Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

  

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Parliamo di Bibbiano.

Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Scomparsi.

La Sindrome di Stoccolma.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Giustizia Ingiusta.

La durata delle indagini.

I Consulenti.

Incompatibilità ambientale: questa sconosciuta.

Il Diritto di Difesa vale meno…

Gli Incapaci…

Figli di Trojan.

Le Mie Prigioni.

Le fughe all’estero.

Il 41 bis ed il 4 bis.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Eni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Simone Renda spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Vassallo spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Paciolla spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alex Schwazer spiegato bene.

Ingiustizia. L’inchiesta "Why not" spiegata bene.

Ingiustizia. Il caso di Novi Ligure spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Garlasco spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Pietro Maso spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Raciti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alma Shalabayeva spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Alberto Genovese spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Marcello Pittella spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Angelo Burzi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Cogne spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Ciatti spiegato bene.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il tribunale dei media.

Soliti casi d’Ingiustizia. 

Angelo Massaro.

Anna Maria Manna.

Cesare Vincenti.

Daniela Poggiali.

Diego Olivieri.

Edoardo Rixi.

Enrico Coscioni.

Enzo Tortora.

Fausta Bonino.

Francesco Addeo.

Giacomo Seydou Sy.

Giancarlo Benedetti.

Giulia Ligresti.

Giuseppe Gulotta.

Greta Gila.

Marco Melgrati.

Mario Tirozzi.

Massimo Garavaglia e Mario Mantovani.

Mauro Vizzino.

Michele Iorio.

Michele Schiano di Visconti.

Monica Busetto.

Nazario Matachione.

Nino Rizzo.

Nunzia De Girolamo.

Piervito Bardi.

Pio Del Gaudio.

Samuele Bertinelli.

Simone Uggetti.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Cupola.

Gli Impuniti.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro! Fiducia nella Magistratura? La Credibilità va a farsi fottere.

Palamaragate.

Magistratopoli.

Le toghe politiche.

 

INDICE NONA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il Mistero della Strage di Ustica.

Il mistero della Moby Prince.

I Cold Case italiani.

Il Caso del delitto del Circeo: Donatella Colasanti e Rosaria Lopez.

La vicenda della Uno Bianca.

Il mistero di Mattia Caruso.

Il caso di Marcello Toscano.

Il caso di Mauro Antonello.

Il caso di Angela Celentano.

Il caso di Tiziana Deserto.

Il mistero di Giorgiana Masi.

Il Giallo di Ponza: Gian Marco Pozzi.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il Caso di Marta Russo.

Il giallo di Polina Kochelenko.

Il Mistero di Martine Beauregard.

Il Caso di Davide Cervia.  

Il Mistero di Sonia Di Pinto.

La vicenda di Maria Teresa Novara.

Il Caso di Daniele Gravili. 

Il mistero di Giorgio Medaglia.

Il mistero di Eleuterio Codecà.

Il mistero Pecorelli.

Il Caso di Ernesto Picchioni: il primo assassino seriale italiano del '900.

Il Caso Andrea Rocchelli e Andrej Mironov.

Il Caso Bruno Caccia.

Il mistero di Acca Larentia.

Il mistero di Luca Attanasio.

Il mistero di Lara Argento.

Il mistero di Evi Rauter.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il mistero di Milena Sutter.

Il mistero di Tiziana Cantone.

Il Mistero di Sonia Marra.

Il giallo di Giuseppe Pedrazzini.

Il giallo di Mauro Donato Gadda.

Il giallo di Piazzale Dateo, la strage di Capodanno a Milano.

Il Mistero di Nada Cella.

Il Mistero di Daniela Roveri.

Il caso di Alberto Agazzani.

Il Mistero di Michele Cilli.

Il Caso di Giorgio Medaglia.

Il Caso di Isabella Noventa.

Il caso di Sergio Spada e Salvatore Cairo.

Il caso del serial killer di Mantova.

Il mistero di Andreea Rabciuc.

Il caso di Annamaria Sorrentino.

Il mistero del corpo con i tatuaggi.

Il giallo di Domenico La Duca.

Il mistero di Giacomo Sartori.

Il mistero di Andrea Liponi.

Il mistero di Claudio Mandia.

Il mistero di Svetlana Balica.

Il mistero Mattei.

Il caso di Benno Neumair.

Il mistero del delitto di via Poma.

Il Mistero di Mattia Mingarelli.

Il mistero di Michele Merlo.

Il Giallo di Federica Farinella.

Il mistero di Mauro Guerra.

Il caso di Giuseppe Lo Cicero.

Il Mistero di Marco Pantani.

Il Mistero di Paolo Moroni.

Il Mistero di Cori: Elisa Marafini e Patrizio Bovi.

Il caso di Alessandro Nasta.

Il Caso di Mario Bozzoli.

Il caso di Cranio Randagio.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il Caso Gucci.

Il mistero di Dino Reatti.

Il Caso di Serena Mollicone.

Il Caso di Marco Vannini.

Il mistero di Paolo Astesana.

Il mistero di Vittoria Gabri.

Il Delitto di Trieste.

Il Mistero di Agata Scuto.

Il mistero di Arianna Zardi.

Il Mistero di Simona Floridia.

Il giallo di Vanessa Bruno.

Il mistero di Laura Ziliani.

Il Caso Teodosio Losito.

Il Mistero della Strage di Erba.

Il caso di Gianluca Bertoni.

Il caso di Denise Pipitone.

Il mistero di Lidia Macchi.

Il Mistero di Francesco Scieri.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Mirella Gregori.

Il giallo del giudice Adinolfi.

Il Mistero del Mostro di Modena.

Il Mistero del Mostro di Roma.

Il Mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso del Mostro di Marsala.

La misteriosa morte di Gergely Homonnay.

Il Mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero di Denis Bergamini.

Il Mistero di Lucia Raso.

Il Mistero della morte di Mauro Pamiro.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il Mistero di Anthony Bivona.

Il Caso di Diego Gugole.

Il Giallo di Antonella Di Veroli.

Il mostro di Foligno.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Ilaria Alpi.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso Elisa Claps.

Il mistero di Unabomber.

Il caso degli "uomini d'oro".

Il caso delle prostitute di Roma.

Il caso di Desirée Mariottini.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Alice Neri.

Il Mistero di Matilda Borin.

Il mistero di don Guglielmo.

Il giallo del seggio elettorale.

Il Mistero di Alessia Sbal.

Il caso di Kalinka Bamberski.  

Il mistero di Gaia Randazzo.

Il caso di Giovanna Barbero e Maria Teresa Bonaventura.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Angelo Bonomelli.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il caso di Sabina Badami.

Il caso di Sara Bosco. 

Il mistero di Giorgia Padoan.

Il mistero di Silvia Cipriani.

Il Caso di Francesco Virdis.

La vicenda di Massimo Alessio Melluso.

La vicenda di Anna Maria Burrini. 

La vicenda di Raffaella Maietta.  

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Fatmir Ara.

Il mistero di Katty Skerl.

Il caso Vittone.

Il mistero di Barbara Sellini e Nunzia Munizzi.

Il Caso di Salvatore Bramucci.

Il Mistero di Simone Mattarelli.

Il mistero di Fausto Gozzini.

Il caso di Franca Demichela.

Il Giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza.

Il caso di Giovanni Sacchi e Chiara Barale.

Il caso di Luigia Borrelli, detta Antonella.

Il mistero di Antonietta Longo.

Il Mistero di Clotilde Fossati. 

Il Mistero di Mario Biondo.

Il mistero di Michele Vinci.

Il Mistero di Adriano Pacifico.

Il giallo di Walter Pappalettera.

