché lui abita al piano terreno-piano rialzato e io al quarto. Hasib è sordo ma comunica, oltre che con i gesti, con dei suoni gutturali. La sorella disabile che era in casa con lui, Sonita, parla, ma ripeto io non ho sentito alcun trambusto quella mattina. Solo la scena a cui ho assistito con i miei occhi». 

Ha comunicato questi particolari alla polizia?

«Sì, sono stata interrogata e ho detto tutto quello che ho visto e che so. Spero proprio che si chiarisca quello che è accaduto con quei quattro poliziotti. Certo, però è un peccato che i due fratelli disabili fossero soli in casa. Io mi domando: ma com'è possibile che, in assenza dei loro genitori, non ci fosse con loro un educatore, un assistente sociale? La loro madre, Fatima, mi aveva detto che erano seguiti da un assistente sociale ma io non ho mai visto nessuno. E credo non sia giusto perché persone con questi handicap non possono essere abbandonate in un quartiere popolare com'è Primavalle. Perché altrimenti va a finire che al degrado si aggiunge degrado».

Un post su Facebook segnalava che Hasib molestava donne e ragazzine del quartiere. Era a conoscenza di episodi del genere?

«Sapevo che girava questa voce, ma io personalmente non ho mai visto Hasib dare fastidio a qualcuno. Girava sempre con un passeggino vecchio per recuperare oggetti dai cassonetti della spazzatura, salutava a modo suo quando lo incrociavo per strada, ma non so dire se le voci sulle presunte molestie corrispondano alla realtà». 

La famiglia di Hasib si era integrata nel palazzo?

«Non credo ci fossero pregiudizi nei loro confronti, ma non so fino a che punto fossero inseriti nel tessuto sociale locale. Stavano molto per conto loro e spesso litigavano forte tra di loro, tanto che qualcuno chiamava la polizia per sedare le liti. Siamo di fronte a una vicenda molto triste. Non solo perché c'è un giovane disabile in coma in ospedale e perché non si sa se sia stato lanciato giù di proposito o se si sia buttato lui per scappare, ma perché il tutto è avvenuto in un quartiere difficile. In un'area della città con mille problemi di cui però non interessa niente a nessuno. Oggi qui è pieno di giornalisti, ma di solito siamo abbandonati a noi stessi».

Il blitz scattato per un'accusa web di molestie. La "squadretta speciale" al pm: "Sua la reazione violenta. Il tentativo di salvarlo". Stefano Vladovich il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

La finestra chiusa nonostante l'afa. I vetri infranti a terra, lo scotch sull'infisso al mezzanino di una palazzina popolare. E poi loro, i quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna, della «speciale» di Primavalle, intervenuti dopo una segnalazione su un omone che si aggira tra i cassonetti a spaventare le donne. E adesso accusati di tentato omicidio.

Cosa è accaduto il 25 luglio nell'appartamento assegnato agli Omerovic in via Gerolamo Aleandro 24 lo vogliono capire gli stessi poliziotti del commissariato locale e della questura di Roma. Niente mandato, nessuna denuncia scritta, eppure gli elementi raccolti suggeriscono il blitz in casa di Hasib, 36 anni, sordomuto dalla nascita, con una sorella più piccola disabile, con importanti ritardi mentali. I quattro si sarebbero giustificati spiegando che in alcuni casi si può intervenire anche senza un mandato della Procura. Quali? Il sospetto di armi e droga. Di certo l'uomo, incensurato, che versa in condizioni gravissime all'ospedale Agostino Gemelli da 50 giorni, non aveva fatto mai male a nessuno, tanto meno era uno spacciatore. Lo raccontano gli abitanti del quartiere che lo vedevano tutti i giorni rovistare nella spazzatura. Ma tutto questo gli agenti non lo sanno. Le segnalazioni arrivate, anche attraverso i social, parlano di un personaggio inquietante.

A far scattare l'allarme un episodio accaduto il giorno prima. È domenica pomeriggio, una donna, Paola Camacci, cammina con la figlia quando vede Hasib che fotografa la ragazza. «Gli ho detto: Guarda che ti ho fotografato pure io - racconta -, ma lui ci ha seguito fino all'androne del nostro palazzo, siamo morte di paura». È così che nasce il post, ora rimosso, con l'immagine di Hasib che urla accanto a un passeggino colmo di rifiuti. Bisogna prendere provvedimenti» concludeva la chat. «Ma io non ho sporto nessuna denuncia» chiarisce la donna. Ai poliziotti, però, basta. La «squadretta» della polizia, agenti abituati ad agire in borghese per combattere lo spaccio di droga in una zona ad alto rischio, interviene il giorno dopo.

«Come tutti i sordomuti Hasib emette suoni gutturali quando cerca di farsi capire - spiega un uomo -, a qualcuno faceva paura, specialmente la sera. Ma era innocuo». Gli agenti decidono di fare la perquisizione. Non è chiaro se di questo ne fosse a conoscenza il dirigente del commissariato, fatto sta che i quattro bussano alla porta degli Omerovic, una famiglia di etnia rom trasferita da un campo sosta in un'abitazione assegnata dal comune di Roma. La madre di Hasib, Fatima Sejdovic, non c'è. Il padre nemmeno. Disoccupati, i quattro vivono con le pensioni di invalidità dei figli e, a detta dei vicini, non hanno faticato a inserirsi nel tessuto sociale di Primavalle. Una famiglia, comunque, ai margini. I dirimpettai delle palazzine di via Pietro Bembo raccontano che Hasib veniva spesso picchiato dai genitori.

I quattro entrano, cosa succede esattamente è riportato nell'informativa che la polizia ha già inviato ai pm Michele Prestipino e Stefano Luciani che hanno aperto un fascicolo per tentato omicidio. Porte e finestre chiuse, nessuno sente quello che dicono i quattro al 36enne. A un certo punto nell'appartamento scoppia il finimondo. Il manico di una scopa spezzato, la porta della camera sfondata, un termosifone divelto e poi tracce di sangue: è la scena fotografata dai legali degli Omerovic. La sorella che mima il gesto del fratello che si aggrappa al calorifero. È Hasib ad afferrare la scopa e a scagliarla contro i poliziotti o viceversa? Secondo i quattro la situazione sfugge di mano per la reazione dell'uomo. Ma tutti gli indagati sostengono con fermezza che non l'hanno gettato loro dalla finestra. «Abbiamo cercato di salvarlo» mettono a verbale.

Giù dal balcone, Hasib in coma. "Quei 4 agenti senza mandato". Inchiesta sulla perquisizione a casa di Omerovic. La teste: "Ho visto i poliziotti in cortile". La Cucchi: "Chiarezza". Tiziana Paolocci il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Hasib era a terra, la schiena coperta di sangue. Si batteva le mani sulle gambe, come per far capire che era stato preso per i piedi...». Gli abitanti di via Gerolamo Aleandri, nel quartiere di Primavalle, a Roma, hanno impressa negli occhi la scena che si sono trovati davanti il pomeriggio del 25 luglio, quando Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, senza parlare aveva detto abbastanza.

L'uomo era finito nel reparto di rianimazione del Gemelli piombando giù per otto metri dal primo piano, dopo un controllo effettuato nella casa popolare assegnata a genitori e sorelle (una disabile come lui) da parte di quattro poliziotti. Quattro agenti, che non avevano ricevuto però alcun mandato di perquisizione da parte della Procura. Lo svelano le indagini che i pm di piazzale Clodio stanno conducendo insieme alla squadra mobile. Il fascicolo, per ora contro ignoti, è aperto per tentato omicidio, mentre il capo della polizia Lamberto Giannini ha fatto sapere che «segue in prima persona» le indagini.

Sarà da chiarire se si sia trattato di una perquisizione coordinata da un funzionario o di una decisione presa dai poliziotti, che saranno ascoltati presto. Ma la vicenda riporta alla mente le agghiaccianti immagini di Stefano Cucchi. Hasib, invece, si è salvato, dopo essere rimasto ricoverato nella rianimazione del Policlinico Gemelli fino al 27 agosto scorso. I familiari del disabile, assistiti dall'avvocata Susanna Zorzi, vogliono chiarezza. «Non mi fermerò fino a quando non saprò la verità» dichiara la mamma, Fatima Sejdovic - ora abbiamo paura, ci sentiamo seguiti e minacciati».

A trovare il 36enne, a una ventina di metri da dove era caduto, era stato il 118. Ma la sorella Sonita, presente al momento della perquisizione, aveva subito puntato il dito contro i quattro agenti in borghese. «Hanno chiesto i documenti di mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con un bastone - ha raccontato Sonita -. Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli calci. È scappato in camera: loro hanno rotto la porta, gli hanno dato calci e pugni, poi lo hanno preso per i piedi e lo hanno buttato giù».

Ora si attendono i rilievi sul manico di scopa spezzato e su un lenzuolo macchiato di sangue già sequestrati. I familiari hanno anche messo a disposizioni della Procura foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e sangue intorno alla porta della stanza in cui Hasib si sarebbe rifugiato.

Secondo il legale della famiglia Omerovic a portare la polizia nell'abitazione di via Aleandri sarebbe stato un post, poi sparito, sulla pagina Fb di quartiere, in cui si accusava Hasib di molestie. Nel post una sua foto e l'avvertimento a fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». E una minaccia: «Bisogna prendere provvedimenti». Per questo i poliziotti di Primavalle si sarebbero presentati per identificare il soggetto e forse prevenire violenze di genere. «È un ragazzo buono dicono in via Aleandri spesso qualcuno qui gli regala cose da mangiare. Temiamo che venisse maltrattato, costretto a raccogliere oggetti nei cassonetti. Di notte lo abbiamo sentito lamentarsi». «Quel giorno l'ho visto attaccato a quella ringhiera - spiega Loredana, una testimone - c'era anche una donna che gli agenti chiamavano dottoressa. A lui dicevano non ti muovere, ma lui si voleva alzare. Si è alzato, è arrivato fino a qui (indica pochi metri più avanti) poi si è accasciato. Penso al dolore che poteva provare, era tutto rotto, aveva gli occhi di fuori». Hasib è ancora grave in ospedale. Nella zona dello stabile sarebbero stati presenti 8-10 agenti, alcuni in borghese. Presto potrebbero arrivare i primi indagati.

«Mi auguro che venga fatta chiarezza a 360 gradi senza fare sconti a nessuno», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, candidata al Senato con l'alleanza Sinistra Italiana-Verdi. L'eurodeputato di S&D, Massimiliano Smeriglio ha annunciato che presenterà un'interrogazione al Parlamento europeo e Loredana De Petris, di Leu al Senato.

Hasib giù dal balcone: tutti i punti da chiarire e l'ipotesi depistaggio. Fascicolo per ora contro ignoti: gli indagati salgono a 8, i pm pronti a sentire gli agenti. Stefano Vladovich il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quaranta giorni di silenzio, poi l'inchiesta. Nel blitz in casa Omerovic, a Primavalle, i punti che non tornano ai magistrati sono molti. A cominciare dal post su Fb che avrebbe mosso la «squadretta» della polizia giudiziaria. La donna che il 24 luglio l'ha messo in rete nel gruppo di quartiere viene ascoltata 9 giorni fa dalla squadra mobile romana, ben 42 giorni dopo il fatto.

Eppure la sua testimonianza è fondamentale per chiarire il motivo che spinge la polizia a interrogare un possibile molestatore, senza mandato della Procura e senza denuncia scritta e orale. Dunque senza i requisiti necessari, la flagranza di reato o il sospetto di armi e droga, per intervenire. La relazione di servizio è stata fatta in un secondo momento? E perché arriva alla «mobile» solo dopo che scoppia il caso? Oltre ai quattro agenti in borghese, chi c'era nell'appartamento al piano rialzato di via Gerolamo Aleandro 24? I poliziotti si presentano da un disabile, sordomuto, senza alcun sostegno. Il dirigente del commissariato sapeva quello che faceva la «speciale»? Gli indagati per tentato omicidio, intanto, salgono a otto e non si esclude che si possa procedere anche per falso e depistaggio. Sul posto, dopo il volo di otto metri e mezzo di Hasib, i residenti vedono altri poliziotti, tutti in divisa. La versione che riportano ai genitori, Mehmedalija Omerovic e sua moglie Fatima Sejdic, quando rientrano con la figlia Erika, parla di un accertamento in quanto il figlio avrebbe molestato delle donne nel quartiere. «Improvvisamente sentiamo aprire le tapparelle della camera da letto e vediamo Hasib gettarsi dalla finestra» spiega loro un poliziotto di Primavalle, tale Andrea. Forse questo è l'unico punto certo. Il 36enne si sarebbe gettato nel cortile interno, che non è però allo stesso livello del piano stradale, per fuggire. Il perché lo mima a gesti la sorella Sonita, una donna di 30 anni che ha però gravi disturbi psichiatrici: le botte. Hasib potrebbe aver reagito male all'irruzione degli agenti, anche se la polizia racconta al padre che il figlio era calmo e con tranquillità avrebbe consegnato loro i documenti. Ma il sangue a terra e sul letto, il termosifone divelto nel tentativo di sottrarsi alle guardie, la porta sfondata dicono il contrario. Cioè che la mattina del 25 luglio in quell'appartamento la situazione deve essere sfuggita di mano ai poliziotti. Ma ancora non si può escludere del tutto che a spingere l'uomo di sotto siano stati gli agenti.

Il manico della scopa spezzato in due: l'ha scagliato Hasib per difendersi o è stato usato per picchiarlo? Oppure, terza ipotesi, a romperlo è stato il padre del disabile, visto che i dirimpettai di via Pietro Bembo raccontano che il giovane veniva picchiato dagli stessi genitori? L'intervento fin troppo tempestivo alle case popolari.

Gli agenti conoscevano già il soggetto, probabilmente era stato già attenzionato tanto che basta un post sui social di quartiere per farli arrivare all'indirizzo giusto. «Non ho fatto nessuna denuncia in polizia» ribadisce Paola Camacci. La donna, spaventata da Hasib, scrive in rete di «fare attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze». Dalla foto di Hasib alla comparsa degli agenti in casa è un attimo. Sull'esposto i genitori insistono: «Hasib non avrebbe potuto aprire perché non sente. E anche se la sorella gli avesse fatto capire che suonava qualcuno alla porta, gli abbiamo sempre raccomandato di non aprire a nessuno».

Disabile vola giù dalla finestra durante una perquisizione: «Pestato dagli agenti». Il tragico episodio è stato denunciato alla Camera da Riccardo Magi: gli agenti avrebbero fatto irruzione in borghese, senza un mandato. Il 37enne di origini rom ora è in coma, i pm indagano per tentato omicidio. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 settembre 2022.

Un uomo sordomuto in coma, un volo dal balcone, dei poliziotti sulla scena, e tanti punti da chiarire. È questa la sintesi della drammatica vicenda del giovane di etnia rom Hasib Omerovic, disabile di 37 anni, precipitato il 25 luglio dalla finestra di un appartamento di uno stabile di edilizia popolare a Primavalle nel corso di un presunto controllo delle forze dell’ordine. La storia è stata resa nota oggi durante una conferenza stampa convocata dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, alla Camera dei deputati. Con lui erano presenti Fatima Sejdovic, la madre della vittima, Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, e gli avvocati della famiglia Susanna Zorzi e Arturo Salerni.

«Questa è una vicenda tragica – ha esordito il parlamentare radicale -, resa ancora più sconvolgente dalla mancanza di chiarezza e verità in cui è avvolta. La famiglia ha deciso di renderla nota affinché l’attenzione pubblica aiuti a sapere la verità». Magi ha presentato una interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, non potendosi utilizzare lo strumento dell’interpellanza urgente essendo sciolte le Camere. Nell’atto di sindacato ispettivo è riassunto l’esposto presentato dalla famiglia alla Procura della Repubblica di Roma, grazie alla testimonianza della sorella di Hasib, presente quel giorno in casa: «Il 25 luglio mattina H., sordomuto, si trovava nella sua abitazione a Roma con sua sorella S., disabile, mentre i genitori e la sorella E. erano fuori casa, quando presso l’abitazione si recano quattro agenti della Polizia in borghese; il giorno precedente, la sorella E. era stata avvicinata dal proprietario di un bar della zona che le aveva riferito che stava girando su Facebook un post “perché H. ha importunato alcune ragazze del quartiere e lo vogliono mandare all’ospedale”, chiedendo di vedersi anche con H. il giorno dopo per parlarne; il post sarebbe stato rimosso, ma i familiari sono in possesso di uno screenshot allegato agli atti; il testo, accompagnato dalla foto del ragazzo, recitava: “FATE ATTENZIONE a questa specie di essere, perché importuna tutte le ragazze bisogna prendere provvedimenti”».

Il giorno della tragedia alle 13.12, prosegue l’interrogazione, «la sorella E. riceveva una telefonata della vicina che li invitava a tornare immediatamente a casa e che passava il cellulare a un agente, il quale li avvisava che H. era ferito e si trovava all’ospedale; rientrati a casa, alcuni agenti in borghese li rassicuravano circa le condizioni del figlio, che “aveva solo un braccio rotto”; in realtà H. era ricoverato al Gemelli in rianimazione con prognosi riservata; tuttora è polifratturato, ha subito un intervento chirurgico al volto e si trova in uno stato di coma vigile, tanto che non è gli è possibile comunicare». Sempre secondo quanto riportato nell’esposto, «nei giorni successivi un agente del commissariato di Primavalle avrebbe riferito informalmente ai familiari che H. avrebbe “infastidito molestandole alcune ragazze del quartiere”, per cui gli agenti si sarebbero recati nella sua abitazione per chiedere l’esibizione dei documenti; secondo il racconto dell’agente, H. sarebbe rimasto tranquillo, tanto che gli stessi gli avevano scattato delle foto, ma mentre stavano andando via, avrebbero sentito alzare la tapparella della finestra della camera da dove H. si sarebbe buttato».

La sorella S., unica testimone oculare della vicenda, pur essendo affetta da disabilità, ha raccontato «in modo chiaro sia ai genitori che all’amministratore di sostegno: “ho sentito suonare e ho aperto la porta… una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa.La donna ha chiuso la serranda della finestra del salone… hanno chiesto i documenti di H. Hanno fatto le foto… lo hanno picchiato con il bastone, H. è caduto e hanno iniziato a dargli i calci… è scappato in camera e si è chiuso… loro hanno rotto la porta… loro gli hanno dato pugni e calci… lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù”». Nell’esposto i familiari riferiscono, allegando le foto, che «la serratura della porta di ingresso della camera di H. è completamente divelta, la tubatura esterna del termosifone sradicata dal muro, il rinvenimento del bastone di una scopa spezzato e di sangue sul lenzuolo».

Durante la conferenza stampa a domanda di un giornalista, l’avvocato Salerni ha escluso, in base alle testimonianze raccolte, che il volo dalla finestra sia stato preceduto da una spedizione punitiva del quartiere contro Hasib. E allora, se c’erano solo i poliziotti, perché sono entrati a casa di Hasib? Avevano un mandato? Hasib è stato prima picchiato e poi lanciato dalla finestra dagli agenti? Forse hanno pensato che essendo l’appartamento a piano terra, anche la finestra non avesse un vuoto di 9 metri sotto? C’è un verbale della perquisizione? Sono stati effettuati dei rilievi da parte della polizia giudiziaria? Queste sono alcune delle domande a cui dovrà rispondere il pubblico ministero Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Si indaga per tentato omicidio in concorso.

Per tutto questo l’onorevole Magi chiede alla ministra «se sia a conoscenza della vicenda riportata in premessa e se, al di là dei profili di competenza dell’autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di Stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso».Stasolla ha annunciato di aver lanciato con l’Associazione 21 luglio due appelli: «Uno al Comune di Roma per una nuova abitazione per la famiglia di Hasib. Era stata loro regolarmente assegnata ma se ne sono dovuti andare per il clima che c’è intorno. E un altro al Capo della Polizia Lamberto Giannini affinché si adoperi a far luce sulla vicenda». La madre di Hasib ha concluso: «Voglio sapere la verità e voglio giustizia per mio figlio. Ha 37 anni e non ha precedenti. So che non ha fatto male a nessuno».

Caso Hasib Omerovic, la procura: “Agenti in casa senza mandato”. Nuovi dettagli sul tragico episodio a Primavalle denunciato alla Camera. Gli agenti coinvolti saranno sentiti nell'ambito dell'indagine per tentato omicidio. Cucchi: «Attendiamo risposte». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Nessun mandato di perquisizione da parte della Procura di Roma. È quanto emerge, secondo l’Ansa, dai primi accertamenti svolti nell’ambito dell’indagine sul caso di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato.

Sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda sul social network era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto si apprende, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa, viene sottolineato all’Ansa, per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo. Ora chi indaga sull’accaduto dovrà chiarire se sia trattata di una perquisizione di iniziativa coordinata da un funzionario o di una decisione presa dagli agenti che verranno sentiti nei prossimi giorni dagli inquirenti. Questo significa che sono stati quindi identificati: un primo passo avanti rispetto all’opacità che avvolge tale caso, balzato alla cronaca nazionale grazie all’iniziativa del parlamentare radicale Riccardo Magi, Presidente di +Europa, e al presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.

Gli uomini della Squadra mobile della capitale, a cui la Procura di Roma ha delegato le indagini, hanno ascoltato intanto i vicini di casa della famiglia Omerovic. L’intenzione è quella di muoversi velocemente sia per rispondere alla domanda di verità della famiglia del 37enne, che resta in ospedale in coma vigile senza possibilità di fornire la sua versione, ma anche a tutela dei poliziotti, per i quali vale come per tutti la presunzione di innocenza, ça va sans dire. Per ora i magistrati Stefano Luciani, che ricordiamo essere stato il pm  del processo sul cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, e Michele Prestipino procedono per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Bisogna capire se Hasib è stato lanciato dagli agenti o se si è buttato per sfuggire ad un pestaggio. La famiglia Omerovic esclude categoricamente un tentativo di suicidio. Tutto dipenderà da quanto saranno ritenute credibili le dichiarazioni della sorella di Hasib che era in casa con lui al momento dei fatti: anch’ella disabile (psicofisica), è l’unica testimone oculare dei tragici fatti di quel giorno. Poi saranno importanti anche le voci dei vicini. Nel quartiere popolare di Primavalle le persone, i testimoni, chi sa qualcosa hanno paura di parlare ma come ci ha detto l’avvocato Arturo Salerni, che assiste la famiglia Omerovic insieme alla collega Susanna Zorzi, «alcune collaborazioni ci sono state. Domani chiederemo anche noi di essere ascoltati dalla Procura. Ma ci preme soprattutto che il Ministro dell’Interno Lamorgese dia subito una risposta all’interrogazione fatta dall’onorevole Riccardo Magi».

Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Noi aggiungiamo: come mai si muore o si rischia di morire nelle mani dello Stato? Ricordiamo alcuni nomi, grazie proprio alle storie raccolte da A buon diritto: «Andrea Soldi, 45 anni, nell’agosto 2015 viene sottoposto contro la sua volontà a un violento Tso a seguito del quale perde la vita. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 dopo aver attraversato undici luoghi delle istituzioni e non essere stato tutelato in nessuno di questi. Federico Aldrovandi, 18 anni, muore all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara sotto i colpi infertigli da quattro agenti di polizia. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe Uva muore a Varese dopo una notte passata nella caserma dei carabinieri».

E' sordomuto dalla nascita, la madre: "Famiglia devastata, costretti ad andare via". La storia di Hasib, la gogna sui social e il volo dalla finestra dopo il pestaggio della “polizia”: è in coma, “lo hanno buttato giù”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Chiedono giustizia per Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto dalla nascita in coma vigile da 50 giorni all’ospedale Gemelli di Roma dopo essere precipitato dalla finestra di casa, da una altezza di circa otto metri in seguito a un violento pestaggio avvenuto il 25 luglio scorso ad opera di quattro persone qualificatesi come agenti di polizia, ma su quest’ultimo aspetto va fatta chiarezza. La vicenda di Hasib è stata denunciata oggi, lunedì 12 settembre, in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati organizzata dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e da Carlo Stasolla, portavoce dell’associazione 21 luglio, e alla quale hanno partecipato la madre di Hasib, Fatima Sejdovic e gli avvocati della famiglia, Arturo Salerni e Susanna Zorzi.

La famiglia del 36enne, di origine rom, composta dai genitori e da quattro figli, di cui due minori e due disabili adulti, da circa tre anni è fuoriuscita dall’insediamento di provenienza per fare ingresso in un’abitazione dell’edilizia residenziale pubblica in zona Primavalle, a Roma. E’ qui che il 25 luglio scorso è avvenuta la brutale aggressione in casa, prima del volo dalla finestra di Hasib, ricoverato coma in ospedale.

Il 5 agosto scorso la madre e il padre di Hasib hanno depositato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma (che ha aperto un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio in concorso) nel quale vengono riportati i fatti che sarebbero accaduti nei giorni precedenti. Tutto sarebbe nato da un post pubblicato su Facebook in un gruppo di quartiere (e successivamente cancellato) nel quale viene messo in cattiva luce il 36enne. “Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti” c’è scritto nel commento alla foto dello stesso Hasib.

Dopo la pubblicazione del post (poi rimossa) viene contattata la sorella di Hasib, anche lei disabile. A cercarla è il proprietario di un bar della zona che avverte la donna sulle voci che stanno girando nel quartiere sul fratello e sull’intenzione di alcune persone di volerlo “mandare in ospedale.

Il 25 luglio, pochi giorni dopo quel post, Hasib e la sorella, da soli in casa, ricevono la visita di quattro persone che, senza mandato, si qualificano come agenti della polizia. Entrano in casa e dopo aver controllato i documenti del 36enne, inizia – stando alla testimonianza della sorella – la brutale aggressione. Hasib viene picchiato con un bastone e poi preso a calci e pugni. Prova a rifugiarsi nella sua camera ma le quattro persone – una donna e tre uomini – sfondano la porta e continuano a picchiarlo. L’esposto riporta inoltre che, quando i presunti agenti escono dall’abitazione, il corpo di Hasib giace insanguinato sull’asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da un’altezza di circa 8 metri, andando a impattare sul manto del cemento sottostante. Secondo la testimonianza della sorella, Hasib sarebbe stato presi “per i piedi e buttato giù” dagli agenti.

All’interno dell’abitazione sarebbero stati successivamente rinvenuti il manico di una scopa spaccato in due e numerose macchie di sangue su vestiti e lenzuola. La porta della camera di Hasib sarebbe risultata sfondata. Portato in ospedale a causa dei numerosi traumi, il 36enne è da 50 giorni in gravissime condizioni. Dopo i primi giorni in cui era in pericolo di vita, adesso è in coma vigile.

“Voglio conoscere la verità di quanto accaduto in quei drammatici minuti dentro la mia abitazione», ha dichiarato Fatima Sejdovic, madre di Hasib che quel giorno era fuori casa con il marito e i due figli piccoli per sbrigare alcune commissioni. “Mio figlio ora è in coma, la vita della mia famiglia irrimediabilmente devastata. Ci siamo dovuti allontanare dalla nostra casa – racconta la donna – perché abbiamo paura e attendiamo dal Comune di Roma una nuova collocazione. Come madre non cesserò di fare di tutto per conoscere la verità su quanto accaduto a mio figlio e agire di conseguenza”.

Il deputato Riccardo Magi ha presentato un’interrogazione al Ministero dell’Interno guidato da Luciana Lamorgese: “Di fronte a questa tragedia e alla dinamica ancora non chiarita che la rende ancora più sconvolgente la famiglia di Hasib chiede e merita risposte chiare e in tempi brevi. La madre ha deciso di mostrare l’immagine scioccante del proprio figlio che giace sull’asfalto dopo essere precipitato, nella speranza che l’attenzione pubblica possa aiutarla ad ottenere verità. Le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità”.

“Non è chiaro il motivo per cui la polizia sia entrata nell’abitazione e abbia richiesto” ad Hasib “i documenti né perché gli siano state fatte delle fotografie. I familiari non sono a conoscenza di eventuali verbali a suo carico né di alcuna attività di indagine specifica svolta dalla PG (rilievi, fotografie), né al loro arrivo sul posto né successivamente” aggiunge Magi che chiede alla ministra Lamorgese se sia “a conoscenza della vicenda e se, al di là dei profili di competenza dell’ autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso”-

Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, organizzazione che segue e supporta la famiglia anche sotto il profilo legale ha dichiarato: “Su questa vicenda, dai profili ancora poco chiari, importante sarà che il lavoro della Magistratura faccia il suo corso senza interferenze e pressioni e che le istituzioni democratiche garantiscano alla madre di Hasib il raggiungimento della verità alla quale ha diritto. Su questo, come Associazione 21 luglio, presteremo la massima attenzione”.

La stessa associazione 21 luglio sul proprio sito ha lanciato un appello con raccolta firme indirizzate al Capo della Polizia Lamberto Giannini, per chiedere, per quanto è nelle sue competenze, di aiutare per fare luce su quanto accaduto la mattina del 25 luglio nell’appartamento di Primavalle dove viveva Hasib. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso del 36enne sordomuto. Hasib, il blitz in casa senza mandato e il volo dalla finestra. La vicina: “I poliziotti erano già lì”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Non c’era nessun mandato di perquisizione nei confronti di Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto, di etnia rom, aggredito in casa da alcuni poliziotti e poi precipitato dalla finestra per circa otto metri. E’ quanto emerge dai primi accertamenti della procura di Roma svolti nell’ambito dell’indagine sul tentato omicidio dell’uomo che si trova da 50 giorni in coma all’ospedale Gemelli di Roma. Adesso occorrerà chiarire se si sia trattato di una perquisizione di iniziativa, coordinata da un funzionario, o di una decisione autonoma presa dagli agenti entrati in azione nell’abitazione di via Gerolamo Aleandro in zona Primavalle. Erano almeno quattro i poliziotti che lo scorso 25 luglio hanno visita ad Hasib e presto verranno sentiti dagli inquirenti.

Ad oggi, dopo l’esposto in procura presentato a inizio agosto dai legali della famiglia, gli avvocati della famiglia di origine bosniaca, Arturo Salerni e Susanna Zorzi, sono due i testimoni oculari del blitz a sorpresa degli agenti. Oltre alla sorella Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e che ha materialmente aperto la porta di casa ai poliziotti nella tarda mattinata del 25 luglio scorso, c’è anche la vicina di casa, la prima a telefonare alla sorella maggiore di Hasib, quel giorno fuori casa con i genitori. Al telefono spiega che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso.

La stessa vicina, che chiede l’anonimato, ha raccontato a Corriere e Repubblica: “Stavo innaffiando le piante sul balcone, a un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso“. La donna lavora come mediatrice culturale e vive insieme al figlio: “Ho ancora i brividi, ho raccontato tutto alla polizia – spiega dall’uscio del suo appartamento – dopo la caduta ho visto Hasib in terra e i poliziotti che cercavano di aiutarlo. Prima non ho sentito urla, richieste di aiuto o rumori provenire dall’abitazione degli Omerovic”. Poi ha aggiunto: “La mamma di Hasib mi aveva raccontato che lui e la sorella anche lei disabile sono seguiti da un assistente sociale, ma io qua non l’ho mai visto. Persone così dovrebbero essere aiutate veramente, non abbandonate in una casa popolare a Primavalle”.

Intanto la famiglia Omerovic, così come anticipato ieri da Fatima Sejdovic, madre di Hasib, ha chiesto di essere spostata dalla zona di Primavalle, periferia nord-ovest di Roma, perché “ha paura”. “Alla luce di quanto emerso per ragioni di sicurezza – afferma il penalista Salerni – la famiglia ha chiesto di essere allontanata da quella zona”.

"Ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?" Hasib Omerovic, i quattro punti oscuri e le rassicurazioni dei poliziotti dopo la caduta dalla finestra. Angela Stella su Il Riformista il 14 Settembre 2022 

Comincia a squarciarsi il velo di opacità che avvolge la vicenda di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento di Primavalle a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato. Proprio ieri, ossia il giorno dopo la conferenza stampa convocata alla Camera dei Deputati dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, per sollevare pubblicamente il caso, sono emersi i primi dettagli sulla dinamica dei fatti. A quanto appreso dall’Ansa non ci sarebbe stato alcun mandato di perquisizione in mano agli agenti che quel giorno hanno bussato alla porta dell’appartamento della famiglia Omerovic.

Inoltre sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di 37 anni di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda su Facebook era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto appreso sempre dall’Ansa, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo.

E però come è volato dalla finestra il povero Hasib che resta ancora in coma vigile, senza dunque poter fornire la sua versione dei fatti? È caduto nel vuoto per sfuggire ad un pestaggio o lo hanno preso per i piedi gli agenti e lo hanno buttato giù, come riferito da sua sorella? Domande a cui dovranno rispondere per adesso i pm assegnati al caso, Stefano Luciani e Michele Prestipino. Gli inquirenti hanno già sentito dei vicini di casa e si apprestano a raccogliere le dichiarazioni dei quattro agenti che erano in quella casa quella mattina. Sono stati dunque identificati ma si continua per il momento a procedere per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Non si esclude a breve una loro iscrizione nel registro degli indagati, anche solo come atto dovuto. Sarebbe stata acquisita dagli investigatori anche la relazione di servizio sull’attività di quel giorno. Restano tuttavia diversi punti oscuri su questa terribile storia.

Il primo che non torna è il seguente: secondo la famiglia Omerovic un agente di nome Andrea del Commissariato Primavalle avrebbe detto loro informalmente che Hasib avrebbe loro aperto la porta dell’appartamento. Ma come avrebbe fatto a sentire il campanello se è sordo? Proprio a causa della sua condizione, la famiglia gli ha insegnato a non aprire a nessuno per qualsiasi ragione neppure se un parente gli avesse fatto capire che c’era qualcuno alla porta di ingresso, soprattutto in assenza dei genitori e della sorella Erika, proprio come accaduto quel 25 luglio.

Secondo: perché fare delle foto (fatte vedere alla famiglia dallo stesso agente Andrea) ad Hasib mentre consegnava i documenti agli agenti?

Terzo: perché improvvisamente il ragazzo si sarebbe dovuto lanciare in un vuoto di circa 9 metri? Quarto: perché una volta che la famiglia è arrivata sul posto, gli agenti avrebbero tentato di rassicurarli riferendogli che il figlio «aveva solo un braccio rotto»? Comunque «sembra che si stiano attivando rapidamente delle verifiche sia da parte della polizia che da parte della magistratura» commenta al Riformista l’onorevole Riccardo Magi che aggiunge: «quello che fa accapponare la pelle è pensare che se non ci fosse stata la conferenza stampa alla Camera non ci sarebbe stata tale rapidità nell’accertamento dei fatti. L’attenzione pubblica in casi come questi serve sempre, quindi». In conclusione Magi chiede alla Lamorgese di rispondere quanto prima al suo atto di sindacato ispettivo: «vorrei fare un sollecito al Ministro dell’Interno affinché quanto prima dia seguito alla mia interrogazione e un appello trasversale a tutti i partiti perché sottoscrivano quella interrogazione per chiedere una verità non solo in sede giudiziaria ma anche dal punto di vista del Governo attraverso una indagine interna.

Con la famiglia di Hasib, le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità». Intanto sono già migliaia le firme raccolte dall’Associazione 21 luglio per chiedere «Verità per Hasib» come ci racconta il portavoce Carlo Stasolla: «parrebbe che quanto detto nell’esposto stia trovando una conferma. Chiaramente attendiamo ulteriori riscontri. Ad oggi sembra esserci la certezza che la polizia fosse sul posto e che non ci fosse un mandato. Sembra quindi che l’operazione trasparenza annunciata dal capo della Polizia Lamberto Giannini stia dando i suoi frutti. A tal proposito il nostro appello ha raccolto già migliaia di firme e siamo cautamente soddisfatti che questa coltre di opacità si stia piano piano diradando». Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Angela Stella 

(ANSA il 29 settembre 2022) Hasib Omerovic, il ragazzo caduto dalla finestra del suo appartamento mentre erano in corso controlli di polizia, è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni. Lo ha annunciato il portavoce dell'Associazione 21 Luglio durante una conferenza stampa in corso alla Camera. "È fortemente sedato e mostra deboli e intermittenti segni di interazione - ha detto -. Secondo i medici non è possibile stabilire quanto e quali interventi dovrà subire. I tempi saranno estremamente lunghi".

 L'immobile dal quale è caduto Hasib Omerovic è stato sequestrato dalla procura. Lo ha annunciato l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa in cui vengono illustrate alcune novità sul caso del ragazzo tuttora in coma dopo la caduta dalla finestra mentre c'era un controllo di polizia in casa.

 "I vestiti che l'ospedale ha consegnato alla famiglia di Hasib Omerovic sono diversi da quelli che il ragazzo indossava al momento dalla caduta dalla finestra del suo appartamento". La annuncia l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa alla Camera. I legali hanno mostrato le foto degli indumenti restituiti dal Gemelli alla famiglia, evidenziando la differenza con quelli indossati da Omerovic nella foto in cui è sanguinante a terra. "L'ospedale - ha detto il legale - ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite".

Hasib, è stato tentato omicidio: il mistero dei vestiti spariti della foto. Angela Stella su Il Riformista il 30 Settembre 2022 

“Il fatto che dopo 25 giorni Lamorgese non abbia risposto alla interrogazione che ho presentato è una grave mancanza di rispetto istituzionale nei confronti del Parlamento e dei cittadini. Ne presenterò un’altra al nuovo Ministro dell’Interno”: così l’onorevole di +Europa Riccardo Magi, appena rieletto alla Camera, ha aperto ieri una nuova conferenza stampa convocata a Montecitorio per aggiornare sulle ultime novità del caso di Hasib, il 37enne di origini rom precipitato in circostanze ancora da chiarire il 25 luglio scorso dalla sua abitazione a Roma nel corso di una perquisizione delle forze dell’ordine.

“L’oggetto dell’atto di sindacato ispettivo – ha proseguito il parlamentare – riguarda aspetti amministrativi della vicenda: sono state fatte indagini interne? Sono scattati procedimenti disciplinari? Sappiamo che al commissariato di Primavalle c’è stato un avvicendamento: perché l’opinione pubblica deve saperlo da fonti ufficiose e non dagli organi preposti? Faccio un ulteriore appello alla Lamorgese affinché risponda all’interrogazione. Non si tratterebbe affatto di una interferenza col delicato lavoro che sta svolgendo la magistratura ”. L’incontro con la stampa, il secondo dopo quello del 12 settembre, è servito anche a far emergere altri punti oscuri della vicenda: che fine hanno fatto i vestiti di Hasib?

L’ospedale Gemelli due giorni dopo l’accaduto ha restituito in una busta bianca degli indumenti e scarpe diversi da quelli indossati dall’uomo il giorno della caduta, ha spiegato l’avvocato della famiglia Arturo Salerni. Hasib indossava un pantalone nero arrotolato alle ginocchia, mentre alla madre è tornato indietro un pantalone corto marrone. I vestiti restituiti non sono comunque di Hasib: c’è stato uno scambio involontario da parte del personale sanitario? Certo – è strano – hanno fatto notare i convocatori: pure se fossero di un’altra persona, anch’ella indossava solo pantaloni e scarpe? Il secondo punto da dirimere riguarda la ormai tragicamente famosa foto di Hasib dopo la ‘caduta’: chi l’ha scattata mentre il ragazzo era in terra, e che giro ha fatto quella immagine prima di arrivare alla famiglia? L’avvocato ha spiegato che è arrivata alla famiglia da una vicina che però non l’ha scattata. Bisognerà ricostruire la catena di condivisione.

“Il fascicolo non è più contro ignoti. Ci sono degli indagati per tentato omicidio, non so quanti”, ha raccontato Salerni che ha aggiunto: “sono stati sentiti nei giorni scorsi il padre, la madre, la sorella. Hanno parlato per diverse ore e approfondito diversi aspetti. Da parte nostra c’è apprezzamento per come sta lavorando la Procura”. Gli avvocati hanno costruito una mappa della casa e dei danni registrati in casa: i segni dei calci sulla porta della stanza di Hasib, il termosifone divelto, il manico di scopa rotto, le lenzuola sporche di sangue. L’immobile poi è stato sequestrato dalla procura. Sempre a quest’ultima sono stati fatti presenti i punti oscuri sollevati in conferenza stampa. Agli investigatori è stato consegnato anche un video girato il 26 luglio dai familiari al commissariato di Primavalle, dove si vedono degli agenti che informalmente avevano detto alla famiglia di essere intervenuti e che Hasib si sarebbe lanciato da solo.

Intanto Hasib non sta ancora bene: è uscito dal coma ma si trova ancora in uno stato di minima coscienza, rimane sedato per contrastare i dolori e il forte stato di agitazione. È ancora tracheotomizzato per la respirazione e i medici non si sbilanciano sul futuro: non si sa se dovrà subire ulteriori interventi né di che tipo sarà il recupero. Insomma appare improbabile o almeno lontana la sua testimonianza sui fatti. Infine il portavoce dell’Associazione 21 Luglio, Carlo Stasolla, ha denunciato la “freddezza” del Comune di Roma nei confronti della vicenda: “l’amministrazione capitolina non ha manifestato nessuna vicinanza alla famiglia né privatamente né pubblicamente. Persino per avere un nuovo alloggio per la famiglia di Hasib abbiamo dovuto fare un presidio a piazza del Campidoglio per fare pressing”. “Abbiamo paura ma vogliamo verità e giustizia per Hasib”, ha ripetuto la madre di Hasib, Fatima. Angela Stella

L'agente: "Tranquilli si è solo rotto un braccio" ma è in fin di vita. Hasib come Pinelli? La polizia ha gettato dalla finestra un ragazzo rom sordomuto? Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

È un nuovo caso Pinelli? Un nuovo caso Cucchi? – per citare i precedenti più celebri. Forse sì. La storia che hanno raccontato ieri in una conferenza stampa a Montecitorio i genitori di Hasib Omerovic è una storia da brividi e nella quale le responsabilità della polizia sembrano comunque evidenti e gravissime. C’è stata una incursione in casa di un libero cittadino, ci sono state quasi certamente molte botte e poi – forse – c’è stata addirittura la sua defenestrazione. Pazzesco.

La vittima si chiama Hasib Omerovic, ha 36 anni, nessun precedente, è sordomuto dalla nascita. La sua è una famiglia rom, e non si può certo escludere che il secolare e radicatissimo pregiudizio verso i rom possa aver avuto un ruolo in questa vicenda orrenda. Hasib ora è in coma in un lettino dell’Ospedale Gemelli, a Monte Mario. Braccia rotte, ferite ovunque, grave trauma cranico, fratture varie, ed è in questo stato da 50 giorni.

La mamma di Hasib, Fatima Sejdovic, ieri ha raccontato la storia di suo figlio insieme a Riccardo Magi, deputato radicale, a due avvocati (Susanna Zorzi e Arturo Salerni) e a Carlo Stasolla (esponente di una associazione che si occupa soprattutto della difesa del popolo rom). Il racconto, a occhio, è assolutamente incredibile. Però gli avvocati e Stasolla hanno verificato molti particolari, e tutti i particolari convergono e accreditano il racconto della madre di Hasib. Non risulta nessuna contraddizione e ci sono molti riscontri. E su questa base gli avvocati il 10 agosto hanno presentato un esposto in procura e la procura ha aperto un fascicolo per tentato omicidio in concorso.

Di questa inchiesta però non si è saputo nulla. In genere la procura di Roma non è impenetrabile per i giornalisti. Se c’è un traffico di influenze, dopo un paio d’ore lo sai. Se buttano un rom dalla finestra è diverso. Scatta il riserbo. Non risulta che sia stata aperta nessuna indagine interna dalla Questura di Roma né dai vertici della polizia. Magi ha presentato una interrogazione alla ministra.

Ecco che cosa è successo. Il giorno è il 25 luglio. I genitori di Hasib sono usciti di casa insieme alla sorella maggiore intorno alle 10 e mezzo del mattino. Hasib è stato lasciato a fare compagnia alla sorella più piccola, Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e i genitori preferiscono non lasciarla sola a casa. Hasib non sente e non parla dalla nascita, ma è un ragazzo intelligente, è capace di badare alla sorella. Hasib non sa che da qualche tempo, nel quartiere di Primavalle, dove abita – nella periferia nord ovest di Roma, vicino a Monte Mario – girano delle brutte voci su di lui. 

In una pagina Facebook sulla quale scrivono i cittadini di Primavalle è apparso un post molto allarmante: “Hashib ha importunato alcune ragazze e vogliono mandarlo all’ospedale”. E poi un post ancora più terribile: “Fate attenzione a questa specie di essere, perché importuna le ragazze, bisogna prendere provvedimenti”. E vicino ai post una foto di Hasib accanto a un cassonetto.

Questo è l’antefatto. Il 25 luglio cinque o sei poliziotti, probabilmente verso mezzogiorno e mezzo, si presentano a casa di Hasib, suonano il campanello, lui non apre perché, ovviamente, non sente. Suonano ancora e alla fine la sorella si decide ad aprire la porta. Più tardi racconterà ai genitori che cosa è successo e che cosa ha visto. I poliziotti entrano in casa, senza mandato, spediti a compiere questa azione non si sa da chi, chiedono i documenti ad Hasib ma non dicono perché.

Hanno qualche problema a farsi capire, naturalmente, e forse si innervosiscono. Comunque Hasib gli dà i documenti che infatti i genitori, quando rincasano, troveranno sul tavolo disposti in bell’ordine. A questo punto non si sa cosa succede ma Sonita racconta che i poliziotti, che erano vestiti in borghese, chiudono la serranda del salotto, scattano alcune foto, fotografano Hasib seduto sul divano, e poi iniziano a picchiare. Hasib cade a terra, loro lo colpiscono a calci, lui, che è un ragazzo grosso e forte, si rialza, fugge in camera da letto e chiude a chiave la porta.

“Loro lo inseguono, buttano giù la porta gli danno ancora pugni e calci e poi lo gettano dalla finestra”. Il racconto della sorella appare credibile, perché in casa ci sono macchie di sangue, perché la scopa con la quale Sonita dice che hanno picchiato il fratello è spezzata in due, perché il termosifone è sradicato, e Sonita dice che il fratello si era attaccato al termosifone, forse per impedire di essere gettato giù. Hasib si è rotto in molti punti le braccia. Vuol dire che ragionevolmente è caduto a testa in giù. È improbabile che sia saltato dalla finestra a testa in giù.

A questo punto è l’una e dieci. Una vicina di casa telefona alla sorella grande di Hasib, che è in giro in città coi genitori, e l’avverte che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso. I genitori tornano a casa. I poliziotti non ci sono più. I genitori ricostruiscono sulla base del racconto di Sonita, che è li, basita, attonita, scioccata. Vanno all’ospedale e scoprono che Hasib è in fin di vita.

Poi nei giorni successivi vanno al commissariato Primavalle, nessuno li riceve, ma alcuni poliziotti ammettono qualcosa. Sì – dicono -, siamo andati lì, c’è stata una colluttazione poi lui si è gettato dalla finestra del terzo piano. Nove metri di volo. Si è gettato non si sa perché, un po’ come mezzo secolo fa Pino Pinelli si gettò dalla finestra della questura di Milano.

Passano dieci giorni. Poi la famiglia di Hasib si rivolge a una avvocata amica, e lei presenta l’esposto. L’esposto arriva sul tavolo del Pm Stefano Luciani, noto per la sua scrupolosità. Luciani apre un fascicolo. Proprio ieri, dopo la conferenza stampa, si è saputo che Luciani è stato inviato a nuovo incarico, all’antimafia. Però sembra che lui abbia chiesto di poter continuare a seguire il caso Hasib. Speriamo.

Ora tralasciamo per un attimo la gravità di questa vicenda e il dolore di Hasib e della sua famiglia. Solo una domanda marginale. Come è possibile che su una vicenda del genere non si sia saputo niente? Come è possibile che a 50 giorni dall’episodio la polizia non abbia almeno fornito una sua versione dei fatti? Come è possibile che i giornali non siano stati informati? In questo paese può succedere che la polizia fa irruzione in casa di un sordomuto, lo picchia, forse addirittura – volontariamente o più probabilmente per errore – lo getta dalla finestra, o comunque non impedisce che questo ragazzo si getti dalla finestra in presenza di almeno quattro poliziotti in una stanzetta, come è possibile che nessuno sappia niente. La ministra sapeva? Era stata informata? Ora sa, se legge i giornali: intende riferire alla stampa nelle prossime ore? Provare a spiegare? Sarebbe il minimo del minimo del minimo del suo dovere.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

I quattro agenti autori dell'iniziativa, una sorta di perquisizione non autorizzata. Più altri quattro, superiori dal punto di vista gerarchico. 

Sale a otto il numero dei poliziotti nel mirino dei magistrati per le ferite inferte a Hasib Omerovic, il 36enne rom con disabilità del quartiere romano di Primavalle, caduto dalla finestra della sua abitazione il 25 luglio scorso.

I quattro agenti (tre uomini e una donna) che hanno effettuato la perquisizione saranno sentiti a breve come indagati, poi saranno convocati gli altri. Le ipotesi di reato, formulate dai magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani sono concorso in tentato omicidio e falso. 

E se per i quattro protagonisti del sopralluogo in casa scatterebbe l'accusa di tentato omicidio - il bastone e le lenzuola sequestrati testimoniano un'azione violenta nei confronti di Hasib -, per gli altri quattro si aggiungerebbe un falso ideologico. Ad una prima verifica da parte della magistratura avrebbero mentito nella loro relazione sui fatti, coprendo, per così dire, l'iniziativa dei colleghi. 

Alla luce di questi pochi elementi il caso di Omerovic, come portato alla luce dal presidente di +Europa Riccardo Magi, si configurerebbe almeno altrettanto serio quanto il caso Cucchi. E, fatalità, con ingredienti assai simili (in quel caso vi fu un illecito, coperto con altri illeciti, i depistaggi). Quel che è certo è che gli agenti del commissariato di Primavalle dovranno fornire la propria versione nei prossimi giorni.

Ma gli accertamenti investigativi prendono in considerazione anche altri aspetti. A cominciare dai partecipanti al gruppo Facebook «Primavalle», dove una residente e iscritta, Paola Camacci, aveva postato la foto di Omerovic definendolo «una specie di essere perché importuna tutte le ragazze», aggiungendo «bisogna prendere provvedimenti». A chi si rivolgeva? 

Non al commissariato Primavalle, dove non ha mai sporto denuncia, dopo aver raccontato di aver difeso la figlia dalle presunte molestie da parte di Hasib, che a sua volta avrebbe scattato foto alla ragazza e avrebbe poi seguito le due donne fino a casa; mentre il barista Paolo Soldani, che aveva avvertito la famiglia Omerovic di quel post, due giorni dopo il ferimento del 36enne si è lasciato andare a un enigmatico «mi dispiace, abbiamo fatto tardi». Cosa avrebbe potuto fare? Quel messaggio è sparito il 27 agosto scorso, proprio quando sono scattate le indagini.

«Hasib ha tentato di suicidarsi»: la versione dei poliziotti sul disabile caduto dalla finestra. Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022

Primavalle, la versione dei quattro agenti di Polizia. Test del Dna sui vestiti della vittima e dei poliziotti

Il pomeriggio del 25 luglio scorso la misteriosa caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto, al primo piano rialzato del palazzo di via Gerolamo Aleandro, fu catalogata con un’ipotesi di tentativo di suicidio. E come tale sarebbe stata trattata nei giorni successivi. Una versione dei fatti che i quattro agenti intervenuti nell’abitazione del 36enne disabile potrebbero ora ribadire fra qualche giorno nell’interrogatorio in Procura o negli uffici della Squadra mobile.

Una ricostruzione che stride decisamente con l’ipotesi di reato dei pm, quella di concorso in tentato omicidio e falso (quest’ultimo contestato solo ai loro superiori, per ora), che si basa sull’esposto presentato dalla famiglia Omerovic il 10 agosto scorso: contiene il racconto drammatico di quei momenti fatto dalla sorella di Hasib, Sonita, 30 anni, affetta da un grave ritardo psichico, e come ha spiegato l’avvocata dei genitori, Susanna Zorzi, proprio «per questo incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede».

Di sicuro, come risulta dalla relazione dell’Ares 118, quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113 in contatto con le pattuglie giunte sul posto per soccorrere Omerovic, assistito, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, anche da personale in borghese vicino alla ringhiera del cortile dove era caduto.

Sulla dinamica il riserbo è massimo — per le indagini coordinate dalla Procura ma anche per l’intervento in prima persona del capo della polizia Lamberto Giannini —, però dalla versione del tentativo di suicidio con gli agenti già usciti dalla casa si può desumere che Omerovic si sarebbe lanciato al termine del controllo. Un altro punto poco chiaro, visto che per Sonita invece il fratello, picchiato dai poliziotti, si sarebbe barricato in camera e gli operatori avrebbero così rotto la serratura della porta: nell’esposto ci sono tre foto al riguardo. L’operazione per identificare il 36enne viene definita «di routine», in questo caso dopo il post di denuncia con foto di Hasib sul gruppo Facebook di quartiere «Primavalle» da parte di una residente, Paola Camacci, che interrogata a fine agosto avrebbe riferito di essere stata molestata con la figlia da Omerovic, che le avrebbe a sua volta fotografate e seguite fino a casa.

I pm ora vogliono scoprire: cosa ha spinto Hasib a lanciarsi da otto metri? Era impaurito? Oppure si è trattato davvero di un tentativo disperato di sfuggire a un’aggressione? E a chi si riferiva il barista Paolo Soldani, che aveva messo in guardia dopo il post la sorella minore di Hasib e dopo il ferimento, ha commentato con lei: «Abbiamo fatto tardi»?

Gli agenti saranno chiamati a rispondere proprio sulle modalità del controllo a due disabili lasciati da soli in casa, senza richiedere la presenza di familiari, personale medico o dei servizi sociali. L’esame del Dna sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti, come anche sul manico di scopa trovato spezzato, potrebbe chiarire di più della dinamica e delle responsabilità mentre non si esclude che nei prossimi giorni la Scientifica esegua prove tecniche con un manichino speciale per ricostruire la caduta di Omerovic. Il pm Stefano Luciani, titolare dell’inchiesta, ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla caduta del 36enne con una serie di quesiti, il primo dei quali chiede di fare chiarezza sulla dinamica e su eventuali spinte ricevute dall’uomo. Ferite e tumefazioni sul corpo possono documentare le circostanze relative alla caduta. Precipitato autonomamente? L’esperto incaricato dal magistrato dovrà sciogliere ogni quesito.

C’è poi l’argomento-fotografie. Le istantanee scattate in casa dai poliziotti ad Hasib, secondo il racconto di Sonita. A che titolo sono state fatte? Avrebbero dovuto, nelle intenzioni degli agenti del commissariato di Primavalle, documentare ferite pregresse? Non è chiaro, ma è certo che Luciani vuole sciogliere anche questo nodo. Per capire se si sia trattato di un altro abuso o meno da parte della pattuglia che non aveva nemmeno un mandato di perquisizione.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Paolo Soldani, 53 anni, «Er Barone», occhiali scuri e un gladio enorme tatuato sul braccio sinistro, viene omaggiato come un sindaco dagli avventori. Lui è il titolare del bar più grande di Primavalle (per questo si chiama «Er Barone»), dove l'estate scorsa - ricorda - per le suppletive alla Camera passava a fare campagna elettorale «anche l'ex magistrato Luca Palamara». Paolo «Er Barone» ha molte cose da dire sul caso di Hasib Omerovic. Erika, la sorella più piccola del rom precipitato dalla finestra il 25 luglio scorso durante un controllo della polizia, aveva preso un appuntamento proprio con lui per quella sera stessa, alle 21. 

È vero?

«Sì, dovevo andare a casa loro, in via Gerolamo Aleandro. Io conosco bene Erika, viene spesso al bar, è una ragazza brava, pulita, molto legata al fratello. Sarei dovuto andare giusto quella sera, proprio per parlare con Hasib e dirgli di farla finita una volta per tutte, di smetterla con i suoi atteggiamenti molesti verso le donne del quartiere. Lo so, Hasib è sordo ma Erika mi avrebbe aiutato col linguaggio dei segni». 

La tensione stava salendo.

«Perché gli episodi ormai si ripetevano: qualche sera prima, finito il karaoke qui da noi in piazza Capecelatro, tre ragazze erano rientrate impauritissime nel bar dicendo che Hasib le aveva importunate per strada. Lui aveva delle foto pornografiche sul cellulare e le mostrava alle donne che incontrava, qualche volta si toccava pure. Insomma era diventato un problema. E poi il giorno prima, il 24 luglio, c'era stato quel post...». 

Quello pubblicato sulla pagina Facebook del gruppo di Primavalle.

«Sì, il post di quella signora che chiedeva di prendere provvedimenti contro Hasib che aveva fotografato sua figlia col telefonino. Non si poteva più continuare così». 

Ma è vero che lei quel giorno avrebbe detto a Erika: «Mi dispiace se poi tuo fratello lo mandano in ospedale...». Era una minaccia? Qualcuno al bar progettava forse una spedizione?

«Ma andiamo! Io però conosco Primavalle. E allora prima che a un branco di quindicenni potesse venire l'idea di accoltellare Hasib per strada, rovinando così la vita a lui e a loro, il 24 luglio, la sera stessa del post, quando ho visto Erika al bar le ho detto: meglio se domani vengo a parlarci io. Così chiudiamo questa storia per sempre».

Eppure in via Aleandro i vicini difendono Hasib.

«Lasciamo stare. Perfino la sua famiglia si arrabbiava per i suoi comportamenti». 

Poi però il 25 mattina in quella casa ecco che ci va la polizia.

«Beh, quel post era girato, figuratevi se non l'avevano notato in commissariato». 

A proposito: è vero che lei quel giorno avrebbe detto sempre a Erika: «Purtroppo siamo arrivati tardi, hanno fatto il lavoro sporco».

«Ma chi? I poliziotti? Io non ho mai avuto un grande rapporto con le guardie , ma sono certo che gli agenti non l'hanno buttato di sotto, secondo me Hasib si è lanciato dalla finestra per sfuggirgli. Loro erano andati lì senza mandato, probabilmente per dirgli le stesse cose che avrei detto io. Un po' come facevano un tempo i poliziotti di quartiere. Ma lui si è buttato perché aveva la coscienza sporca. Come si dice: " Male non fare, paura non avere". Hasib è sordo, ma aveva capito benissimo perché i poliziotti erano lì».

Nel caso Hasib c’è un altro teste. È un funzionario dei vigili urbani. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA Il Domani il 15 settembre 2022

Nell’indagine su Hasib, precipitato dalla finestra della sua stanza il 25 luglio scorso durante la visita senza mandato e di iniziativa della polizia, ancora poche sono le certezze.

Dopo aver chiarito l’identità e il passato del barista che aveva messo in guardia la sorella di Hasib sulle voci infastidite del quartiere, Domani è in grado di raccontare in che modo gli agenti si sono messi sulle tracce del ragazzo disabile. Questione rilevante tanto da spingere chi indaga a sentire le persone coinvolte nello scambio di informazioni con gli agenti.

I poliziotti prima di recarsi nell’appartamento sono andati dai vigili urbani della zona, il comando è poco distante dalla casa di Hasib, un complesso di palazzine popolari a Primavalle, quartiere della periferia ovest di Roma. Sono andati dalla municipale a chiedere informazioni sul suo conto e anche per capire dove abitasse. Il funzionario è stato sentito da chi indaga. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Il disabile caduto per 9 metri fuori dal coma ma ancora in gravi condizioni. Caso Hasib Omerovic, la versione del poliziotto della perquisizione: “Si è buttato da solo dalla finestra, c’è un video”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  16 Settembre 2022 

Hasib Omerovic è sveglio, fuori dal coma, ma non riesce a parlare, comunica con gli occhi ed è alimentato con la flebo. Il disabile caduto dalla finestra di casa sua a Primavalle, Roma, durante una perquisizione di agenti della polizia, intervenuti senza mandato, è ricoverato al Policlinico Gemelli. È precipitato per nove metri. Quattro i poliziotti indagati al momento. L’accusa formulata dai pm è quella di concorso in tentato omicidio e falso, con quest’ultimo contestato solo ai superiori, mentre in un primo momento l’episodio venne catalogato con un’ipotesi di tentativo di suicidio.

E ci sarebbero foto e video che hanno ripreso l’intervento degli agenti e il cittadino bosniaco di etnia rom che si sarebbe buttato dalla finestra secondo quanto raccontato da uno degli indagati, che si chiama Andrea. “Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione. Siamo entrati in casa, c’erano un uomo e una donna. Ma non c’è stato tempo di fare nulla”, ha detto secondo quanto riporta un articolo de Il Messaggero. “Prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state identificate. Ma non è risultato nulla”.

L’agente ha ribadito le segnalazioni – nessuna denuncia e infatti a chi ha autorizzato il controllo, la vice-dirigente del commissariato Primavalle, sarebbe stato contestato l’ordine illegittimo – che accusavano Omerovic di aver molestato donne e ragazze della zona. Oltre al post su Facebook, di una donna che interrogata a fine agosto ha riferito di essere stata molestata con la figlia per strada, anche altre presunte segnalazioni. Gli agenti però non avevano un mandato di perquisizione della Procura, questo è certo. Omerovic, 36 anni e sordo dalla nascita, non risulta indagato per vicende penali. La sorella, la 30enne Sonita, affetta da grave ritardo psichico, aveva raccontato alla madre che gli agenti avrebbero chiesto i documenti all’uomo, lo avrebbero fotografato, picchiato con calci, pugni e un bastone, lo avrebbero seguito in camera e lo avrebbero spinto dalla finestra. “Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto”, sostiene la famiglia.

Tutto questo è successo lo scorso 25 luglio. La vicenda è emersa solo pochi giorni fa. A inizio agosto la famiglia del 36enne ha presentato esposto sul caso. Secondo gli avvocati dei genitori dell’uomo, la giovane sorella sarebbe “incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede” proprio per via del suo disagio psichico. L’agente che ha parlato ha però detto che Omerovic al momento della caduta non era stato ancora identificato. E a dimostrarlo sarebbe anche la testimonianza della signora Loredana, che abita nel palazzo di fronte a quello della tragedia e che ha assistito alla scena. “Mentre lui era a terra i poliziotti dal cortile chiedevano a una collega che era nell’appartamento di chiedere alla sorella come si chiamava”, ha detto la donna.

L’agente ha riferito che foto e video dell’intervento sono già confluiti in un dossier. I dubbi da chiarire sul caso, sul quale il riserbo resta massimo, restano però ancora tanti. Non si capisce per esempio come abbiano fatto Omerovic o la sorella ad aprire la porta, soli in casa, a sentire il campanello se entrambi sono sordi. Non si capisce perché sarebbero state abbassate le tapparelle della stanza in cui si trovavano. Ci sarebbero, nell’esposto presentato dalla famiglia, anche tre foto della serratura della porta della camera dove il 36enne si sarebbe barricato, rotta. Altre foto, secondo il racconto di Sonita, sarebbero state scattate dai poliziotti ad Hasib in casa.

Quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113. Sul posto secondo alcuni testimoni anche degli agenti in borghese. I quattro poliziotti saranno chiamati a rispondere sulle modalità del controllo. Sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti sarà condotto l’esame del Dna. Il pm Stefano Luciani ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla vicenda con una serie di quesiti sulla dinamica dell’episodio, su ferite e tumefazioni sul corpo dell’uomo. Le lenzuola macchiate di sangue e il bastone spezzato di una scopa sarebbero stati sequestrati solo dopo il 12 agosto. Il 36enne non è più in pericolo di vita, è stato indotto al coma, sottoposto a diversi interventi chirurgici, ma le sue condizioni restano gravi. “Tra un paio di mesi dovrà passare in cura a un centro di riabilitazione. Abbiamo fatto domanda oggi. In una casa con le finestre alte non ci vuole andare più. Ha il terrore, la stessa paura che abbiamo noi”, ha detto il padre Mehmedalija a Repubblica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(Tentata nda) Morte di Hasib, agenti indagati per tortura ma il Viminale non li sospende. Angela Stella su Il Riformista il 19 Novembre 2022

La Procura di Roma indaga anche per tortura sul caso di Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato lo scorso 25 luglio dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, mentre in casa si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia. È quanto emerso ieri dalla risposta fornita dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni all’interpellanza urgente presentata dall’onorevole e presidente di +Europa Riccardo Magi, dopo che non aveva ricevuto riscontro alle due precedenti interrogazioni a risposta scritta.

“Sulla base delle notizie acquisite dal Ministero della Giustizia” è stato avviato “un procedimento penale per i reati di false informazioni al pubblico ministero, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e tortura”, ha detto Molteni. Non ha citato il reato di tentato omicidio. Come mai? Comunque le cose stanno così: i pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani, sulla base della denuncia fatta dalla famiglia Omerovic, hanno inizialmente aperto un fascicolo per tentato omicidio; poi a seguito di successivi accertamenti effettuati nel prosieguo delle indagini, sono state formulate le ulteriori ipotesi di reato elencate nella risposta di Molteni tra cui quella grave di tortura. Dunque la posizione dei quattro poliziotti si aggrava ma, lo ribadiamo, la presunzione di innocenza vale anche per loro, a maggior ragione se le indagini non si sono ancora nemmeno concluse.

Ricordiamo che nell’atto di sindacato ispettivo Magi chiedeva al Ministero dell’Interno: se “sia stata disposta un’indagine interna e a quali risultati abbia condotto; se, in relazione alla gravità delle ipotesi di reato e agli atti illegittimi emersi dagli accertamenti, siano stati assunti dei provvedimenti cautelari nei confronti degli indagati e dei loro superiori”. A tal proposito Molteni ha detto: “Lo scorso settembre l’amministrazione ha adottato misure di carattere organizzativo e, in particolare, l’avvicendamento del dirigente del distretto, sostituito con un primo dirigente di PS, ritenuto particolarmente qualificato, e del funzionario addetto. Tali provvedimenti sono stati assunti rispettivamente con atto del capo della Polizia e del questore di Roma”.

Inoltre, in merito ai quattro agenti coinvolti uno è stato “assegnato ad un altro ufficio di pubblica sicurezza della capitale, mentre gli altri tre sono stati adibiti a servizi di vigilanza interna nell’ambito del quattordicesimo distretto”. Infine, poiché il procedimento è ancora coperto dal segreto investigativo, “non sono stati avviati procedimenti disciplinari nei confronti del personale interessato in attesa degli sviluppi del procedimento penale”. Magi nella sua replica ha sottolineato: “Da una parte ci sono le responsabilità penali, che sono individuali, e dall’altra c’è da tutelare quello che è un bene in qualche modo anche superiore, garantito dalla Costituzione, che è il bene della fiducia che i cittadini devono avere nei confronti delle istituzioni e – mi viene da dire – in modo particolare di quelle istituzioni che hanno il monopolio dell’uso della forza, quindi di tutti i corpi di polizia come in questo caso”. “I provvedimenti cautelari, quindi le eventuali sospensioni, vengono adottati, anche nell’attesa di una sentenza che riconosca una condanna in via definitiva e servono esattamente a tutelare l’amministrazione e l’istituzione”, ha concluso il deputato. Angela Stella

La Corte europea: l’Italia dia spiegazioni sul caso Magherini. Luigi Manconi su La Repubblica il 6 gennaio 2022.

Interrogazione al governo sulla morte del giovane fiorentino. "Chiarite l'uso della forza da parte dei carabinieri e le regole di polizia". La tecnica è questa: l'uomo sottoposto a fermo, che si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle sue spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile (37 minuti nel caso di Luca Ventre di cui più oltre dirò).

Mai più casi Floyd: l’altolà della Cedu alla polizia violenta. L’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato”? È quanto chiede la Corte di Strasburgo al governo italiano, dopo aver accolto il ricorso sul caso Magherini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'08 gennaio 2022.

Si torna a parlare del caso Magherini, il trentanovenne fiorentino, fermato da una pattuglia di carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Borgo San Frediano e in seguito deceduto. Dopo le decisioni della magistratura che ha assolto i carabinieri, la famiglia ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. E ora, grazie a un articolo dell’ex senatore Luigi Manconi sul quotidiano La Repubblica, apprendiamo che la Cedu chiede spiegazioni al governo italiano.

Le domande della Cedu all’esecutivo italiano

Tra le varie domande poste dalla Corte Europea, la più significativa riguarda la legittimità della tecnica usata dai carabinieri nel fermare Riccardo Magherini. Manconi la definisce “codice Floyd”. Questa definizione non è una scelta arbitraria. Infatti George Floyd, 46 anni, è morto il 25 maggio 2020 dopo che l’ex agente Derek Chauvin lo ha bloccato a terra con il ginocchio sul collo per 9 minuti e 29 secondi. Una vicenda che non può non evocare la vicenda nostrana. Manconi spiega che tale tecnica è stata operata anche da noi.

Accade che un uomo, sottoposto a fermo, si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile. Sempre Manconi sottolinea che a completare quella manovra, il braccio di uno degli operatori serra il collo del fermato. La combinazione tra le due mosse – la compressione del torace e la stretta sulla gola – impedisce la normale respirazione e può determinare una sindrome asfittica e, infine, la morte.Ebbene, come ricorda Manconi, è proprio quanto è accaduto a Riccardo Magherini. Un “codice Floyd” nostrano.

La sentenza

Ora, come detto, la Corte Europea ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Tra le domande poste ecco le più rilevanti: l’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dello scopo perseguito (il contenimento della persona fermata)? Le autorità pubbliche hanno garantito che fosse tutelata dagli operatori la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto in questione? Le stesse autorità possono dimostrare di aver fornito agli agenti che operano in circostanze simili una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti? Ricordiamo che la quarta sezione penale della Cassazione nel 2018 aveva assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello. In primo e secondo grado i tre carabinieri erano stati condannati.

Caso Magherini, il legale: «L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo»

L’avvocato Fabio Anselmo che assiste, insieme all’avvocata Antonella Mascia, i familiari di Riccardo Magherini afferma: «L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo che chiedeva aiuto e della cattiva giustizia riservatagli». Una vicenda tragica e che molto probabilmente poteva essere evitata. Riccardo Magherini, morì durante un arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014 a Firenze. Tre militari lo bloccarono mentre, sotto l’effetto di cocaina e in preda ad allucinazioni, convinto di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo, invocava aiuto in Borgo San Frediano, nel cuore del suo quartiere. Magherini quella sera era uscito a cena in un ristorante, poi aveva iniziato a vagare per le strade del quartiere gridando che gli avevano rubato portafoglio e cellulare. Era entrato in una pizzeria dove aveva continuato a dare in escandescenze. Tornato in strada, era stato bloccato dai carabinieri e ammanettato a terra, a pancia in giù e a torso nudo, per almeno un quarto d’ora. All’arrivo di un’ambulanza senza medico a bordo, l’ex calciatore era stato trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove alle 2.45 era stato constatato il decesso.

Il “codice Floyd”

Luigi Manconi ricorda che il “codice Floyd” non è una tecnica rara. Lui stesso, da presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, si è occupato di almeno una decina di casi simili: quelle di Riccardo Rasman, Federico Aldovrandi, Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto, Andrea Soldi, Luca Ventre e altri ancora. Eppure, come fa sempre notare Manconi, il 30 gennaio 2014, una circolare del comando generale dell’Arma dei carabinieri, raccomandava di evitare tecniche del genere, come i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte. Nel 2016, la circolare fu sostituita da un altro testo dove venivano sostituite tali avvertenze. Forse è ora di cambiare le cosiddette regole d’ingaggio. Da rivedere radicalmente tali tecniche che ricordano, appunto, il caso Floyd. Nel frattempo, il governo italiano ha tempo fino al prossimo 26 aprile per fornire risposte adeguate.

Morto dopo aver perso 30 chili in carcere, parla la sorella: "Non è stato curato, voglio giustizia”.  Federica Cravero su La Repubblica il 28 Dicembre 2021. La battaglia di Natascia Raddi: "Il suo corpo sembrava quello di Stefano Cucchi. Dicevano che facesse finta di stare male per ottenere benefici, invece aveva un’infezione che lo ha ucciso". "A settembre mio fratello ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l'ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli... Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49...". Natascia ha 35 anni e due anni fa, nel dicembre 2019, ha perso suo fratello Antonio Raddi, morto a 28 anni per una sepsi mentre era detenuto al Lorusso e Cutugno. Oltre alla famiglia, anche la garante dei detenuti Monica Gallo già mesi prima aveva denunciato le condizioni in cui si trovava il giovane. Sulla vicenda la procura di Torino aveva aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l'archiviazione, ma ora la famiglia - assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore - ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini. "Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato", denuncia la donna.

Quando avete capito che suo fratello aveva gravi problemi di salute?

"Ad agosto ha iniziato a non mangiare e a deperire. I miei genitori hanno capito che qualcosa non andava e hanno iniziato ad andare più assiduamente alle visite. Prima magari andavano 2-3 volte al mese, poi hanno iniziato ad andare una volta a settimana o anche due. Lui chiedeva di aiutarlo e mio padre si è esposto, ha parlato con tante persone. Anche nelle lettere a me mio fratello diceva di andare a parlare con i magistrati di sorveglianza. Ma non è servito a nulla". 

Perché non si alimentava più?

"Dal carcere dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L'ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi". 

Non lo stavano curando?

"Non ho mai visto una cartella clinica così scarna. E pensare che lì sopra dovrebbero segnare tutto. E comunque di qualcosa avrebbero dovuto accorgersi. Bastava vederlo per capire che stava male. Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto. Quando l'ho visto poi in ospedale, in coma, ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato... Sembrava Stefano Cucchi, anche se le loro storie sono molto diverse". 

Non era mai stato ricoverato prima?

"A inizio dicembre una volta era stato portato al repartino delle Molinette, dopo che era collassato in cella. Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un'ora d'aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato". 

E dopo le dimissioni?

"Continuava a stare male e infatti pochi giorni dopo lo hanno ricoverato d'urgenza al Maria Vittoria. Lì lo hanno sottoposto a molti esami, lo hanno visitato diversi specialisti e alla fine hanno scoperto che aveva una gravissima infezione da klebsiella, partita dai polmoni ma che oramai aveva intaccato tutti gli organi. E alla fine è morto per shock settico dopo 17 giorni di coma. Però i medici hanno detto che una persona non si riduce così da un giorno all'altro. Questo spiega anche perché non riusciva a mangiare: perché era malato. A malapena beveva un po' d'acqua. Ed essendo così debole il suo sistema immunitario non è riuscito a combattere la malattia. E pensare che era un ragazzo di un metro e 80 di 28 anni...". 

Perché suo fratello era finito in carcere alle Vallette?

"Antonio stava scontando una pena in una comunità perché aveva avuto problemi con le droghe. Gli mancava un mese alla fine, ma lui non riusciva a stare in quel posto ed è andato via. Quando poi lo hanno fermato lo hanno portato alle Vallette e alla sua pena si è aggiunta l'evasione. Per quello era ancora in cella anche se in realtà lui aveva intrapreso un percorso con il Serd e non avrebbe dovuto essere in carcere. Mi dispiace che sia finito tutto così: quando eravamo piccoli, i miei genitori lavoravano e mi sono presa io cura di lui, lo accompagnavo a scuola, andavo a prenderlo". 

Cosa spera da una riapertura dell'inchiesta?

"Vorrei che chi lavora in carcere capisse che chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere. Certe cose di come si sta in carcere io le ho sapute dai compagni di cella di mio fratello, quando sono usciti. Mai sapute prima perché certe cose i carcerati non le dicono... Mio fratello compreso".

La battaglia della famiglia Raddi. Muore dopo aver perso 25 chili in carcere, la sorella di Antonio chiede giustizia: “Sembrava Stefano Cucchi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Dicembre 2021. La sorella Natascia e il garante dei detenuti di Torino fanno un paragone che agli italiani ricorda uno dei casi di ‘cronaca’ più clamorosi degli ultimi anni: “Antonio sembrava Stefano Cucchi”.

Antonio Raddi, 28 anni, è morto dopo un ricovero d’urgenza all’ospedale Maria Vittoria di Torino nel dicembre del 2019: un viaggio della disperazione di fatto, col ragazzo deceduto per sepsi 17 giorni dopo essere entrato in coma.

Condizioni che da mesi si stavano aggravando mentre era recluso nel carcere delle Vallette del capoluogo piemontese: ex tossicodipendente con una patologia neurologica dall’infanzia, Antonio era stato condannato per rapine, maltrattamenti ed evasione. Il 28enne entra nel carcere il 28 aprile 2019 con il peso di 80 chili: a novembre la bilancia segna 50 chili, fino al decesso a dicembre.

Sulla vicenda di Antonio sia la famiglia che il Garante dei detenuti Monica Gallo aveva chiesto una indagine: la procura torinese ha aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l’archiviazione, ma la famiglia Raddi tramite gli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini.

La sorella Natascia si sfoga e con Repubblica parla della situazione del fratello: “A settembre mi ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l’ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli… Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49…”.

Natascia paragona quella di Antonio alla vicenda di Stefano Cucchi, anche se “le loro storie sono molto diverse”. “Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato“, denuncia.

Ad agosto Antonio inizia a non mangiare più e a deperire, i genitori e il Garante sono preoccupati ma dal carcere non ne vogliono sapere, denuncia la sorella: “Dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L’ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi”.

Ma in carcere la cartella clinica di Antonio era di poche righe, rivela la sorella Natascia: “Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto”.

Lo shock è arrivato quando Natascia lo incontra in ospedale, ormai in coma: “Ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato… Sembrava Stefano Cucchi”.

Secondo la procura nella gestione della salute di Antonio anche il suo atteggiamento poco collaborativo avrebbe avuto effetti: il 28enne, pur collaborativo del detenuto aveva avuto un ruolo nella gestione della sua salute dal momento che, pur desiderando le cure, non aveva accettato il ricovero nel repartino delle Molinette. Tesi questa che la sorella smentisce parzialmente: “Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un’ora d’aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato”.