Il giallo di Rosario Lamattina e Gianni Valle.

Il mistero di Andrea Mirabile.

Il mistero di Attilio Dutto.

Il mistero del marchese Camillo Casati Stampa di Soncino.

Il mistero di JonBenet Ramsey.

Il Caso di Luciana Biggi.

Il mistero di Massimo Melis.

Il mistero di Sara Pegoraro.

Il caso di Marianna Cendron. 

Il mistero di Franco Severi.

Il mistero di Norma Megardi.

Il caso di Aldo Gioia.

Il mistero di Domenico Manzo.

Il mistero di Maria Maddalena Berruti.

Il mistero di Massimo Bochicchio.  

Il mistero della morte di Fausto Iob.

Il Delitto di Ceva: la morte di Ignazio Sedita.

Il caso di Stefano Siringo e di Iendi Iannelli.

Il delitto insoluto di Piera Melania.

Il giallo dell'omicidio di Nevila Pjetri. 

Il mistero di Jessica Lesto.

Il mistero di Stefania Elena Carnemolla.

L’omicidio nella villa del Rastel Verd.

 Il Delitto Roberto Klinger.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero della strage della Stazione di Bologna: E’ Stato la Mafia.

 

 

LA GIUSTIZIA

PRIMA PARTE

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Una presa per il culo.

Stefano Cucchi è morto per il via libera di un giudice. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 4 Novembre 2022

Ci sono almeno due verità sul caso della morte di Stefano Cucchi: una disputata; l’altra negletta. La verità disputata, per quanto infine sigillata in una decisione giudiziaria, è che Stefano Cucchi è stato ucciso, e che la morte è avvenuta a causa del pestaggio cui il giovane è stato sottoposto da parte dei carabinieri che l’avevano in custodia dopo l’arresto. La verità negletta riguarda invece il tempo e i fatti che vanno da quella violenza al decesso. C’è stato un bel film (Sulla mia pelle, 2018) a lambire quest’altra verità, ma non poteva ridondare da quell’opera cinematografica la somma di trascuratezza burocratica e istituzionale che contrassegna questa tragedia.

Molto si è indugiato, e con contrapposte propalazioni, su quel che successe dal momento dell’arresto, la sera del 15 ottobre del 2009, sino al mattino successivo: la sopraffazione patita da Cucchi, il drogato intemperante rimesso in riga, secondo l’oscena rappresentazione di certa pubblicistica, o il povero uomo che entra sano in una caserma e ne esce massacrato; le forze dell’ordine, ingiustamente messe alla berlina per qualche comprensibile eccesso su un malvivente che resisteva alla cautela di cui era destinatario, o il poveretto su cui gratuitamente infieriva l’aguzzino in divisa, impegnato a nascondere le prove del proprio misfatto e a coprire le complicità di chi vi aveva partecipato; lo scrutinio della fedina penale e persino della moralità di questo spostato, vittima della propria devianza e della propria dipendenza dalla droga (“E’ stata la droga a portarlo lì!”, proclamava l’avvocatura d’ufficio del benpensante reazionario), o invece la triste considerazione che una persona fragile, quando è affidata alle cure di chi tutela la pubblica sicurezza, deve riceverne semmai di più, non meno perché tanto è solo un tossico.

E febbrile discussione pubblica si è avuta dopo, con una ricognizione a ritroso dal momento della morte sino a quel mattino del 16 ottobre 2009: quando Stefano Cucchi, dopo il pestaggio, è portato davanti ai magistrati chiamati a convalidarne l’arresto. E furono investigazioni e requisitorie sui depistaggi, sulle contraffazioni dei verbali, sulle responsabilità dei medici, ancora su quelle dei militari e dei secondini… Ma poca attenzione, e tanto meno angosciata, si ritenne di prestare ai motivi per cui Stefano Cucchi era subordinato a giustizia: la gestione di modestissime quantità di stupefacenti, per un’ipotesi di reato moderatamente offensiva e non per caso disciplinata in modo assai tenue.

E nulla, soprattutto, si obiettò circa il fatto che Stefano Cucchi, che versava in condizioni giudicate allarmanti quando si trattava di valutare il comportamento anteriore e noncurante dei militari e dei medici che poche ore prima l’avevano a disposizione, e ai quali si addebitavano autonome responsabilità per aver lasciato correre quella situazione di bisogno e sofferenza, nulla, dicevo, si argomentò, tanto meno per denunciarne l’urtante evitabilità, a proposito del fatto che un magistrato dell’accusa pubblica, prima, e un giudice, poi, quel giorno di ottobre rispettivamente chiesero e ordinarono che Stefano Cucchi fosse imprigionato. Non andò solo, Stefano Cucchi, alla caserma in cui fu pestato: vi fu portato dai carabinieri che percepirono la commissione di quel lieve delitto, quei pochi grammi di sostanza proibita. Ma Stefano Cucchi non andò solo nemmeno nel carcere in cui la sua vita fu interrotta: chiese l’accusa pubblica che vi fosse mandato, e fu un giudice a disporre che ci andasse.

Pestato da quei carabinieri, Stefano Cucchi morì in carcere e di carcere. Qualcuno reclamò e qualcuno decise che quel disgraziato, con gli occhi enfiati e gravi di quei vistosi depositi di sangue, claudicante, carico delle percosse che sarebbero diventate l’esclusiva ragione di scandalo e riprovazione per l’orribile vicenda che lo ha coinvolto, da quell’udienza dovesse essere mandato non a casa propria, eventualmente in ristrettezza domiciliare, non in una struttura sanitaria, non in un centro di riabilitazione, ma dietro le sbarre di un carcere.

Tutte queste cose sono note, ma appunto neglette. Perché si può ancora dire che un cittadino muore malmenato dai carabinieri, ma non che muore in nome della legge. Iuri Maria Prado

E' morta la mamma di Stefano Cucchi, Rita Calore. "Si è arresa per andare a riabbracciare il figlio mai perduto". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 17 ottobre 2022.

A dare la notizia l'avvocato Fabio Anselmo, su Facebook. Nel 2019 la donna aveva scoperto di essersi ammalata. "Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni", aveva raccontato a Repubblica, "poi Ilaria ha detto: "Mamma, ora ti controlli""

"Non ce l'ha fatta. Questa mattina Rita Calore si è arresa per andare a riabbracciare Stefano. Il figlio mai perduto. Lo scrivo con tanta emozione e mi stringo a Giovanni ed #Ilaria. Non mi viene altro da dire a questa grande famiglia". Così l'avvocato Fabio Anselmo su Facebook ha dato notizia della scomparsa della mamma di Stefano Cucchi, il giovane romano morto nel 2009 all'ospedale Pertini mentre era in custodia cautelare, una settimana dopo il suo arresto. Calore era la madre anche di Ilaria, recentemente eletta al Senato, che da anni si batte perché sia accertata la verità sulla morte del fratello.

Nel 2019 Rita Calore aveva scoperto di essersi ammalata. "Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni", aveva raccontato a Repubblica, "e infatti continuavo a incollarmi il carrello e le buste della spesa. Figurarsi, ho fatto per quarant'anni la maestra all'asilo, ho cresciuto due figli. Poi Ilaria ha detto: "Mamma, ora ti controlli". E insomma, altro che sciatica. Vabbè".

"Sì. Quando perdi un figlio, muori con lui. E quindi, ecco perché dico "vabbè". Perché ogni mattina che mi sveglio ringrazio il Padre eterno che mi ha dato un altro giorno. E soprattutto penso che quello che è successo a me non è nulla rispetto a quello che hanno fatto a Stefano. Che sarà mai portare il busto, fare la chemio, i raggi?".