Obiettivo della famiglia Raddi è quello di riaprire l’inchiesta perché, spiega Natascia, “chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Un processo mediatico.

Processo Scazzi a Taranto…aspettando la Cassazione.

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Ne parliamo con il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ben conosce quel foro avendo esercitato la professione forense e dalla cui esperienza ne sono usciti dei libri.

«Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati».

è stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento (efficienza).

Franco Coppi, lo sfogo: “Ad Avetrana due malcapitate”. Caso riaperto? Libero Quotidiano il 29 novembre 2022

Franco Coppi, l'avvocato difensore di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, è stato raggiunto da Il Giornale su uno dei casi più complessi della storia giudiziaria italiana: l’omicidio di Sarah Scazzi avvenuto il 26 agosto del 2010 ad Avetrana, in provincia di Taranto. Il processo si è chiuso, dopo una lunga e tortuosa inchiesta, con le condanne all’ergastolo della cugina Sabrina e la zia Cosima per concorso in omicidio, mentre lo zio Michele Misseri è stato condannato a otto anni per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove. Coppi, difensore tra gli altri di Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti, si batte da sempre su questo caso, per questo prova ora a fare chiarezza in un'introduzione al libro inchiesta, da poco uscito, di Rino Casazza: "Il delitto di Avetrana". 

"Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità". Per il legale non c'è alcun dubbio. Sabrina e Cosima sono sempre state innocenti, per cui rivendica, ancora una volta, il loro diritto alla presunzione di innocenza. Tuttavia, non c'è da sperare in una revisione del processo, poiché "per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione". Il caso di Avetrana, infatti, si sa, è stato un processo mediatico, forse quello più esposto di sempre. 

Felice Manti per “il Giornale” il 29 novembre 2022.

«Dopo l'esito del processo di Avetrana "celebrato" nei confronti di Sabrina Misseri e della sua anziana madre Cosima, ho sentito assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l'Università, la ragione della mia vita». È un Franco Coppi durissimo a vergare queste parole nell'introduzione del libro Il delitto di Avetrana (Rino Casazza, Algama editore) in uscita in questi giorni. Al telefono con Il Giornale il legale che in passato ha difeso tra gli altri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti rincara la dose. «La successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna avevano generato uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell'inutilità e della vanità dell'opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all'abbandono».

Queste sono parole sue, le conferma?

«Guardi, ho vinto processi che pensavo di perdere e viceversa. Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte». 

Eppure, ai più la condanna sembra scritta nel granito. Chiederà la revisione?

«Revisione? Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione». 

Avetrana è stato un processo mediatico, lo sappiamo. Contro le storture c'è la riforma firmata dall'ex Guardasigilli Cartabia, no?

«Mah, ho molte perplessità. Dopo più di 50 anni passati nei tribunali vedo con preoccupazione il futuro dell'avvocatura, che mi sembra molto sacrificato rispetto ai diritti della difesa in Appello e in Cassazione. Non credo possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento». 

Che cosa andrebbe riformato, secondo Lei?

«Per esempio, servirebbe la riforma dell'udienza preliminare ma non un semplice gioco di parole. Bisogna prendere atto che l'istituto è fallito. Bisogna pensare a come sostituirlo, anziché ritoccarlo».

Cosa ne pensa del Guardasigilli Carlo Nordio?

«È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro». 

Il prossimo 13 dicembre il Parlamento deciderà i 10 membri laici del Csm. Mai come questa volta il suo peso sarà decisivo per riscrivere le regole del funzionamento della giustizia.

«Il ruolo del Csm è certamente delicatissimo ma io sono convinto che tutto dipenda dalle persone: c'è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all'opera».

La magistratura ha gli anticorpi per chiudere i conti con il passato? Penso al caso Palamara, ai casi Davigo-Storari eccetera...

«Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un'altra serie di magistrati sono pessimista».

Michele Misseri, la disperata lettera sul delitto di Avetrana: "Sono io il vero colpevole" – esclusivo. E.M. il 30 novembre 2022 su  Oggi

Il contadino di Avetrana continua a dichiararsi unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. E scagiona moglie e figlia, che non hanno mai risposto alle sue lettere di scuse: "Quando uscirò dal carcere, dovrò lottare per l’innocenza di Sabrina e Cosima"

Michele Misseri scrive dal carcere, ribadendo di essere l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana nell’estate di dodici anni fa: "Io sono il vero colpevole. Mi fa rabbia che io faccio trovare tutto e mi credono innocente." 

Parla Michele Misseri, prima di tornare in carcere: "Chiedo perdono per i miei errori" – ESCLUSIVO

CORTE EUROPEA - La lettera, che Oggi ha visionato in anteprima, è stata recentemente inviata Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, autori del documentario di Discovery Tutta la verità ed è inserita nel libro Il delitto di Avetrana, edito da Algama, di Rino Casazza: un volume nel quale viene ricostruita l’intera vicenda, dalle indagini al processo fino ai tanti processi satellite. Un caso unico nella storia giudiziaria italiana, dove il reoconfesso è stato assolto dall’omicidio e all’ergastolo ci sono due persone che si dichiarano fin dall’inizio innocenti: sua moglie Cosima Serrano e sua figlia Sabrina. L’avvocato Nicola Marseglia, tra i difensori di Sabrina Misseri, spiega di aver fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per violazioni dei diritti della difesa e che l’istanza ha superato l’esame di ammissibilità. Cuore del ricorso quanto dichiarò il fioraio Giovanni Buccolieri, le cui parole furono decisive per la sentenza per quanto egli stesso ebbe a ribadire di aver fatto solo un sogno: "Il ‘sogno del fioraio’ è noto. – spiega il legale a Casazza –  È sufficiente dire che l’autore lo ha definito tale e che quelli che hanno raccolto dall’inizio le sue confidenze hanno dichiarato che Giovanni Buccolieri ha parlato loro sempre e soltanto di un sogno. Se la CEDU dovesse accogliere il ricorso presentato dalla difesa sarebbe sicuramente più agevole la strada della revisione della sentenza di condanna, che andrebbe avviata in ogni caso alla luce dei nuovi elementi di prova scoperti successivamente al giudizio o comunque non esaminati nel corso dello stesso".

UN GIORNO IN PRETURA - Nel libro, con la prefazione del professor Franco Coppi, prende una posizione netta a favore delle due donne condannate uno dei volti più noti del giornalismo e della cronaca giudiziaria, ovvero Roberta Petrelluzzi di Un giorno in pretura: "Possibile che Sabrina sia stata spinta a uccidere Sarah, che per lei era come la sorellina più piccola, per gelosia di un giovanotto molto più grande della cuginetta? Ancora più difficile da credere che la zia Cosima abbia potuto farle del male per un motivo del genere, dopo che l’aveva sempre benevolmente e affettuosamente accolta in casa propria, presso la quale trascorreva addirittura la maggior parte del tempo. Ed è per tutto questo che penso che nel cosiddetto ‘processo di Avetrana’ non si sia fatta giustizia".

LA LETTERA - Ma cosa dice la missiva del contadino? Comincia così: "Io ho sempre detto che il vero colpevole sono io, ma nessuno mi vuole credere, ma tutti proprio tutti sanno che io sono il vero colpevole e lo sono tuttora. Il rimorso me lo porto per tutta la vita, i giudici hanno paura di dire che hanno sbagliato e hanno messo due innocenti in carcere". Ricorda che il 15 ottobre 2010, quando ricostruì l’accaduto, prese due pillole "una arancione e una bianca. Di quel giorno non ricordo quasi nulla e stavo male vorrei che lei guardasse di nuovo quel video per vedere io come parlavo, mi hanno fatto tante di quelle domande. Sono arrabbiato perché nel video, nella registrazione, ci sono l’inizio e la fine. Perché non c’è nessuna registrazione della parte in mezzo? Non ricordo niente, sono io il vero colpevole".

NON MI RISPONDONO - Quanto a moglie e figlia "ho chiesto tante volte a Sabrina e Cosima perdono, ma ho perso il conto di quante lettere ho scritto a Sabrina e Cosima, ma nessuna risposta. Ho distrutto la mia famiglia e tante altre famiglie, tutto questo per il maledetto trattore che non partiva. Ero incazzato nero e poi tante bugie che avevo detto perché mi vergognavo di dire la verità. Io volevo farla finita per il rimorso, stavo per uccidermi, sono andato alla Contrada Mosca, vicino all’albero del fico dove da piccolo mio padre mi legava da bambino, stavo per bere un potente veleno e qualcuno mi diceva non farlo e così ho pensato: "Se mi ammazzo il povero Angelo non lo trova nessuno". Quello che vi voglio dire: se Sabrina e Cosima, fossero state colpevoli perché non hanno detto: "siamo state noi". E non c’era bisogno di prendere l’ergastolo, fine pena mai, perché tutt’ora si dichiarano innocenti e fino ad adesso io mi sono sempre dichiarato colpevole. Sono innocenti Sabrina e Cosima, io ho paura che Sabrina la faccia finita per colpa mia. Questa è la paura che ho, sono state condannate ingiustamente".

NON HO MAI ACCUSATO COSIMA - Ma Michele non intende fermarsi: "Mia moglie: non c’è scritto da nessuna parte che io ho fatto il nome di Cosima. Mio fratello Carmine è stato arrestato da innocente e anche un mio nipote, Cosimo Cosma, anche lui innocente, nel corso dei processi è morto, pace alla Sua anima. Tutto quello che mi fa rabbia è che io faccio trovare tutto e mi credono innocente. È  tutto falso, io quando esco da qua non mi fermo, devo lottare per l’innocenza di Sabrina e Cosima, è giusto. Perché io dovevo prendere l’ergastolo, i miei sensi di colpa me li porto per tutta la vita".

LA LETTERA DI VALENTINA - Non è quella di Michele l’unica lettera ospitata nel libro: la seconda è quello dell’altra figlia, Valentina. La quale non ha dubbi che l’unico responsabile dell’omicidio e che sfoga la propria amarezza: "Non ho mai creduto molto nei miracoli. Ma posso dire, invece, di essere una miracolata. Questo perché se fossi partita solo un giorno dopo da Roma, dove mi trovavo, per andare ad Avetrana, adesso sarei sicuramente in carcere con mia sorella Sabrina e con mamma. Dico questo perché anche io sarei andata assieme a loro dai carabinieri e poi a controllare la maturazione dell’uva della mia vigna, in un terreno che agganciava la cella telefonica che copriva anche la zona di San Pancrazio Salentino, un paesino vicino ad Avetrana. La stessa cella che aggancia molti luoghi in quella zona, visto che per dimensioni Avetrana non è certo Milano o Roma. E che aggancia quindi anche, e non solo, la zona del pozzo dove è stato trovato il corpicino di Sarah. Per gli inquirenti la "prova" che mia madre e mia sorella sarebbero andate lì, al pozzo e non alla vigna, a controllare se il corpo di Sarah fosse stato occultato bene da mio padre. "Prova", quella in realtà del controllo del livello dello zucchero negli acini d’uva, che avrebbe "inchiodato" anche me. Oggi, per questa semplice attività, che è una consuetudine di chi ha una vigna, sarei in galera". e.m.

“Sarei potuta essere in carcere anch’io”. Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella. Valentina Misseri il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana disponibile su Amazon. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella e accusa: "Se fossi stata a casa anche io avrebbero arrestato anche me".

Non ho mai creduto molto nei miracoli. Ma posso dire, invece, di essere una miracolata.

Questo perché se fossi partita solo un giorno dopo da Roma, dove mi trovavo, per andare ad Avetrana, adesso sarei sicuramente in carcere con mia sorella Sabrina e con mamma.

Dico questo perché anche io sarei andata assieme a loro dai carabinieri e poi a controllare la maturazione dell’uva della mia vigna, in un terreno che agganciava la cella telefonica che copriva anche la zona di San Pancrazio Salentino, un paesino vicino ad Avetrana. La stessa cella che aggancia molti luoghi in quella zona, visto che per dimensioni Avetrana non è certo Milano o Roma. E che aggancia quindi anche, e non solo, la zona del pozzo dove è stato trovato il corpicino di Sarah. Per gli inquirenti la “prova” che mia madre e mia sorella sarebbero andate lì, al pozzo e non alla vigna, a controllare se il corpo di Sarah fosse stato occultato bene da mio padre. “Prova”, quella in realtà del controllo del livello dello zucchero negli acini d’uva, che avrebbe “inchiodato” anche me. Oggi, per questa semplice attività, che è una consuetudine di chi ha una vigna, sarei in galera.

Ma se sono stata miracolata non lo devo ad una entità superiore.

Lo devo ad una persona: si chiama Stefano ed è mio marito.

In quei giorni stavo sostituendo una persona per un lavoro in portineria e il mio contratto sarebbe scaduto l’8 settembre. Nei giorni precedenti, appena appresa la notizia della scomparsa di Sarah, volevo partire immediatamente e a tutti i costi per Avetrana. Ma mio marito mi fece riflettere: mi consigliò di rispettare gli impegni che avevo preso dal punto di vista contrattuale perché, andandomene, avrei costretto, rovinandole le uniche vacanze, a far tornare la persona che stavo sostituendo. Mancavano pochi giorni alla fine del mio impegno, le ricerche erano già partite, e a parte il mio sostegno dal punto di vista emotivo, sarei servita a poco precipitandomi giù.

Quei giorni di attesa fino all’8 settembre, furono interminabili. Piangevo tutte le notti e di giorno “facevo la forte” davanti alle persone che dovevo ricevere in portineria, ma appena ero sola scoppiavo di nuovo a piangere e lo stesso facevo con mio marito.

Volevo essere vicina a zia Concetta, alla mia famiglia. Finalmente arrivata ad Avetrana, ricordo che lasciai la valigia a casa e andai con mia madre direttamente da zia Concetta. Ricordo che c’era già una troupe televisiva di un canale locale fissa davanti a casa sua. Per noi, pensavamo, era importante la presenza dei giornalisti perché più si parlava di Sarah e meglio era, perché la volevamo a casa il più presto possibile.

Nessuno, e dico nessuno, conosceva Sarah meglio di me, Sabrina e Antonella, un’altra cugina di Sarah, sua coetanea, figlia di nostra zia Dora. Ricordo la rabbia di Sabrina quando si parlava di una possibile pista su Facebook, per la quale Sarah sarebbe stata adescata via social. Sabrina continuava a ripetere in modo deciso di lasciar perdere e di non seguire quella pista perché Sarah, da sola, non sapeva usare il computer.

Strano comportamento per chi poi è stata considerata l’assassina di nostra cugina. Se fosse tale, avrebbe avuto tutto l’interesse a far proseguire gli inquirenti su quella pista. Così come, quando venne ipotizzato che Sarah avrebbe potuto accettare un passaggio da qualche sconosciuto, Sabrina insisteva in modo fermo sul fatto che Sarah mai e poi mai sarebbe salita sulla macchina di qualcuno che non conosceva, visto che a malapena accettava dei passaggi da chi conosceva. Questo perché Sabrina e mia madre avevano - e hanno - la coscienza pulita e speravano di riabbracciare Sarah al più presto.

Ricordo che in quei giorni, appena alzate, la prima cosa che facevano era quella di andare a casa di zia Concetta. A casa nostra non si pensava a nient’altro che a Sarah: la gestione della casa, da tutti i punti di vista, era ovviamente trascurata. E quello è stato anche l’unico periodo in cui abbiamo trascurato nostro padre, del resto zia Concetta aveva bisogno di noi e noi molto spesso eravamo da lei per aiutarla. E a veder bene, ricordo chiaramente che l’unico che invece non è mai andato a casa di zia Concetta - tranne che per il funerale del nonno di Sarah - era proprio papà.

Evidentemente aveva la coscienza sporca. Ricordo che sia a pranzo, sia a cena mangiavamo al massimo un panino e col passare dei giorni ci chiedevamo se a Sarah stessero dando del cibo a sufficienza. Oppure quando le giornate stavano diventando più fredde, ci chiedevamo se le avessero dato delle coperte.

Di fronte a queste parole, l’unico che non diceva nulla era proprio papà.

Mi chiese solo una cosa, un giorno: “Ma secondo te troveranno mai chi ha preso Sarah?” Io gli risposi che ci sarebbe voluto del tempo, le indagini stavano andando avanti, ma alla fine li avrebbero trovati.

Sono passati quasi dodici anni da allora. E in tutti questi anni siamo state giudicate da tutti.

Per quanto amara, è la semplice cronaca dei fatti: la cronaca di come è avvenuta la cronaca.

Ricordo le trasmissioni al mattino, al pomeriggio, di sera, a notte inoltrata, dove tutti parlavano in continuazione della mia famiglia. Tutti avevano qualcosa da opinare.

Presentatori, attori, mogli di calciatori, politici, sacerdoti, suore, passanti. Tutti a parlare - male - di noi. Poche le voci fuori dal coro, come quelle del Prof. Natale Fusaro, della criminologa Roberta Sacchi e poi del Generale Luciano Garofano. Voci che venivano regolarmente massacrate sui social. Una delle rarissime vicende nelle quali il diritto al dissenso, rispetto a quello che era divenuto uno schema ormai, non era praticamente concesso. Se in televisione di solito funziona il botta e risposta, nel nostro caso c’erano solo botte. Invece, per essere popolari, per riscuotere “successo”, bisognava dire che eravamo una famiglia di merda. L’applauso era garantito.

Ricordo un politico leghista - che ora non c’è più - dire che io, mia madre e mia sorella eravamo delle merde. Come detto, immancabile è arrivato l’applauso del pubblico anche per lui, ormai un riflesso condizionato. Ricordo il conduttore di un programma televisivo che ci definì “una famiglia disgustosa”. La mia famiglia non è mai stata disgustosa.

E per quanto possa sembrare strano dirlo oggi, non lo era stato nemmeno mio padre: fino al giorno in cui ha fatto quello che ha fatto a Sarah, confessandone successivamente l’uccisione, per poi subito dopo far ritrovare il suo corpo senza vita. Fino a quel terribile momento ho sempre detto di aver avuto i migliori genitori del mondo. E non lo pensavo solo io: fino a quel momento, Sarah voleva farsi adottare da noi.

Nostro padre, con quello che ha fatto all’improvviso, ha devastato le nostre vite, quelle dei miei zii, tutto quello che di importante e di bello c’era stato, nelle nostre vite tra Italia e Germania.

E la cosa più terribile è che ha tolto la vita a Sarah, mosso dalle più orribili e improvvise pulsioni. Ma noi, mia madre, mia sorella ed io, non c’entriamo nulla. Eppure già prima del processo siamo state condannate e derise.

Ripenso a un giornalista, non di secondo piano, del Corriere della Sera, uno dei maggiori quotidiani italiani, che in un articolo scrisse - non disse in uno studio tv, ma scrisse, cosa che dovrebbe prevedere una riflessione superiore a quella di una diretta televisiva - queste righe: “Lei” - riferito a mia sorella Sabrina - “è la ragazza del dopo mezzanotte, grassottella, collo taurino, braccia da camallo, quella con cui non ti faresti mai vedere in pizzeria, ma che dopo la terza birra e a ora tarda non ti dispiace più come prima.” In pochissime righe: machismo, sessismo e body shaming. Chiudendo poi queste “considerazioni” - non credo in linea con i principi etici dell’Ordine dei Giornalisti - con un “come siamo noi maschi”.

Del resto del nostro fisico si è parlato tanto!

E non lo hanno fatto solo degli uomini. Una giornalista disse anche che noi eravamo invidiose perché eravamo brutte e invece nella famiglia di Sarah erano tutti belli. Insomma siamo state bullizzate. Ma non alle medie, in età adulta… e da altri adulti! Alle medie può succederti, è orribile. Ma alle medie si è ragazzini, immaturi. E non si ricoprono ruoli pubblici, non si bullizza - per quanto possa essere odioso tra compagni di scuola - di fronte a una platea enorme, in un processo che era già iniziato sui media. Siamo state bullizzate, per il nostro aspetto, in spazi molto seguiti e da persone famose, che magari facevano anche parte di associazioni contro il bulling.

Anche Sarah era stata bullizzata. Ne soffriva tantissimo. Noi la capivamo e le siamo state sempre accanto. A Sarah dicevano che era troppo magra, troppo bionda, troppo pallida e non indossava abiti firmati. Noi le dicevamo di non dare retta: “Sarah, sei bellissima!” le ripetevamo.

C’era in particolare una ragazzina, che l’aveva presa di mira, insieme ad altre, formavano un gruppetto che lei capeggiava e che la prendeva in giro pesantemente. Sarah ne soffriva molto.

Dopo la sua morte ho visto quella stessa ragazzina, in televisione, dire di essere un’amica di Sarah. Tutti andavano in televisione. Probabilmente la presenza dei media che c’è stata su Avetrana non è mai stata raggiunta in altri fatti di cronaca. Così, d’accordo con zia Concetta, che ci ha chiesto di aiutarla con i media, mia sorella si è esposta molto ai mezzi di comunicazione.

A un certo punto la situazione era divenuta impossibile.

Ho visto dei giornalisti entrare dentro casa nostra e litigare in modo animato su chi ci doveva intervistare per primo. Poi qualcuno di questi ha avuto anche il coraggio di dire che Sabrina gestiva un’agenda di interviste. Sabrina aveva un’agenda, certo.

Ma era quella degli appuntamenti del suo lavoro, per i trattamenti estetici. Se qualche giornalista le chiedeva disponibilità per un’intervista, doveva controllare che non interferisse con il suo lavoro. Sabrina, come tutti noi, lavorava.

Qualcuno ha detto, anche in televisione, che noi ci siamo fatte pagare per le interviste. Ma è assolutamente falso. Non abbiamo mai preso un centesimo dalle interviste che abbiamo fatto. Al contrario ho saputo che c’è chi ancora riceve dei soldi per delle ospitate o per delle interviste. Non giudico, ma non siamo di certo noi. Non riusciremmo mai a farlo.

Nonostante siano passati quasi dodici anni, a volte mi capita di svegliarmi in piena notte e pensare che tutto quello che è successo sia semplicemente un incubo. È una sensazione che dura pochi secondi. Forse è un desiderio inconscio. Poi svanisce e realizzo che tutto quello che è capitato alle nostre famiglie purtroppo è vero.

Penso a Sarah tutti i giorni. Penso anche a zia Concetta, al suo dolore.

Proprio per la tragedia che è capitata non riesco a capacitarmi del fatto che a lei vada bene la realtà che è uscita dal processo. Lei sa perfettamente quanto volevamo bene a Sarah. Era una parte della nostra famiglia. Ogni tanto penso che zia Concetta sia, in un certo senso, costretta e credere a quella verità processuale.

Che non è la verità.

Durante il processo di primo grado, mia madre e mia sorella erano nel gabbiotto, cercavano disperatamente il suo sguardo. Ma lei non le ha mai guardate. Eppure basta addentrarsi un minimo nelle carte del processo e delle indagini per capire che mia madre e mia sorella sono in carcere e sono state condannate per dei pettegolezzi di paese.

Non ci sono prove, ma addirittura non ci sono indizi veri e propri.

Le testimonianze sull’orario d’uscita da casa di Sarah, raccolte nei primi giorni dalla scomparsa, quando tutti pensavamo fosse viva, sono un alibi per mia sorella e per mia madre. Così come i tabulati telefonici degli sms di Sabrina. Ma, a distanza di tempo dai fatti - è qualcosa che sembra paradossale, un ricordo dovrebbe essere più vivo in prossimità dei fatti, non il contrario - gli orari cambiano. A processo cambiano, rispetto ai verbali e alle interviste in prossimità della scomparsa. Il fatto poi che Sarah aveva detto che sarebbe uscita alle 14.30 da casa per raggiungere Sabrina e andare al mare e che sua madre abbia confermato questo orario nella denuncia ai carabinieri, a processo diventa una bugia di Sarah. Alla quale purtroppo, non possiamo più chiedere di questa bugia ipotizzata dalla Procura (ma mai provata) dato che Sarah non c’è più.

E i tabulati telefonici?

Diventano un sotterfugio degno della peggiore mente criminale, quella di Sabrina. Del resto mia sorella a volte è considerata una sciocca e volte una fredda mente diabolica. Per non parlare della “prova” che ha portato alla condanna all’ergastolo di mia madre. Un sogno, il sogno di un fioraio. Ma cosa è successo alla nostra Giustizia?

In qualsiasi paese civile mia madre e Sabrina non solo non sarebbero state condannate, ma forse non sarebbero state nemmeno portate a processo come imputate.

Una volta tanto che un colpevole, a parte per un delirante breve periodo, ammette di essere colpevole - e da anni mio padre continua a gridare la sua colpevolezza - succede che non viene creduto.

Eppure tutte le prove portano a lui.

È lui che fa trovare il telefonino, il corpo senza vita di Sarah, le sue chiavi di casa, la batteria del cellulare e il punto dove ha bruciato lo zainetto con i vestiti e gli auricolari.

È lui che confessa con numerosi particolari.

È un caso più unico che raro!

Purtroppo al processo hanno contato altri fattori. La costruzione dei media di noi come streghe, rispetto ai fatti. Con la costruzione della figura della vittima, all’interno della sua famiglia, incentrata su nostro padre. Nostro padre ha una mimica facciale e un modo di parlare che fa quasi tenerezza. È stato uno dei motivi che ha facilitato nel farlo passare come una vittima agli occhi dell’opinione pubblica.

E non solo. Si è affermata col tempo l’idea che non sarebbe mai stato capace di un crimine così terribile. Che invece ha compiuto.

In questa costruzione della vittima e di noi, donne dominanti della famiglia, si è arrivati a dire che a lui davamo da mangiare i nostri avanzi.

La realtà è che a casa nostra si è sempre cucinato un po’ di più, perché se avanza qualcosa lo diamo ai nostri animali, un cane e dei gatti. Non credo che prediligere ogni tanto degli avanzi dalla propria tavola per i propri animali domestici a delle scatolette, sia una prova certa di colpevolezza. Ma anche questo è stato messo nel frullatore mediatico - processuale per far passare mio padre come il “Cenerentolo” di casa Misseri, dove io e mia sorella eravamo le “sorellastre” e nostra madre la “matrigna” cattiva.

Nei confronti di mia madre c’è stato poi un accanimento, direi “teatrale”.

È stato fatto di tutto per umiliarla e per umiliarci, compreso l’arresto show. Solitamente gli arresti vengono fatti la mattina presto o di notte. Ma non per mia madre. Lei doveva essere esibita davanti a tutta quella gente che le urlava contro di tutto. In un’esaltazione della folla quasi isterica, mia madre è stata prelevata dai carabinieri a casa la sera, messa alla gogna, tra grida e sputi. In quella massa di persone c’erano mamme con i bambini in braccio e addirittura i testimoni del processo. C’erano Petarra, Mariangela Spagnoletti, l’ex fidanzata di Ivano Russo e l’onnipresente Anna Pisanò.

Credo, come ha anche sottolineato la giornalista Maria Lucia Monticelli di Chi l’ha visto?, che sia stata una delle pagine più basse di tutta questa allucinante vicenda.

Sono d’accordo che le sentenze vanno rispettate. Certo.

E infatti mamma e Sabrina stanno scontando in carcere una pena ingiusta.

Ma penso che i magistrati sono delle persone e come tali possono sbagliare. Quindi rispettare una sentenza non vuol dire avere il divieto di poterla criticare, in modo serio, punto su punto.

Così come mia sorella e mia madre, seppur condannate, devono avere il diritto di proclamarsi innocenti, senza che questo comporti nulla per loro. Ci troviamo di fronte ad un gravissimo errore giudiziario. In Italia ce ne sono stati e ce ne sono, non è una rarità purtroppo. E la cosa che fa più male è che quando un caso diventa mediatico e Avetrana può essere considerata una “svolta” negativa, l’errore giudiziario è spesso dietro l’angolo.

Ma è evidente che non si tratta di un problema solo mediatico o episodico, visti i numeri. In Italia si parla di circa mille persone l’anno in carcere o ai domiciliari, da INNOCENTI. Questi mille sono i “fortunati” che alla fine riescono a dimostrare la propria innocenza. E poi ci sono tantissime persone come mia madre e mia sorella che, seppur condannate senza prove incontestabili, sono ancora in carcere perché i giudici non credono nella loro innocenza.

Prima ancora di porsi il principio della colpevolezza o non colpevolezza.

Eppure si è sempre detto che “è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro” ma quello che noto è che negli ultimi anni vale di più il concetto “nel dubbio, tutti dentro”.

Basta pensare che nel nostro caso a fronte di un reo confesso, nostro padre, che si dichiara colpevole, ci sono state una marea di condanne.

In carcere sono finite altre persone innocenti come mio zio Carmelo che per una semplice telefonata è finito in galera e mio cugino Mimino che purtroppo è morto nel bel mezzo di questo lunghissimo iter processuale. Anche loro stritolati dall’ondata persecutoria, mediatica e giudiziaria.

In ogni caso, nonostante il passare degli anni, spero ci sia finalmente uno sguardo diverso, senza preconcetti, su quello che è realmente successo. Che ci siano opere d’informazione che restituiscano la verità di tutta questa vicenda, aldilà della forte pressione dei media che ha influenzato pesantemente tutto il processo. I fatti sono lì, a parlare da soli.

Purtroppo in questi tristi anni, a parte alcuni articoli di Maria Corbi, solo un film documentario ci ha restituito la dignità di persone, mettendo semplicemente in fila gli avvenimenti per come sono andati, nelle loro evidenti contraddizioni: si tratta di “Tutta la Verità – Il delitto di Avetrana” di Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli. Quello che mi auguro è che anche grazie a un lavoro come questo, la verità venga sempre più a galla, che si possa finalmente arrivare alla revisione del processo, sulla quale tanto si stanno impegnando il Prof. Coppi e l’Avv. Marseglia.

E che chi sa, anche tra gli inquirenti della prima ora, parli e dica tutto quello di cui è a conoscenza per ristabilire la verità dei fatti. Del resto, come ho detto all’inizio, non credo molto nei miracoli. Credo di più, nonostante tutto, nella volontà delle persone. In carcere ci sono due innocenti, mentre un colpevole, che non viene ascoltato, chiede di scontare la sua pena.

Sarah, fiore tra i rovi. Il brutale delitto di Avetrana. LA RAGAZZA VITTIMA DELLE “ERINNI DEL SUD” - Odio, vendetta e gelosia: così due donne hanno ucciso la giovinezza. VERONICA TOMASSINI su Il Fatto Quotidiano il 3 Settembre 2022

Ci sono giorni che sembrano purgatori. La preparazione a una qualche apocalisse. Il sole di un pomeriggio di agosto è un sole lattiginoso, individui in luogo di uomini, un mistero imbambolato, sapete, il tedio della controra; figuri, radi, frettolosi, attraversano il paese di Avetrana come nembi neri, spettri. Sarah è bionda, bianca, un cherubino conficcato […] 

Sarah, un fiore tra i rovi (il Fatto quot.) su veronicatomassini.wordpress.com.

Ci sono giorni che sembrano purgatori. La preparazione ad una qualche apocalisse. Il sole di un pomeriggio di agosto è un sole lattiginoso, individui in luogo di uomini, un mistero imbambolato, sapete, il tedio della controra; figuri, radi, frettolosi, attraversano il paese di Avetrana come nembi neri, spettri. Sarah è bionda, bianca, un cherubino conficcato in una terra di zolle rivoltate, giardini di ulivi chini nei poderi, solcati dall’aratro di un buttero con gli occhi sottili, istupiditi dal totem dell’ignoranza, nell’albume di giorni storditi e faticosi.

In uno di quei giorni sei morta, Sarah. Troppo bianca, forse, una gardenia circondata da aspidistre; la rarità nella sommarietà, può darsi; infilzavi con l’allegrezza un cielo di piombo e l’ira tribale che nasconde la ferocia del Sud, il pagliericcio delle Erinni.

Bisogna perdonare e subito. Una morale cattolica lo predica, con la giustezza dell’eco cristica, e solo quello conta, Lui che da lassù, inchiodato al legno santo, il giglio smorto, riuscì a mormorare parole sopra il mondo, Padre, perdona loro. Ma soltanto la luce che penetra accecante con la sua misericordia può trasformare l’esortazione disumana, il perdono in sostanza lo è, in una militanza da visionari, come i bambini sanno esserlo. Tu lo eri ancora in fondo. Un cherubino. Infatti mentre le tenebre della notte precipitavano sulle profondità del pozzo, ed erano tenebre su tenebre, il tuo corpicino era sgusciato su su per il Cielo e pare che il Cielo, nella circostanza dettagliata dell’abominio eseguito dabbasso, si sia squarciato, come il velo del Tempio, e oltre si sia udito un fruscio di voci tenere e gorgoglii simili a un canto, o un sussurro di pettirossi sui rami, era un coro assiepato, disceso da troni e potenze, una composizione armonica quasi musicale di cetre, angeli e arcangeli, sorridenti come amorini. E la nostra madre, la Vergine, con gli occhi tondi, cerulei, immacolati, appena contrita, eppure già con le braccia tese pronta a riceverti: pare fossero tutti lì.

E pare che tu li abbia visti prima, Sarah, proprio mentre qualcuno tirava stretta al collo, fremente, la cavezza dura. E non vorrei sbagliarmi ma persino la cavezza sembrò sussultare, d’un tratto animata da un palpito anomalo, perché umano, impresso finanche nelle cose. Un battito, la cavezza intrisa di un battito, ansimava avanti e indietro, ostile al compito che tuttavia doveva assumere, nel fitto geroglifico di un destino, ed è scritto, è scritto nei rotoli del libro della vita.

Il tuo nome è biblico, Sarah.

Da su, lo sguardo pietoso rovina su un fuoco che non purifica, l’odio, la perversione di un’uggia che diventa il rantolo della fiera, o della creatura spaventosa e mitologica, una fiera con fattezze umane o viceversa. Si sgranava il sacro otre di granuli di misericordia, mentre le donne, madre e figlia, agitavano nell’aria la suggestione demoniaca che afferisce a termini come vendetta, gelosia, e tutta la stirpe di sentimenti inferiori concepiti anch’essi con una ragione che non può riguardarci, non adesso, non è detto forse: “O profondità di ricchezze, di sapienza e di conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e inesplorabili le sue vie! Chi infatti ha conosciuto la mente del Signore? O chi è stato suo consigliere?”.

E noi semplicemente a chiederci: perché?

Perché, Sarah?

Le donne sudavano, piegate, chine, sono mezzadre che vangano e estirpano globi di specie purissima invece che la gramigna, si affaticano nel luogo dell’abominio, ree e meschine, allargano il raggio di un cerchio, lo slabbrano, lo sfiniscono, il cerchio è un simbolo mistico, nel cerchio l’origine coincide con la fine, è quella è l’eternità. Il raggio di un cerchio possiamo chiamarlo nella nostra finitezza maldestra: lo Spirito. Oppure: la Misericordia.

Chine sul tuo cadavere, da cui, svagato e vibrante si emancipa il tuo corpo glorioso.

Ti trascinano giù, nella rimessa. C’è un uomo, ha uno sguardo sperso. Lo credi capace di efferatezze?

Diventa una lugubre notorietà. Si perfeziona nell’esercizio della denigrazione di sé medesimo. Si racconta nella paurosa onta di un pederasta. Non trattiene o censura nemmeno i suoi sogni, umbratili, malati. Sono correi. Indossano la colpa primitiva, scoscende nei recessi di un rimorso congelato, non istruito. Non sanno cosa sia un rimorso, non che abbia un senso nella funzione della dialettica perenne, del bene e del male. La guerra, intendo, la contesa. I teologi la indicherebbero in una esegesi precisa in prossimità della fine di questi cieli, e in attesa di altri.

Cos’è la giovinezza?

Avevi imparato a sorprenderla, nel primo timido tentativo di accenderla alla stregua di un lumino che segnava i tuoi passi, un po’ esitanti, ora da bimbetta ora da fanciulla con taluni sospiri da trattenere nel tenero piccolo costato.

Non sarebbe mai accaduta del tutto, la giovinezza. E nemmeno il baluardo di quel giovanotto balzato a fulcro tra te e le erinni, ne sarebbe stato all’altezza.

Cos’è la giovinezza?

È l’inganno per cui ti accorgi che l’eternità è un concetto tale da far nondimeno paura, quando la giovinezza cioè si consegna alle stagioni esaurite. Le primavere che non tornano. Non tornano mai.

Sai le estati con i gelati all’amarena? Li hai assaggiati mai? Non esistono più. O di talune canzoni che ti promettono, ma sai le promesse non si mantengono. No, mai.

Ricordo un brano letterario, antologizzato, di cui mi sfugge l’autore, e ti chiedo scusa, recitava: “Emily. Emily, si può tornare indietro? Si può tornare indietro, a vivere?”.

Non so chi fosse, Emily.

Emily è morta.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione di sabato 2 settembre 2022

Delitto di Avetrana, 12 anni dopo arriva un'altra fiction su Sarah Scazzi, diretta da Mezzapesa. Si chiamerà «Qui non è Hollywood». Dopo le condanne di primo grado, la Corte d’appello di Taranto ha assolto tre imputati e in particolare Giuseppe Olivieri. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Agosto 2022.

Sono giunti ieri nella provincia di Taranto il cast e la troupe che daranno forma alla nuova serie televisiva sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa e gettata in un pozzo nelle campagne di Avetrana il 26 agosto 2010. Proprio ieri, esattamente a distanza di 12 anni da quel delitto. È la società di produzione cinematografica «Groenlandia» a curare la realizzazione della serie su uno dei fatti di cronaca più seguiti e divisivi degli ultimi anni. La fiction, intitolata «Qui non è Hollywood», comincia la sua produzione a distanza di circa un anno dalla docuserie «Sarah – La ragazza di Avetrana», prodotta sempre da Groenlandia e andata in onda su Sky. Il documentario, composto da quattro puntate e diretto da Christian Letruria, era basato sul libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanti ed è stato un ottimo lavoro di ricostruzione della vicenda: sono stati i reali protagonisti reali a riportare sullo schermo i fatti di quell’estate 2010 e i processi che ne sono seguiti e al termine dei quali sono state definitivamente condannate all’ergastolo la cugina di Sarah, Sabrina Misseri, e la madre di quest’ultima Cosima Serrano. Le interviste alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, al fratello Claudio e poi ad avvocati, ex magistrati e giornalisti, come Mimmo Mazza, attuale caporedattore centrale de La Gazzetta del Mezzogiorno, hanno permesso al grande pubblico di rivivere quei giorni, ma soprattutto di approfondire una serie di aspetti che ancora oggi continuano a dividere gli italiani tra innocentisti e colpevolisti.

Nella nuova serie, invece, saranno gli attori a rievocare il delitto di Avetrana: la regia è stata affidata al pugliese Pippo Mezzapesa, reduce da «Ti mangio il cuore», film che uscirà al cinema il prossimo 22 settembre e ambientato nel Gargano falcidiato dalle guerre tra famiglie mafiose. Oltre a Mezzapesa, Groenlandia ha scelto come direttore della fotografia Giuseppe Maio e il barese Paolo De Vita nel ruolo di zio Michele, il contadino condannato in via definitiva per occultamento del cadavere, ma che continua a professarsi l’unico reale responsabile dell’omicidio. Le riprese, che partiranno oggi, dureranno circa 17 settimane e non toccheranno Avetrana: le prime 8 settimane si svolgeranno tra Lizzano, Torricella e Maruggio, mentre le altre 9 saranno girate a Roma.