Lo diceva sempre a tutti Rita Calore. A chi l’andava a trovare nell’appartamento dove ha cresciuto i suoi due figli. Ilaria e Stefano Cucchi. “Io la stanza di Stefano l’ho lasciata sempre così”. Non l’ha mai cambiata. Non ha mai spostato niente da quando il suo ragazzo non ha fatto più ritorno a casa da quel 15 ottobre 2009. Se Ilaria, la primogenita, era il viso grintoso della famiglia, nella lotta alla richiesta di verità e giustizia, quello di Rita era più “moderato”. Ma per questo non meno determinato.  

Una mamma che non è mai riuscita ad elaborare il lutto fino in fondo. Quando parlavi del suo Stefano gli occhi si riempivano di lacrime. Lei faceva di tutto per ricacciarle indietro. Uno sforzo di dignità. Per apparire sempre composta. 

Era combattiva Rita. Lo era a suo modo. Lo era anche con quella sua presenza fisica, minuta, discreta, sempre educata. Ma lei c’era sempre alle udienze del processo. Assieme a suo marito Giovanni. Seduti agli ultimi posti, uno accanto all’altro, senza mai alzare il tono della voce. Quella loro presenza silenziosa era ancora più efficace. Più difficile da contrastare da parte di chi voleva coprire tutto. Insabbiare tutto. “Non è successo niente. Vostro figlio era un tossico. È morto di epilessia”. Tutte bugie. Sapevano, loro, gli errori commessi da Stefano. Mai negati, nessuna ipocrisia. Aveva capito Rita che qualcuno si era accanito sul corpo di quel figlio fragile. 

Ecco, sembrava la famiglia perfetta su cui consumare un abuso di potere. Mamma maestra, papà geometra e figlia amministratrice di condominio. La famiglia che avrebbe potuto subire un caso smisurato di ingiustizia, senza reagire. E invece Giovanni, Rita e Ilaria si sono rivelati granito. Quando hanno capito quello che stava succedendo, non sono arretrati di un millimetro. Non sono stati scalfiti. Ognuno dei tre ha giocato il suo ruolo senza desistere, anche nei momenti difficili, quando si è chiamati a fare la differenza. Se ne va via Rita, pochi giorni dopo aver visto Ilaria diventare senatrice. Se ne va via una persona per bene, “va - come dice Fabio Anselmo, storico legale e compagno di Ilaria - a riabbracciare il suo Stefano”.

Ilaria Cucchi: "Mamma ha lasciato intatta la stanza di Stefano, ora è lassù con lui". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 18 ottobre 2022.  

Intervista alla sorella di Stefano dopo la morte della madre Rita Calore: "Si è sempre battuta per la verità"

Quanto male ha dovuto subire a causa della battaglia per ottenere verità e giustizia. Quanto? È una donna a cui hanno prima strappato il figlio e poi stavano per negarle anche la giustizia. Infine, in mezzo a tutto questo, ha sopportato insulti gratuiti".

Rita Calore non c'è più. La mamma di Stefano Cucchi "è volata dal suo ragazzo". Lo racconta Ilaria. La figlia combattiva che alle spalle ha sempre avuto il sostegno di Rita e Giovanni. Persona discreta, fisicamente minuta, educata ma per questo non meno determinata. Lo diceva sempre a tutti.

A chi l'andava a trovare nell'appartamento dove ha cresciuto i suoi due figli a Roma spiegava: "Ecco la stanza di Stefano l'ho lasciata sempre così", ricorda Ilaria nel momento più duro. Nel giorno in cui il suo punto di riferimento (l'altro è il padre Giovanni) non c'è più. Non ha mai spostato niente da quando suo figlio non ha fatto più ritorno a casa, quel 15 ottobre del 2009.

Una mamma che non è mai riuscita ad elaborare il lutto fino in fondo. Quando parlavi di Stefano gli occhi si riempivano di lacrime. Lei faceva di tutto per ricacciarle indietro. Uno sforzo di dignità. Per apparire sempre composta.

Come sta?

"È un momento difficile. C'è un vuoto immenso. Adesso mi piace pensare che sia con lui. Ma non posso pensare al male che ha dovuto subire nel tempo. Mia madre ha dovuto pagare un prezzo troppo alto anche a causa di anonimi haters che hanno provocato un'ulteriore sofferenza senza che nessuno facesse nulla".

Ci sono stati "odiatori" anche nel mondo delle istituzioni?

"Sì. Sia perfetti sconosciuti che persone conosciute con importanti ruoli istituzionali".

Cosa le ha trasmesso sua madre?

"Una forza inestinguibile nella giustizia. È stata un grande esempio: un amore immenso per la propria famiglia, il marito, i figli e i nipoti. I momenti difficili, quelli duri, sono serviti per unirci, per cementarci. E lei ha avuto un ruolo centrale in questo". 

Qual è stato il ruolo di sua madre nella battaglia per la verità su Stefano?

"Ha cercato di farmi pesare il meno possible il dolore per la morte di Stefano, di suo figlio. Con mio padre mi hanno guidato in tutti questi anni. Non riesco a pensare che adesso lei non ci sia più. È inspiegabile, non vedere mio padre e mia madre assieme. Uno accanto all'altra".

La malattia può essere in qualche modo collegata al dolore e alle ingiustizie che ha dovuto subire?

"Non si può escludere. Quello che ha dovuto subire sia per la morte del figlio che per essere messa in discussione come madre. Qualcuno si era permesso di dire che Stefano era stato "la gallina dalle uova d'oro". Per lei che amava Stefano sopra ogni cosa era un'offesa enorme, un insulto gratuito che l'aveva profondamente ferita".

Quando vi siete viste l'ultima volta?

"Domenica sera. Stava male, abbiamo parlato...". 

Cosa le ha detto quando è diventata senatrice?

"Un punto di orgoglio e anche un riscatto rispetto a tutto l'odio di questi anni".

C'è un insegnamento che le ha trasmesso?

"La coerenza ad ogni costo"

C'è un ricordo particolare lei, Stefano, sua madre e suo padre tutti assieme?

"Le giornate passate in roulotte nel campeggio di Tarquinia e i viaggi in camper tutti assieme. Poi sì c'è un viaggio, in particolare, uno bellissimo che avevamo fatto sul Monte Bianco".

Caso Cucchi, i depistaggi dei carabinieri: «Versione confezionata» dai vertici. Ilaria Sacchettoni il 4 ottobre 2022 su Il Corriere della Sera.

Il generale Alessandro Casarsa condannato a cinque anni il 7 aprile scorso è stato «evasivo e ambiguo» durante la sua deposizione 

Il generale Alessandro Casarsa è stato «evasivo e ambiguo» durante il suo processo. Lo scrivono i giudici nelle quattrocento pagine di motivazioni alla sentenza dello scorso aprile. «È dunque poco verosimile che Casarsa (Alessandro Casarsa, imputato ndr) si sia limitato a fornire delle generiche linee guida, disinteressandosi del contenuto delle annotazioni» scrive Roberto Nespeca nelle motivazioni alla condanna per la vicenda dei depistaggi del caso Cucchi che si erano concluse con condanne pesanti per tutti e 8 gli imputati fra i quali, appunto, lo stesso generale Casarsa ex capo dei Corazzieri del Quirinale.

Poco convincenti, per i giudici, le affermazioni di estraneità di Casarsa riguardo alla falsificazione delle annotazioni di servizio sull’arresto di Cucchi. Scrive Nespeca: «Deve ritenersi inverosimile che Cavallo (Francesco Cavallo, altro imputato, sottoposto di casarsa, ndr) avesse potuto assumere autonomamente l’iniziativa di intervenire sul contenuto delle annotazioni».

Secondo i giudici, in sintesi, la modifica delle annotazioni aveva l’obiettivo di allontanare i sospetti dai carabinieri e di evitare problemi alla propria catena di comando già provata dallo scandalo Marrazzo. Secondo i magistrati si cercò di «preservare» i vertici da una vicenda che avrebbe potuto creare ulteriori problemi al comando vista la concomitanza con il caso del ricatto perpetrato da un gruppo di carabinieri nei confronti di Piero Marrazzo. La versione su Cucchi «era stata confezionata» a priori da alcuni appartenenti all’Arma.

Risarciti i familiari di Cucchi, fra cui la mamma assistita dall’avvocato Stefano Maccioni. Ma risarciti anche gli agenti della polizia penitenziaria assistiti dal penalista Diego Perugini che per via dei depistaggi subirono un primo processo. Soddisfazione viene espressa dall’avvocato Fabio Anselmo che assiste la famiglia: «Emozionante — dice — vedere nero su bianco la verità di quanto accaduto dopo l’uccisione di Stefano. Una verità urlata invano dopo tanti anni in cui escono a pezzi alti ufficiali dell’arma e medici legali compiacenti. Dire soddisfazione è un eufemismo. Grazie al dottor Musarò (Giovanni Musarò, ndr) e ai procuratori Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino»

(ANSA il 21 luglio 2022) - La corte di appello di Roma ha condannato a tre anni e sei mesi il maresciallo Roberto Mandolini e il carabiniere Francesco Tedesco a 2 anni e 4 mesi nell'ambito del processo di appello bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. La pronuncia arriva a poche ore dalla prescrizione che scatta alla mezzanotte di oggi. I due sono accusati di falso. 

Per Mandolini il pg aveva chiesto di confermare la condanna di primo grado a tre anni e otto mesi. Per Tedesco, che con le sue dichiarazioni ha fatto riaprire le indagini sul caso, il pg aveva chiesto l'assoluzione.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Condannato anche lui". Così in un post su Facebook, con allegata una foto di Roberto Mandolini, la sorella di Stefano Cucchi commenta le nuove condanne in uno dei processi sulla vicenda del fratello. Mandolini all'epoca dei fatti era il comandante della stazione Appio dove fu portato Stefano Cucchi dopo essere stato fermato. Condannato anche Francesco Tedesco che con le sue parole ha però fatto riaprire le indagini sul caso.

Prima della sentenza Ilaria Cucchi aveva scritto un altro post in cui stigmatizzava il fatto che Mandolini non aveva rinunciato, come annunciato, alla prescrizione. "Sono le 10. Inizia il processo bis contro il Maresciallo Mandolini. Sono previste le repliche. La Presidente annuncia che questo è l'ultimo giorno utile per arrivare a sentenza evitando la prescrizione. Mandolini aveva detto che vi avrebbe rinunciato. Ovviamente non ha mantenuto la parola. Posso dire che non mi stupisco?", aveva scritto Ilaria Cucchi.

(ANSA il 21 luglio 2022) - "Giustizia è fatta fino in fondo, ci abbiamo dedicato tanti anni della nostra vita. Oggi è una giornata importantissima che dedico ai miei genitori che purtroppo non sono riusciti ad essere qui". Lo ha detto Ilaria Cucchi commentando la sentenza di condanna per i carabinieri Mandolini e Tedesco nel processo di appello bis per l'indagine sul pestaggio di Stefano Cucchi.

L'accusa della figlia. Incidente per i genitori di Stefano Cucchi, feriti da un pirata della strada in fuga: “Non è giusto la faccia franca”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Maggio 2022. 

Brutta disavventura nella mattina di venerdì per i genitori di Stefano e Ilaria Cucchi, rimasti feriti in un incidente stradale causato da un pirata della strada che poi è fuggito dal luogo del sinistro facendo perdere le proprie tracce.

A raccontare l’episodio è stata la figlia Ilaria sui social, spiegando che l’incidente è avvenuto la mattina di venerdì 13 maggio sull’autostrada Roma-Civitavecchia, all’altezza di Monte Romano.

“Un grosso veicolo pirata questa mattina ha urtato l’auto mandandola in testa coda — spiega Ilaria Cucchi nel post —. Sono esplosi tutti i vetri dei finestrini. A bordo viaggiavano i miei genitori, che sono finiti in ospedale assieme ai due accompagnatori. Sono in corso accertamenti medici ma per fortuna pare che mia madre si sia rotta soltanto una spalla e mio padre un ginocchio. Sto cercando di capire le condizioni dei due accompagnatori, che sono stati ricoverati in un ospedale diverso. Il conducente del veicolo investitore è scappato. La Polizia stradale sta indagando. Mi appello a chiunque potesse aver visto qualcosa. Si faccia avanti. Non è giusto che la faccia franca”.

Per fortuna i genitori di Stefano, il ragazzo morto per i pestaggi subiti nell’ottobre 2009 mentre era sottoposto a custodia cautelare, se la sono cavata. Il padre Giovanni è stato dimesso nel corso della notte, mentre la madre Rita è stata trattenuta all’ospedale di Civitavecchia per diverse fratture, alla clavicola e a quattro costole.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Caso Cucchi, Cassazione: condanna annullata per i carabinieri Mandolini e Tedesco, prescrizione a luglio. Ilaria Minucci il 09/05/2022 su Notizie.it.

Caso Cucchi: con la nuova sentenza, la Cassazione ha annullato la condanna per falso dei carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco. L’accusa di falso andrà in prescrizione a luglio 2022.

Caso Cucchi, Cassazione: condanna annullata per i carabinieri Mandolini e Tedesco, prescrizione a luglio

Nel pomeriggio di lunedì 9 maggio, i giudici della Cassazione hanno emanato la sentenza sul caso Cucchi in relazione ai carabinieri Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, rispettivamente condannati in appello a quattro e a due anni e mezzo per le accuse di falso. A proposito dei due militari, per i quali era stato disposto il processo di appello bis, nelle motivazioni della sentenza sul caso Cucchi pronunciata dai giudici della Cassazione, è possibile leggere quanto segue: “I vizi motivazionali rilevati impongono l’annullamento della sentenza impugnata con rinvio per un nuovo esame ad altra sezione della Corte d’Assise d’appello di Roma”.

La prescrizione per l’accusa di falso alla quale devono rispondere i due carabinieri, come sottolineato sempre dai giudici, “si compirà non prima del 25 luglio 2022”.

Le motivazioni della sentenza emanata dai giudici

Con la sentenza emanata, i giudici della Cassazione hanno ritenuto fondati entrambi i ricorsi presentati e hanno sottolineato che la Corte territoriale, “nell’affermare l’oggettiva falsità del verbale di arresto di Cucchi e la colpevolezza degli imputati“, non avrebbe confutato “i rilievi mossi (…) riproponendone il percorso argomentativo oggetto di critica”.

Nelle motivazioni, inoltre, è stato precisato: “In realtà la Corte ha ricostruito la volontà dell’imputato dal comportamento tenuto da Mandolini nei giorni seguenti e più in particolare in quelli successivi alla morte di Cucchi dando apoditticamente per scontato che la preoccupazione di occultare quanto accaduto palesata dal medesimo in quel contesto fosse già insorta nell’immediatezza dei fatti, senza preoccuparsi di motivare sulla sua effettiva consapevolezza dell’entità delle conseguenze subite da Cucchi”.

Ilaria Cucchi,'12 anni, ora posso lasciarti andare fratello mio'. ANSA il 17 aprile 2022. 