La narrativa mediatica, insomma, continua a rievocare la storia di Sarah anche a distanza di diversi anni dalla chiusura dei procedimenti giudiziari. A febbraio 2017 la Cassazione confermò le condanne emesse dalle corti di assise nei primi due gradi di giudizio: la vicenda però è finita dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo dopo i ricorsi presentati dai difensori delle imputate Franco Coppi, Nicola Marseglia e Lorenzo Bullo. Un procedimento che mira a ottenere la revisione del processo. Tra le carte depositate anche l’ultima sentenza di uno dei tanti processi paralleli aperti sul delitto di Avetrana: l’assoluzione di alcuni dei testimoni che l’accusa considerò «bugiardi» durante il processo principale. Dopo le condanne di primo grado, infatti, la Corte d’appello di Taranto ha assolto tre imputati e in particolare Giuseppe Olivieri: le sue dichiarazioni, ritenute oggi non false, potrebbero rimettere in discussione una serie di elementi che portarono alla condanna di Sabrina e Cosima. E, oltre dodici anni dopo la morte di Sarah, riaprire tutto.

Sarah Scazzi. Chi l’ha uccisa e com’è avvenuto il delitto di Avetrana. Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Sarah Scazzi è morta a 15 anni, protagonista di uno dei casi più sconvolgenti e nebulosi della cronaca nera: il delitto di Avetrana. Chi l’ha uccisa e come è stato commesso l’omicidio

Il caso Sarah Scazzi, consegnato alle pagine della cronaca nera come “il delitto di Avetrana“, è uno dei capitoli più scioccanti che l’Italia ricordi. Ancora ragazzina, nel fiore dei suoi spensierati 15 anni, è stata uccisa in provincia di Taranto nel 2010, il suo cadavere gettato in un pozzo e 3 componenti della famiglia arrestati, processati e condannati nell’alveo delle indagini sull’agghiacciante omicidio. Due di loro, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, madre e figlia rispettivamente zia e cugina della vittima, all’ergastolo perché ritenute le assassine della piccola. Oggi scontano la loro pena nella stessa cella.

Michele Misseri, personaggio tanto centrale quanto controverso nel tessuto familiare e in quello dell’inchiesta sulla morte di Sarah Scazzi, è il marito e padre delle due donne. Inizialmente autoaccusatosi del delitto e di aver abusato della vittima dopo la sua morte, ha chiamato in correità la figlia, salvo poi ritrattare innescandone l’arresto e finendo poi per assumere il profilo di inattendibilità agli occhi della giustizia. Misseri è stato infine condannato per il solo occultamento del corpo. Ancora oggi continua a sostenere la propria colpevolezza dichiarandosi l’assassino, non creduto dagli inquirenti, nel tentativo di restituire alle congiunte l’immagine di innocenti e vittime di un colossale errore giudiziario. Versione completamente demolita nei tre gradi di giudizio a loro carico.

Sarah Scazzi è scomparsa il 26 agosto 2010 ad Avetrana mentre, secondo quanto dichiarato da Sabrina Misseri nelle prime fasi dell’inchiesta, percorreva il tragitto tra la casa in cui viveva con la madre, Concetta Serrano (sorella di Cosima), e quella dei Misseri. Un percorso che avrebbe dovuto compiere in pochi minuti per poi trascorrere un pomeriggio al mare. Dopo settimane di appelli della famiglia, di apparizioni televisive di zii e cugina per ritrovarla, l’inaspettata svolta.

Il 7 ottobre dello stesso anno, 42 giorni dopo l’inizio del giallo di Sarah Scazzi, il corpo della 15enne sarebbe stato recuperato da un pozzo di contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana, indicato dallo zio Michele Misseri nel corso di una agghiacciante confessione. Messo alle strette dagli inquirenti, dopo aver simulato il ritrovamento fortuito del telefonino della nipote, avrebbe rivelato di essersi disfatto del cadavere dopo aver commesso l’omicidio nel garage della sua abitazione lo stesso giorno della sparizione. Ma non solo: Michele Misseri avrebbe inizialmente confessato una violenza sessuale post mortem ai danni della vittima poi smentita dalle indagini.

Pochi giorni più tardi, il 15 ottobre, Michele Misseri ha chiamato in correità la figlia Sabrina, accusandola di aver ucciso Sarah Scazzi e attribuendosi il solo occultamento. Versione confermata e cristallizzata in incidente probatorio. A dicembre dello stesso anno, Misseri ha cambiato ancora versione dicendosi colpevole dell’intera azione omicidiaria, dal delitto alla soppressione del cadavere. Nel maggio 2011, dopo l’arresto di Sabrina Misseri, lo stesso provvedimento ha raggiunto Cosima Serrano, madre della giovane e moglie di Michele Misseri. Entrambe accusate di aver ucciso la 15enne, nel 2017 sono state condannate in via definitiva all’ergastolo. 8 anni di reclusione, invece, allo zio di Sarah Scazzi ritenuto responsabile dell’occultamento.

L’autopsia sul corpo di Sarah Scazzi avrebbe fatto emergere un dato: la ragazzina sarebbe stata strangolata con una cintura e il decesso sarebbe subentrato nel giro di pochi minuti, 2 o 3 riporta la deposizione del medico legale in aula, per asfissia. L’esame autoptico avrebbe escluso segni di violenza sessuale, nulla che rimandasse a quell’abuso di cui Michele Misseri si era autoaccusato nell’immediatezza della sua versione da reo confesso per l’omicidio e la soppressione del corpo della nipote.

Secondo la ricostruzione consacrata nei tre gradi di giudizio a carico di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, a uccidere la 15enne sarebbe stata l’azione di entrambe. Una l’avrebbe trattenuta in quel garage, immobilizzandola, l’altra l’avrebbe strangolata. Michele Misseri, assente sulla scena al momento del delitto, sarebbe stato coinvolto in un secondo momento per il trasferimento del corpo nel sito in cui poi sarebbe stato ritrovato. Il movente dell’omicidio, stando a quanto emerso, sarebbe da rintracciare nella presunta gelosia di Sabrina Misseri per l’amicizia tra la cugina Sarah Scazzi e un giovane di cui era invaghita, Ivano Russo. 42 giorni dopo l’inizio del giallo di Avetrana, l’epilogo intorno a cui, ancora oggi, sinistri interrogativi abbondano tra le letture collaterali alla cronaca giudiziaria. 

Claudio Scazzi chi è. Fratello di Sarah Scazzi, “Mia sorella si poteva salvare”. Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Claudio Scazzi, fratello di Sarah Scazzi, ha lottato con tutte le sue forze per dare verità e giustizia alla sorella 15enne uccisa ad Avetrana nel 2010

Claudio Scazzi continua a pensare che sua sorella potesse essere salvata. Il fratello di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa nel 2010 ad Avetrana, ha sempre portato avanti una linea di grande discrezione e cautela nonostante i terribili risvolti dell’omicidio che ha cambiato per sempre la sua vita e quella della loro famiglia. Ma non solo: un caso che ha fatto implodere un altro nucleo familiare, quello dei suoi zii Cosima Serrano (sorella della madre di Claudio e Sarah Scazzi, Concetta) e Michele Misseri.

In carcere, accusate di aver commesso il delitto e condannate all’ergastolo, si trovano Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, coinvolte nell’inchiesta dopo le rivelazioni di Michele Misseri che, inizialmente autoaccusatosi del crimine, avrebbe ritrattato una prima volta chiamando in correità quest’ultima. L’uomo è stato condannato a 8 anni di reclusione perché ritenuto responsabile del concorso nell’occultamento del cadavere di Sarah Scazzi, trovato in un pozzo di contrada Mosca 42 giorni dopo la scomparsa. Ancora oggi, secondo Claudio Scazzi, sono tanti i dubbi che gravitano intorno al caso passato alle cronache come “il delitto di Avetrana“.

Claudio Scazzi è il fratello maggiore di Sarah Scazzi, figlio di Concetta Serrano – sorella di Cosima, una delle due donne condannate per l’omicidio della figlia minore – e di Giacomo Scazzi. Da anni vive e lavora in Lombardia, mentre la sorella e la madre si trovavano nella provincia di Taranto al momento della scomparsa e del delitto della 15enne. Ogni estate Claudio Scazzi raggiungeva il resto della famiglia al Sud, come prima di quel 26 agosto 2010 quando di Sarah Scazzi si persero le tracce. 42 giorni dopo, il 7 ottobre, lo zio Michele Misseri avrebbe fatto ritrovare il corpo della ragazzina in un pozzo delle campagne di Avetrana, aprendo così a uno degli orrori più sconvolgenti della cronaca nera italiana.

Da allora, Claudio Scazzi e i genitori hanno intrapreso una lunga e coraggiosa battaglia per la verità, per quella giustizia che sarebbe arrivata, anni più tardi, con la condanna in via definitiva di due membri della loro famiglia – la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri – per omicidio volontario e di un terzo, Michele Misseri, ritenuto colpevole dell’occultamento del corpo. Le due donne all’ergastolo, oggi scontano la pena nel carcere di Taranto e condividono la cella, l’uomo a 8 anni di reclusione.

Non ha dubbi Claudio Scazzi, quando parla ai microfoni della tv, come nell’ultima intervista rilasciata a Quarto Grado, per sostenere che sua sorella abbia avuto giustizia e che l’esito dell’iter processuale a carico dei loro parenti sia corretto. Ma non ha dubbi neppure sul fatto, come ha detto a Gianluigi Nuzzi nella stessa trasmissione di Rete 4, che Sarah Scazzi “si poteva salvare”. La “grande colpa” dei parenti condannati per l’omicidio, secondo il giovane, sarebbe quella di “non averla soccorsa”.

Claudio Scazzi ha dichiarato inoltre di provare un mix di sentimenti verso le persone ritenute colpevoli della morte di Sarah Scazzi. A fasi alterne, nel difficilissimo percorso di elaborazione del lutto che ha travolto la sua famiglia, ma continua a dirsi sereno sulla bontà dell’azione degli inquirenti. Ogni pista e ogni traccia, secondo il suo punto di vista, sono state vagliate fino ad arrivare alla sentenza. Dal canto loro, Cosima Serrano e Sabrina Misseri continuano a dirsi innocenti mentre Michele Misseri, a più riprese, sarebbe tornato a limare la sua versione dei fatti attribuendosi nuovamente la totalità dei reati sul caso Scazzi, dall’omicidio all’occultamento del cadavere. Una posizione ritenuta inattendibile dalla giustizia.

Ai microfoni del quotidiano Il Giorno, Claudio Scazzi ha ripercorso le durissime tappe della vicenda personale e giudiziaria attraversata dopo la morte della sorella. L’omicidio di Sarah Scazzi è avvenuto nel 2010: la 15enne, data per scomparsa il 26 agosto di quell’anno, sarebbe stata ritrovata senza vita in un pozzo il 7 ottobre successivo su indicazione dello zio Michele Misseri. L’uomo inizialmente autoaccusatosi del delitto e di aver abusato della piccola dopo il decesso.

Claudio Scazzi ha visto sua sorella per l’ultima volta poco prima del 26 agosto e hanno trascorso insieme la mattinata prima che lui tornasse ai suoi impegni lavorativi al Nord Italia: “Ci siamo salutati in casa con la promessa di telefonarci…”. Poi il dramma e un grandissimo interrogativo: perché? Secondo l’accusa a carico di Sabrina Misseri, questa sarebbe stata gelosa del rapporto di confidenza tra la cugina 15enne e Ivano Russo, un giovane del posto su cui aveva investito parecchie aspettative sentimentali. Non ricambiata, Sabrina Misseri avrebbe covato un livore tale che, sul finire di quella estate, avrebbe agito contro la minore con la complicità della madre prima, durante l’azione omicidiaria, e poi del padre nella fase di occultamento del corpo.

Michele Misseri chi è. Zio di Sarah Scazzi, le versioni e la condanna (Delitto di Avetrana). Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Michele Misseri è lo zio di Sarah Scazzi, autoaccusatosi dell’omicidio della 15enne prima di chiamare in correità la figlia Sabrina Misseri e cambiare ancora rotta: le versioni e la condanna

Figura chiave nel caso Sarah Scazzi, Michele Misseri, zio della 15enne uccisa ad Avetrana nel 2010, inizialmente si è autoaccusato dell’omicidio prima di chiamare in correità la figlia, Sabrina Misseri, e attribuirle l’esecuzione materiale del delitto. Una girandola di versioni contrastanti che l’uomo ha concluso atterrando sulla sua posizione di reo confesso, non creduto dagli inquirenti e perciò condannato a processo per il solo occultamento del cadavere: 8 anni di reclusione.

Michele Misseri, dopo aver trascinato il nome della figlia minore Sabrina nel fuoco dell’inchiesta, avrebbe poi cercato di “ripulirla” ma il suo continuo cambio di rotta non ha convinto la giustizia. La giovane e sua madre, Cosima Serrano, sono state condannate all’ergastolo in via definitiva per il delitto di Avetrana. Oggi scontano la pena nella stessa cella del carcere di Taranto mentre il congiunto, rispettivamente loro padre e marito, avrebbe iniziato un percorso propedeutico al ritorno in libertà. Michele Misseri che dice tutto e il contrario di tutto, con quel linguaggio claudicante come le certezze che ha iniettato nell’opinione pubblica e tra le carte dell’inchiesta attraverso le molteplici declinazioni del suo racconto. Una condanna lieve e una sola etichetta: inattendibile.

Michele Misseri è lo zio di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto 2010 e trovata senza vita in un pozzo delle campagne locali, in contrada Mosca, 42 giorni più tardi su sua indicazione. Dopo aver simulato il fortuito ritrovamento del cellulare della piccola, Misseri avrebbe confessato agli inquirenti, in lacrime, di averla uccisa strangolandola nel garage della sua casa con una corda e di averne poi gettato il corpo nel luogo del successivo ritrovamento. Non prima, secondo la sua iniziale versione datata 6 ottobre 2010, di aver consumato un rapporto sessuale con il cadavere della nipote. Uno scenario agghiacciante, l’alba di una serie di dichiarazioni e ritrattazioni tra mea culpa, chiamate in correità a carico della figlia Sabrina Misseri e colpi di scena.

Michele Misseri ha sposato la zia di Sarah Scazzi, Cosima Serrano, sorella della madre della 15enne Concetta Serrano, e con la famiglia della piccola avrebbe sempre avuto un rapporto che può dirsi “normale”. Nulla, di quelle presunte attenzioni sessuali per la nipote di cui si era autoaccusato dopo i fatti di Avetrana, avrebbe mai fatto capolino tra i sospetti dei parenti. Il rapporto coniugale dei Serrano-Misseri sarebbe stato, però, tutt’altro che pacifico. Secondo quanto ricostruito e sottolineato dalla stessa figlia Sabrina, secondogenita dei due dopo la nascita di Valentina Misseri, la coppia avrebbe condotto una vita piuttosto lontana da quello che può definirsi un matrimonio sereno. Continue liti, letti separati e una sola occasione di condivisione: il lavoro nei campi. Agricoltore esperto, Michele Misseri sarebbe stato spesso affiancato dalla moglie nelle mansioni in campagna e, per un certo periodo di tempo, è stato emigrato in Germania con la famiglia. Poi il ritorno in iIalia, con una bella villetta al civico 22 di via Deledda, nel cuore di Avetrana…

Michele Misseri ha fornito un tantacolare racconto del delitto di Avetrana, senza essere creduto se non per la sua dichiarata responsabilità in ordine alla soppressione del cadavere della piccola Sarah Scazzi. Reato di cui è stato riconosciuto colpevole a giudizio e che gli è valso una condanna a 8 anni di carcere. La moglie Cosima Serrano e la loro figlia minore, Sabrina Misseri, scontano l’ergastolo a Taranto. Il 6 ottobre 2010 la prima versione di Michele Misseri: vede Sarah Scazzi arrivare a casa loro il 26 agosto per andare al mare con la cugina Sabrina, la piccola va in garage dove lui, alle prese con la sistemazione del suo trattore, tenta un approccio sessuale e, rifiutato, colto da un raptus aggredisce la nipote alle spalle e la strangola con una corda. Mette il cadavere nel portabagagli della sua auto e va in campagna, spoglia il corpo e consuma un atto sessuale post mortem prima di gettarlo in un pozzo in contrada Mosca.

Il 15 ottobre 2010 nuova versione di Michele Misseri sull’omicidio di Sarah Scazzi, per la prima volta l’uomo accusa la figlia Sabrina: la nipote giunge a casa loro e Sabrina Misseri la costringe in garage. L’obiettivo, concordato precedentemente tra padre e figlia, è dare una lezione alla 15enne perché non riveli le presunte attenzioni sessuali che riceve dallo zio. Sabrina tiene Sarah per le braccia e Michele Misseri la strangola. Impaurita la figlia si allontana e lui, da solo, si disfa del corpo. Ai primi di novembre nuovo cambio di rotta con Michele Misseri che afferma una nuova ricostruzione del delitto di Avetrana: Sabrina e Sarah stanno per andare al mare ma litigano all’arrivo della minore, forse per la gelosia della figlia di Misseri nei confronti di un amico comune, Ivano Russo. La ragazza trascina la cuginetta in garage, la lite si traduce in azione omicidiaria con Sabrina Misseri che strangola Sarah Scazzi con una cintura. Sabrina Misseri sveglia suo padre, che dorme al piano superiore, e gli lascia in mano la situazione, confidando nel fatto che sarà lui a occultare il cadavere mentre lei andrà in spiaggia con un’amica. A fine novembre del 2010, Michele Misseri offre un’altra declinazione sugli eventi: ritratta l’abuso sul cadavere e conferma le accuse alla figlia Sabrina, attribuendosi la sola fase di occultamento. Dal febbraio 2011, e per tutto il processo, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi dell’intera esecuzione dell’omicidio e, con una serie di lettere, cerca di scagionare moglie e figlia. Tentativo reiterato più volte, per altrettante caduto nel vuoto. 

Cosima Serrano, chi è: zia di Sarah Scazzi. “Regista delitto Avetrana”: ergastolo, lei… Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Cosima Serrano, chi è? Zia di Sarah Scazzi sta scontando la condanna all’ergastolo per il suo delitto insieme alla figlia Sabrina Misseri: le accuse

Cosima Serrano sta attualmente scontando la condanna all’ergastolo per l’omicidio della nipote Sarah Scazzi, nel carcere di Taranto, insieme alla figlia Sabrina Misseri. Le due donne sono state considerate dalla giustizia italiana le assassine della 15enne di Avetrana e condannate al carcere a vita, in via definitiva, nel 2017. Un’accusa gravissima rispetto alla quale la donna, sorella di Concetta, mamma di Sarah, ha sempre negato un suo coinvolgimento, scagionando anche la figlia minore dalla medesima accusa.

La nipote Sarah Scazzi fu uccisa il 26 agosto 2010 ed occultata in un pozzo, sempre secondo l’accusa, da Michele Misseri, marito della donna. I due coniugi, entrambi agricoltori, da giovani erano emigrati in Germania per poi fare ritorno in Puglia. Marito e moglie accolsero da sempre la piccola nipote in casa, con la quale avevano un rapporto molto stretto e della quale parlavano come una terza figlia. Tuttavia, dopo la scomparsa della 15enne ed il ritrovamento del corpo senza vita, agli inquirenti iniziò ad essere sempre più chiaro che quello di Avetrana non poteva che essere che un delitto avvenuto in famiglia. Dopo le dichiarazioni di Michele Misseri che prima si autoaccusò del delitto per poi cambiare versione e coinvolgere la figlia Sabrina, a distanza di pochi mesi dall’arresto di quest’ultima anche la madre Cosima Serrano fu arrestata il 26 maggio 2011 con l’accusa di concorso in omicidio e sequestro di persona.

Ad incastrare Cosima Serrano sarebbe stata l’analisi dei tabulati del suo cellulare che avrebbe effettuato una chiamata dal garage, sebbene la stessa avesse dichiarato di non essersi mai recata in tal luogo nel pomeriggio della scomparsa della nipote Sarah Scazzi. Il 10 gennaio 2012 prese il via il processo a carico di Cosima Serrano e della figlia Sabrina Misseri, entrambe condannate all’ergastolo. Pena confermata dalla Corte d’assise d’Appello di Taranto il 27 luglio 2015, ed infine in Cassazione il 21 febbraio 2017. Secondo gli ermellini, mamma e figlia avrebbero ucciso Sarah Scazzi strangolandola con una cintura. Per la Cassazione Sabrina e mamma Cosima sarebbero state le “uniche due persone presenti in casa” al momento del delitto. In terzo grado fu negato uno sconto di pena alla Serrano in quanto, ritenuta una donna matura, invece di intervenire a placare “l’aspro contrasto sorto” tra la figlia – all’epoca dei fatti 22enne – e la nipote, “si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente alla fase commissiva del delitto”.

Il 18 marzo 2018 andò in onda su Rai3 l’intervista di Franca Leosini a Sabrina Misseri e Cosima Serrano durante Storie Maledette. Le due donne fornirono la loro versione dei fatti dicendosi ancora una volta estranee al delitto della 15enne. Durissime le parole dell’avvocato Nicodemo Gentile, legale della famiglia Scazzi, che intervenendo ai microfoni di ‘Legge o Giustizia”, trasmissione condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, definì Cosima “l’assoluta regista” del caso. “La donna tra l’altro si è sempre sottratta agli interrogatori e agli esami, ma adesso vediamo che in televisione parla”, aveva contestato. 

Sabrina Misseri chi è, cugina di Sarah Scazzi.  Ergastolo per il delitto di Avetrana. Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi e condannata all’ergastolo per il delitto di Avetrana: per tre gradi di giudizio uccise la 15enne insieme alla madre

Sabrina Misseri è una delle principali protagoniste del caso di Avetrana, nel quale perse la vita Sarah Scazzi. Cugina di primo grado della 15enne, è stata direttamente coinvolta nelle indagini fino alla sua condanna. La Corte di Cassazione nel 2017 l’ha riconosciuta colpevole dell’omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e condannata all’ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano, zia di Sarah. Per la giovane vittima, Sabrina, all’epoca dei fatti 22enne, non era solo una cugina ma anche un’amica, nonostante la differenza di età.

Il giorno della scomparsa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi si era recata proprio in casa di Sabrina Misseri, a poche centinaia di metri dalla sua abitazione. Con un’amica sarebbero dovute andare al mare ma della 15enne si persero per sempre le tracce. Sin dal principio Sabrina e la sua famiglia sostenne con forza, anche durante svariate interviste tv, la tesi del rapimento della giovane cuginetta. Una tesi in realtà poco credibile anche alla luce delle condizioni economiche modeste della famiglia Scazzi. Mentre le indagini andavano avanti, il padre di Sabrina, Michele Misseri, fece prima ritrovare il cellulare della nipote, poi confessò di essere lui il colpevole facendo ritrovare il corpo di Sarah Scazzi.

Nel frattempo gli inquirenti che indagavano sull’omicidio di Sarah Scazzi avevano iniziato a nutrire dubbi anche sulla posizione di Sabrina Misseri e ben presto il padre coinvolse la figlia nel delitto di Avetrana. Il 16 ottobre 2010, dopo un interrogatorio, Sabrina Misseri fu arrestata con l’accusa di concorso in omicidio. Gli inquirenti tentarono di far luce anche sul possibile movente avanzando la gelosia della ragazza nei confronti della cugina Sarah per via delle attenzioni che Ivano Russo – di cui Sabrina sarebbe stata innamorata – riservava alla 15enne. Proprio nei primi giorni di agosto, infatti, Sabrina ed Ivano avevano consumato un rapporto sessuale, poi interrotto per volontà del ragazzo e per il timore che la loro amicizia potesse interrompersi.

Un episodio, questo, che secondo le indagini sarebbe stato confidato alla cugina Sarah Scazzi e da quest’ultima spifferato ad altri, dando adito a maldicenze sul conto della Misseri. Le voci, giunte anche all’orecchio di Ivano, portarono quest’ultimo a interrompere i rapporti con Sabrina pochi giorni prima del delitto della cugina. Proprio l’astio di Sabrina verso Sarah sarebbe stato il movente dell’omicidio. Il processo di primo grado a carico di Sabrina Misseri e della madre Cosima si aprì a Taranto il 10 gennaio 2012 e si concluse oltre un anno dopo con la condanna all’ergastolo. Pene confermate anche in Appello il 27 luglio 2015 e poi in Cassazione il 21 febbraio 2017, rendendo le condanne definitive.

Ivano Russo chi è. Movente delitto Avetrana conteso da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi. Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Ivano Russo, chi è e qual è stato il suo ruolo nel delitto di Avetrana? Considerato il movente involontario dell’omicidio, conteso da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi

Ivano Russo era un giovane 26enne all’epoca del delitto di Avetrana, nel quale perse la vita la 15enne Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e la cugina Sarah avevano conosciuto il giovane cuoco di Avetrana solo pochi mesi prima (nel dicembre 2009) di quel drammatico 26 agosto 2010. Fra i tre era nata subito una forte amicizia nonostante la giovane età di Sarah. Nei confronti del ragazzo però Sabrina sin da subito manifestò un certo interesse che scaturì in un rapporto sessuale a metà, confermato dallo stesso Ivano ed avvenuto i primi giorni di agosto, poco prima del delitto di Sarah. Fu però il ragazzo a fermarsi, onde evitare che la loro amicizia potesse andare oltre. Di quanto avvenuto tra loro, Sabrina lo confidò alla cugina che evidentemente lo spifferò ad altri. Il pettegolezzo ben presto arrivò anche all’orecchio di Ivano Russo il quale decise di troncare definitivamente con la Misseri. Questo, secondo l’accusa, contribuì ad alimentare l’astio di Sabrina verso la cugina.

Quando Michele Misseri cambiò versione accusando del delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina, fornì involontariamente anche il movente dell’omicidio, ovvero la gelosia. Sabrina e Sarah, infatti, si erano invaghite del medesimo ragazzo. La 15enne infatti era stata rimproverata dalla cugina 22enne per via del suo avvicinamento troppo malizioso a Ivano Russo. La sera prima del delitto, il 25 agosto, le due cugine litigarono proprio per questa ragione.

All’epoca dei fatti il 26enne Ivano Russo fu più volte sentito dagli inquirenti mentre la stampa continuava a dargli la caccia: “Voi giornalisti mi perseguitate, addirittura i paparazzi mi vengono dietro, vorrei chiedere di lasciarmi in pace. C’è un limite a tutto”, si sfogò il giovane in una intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno.

In merito al rapporto con Sarah Scazzi, Ivano Russo sostenne che tra loro vi era solo un’amicizia disinteressata: “Sarah per me era una tenera amica poco più di una bambina e non sapevo quali fossero i suoi sentimenti sul mio conto: questa è stata la mia unica colpa”, disse, come rammenta il Corriere della Sera. Nel corso del processo ovviamente fu sentito anche lui, considerato il movente involontario dell’omicidio. “Il giorno del delitto o il giorno dopo Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo”. Ivano fu indagato nell’inchiesta bis (insieme a sua madre, suo fratello e una ex fidanzata) per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza alla Corte d’assise. Nel gennaio 2020, a dieci anni dal delitto, Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato “conteso” da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi è stato condannato a 5 anni per falsa testimonianza. Nel giugno 2021 sono state annullate le condanne per Michele Misseri, zio della vittima, e Ivano Russo nell’ambito del processo sui depistaggi e falsi testimoni legato all’omicidio di Sarah Scazzi.

Caso Scazzi, Ivano Russo ha mentito ma il reato è prescritto. Depositate le motivazioni della sentenza al processo «Sarah bis» presso la corte d'appello di Taranto. Assolti Scredo, Serrano e Olivieri. Francesco Casula su La Gazzetta del mezzogiorno il 28 Agosto 2022.

Ivano Russo ha mentito nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, ma il reato è prescritto. È quanto si legge sostanzialmente nelle motivazioni della sentenza, e mai pubblicate finora, con la quale la corte d’appello di Taranto ha dichiarato prescritto il reato nei suoi confronti. Il procedimento, ribattezzato dalla stampa «Sarah bis», al termine del processo di primo grado aveva portato alla condanna a 5 anni di carcere per Russo e ad altre 10 condanne: erano tutti testimoni nelle indagini e nel processo per l’omicidio della 15enne uccisa e gettata in pozzo delle campagne di Avetrana il 26 agosto 2010. Favoreggiamento era l’ipotesi di reato nei confronti di Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato al centro della contesa tra Sarah e la cugina Sabrina Misseri condannata definitivamente all’ergastolo insieme con la madre, Cosima Serrano, per l’omicidio della 15enne: per la procura ionica aveva ricostruito «in modo reticente e difforme dal vero» i suoi rapporti con le due ragazze cercando «di non fare emergere il particolare interesse sentimentale che Sabrina aveva nei suoi confronti e l’interesse sentimentale che la Scazzi aveva maturato sempre nei suoi confronti» e anche il «contrasto nato tra le due cugine».

Dalle motivazioni emerge che per lui, come per altri sei imputati, la corte ha accertato anche in secondo grado «la chiara falsità delle dichiarazioni rese» che «certamente non depongono per la chiara evidenza dell’innocenza». Ed è per questo che i giudici hanno dichiarato per loro la prescrizione del reato. Sono invece stati assolti da ogni accusa Anna Scredo, Giuseppe Serrano e Giuseppe Antonio Olivieri. Proprio «assoluzione» di quest’ultimo potrebbe essere un elemento importante per i difensori di Sabrina e Cosima, gli avvocati Franco Coppi, Nicola Marseglia e Lorenzo Bullo, che hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dopo la conferma della condanna in Cassazione. Per la procura ionica Olivieri aveva mentito sull’orario di servizio di due donne, una delle quali affermò di aver visto Sarah alle 14: un dettaglio fondamentale per la ricostruzione della procura che poi portò alla condanna nei tre gradi di giudizio delle due donne. La sentenza della Corte d’appello, però, ora afferma che Olivieri in realtà non ha mentito: in sostanza i giudici hanno chiarito che lui avrebbe indicato una fascia oraria durante la quale lavoravano le donne e quindi non un orario preciso visto che in quei momenti non era con loro. 

Anche i magistrati della Corte d’appello ammettono che Olivieri ha sottoscritto durante le indagini preliminari «dichiarazioni apparentemente diverse da quelle poi rese a dibattimento» aggiungendo anche «di non aver detto ai carabinieri di un preciso orario di lavoro delle donne, ma reputa la Corte esservi un ragionevole dubbio sul reale tenore delle sommarie informazioni testimoniali verbalizzate e, dunque, sull’effettiva discrasia rilevata dalla pubblica accusa». In sostanza per i giudici di secondo grado «non v’è stata – si legge nella sentenza – da parte dell’Olivieri, la volontà di smentire le affermazioni delle due lavoratrici, ma solo di precisare che, più che di un orario fisso di servizio, si trattava di una fascia oraria nella quale, essendo chiuso il locale, le due donne si autogestivano». Un dettaglio non di poco conto per i difensori di Sabrina e Cosima che dopo la sentenza definitiva della Cassazione hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere una revisione del processo. Per gli avvocati Franco Coppi, Lorenzo Bullo e Nicola Marseglia, questo nuovo elemento potrebbe contribuire a chiarire i dubbi rispetto all’orario effettivo in cui Sarah è uscita di casa per raggiungere l’abitazione di Sabrina e quindi, verosimilmente, il luogo e anche gli autori di quel delitto.

Sarah Scazzi, delitto di Avetrana. Cos’è successo: feroce omicidio e caso mediatico… Silvana Palazzo su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Sarah Scazzi, cos’è successo nel delitto di Avetrana: un feroce omicidio diventato un caso mediatico. Dalla scomparsa alla vicenda giudiziaria conclusasi con condanne all’ergastolo

Il delitto di Avetrana diventerà una serie tv, a ulteriore conferma dell’interesse mediatico per il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi. Del resto, resta impresso nella memoria collettiva l’annuncio del ritrovamento del cadavere della ragazza in diretta tv, durante il programma Rai “Chi l’ha visto?“, dove era ospite in collegamento la madre, Concetta Serrano Spagnolo. La vicenda si è ufficialmente conclusa il 21 febbraio 2017, quando la Cassazione ha riconosciuto colpevoli Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima, confermando la condanna all’ergastolo già inflitta in primo grado e in appello. Invece Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove per il furto del cellulare della nipote. Carmine Misseri, fratello di Michele, è stato condannato definitivamente a 4 anni e 11 mesi di carcere per concorso in occultamento di cadavere. La Cassazione ha confermato anche la condanna a un anno e 4 mesi per favoreggiamento personale per Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri, e Giuseppe Nigro. 

Il caso si aprì il 26 agosto 2010, quando venne denunciata la scomparsa della 15enne, uscita di casa per raggiungere casa della cugina con cui sarebbe dovuta andare al mare. Inizialmente le indagini si orientarono verso una fuga della ragazza o su un rapimento a opera di un uomo che avrebbe adescato Sarah Scazzi su Facebook. Il 29 settembre fu ritrovato il suo cellulare dallo zio Michele Misseri il quale affermò di essere in grado di trovare la nipote, attirando i sospetti su di sé.

Il 6 ottobre Michele Misseri, dopo un interrogatorio di nove ore, confessò l’omicidio della nipote, riferendo di aver ucciso Sarah Scazzi dopo un tentativo di stupro, quindi indicò il luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Ma sono seguite diverse ritrattazioni della confessione iniziale, fino al 15 ottobre, quando conflerò il coinvolgimento della figlia Sabrina Misseri, il cui movente sarebbe stato la gelosia per le attenzioni che la cugina riceveva da Ivano Russo, di cui Sabrina, secondo la tesi della Procura, sarebbe stata innamorata. Mentre Michele Misseri ritrattava le versioni, attribuendo la responsabilità dell’omicidio solo alla figlia, venne arrestata anche la moglie Cosima Serrano, accusata di concorso in omicidio, mentre la figlia di omicidio volontario, reati per i quali sono state condannate all’ergastolo. Secondo la ricostruzione della Cassazione nelle motivazioni della sua sentenza Sarah Scazzi è stata strangolata con una cintura: una donna l’avrebbe soffocata da dietro, l’altra avrebbe inibito ogni tentativo di difesa. Dopo la morte della ragazzina, il corpo sarebbe stato portato in garage e poi fatto sparire da Michele Misseri con l’aiuto del fratello e del nipote.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Delitto Avetrana: battaglia per revisione condanna. Marta Duò su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cosa fanno oggi le donne condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, noto come delitto di Avetrana: battaglia per permessi e revisione condanna

Il delitto di Avetrana, l’omicidio della 15enne Sarah Scazzi che verrà ripercorso questa sera dal programma Quarto Grado, è un caso che ha tenuto col fiato sospeso l’Italia intera e che si è chiuso con le condanne all’ergastolo per omicidio volontario la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano per concorso in omicidio, mentre Michele Misseri invece è stato condannato a 8 anni per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove. Il sospetto di coinvolgimento della cugina Sabrina emerse durante le prime fasi delle indagini. All’inizio, gli investigatori presero in considerazione il possibile movente della gelosia: forse Sabrina era gelosa delle attenzioni che Sarah riceveva da un cuoco di Avetrana, Ivano Russo. L’uomo, di 27 anni, avrebbe avuto una relazione con Sabrina ma allo stesso tempo avrebbe dedicato molte attenzioni a Sarah, decidendo infine di troncare ogni rapporto con la cugina maggiore. Da sempre, Sabrina Misseri ha respinto qualsiasi accusa di gelosia nei confronti di Sarah e nega di aver avuto un violenti litigio con lei il giorno in cui fu denunciata la scomparsa di Sarah. Ma è stata riconosciuta colpevole, proprio come la madre, in ogni grado di giudizio.

Il 21 febbraio 2017 la Corte di Cassazione, infatti, ha confermato la condanna all’ergastolo stabilendo che “il delitto doveva ascriversi a due persone da identificare nelle imputate” e definendo una dinamica secondo cui “l’omicidio era stato consumato mediante strangolamento”. Poiché sul corpo di Sarah Scazzi non erano stati rinvenuti “segni di lotta o legati al tentativo di allentamento della cintura stretta al collo, come reazione istintiva al soffocamento che si stava compiendo”, quel terribile omicidio “non poteva essere quindi opera di un unico soggetto ma doveva essere avvenuto per effetto del concorso sinergico di due persone, l’una che aveva posto in essere la specifica azione di soffocamento da dietro alla vittima, e l’altra che le aveva inibito ogni tentativo di difendersi”. E, secondo la Cassazione, le “uniche due persone presenti in casa” al momento del delitto erano appunto Sabrina Misseri e Cosima Serrano.

Ad oggi, Sabrina Misseri ha 34 anni ed è stata definita una “detenuta modello” dal legale della madre Cosima. Da 11 anni è detenuta nel carcere di Taranto, dove divide la cella con la madre Cosima Serrano. Con lei ha condiviso anche l’impiego presso la sartoria del centro di detenzione, confezionando tovaglie e corredi di stoffa, ed è attualmente impiegata nel centro estetico dello stesso carcere. Oggi anche Cosima Serrano si trova detenuta nel carcere di Taranto, come la figlia Sabrina, e lavora nella sartoria del carcere. Durante l’emergenza Covid ha confezionato anche mascherine chirurgiche. A causa della sua buona condotta, è possibile che in futuro possa richiedere e ottenere dei permessi speciali per uscire dal centro di detenzione, che non possono essere più di 45 giorni all’anno.

Quarto Grado, 29 luglio 2022/ Anticipazioni e casi: Sarah Scazzi e la strage di Erba

Invece a marzo la Cassazione ha confermato il “no” alla richiesta di Sabrina Misseri di un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto. Per i magistrati il fatto che non abbia ammesso il delitto, sebbene non sia una condizione necessaria per ottenere il permesso premio, indica in lei la mancanza di una “rivisitazione critica” del suo “pregresso comportamento deviante” e quindi attesta la sua pericolosità sociale. Per la difesa di Sabrina Misseri non si è tenuto conto del “positivo percorso penitenziario” compiuto dalla donna e il fatto che lei “rifiuta di assumersi la responsabilità dell’omicidio per il quale è stata condannata” è “un comportamento che non può essere valorizzato per rigettare il permesso premio, istituto finalizzato al favorire il reinserimento sociale” e quindi la decisione sarebbe illegittima, mentre legittima è per il legale la scelta dell’assistita di non assumersi la responsabilità, facendo notare che “la condannata ha proposto ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e intende proporre istanza di revisione della condanna“.

Michele Misseri, delitto di Avetrana. Che fine ha fatto oggi lo zio di Sarah Scazzi. Lorenzo Drigo su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Il ruolo di Michele Misseri nel delitto di Avetrana è stato a lungo dibattuto e soggetto a dubbi. Lo zio di Sarah Scazzi sta contando la sua pena di 8 anni, che dovrebbe concludersi nel 2024

Il caso del delitto di Avetrana oggetto della puntata di questa sera di Quarto Grado in onda su Rete4 i risale al 2010, quando il 26 agosto la ragazzina di 15anni sparì senza lasciare (apparentemente) nessuna traccia. Si pensò subito ad una fuga da parte della giovane, e gli inquirenti si mossero in quella direzione. Tuttavia, il 29 settembre lo zio della ragazzina, Michele Misseri, fece una scoperta importante, rivenendo il suo cellulare semibruciato in un campo nei pressi della sua abitazione.

Marito di Cosima Serrano e padre di Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah Scazzi, fu sospettato dagli inquirenti assieme alla moglie e alla figlia. Inizialmente confessò l’omicidio, salvo poi ritrattare, facendo ricadere la colpa sulla figlia e la ragione dell’omicidio ad un gioco trasformatosi in litigio. A Michele Misseri durante il processo fu riconosciuta una pena di 8 anni di reclusione per aver nascosto il cadavere di Sarah Scazzi e per aver inquinato le prove depistando le indagini. La prima condanna risale al 2013 da parte della Corte d’assise di Taranto che gli confermò gli 8 anni di reclusione, pena confermata anche dopo il ricorso del 2017. Nel 2024 dovrebbe estinguere definitivamente la sua pena, ma il tribunale gli avrebbe recentemente concesso il permesso di iniziare il percorso rieducativo all’esterno della struttura carceraria.

Michele Misseri prima dei tristi eventi del delitto di Avetrana nel quale ha perso la vita Sarah Scazzi, era un uomo piuttosto tranquillo, dedito alla sua famiglia e al suo lavoro da agricoltore. Nato a Manduria (in provincia di Taranto) nel 1954. Sposò Cosima Serrano, sorella di Concetta Serrano, la madre di Sarah Scazzi e dal loro matrimonio nacque Sabrina, cugina di Sarah. La sua implicazione nel delitto di Avetrana è stata a lungo discussa e soggetta ad indagini, confessioni e smentite spesso in disaccordo tra loro.

Dopo il ritrovamento del cellulare di Sarah Scazzi gli inquirenti si insospettirono in merito alla possibile implicazione di Michele Misseri nella sua scomparsa, soprattutto dopo che lui affermò di essere in grado di ritrovare al quindicenne. Il 6 ottobre 2010 Michele Misseri confessò di aver ucciso Sarah in seguito ad un tentativo di stupro, indicando precisamente agli inquirenti il luogo in cui si trovava il cadavere. Pochi giorni dopo ritrattò la confessione, confermando invece l’implicazione di Sabrina nell’omicidio. Da lì seguirono ulteriori ritrattazioni e confessioni, giungendo infine all’accusa di occultamento di cadavere per Michele Misseri.

Insomma, in merito al delitto di Avetrana che ha portato alla morte di Sarah Scazzi per mano della cugina Sabrina Misseri e della zia Cosima Serrano, a Michele Misseri fu riconosciuta l’accusa di occultamento di cadavere. Nel 2013 vennero tutti condannati dalla Corte D’Assise di Taranto, madre e figlia presero l’ergastolo, mentre Michele 8 anni di reclusione. Nel 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la pena a tutti e tre, mentre 2020 il primo grado del secondo processo sul caso ha imputato ulteriori 4 anni di reclusione a Michele Misseri per auto-calunnia, pena poi annullata a causa della prescrizione del reato.

Negli anni di reclusione Michele Misseri si è dimostrato un detenuto modello, tanto da spingere i suoi legali a chiedere a maggio di quest’anno i domiciliari per l’uomo. A quanto riporta Il Fatto Quotidiano, il Tribunale avrebbe negato la richiesta ma emesso un’ordinanza affinché l’uomo cominci un percorso riabilitativo di brevi periodi fuori dalla struttura carceraria. Salvo differenti decisioni che potrebbero arrivare nell’immediato futuro anche in virtù dei permessi concessi a Michele Misseri, a maggio 2024 dovrebbe concludersi definitivamente la sua pena.

Quarto Grado, il fratello di Sarah Scazzi: “Mia sorella non è stata soccorsa in tempo”. Valentina Mericio su Notizie.it il 29 luglio 2022.

A 12 anni dal delitto di Avetrana che sconvolse l'Italia intera, è intervenuto il fratello di Sarah Scazzi. 

Era il 2010 quando il delitto di Avetrana sconvolgeva l’Italia. A 12 anni dalla scomparsa della 15enne Sarah Scazzi, Quarto Grado torna ad occuparsi del caso. Nella puntata di venerdì 29 luglio è intervenuto in studio il fratello di Sarah, Claudio.

L’uomo ha ripercorso alcuni dei momenti più drammatici che hanno portato alla morte della sorella: “Purtroppo mancava la telecamera […]”, ha osservato. 

Claudio Scazzi ha esordito osservando: “Diciamo che il processo non lascia spazi ad ombre e dubbi. È chiaro che non c’era la telecamera quel giorno, non c’era nulla che potesse fissare la scena.

Sono state utilizzate delle prove logiche, dei testimoni…” Ha poi aggiunto: “La ricostruzione secondo me è fatta bene […] purtroppo mancava la telecamera ed era quella l’origine”. 

L’uomo infine ha parlato di cosa prova per la zia e la cugina, Cosima e Sabrina Misseri: “Io per loro in generale, dopo tanti anni, provo un sentimento che è un misto.

Quello che mi ha fatto più male è stato il fatto che non l’hanno soccorsa. L’omicidio, aveva detto il procuratore, è stato d’impeto. Se non ci fosse stato il sequestro fatto preventivamente all’omicidio sarebbe stato al 100% d’impeto. Hanno la grande colpa di non averla soccorsa e rimarranno con il dubbio perenne che si potesse salvare. Sono convinto che se fosse stata soccorsa in tempo poteva essere salvata”. 

"Con questa testimonianza faremo riaprire il caso di Sarah Scazzi". Rosa Scognamiglio il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Gli audio e le intercettazioni del fioraio Giovanni Buccolieri. L'esclusiva del magazine online Fronte del Blog che può "riaprire il caso".

Luci ed ombre di un "giallo" senza fine. A dodici anni dall'omicidio di Sarah Scazzi, uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010, il caso potrebbe essere riaperto. L'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Messeri, la cugina della 15enne condannata all'ergastolo per il delitto con anche la madre e zia della vittima, Cosima Serrano, ha rilasciato una intervista in esclusiva al giallista Rino Casazza del magazine online Fronte del blog rivelando una retroscena clamoroso. Trattasi di audio e documenti inediti che riguardano la testimonianza di Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe visto le due donne (Sabrina e Cosima) il giorno della scomparsa di Sarah.

Sarah, il giallo infinito su Sabrina Misseri: innocente o colpevole?

La prima versione del fioraio

Il fioraio Giovanni Buccolieri è considerato uno dei "testimoni chiave" nel merito delle sentenze di condanna sul delitto di Avetrana. Il giorno 9 aprile 2011, nel corso della prima audizione con il procuratore di Taranto Pietro Argentino e con il sostituto Mariano Evangelista Buccoliero, l'uomo dichiarò di aver visto Cosima Serrano intimare a Sarah di salire a bordo della sua auto: "Moh ha nghianà intra la macchina", sarebbero state le parole della donna. Alla cui guida della vettura, una Opel Astra SW di colore azzurro-grigio, ci sarebbe stata Sabrina Misseri. Il condizionale è d'obbligo in quanto il fioraio riferì di aver notato "una sagoma" che apparteneva "ad una persona di sesso femminile" poiché avrebbe avuto "i capelli più lunghi di quelli che porta un uomo e soprattutto erano legati all'indietro e di colore scuro". Nella circostanza della medesima audizione Buccolieri aggiunse, altresì, di aver avuto il dubbio che il racconto fosse frutto di una narrazione onirica non trovando corrispondenza tra l'orario in cui Sarah sarebbe stata vista per l'ultima volta (tra le 14.25 e le 14.30) con quello in cui egli sarebbe uscito dalla sua abitazione per disbrigare una commissione (pressappoco alle 13.30). Successivamente avrebbe realizzato che i fatti si riferivano al giorno della scomparsa della 15enne: "Sono certo che i fatti a cui ho assistito si riferivano al 26 agosto 2010 - furono le sue parole - perché li ho associati al giorno della scomparsa di Sarah".

"Vi racconto il caso Scazzi. E sentite cosa dice il fioraio..."

Il secondo verbale

Il giorno 11 aprile 2011 Buccolieri fu sentito nuovamente degli inquirenti. Il fioraio confermò solo in parte il contenuto delle dichiarazioni rese due giorni prima circostanziando diversamente la narrazione: "...preciso, però, che si è trattato di un sogno". L'uomo disse di aver raccontato del "sogno" alla moglie, tal Vanessa Cerra, "il giorno dopo" oppure "qualche giorno dopo il ritrovamento di Sarah" e di essersi convinto, invece, che i fatti descritti fossero veritieri "perché erano talmente particolareggiati che potevano corrispondere alla realtà dei fatti". A suo dire, fu poi la moglie ad esortarlo di rivolgersi ai carabinieri. Buccolieri rispose verosimilmente che non sarebbe andato poiché "aveva paura e di essere un soggetto ansioso per cui voleva essere estraneo a tutti i costi alla vicenda" (si legge nel verbale). Al termine della contestazione il pm fece notare al fioraio che le sue dichiarazioni contrastavano con quanto riferito nei giorni precedenti interrompendo l'esame e invitando l'uomo a nominare un difensore denotando alcune incongruità nella sua testimonianza costituenti reato eventuale di falsa testimonianza resa al pubblico ministero (art. 371 bis).

"Ricorso ammissibile". Svolta sul caso di Sarah Scazzi

L'intercettazione chiave

C'è anche una intercettazione che, a detta dell'avvocato Nicola Marseglia, potrebbe riaprire il caso. Si tratta di una conversazione telefonica intercorsa tra il fioraio e la moglie pochi giorni essere stato ascoltato in tribunale. "A me il primo giorno mi hanno fatto l'interrogatorio. - dice Buccolieri rivolgendosi alla moglie -Mi hanno messo in dubbio, mi hanno tartassato tanto per dire quello che loro (gli inquirenti ndr) volevano. Praticamente loro (gli inquirenti ndr) mi hanno fatto raccontare il sogno come se fosse una realtà. Mi hanno suggestionato tutte queste cose queste cosa qua. Io nella notte ho pensato 'ma che ho detto? Perché mi hanno fatto dire tutte queste cose qua?' È stato il mio sbaglio. Mi sono fatto suggestionare e ho raccontato". Come ben precisa il magazine Fronte del blog, al tempo del processo non si è potuta approfondire la questione in quanto Buccolieri, accusato di false dichiarazioni al pm per via della non chiara natura onirica della sua testimonianza, non ha deposto, avvalendosi della facoltà di non rispondere in attesa che il procedimento penale a suo carico si definisse. Dopo che, recentemente, la Cassazione l’ha dichiarato prosciolto per prescrizione del reato, il fioraio ha continuato a confermare la sua versione.

Da leggo.it il 24 marzo 2022.

È stato confermato dalla Cassazione il 'no' alla richiesta avanzata da Sabrina Misseri - condannata all'ergastolo con sua madre Cosima Serrano per aver ucciso la cuginetta 15enne Sarah Scazzi e averne gettato il cadavere in un pozzo nella campagna di Avetrana (Taranto) il 26 agosto 2010 - di ottenere un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto.

Per gli ermellini, il fatto che Sabrina non abbia ammesso il delitto, pur non essendo una condizione necessaria per ottenere il permesso, indica in lei la mancanza di una «rivisitazione critica» del suo «pregresso comportamento deviante» e attesta la sua pericolosità sociale.

Omicidio Sarah Scazzi, la Cassazione nega a Sabrina il permesso di lasciare il carcere. Respinta la richiesta della cugina della vittima. Secondo i giudici è socialmente pericolosa, anche per non aver mai ammesso il delitto. su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2022.

È stato confermato dalla Cassazione il «no» alla richiesta avanzata da Sabrina Misseri - condannata all’ergastolo con sua madre Cosima Serrano per aver ucciso la cuginetta 15enne Sarah Scazzi e averne gettato il cadavere in un pozzo nelle campagne di Avetrana (Taranto) il 26 agosto 2010 - di ottenere un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto.

Per i giudici della suprema corte, il fatto che Sabrina non abbia ammesso il delitto, pur non essendo una condizione necessaria per ottenere il permesso, indica in lei la mancanza di una «rivisitazione critica» del suo «pregresso comportamento deviante» e attesta la sua pericolosità sociale. 

Sabrina Misseri era ricorsa in Cassazione contro l’ordinanza con la quale, il 12 aprile 2021, il Tribunale di Sorveglianza di Taranto aveva condiviso la decisione del magistrato competente di non concederle il permesso premio. Secondo la difesa di Misseri, non era stato tenuto nel giusto conto il «positivo percorso penitenziario» compiuto dalla 34enne di Manduria mettendo in evidenza, invece, il fatto che la donna «rifiuta di assumersi la responsabilità dell’omicidio per il quale è stata condannata».

Per i difensori di Sabrina Misseri, è «legittima» la sua scelta di non assumersi la responsabilità e «d’altra parte», rilevano, «la condannata ha proposto ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e intende proporre istanza di revisione della condanna». «Sicchè - conclude la difesa - è legittimo il comportamento di negazione della responsabilità che non può essere valorizzato per rigettare il permesso premio, istituto finalizzato al favorire il reinserimento sociale».

Ma per la Cassazione il ricorso «è infondato». In particolare ha sottolneato che il Tribunale di Sorveglianza nel negare il  permesso «ha fondato la propria valutazione sulla sostanziale sottrazione al confronto con gli operatori sugli elementi posti a fondamento della sua condanna». «Tale circostanza - spiega la Suprema Corte - legittima l’impossibilità evidenziata nell’ordinanza, di valutare in termini positivi l'incidenza del percorso penitenziario sul giudizio di pericolosità».

«La non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso premio - sottolineano i giudici - non elide la rilevanza da attribuire al comportamento del condannato che risulti indisponibile al tentativo degli educatori di promuovere la riflessione sul vissuto connesso alle sue vicende penali». In conclusione, permane «l'accertata persistente pericolosità sociale» di Misseri.

Sarah Scazzi, Sabrina aveva scelto un ex convento per trascorrere il permesso fuori dal carcere. Domenica 27 Marzo 2022 di Nazareno DINOI su Quotidiano di Puglia.

Se le fosse stato accordato il permesso di lasciare il carcere dove sta scontando l’ergastolo per l’uccisione della cugina, a Sabrina Misseri sarebbe toccato un percorso spirituale nello storico ex monastero di clausura di Taranto «Casa Madre Teresa di Calcutta». Era questa l’opzione proposta per lei dal suo avvocato Nicola Marseglia che con il professore Franco Coppi assiste da sempre la trentaquattrenne di Avetrana protagonista con l’intera sua famiglia Misseri, del fatto di cronaca tra i più cruenti e discussi d’Italia: quello dell'omicidio ad Avetrana della quindicenne Sarah Scazzi per la quale tre corti di giustizia hanno condannato all’ergastolo Sabrina con sua madre Cosima Serrano e a otto anni il padre Michele Misseri. A respingere la richiesta di licenza premio che all’estetista di Avetrana avrebbe permesso di lasciarsi alle spalle, per dieci giorni, le porte del carcere di Taranto dove è rinchiusa dal 15 ottobre del 2010, è stato il Tribunale di sorveglianza di Taranto e infine la Corte di Cassazione.

Il verdetto

Nessuno dei giudici interessati al caso si è convinto dell'assenza della pericolosità sociale di Sabrina che aveva chiesto di trascorrere il periodo delle feste di Natale del 2020 (risale a dicembre di quell’anno la prima istanza respinta), tra le mura del centro di accoglienza gestito dalla diocesi tarantina, «oasi di spiritualità per singoli e gruppi che vogliano trascorrere del tempo in preghiera», così come la pia struttura si presenta sul sito internet del Servizio Informazione Religiosa (Sir). Il luogo spirituale in via della Transumanza donato alla diocesi dalle ultime suore di clausura e inaugurato nel 2017 dall’arcivescovo Filippo Santoro, era stato accordato dagli attivisti dell’associazione di volontariato penitenziario, «Noi e voi onlus», con i quali Sabrina ha rapporti quasi quotidiani nel carcere Carmelo Magli di Taranto. Una scelta ben ponderata dall’avvocato Marseglia consapevole della necessità di dover trovare un luogo estraneo al contesto familiare nell'ambito del quale si è verificato il delitto e che una scelta contraria sarebbe stato motivo di rifiuto del giudice. Tutto inutile perchè la natura del luogo dove trascorrere il permesso, scrivono i giudici della corte suprema nella loro sentenza che respinge la domanda di revisione dell’ordinanza dei giudici di Taranto, «non è decisiva ove si consideri che l'accertata persistente pericolosità sociale preclude qualsiasi valutazione concernente l'idoneità del luogo prospettato per la fruizione del permesso premio». Nei suoi giorni svaniti di libertà Sabrina aveva chiesto di potere incontrare il suo avvocato e i suoi parenti più stretti già abilitati alle visite in carcere. Sua sorella Valentina, per prima, che vive a Roma con il marito e i parenti di parte materna di Avetrana e San Pancrazio Salentino. Naturalmente l’ospite durante la sua permanenza non avrebbe negata qualsiasi supporto richiesto, compresa l’attività di assistenza al gruppo di stranieri di richiedenti asilo che ospitati nella stessa casa famiglia. Desiderio svanito anche per loro.

La condanna

A Sabrina era andata invece bene una precedente richiesta di agevolazioni di pena, sempre curata dall’avvocato Marseglia, grazie alla quale ha ottenuto oltre un anno e quattro mesi di liberazione anticipata per il periodo di detenzione patito dal 15 ottobre 2010 al 15 ottobre 2016. È il riconoscimento di un diritto previsto dall’ordinamento carcerario che in presenza di buona condotta abbuona 45 giorni di detenzione ogni semestre trascorso in carcere. Questo diritto che deve sempre passare attraverso istanze da sottoporre a giudizio del tribunale di sorveglianza, ha fatto già accumulare circa tre anni di anticipo della data di scarcerazione. Secondo questi calcoli, con gli sconti previsti Sabrina ha già consumato quasi 15 anni di pena. L’ergastolo non ostativo come quello che sta scontando lei e sua madre Cosima, prevede che allo scadere dei 26 anni potrebbero lasciare il carcere in regime di libertà vigilata e se nei cinque anni successivi confermano la buona condotta e non commettono reati, a 31 anni scontati potranno tornare libere cittadine.

"Ricorso ammissibile". Svolta sul caso di Sarah Scazzi. Rosa Scognamiglio il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Misseri, a Fronte del blog: "La Corte di Strasburgo ha considerato il nostro ricorso ammissibile".

"La Corte di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il nostro ricorso". Lo rivela l'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Misseri, la giovane di Avetrana condannata all'ergastolo per concorso in omicidio della cugina Sarah Scazzi . "La vicenda - spiega Marsiglia nel corso di un'intervista esclusiva rilasciata a Fronte del Blog - ha avuto un epilogo definitivo se pensiamo ai tre gradi di giudizio e alla irrevocabilità della sentenza di condanna. Partiamo con una prospettiva ancora processuale perché si è in attesa della fissazione dell'udienza di trattazione davanti alla Corte Europea del ricorso che è stato presentato dalla difesa".

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L'ammissibilità del ricorso

Passato in rassegna alle cronache come il "Delitto di Avetrana", l'omicidio di Sarah Scazzi - consumatosi il 26 agosto 2010 nella piccola cittadina in provincia di Taranto - è stato contrassegnato da un lungo e intricato iter processuale. Il 27 febbraio del 2017 la Corte di Cassazione ha confermato l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente la cugina e la zia della quindicenne uccisa, con l'accusa di concorso in omicidio. Otto anni, invece, sono stati inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina, per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove.

A quasi dodici anni dal delitto, si profila all'orizzonte un nuovo colpo di scena. La Corte di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il ricorso per "violazione dei diritti della difesa" presentato dai legali di Sabrina Misseri che ora puntano alla riapertura del caso. "Questo processo non dico che è un unicum, però ha assunto i caratteri dell'eccezionalità. - spiega l'avvocato Nicola Marseglia -Prendendo spunto da alcuni passaggi paradossali di questa vicenda si possono prospettare argomenti che possono valere anche al di là del caso specifico".

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Il "metodo anomalo"

Il difensore di Sabrina Misseri contesta il metodo con cui gli inquirenti hanno operato durante le indagini e nella fase dibattimentale del processo. A detta del legale, infatti, il modus operandi degli operatori di giustizia avrebbe portato "ad una serie di cattive applicazioni della legge prima processuale e poi sostanziale". La svolta nel Delitto di Avetrana ci fu dapprima con il ritrovamento del cellulare di Sarah, a circa un mese dalla scomparsa della giovane, e poi con la prima confessione di "zio Michele" che, nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010, si autoaccusò del dell'omicidio indicando anche il luogo di sepoltura del cadavere, in un pozzo cisterna a Contrada Mosca.

"A un certo punto le indagini hanno una svolta dopo che Michele Misseri fa ritrovare il telefonino della nipote e da questo si arriva a mettere sulla scena in maniera forte e preponderante il Misseri mentre prima la persona su cui erano mirate non solo le indagini, ma proprio i convincimenti degli investigatori era Sabrina Misseri. - precisa Nicola Marseglia - Il più agevole riscontro di quello che dico proviene dal fatto che il 28 settembre Michele Misseri viene ascoltato in relazione al telefonino presso la caserma di Avetrana, e nessuno lo sta ancora pensando. Poi si arriva alla confessione di Michele Misseri, che spiazza gli inquirenti. Da questo momento inizia tutto un lavoro da parte degli inquirenti non solo per capire meglio come sono andate le cose, ma per scavare fino in fondo nella personalità di Misseri".

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Le ritrattazioni di Michele Misseri

Per ben 7 volte, in totale, Michele Misseri fu ascoltato dagli inquirenti fornendo una versione dei fatti talvolta contraddittoria e ambigua. La "confessione chiave", che cioè segnò il corso successivo del procedimento processuale, risale al 15 ottobre 2020 quando il 57enne attribuì alla figlia Sabrina le responsabilità del delitto. "A questo punto si muovono di pari passo il sospetto che Michele Misseri voglia coprire qualcuno e che questa confessione possa essere vera fino a un certo punto. - continua il legale -Inizia qui il metodo abbastanza anomalo per quella che potremo definire la "maieutica inquirente": tirare fuori da Michele Misseri tutto quello che si può, blandendolo e portandolo per mano - tra l'altro è stato provato e straprovato che è una persona che uno la prende per mano e la porta dove vuole - e allora tra quello che dice Michele Misseri e quella che è la convinzione, il pregiudizio degli investigatori si innesta un circuito abbastanza drammatico che ha prodotto la serie di contraddizioni profonde che hanno connotato tutta la fase delle indagini preliminari".

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Gli orari e gli sms

Quel pomeriggio del 26 agosto Sarah avrebbe dovuto recarsi al mare con Sabrina e un'amica, Mariangela Spagnoletti. L'appuntamento fu concordato tra le due cugine tramite uno scambio di sms avvenuto pressappoco alle 14.30. Dieci minuti più tardi - alle 14.42 per l'esattezza - il cellulare della 15enne risultava staccato. A detta di Concetta Serrano Spagnolo, madre della ragazzina, quel giorno Sarah uscì di casa tre quarti d'ora prima dell'orario fissato per l'incontro con la cugina raccattando alla svelta dei teli da spiaggia dalla cantina dopo aver mangiato "in piedi davanti alla cucina" un cordon bleu. "Diventa un muro l'orario di uscita da casa di Sarah Scazzi, diventa un muro la sequenza si messaggi che intercorrono tra Sarah, Sabrina e Mariangela Spagnoletti, una serie di dati oggettivi che mal si conciliano con il pregiudizio che gli investigatori si sono fatti. - spiega Nicola Marseglia - Ecco: qui inizia il metodo investigativo che va bene fino ad un certo punto, poi quando questa distonia tra dichiarazioni ed elementi oggettivi diventa particolarmente profonda interviene qualche forzatura per renderli compatibili".

Gli "errori metodologici"

A detta del legale, dunque, sarebbero stati commessi una serie di "errori metodologici" che presumibilmente avrebbero condizionato l'iter processuale fino alla condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. "Non discuto della buona fede, non mi sognerei nella maniera più assoluta di pensare a qualcosa di diverso che non siano errori metodologici. - conclude Marseglia - Quei testimoni che sono stati sentiti nella fase delle indagini preliminari in maniera abbastanza serrata, articolata e rigorosa alla fine contraddicono la ricostruzione ipotizzata, e allora inizia questo richiamo, questo recupero, questa rivisitazione delle prime e delle seconde dichiarazioni nella ricerca di un percorso finalmente lineare al prezzo di mettere sotto i piedi tutta una serie di dati".

Antonio Giangrande: I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare.

Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.

Centinaia di migliaia di errori giudiziari, in minima parte riconosciuti. E grazie ad Alberto Matano alcuni dei quali portati alla conoscenza del grande pubblico, con il suo programma “Sono Innocente” su Rai tre.

L’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto un libro, così come ha scritto su tutti i principali delitti andati agli onori delle cronache, specialmente a Taranto. Saggi inseriti in un contesto di malagiustizia dove ci sono inseriti esempi di confessioni estorte e di cui si può parlare senza subire ritorsioni. Uno tra tutti: Giuseppe Gullotta. Questi libri fanno parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” che si compone di decine di opere: saggi periodici di aggiornamento temporale; saggi tematici e saggi territoriali. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri. ecc.

Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.

Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.

Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

Dal libro su Sarah Scazzi alla docu-serie di Disney+. La Nazione il 12 settembre 2022.

Dal libro alla docu-serie, fino alla serie internazionale. È questo il percorso di “Sarah. La ragazza di Avetrana”, il libro dei due lucchesi di adozione Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (nella foto). Dopo il successo editoriale dell’opera, pubblicata due anni fa da Fandango Editore, il volume che racconta con spaccati inediti e sorprendenti la triste storia di Sarah Scazzi torna al centro dell’attenzione.

Questa volta con Disney+, colosso mondiale che ha scelto il testo per farne una serie che verrà resa disponibile in oltre duecento Paesi. Le riprese della serie - di cui i due sono anche autori del soggetto e sceneggiatori - inizieranno a giorni in Puglia per la regia di Pippo Mezzapesa, appena candidato al Festival del Cinema di Venezia con il suo film“Ti mangio il cuore” la cui protagonista è la nota cantante Elodie.“È una sfida molto importante - spiegano i due - il cui obiettivo è quello di far emergere, sfruttando la chiave della funzione, il paradosso del reale. Quello che ci auguriamo è che la serie tv, più che dare risposte, possa interrogare il telespettatore. Non solo sul vero assassino di Sarah Scazzi, ma anche sul peso mediatico dell’intera vicenda”.

Qual è stato il ruolo mediatico del caso Scazzi?

“Il caso Scazzi rappresenta una sorta di punto di non ritorno, perché se da una parte già c’erano stati racconti di cronaca nera della cosiddetta “tv del dolore” - pensiamo soprattutto ad Alfredino Rampi e a Vermicino -, con il delitto di Avetrana si fa un passo ulteriore, perché per la prima volta il 6 ottobre 2010 alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, viene comunicato in diretta che la figlia non è scomparsa, dopo 42 giorni di ricerca, bensì è morta e che a uccidere la figlia sarebbe stato - secondo quello che si disse all’epoca - lo zio di Sarah, Michele Misseri. Si tratta di un episodio emblematico perché rappresenta un momento in cui tutto sembra diventare legittimo. E il morboso viene sdoganato per sempre“.

Carmine ormai sei un volto noto di Rai1, fra Linea Verde Life e programmi di inchiesta in prima serata. Quali sono gli altri progetti su cui state lavorando insieme?

“Oltre la nuova stagione televisiva in Rai, ci stiamo occupando di nuovi documentari per le piattaforme e di un podcast, incentrato sull’organizzazione del Forteto, che uscirà in inverno. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, incentrato sul silenzio istituzionale e sulla mancanza di assistenza che nel nostro Paese viene data a chi fuoriesce da una setta“.

La docu-serie Sky Original in quattro puntate prodotta da Groenlandia sul controverso caso giudiziario e mediatico che ha sconvolto l’Italia è in arrivo su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15 - disponibile  anche on Demand e in streaming su Now. Da tg24.sky.it il 19 novembre 2021. 

Nell’agosto del 2010 in Salento una giovane scompare. È Sarah Scazzi. L'Italia intera rimane sconvolta. Molte le ipotesi che si alterneranno durante i quarantadue giorni di ricerca. Ipotesi che sveleranno segreti e rancori, arrivando a costruire un incredibile reality show dell'orrore e del grottesco. Avetrana, il paese dove tutto si svolge, ne sarà un vero set a cielo aperto.

E' la nuova docu-serie Sky Original prodotta da Groenlandia e tratta dall’omonimo libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020) che, in quattro puntate, ricostruisce tutta la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione. Su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15, disponibile anche on demand e in streaming su NOW, la serie cerca di spiegare come Avetrana rappresenti il caso che più di ogni altro ha canalizzato l’attenzione mediatica creando un vero e proprio circo per il quale non interessava più la ricerca della verità, quanto sviscerare tutti gli aspetti più morbosi. Il punto di non ritorno è rappresentato da quanto accadde in diretta tv quando Concetta Serrano, madre di Sarah, venne a sapere che la figlia non era in realtà scomparsa e che lo zio Michele Misseri aveva fatto ritrovare il suo corpo senza vita.

"UNA RIFLESSIONE SU UN CASO CHE HA ANCORA MOLTI CONI D’OMBRA"

Da allora l’attenzione su Avetrana divenne spasmodica, tanto che tutte le persone coinvolte diventarono personaggi televisivi. Anche i passanti, gli abitanti, i vicini di casa e tutta la comunità avetranese divennero protagonisti di uno show dell’orrore. Il documentario, per la prima volta partendo da Avetrana, pone un interrogativo che tocca tutti i casi di cronaca diventati mediatici: quanto può influire un racconto che insegue il macabro e il morboso nella ricerca della verità? Quanto può influire una narrazione così “inquinata” anche nelle indagini giudiziarie? Eppure è possibile che, senza quel peso mediatico, ancora oggi Michele Misseri non avrebbe fatto ritrovare il corpo di Sarah. 

Scritto da Flavia Piccinni, Carmine Gazzanni, Matteo Billi e Christian Letruria, per la regia di Christian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana è una riflessione su un caso che ha ancora molti coni d’ombra e, nonostante tre sentenze abbiano messo un punto sulla vicenda giudiziaria dell'omicidio di Sarah Scazzi, qualcuno sta ancora lottando per affermare un'altra verità. Come Franco Coppi, avvocato di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo insieme a Cosima, che ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tra gli intervistati della serie anche il fioraio di Avetrana, testimone chiave del processo, che per la prima volta dopo dieci anni, torna a raccontare la sua versione dei fatti.

Sarah - La ragazza di Avetrana. LA DOCU-SERIE CHE RICOSTRUISCE IL CASO DELL'OMICIDIO DI SARAH SCAZZI tv8.it. Giovedì 13 gennaio 2022. Il controverso caso giudiziario e mediatico che ha sconvolto l’Italia.

Nell’agosto del 2010 in Salento una giovane scompare. È Sarah Scazzi. L'Italia intera rimane sconvolta. Molte le ipotesi che si alterneranno durante i quarantadue giorni di ricerca. Ipotesi che sveleranno segreti e rancori, arrivando a costruire un incredibile reality show dell'orrore e del grottesco. Avetrana, il paese dove tutto si svolge, ne sarà un vero set a cielo aperto.

Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie tratta dall’omonimo libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020) che, in quattro puntate, ricostruisce tutta la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione.

La serie cerca di spiegare come Avetrana rappresenti il caso che più di ogni altro ha canalizzato l’attenzione mediatica creando un vero e proprio circo per il quale non interessava più la ricerca della verità, quanto sviscerare tutti gli aspetti più morbosi. Il punto di non ritorno è rappresentato da quanto accadde in diretta tv quando Concetta Serrano, madre di Sarah, venne a sapere che la figlia non era in realtà scomparsa e che lo zio Michele Misseri aveva fatto ritrovare il suo corpo senza vita.

Da allora l’attenzione su Avetrana divenne spasmodica, tanto che tutte le persone coinvolte diventarono personaggi televisivi. Anche i passanti, gli abitanti, i vicini di casa e tutta la comunità avetranese divennero protagonisti di uno show dell’orrore.

Il documentario, per la prima volta partendo da Avetrana, pone un interrogativo che tocca tutti i casi di cronaca diventati mediatici: quanto può influire un racconto che insegue il macabro e il morboso nella ricerca della verità? Quanto può influire una narrazione così “inquinata” anche nelle indagini giudiziarie? Eppure è possibile che, senza quel peso mediatico, ancora oggi Michele Misseri non avrebbe fatto ritrovare il corpo di Sarah.

Scritto da Flavia Piccinni, Carmine Gazzanni, Matteo Billi e Christian Letruria, per la regia di Christian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana è una riflessione su un caso che ha ancora molti coni d’ombra e, nonostante tre sentenze abbiano messo un punto sulla vicenda giudiziaria dell'omicidio di Sarah Scazzi, qualcuno sta ancora lottando per affermare un'altra verità. Come Franco Coppi, avvocato di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo insieme a Cosima, che ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Tra gli intervistati della serie anche il fioraio di Avetrana, testimone chiave del processo, che per la prima volta dopo dieci anni, torna a raccontare la sua versione dei fatti.

Sarah. La ragazza di Avetrana: la docu-serie chiede di riaprire il caso. Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie Sky Original che ricostruisce la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione. Alessia Arcolaci su Vanity fair il 23 novembre 2021.

Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie Sky Original che ricostruisce la vicenda in quattro puntate. In onda dal 23 novembre.  

Sono Passati undici anni. Dalla scomparsa di Sarah Scazzi. Undici anni in cui la storia di questa quindicenne, uscita di casa il 26 agosto 2010 ad Avetrana per andare al mare e mai più ritornata, si è impressa nella memoria del nostro Paese. Ci vollero più di quaranta giorni per ritrovare il suo corpo senza vita, gettato in un pozzo profondo in mezzo a un campo. E in quelle ore di dirette televisive e interviste a chiunque si trovasse in quel piccolo paesino fino a quel momento sconosciuto, ha preso forma «il caso Sarah Scazzi» . Di tutto questo, oggi ad Avetrana resta una madre porta sul viso gli occhi grandi e azzurri della sua Sarah e una scritta impressa su un muro del paese: «Qui non è Hollywood».

Per la morte di Sarah Scazzi sono state condannate all'ergastolo, ma loro si sono sempre dichiarate innocenti, la zia Cosima insieme alla figlia Sabrina. La cugina che Sarah adorava e con cui, quel 26 agosto, sperava solo di andare al mare. In carcere c'è anche Michele Misseri, lo zio di Sarah, marito di Cosima e papà di Sabrina. È stato lui a condurre gli inquirenti sul luogo in cui lui stesso aveva nascosto il corpo. Per questo è stato condannato a 8 anni di carcere: nel 2024 è prevista la sua scarcerazione (anche se potrebbe uscire prima con la condizionale).

Il caso negli anni ha destato altalenanti polemiche e dubbi, destinati a riaprirsi con la docu-serie Sky Original, prodotta da Groenlandia per la regia di Cristian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana, in onda su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15 e disponibile anche on demand e in streaming su NOW, tratta dall’omonimo libro di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango), che ne sono anche gli autori. Un lavoro accurato che verrà diffuso in tutta Europa, e che punta i riflettori sui numerosi buchi neri che punteggiano il caso che, ancora oggi, secondo gli autori non può dirsi archiviato. La nostra intervista a Flavia Piccinni.

Perché sostenete che il caso non sia chiuso oltre ogni ragionevole dubbio?

«Il dubbio che ci ponevamo nella nostra inchiesta, e sul quale torniamo a interrogarci, è semplice: nonostante ci sia una sentenza passata in giudicato e che va assolutamente rispettata, siamo totalmente sicuri che il racconto mediatico non abbia in qualche modo inciso non solo sull’inchiesta, ma anche sulla nostra percezione dei protagonisti e delle persone coinvolte? E, ancora, siamo sicuri che Sabrina Misseri e Concetta Serrano siano davvero state giudicate in modo scevro da pregiudizi? Di certo siamo davanti a un paradosso che non ha precedenti».

Quale?

«Due donne che negli ultimi undici anni non hanno mai smesso di professarsi innocenti sono all’ergastolo, e un uomo che si dice colpevole presto verrà scarcerato. Nel corso del documentario il telespettatore potrà farsi la sua opinione. E centrale sarà nel costituirla la testimonianza inedita di Giovanni Buccoliero, il fioraio di Avetrana, che nella sentenza, pur non testimoniando mai a processo, gioca un ruolo chiave e che per la prima volta dopo dieci anni torna a raccontare la sua versione dei fatti per amore di verità».

Grande spazio nel vostro lavoro è dedicata ai media. Parafrasando Lele Mora, che intervistate: «La cronaca offre uno spettacolo a basso costo».

«Il grande protagonista di questo reality show dell’orrore economico e serealizzabile, andato in onda a reti unificate per alcuni anni, è stato il cinismo. Dei media e dei telespettatori. Non pensiamo di essere immuni solo perché non eravamo lì fisicamente. Ma noi eravamo sul divano, e non abbiamo cambiato canale, quando Federica Sciarelli ha annunciato in diretta televisiva a Concetta Serrano che sua figlia probabilmente era morta, e che se ne stava cercando il corpo nelle campagne. Noi eravamo immobili davanti allo schermo quando fischi, sputi e applausi accompagnavano alla detenzione Cosima Misseri».

Il caso di Avetrana rappresenta la perdita dell’innocenza televisiva?

«Di certo è una dimensione da cui non si torna più indietro. Se nel caso di Alfredino Rampi, a Vermicino, la diretta televisiva diventa giustificata dal desiderio di un lieto fine, ad Avetrana si cerca con cinismo un cadavere. Siamo nel dominio incontrastato della televisione del dolore, un momento in cui tutto sembra diventare legittimo».

Cosa diventa legittimo?

«Diventa legittimo concentrarsi sul morboso, invadere un paese e intervistare chicchessia semplicemente per avere qualcosa da dire nel corso delle innumerevoli dirette, spiare dal buco della serratura e raccontare fatti privati che magari nulla c’entrano con l’inchiesta. Saltano tutte le regole. Prende forma un iper-cinismo. Lo stesso che fa credere ai giornalisti di poter fare ogni cosa, di dover combattere una sfida al rilancio perpetuo, di non avere limiti. E così persone qualsiasi, un contadino, un’estetista, una bracciante, vengono trasformati in personaggi ben caratterizzati: l’uomo buono vittima delle megere di casa, la cugina invidiosa, la zia arpia. Sembrano dei personaggi creati a tavolino, invece sono persone reali. Persone qualsiasi».

Anche gli abitanti di Avetrana hanno giocato un ruolo tutt’altro che secondario.