"12 anni e sei mesi. È arrivato il momento di dirti addio. E qui e così sognavo di farlo. Ora posso lasciarti andare. Ti voglio bene fratello mio. Te ne vorrò per sempre". Così in un post su Facebook Ilaria Cucchi riferendosi alla vicenda del fratello Stefano, morto il 22 ottobre del 2009 nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini di Roma mentre era sottoposto alla custodia cautelare. Ilaria Cucchi sceglie una data simbolica per "dire addio" a Stefano, il giorno di Pasqua, e anche una foto eloquente, ovvero lei intenta a piantare dei fiori. Il post arriva dopo la sentenza di primo grado dell'ultimo dei tanti processi sulla tragica morte del giovane: la condanna di otto carabinieri per i depistaggi messi in atto dopo il decesso con una pena di cinque anni al generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, e di un anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino, ex numero uno del comando provinciale di Messina. (ANSA).

Il messaggio della sorella di Stefano. Ilaria Cucchi ringrazia Teo Luzi, un momento che tutti aspettavano. Luigi Ragno su Il Riformista il 16 Aprile 2022.

Le parole importanti e attese sono state scritte ieri, 15 aprile, su La Stampa. Un lungo messaggio di Ilaria Cucchi che, nei giorni scorsi, ha rivolto lo sguardo al cielo come per dire a Stefano “ecco, questa volta è finalmente finita e io sono sempre con te”. Il Comandante dei Carabinieri, appresa la sentenza, ha dichiarato che quanto accaduto è lontano dai principi che caratterizzano l’Istituzione e che, chi ha sbagliato, verrà messo fuori dal Corpo. Parole dure, forti, che hanno suscitato qualche malumore all’interno dell’Arma.

Ilaria Cucchi aveva già avviato un dialogo con l’Arma, sia col generale Del Sette che con Nistri. Quest’ultimo aveva offerto piena disponibilità alla sorella del giovane ucciso ottenendo un cenno di reciprocità di intenti. Ma ancora non era chiara la posizione della Benemerita, ancora si voleva difendere l’indifendibile. Ora, però, grazie alla sentenza dei giorni scorsi che ha certificato quanto accaduto nella caserma Casilina nell’ottobre 2009 e alle parole del generale Luzi, vi è finalmente una reciprocità di intenti tra Ilaria Cucchi e tutti i Carabinieri rappresentati da Teo Luzi.

L’alto ufficiale ha sempre seguito con attenzione la vicenda e non ha mai fatto mancare la comprensione alla famiglia di Stefano. Le stesse linee guida interne alla Forza armata ricordano ai carabinieri che essi sono custodi dei diritti di chi subisce un reato ma anche di chi lo compie. Sono tanti, infatti, gli episodi che vedono i carabinieri vicini alle vittime di questa società che, per diverse ragioni, non hanno avuto buone occasioni dalla vita.

Le parole di Ilaria Cucchi aprono a un nuovo periodo storico in questa vicenda che vuole essere da monito, per tutti, nel nostro Paese e la posizione del generale Luzi regala, finalmente, una nuova immagine dell’Arma. C’è dialogo tra le due compagini ferite: quella della famiglia Cucchi e quella della famiglia Arma e, proprio nel ricordo di una vittima innocente, si auspica che possa nascere un progetto affinché Stefano sia ricordato come un esempio di fragilità che ogni giorno la vita riserva nell’operare quotidiano di tutte le forze di polizia.

Luigi Ragno. Utente Apple dal 1984 appassionato di tutto ciò che è tecnologico, il web è la sua casa. 

Ilaria Cucchi per la Stampa il 15 aprile 2022.

«Su Cucchi ha vinto lo Stato di diritto. Ora scatteranno le espulsioni dall'Arma». Queste le parole del Comandante generale dei carabinieri che ho letto ieri. 

Mi sento piccola di fronte a lui e a quel che rappresenta. All'importanza per il mio Paese per ciò che è: l'Arma dei carabinieri. Quell'istituzione che da sempre i miei genitori mi hanno insegnato a rispettare, riuscendo perfettamente nel loro intento.

La vita di Stefano prima, la nostra poi, sono state distrutte e vilipese da uomini che non avrebbero mai dovuto indossare quella divisa. Non conta ciò che possono aver fatto prima. Non contano i loro meriti di carriera. Conta la violazione della dignità di una persona la cui vita era affidata alle loro mani. Entrambe sono state calpestate e distrutte allo stesso modo in cui, poi, a tavolino, lo sono state le nostre, insieme a quelle degli agenti di polizia di penitenziaria ingiustamente accusati del pestaggio omicida di Stefano Cucchi. 

Gli assassini di mio fratello ora sono in carcere. Coloro che li hanno aiutati, per anni e anni a sottrarsi alla legge, sono stati condannati.

Uomini che hanno posto in essere davanti al Tribunale di Roma una drammatica esibizione di cinica e patologica, financo ossessiva, ambizione di carriera. 

L'arroganza gonfia dei gradi delle loro divise, è stata espressa in tutta la sua violenza, come a voler significare che, per loro, la legge non poteva essere uguale agli altri cittadini comuni. Per loro no. Si consideravano al di sopra di tutto e tutti. Mai una nota di empatia per me, la sorella del morto perché il morto era un rifiuto. Un tossicodipendente in stato avanzato, anoressico e sieropositivo. 

Tutto inventato e scritto a tavolino senza il supporto di alcun documento medico. Falso. Ma sapevano che vi sarebbero stati medici legali che, supini al loro potere, avrebbero prontamente supportato le loro infamanti teorie, destinate a una propaganda mediatica che ci ha sempre accompagnati nella nostra ricerca di verità e di giustizia.

Politici con incarichi istituzionali le hanno dato forza e voce e continuano a dargliela "ignari" del fatto che quegli atti sono stati tutti dichiarati falsi. Mi sento piccola di fronte a tutto questo. Devo essere forte di fronte a tutto il dolore inflitto alla mia famiglia e che continuerà a esserle inflitto. Mentre lavoro sto studiando per prendere il secondo diploma, quello di geometra. Mi piace studiare. Voglio proseguire la strada di mio padre. 

Ciò che apprezzo di più nel pubblico intervento del generale Luzi è il lodevole progetto di introdurre «rinnovate e più efficaci procedure di controllo interno all'Arma» affinché, dico io, non ci sia più un'altra Ilaria Cucchi. Ilaria Cucchi ha già dato. Basta. Generale, ho fiducia in lei. Non mi tradisca. Non tradisca l'Istituzione che ho sempre amato nonostante tutto. 

Caso Cucchi, il comandante dei Carabinieri: “I condannati saranno espulsi dall’Arma”. Chiara Nava il 14/04/2022 su Notizie.it.

Il comandante dei Carabinieri, Teo Luzi, ha spiegato che gli agenti condannati per il caso Cucchi verranno espulsi dall'Arma.

Teo Luzi, comandante dei Carabinieri, ha spiegato che gli agenti che sono stati condannati per il caso Cucchi verranno espulsi dall’Arma, sottolineando che ci saranno anche dei provvedimenti per gli altri. 

Caso Cucchi, il comandante dei Carabinieri: “I condannati saranno espulsi dall’Arma”

Il comandante generale dei Carabinieri, Teo Luzi, ha commentato in un’intervista per La Stampa, la decisione della Cassazione sui responsabili del caso Cucchi e la sentenza di primo grado sui depistaggi. Ha promesso che chi è stato condannato verrà espulso dall’Arma, ma ha sottolineato che arriveranno anche provvedimenti per gli altri. “Rimane il dolore di tutti. Per primo, quello della famiglia Cucchi, alla quale esprimo ancora una volta la mia sentita vicinanza.