«Gli avetranesi, soprattutto alcuni, sono entrati nella macchina mediatica pensando di poterla in qualche modo manipolare, penso per esempio a Sabrina, e quando era troppo tardi si sono resi conto che in realtà erano sprofondati in un tritacarne. Da quello strumento infernale sono usciti tutti con le ossa spezzate».

Nel documentario avete diverse esclusive. Cosa pensate che possa accadere?

«Inizialmente siamo stati annientati dal senso di responsabilità che avevamo, e che tutt’oggi percepiamo, nei confronti dei famigliari di Sarah Scazzi e della famiglia Misseri. Abbiamo cercato di affidare a questa docu-serie una visione imparziale sul delitto, il cui processo indiziario ha portato all’arresto di tre persone».

Cosa resta del caso Scazzi a distanza di undici anni?

«Resta un paese salentino che non aveva memoria, e che è stato incastrato per sempre nell’immaginario collettivo come lo scenario di un delitto. Resta un dramma famigliare, che ha distrutto due famiglie: gli Scazzi e i Misseri. Resta la verità, che in pochi probabilmente sanno, e che in tanti credono di aver raggiunto. Resta un circolo mediatico senza precedenti. E poi…»

E poi?

«E poi ci auguriamo che attraverso il documentario resti anche la storia di una bambina che è anche un’adolescente, che aveva sogni e drammi interiori come è capitato a tutte noi alla sua età. Insomma, che resti anche Sarah Scazzi, che ha vissuto la sua ultima, eterna, estate a quindici anni».

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Senza Giustizia.

Scena del crimine. Yara e il killer "al di là di ogni ragionevole dubbio". Yara Gambirasio scomparve da Brembate di Sopra il 26 novembre 2010: per il suo omicidio è stato condannato Massimo Bossetti. L'esperta: "È lui l'assassino". Angela Leucci il 2 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Massimo Bossetti è l’assassino di Yara Gambirasio “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. È questo il titolo che Anna Vagli, criminologa investigativa ed esperta in scienze forensi, ha voluto dare al proprio libro. Un libro in cui viene ripercorsa in maniera originale la vicenda dell’omicidio della 13enne di Brembate di Sopra.

Era il 26 novembre 2010 quando Yara scomparve, l’Italia era ancora scossa dall’omicidio di un’altra giovane, Sarah Scazzi. Ci vollero mesi e un evento fortuito perché il corpo della ragazzina fosse ritrovato in un campo a Chignolo d’Isola. E un’inchiesta rivoluzionaria, in cui molte persone mostrarono una grande responsabilità sociale e comunitaria nel fornire volontariamente agli inquirenti il proprio Dna.

A oltre 10 anni da questo atroce fatto di cronaca se ne parla ancora, soprattutto perché dal carcere l’uomo condannato per l’omicidio, Bossetti appunto, grida la propria innocenza. “L’assassino di Yara è Massimo Bossetti”, dice a IlGiornale.it Anna Vagli.

Da dove nasce il titolo del libro?

“'Al di là di ogni ragionevole dubbio’ è il titolo che ho scelto proprio per ribadire la granitica responsabilità di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Una condanna che troppo spesso viene messa in discussione senza alcun tipo di fondamento. Né scientifico né logico”.

Bossetti spera in una revisione del processo. È possibile?

“La revisione processuale è un istituto complesso, che può essere attivato soltanto in presenza di nuove prove che dimostrino che il condannato debba essere prosciolto. Francamente, trovo questa ipotesi remota. L’assassino di Yara è Massimo Bossetti. In primo luogo ce lo dice il Dna e quindi la scienza. E quella, le assicuro, non sbaglia”.

Pare che alcuni reperti che hanno inchiodato Bossetti siano andati perduti. Costituisce un danno dato che il processo è chiuso?

“Gli ufficiali del Ris, anche nel corso del dibattimento, avevano per giunta più volte evidenziato come il materiale genetico fosse stato tutto consumato nel corso delle varie consulenze. E, di questo, gli avvocati di Bossetti ne sono sempre stati consapevoli”.

E quindi?

“Di conseguenza, la perizia che continua a invocare la difesa, non consentirebbe nuove amplificazioni né tantomeno tipizzazioni del Dna. Inoltre, in giudizio, è stata dimostrata la regolarità del procedimento concretizzatosi nell’isolamento della traccia genetica, nell’estrazione e nell’individuazione di un profilo sconosciuto. Per questa ragione denominato Ignoto 1. Ci sono poi voluti tre anni e migliaia di campionamenti per risalire a Massimo Giuseppe Bossetti. Nessun complotto contro il condannato né ombra di contaminazione. Quando si svolgevano le indagini sul Dna quest’ultimo non era né un indagato né un sospettato”.

Come mai molte persone continuano a credere all’innocenza di Bossetti?

“Due sono le ragioni che si intrecciano: la prima è legata all’immagine di Bossetti. Un uomo che abbiamo conosciuto attraverso le foto che lo dipingevano insieme alla sua bella famiglia e ai suoi animali domestici. Insomma il ritratto del padre di famiglia della porta accanto. Questo ha pesato tantissimo. La seconda ragione è da imputare all’uso giornalistico del Dna. Che, anziché azzerare la sua credibilità, ne ha aumentato la platea di sostenitori. È inconcepibile nell’immaginario collettivo che un uomo con moglie e figli possa barbaramente uccidere una ragazzina di tredici anni come Yara”.

Nel suo libro ha voluto restituire centralità a Yara. In alcune parti ha immaginato la sua “voce”. Come mai questa scelta?

“La scelta di dare la voce a Yara è stata dettata anzitutto dalla volontà di ribadire un concetto che spesso mediaticamente viene sottovalutato: lei è la sola e unica vittima di questa tragedia. Ancora troppe persone gridano all’ingiustizia e dipingono Bossetti come il malcapitato di turno indebitamente rinchiuso dietro le sbarre. In secondo luogo, il motivo per il quale ho deciso di rendere Yara voce narrante è legato al modo di concepire la sua tragica morte. Anche in questo caso, come nella quasi totalità delle vicende giudiziarie, è sempre il cattivo a diventare il protagonista, a fare la storia. Bossetti ha occupato, e continua a farlo, un ruolo di primo piano sulla ‘sinistra scena’. Quindi, è stato a un modo per restituirle non solo centralità, ma anche la dignità che qualcuno periodicamente cerca di portarle via”.

Yara è stata una vittima casuale?

“Dipende che cosa si intende per casuale. Sicuramente presentava caratteristiche fisiche, come i capelli rossi, che rientravano nelle perversioni di Bossetti. Ma quest’ultimo non era la prima volta che la vedeva. Frequentava la zona del centro sportivo, spesso si fermava a comprare le figurine per i figli proprio in un’edicola delle vicinanze. L’aveva sicuramente notata prima di quel maledetto 26 novembre 2010”.

Se non fosse stato catturato, ragionando per ipotesi in base al profilo criminologico, Bossetti avrebbe potuto tornare a colpire?

“Bossetti incarna, come anche cristallizzato in sentenza, le sembianze del predatore sessuale. Ha ucciso Yara perché si era rifiutata di dare seguito a una fantasia covata da tempo. Non gli restava altra strada diversa dall'omicidio: era a volto scoperto, frequentava abitualmente Brembate e Yara, in quel campo di Chignolo d’Isola, lo aveva visto bene in volto. Lo avrebbe riconosciuto. Però, nonostante sul suo pc siano state rinvenute ricerche anche successive alla morte di Yara relative a ragazzine con i capelli rossi e in età prepuberale, non credo avrebbe colpito ancora. Quello della ginnasta è stato un omicidio d’impeto, ma non per questo meno crudele”.

Omicidio Yara Gambirasio, tutti i dubbi sulla condanna di Bossetti. Redazione Tgcom24 il 3 novembre 2022.

Inchiesta de "Le Iene" a dodici anni dall' omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra nella bergamasca scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata senza vita in un campo aperto tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Dopo anni di  indagini e battaglie legali il procedimento giudiziario si è concluso il 12 ottobre 2018 con la condanna definitiva all'ergastolo di Massimo Bossetti, muratore di Mapello, accusato di aver commesso l'omicidio in seguito a un'aggressione sessuale. Sulla verità processuale, la difesa di Bossetti nutre ancora dubbi in particolare sul ritrovamento del corpo della ragazza. Alla domanda dell'inviato de "Le Iene" sul perché nei tre mesi di ricerche, nessuno avesse mai notato il corpo di Yara in quel campo pieno di aziende e telecamere, il medico legale della difesa  Danila Ranalletta, spiega: "Quel corpo fu portato li in un secondo momento dopo l'omicidio". 

Dove sarebbe stato tenuto il corpo di Yara? Secondo l'avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni "Bossetti non aveva nessun luogo dove avrebbe potuto nascondere quel cadavere". Per l'accusa è fondamentale sostenere che l'omicida abbia colpito proprio in quel campo. E però un altro dubbio della difesa riguarda il metodo di decomposizione del cadavere: "Omogeneo se non ci sono fattori esterni che producono una trasformazione diversa", sostiene il medico legale della difesa. La corificazione è un processo tipico degli ambienti privi di ossigeno e dunque "è possibile - si domanda Ranalletta - che sul campo di Chignolo d'Isola sia avvenuta questa trasformazione?". 

Per il plenum va tutto bene...Caso Yara, il Csm sdogana il processo mediatico e salva la Pm Letizia Ruggeri. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di “istituzionalizzare” il processo mediatico-giudiziario. La vicenda finita al vaglio dell’organo di autogoverno delle toghe riguardava la docuserie di Sky “Ignoto1 – Yara, Dna di una indagine” che aveva visto come protagonista la pm di Bergamo Letizia Ruggeri. La magistrata era balzata agli onori delle cronache per aver condotto le indagini sulla morte della tredicenne di Brembate in provincia di Bergamo, scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011.

Il documentario in 4 puntate aveva determinato l’apertura di un procedimento disciplinare a carico della pm, con strascichi anche sulla sua successiva valutazione di professionalità. Nel pieno del dibattimento, la magistrata era stata contatta dalla BBC affinché ripercorresse davanti alle telecamere le indagini che avevano poi portato all’imputazione di Massimiliano Bossetti. Oltre a diverse interviste sui luoghi del delitto, vi erano anche ‘passaggi’ sulla sua vita privata. La messa in onda era avvenuta durante il processo d’appello, determinando più di una ‘perplessità’ da parte dei vertici degli uffici giudiziari lombardi.

Immediatamente era stato allora aperto un procedimento disciplinare per la “violazione del dovere di riservatezza”, in quanto il filmato avrebbe potuto ingenerare nello spettatore “dubbi sulla indipendenza ed imparzialità” da parte della magistrata. Il filmato, poi, poteva essere considerato un “canale privilegiato” per sostenere, sul piano mediatico “le ragioni dell’accusa”. Il disciplinare si era concluso con un nulla di fatto, in quanto la ricostruzione dell’ipotesi accusatoria era stata sottoposta al vaglio dell’autorità giudicante. Al massimo si sarebbe potuto ipotizzare una violazione deontologica in quanto il codice etico delle toghe vieta loro di partecipare a trasmissioni nella quali discutere di processi in corso.

Ed era caduta nel vuoto anche la contestazione di aver partecipato alla docuserie senza l’autorizzazione del procuratore di Bergamo.

“Non era previsto nel progetto organizzativa della Procura” e comunque, si era difesa la magistrata, non si era trattato di rapporti con la stampa dal momento che gli interlocutori “non erano dei giornalisti”. Archiviato disciplinarmente il caso, il fascicolo era stato preso in esame al fine dell’avanzamento di carriera per valutare il paramento dell’equilibrio della toga. La pm nelle scorse settimane si era giustificata sottolineando che “la partecipazione al documentario aveva avuto la finalità di riequilibrare l’aggressiva campagna di stampa, agli occhi della pubblica opinione che stava veicolando notizie false e diffamatorie”.

Tesi accolta dal Plenum di ieri che non ha evidenziato “eccessivo protagonismo o scarsa moderazione”, magnificando invece il prodotto televisivo, “realizzato da una importate emittente e affidato ad un regista di elevata professionalità, noto per occuparsi di tematiche sociali con il dichiarato obiettivo di ripercorre le genesi e il complessivo sviluppo delle indagini genetiche”. Insomma, nulla di personale ma tutto con fini “scientifici”.

Paolo Comi

Yara Gambirasio, Bossetti prova a riaprire tutto: svolta? Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 12 settembre 2022

È stato condannato (all'ergastolo) per l'omicidio di Yara Gambirasio, ma Massimo Bossetti è deciso a provare la sua innocenza e, adesso, chiede di indagare Letizia Ruggeri, cioè la pm che ha seguito il suo caso, perché, dice, i campioni biologici che lo hanno accusato non sono stati conservati adeguatamente. Non demorde, Bossetti. D'altronde è dal giugno del 2014, da quando è stato arrestato nella sua casa di Mapello, in provincia di Bergamo, che non fa che ripeterlo: che lui non c'entra con la scomparsa (prima) e la morte (successiva) della piccola Yara, la ragazzina tredicenne di Brembate di Sopra che il 26 novembre del 2010 è uscita, intorno alle 17.30, dalla palestra del suo paesino di montagna, e poi non l'ha più vista nessuno.

Una tragedia che ha scosso mezza Italia e che ha fatto discutere l'altra metà, col ritrovamento del corpo esattamente tre mesi dopo, una ricerca a tappeto del Dna di quell'"ignoto 1" che ha coinvolto migliaia di persone e, alla fine, ha portato a Bossetti. E quel processo, tutto giocato sulle analisi in laboratorio e sui video del furgoncino bianco: 711 testimoni, tre gradi di giudizio, un monte di udienze e un faldone infinito. No, Bossetti non si dà pace. Non ci sta. Non demorde, nella sua cella nel carcere lombardo di Bollate.

SUL BANCO Sul "banco degli imputati", questa volta, ci sono le 54 provette con le tracce biologiche miste di Yara e del suo assassino: solo che «dovevano essere conservate al freddo a meno 80 gradi», spiegano gli avvocati di Bossetti tra cui c'è Claudio Salvagni, «per evitare lo scongelamento e il conseguente deterioramento». Invece sono stati spostate dall'ospedale San Raffaele di Milano all'ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo: un viaggio sì e nodi 90 chilometri che, ora, potrebbe riaccendere le speranze della difesa.

Speranze racchiuse in una richiesta di opposizione presentata al foro di Venezia (che è competente sulla magistratura bergamasca), 70 pagine che verranno discusse a novembre, in cui i legali mettono in fila quel che è successo dal 12 ottobre del 2018 in avanti, ossia da quando la condanna di Bossetti è diventata definitiva senza che lui abbia mai potuto vedere da vicino la "prova regina" che, ancora adesso, lo tiene al gabbio. È una questione di date: il 26 novembre 2019 Salvagni chiede l'accesso ai campioni di Dna per esaminarli, ottiene l'autorizzazione ma non sa che, nel frattempo, la pm Ruggeri ha chiesto di spostarli, cosa il 21 novembre. Ma a Bergamo le provette arrivano appena il 2 dicembre, dodici giorni dopo. Cosa è avvenuto?

LE BUGIE Bossetti sollecita un'indagine denunciando proprio Ruggeri: il concetto è chiaro, sostiene che abbia mentito. La procura di Venezia archivia: «Non c'è alcuna prova di un piano orchestrato». E allora l'ex muratore di Mapello tira dritto: «Quei 54 campioni erano idonei a nuove analisi, le tecniche di oggi avrebbero risolto gravi anomalie». Lei, Ruggeri, il 10 marzo dell'anno scorso, incalzata dal procuratore vicario di Venezia che le riferisce come, secondo alcuni tecnici e il capo del Ris di Parma, effettivamente l'esame avrebbe potuto essere ripetuto, ammette di essere «abbastanza meravigliata. Dai verbali è emersa una cosa completamente diversa. Rimango veramente sorpresa». «False affermazioni», le bolla Bossetti, che avrebbero, tra l'altro, «condizionato» il procedimento. Per questo chiede al gip di Venezia di indagare la pm, assieme a Giovanni Petillo per «frode processuale e distruzione dolosa dei reperti». Va da sè che sono accuse pesanti e che la strada per chiedere la revisione del processo di Bossetti è ancora tutta in salita.

Da Telelombardia il 23 giugno 2022.

Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni di Massimo Bossetti inviate a mezzo lettera a Marco Oliva conduttore della trasmissione “Iceberg” di Telelombardia. La lettera è un lungo sfogo del carpentiere di Mapello condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio dopo aver appreso che i 54 campioni del suo dna, prima conservati all’ospedale San Raffaele, ora sarebbero degradati perché mal conservati presso l’ufficio corpi reato di Bergamo. Le dichiarazioni integrali di Bossetti saranno in onda durante la puntata di questa sera a partire dalle 20.30 su Telelombardia. 

"Spesso mi domando qual è o quale sia il limite della sopportazione per un cuore già fin troppo stremato dalle durissime faticose, tortuose battaglie, quando fin dall'inizio era così semplice nell'evitarmi tutto! Pazzesco e vergognoso nell'aver udito quanto mai sperassi che così avvenisse... "Era stato il giudice Petillo a disporre la confisca dei reperti che erano così stati trasferiti dalle celle frigorifere dell'ospedale San Raffaele di Milano, dove erano custoditi, ai locali della Procura di Bergamo, SPROVVISTI DI SPAZI IDONEI ALLA CONSERVAZIONE"! Il 30 novembre 2019, depositano formali istanze presso l'Ufficio corpi di reato e il Tribunale di Bergamo, in attesa ed in previsione degli accertamenti che verranno richiesti alla Corte d'Appello competente per la revisione, affinchè venga disposta ed assicurata la conservazione di TUTTI i reperti ed i campioni di DNA dai medesimi estratti inibendone la DISTRUZIONE!! 

Ora chiedo e a gran voce URLO, chi doveva nel garantire l'efficacia, l'integrità e l'idoneità di TUTTI questi reperti??? Chi doveva autorizzare e assicurare, un contesto più congruo sul deposito nella garanzia di TUTTO, porca miseria!!!!! Bossetti o qualcun'altro?! 

Sarebbe, ben più utile che ora, tutti e tengo nel ribadire TUTTI si facessero una minima riflessione, di come si continui nel volermi additare ed evidenziare attraverso i media, per un reato terribile, atroce e vergognoso che NON HO COMMESSO! Solo perché fa più comodo ed è più semplice non evidenziare quanto non si può' e non si vuole portare alla luce!! Ecco la verità dove si nasconde... Dove non la si vuole cercare! La mia rabbia si cela dietro ad una verità INSABBIATA, da anni DETERIORATA!!! Grazie a coloro che mi hanno rovinato la vita e verso chi ad oggi ha concesso tutto questo assurdo, vergognoso scandalo agli occhi di tutti voi al rispetto della mia persona! Mi auguro che a nessuno di voi possa mai capitarvi quanto sul mio essere è realmente accaduto.”

Yara Gambirasio, la procura chiede di archiviare il caso: “Non ci fu alcun depistaggio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Aprile 2022. 

Per la Procura di Venezia non ci fu alcun piano per lasciare intenzionalmente deperire il Dna di “Ignoto 1”. Per questo motivo ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta aperta in seguito alla denuncia di Massimo Bassetti, il muratore bergamasco, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata senza vita il 26 febbraio dell’anno successivo.

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, per la procura non ci sarebbe dunque nessun piano di depistaggio di eventuali nuove indagini. Sul registro degli indagati, per il reato di frode in processo e depistaggio, sono finiti il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Il fascicolo era stato aperto nei mesi scorsi dal procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, in quanto Venezia è competente per le inchieste che coinvolgono i magistrati bergamaschi.

E ora è lo stesso magistrato a chiedere al giudice di archiviare le accuse, perché né le verifiche svolte né i testimoni sentiti, hanno fatto emergere la prova che, da parte degli indagati, ci sia mai stata la volontà di distruggere o danneggiare quei 54 campioni di Dna estratti dagli slip e dai leggings indossati da Yara, e che hanno costituito la prova-principe che ha permesso agli investigatori di risolvere il caso arrivando, dopo anni di indagini e comparazioni, ad attribuire quel profilo genetico a Bossetti.

Il muratore si è sempre professato innocente. La prova principe del processo è da sempre contestata dagli esperti della difesa, che però si sono sempre visti respingere le richieste di riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva, i 54 campioni trovati sugli abiti della tredicenne. Già nel dibattimento era in realtà emerso che la traccia decisiva per estrarre il profilo di “Ignoto 1” non sarebbe stata più utilizzabile in quanto “definitivamente esaurita”.

Ma stando alla denuncia presentata da Bossetti tramite i suoi legali, l’avvocato Claudio Salvagni, vi sarebbero stati campioni “prima scomparsi e poi ricomparsi” e l’ipotesi che il materiale confiscato “sia stato conservato in modo tale da farlo deteriorare”, vanificando così ogni tentativo di nuove indagini. La difesa di Bossetti aveva chiesto di poter esaminare i reperti e conoscere lo stato di conservazione delle prove con l’obiettivo di ottenere la revisione del processo.

Secondo il Corriere la questione è proprio questa: dopo che per lungo tempo il Dna di “Ignoto 1” è rimasto nei frigoriferi dell’ospedale San Raffaele, ora si trovano nei magazzini dell’Ufficio corpi di reato che, a quanto pare, non dispongono di apparecchi in grado di mantenere le basse temperature. Ora i difensori del manovale hanno la facoltà di presentare opposizione alla richiesta di archiviazione e a quel punto spetterà al giudice di Venezia decidere se chiudere il caso una volta per tutte oppure ordinare nuove verifiche. “Chiederemo di leggere i contenuti del fascicolo – spiega l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Bossetti al Corriere – per capire se la posizione della procura veneta sia fondata. Se riterremo manchino degli approfondimenti, ci opporremo all’archiviazione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Yara Gambirasio. Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.  

La procura di Venezia indaga sul giallo del Dna rinvenuto sugli abiti di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra (Bergamo) scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio dell’anno successivo. L’inchiesta prosegue da mesi, nel riserbo più assoluto da parte degli inquirenti. Da quel che emerge, il fascicolo è affidato al procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito che ha iscritto nel registro degli indagati il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Per entrambi – che nei mesi scorsi hanno ricevuto l’avviso di proroga dell’indagine - l’ipotesi è quella prevista dall’articolo 375 del codice penale: frode in processo e depistaggio.

La denuncia presentata da Massimo Bossetti

L’indagine è scaturita da una denuncia presentata da Massimo Bossetti che, dopo la condanna definitiva all’ergastolo per il delitto della ragazzina, sembra intenzionato a far riaprire il caso e a chiedere la revisione del processo. I dubbi ruotano intorno alle tracce biologiche che portarono a individuare nell’«Ignoto 1» il muratore di Mapello, che si è sempre professato innocente: il Dna estratto dagli slip e dai leggings indossati da Yara, ha costituito la prova-principe che ha permesso agli investigatori di risolvere il caso arrivando, dopo anni di indagini e comparazioni, ad attribuire quel profilo genetico a Bossetti. Un test che è sempre stato contestato dagli esperti della difesa, che lo scorso anno si è vista rigettare la richiesta di riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva, in particolare proprio le tracce di Dna. Ma che fine hanno fatto quei cinquantaquattro campioni trovati sugli abiti della tredicenne? Per stessa ammissione dei legali, a dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di «Ignoto 1», non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita». Ma in seguito sarebbero emerse nuove circostanze.

I campioni scomparsi e ricomparsi

Nella denuncia presentata direttamente da Bossetti - con l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei suoi difensori - si parla infatti di campioni «prima scomparsi e poi ricomparsi» e del sospetto che il materiale confiscato sia stato «conservato in modo tale da farlo deteriorare» vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive. Insomma la tesi, neanche troppo velata, è che quelle tracce siano state lasciate deperire proprio per evitare che si potesse mettere in discussione l’intero processo al muratore. L’articolo 375, infatti, punisce «con la reclusione da tre a otto anni» il pubblico ufficiale che «al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale» modifica un corpo di reato, e prevede una pena ancor più severa se «il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte (...) di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova».

Le accuse al presidente della Corte d’assise

È nella querela che si punta il dito contro il presidente della Corte d’assise di Bergamo che si occupò del caso (respingendo come inammissibili le istanze della difesa di esaminare i reperti) e la funzionaria dell’Ufficio corpi di reato. Ed essendo Petillo un magistrato bergamasco, la competenza spetta alla procura di Venezia, che ha iscritto entrambi sul registro degli indagati. Nessuna conferma dal procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, che però pare che nei mesi scorsi abbia ascoltato diversi testimoni, compresa la pm Letizia Ruggeri titolare dell’inchiesta sull’omicidio di Yara, e alcuni poliziotti e carabinieri del Ris che seguirono la pista che nel giugno del 2014 (quindi a oltre tre anni di distanza dal delitto) portò all’arresto di Massimo Bossetti.

Le verifiche veneziane sui campioni

Cosa è emerso dalle verifiche condotte a Venezia sul «trattamento» che a Bergamo è stato riservato ai campioni di Dna di «Ignoto 1»? Presto per tracciare uno scenario definitivo ma l’inchiesta sembra ormai vicina alla chiusura e, sempre stando alle indiscrezioni, finora non sarebbe emersa alcuna prova di un comportamento doloso. Se così fosse, e quindi se davvero non dovesse esserci alcuna evidenza della volontà di alterare le prove, la procura non potrà che chiedere l’archiviazione del fascicolo con la possibilità, da parte di Bossetti, di opporsi di fronte al giudice del tribunale di Venezia.

Campioni ancora utilizzabili?

L’avvocato Salvagni la mette in questi termini: «Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato. L’obiettivo della denuncia di Bossetti è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di “Ignoto 1”».

Il dna di "Ignoto 1" è sparito: due indagati per il caso Yara. Sofia Dinolfo il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si tratta del presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Secondo i legali di Massimo Bossetti, i due avrebbero manomesso le prove.

Sono due i nomi che la procura di Venezia ha scritto nel registro degli indagati in merito ad una nuova inchiesta sull’omicidio Yara Gambirasio. Si tratta del presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Per entrambi l’accusa sarebbe quella di frode e depistaggio in processo prevista dall’articolo 375 del codice penale.

La denuncia presentata dalla difesa di Massimo Bossetti

Sembra la storia infinita quella che gravita intorno al caso Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra (Bergamo), scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata uccisa il 26 febbraio del 2011. Un delitto atroce, che ha scosso tutta Italia e del quale ad oggi l’unico colpevole, con condanna all’ergastolo, è il muratore Massimo Bossetti. Ed è stata proprio la difesa di quest’ultimo a presentare la denuncia nei confronti dei due odierni indagati. Il fascicolo d’inchiesta, affidato al procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, avrebbe proprio l’obiettivo di far riaprire il processo ed esaminare nuovamente le tracce di Dna trovate sugli indumenti della vittima. E quindi nuovi presunti colpevoli. Ma cos’è successo in questi anni? Perché si è arrivati a questa denuncia?

Come si apprende dal Corriere Del Veneto, tutto gravita intorno alle tracce biologiche che da oltre un decennio hanno riconosciuto nell’<Ignoto 1> la persona di Massimo Bossetti. Si tratta del Dna prelevato sia dai leggins, sia dagli slip indossati dalla giovane vittima. Questi elementi hanno rappresentato la prova cardine del processo. Nonostante la prova sia stata definita inconfutabile, il muratore di Mapello si è sempre dichiarato innocente. I suoi legali, dopo la sentenza di condanna, hanno avanzato la richiesta di poter eseguire nuovamente gli esami delle tracce biologiche unitamente a quelli su altri elementi ritrovati nel luogo dell’omicidio. La richiesta in quell’occasione è stata rigettata. Da allora si sono fatti avanti diversi dubbi, soprattutto alla luce della “scomparsa e ricomparsa” dei 54 campioni prelevati sugli indumenti della vittima.

Il mistero delle tracce biologiche contenute in 54 campioni

Claudo Salvagni e Paolo Camporini, entrambi legali di Massimo Bossetti, sostengono che qualcuno potrebbe aver messo mano e fatto sparire appositamente le 54 provette che hanno portato all’arresto del loro assistito. In particolare i due difensori lamentano di non aver mai avuto la possibilità di accedere a quelle tracce di Dna attribuite al muratore. Proprio in merito alla traccia decisiva, in dibattimento era emerso che non sarebbe stata più utilizzabile in quanto “definitivamente esaurita”. In un secondo momento si è fatto un passo indietro parlando della disponibilità di quei campioni. Ma il dubbio della difesa è che adesso "il materiale confiscato sia stato conservato in modo tale da farlo deteriorare, vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive".

Proprio per questo motivo i due legati hanno presentato querela contro il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, (che ha respinto, ritenendo inammissibili, le istanze della difesa di esaminare i reperti) e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato. Ma i tempi non sono ancora maturi per dare delle risposte a queste accuse. Di certo al momento non è emerso alcun comportamento doloso messo in atto dagli indagati. E i legali di Massimo Bossetti sono ormai intenzionati ad andare fino in fondo: “Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti – hanno dichiarato al Corriere Del Veneto - che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato. L’obiettivo della denuncia di Bossetti – hanno concluso - è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di 1”.

Massimo Bossetti, clamorosa svolta: sparito il Dna che lo ha incastrato, indagato il giudice. Alessandro Dell'Orto su Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Dopo dodici anni e una lunga indagine caratterizzata da sviste ed errori clamorosi (dall'assurdo arresto del marocchino Fikri a causa di una traduzione errata alla gestione del luogo del ritrovamento del cadavere, recintato per le analisi e poi inspiegabilmente aperto ai curiosi), dopo un processo sempre sul filo del dubbio e della polemica e a quattro anni dalla condanna definitiva all'ergastolo per Massimo Bossetti, ecco un altro inaspettato colpo di scena. E non da poco: la procura di Venezia indaga gli investigatori di Bergamo. Già, l'omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne sparita da Brembate Sopra (a pochi passi da Bergamo) il 26 novembre 2010 e ritrovata morta esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola si arricchisce di un nuovo capitolo. Che, inevitabilmente, ingarbuglia ancora di più una vicenda mai davvero chiarita fornendo nuovi elementi ai tanti "innocentisti" che hanno sempre considerato estraneo ai fatti il muratore di Mapello arrestato il 16 giugno 2014.

REPERTI ALTERATI - La questione è legata al Dna, da sempre elemento di dubbi e battaglie processuali tra le parti: la Procura di Venezia, infatti, sta lavorando sull'ipotesi di alterazione dei reperti biologici («prima scomparsi e poi ricomparsi», ha sempre denunciato la difesa di Bossetti) rinvenuti sui vestiti di Yara e attribuite a "Ignoto 1", poi ritenuti sovrapponibili al Dna dell'accusato e quindi elemento cruciale nella condanna definitiva all'ergastolo. Tradotto, la difesa ha sempre lamentato di non aver avuto accesso diretto alle tracce di Dna trovate sui leggins e sulle mutandine della vittima: a dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di "Ignoto 1", non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita», mentre successivamente si è dato atto della disponibilità di 54 campioni di Dna trovati sul corpo della vittima. Il sospetto della difesa, dunque, è che «il materiale confiscato sia stato "conservato in modo tale da farlo deteriorare", vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive».

L'inchiesta è nata da una denuncia presentata dai legali di Bossetti (gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini) per frode processuale e depistaggio, e dopo che gli stessi pm di Bergamo, d'accordo la Corte di Cassazione, nel giugno 2021 avevano trasmesso per competenza ai colleghi dell'ufficio veneto gli atti del procedimento «per le opportune valutazioni». Nel fascicolo risulterebbero indagati il presidente della prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, che da presidente della Corte d'Assise di Bergamo respinse come inammissibili le richieste della difesa di esaminare i reperti, e Laura Epis, funzionaria responsabile dell'Ufficio di corpi reato. A loro nei mesi scorsi era giunto l'avviso di proroga dell'indagine che adesso, invece, sarebbe vicina alla chiusura. l titolare del fascicolo, il procuratore aggiunto Adelchi D'Ippolito, negli scorsi mesi ha sentito come testimoni i titolari dell'accusa nel processo e alcuni investigatori- carabinieri e tecnici dei Ris - che nel giugno 2014 seguirono la pista del Dna che portò all'arresto di Bossetti. L'obiettivo dei difensori, ovviamente, è quello di scovare un appiglio che consenta una revisione del processo.

MOLTI INTERROGATIVI - «Abbiamo chiesto mille volte di poter riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva - ha spiegato l'avvocato Salvagni - Ma ci è stato sempre negato. Quando invece, nel 2019, il Tribunale di Bergamo accolse la nostra richiesta ci sentimmo poi dire però che i campioni "sarebbero stati distrutti"; cosa che apre molti interrogativi. Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l'autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possono aver subito trasferendoli dall'ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell'Ufficio corpi di reato - spiega l'avvocato Salvagni. L'obiettivo della denuncia è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili». 

Yara Gambirasio, giallo sul dna: indagato un giudice a Bergamo. Il Dubbio 31 marzo 2022.

La procura di Venezia apre un'inchiesta sulle provette costate l'ergastolo a Massimo Bossetti. L'ipotesi di reato è frode in processo e depistaggio.

La procura di Venezia ha iscritto nel registro degli indagati il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis, per il caso Yara Gambirasio. Come riferisce il Corriere della Sera, per entrambi l’ipotesi è quella prevista dall’articolo 375 del codice penale: frode in processo e depistaggio.

L’inchiesta nasce da una denuncia presentata nel giugno del 2021 dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato in via definitiva per l’omicidio della 13enne di Brembate, alla procura veneta (titolare dei fascicoli che riguardano i magistrati di Bergamo) perché qualcuno potrebbe aver occultato deliberatamente 54 provette contenenti il Dna che è costato l’ergastolo all’imputato. In particolare la difesa ha sempre lamentato di non aver avuto accesso diretto alle tracce di Dna trovate sui leggins e sulle mutandine della vittima classificate inizialmente come “Ignoto 1” e poi attribuite a Bossetti.

Nel corso del dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di “Ignoto 1”, non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita», successivamente invece si è dato atto della disponibilità di 54 campioni di Dna trovati sul corpo della vittima. Ma il sospetto della difesa è che «il materiale confiscato sia stato “conservato in modo tale da farlo deteriorare” vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive». Nei mesi scorsi sarebbero stati ascoltati diversi testimoni, compresa la pm Letizia Ruggeri titolare dell’inchiesta sull’omicidio di Yara, e ora l’inchiesta veneziana sembrerebbe vicina alla chiusura «e, sempre stando alle indiscrezioni, finora – scrive il quotidiano – non sarebbe emersa alcuna prova di un comportamento doloso».

Se così fosse la procura non potrà che chiedere l’archiviazione del fascicolo. «Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato – spiega l’avvocato Salvagni -. L’obiettivo della denuncia è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di “Ignoto 1″».

Da “TeleLombardia” il 27 gennaio 2022.

Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni dei legali di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini nel giorno in cui il Tribunale di Bergamo ha dichiarato per la seconda volta inammissibile la loro richiesta di conoscere lo stato e il luogo di conservazione dei campioni di dna oggetto di confisca, nonostante l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione lo scorso 26 luglio 2021. 

Il lungo sfogo dei legali sarà in onda questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” a partire dalle 20.30 su Telelombardia.

Nel corso della suddetta trasmissione verrà data lettura di una missiva di protesta indirizzata ad “Iceberg” direttamente da Massimo Bossetti a seguito dei ritardi della Suprema Corte che ha fissato l’udienza per la decisione sull’anali dei reperti solo il prossimo 7 aprile (la decisione sarebbe dovuta arrivare lo scorso 16 novembre).

“La corte di Bergamo probabilmente pensa di essere superiore alla corte di Cassazione, se i principi di questa vengono disattesi. Se pensano che la difesa abbandoni per stanchezza si sbagliano di grosso. Stiamo già lavorando al quinto ricorso” – sostiene l’avvocato Claudio Salvagni. 

“Per noi è fondamentale conoscere questo stato di conservazione perché come è noto affinchè si possano fare delle analisi sul dna occorre che questo sia stato conservato a temperatura costante e sotto lo zero cosi com’era custodito al San Raffaele di Milano prima della confisca. 

Se prima potevamo avere dei dubbi che questi reperti fossetto stati distrutti ora ne abbiamo la certezza oppure resi inutilizzabili per via di una cattiva conservazione. Non si vuole assolutamente consentire che gli errori clamorosamente commessi vengano smascherati.” 

"Se vi abbiamo negato l'esame dei reperti a maggior ragione non vi dobbiamo dire come e dove sono stati conservati". E' quanto scritto nell'ordinanza, per noi è la prova che non sono più utilizzabili – prosegue l’avvocato Paolo Camporini.

Ancora una volta la Corte d'Assise di Bergamo non si è attenuta a quanto disposto dalla Cassazione, questa decisione ci costringe a fare un nuovo ricorso entro 15 giorni. E' una decisione che ci ha sorpreso, questa è un'inammissibilità per noi incomprensibile. Abbiamo anche scoperto che c'è un'ispezione ministeriale in corso, non ne sapevamo nulla.

“Sono confinato trattenuto dentro a queste mura che ogni giorno mi stanno sempre più strette, continuo nel vedermi la dignità disconosciuta, disprezzata, calpestata e i miei diritti fondamentalmente ignorati e violati. 

Sono mesi ormai che attendo che si fissi questa benedetta udienza in corte d’Assise sull’analisi dei reperti. Com’è possibile che la decisione di organo Supremo come una Corte di Cassazione, che per tre volte consecutive si è espressa in modo favorevole accogliendo tutti i miei tre ricorsi, venga ancora oggi ignorata.

Mi chiedo del perché il sussistere di questo vergognoso scorretto comportamento, a maggior ragione, se non si ha nulla da temere, ne da nascondere, dato che si è pure cosi estremamente convinti della mia colpevolezza. 

Continuare nel rimbalzarmi da una Corte all’altr , come se fossi un semplice pacco postale, divenuto ormai fin troppo scomodo e pericoloso per essere preso in considerazione. 

A oggi mi chiedo perché tutta questa assurda perdita di tempo? Perché tutte queste difficoltà nel concedermi le giuste cause per potermi difendere da questa giustizia che faccio molta a capire. Non mi fermerò mai urlo esigo e pretendo solo e unicamente, che mi ci si metta nelle condizioni di ripetere questo benedetto esame scientifico. Porca miseria buttate giù le vere prove, una volta per tutte fatelo se avete il coraggio”. Massimo Bossetti

I legali preparano il quinto ricorso. Yara Gambirasio, respinta ancora una volta la richiesta di Bossetti sul Dna: “La mia dignità calpestata”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Una nuova richiesta di conoscere lo stato e il luogo di conservazione dei campioni di Dna fatta dai legali di Massimo Bossetti è stata bocciata dalla Corte di Assise di Bergamo. Il muratore di Mapello è in carcere dal giugno del 2014, condannato definitivamente all’ergastolo per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, scomparsa da casa mentre rientrava dalla palestra nel novembre 2010 e ritrovata senza vita tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola.

La Corte d’Assise di Bergamo ha dichiarato inammissibile la richiesta dopo l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione lo scorso 26 luglio 2021. Già altre due volte i giudici avevano rifiutato la richiesta dei legali di Bossetti di accederee analizzare i campioni del Dna.

“La Corte di Bergamo probabilmente pensa di essere superiore alla Corte di Cassazione, se i principi di questa vengono disattesi – hanno detto i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini nella trasmissione Iceberg di Telelombardia – Se pensano che la difesa abbandoni per stanchezza si sbagliano di grosso. Stiamo già lavorando al quinto ricorso”.

“Per noi è fondamentale conoscere questo stato di conservazione perchè come è noto affinchè si possano fare delle analisi sul dna occorre che questo sia stato conservato a temperatura costante e sotto lo zero cosi com’era custodito al San Raffalele di Milano prima della confisca”.

Intanto dal carcere Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, ha inviato una lettera: “Sono confinato trattenuto dentro a queste mura che ogni giorno mi stanno sempre più strette, continuo nel vedermi la dignità disconosciuta, disprezzata, calpestata e i miei diritti fondamentalmente ignorati e violati”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Qual è la Verità.

Dagospia l’8 novembre 2022. Da “Radio Cusano Campus” 

Sono passati 15 anni da quel drammatico 1 novembre 2007 quando in una casa di Perugia fu ritrovata sgozzata dopo essere stata violentata, la 21enne studentessa inglese Meredith Kercher. Per quel delitto venne condannato a 16 anni di reclusione con rito abbreviato l'ivoriano Rudy Guede; condannato in concorso con ignoti, mai identificati. Il caso è stato approfondito nella trasmissione “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV.

A distanza di 15 anni Giuliano Mignini, il pm che ha condotto le indagini e rappresentato l'accusa al processo, difende Amanda Knox da chi la accusava di avere un atteggiamento non adatto alla situazione e dichiara: “Voleva anche a suo modo darci aiuto. Aveva un atteggiamento anche scherzoso ma secondo me è stato enfatizzato questo aspetto. Non è stata capita secondo me. Lei probabilmente cercava anche di esorcizzare la paura”.

Tra gli altri è intervenuto anche il legale di Raffaele Sollecito, l'avvocato Luca Maori dicendo: “Come vengono giustamente espulsi tunisini, nordafricani e altri soggetti non comunitari che spacciano la droga e poi vengono condannati a 2-3 anni di carcere, non deve essere espulso un soggetto che è stato condannato per omicidio volontario aggravato? Lo prevede la legge.

Un soggetto del genere non può avere un permesso di soggiorno e Rudy Guede non ha un permesso di soggiorno perché è cittadino ivoriano. Ha avuto un permesso di soggiorno temporaneo nel momento in cui è stato messo in affidamento. Il questore di Viterbo gli ha dato la possibilità di poter svolgere attività di recupero. Quindi avendo finito di scontare la pena, il permesso scade naturalmente e deve essere espulso. Il questore lo deve fare. Se il questore non lo espelle commette un reato”.

Delitto di Perugia, la sorella di Meredith: «Guede non agì da solo, dove sono finiti gli altri?» Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022.

«Giuro che non capisco...». Stephanie, la sorella di Meredith Kercher non si capacita. Perché non si può riaprire il caso dell’omicidio di sua sorella Meredith e cercare gli altri responsabili oltre a Rudy Guede? Perché se la condanna diceva 16 anni poi Rudy è uscito prima? L’avvocato Francesco Maresca, con pazienza e con dolcezza, l’altro giorno le ha spiegato una volta di più che il sistema giustizia italiano funziona così. Che si può indicare un imputato come responsabile di un delitto «in concorso» con altri, e poi non individuare gli altri. Che si può essere condannati a 16 anni di carcere e scontarne di meno perché esiste un meccanismo che a determinate condizioni premia il condannato. Che non è possibile tornare indietro e riprocessare Amanda Knox e Raffaele Sollecito, indicati all’inizio come complici di Rudy e poi assolti definitivamente. E non è nemmeno possibile riaprire le indagini e cercare oltre quei tre nomi perché non è mai esistita l’ipotesi di nomi alternativi. Sono passati 15 anni, Stephanie ha seguito il processo, ha letto le carte, ha pianto accanto ai suoi genitori — che oggi non ci sono più — e mai ha pensato di arrendersi. E ancora oggi, anche se non vede nessuna strada per raggiungerla, chiede giustizia per Meredith, sorella adorata e studentessa Erasmus in Italia morta a 21 anni la sera del 1 novembre 2007 a Perugia, nella casa che condivideva con Amanda Knox.

Stephanie, lei in passato si è detta delusa dalla giustizia italiana. È ancora così? «Sì. Il passare del tempo non attenua niente e rimane in me un profondo senso di delusione perché il ragionamento dei giudici non coincide con l’esito del processo. La sentenza di condanna di Guede diceva che lui era coinvolto nell’omicidio assieme ad altri ma dove sono gli altri? Nella conclusione di questo processo io vedo molte domande senza risposte».

Knox e Sollecito in questi anni sono stati più volte personaggi da gossip. Si sono visti di recente in Italia, come saprà. Che cosa ha pensato leggendo di loro? «Diciamo che avrei apprezzato di più se per il 15esimo anniversario della morte di Mez l’attenzione dei media si fosse concentrata sul ricordo di lei».

Lei pensa che Rudy dica la verità quando giura di non essere il killer? «La risposta a questa domanda doveva arrivare dal sistema giudiziario italiano che, come ho già detto, invece ha lasciato aperti molti interrogativi».

Qual è il primo ricordo di Mez che le viene in mente? «Il suo sorriso: una cosa memorabile. Ed è contagioso quando guardo le sue fotografie».

Delitto di Perugia, la storia

Che tipo di sorella era Meredith? «Era molto divertente, intelligente e premurosa con gli amici e con la famiglia, specialmente con mia madre. Se chiudo gli occhi posso ancora vederla, sentirla... Il vuoto che ha lasciato non potrà mai essere colmato. il dolore rimane anche se passa il tempo. Ci sarà sempre posto per lei nei miei pensieri e nel mio cuore».

Che cosa sognava per il futuro? «A lei interessava molto l’italiano e la politica, com’era per mia madre. E poi la scrittura, e in quel caso aveva preso da mio padre. Sono certa che la sua vita avrebbe avuto un grande impatto nel mondo».

Che cosa le rimane di Mez, oggi? «A parte quel che provo ogni volta che penso a lei, custodisco amorevolmente una scatola della memoria. Dopo la sua morte, con i miei, abbiamo messo via i suoi compiti, gli oggetti scolastici, i libri, le fotografie... Era un modo per avere sempre a portata di mano una parte di lei accanto a noi».

Che cosa ricorda di quell’1 novembre così drammatico? «Ricordo che cambiò tutto in un momento ed è doloroso ripensarci. Quel che terrò stretto a me per sempre è il calore, la gentilezza, il sostegno che mi hanno trasmesso amici, vicini, parenti ma anche persone sconosciute da tutto il mondo, specie in Italia».

Qual è stata la ferita più grande che ha dovuto affrontare durante il processo? «La durata stessa del processo è stata una ferita che ha reso più difficile elaborare il lutto. Assistere alle udienze è stata ogni volta una sofferenza, e soprattutto per i miei genitori è stata durissima».

"Ho sofferto i pregiudizi". La nuova vita di Raffaele Sollecito. Raffaele Sollecito ha una vita, una carriera, molti affetti. A oltre 10 anni dalla sua assoluzione per il delitto di Perugia si racconta a IlGiornale.it. Angela Leucci il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

È un uomo completamente diverso da come è stato dipinto quindici anni fa. Raffaele Sollecito riparte da se stesso, lontano dalla raffigurazione mediatica scaturita dal processo di Perugia.

Il 2 novembre 2007, la studentessa britannica Meredith Kercher fu trovata morta nella casa che occupava in via della Pergola. Per il suo omicidio, avvenuto il giorno prima, è stato condannato per concorso il cittadino ivoriano Rudy Guede, che attualmente ha pagato il suo debito con la giustizia ed è tornato in libertà. Nell’iter giudiziario furono indagati e poi rinviati a giudizio anche lo stesso Sollecito e Amanda Knox, coinquilina della giovane inglese. I due, condannati in primo grado nel 2009, furono poi assolti in appello nel 2011 per non aver commesso il fatto. È passata quindi oltre una decade da quel verdetto di assoluzione, ma Sollecito non dimentica. Nel suo sito, in cui promuove la sua attività di cloud architect (e che è stato aggiornato strutturalmente a maggio 2022), c’è un’ampia sezione dedicata alla propria vicenda giudiziaria.

"Guede non agì da solo": dubbi sul delitto Kercher

“Il sito è nato durante la spiacevole e tragica vicenda che tutti conoscono - racconta Sollecito a IlGiornale.it riferendosi al delitto di Perugia - Ho cambiato l’infrastruttura che prima era su server fisici in Italia e ora l’ho spostato su cloud, ho cambiato il template, apportando piccole modifiche e aggiornamenti. Ho lavorato sempre come sviluppatore e ho evoluto le mie capacità per passare all’architettura a microservizi possibile nel cloud, ho preferito aggiornarlo per ottenere una base più affidabile, resiliente e migliori performance in latenza, dove posso gestire anche i miei clienti”.

Sollecito, sul suo profilo Facebook ha scritto un motto che forse si ispira all’opera di Shopenhauer: “Sognare e vivere per vedere quel sogno”. Cosa immagina o spera per sé nel suo futuro?

“Essere un punto di riferimento nell’ambito tecnologico come ingegnere informatico, soprattutto nel cloud. Ho attualmente la certificazione cloud architect professional Aws (Amazon Web Services)”.

Ha subito dei pregiudizi in seguito alla sua storia? Durante il processo a suo carico, la passione per i manga è stata usata, insolitamente, per descriverla in modo negativo.

“Assolutamente sì, i pregiudizi affliggono tutti coloro che sono sovraesposti e quindi non è accaduto solo a me. Figuriamoci cosa mi sarei potuto aspettare io. In ambito lavorativo questo mi ha fatto soffrire molto quando è accaduto. Per fortuna, grazie a impegno, determinazione e persone che mi sono state accanto, sono riuscito pian piano a cambiare il corso degli eventi”.

"Non l’ho uccisa. C’è stato un approccio, poi…". La verità di Rudy Guede

Ha letto il libro di Rudy Guede?

“No, penso che lo leggerò. Potrebbero esserci dei riferimenti alla mia persona. Dei giornalisti mi hanno detto che c’è un capitolo scritto dall’ex pm (Giuliano Mignini, ndr). Se quest’informazione è vera, mi chiedo perché un ex pm dovrebbe scrivere un capitolo nel libro dell’assassino di Meredith. Mi lascia molto perplesso, mi chiedo cosa ne pensano i fratelli di Meredith”.

Oggi si è messo il passato alle spalle. Come ha scelto la sua carriera?

“Sono sempre stato un appassionato di computer e tecnologia. A 8 anni, ero un bambino, mio padre, che era un medico chirurgo usava un 286 Ibm. Io accendevo questo ‘strano televisore’ e quando ho scoperto che con dei comandi potevo lanciare programmi di esecuzione, mi si è aperto un mondo. Ne sono rimasto profondamente affascinato. Mi sono incaponito a volerne sapere sempre di più: sono sempre stato un nerd, appassionato di videogiochi e manga giapponesi. Ho fatto un percorso su questa strada che non ho voluto mai cambiare perché ci ho creduto sempre. Perché non avrei dovuto crederci?”.

Come mai sul suo sito non si parla solo del suo lavoro ma anche della sua vita privata, per esempio attraverso i racconti di chi le vuole bene e le sue foto da piccolo?

“È un archivio storico. Quei contenuti, anche se in diversa forma, c’erano prima: mi spiaceva cestinarli. Il sito raccoglie me, sia dal punto di vista della mia famiglia, sia del libro che ho scritto negli Stati Uniti (Honor Bound del 2013, ndr)… ci sono diverse parti di me già online e distribuite al pubblico. Non mi andava di oscurarle. Non ho niente di cui vergognarmi, non ho niente da rimproverarmi”.

Lo stesso quindi si può immaginare di dire dell’archivio relativo agli articoli sul delitto di Perugia dal quale è risultato estraneo. Secondo lei è possibile il diritto all’oblio nell’era d’oro di Internet?

"Bisogna avere gli strumenti e le conoscenze per farlo ma sì, è possibile tecnicamente. Ma si deve chiedere la consulenza a un esperto. Nel caso delle persone che, come me, hanno subito una sovraesposizione mediatica, diventa più complicato. Poi dipende da quanto si è parlato di una persona su diverse piattaforme. Per esempio tutti i contenuti di Facebook non vengono controllati su Google. C’è anche una questione di policy e diritti distribuiti geograficamente tra le varie aziende".

Tornando alla sua carriera, che cosa fa esattamente un cloud architect?

"Significa disegnare e implementare l’infrastruttura - il cloud - di cui un’azienda ha bisogno per poter espletare le proprie necessità informatiche".

Cos'è il cloud?

"Il cloud, nato per la prima volta con Amazon nel 2008, è quell’infrastruttura - che viene affittata da terzi, così come i suoi servizi - caratterizzata da resilienza, affidabilità, tecnologie che permettono bassissima latenza e, politiche di disaster recovery e backup capaci di recuperare tutti i nostri dati. Perché questi dati si trovano in più data center in Europa o in giro per il mondo, affinché non vengano persi. Anche il Cern si serve del cloud per le sue simulazioni. È un mondo pieno di opportunità, lo era quando sono uscito dal carcere ed è sempre in crescita".

"Quei gesti di Amanda...". Parla il pm che indagò sull'omicidio di Meredith. L'ex pm che si occupò delle indagini sull'omicidio di Meredith Kercher ha parlato di Amanda Knox: "A suo modo, voleva anche aiutarci. Non è stata capita". Rosa Scognamiglio il 7 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Amanda voleva, a suo modo, aiutare le indagini". A dirlo è stato Giuliano Mignini, il magistrato della procura di Perugia che indagò sull'omicidio di Meredith Kercher, nel corso di un intervento al programma televisivo "Crimini e Criminologia" in onda su Cusano Italia TV domenica 7 novembre. L'ex pm ha ripercorso ai microfoni di Fabio Camillacci, giornalista e doppiatore, alcuni momenti salienti della vicenda soffermandosi, in particolare, su Amanda Knox: "Non è stata capita, secondo me", ha detto a proposito della 35enne statunitense.

"Rudy Guede dev'essere espulso dall'Italia". L'accusa del legale di Sollecito

Il "caso" Amanda Knox

Nata e cresciuta a Seattle nel luglio del 1987, Amanda Knox è stata una delle protagoniste del delitto di Perugia (1°novembre 2007). Sospettata fin da subito di un presunto coinvolgimento nell'omicidio di Meredith Kercher, fu condannata e poi assolta in via definitiva dalla Cassazione nel 2015. Catturò l'attenzione dei media italiani e della stampa internazionale per l'atteggiamento apparentemente disimpacciato davanti alle telecamere che, al tempo, erano puntate sulla casa al civico numero 7 di via della Pergola, la scena del crimine. L'abbraccio con Raffaele Sollecito fuori dalla villetta, a poche ore dal delitto, e la passeggiata in centro nei giorni successivi alla tragedia - tutte circostanze poi chiarite dai diretti interessati - gettarono ombre sulla studentessa statunitense. "Aveva un atteggiamento anche scherzoso ma, secondo me, è stato enfatizzato questo aspetto" ha detto il magistrato Mignini riferendosi ad Amanda Knox.

A Perugia, poi a Gubbio con Sollecito. Le vacanze italiane di Amanda Knox

"Non è stata capita"

Nel corso dell'intervento al programma di approfondimento sul caso dell'omicidio di Meredith Kercher, Mignini ha ricordato uno dei primi incontri con Amanda. "Ritornammo in quella casa il giorno dell'autopsia - ha spiegato il magistrato - Andammo con la squadra Mobile e portammo anche Amanda per far vedere i coltelli che c'erano nella cucina. A un certo punto, lei ebbe una sorta di svenimento. Cominciò a fare un gesto, una cosa che faceva spesso: si metteva i palmi delle mani sulle orecchie. Sembrava come se cercasse di dimenticare un grido, un suono che l'aveva terrorizzata". Poi ha continuato: "Ricordo che la vedemmo anche in un'altra occasione. Lei voleva anche, a suo modo, darci un aiuto. Così sembrava. Ci sono stati dei gesti, come fare la ruota davanti alla polizia, che per noi restano incomprensibili". Infine, l'ex pm ha concluso: "Non è stata capita secondo me. Lei probabilmente cercava anche di esorcizzare la paura".

Amanda Knox e l’omicidio di Meredith Kercher: la storia del delitto di Perugia e la verità giudiziaria. La sera del 1° novembre 2007 la studentessa britannica di 22 anni venne assassinata con una coltellata alla gola. Dopo oltre 7 anni di processi Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti definitivamente, l'unico condannato rimane Rudy Guede. Cosa fanno oggi i protagonisti del giallo che ha diviso l'opinione pubblica di tre Paesi. Angela Geraci su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Amanda e Raffaele

Le circostanze del ritrovamento del corpo sono particolari: a scoprire il cadavere - senza vestiti, insanguinato e parzialmente coperto da un piumone, nella camera da letto della ragazza - sono state verso l’ora di pranzo quattro persone: l’americana Amanda Knox, 20 anni, una delle coinquiline della vittima; Raffaele Sollecito, 23 anni, da pochi giorni fidanzato con la giovane di Seattle, e due agenti della polizia postale chiamati dai ragazzi perché hanno trovato due telefoni cellulari di Meredith nel giardino di una casa vicina.

Amanda e Raffaele - lei studentessa di scrittura creativa all’Università per stranieri, lui iscritto a informatica - con il loro comportamento attirano subito l’attenzione, sia quella degli inquirenti che quella dell’opinione pubblica. Davanti alla scena del crimine, la casetta di via della Pergola, si tengono per mano e si abbracciano come se non si rendessero conto della gravità della situazione. Due giorni dopo il delitto vengono anche sorpresi a fare shopping in un negozio di intimo, sorridenti e complici si baciano. E poi ci sono i rilievi della polizia scientifica: alcune cose non quadrano. Per esempio il fatto che la finestra della stanza di un’altra coinquilina di Meredith - non in casa in quei giorni - abbia un vetro che sembra rotto dall’interno, come per depistare. A quattro giorni dall’omicidio Amanda e Raffaele vengono fermati. E si dicono innocenti: la notte in cui Meredith è stata assassinata erano insieme a casa di lui dove hanno visto un film, «Il favoloso mondo di Amelie».

Patrick Lumumba

Il delitto internazionale calamita immediatamente l’interesse dei media, sia quelli italiani che quelli britannici e statunitensi. Si inizia a scavare nelle vite di Amanda e Raffaele e le foto dei loro profili social finiscono in prima pagina e in prima serata in tv. E sono destinate a rimanere impresse nella memoria come lo scatto in cui lei, in un abito corto giallo, ride a crepapelle facendo finta di sparare con un mitra (vero) o l’immagine di lui avvolto dalla carta igienica e con una mannaia in mano a una festa in maschera. Poi arriva la svolta: Amanda accusa del delitto Patrick Lumumba, proprietario del pub in cui l’americana lavora di tanto in tanto.

Patrick Lumumba (Ansa)

Lumumba, 37enne congolese, viene arrestato e anche il suo volto finisce sulla stampa di mezzo mondo. L’uomo, padre di un bambino piccolo, passerà circa due settimane in carcere prima di essere riconosciuto estraneo alla vicenda e prosciolto (grazie alla testimonianza di un professore svizzero che lo scagiona). Amanda Knox è stata condannata a tre anni per averlo calunniato.

Rudy Guede

Il giorno in cui Lumumba viene liberato, il 20 novembre 2007, entra in scena un nuovo protagonista del caso che sta appassionando tutta Italia e non solo. Si chiama Rudy Guede, è un ivoriano di 21 anni che fin da piccolo vive a Perugia e viene arrestato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere di Meredith e diverse tracce di Dna in casa. Tra l’altro c’è il suo cromosoma Y sul tampone vaginale fatto alla vittima: sono segni da “strofinamento”, la violenza sessuale non può essere provata. In casa c’è anche l’impronta di una sua scarpa, all’inizio attribuita erroneamente a Raffaele Sollecito. Il ragazzo fornisce una ricostruzione dei fatti bizzarra. Dice che la sera del 1° novembre è andato a casa con Meredith e fra loro è iniziato un rapporto sessuale consenziente. All’improvviso però lui si è sentito male perché aveva mangiato un kebab ed è dovuto scappare in bagno. Quando esce dopo aver sentito un urlo non riesce a guardare bene gli aggressori, poi vede Meredith in un lago di sangue si spaventa e scappa via senza chiamare aiuto. Guede è stato processato con il rito abbreviato e condannato a 30 anni di carcere - ridotti poi a 16 anni - per concorso in omicidio (con Amanda e Raffaele, secondo l’accusa).

La battaglia di perizie sui reperti

Nella storia lunga e complicata del delitto di Perugia l’arma che ha ucciso Meredith Kercher non è mai stata identificata con certezza. A un certo punto tracce del Dna della studentessa londinese e di Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Raffaele ma questi risultati vengono smentiti in una serie di perizie arrivate negli anni successivi, tra cui una dei carabinieri del Ris che rintraccia sulla lama soltanto il codice genetico della americana. Intanto oltreoceano si organizzano campagne in difesa di Amanda Knox, cittadina statunitense rimasta incastrata e stritolata - secondo la stampa - negli strani meccanismi della giustizia italiana. Vengono anche prodotte delle borse con la scritta «Free Amanda». E i genitori accusano la polizia di Perugia di aver maltrattato la figlia e averla lasciata senza un traduttore durante i primi interrogatori. Altro oggetto diventato famoso è il gancetto del reggiseno di Meredith, repertato addirittura 46 giorni dopo il delitto e su cui viene rintracciata una piccolissima traccia del Dna di Raffaele Sollecito. L’accusa crede di avere incastrato il pugliese; per la difesa invece quella modesta porzione di Dna è finita lì per «contaminazione» perché il gancetto è stato toccato da tante, troppe mani. Su questo punto procura e difensori combatteranno per anni e alla fine l’accertamento tecnico sarà considerato «non attendibile».

La sentenza di primo grado: la condanna

Il 5 dicembre 2009, a poco più di due anni dall’uccisione di Meredith Kercher, la corte d’Assise di Perugia pronuncia la sentenza di primo grado: Amanda Knox viene condannata a 26 anni, Raffaele Sollecito a 25. Il 22 marzo 2010 vengono depositate le motivazioni: secondo i giudici i ragazzi hanno ucciso Meredith spinti da un movente «erotico, sessuale, violento».

Il secondo grado: l’assoluzione

Passano altri mesi e a fine novembre 2010 inizia il processo di secondo grado. Vicino a Raffale Sollecito c’è anche l’avvocato Giulia Bongiorno, Amanda Knox continua a catturare i flash dei fotografi quando entra in aula con i suoi vestiti colorati e i suoi occhi azzurri. Il 3 ottobre 2011 arriva la sentenza che i due ragazzi sognavano da quattro anni: la corte assolve i due imputati dall’omicidio «per non avere commesso il fatto» e ne dispone la scarcerazione. Il procuratore aveva invece chiesto l’ergastolo.

Amanda Knox piange di gioia dopo l’assoluzione (Ansa)

Amanda parte per gli Stati Uniti il giorno dopo. Sia lei che Raffaele rilasciano interviste, scrivono libri e provano a riconquistare una vita il più possibile “normale”, sempre tenuti d’occhio come sono dai fotografi. Il 15 dicembre 2011 vengono depositate le motivazioni della assoluzione: secondo i giudici di secondo grado i «mattoni» su cui si è basata la condanna «sono venuti meno»: c’è una «insussistenza materiale» degli indizi e l’ordinamento «non tollera la condanna dell’innocente».

La Cassazione: tutto da rifare

Meno di un anno e mezzo dopo l’assoluzione, il 26 marzo 2013, la doccia fredda: la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rinvia tutto alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo di appello.

Il processo di appello bis: un nuovo ribaltone

Il 30 settembre 2013 inizia a Firenze il secondo processo di appello. Amanda rimane negli Stati Uniti per paura di finire di nuovo in carcere se si troverà in Italia e il verdetto sarà sfavorevole. Lo scrive proprio in una lettera che manda alla Corte. Invece Raffaele segue le udienze e rilascia dichiarazioni spontanee: «Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso». L’accusa chiede 30 anni per Amanda e 26 per Raffaele. Ma - a quasi 5 anni dal delitto - il movente adesso è cambiato: non si tratterebbe più di un gioco erotico finito male ma di una lite legata a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa. La sentenza arriva il 30 gennaio 2014 dopo quasi 12 ore di camera di consiglio. Poco prima delle 22 viene letto il verdetto (il quarto) che ribalta l’assoluzione stabilita dal precedente appello. I due ragazzi vengono condannati per concorso nell’omicidio di Meredith: Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi, Raffaele Sollecito a 25 anni . Per Amanda, che è negli Stati Uniti, non c’è ovviamente alcuna misura restrittiva; per Raffaele viene disposto il divieto di espatrio con ritiro del passaporto. Il giovane viene rintracciato all’alba in un hotel della provincia di Udine, dove era con un’amica: «Ho fatto un giro in Austria, poi sono rientrato in Italia: mi sono fermato lì a riposare», spiega ai poliziotti che gli ritirano i documenti. Si torna in Cassazione.

Il ritorno in Cassazione e l’ultimo verdetto

Il giorno che segna la svolta definitiva nella storia giudiziaria del delitto di Perugia e nelle vite dei protagonisti è il 28 marzo 2015. Sono passati quasi sette anni e mezzo dalla notte del 1° novembre 2007, quando Meredith Kercher è stata uccisa con una profonda coltellata alla gola. È il giorno in cui la Cassazione annulla senza rinvio le condanne di Amanda Knox e Raffaele Sollecito: assolti per non aver commesso il fatto. Restano i tre anni di condanna a Knox per calunnia ai danni di Patrick Lumumba, ma li ha già ampiamente scontati.

I protagonisti oggi: l’americana

Amanda Knox, 31 anni, vive sempre negli Stati Uniti dove si è laureata, fa la giornalista, ha scritto un libro («Waiting to be heard», nel 2013) ed è impegnata in un’associazione che si occupa di vittime di errori giudiziari. Netflix le ha dedicato un documentario nominato agli Emmy. Ha un fidanzato, lo scrittore Christopher Robinson. In queste ore è in Italia dove ha raccontato la sua vicenda all’Innocence Project di Modena, con un intervento nel quale ha ripetuto la sua versione dei fatti e ha detto: «Molti pensano che la mia presenza qui possa profanare la memoria d Meredith. Non è così». Il 3 ottobre 2017 ha celebrato con un tweet l’anniversario della sua scarcerazione

I protagonisti oggi: il pugliese

Raffaele Sollecito, 35 anni, si è laureato in ingegneria informatica nel 2014 con una tesi su se stesso. Il tema era «Innocentisti e colpevolisti sul web», voto 88 su 110. Poi ha creato il sito «Memories» (BeOnMemories.com), una specie di social network/app per commemorare i defunti. Anche lui, come Amanda, ha scritto un libro e si batte per i diritti civili. Nel 2016 scorso ha partecipato al congresso dei Radicalidove ha detto la sua sul sistema penitenziario in Italia che «così com’è non serve a nulla: lasciare una persona in una stanza 2 metri per 3 dalla mattina alla sera è un’aberrazione umana e serve solo a mettere la polvere sotto il tappeto». Ha aggiunto anche che abolirebbe subito il carcere preventivo. Per i quasi 4 anni che ha trascorso in carcere non gli è stato riconosciuto il risarcimento per ingiusta detenzione: la Cassazione il 28 giugno 2017 ha respinto la sua richiesta di indennizzo di 516 mila euro. Per Raffaele Sollecito è stata una decisione «inspiegabile»: «Se ancora non trovo un lavoro - ha sottolineato - è per quanto mi è successo. Sto ancora subendo le conseguenze degli anni passati in carcere da innocente e non capisco perché questo non venga compreso».

I protagonisti oggi: l'ivoriano

Rudy Guede, 31 anni, resta l'unico condannato per l'omicidio di Meredith. Anche se in concorso con qualcuno la cui identità a questo punto - dopo l'assoluzione di Raffaele e Amanda - rimane ignota. Oggi sta finendo di scontare la sua pena a 16 anni (ha scelto il rito abbreviato e in appello ha avuto uno sconto di pena) nel carcere Mammagialla di Viterbo; dovrebbe uscire dal carcere nel 2023. Nel gennaio 2016 la giornalista Franca Leosini gli ha fatto una lunga (e controversa) intervista nel suo programma «Storie maledette» in cui Rudy ha ripetuto di essere innocente e ha annunciato di voler presentare un’istanza di revisione del processo.

Rudy Guede si affaccia a una finestra della struttura d'accoglienza del gruppo assistenti volontari animatori carcerari (Gavac) dove è stato ospitato per il permesso di 36 ore (Ansa)

Intanto a giugno dello stesso anno ha avuto un permesso premio ed è uscito di prigione per 36 ore. «Aveva paura di attraversare la strada, ha visto uno smartphone e si è chiesto cosa fosse. Guardando un televisore a schermo piatto all’interno della casa ha chiesto: “Che cos’è, un quadro?”», ha raccontato Claudio Mariani, criminologo e fermo sostenitore dell'innocenza di Guede. Il 16 luglio 2016 si è laureato con 110 e lode in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale all’università di Roma Tre. La discussione della tesi («Storia e mass-media. I mezzi e i luoghi della divulgazione storica») è avvenuta nel carcere di Viterbo da cui Rudy dovrebbe uscire nel 2023.

Da rainews.it il 30 ottobre 2022.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito si sono incontrati in Italia a quindici anni dal delitto di Perugia. Lo rivela il britannico “Mirror” che pubblica una foto che li ritrae insieme, sorridenti, a Gubbio: la meta che avevano in mente di visitare il giorno in cui fu scoperto il cadavere di Meredith Kercher. Una gita rinviata, all’epoca, per “cause di forza maggiore”. Secondo quanto riporta il popolare tabloid inglese, la “rimpatriata” risale al mese di giugno e con Amanda c’erano anche il marito Chris Robinson e la figlioletta che adesso ha un anno.

A confermare la vicenda al quotidiano è lo stesso Sollecito, raggiunto telefonicamente dal cronista che l’ha ricostruita. Sarebbe stata la trentacinquenne di Seattle a lanciare l’idea, che Raffaele ha raccolto con entusiasmo. “E’ stato bello poter parlare tra noi di qualcosa che non fosse il caso giudiziario”, avrebbe riferito Sollecito. I due non si rivedevano dai tempi del processo che si è concluso nel 2015 con l’assoluzione definitiva di entrambi, dopo quattro anni di carcere. I giudici esclusero la loro partecipazione materiale all’omicidio e sottolinearono l’assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili nella camera dove avvenne il delitto o sul corpo di Meredith.

La scelta di Gubbio chiude un cerchio per Amanda e Raffaele, ma mette sale sulle ferite mai rimarginate dei familiari della vittima, alla vigilia dell’anniversario della morte, il primo novembre 2007. Rudy Guede, l’unico colpevole riconosciuto dalla giustizia italiana in “concorso” - anche se coloro che erano inizialmente indicati suoi complici sono stati scagionati - è tornato libero da un anno, ha un lavoro e promuove un libro con la sua versione dei fatti, ovviamente innocentista.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono tornati a Gubbio. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Amanda Knox è tornata a Perugia a metà giugno, dove ha incontrato il suo storico avvocato; poi ha rivisto Raffaele Sollecito a Gubbio. I due erano stati indagati, processati e assolti per il delitto di Meredith Kercher 

L’ultima volta che li abbiamo visti assieme a Perugia, liberi, erano imbacuccati in giubbotti invernali e abbracciati l’uno di fronte all’altra davanti alla casa di via della Pergola. La casa del delitto. Facce stravolte, espressione preoccupata, lacrime. 

La nuova immagine è tutt’altra cosa. Sono a braccetto per le vie di Gubbio. Insieme come quindici anni fa, ma stavolta felici. O almeno: questo trasmette la fotografia pubblicata dal Mirror con la rivelazione sul loro incontro in Italia, a giugno, e la loro gita a Gubbio, 15 anni dopo l’omicidio di Meredith. 

Amanda, 35 anni, è raggiante sotto il suo cappello di paglia.

Raffaele, 38 anni, barba e zainetto, la cinge con un braccio e sorride. 

Istantanea di un tempo che sembra lontano anni luce da quei giorni di inizio novembre 2007. 

Meredith Kercher, studentessa inglese, classe 1985, fu uccisa la sera dell’1, a coltellate, mentre era nell’appartamento di via della Pergola, appunto, che condivideva con Amanda. A casa con lei c’era Rudy Guede, giovane ivoriano con il quale — secondo la versione di lui — aveva avuto un approccio sessuale. 

Lui, Guede, racconta che era in bagno, con le cuffiette al massimo del volume, quando ha sentito arrivare qualcuno e gli è sembrato di riconoscere la voce di Amanda. Poi un urlo lancinante, lui che corre a vedere cosa fosse successo e si imbatte in una figura maschile con il coltello in mano. Quello scappa, Rudy si affaccia dalla finestra e lo vede andare verso Amanda, che è già fuori dalla casa. Lo sente che le dice: «C’è un negro, andiamo via». 

Il ragazzo racconta di aver tentato di soccorrere Meredith ma che poi, in preda al panico, è scappato e ha commesso un lungo elenco di errori nel vano tentativo di allontanare da lui i sospetti perché temeva di non essere creduto. Ecco. 

Di tutta questa versione Amanda e Raffaele — imputati, incarcerati e poi assolti per il delitto — non condividono quasi nulla. Negli anni hanno ripetuto mille volte che Rudy è un criminale, che lui e soltanto lui ha ucciso Meredith. Che loro due non c’entrano niente. 

Processo complicato: prima la condanna, poi l’assoluzione, poi il rinvio della Cassazione, poi di nuovo la condanna e infine l’assoluzione definitiva. 

Rudy invece ha scelto il rito abbreviato ed è stato condannato a 16 anni; è libero da un anno. 

Difficile pensare che rivedendosi Amanda e Raffaele non abbiano parlato dei giorni angoscianti dopo il delitto. Anche perché il 2, cioè il giorno in cui fu ritrovato il corpo di Meredith, avevano programmato una gita a Gubbio. Ed è lì che hanno scelto di andare, quando si sono rivisti. Come a riannodare il filo di un discorso lasciato in sospeso. Dove eravamo rimasti? A Gubbio, alla gita mai fatta perché è successo quello che è successo... 

«È stato bello — ha raccontato Sollecito al Mirror —. Avevamo programmato quel viaggio perché ovviamente non sapevamo cosa le fosse successo e quel giorno non avevamo impegni. È stato dolce-amaro tornarci perché dovevamo andare lì in circostanze così diverse, ma è stato bello per noi poter parlare di altro». 

Amanda Knox è arrivata in Italia con la sua famiglia. La sua bambina, Eureka e suo marito Cristopher. Per l’occasione è tornata anche a Perugia, rivela l’agenzia Ansa, e ha incontrato l’ex cappellano della sezione femminile del carcere, don Scarabattoli. 

Ancora Sollecito: «L’iniziativa della gita a Gubbio è stata sua, ma l’idea di entrambi. Ho provato emozioni contrastanti, sicuramente piacere di stare in buona compagnia. Ma anche tristezza per la tragedia che abbiamo subito».

Anticipazione da Oggi il 26 ottobre 2022.

A 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, parla in esclusiva a OGGI Amanda Knox, condannata in primo grado e assolta dopo quattro anni di carcere. Ora quella ragazza è una donna di 35 anni, e vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. In coppia con Chris produce un podcast (Labyrinths) e fa attivismo per prevenire gli errori giudiziari e aiutare chi ne è vittima. 

«Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata. Ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la “ragazza che è stata accusata di omicidio”», dice a OGGI.

È durissima su Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto: «Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale».

Parla Amanda Knox, 15 anni dopo il delitto Kercher: “Sono libera e mamma felice” – esclusivo. REDAZIONE ONLINE su Oggi il 26 Ottobre 2022.

L’ex ragazza incarcerata quattro anni per l’uccisione di Meredith a Perugia ora ha una figlia. Ma non ha dimenticato. Ha trasformato il peso che si porta dentro in impegno civile. E di Rudy Guede dice: “Resta un criminale”. In esclusiva su Oggi in edicola

A 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, parla in esclusiva a Oggi Amanda Knox, condannata in primo grado e assolta definitivamente dopo ben quattro anni di carcere. Ora quella ragazza è una donna di 35 anni, e vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. In coppia con Chris produce un podcast (Labyrinths) e fa attivismo per prevenire gli errori giudiziari e aiutare chi ne è vittima

“SOFFRO LO STIGMA DI UN’ACCUSA FALSA” – «Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata», dice Amanda Knox in esclusiva a Oggi in edicola. «Ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la “ragazza che è stata accusata di omicidio”».

Amanda Knox dopo l’assoluzione: “Per voi ero la persona più brutale al mondo. Ma fu Rudy Guede a uccidere Meredith” – guarda

“GUEDE CONTINUA AD ACCUSARE INNOCENTI” – Amanda Knox è durissima su Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto: «Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale».

La nuova vita negli Stati Uniti. Amanda Knox: “Soffro: sarò sempre la ragazza dell’omicidio di Meredith, Rudy Guede un criminale”. Vito Califano su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Amanda Knox ha rilasciato un’intervista in esclusiva al settimanale Oggi a 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia. “Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la ‘ragazza che è stata accusata di omicidio’“.

Queste le parole della 35enne che oggi vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. Realizza con il marito una serie di podcast e fa attivismo per prevenire errori giudiziari e sostenere le vittima. In Italia era diventata nota dopo l’efferato delitto della studentessa inglese in Erasmus Meredith Kercher – sgozzata, probabilmente dopo un gioco erotico finito male – a Perugia. Amanda era la sua compagna di stanza.

Knox era stata condannata in primo grado e assolta definitivamente da ogni accusa dopo quattro anni di carcere. È tornata a vivere negli Stati Uniti. Raffaele Sollecito, accusato per lo stesso caso, rimase in carcere dal novembre 2007 all’ottobre 2011. Era il fidanzato di Knox all’epoca. La Cassazione lo ha assolto nel 2015 definitivamente “per non aver commesso il fatto”. Lui e la sua famiglia sono stati discriminati, hanno avuto difficoltà nel reinserirsi nella vita sociale, e nel trovare un lavoro nonostante la verità processuale.