Per tutti gli altri militari tuttora imputati a diverso titolo nei due distinti processi, auspichiamo una rapida definizione delle loro posizioni” ha spiegato Luzi. “Indipendentemente dalla presunzione di innocenza e dall’esito di entrambi i processi, sento il dovere di dire che l’Arma ha vissuto con profonda sofferenza l’intera vicenda per la gravità delle condotte contestate, radicalmente lontane dai principi e dai valori che da sempre contraddistinguono l’impegno dei carabinieri al servizio del Paese e dei suoi cittadini” ha aggiunto. 

Caso Cucchi, Luzi: chi è stato condannato in primo grado trasferito a incarichi d’ufficio

Teo Luzi ha spiegato che gli otto militari condannati in primo grado sono già stati trasferiti all’epoca del rinvio a giudizio “da incarichi di prestigio e funzioni di particolare responsabilità a incarichi d’ufficio. Ribadisco che, nel rispetto del principio di legalità, al passaggio in giudicato delle sentenze, saranno tempestivamente definiti i procedimenti disciplinari nei loro confronti, così come previsto dalle norme in materia“. Nei prossimi giorni saranno posti a disposizione per svolgere compiti interni, senza personale alle dipendenze.

“Si tratta dello stesso tipo di provvedimento adottato in casi analoghi da altre Amministrazioni dello Stato e che garantisce – fino al giudicato – l’assenza di qualsiasi vulnus nell’esercizio delle funzioni svolte” ha spiegato. 

Caso Cucchi: i condannati in via definitiva “perderanno lo status militare”

I condannati in via definitiva “perderanno lo status militare, già in applicazione delle pene accessorie di interdizione perpetua dai pubblici uffici”. Per i condannati in primo grado nel secondo processo “l’Arma darà comunque corso ai procedimenti finalizzati all’accertamento delle relative responsabilità disciplinari sulla base delle risultanze processuali disponibili“. Il Comando Generale dell’Arma provvederà anche ai risarcimenti decisi per le parti civili. “Lo dobbiamo a tutti i carabinieri e ai cittadini, la cui fiducia alimenta il nostro impegno ed è motivo stesso del nostro essere. Eventuali somme risarcitorie saranno incamerate dall’Erario” ha spiegato Luzi.

Il caso Cucchi. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Valentina Calderone su Il Riformista il 10 Aprile 2022. 

Dodici anni, cinque mesi e tredici giorni. Questo è il tempo che la giustizia italiana ha impiegato per decretare definitivamente le responsabilità per l’uccisione di Stefano Cucchi. Il geometra romano di trentuno anni che nei primi mesi dopo la sua morte è stato variamente definito, da stampa e personaggi politici, come il “piccolo spacciatore di Tor Pignattara”, “anoressico, tossicodipendente, larva, zombie”. Nessuno potrà più dire adesso che Stefano è morto per colpa della sua magrezza, delle sue abitudini, delle sue debolezze. La sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato a 12 anni per omicidio preterintenzionale i due carabinieri responsabili dell’arresto e del trattenimento di Cucchi sancisce la fine di una vicenda giudiziaria incredibilmente lunga e travagliata, con centinaia di udienze, numerose perizie, diversi soggetti imputati e un’attenzione dei media mai vista prima per un caso di abusi da parte delle forze dell’ordine.

Con l’associazione A Buon Diritto abbiamo conosciuto la famiglia Cucchi a una settimana dalla morte di Stefano, e studiando i primi atti d’indagine chiedemmo sin da subito di indagare su quanto accaduto la notte dell’arresto. E invece le indagini sono state dirottate per anni, sviate per spostare l’attenzione dalla caserma di carabinieri all’interno della quale, oggi lo sappiamo con assoluta certezza, Stefano ha incontrato la morte. Il processo di primo grado per i depistaggi messi in atto con l’intento di coprire le responsabilità degli operatori si è concluso giovedì scorso con una sentenza di condanna: otto uomini appartenenti all’Arma sono stati ritenuti colpevoli di favoreggiamento, calunnia, falso ideologico. Un’opera complessa di depistaggi durata anni.

Da una parte, quindi, non dovrebbero stupirci questi tredici anni impiegati per arrivare alla verità, dall’altra però, non possiamo non farne tema di riflessione. La vicenda di Stefano Cucchi è stata paradigmatica da molti punti di vista, ha permesso di svelare un sistema estremamente complesso, il funzionamento di una macchina ben rodata di azioni messe in atto a tutti i livelli al fine di coprire le responsabilità, ma ha anche rappresentato la possibilità di parlare pubblicamente di queste vicende e ha consentito una crescita della consapevolezza collettiva su temi che continuano a essere molto difficili da trattare. Di Stefano Cucchi si è parlato nei telegiornali, nei libri, nei film, la sua vicenda è stata rapidamente conosciuta a livello nazionale, approfondita e utilizzata per raccontare altre storie. La famiglia, e soprattutto la sorella Ilaria, sono diventati voce che chiedeva incessantemente verità e giustizia e, nonostante tutta la caparbietà dimostrata e l’attenzione ricevuta, c’è voluto un tempo enorme per arrivare a ottenerle, quella verità e quella giustizia.

Ma se allora ci sono voluti quasi tredici anni per arrivare a capo di una vicenda che ha provocato fortissime emozioni e scosso l’opinione pubblica, che è stata raccontata e analizzata, che esito possono avere le altre decine e centinaia di storie di abusi che non conosceremo mai? In questi anni alcune le abbiamo raccontate: Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini, Michele Ferrulli, Francesco Mastrogiovanni, Andrea Soldi, Mauro Guerra, Aldo Bianzino, Giuseppe Uva. Vicende diverse, con molti tratti in comune, uno su tutti l’incommensurabile dolore delle famiglie che devono affrontare processi in cui spesso è la vittima a essere sotto accusa, la sua vita, le sue abitudini, le sue relazioni.

Lo scandalo suscitato dalla morte di un uomo che si trovi sotta la custodia dello Stato non sarà purtroppo sufficiente a far sì che storie come queste non accadano mai più. Ma se c’è una cosa che possiamo imparare dalla vicenda di Stefano Cucchi, e dalle emozioni che ci ha provocato, è che ora più che mai dobbiamo continuare a monitorare, fare domande, pretendere verità. Un uomo che muore nelle mani dello Stato riguarda tutti noi. Stefano Cucchi ce lo ha insegnato. Valentina Calderone

Dedicato a Stefano Cucchi: 13 anni di vergognose dichiarazioni politiche. Falsità, calunnie, cattiverie, superficialità. E mancate scuse. Da quel 22 ottobre del 2009 sulla sua morte, sulla sua persona, sulla sua famiglia è stato detto di tutto. Da ministri, sottosegretari, leader politici, sindacalisti e giornalisti. Oggi, dopo che si è finalmente arrivati alle sentenze definitive, vogliamo ripercorrere quel calvario. Per non dimenticare. Wil NonLeggerlo su L'Espresso l'11 aprile 2022.

Anoressico, tossicodipendente, sieropositivo e spacciatore abituale. Epilettico e pure un po' spocchioso. Uno zombie che “aggrediva e derubava le vecchiette”. A condannarlo a morte i suoi eccessi, non di certo le mazzate: nessuna relazione tra percosse e decesso, nessun dubbio sull'operato delle forze dell’ordine. Anche questo si è detto di Stefano Cucchi, da quel terrificante 22 ottobre 2009. Falsità, calunnie, cattiverie, superficialità, sfociate in una narrazione capace di confondere vittime e carnefici, avvelenare il dibattito, mortificare il terzo articolo.

Tanto altro si è raccontato sulla sorella Ilaria, paladina ostinata e preziosa, descritta come “befana” a caccia di riflettori elettorali, “lobbista” in cerca di risarcimenti. Non era ancora il momento giusto, per questa raccolta. Ora però sì. Ora che le sentenze definitive certificano botte fino a morire, ora che la verità giudiziaria pare degna di uno Stato di Diritto, come da requisitoria: “Una via crucis notturna”, “si è voluto infliggere a Cucchi una severa punizione corporale di straordinaria gravità”.

Omicidio preterintenzionale per due carabinieri. Al riparo dai depistaggi, condannati in otto, pure per quelli. Un calvario lungo 13 anni che vogliamo ripercorrere qui, attraverso tutto ciò che di peggio abbiamo visto, letto e ascoltato: ministri, sottosegretari, leader politici, sindacalisti, giornalisti. Dedicato a Stefano Cucchi, alla battaglia di Ilaria, a tutte le famiglie come la sua.

LA CORRETTEZZA DEI CARABINIERI

“Non ho strumenti per accertare. Di una cosa però sono certo: del comportamento corretto dei carabinieri in questa occasione”

(Ignazio La Russa, ministro della Difesa del governo Berlusconi, intervistato da Radio Radicale sul caso Cucchi – 30 ottobre 2009)

FAKE

“Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo”

(Carlo Giovanardi, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con deleghe alla Famiglia e alla droga – Ansa, 9 novembre 2009) 

ZOMBIE

“La droga ha devastato la vita di Cucchi. Sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie”

(Carlo Giovanardi a 24 Mattino su Radio 24 – 9 novembre 2009) 

SPACCIATORE ABITUALE

“Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto – e la verità verrà fuori – soprattutto perché pesava 42 chili”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 novembre 2009) 

BARBARI

“Esprimo a nome mio e del Governo tutto la totale solidarietà a Carlo Giovanardi. Le minacce ricevute rappresentano un inaccettabile imbarbarimento”

(Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio – Ansa, 12 novembre 2009)

FAME E SETE

“Stefano Cucchi è stato lasciato morire di fame e di sete”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 13 novembre 2009)

NON SE NE PUÒ DAVVERO PIÙ: GUARDATE IN FAMIGLIA...

“È davvero il momento di smetterla con le pesanti recriminazioni contro il sistema istituzionale perchè non se ne può veramente più. Basta con il rifiuto delle sentenze, ma solo quando non fanno comodo. Basta con questa smania giustizialista che punta agli Appartenenti alle Forze dell’Ordine e che spinge sempre e solo a cercare la pagliuzza negli occhi degli altri... Basta con questa illogica ed insostenibile ricerca del colpevole ad ogni costo, perché a dire la vera verità le morti realmente violente che oltre tutto non hanno trovato giustizia né responsabili a cui far pagare il conto sono ben altre. Basta con questa non più sopportabile cantilena dell’inspiegabilità di un evento sia pur triste e luttuoso, se si vogliono sondare le ragioni di certe sciagure si guardi prima di tutto altrove, magari in famiglia”. “Non possiamo che considerarli deliri dovuti al grande dolore della perdita di una persona amata, chiedendoci però se altrettanta foga e perseveranza sia stata profusa quando quella persona era in vita per affrontare altre questioni. In tutti i casi, certamente affermare che la morte di Stefano Cucchi sia colpa dei giudici che non hanno ravvisato responsabilità in chi lo ha avuto in consegna o, prima ancora, di chi lo ha avuto in consegna secondo i precisi dettami della nostra professione, è qualcosa che non sta né in cielo né in terra e di cui, sinceramente e bando all’inutile pietismo, non se ne può davvero più”

(Franco Maccari, presidente del sindacato di polizia Cosip, Sindacato Indipendente di Polizia – 1 novembre 2014)

TIPICO...

“Cucchi è stato vittima di una vita segnata dalla droga e dalle relative gravi patologie tipiche di chi ne fa uso e della negligenza di medici che lo hanno lasciato morire di fame e di sete”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 13 dicembre 2012)

EVENTUALI PERCOSSE...

“Tutte le perizie arrivano alla conclusione che non c'è nessuna relazione tra la morte di Cucchi ed eventuali percosse subite”

(Carlo Giovanardi a 24 Mattino, Radio 24 – 1 febbraio 2013)

LO SFRUTTAMENTO DI ILARIA

“La candidatura di Ilaria Cucchi? È evidente che sta sfruttando la tragedia del fratello...”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 1 febbraio 2013)

NON CI STO

“La Provincia di Roma gli voleva intitolare le scuole come se fosse un esempio ai giovani: non ci sto. È come con Carlo Giuliani: certo, Giuliani è una vittima, poveretto. Ma si possono intitolare a lui le sale del Parlamento? Io dico no, perché quando è morto stava per ammazzare tre carabinieri”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 1 febbraio 2013)

UN PESTAGGIO MAI AVVENUTO

“Il tempo è galantuomo e ha fatto giustizia di pregiudiziali ideologiche, enfatizzate dai media, che attribuivano responsabilità agli agenti di custodia per un pestaggio mai avvenuto”

(Carlo Giovanardi, in una nota – 5 giugno 2013)

LE BOTTE NON C'ENTRANO NIENTE

“Le ecchimosi sul corpo di Stefano Cucchi sono dovute alla mancanza di nutrizione, non c’entrano niente le botte, né quei tre poveri cristi degli agenti di custodia, che prendono 1200 euro al mese e hanno vissuto quattro anni d’inferno”

(Carlo Giovanardi, senatore Pdl, a La Zanzara su Radio 24 – Fatto Quotidiano, 7 giugno 2013)

LE FORZE DELL'ORDINE NON C'ENTRANO NIENTE

“Il povero Stefano Cucchi aveva una vita sfortunata, segnata dall’uso di stupefacenti e dal fatto di essere uno spacciatore. Ha avuto 16 ricoveri al pronto soccorso, per percosse risalenti agli anni precedenti, ma non c’entravano niente polizia e carabinieri”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 7 giugno 2013)

LO SCIOPERO DELLA FAME

“Quello che è successo a Cucchi deriva dal mondo che frequentava: è morto perché i medici, anziché curarlo, hanno preso per buone le dichiarazioni di sciopero della fame”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 7 giugno 2013)

VITA DISSOLUTA? NE PAGHI LE CONSEGUENZE

“In questo Paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità”, “se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”

(Gianni Tonelli, segretario generale del sindacato di polizia Sap – Ansa, 31 ottobre 2014

IL CANNIBALE

“Nelle perizie si legge che Cucchi ha mangiato se stesso, quando è andato in ospedale pesava 36 chili”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara su Radio 24 – 31 ottobre 2014)

L'ALTRA TEORIA...

Ma perché Cucchi ha fatto lo sciopero della fame? “Protestava per l’arresto. Poi c’è un’altra teoria, qualcuno dice che aveva lasciato la roba in casa ed era preoccupato che gliela sequestrassero e che chi gliela aveva fornita lo scoprisse”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 31 ottobre 2014)

QUALCUNO L'HA FATTO, SI SCOPRIRÀ POI...

“Stefano Cucchi era stato già ricoverato per 17 volte a causa di percosse, lesioni, ferite determinate nell'ambiente in cui viveva. Mi domando: è possibile che la diciottesima volta sia stato picchiato da tre agenti di custodia?”

(Carlo Giovanardi, senatore del Nuovo centrodestra, in una videointervista per Secoloditalia.it – 4 novembre 2014)

ILARIA CUCCHI ABBANDONA E ISTIGA ALL'ODIO

“Stefano Cucchi è stato abbandonato dalla famiglia. Come mai oggi la signora Cucchi si interessa tanto del fratello?”. “Denunciamo la signora Cucchi per istigazione all’odio, offende la polizia penitenziaria. Se lei e la sua famiglia avessero seguito da più vicino Stefano e avessero fatto più prevenzione, probabilmente l’avrebbe salvato da quella cattiva strada che aveva intrapreso, cioè quella dello spaccio della droga. Potevano recuperarlo, e invece Stefano Cucchi è stato abbandonato al suo destino”

(Donato Capece, segretario del Sappe, Sindacato autonomo polizia penitenziaria, dopo aver querelato Ilaria Cucchi – La Zanzara, Radio 24, 4 novembre 2014)

ROBA VECCHIA...