“Lo Stato sta semplicemente seguendo la scia della credenza popolare: nella nostra cultura c’è purtroppo sempre l’idea che se vieni accusato qualcosa sicuramente hai fatto, anche se poi vieni assolto – ha raccontato in un’intervista a Il Riformista – Se non trovano le prove è solo perché sei stato bravo a nasconderle. Questo pregiudizio è alimentato sicuramente dai media che pubblicizzano le prove dell’accusa in maniera tendenziosa a favore di chi sta conducendo le indagini. Però spero che alla fine vengano fuori le responsabilità di chi si è macchiato di gravissime colpe come quella di aver distrutto per sempre la mia vita. Io non cerco vendetta, vorrei soltanto che le persone che hanno sbagliato si assumano le proprie responsabilità pubblicamente per onore della verità”.

Knox intanto è ripartita a suo modo: dalla famiglia, dalle sue attività, dal suo impegno. Ed è durissima con Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto Kercher: “Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale“.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Scena del crimine. "Va espulso", "Tutto in regola". Cosa sta succedendo a Rudy Guede. L'avvocato Luca Maori, legale di Raffaele Sollecito, sostiene che Rudy Guede debba essere espulso dall'Italia poiché sprovvisto del permesso di soggiorno. La replica di Fabrizio Ballarini, difensore dell'ivoriano, a ilGiornale.it: "Tutto regolare". Rosa Scognamiglio l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scarcerazione di Guede

 Il permesso di soggiorno

 La richiesta di espulsione

"È inammissibile che un soggetto condannato per omicidio pluriaggravato, violenza sessuale e furto possa legittimamente rimanere nel nostro territorio nazionale. La legge italiana è molto chiara in tema di permesso di soggiorno: non può essere concesso senza nessuna eccezione a persone che abbiano commesso reati gravi. E mi sembra che questo sia proprio il caso del signor Rudy Guede". Lo dichiara a ilGiornale.it l'avvocato Luca Maori, legale di Raffaele Sollecito, circa la legittimità della permanenza dell'ivoriano sul territorio italiano dopo aver scontato la condanna a 16 anni di reclusione per concorso in omicidio di Meredith Kercher. Diametralmente opposta la posizione dell'avvocato Fabrizio Ballarini, difensore di Guede, che al riguardo chiarisce: "È tutto regolare".

"Ho sofferto i pregiudizi". La nuova vita di Raffaele Sollecito

La scarcerazione di Guede

Rudy Guede era stato condannato, in via definitiva della Cassazione nel 2010, a 16 anni di reclusione per l'uccisione della giovane studentessa inglese (il delitto è avvenuto a Perugia la notte del 1°novembre 2007). Nelle sentenza di condanna si parla di "omicidio in concorso con ignoti" anche se i presunti, altri corresponsabili non sono mai stati identificati. Il 23 novembre 2021, l'ivoriano è tornato formalmente libero poiché ha beneficiato di uno sconto di 45 giorni sul fine pena, previsto per il 4 gennaio 2022. La richiesta di scarcerazione anticipata, formulata dall'avvocato Ballarini, era stata accolta dal magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Viterbo. Guede, affidato ai servizi sociali, aveva già ottenuto mille e cento giorni di sconto sulla pena inflitta con il rito abbreviato. Nel 2019 ha ottenuto la semilibertà e nel 2020 l'affidamento in prova ai servizi sociali. E fin qui, tutto chiaro e regolare. La questione da sbrogliare, però, è un'altra.

"Quei gesti di Amanda...". Parla il pm che indagò sull'omicidio di Meredith

Il permesso di soggiorno

Ad oggi, il 34enne vive e lavora in Italia (come cameriere e in una biblioteca). Secondo l'avvocato Maori, Guede non avrebbe i requisiti per rimanere sul "nostro territorio nazionale". E per "requisiti" si intende un regolare permesso di soggiorno. "Io non dubito che Guede fosse stato provvisto di un permesso soggiorno - spiega l'avvocato Maori - Il punto è che ormai è scaduto. Gli è stato concesso una volta scarcerato, uno temporaneo, per dargli modo di usufruire dell'affidamento in prova. Un permesso che non è più valido e, pertanto, se non gli è stato già revocato bisognerà farlo immediatamente perché ormai Guede è un soggetto libero. Peraltro è una persona a cui non potrà mai essere concesso il permesso di soggiorno perché ha commesso un 'reato grave'. Lo prevede la legge italiana". Per contro, il legale dell'ivoriano sostiene che la posizione del suo assistito "sul territorio italiano è assolutamente regolare. Rudy Guede è titolare di permesso di soggiorno - chiarisce l'avvocato Ballarini alla nostra redazione - L'avvocato Maori è in possesso di informazioni non corrette evidentemente".

"Guede non uccise Meredith da solo. Dove sono gli altri?"

La richiesta di espulsione

Nell'ipotesi in cui Guede non fosse provvisto di regolare permesso di soggiorno, dovrebbe essere rimpatriato. L'ordinamento italiano prevede che uno straniero condannato alla reclusione per un periodo superiore ai due anni venga rimpatriato dopo la scarcerazione. L'articolo 235 del Codice Penale - "Espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato" - è chiaro al riguardo: "Il giudice ordina l'espulsione dello straniero..., oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando lo straniero... sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni". "La legge italiana - spiega l'avvocato Maori ribadendo le dichiarazioni già riportate in una nota diffusa nel tardo pomeriggio di ieri - è molto chiara in tema di permesso di soggiorno: non può essere concesso in alcun caso a persone che abbiano commesso reati gravi ed in particolare l'omicidio volontario". Poi, alla nostra redazione, il legale aggiunge: "Non credo che abbia qualche merito particolare per cui gli sia stato concesso il permesso di soggiorno. In Italia vengono espulsi tunisini, nordafricani e altri soggetti non comunitari che spacciano la droga e poi vengono condannati a due o tre anni di carcere. Non deve essere espulso un soggetto che è stato condannato per omicidio volontario aggravato?". Infine chiarisce: "Io non ho nulla contro Guede. Ne faccio una questione di giustizia, di legge. Pertanto chiediamo di avere chiarimenti riguardo alla sua posizione".

"L'omicidio, il carcere, la libertà. La mia verità su Meredith". Rudy Guede fu condannato per l'omicidio di Meredith Kercher. Nel 2021, dopo aver scontato la pena, è tornato in libertà. "Sono state dette tante cose sul mio conto che non corrispondono affatto alla verità", racconta a ilGiornale.it. Rosa Scognamiglio il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Avrei dovuto aiutare Meredith fino in fondo. Quello è l'unico rammarico che avrò per sempre". Lo confida in un'intervista rilasciata alla nostra redazione Rudy Guede, il ragazzo di origini ivoriane - oggi 35enne - che fu condannato a 16 anni di reclusione per concorso con ignoti nell'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia il 1°novembre del 2007.

Nel 2021 Guede è tornato in libertà dopo aver ottenuto uno sconto di pena. Lavora e ha scritto un libro, in collaborazione col giornalista e scrittore Pierluigi Vito: "Il beneficio del dubbio, la mia storia" (Augh! 2022), è il titolo. "Questo libro nasce dal desiderio di raccontare chi sono e fare chiarezza sulla vicenda processuale che mi ha travolto", spiega precisando che parte del ricavato dalle vendite sarà devoluto in beneficenza alla Fondazione Ospedale "Bambino Gesù"..

Rudy Hermann Guede: "si legge come si scrive", non ‘alla francese’. Lo mette subito in chiaro nelle prime righe del suo libro. Le ha dato molto fastidio che per anni qualcuno storpiasse il suo cognome?

"La pronuncia francofona non è sbagliata. Il punto è che da quando sono in Italia mi hanno sempre chiamato tutti Guede, proprio come si scrive. Io ero ‘il Guede’ per amici e conoscenti. Quando, durante gli anni del processo, sentivo pronunciare Ghedé - alla francese, per l’appunto - non mi ci identificavo, non ero io. E poi sembrava che fosse fatto quasi di proposito per rimarcare, in modo negativo, le mie origini ivoriane".

Il titolo del libro è semplice ma efficace: "Il beneficio del dubbio. La mia storia". Perché ha sentito l'esigenza di raccontare la sua vita?

"Questo libro nasce dal desiderio di raccontare chi sono e fare chiarezza sulla vicenda processuale che mi ha travolto. Sono state dette tante cose sul mio conto che non corrispondono affatto alla verità. E sarebbe bastato leggere bene le carte del processo, andare a chiedere alle persone che realmente mi conoscevano, per sapere chi fosse davvero Rudy Guede".

Che intende?

"Mi hanno descritto come un ragazzo dedito ai furti, che beveva e faceva chissà che cosa. E pensare che sono stato pure assolto 'per non aver commesso il fatto', preciso, dal reato di furto in casa di Meredith, anche se questo non viene mai riportato o si dice addirittura il contrario. Non dico di essere una persona ineccepibile o di non aver mai commesso errori. Durante l’adolescenza sicuramente ho fatto qualche cavolata ma parliamo di bravate, cose di poco conto che può aver fatto qualunque ragazzino".

La sua infanzia è stata, diciamo così, un po' turbolenta dal punto di vista della stabilità familiare. Quanto ha inciso nel suo percorso di crescita la mancanza di una famiglia unita e presente?

"Ha inciso parecchio. Mi è mancato soprattutto il fatto di non avere mia madre accanto. Sono arrivato in Italia piccolissimo, avevo cinque anni. Ho vissuto con mio padre e la nuova compagna ma lei non aveva grande simpatia per me. Ero al primo anno di elementari, ricordo, quando ho dovuto imparare a cucinare per sfamarmi. Non trovavo nessuno ad accogliermi quando rincasavo dalla scuola, dovevo provvedere a me stesso per tutto quanto. Sa cosa vuol dire crescere senza l’abbraccio o il bacio della buona notte di una madre sapendo, peraltro, che vive in un altro continente? È una circostanza che inevitabilmente ti segna nel profondo".

Però in Italia è stato accolto e benvoluto da molte persone. Sbaglio?

"Verissimo. A partire dalla maestra Ivana e i suoi figli: sono stati come una seconda famiglia per me. Ho conosciuto tante persone bellissime che mi hanno inondato di affetto e calore. E di questo sarò loro per sempre grato".

Nonostante gli alti e i bassi, fino ai 20 anni, fila tutto abbastanza liscio. Poi arriva quel "maledetto giorno" - come lo ha definito il giudice Giuliano Mignini - del 1 novembre 2007. Nel libro scrive di essersi trovato "nel posto sbagliato al momento sbagliato". Si è sentito, in qualche misura, anche lei un po' vittima di questa tragedia?

"La vittima di questa storia è Meredith. E la sua famiglia che è costretta a convivere con un dolore inesauribile. Quando dico che ‘mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato’ intendo dire che ero giovane e non avevo gli strumenti per affrontare quella situazione. Mi sono lasciato sopraffare dalla paura. Anzi quello è l’unico grande rammarico che avrò per sempre".

A cosa si riferisce?

"Avrei dovuto aiutare Meredith fino in fondo. Avrei dovuto precipitarmi fuori dalla casa di via della Pergola quella sera e gridare aiuto, chiamare i soccorsi. E invece, ripeto, mi sono spaventato e sono scappato via".

Cosa ricorda di Meredith Kercher?

"Il sorriso dolcissimo. Era una ragazza solare, simpatica e intelligente".

Nel suo racconto, in riferimento ai fatti di quella sera, ha fatto il nome di una persona: quello di Amanda Knox. Dice di averla vista e riconosciuta sul vialetto della casa in via della Pergola. È ancora convinto che fosse lei?

"Quello che ho raccontato nel libro e anche agli atti del processo. Non devo aggiungere altro".

In un'intervista rilasciata al settimanale "Oggi", di lei Amanda Knox ha detto che seppur abbia pagato il conto con la giustizia "resta un criminale". Vuole replicare?

"Come si dice in questi casi: ‘no comment’. Vado per la mia strada".

Il carcere le ha tolto tante cose - lo ha scritto a titolo di un capitolo - ma le ha dato anche la possibilità di rimettere ordine nella sua vita. Si è laureato e ha lavorato con costanza. Ha mai pensato che, forse, era giusto passare di lì per ‘raddrizzare il tiro’?

"Il carcere di per sé non ti dà niente: sei tu che devi metterci impegno e tanta buona volontà. Non tutti i detenuti hanno voglia di rimettersi in gioco, di studiare e imparare cose nuove. Il carcere ‘ti dà’ se tu sei disposto ad accogliere quello che arriva. Nel mio caso, devo dire, sono stato anche molto fortunato. Ho conosciuto delle persone fantastiche che mi hanno sostenuto e supportato".

Che sapore ha la libertà?

"La mia anima è sempre stata libera, anche quando ero in carcere. Riconquistare la libertà, in senso fisico, ha significato riappropriarmi del tempo e degli spazi. È come se la mia anima si fosse ricongiunta al corpo. Questa per me è stato ritrovare la libertà".

Mi conceda una domanda "antipatica". Può chiarire, una volta per tutte, la questione del permesso di soggiorno: ce l’ha o no?

"La mattina lavoro al Centro Studi Criminologici di Viterbo, dove mi occupo della biblioteca, e la sera in un ristorante dove ho un contratto a tempo indeterminato. Secondo lei assumerebbero uno che non ha i documenti in regola? La risposta mi pare ovvia".

Ritornando al suo libro, ci sono due espressioni che mi hanno piacevolmente colpito. A proposito di suo padre, scrive: "A volte, però, il tempo concede una seconda possibilità". Lei l’ha colta?

"Penso proprio di sì. Ho una vita appagante e soddisfacente sotto tutti i punti di vista. Posso dire di essere sereno".

L'altra, invece, è quella sua maestra Ivana: "Soltanto il tempo ci farà vedere cosa fiorirà in te". Chi è oggi Rudy Guede?

"Un uomo che è maturato e cresciuto. Lavoro, cerco, come posso, anche di aiutare altri, ho amici e una vita sentimentale che mi dà gioia. Del resto, quando hai ricevuto del bene, non puoi che ricambiare prodigandoti per le persone meno fortunate. Continuo ad impegnarmi sperando di diventare, giorno dopo giorno, la versione migliore di me stesso".

Intervista a Rudy Guede: «Non ho ucciso Meredith Kercher, ma mi pentirò per sempre di averla lasciata lì». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, a Perugia, è uscito dal carcere da un anno: «Ho sbagliato, ma non sono un assassino. Lavoro in biblioteca»

«Io c’ero in quella casa, chi lo nega? C’erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati effusioni, abbiamo avuto un approccio sessuale, sono andato al bagno, ho provato a fermare il sangue che le usciva dal collo... Ovvio che ci fossero le mie tracce in giro. Ma l’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla Giustizia: io non ho ucciso Meredith».

Ma lei, Rudy Guede, fu condannato per l’omicidio e per violenza sessuale.

«Il mio libro spiega come si arriva all’accusa di violenza, dubbi e incongruenze comprese. La sostanza è che è stato trovato il mio dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti. Ma voglio tornare sull’omicidio». 

Dica.

«Nelle mie sentenze c’è scritto: in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Allora io chiedo: con chi ho concorso? Hanno respinto la revisione del mio processo ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo...».

Però lei è scappato, ha detto cose contraddittorie.

«È vero. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa».

Era la sera del 1° novembre 2007. Meredith Kercher, studentessa inglese a Perugia, fu uccisa nella casa che condivideva con Amanda Knox. L’ivoriano Rudy Guede, che oggi ha 35 anni — il solo condannato, appunto, di questa storia — per la prima volta da quando è libero accetta di raccontarsi. Considerati gli sconti di pena, ha riavuto la libertà il 22 novembre dell’anno scorso.

Quindici anni dopo Meredith lei ha di nuovo una vita, un lavoro, una casa...

«Di mattina ho un impiego alla biblioteca del Centro Studi Criminologici di Viterbo, pomeriggio e sera invece faccio il cameriere in una pizzeria. Mi manca solo la tesi per la laurea magistrale al corso di Società e Ambiente, e poi ho una fidanzata, stiamo cercando una casa per andare a vivere insieme».

Nel suo libro con Pierluigi Vito, «Il beneficio del dubbio», lei mette in fila tutta la sua vita. Riguardo al delitto giura di essere innocente però racconta un comportamento da colpevole.

«La vita di Mez che se ne stava andando fra gli spasmi. Gli asciugamani non bastavano a tamponare il sangue... Ero uscito dal bagno dopo aver sentito un urlo potente malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla; nella penombra avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano. “Andiamo via che c’è un negro” aveva detto ad Amanda. All’improvviso il mio cervello è scoppiato. Io non avevo fatto niente ma chi mi avrebbe creduto? E allora, in preda al panico, ho fatto un errore dopo l’altro...Un comportamento criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino»

Ha provato a contattare la famiglia di Meredith?

«Scrissi una lettera anni fa rimasta senza risposta. E ho fatto avere a sua madre un altro messaggio di recente per dirle ancora una volta del mio dispiacere per Mez e che le mie mani si sono macchiate di sangue, sì, ma soltanto per soccorrerla. Mi farebbe piacere incontrarla, un giorno».

Che cosa direbbe invece, oggi, a Knox e Sollecito?

«Non ho più voglia di dirgli niente. Ne hanno dette talmente tante loro sul mio conto che per me non ha più senso dargli corda e spazio. Io ho la coscienza a posto anche nei loro confronti. Per tutti questi anni sono stato dentro, sì, ma la mia mente era libera, pulita».

L’hanno mai insultata per strada?

«Soltanto una volta dei tizi mi hanno urlato “pezzo di m...”. Il resto del mondo con cui ho a che fare mi vuole bene».

Il momento più difficile in carcere.

«Un giorno sono rientrato dall’ora d’aria e ho guardato dallo spioncino: il mio compagno di cella si era impiccato. Ho urlato disperato per far aprire la porta; per la seconda volta in vita mia avevo davanti una persona morente... un uomo solo. Lì ho capito che ascoltare le persone è fondamentale. Una salvezza»

Scena del crimine. "Non l’ho uccisa. C’è stato un approccio, poi…". La verità di Rudy Guede. L'unico condannato per il delitto di Perugia racconta la sua versione in un libro. Angela Leucci il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

“Il mio nome è Rudy Hermann Guede. Proprio così: Guede. Pronunciato come si scrive. Non Ghede, tantomeno Ghedé. Ne convengo: nella Costa d’Avorio francofona - dove sono nato - quest’ultima è la pronuncia in uso. Ma non è la mia. Io sono cresciuto in Italia, nei dintorni di Perugia. E per me quella che conta, quella che mi ha formato, quella a cui sento di appartenere, è la cultura italiana, con la sua lingua. È così che sono sempre stato chiamato in questo Paese ed è così che mi sento io: Guede, non Ghedé. Io sono Rudy Guede”.

Dopo una prefazione in cui accenna al periodo di semilibertà, ai suoi sogni e soprattutto al concetto generale, filosofico, di libertà, Rudy Guede racconta la sua storia. “La mia storia” è in effetti il sottotitolo del suo libro "Il beneficio del dubbio", uscito per Augh-Khorakanhè Edizioni e scritto con il giornalista di Tv2000 Pierluigi Vito.

E la storia di Guede è inevitabilmente quella di una morte: il 2 novembre 2007, la studentessa britannica Meredith Kercher fu trovata uccisa nel suo appartamento a Perugia. Accusato di concorso in omicidio e violenza sessuale, Guede fu condannato e, avendo scontato la sua pena, dal novembre 2021 è definitivamente libero. Il suo libro oggi apre uno squarcio su interrogativi che non hanno mai ricevuto una risposta e al tempo stesso aggiunge nuovi tasselli a quel caso di cronaca nera che passerà alla storia come il delitto di Perugia. 

Una versione differente sul delitto di Perugia

“Ho avuto un approccio sessuale con Meredith, sono andato al bagno, ho cercato di fermare il sangue che le usciva dal collo... E tutto questo per dire che non sono l’assassino, ma sono solo colpevole di concorso in omicidio. Con chi? Nelle sentenze a mio carico c’è scritto con Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Che però sono stati assolti. Allora io con chi ho concorso?”. È uno degli interrogativi che Rudy Guede si pone nel suo scritto, con un linguaggio tanto ingenuo da rivelarsi reale, tangibile.

Rudy ripete la sua versione: era con Meredith, avevano fatto petting, poi si erano fermati per assenza di un preservativo. Il giovane di origine ivoriana era poi andato in bagno, per abitudine con l’iPod nelle orecchie, finché non ha sentito la giovane britannica urlare. Ed è corso da lei, cercando di fermare come poteva il sangue. Ha poi visto un uomo con un bisturi, ha visto Amanda Knox e Raffaele Sollecito sul vialetto di casa che dicevano: “Andiamo via che c’è un negro”. E alla fine è scappato anche lui.

E anche se l’opinione pubblica non ha creduto totalmente e completamente a questa versione, la questione del concorso in omicidio è apparsa sempre oscura. Posto che Sollecito e Knox sono stati assolti, chi ha ucciso Meredith? Chi avrebbe agito, secondo la giustizia italiana, in concorso con Guede? Ancora oggi ci sono degli elementi misteriosi che attanagliano questa vicenda. In cui c’è una vittima. E i genitori di una vittima che hanno operato sempre con estrema dignità.

Tra le tante polemiche che ad anni di distanza affollano le cronache italiane, ci sono le affermazioni, via intervista o su Twitter, di Amanda Knox. Quello che l’opinione pubblica maggiormente le contesta è di non menzionare mai Meredith.

Meredith Kercher è morta, in un modo senza senso, brutale. Ma proprio per questo merita di essere menzionata, ricordata. È quello che fa Guede nel suo libro. Non bisogna arrivare tanto in là, anche se la narrazione è fondamentalmente cronologica: Rudy parla già di Meredith a pagina 14. Anzi parla di Mez, quella coetanea dolce dai modi gentili che aveva già baciato, che desiderava incontrare. Guede ha per lei solo parole di tenerezza, e anche se questo non cancella una verità giudiziaria, è comunque bello leggere di lei.

Meredith, nelle parole di Rudy, è esattamente come gli italiani se la sono sempre immaginata. È molto educata, ogni tanto forse indulge in qualche piccolo vizio giovanile ma non troppo, perché è sempre misurata, presente, rigorosa, perbene. È come in quella foto in cui sorride e le ridono anche gli occhi. Era solo una ventenne in cui è capitata, suo malgrado, una morte iniqua.

Rudy Guede contro la stampa

Guede non si scaglia mai contro Knox o Sollecito. Pone delle domande, parla di Amanda come fantasia erotica di tanti ragazzi lui compreso, ma non ha giudizi lapidari nei loro confronti. Anche perché, appunto, il suo libro è la sua storia. E nella sua storia c’è un controverso rapporto con la stampa, soprattutto quella italiana, che l’ha presentato spesso come un ladro e uno spacciatore, per via di un bizzarro episodio occorso tempo prima: Guede fu trovato a dormire in una scuola per l’infanzia, sorpreso dalla dirigente scolastica che allertò le forze dell’ordine. Il fatto che quella storia fu completamente chiarita risulta anche agli atti: al momento del processo di Perugia, Guede era infatti incensurato.

Le voci notevoli che completano il quadro

È chiaro che, come Giulio Cesare nel De Bello Civili, Guede faccia apologia di se stesso, si giustifichi nell’aver lasciato l’Italia alla volta della Germania dopo il delitto di Perugia, nel voler negare l’orrore avuto negli occhi quella notte. Ma la cosa molto interessante de “Il beneficio del dubbio” sono le testimonianze che si susseguono a corredo della sua versione.

Ci sono persone che a vario titolo hanno fatto parte della sua vita: insegnanti, volontari per il reinserimento dei carcerati nella vita civile, ma anche il pubblico ministero del processo di Perugia Giuliano Mignini o il criminologo Claudio Mariani.

“Non mi tolgo dalla testa l’idea - scrive Mignini - che tu avessi un debole per Amanda e che la sua figura all’inizio soggiogasse la tua volontà di ricostruire l’accaduto. Un sentimento che lottava con la compassione che provavi per la fine di Meredith, che nelle tue parole hai sempre elogiato. Anche se, benedetto ragazzo, te ne sei andato in discoteca coi tuoi amici la notte del delitto, dopo averla lasciata in una pozza di sangue! E se ti ricordi, negli interrogatori ho cercato di farti presente l’assurdità di un comportamento del genere. In momenti come quelli mi rendevo ben conto di avere davanti un ragazzo che aveva fatto scelte sbagliate, traviato dai casi della vita e senza le spalle coperte”.

Qualunque cosa sia accaduta, ovvero che si creda oppure no alla verità processuale (e l’opinione pubblica negli anni si è sempre mostrata molto perplessa sul caso), c’è un fatto: Guede ha pagato con il carcere ma ora è un uomo libero. L’impressione che percorre il libro è che Rudy si sia trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. “L’unico dato certo che ha inchiodato Rudy come unico colpevole di questa triste storia - conclude infatti Mariani - è la sua presenza sul luogo del delitto da lui stesso sempre dichiarata e mai nascosta”.

DAGONEWS il 22 agosto 2022.

Toh, chi si rivede! Torna a parlare Raffaele Sollecito: in un’intervista esclusiva per l’ennesimo documentario sulla morte di Meredith Kercher, “Who Murdered Meredith Kercher?” (che uscirà nel Regno Unito giovedì 25 agosto, su Paramount+), l’ex fidanzato di Amanda Knox racconta la sua verità. 

Il suo intelocutore è Kate Mansey, giornalista che aveva già incontrato Raffaele nelle ore immediatamente successive al delitto, nel 2007. 

Ecco come Kate Mansey racconta il suo nuovo incontro con Sollecito sul DailyMail: 

“Sembra appena più vecchio di quanto non fosse allora. Oggi però non è la situazione di Meredith e della sua famiglia ad essere al centro dei suoi pensieri, bensì la sua stessa infelicità - un altro segno dell'immaturità che ho visto per la prima volta in lui 15 anni fa. Eppure si potrebbe concedergli un po' di autocommiserazione quando si ascolta il calvario che ha subito”.

“Quattro anni di prigione. Sei mesi di isolamento", dice, nascondendo a malapena la sua rabbia. “E ancora oggi provo quell'amarezza, anche se sono andato avanti con la mia vita. Mi pento di essere stato immaturo. Ma eravamo giovani. Eravamo solo, voglio dire, un po' sciocchi, non capivamo cosa stesse succedendo. Se la compagna di stanza della tua ragazza viene uccisa, tutti reagiscono in modo diverso".

La reazione di Raffaele all'omicidio, come non dimenticherò mai, fu a dir poco strana. Lo incontrai per la prima volta in via Garibaldi, a Perugia, due giorni dopo l'omicidio. Essendo arrivata a Perugia per fare un servizio sull'omicidio, ero desiderosa di incontrare qualcuno che avesse conosciuto Meredith.

Avvicinandomi a un giovane che sembrava avere un'età simile, chiesi: "Conosceva Meredith? La sua risposta, in inglese, è stata: "Sì, la conoscevo. Ho trovato il suo corpo". 

Lo invitai a prendere un caffè nel bar vicino e ci sedemmo. In quel momento mi fece pena, mentre sorseggiava il suo caffè. Faceva una figura piuttosto patetica, con il cappotto slacciato che gli penzolava dalle spalle. 

Mi disse che era stato tutta la notte alla stazione di polizia per essere interrogato, cosa che all'epoca mi sembrò strana. Perché avrebbe dovuto essere interrogato tutta la notte? 

Ma poi fu Raffaele a dare l'allarme. Amanda era tornata a casa per una doccia, si era accorta che qualcosa non andava ed era andata a chiedere aiuto a Raffaele. 

Mi disse che c'erano macchie di sangue nell'appartamento di Amanda. Ricordo chiaramente che mosse le dita come per illustrare come il sangue potesse essere stato distribuito nel bagno. Poi, dopo il nostro colloquio, si interessò a una pila di giornali che avevo con me e mi chiese gentilmente se poteva dare un'occhiata. 

Dopo l'intervista gli ho chiesto di posare per il fotografo. Ha accettato, ma ha fatto un mezzo sorriso per la macchina fotografica. Gli ho detto: "Rifacciamo questa foto".

Gli ho detto che pensavo fosse sotto shock e gli ho chiesto se potevo parlare con Amanda, la sua ragazza, e lui l'ha chiamata al cellulare. La sentivo in sottofondo durante la telefonata, che gli diceva di non parlare con i giornalisti. Gli ho chiesto di darmi il suo numero, che ho chiamato più tardi, ma lei non ha risposto. Giorni dopo furono entrambi arrestati con l'accusa di omicidio. Mi ero trovato faccia a faccia con un assassino? 

Quando il resto della stampa mondiale arrivò nella città italiana, il procuratore Giuliano Mignini era in piena attività. La sua famiglia era a Perugia da generazioni e questo funzionario roboante e carismatico stava cercando di accertare un movente per l’aggressione e l’omicidio di una donna innocente.

A suo avviso, il furto sembrava essere una messinscena. Credeva che coprire il corpo fosse il segno del tocco di una donna sulla scena del crimine, anche se gli accoltellamenti da parte di donne sono estremamente rari. 

Ciononostante, si formò la teoria che si trattasse di un gioco erotico finito male. Sembrava che Amanda e Raffaele, gli amanti che avevano dato l'allarme, avessero qualcosa di strano.

Nessuno dei due si è comportato come la polizia si sarebbe aspettata avrebbero fatto degli amici in lutto e furono stati persino visti baciarsi sulla scena del crimine. Non hanno partecipato alla veglia pubblica per Meredith sulla scalinata della cattedrale. 

Quando Raffaele fu chiamato alla stazione di polizia per essere interrogato, gli agenti lo perquisirono e trovarono un coltello a scatto. La polizia stabilì subito che il coltello non poteva essere l'arma del delitto, ma questo non aiutò le sue dichiarazioni di innocenza. 

“È stata la peggior gaffe che abbia mai fatto in vita mia", ammette ora Raffaele. Nonostante mio padre mi avesse detto: ‘Lascia il coltello a casa. Non portarlo con te'. Io mi sono detto: 'Come vuoi. Fanculo’. Non volevo pensarci". 

Anche Amanda è stata vista fare stretching nei corridoi della stazione di polizia. Mignini dice ai documentaristi: "Il comportamento di Amanda non mostrava - almeno in questo caso - rispetto per la perdita di un amico". 

Quando la polizia ricevette la segnalazione di un uomo di colore che correva per la città la notte dell'omicidio, pensò di aver trovato il colpevole nel telefono di Amanda: Patrick Lumumba, il gestore di un bar locale dove Amanda lavorava. 

La donna aveva mandato un messaggio a Patrick poco prima dell'omicidio, dicendo "Ci vediamo più tardi".

Alla stazione di polizia, i poliziotti ritennero di aver trovato qualcosa e Amanda fu richiamata. Nel suo libro Waiting to be Heard, racconta: "All'1.45 mi diedero un foglio scritto in italiano e mi dissero di firmarlo... Incontrai subito Patrick al campo da basket di Piazza Grimana... e andammo insieme alla casa. Faccio fatica a ricordare quei momenti, ma Patrick ha fatto sesso con Meredith, di cui era infatuato... Ricordo confusamente che l'ha uccisa. Appena l'ho firmato, si sono applauditi e si sono dati il cinque".

Ma erano tutte sciocchezze firmate, dice Amanda, sotto costrizione. 

Patrick ha un alibi di ferro: diversi testimoni hanno detto che la sera dell'omicidio li ha serviti al bar. Dopo due settimane di carcere è stato rilasciato. 

A più di 700 miglia di distanza, in Germania, la polizia ferma un uomo su un treno per evasione del biglietto. Dice di chiamarsi Kevin Wade e nota cinque tagli sulla mano. 

In realtà si tratta di Rudy Guede, un cittadino della Costa d'Avorio ormai ricercato per l'omicidio di Meredith Kercher in Italia. Grazie alla polizia dei trasporti tedesca, Guede viene arrestato e riportato a Perugia. 

Guede ha raccontato alla polizia che Meredith lo aveva invitato a entrare in casa e che stavano entrando in "intimità", ma che sono stati disturbati da un ladro che l'ha accoltellata e si è dato alla fuga. Guede sostiene di essere stato solo un testimone.

È una storia poco convincente e, come dico nel documentario, niente dice colpevolezza come fuggire in un altro Paese e cambiare nome. Il suo DNA era ovunque sulla scena del crimine, dalle impronte di dita e piedi insanguinati alle feci nel bagno. Ma il documentario rivela qualcosa di ancora più sinistro sulla gestione di Guede da parte della polizia. 

Noto scassinatore, Guede fu trovato cinque giorni prima dell'omicidio di Meredith addormentato in una scuola materna. Aveva fatto irruzione per motivi sconosciuti. Nella sua borsa, gli agenti hanno trovato un coltello e un computer che era stato denunciato come rubato da uno studio di avvocati a Perugia.

Eppure, la polizia ha inspiegabilmente lasciato andare Guede, lasciandolo libero di uccidere. Alla fine è stato condannato per ricettazione e tentato furto. 

Quando fu condannato per l'omicidio di Meredith, fu stabilito che aveva "cospirato" con altri, ma gli fu concesso un processo separato da quello della Knox e di Sollecito. 

“Non c'era motivo di separare il suo caso", dice Raffaele. Quello che non capisco è che anche l'accusa non ha voluto interrogarlo. È lui l'assassino. È quello che aveva più cose da dire in questo caso, e a loro non interessava". 

Da parte sua, Raffaele dice di essere tormentato da quanto accaduto e di essere ancora discriminato nella ricerca di un lavoro. 

“È molto difficile quando una persona a cui tieni viene persa per sempre", dice Sollecito, un riconoscimento che non porterà molto conforto alla famiglia Kercher. Ma la verità è che non ho nulla a che fare con questo omicidio. Spero che un giorno lo accetteranno". 

Per i genitori di Meredith, ovviamente, è troppo tardi. Il padre John e la madre Arlene sono morti entrambi nel 2020. Per i suoi fratelli e sorelle, forse, un giorno ci sarà pace. Ma per ora rimangono troppi interrogativi per credere alla polizia italiana quando afferma che è "Caso chiuso".

Perché, quando si scoprì che Guede aveva fatto irruzione in una scuola materna con un coltello, fu liberato dalla polizia? Il processo privato e il trattamento morbido di Guede erano forse la prova che egli era utile alla polizia in qualche altro modo? La domanda sorge spontanea: la condanna di Guede potrebbe essere più di quanto sembri? 

Raffaele, da parte sua, è chiaramente un personaggio strano che, da giovane, aveva un forte interesse per il porno, l'hashish e i coltelli.  Anche Amanda Knox era un personaggio complesso. Un'ingenua ragazza americana che, anche a 20 anni, era più immatura dei suoi coetanei. E l'indagine condotta dal procuratore perugino Mignini fu scandalosamente lacunosa. 

Ma oggi, dopo aver analizzato nuovamente le prove nell'ambito di questo nuovo documentario, sono più che mai sicuro delle dichiarazioni di innocenza di Raffaele. 

Come dice Dan Louw, commissioning editor di Paramount+: "Nessuno è mai stato ritenuto pienamente responsabile del tragico omicidio di Meredith, e questa nuova serie per Paramount Plus porta una prospettiva completamente diversa su una delle indagini più infami e incomprese di tutti i tempi". 

Una cosa è certa: l'inchiesta pasticciata e inetta della polizia passerà alla storia come uno dei più scandalosi tradimenti della giustizia.

"Me lo porterò nella tomba". Parla Lumumba: fu accusato da Amanda Knox. Rosa Scognamiglio il 6 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Patrick Lumumba si racconta in una intervista esclusiva all'Ansa: "Non bisogna dimenticare Meredith. Io mi definisco 'la seconda vittima', è difficile dimenticare"

Incarcerato e poi, dopo 14 giorni di reclusione, rimesso in libertà perché "completamente estraneo ai fatti". Patrick Lumumba fu accusato ingiustamente da Amanda Knox di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nella notte tra il 31 ottobre e il 1° del 2007. Oggi l'ex proprietario del bar Le Chic di Perugia si è rifatto una vita ma il ricordo di quelle lunghe notti trascorse dietro le sbarre resta una ferita aperta: "È stata molto molto, molto dura, un tunnel buio ma ora grazie a Dio ne sono uscito", racconta in una intervista esclusiva all'Ansa.

Il ricordo

Da qualche tempo, Patrick Lumumba ha lasciato l'Umbria per trasferirsi in Polonia con la sua famiglia. "Ora vivo con la mia famiglia a Cracovia dove sono socio maggioritario di un'azienda di sub-appalto" spiega. La vicenda processuale che lo travolse durante le indagini preliminari del "Delitto di Perugia" lo ha profondamente segnato: "È difficile da dimenticare completamente - dice - Me lo porterò nella tomba". Dei 14 giorni in carcere, Lumumba ricorda solo "una grande tristezza". "Non bisogna mai dimenticare - aggiunge - Meredith ma io mi sono sempre considerato la seconda vittima. Ricordo i primi tre giorni da solo in cella, innocente senza sapere cosa era successo, l'isolamento, il muro davanti alla finestra. Già dalla questura pensavo che sarei tornato subito a casa perché mi fidavo...". Poi conclude: "Ormai per me è un capitolo chiuso e sono fuori dal tunnel". 

A chiamare in causa Patrick Lumumba fu l'allora studentessa americana Amanda Knox, coinquilina di Meredith Kercher. Nel corso dell'interrogatorio del 5 novembre 2007, la giovane descrisse una presunta scena dell'omicidio che avrebbe coinvolto Lumumba. Le sue parole furono messe nere su bianco in un memorandum di 5 pagine: "Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. - raccontò la Knox - Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie (...) Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell'appartamento aperta". A instillare il dubbio negli inquirenti fu uno scambio di sms tra il titolare del bar Le Chic e la studentessa americana. Un messaggio nello specifico: "See you later", scritto da Amanda. Gli investigatori ritennero che i due avessero concordato un appuntamento per la sera dell'omicidio traducendo il testo dell'sms alla lettera: "Ci vediamo più tardi". In realtà, la traduzione corretta sarebbe stata "Ci vediamo" (Amanda lavorava come cameriera nel bar gestito da Lumumba). Nei giorni successivi all'interrogatorio, la Knox smentì il racconto iniziale parlando di "un sogno". Lumumba fu detenuto in carcere per 14 giorni salvo poi essere prosciolto dalle accuse. Un testimone dichiarò di aver trascorso la sera in compagnia dell'uomo e nella casa in via della Pergola, la scena del crimine, non fu rinvenuta alcuna traccia dello straniero. Fu dichiarato "completamente estraneo ai fatti". 

Ora in Polonia arrestato e poi prosciolto per delitto Perugia. Redazione ANSA PERUGIA il 06 luglio 2022

"E' stata molto molto, molto dura, un tunnel buio ma ora grazie a Dio ne sono uscito": a parlare è Patrick Lumumba, colui che si considera la "seconda vittima" dell'omicidio di Meredith Kercher, compiuto nel novembre del 2007 a Perugia dove all'epoca viveva.

Delitto per il quale venne arrestato e poi scarcerato dopo 14 giorni, venendo quindi subito prosciolto perché risultato totalmente estraneo a quanto successo. 

Lumumba ha lasciato da qualche tempo il capoluogo umbro per la Polonia. "Ora vivo con la mia famiglia a Cracovia dove sono socio maggioritario di un'azienda di sub-appalto" racconta parlando con l'ANSA.