“Le lesioni? Erano pregresse al momento dell’arresto. Sono fratture vecchie. È stato picchiato, ma probabilmente prima”

(Donato Capece – Radio 24, 4 novembre 2014)

FORMIGONI NON CREDE

“Stefano Cucchi morto in mano allo Stato? Non credo che la vicenda possa esser ricostruita in questi termini. Lui è uno che purtroppo era coinvolto pesantemente nel mondo della droga, ne faceva uso personalmente, spacciava, era stato più volte ricoverato in ospedale per aver subito pestaggi da gente del suo ambiente”

(Roberto Formigoni, senatore Ncd, a Un giorno da pecora su Radio Due – 5 novembre 2014)

TWITTERONI PROTESTONI

“Finora le indagini hanno portato alla sentenza di assoluzione, e le sentenze si possono criticare ma si devono rispettare. Non è questo l'insegnamento che la sinistra e i twitteroni protestoni hanno sempre sostenuto?”

(Roberto Formigoni – Radio Due, 5 novembre 2014)

VITTIMA? PUTTANATA

Stefano Cucchi, per Giuliano Ferrara è come Carlo Giuliani: “Puttanata dire che è vittima”. (…) Bianca Berlinguer, ospite di TvTalk su Rai Tre, interrompe subito il direttore del Foglio: “Cucchi è stato picchiato o non è stato picchiato?”. E Ferrara risponde ancora polemico: “Non lo so, ci sono due sentenze contraddittorie, ma Cucchi non faceva la vita di un normale ragazzo che va a scuola o che va a lavorare. E non mi pareva molto in salute, a prescindere da tutto”

(Blitz Quotidiano – 10 novembre 2014)

GINOCCHIO SBUCCIATO? CAZZI TUOI

Il leader della Lega, Matteo Salvini, si schiera contro il reato di tortura (“idiozie”, ndr), al centro di un aspro dibattito dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sul G8 di Genova e casi come quello di Stefano Cucchi. In una manifestazione davanti a Palazzo Chigi insieme al Sap, dichiara: “La Corte europea dei diritti umani potrebbe occuparsi di altro. Per qualcuno che ha sbagliato non devono pagare tutti. Carabinieri e polizia devono poter fare il loro lavoro. Se devo prendere per il collo un delinquente, lo prendo. Se cade e si sbuccia un ginocchio, sono cazzi suoi”

(La Repubblica – 25 giugno 2015)

FORSE GASPARRI LO AVREBBE SALVATO

“Se Cucchi, prima di morire, avesse avuto una mano tesa per andare in comunità, e lo dico perché io mi occupo molto di tossicodipendenti, forse oggi sarebbe vivo”. “È andato incontro a un destino assurdo e drammatico perché era vittima della droga, bisognava un attimo prima portarlo su una strada diversa“. Immediata la replica di Ilaria Cucchi: “E quindi l’avremmo salvato in quel modo, secondo lei?”. “Io ho salvato tante persone dalla droga, signora...”

(Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, a L’Aria che tira, in un confronto con Ilaria Cucchi – La7, 2 novembre 2015)

LO SCHIFO

“Capisco il dolore di una sorella che ha perso il fratello, ma mi fa schifo, è un post che fa schifo. Ricorda tanto il documento contro il commissario Calabresi. I carabinieri possono tranquillamente mettere una foto in costume da bagno sulla pagina di Facebook. O un carabiniere non può andare al mare? È assolutamente vergognoso. I legali fanno bene a querelare la signora e lei dovrebbe chiedere scusa. La sorella di Cucchi si dovrebbe vergognare”

(Matteo Salvini, segretario della Lega, a La Zanzara su Radio 24 – 5 gennaio 2016)

A SALVINI SEMBRA DIFFICILE...

Ma ci sono carabinieri accusati di aver picchiato Stefano Cucchi, dicono i conduttori: “Io sto sempre e comunque con polizia e carabinieri. Se l’1% sbaglia deve pagare. Però mi sembra difficile pensare che ci siano poliziotti o carabinieri che hanno pestato per il gusto di farlo...”

(Matteo Salvini – Radio 24, 5 gennaio 2016)

UN GROSSO SPACCIATORE

“Quando leggo sui giornali che il caso Cucchi viene affiancato al caso Regeni, mi indigno e mi vergogno. Il povero Regeni, preso non si da chi, torturato e ucciso barbaramente. Vogliamo dire che i poliziotti e i carabinieri italiani si sono comportati nella stessa maniera? A me sembra di essere dentro un teatrino dell’assurdo. Cucchi di attività faceva lo spacciatore, tra le altre cose neanche piccolino, ma di dimensioni piuttosto grosse”

(Carlo Giovanardi, ex Ncd e ora aderente al gruppo Idea, nel corso di un'intervista rilasciata a Ecg Regione su Radio Cusano Campus – 4 aprile 2016)

GOTTA CATCH 'EM ALL

“Ho catturato un Pokémon!!! Se non lo rilascio in fretta rischio di essere condannato per il reato di tortura?!?!”

(Il tweet di Geo Ceccaroli, dirigente della Polizia postale dell'Emilia-Romagna, scatena l’indignazione di Ilaria Cucchi e della Rete – La Repubblica, 25 luglio 2016)

UNA VERGOGNOSA MONTATURA CONTRO LE FORZE DELL'ORDINE: È STATA L'EPILESSIA

“Stefano Cucchi non è morto per un presunto pestaggio. È stata l’epilessia a causare la morte improvvisa ed inaspettata dell’uomo fermato per droga, che soffriva da anni di patologia epilettica ed era in trattamento con farmaci anti-epilettici. A confermarlo sono i periti nominati dal gip per condurre un esame tecnico-scientifico nell’ambito della nuova inchiesta avviata dalla Procura di Roma nei confronti di cinque carabinieri. Insomma ancora una conferma alla vergognosa montatura mediatico-giudiziaria che per anni è servita a gettare fango su tutte le Forze dell’Ordine. Aspettiamo le scuse da parte di tutti coloro che – familiari, giornalisti, politici e quant’altro – hanno sposato ad occhi chiusi la tesi dell’uccisione dell’uomo, un violento pestaggio senza neppure attendere un riscontro dei fatti. Fango su fango, diffamazione su diffamazione, per dipingere le Forze dell’Ordine come schiere di violenti”

(Franco Maccari, Segretario Generale del COISP, il Sindacato Indipendente di Polizia, in una nota – 4 ottobre 2016)

GLI ASINI VOLANO

“Se Stefano Cucchi avesse fatto una vita sana, se non si fosse drogato e non fosse entrato in un tunnel che poi lo ha portato agli arresti non sarebbe morto. Ilaria Cucchi dice che il decesso del fratello Stefano è stato causato dalle fratture? Davanti a 20 periti e a 4 dei più grandi luminari italiani che si sono pronunciati, io non credo di certo agli asini che volano...”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara, Radio 24 – 5 ottobre 2016)

SODDISFAZIONI

“Ilaria Cucchi ha già ottenuto un milione e mezzo di risarcimento dall'ospedale, sicuramente ha ottenuto soddisfazione”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 5 ottobre 2016)

“IO NE HO SALVATI MOLTI”

“Chi ha aiutato Cucchi a uscire dalla droga? Se avessero dedicato a lui allora un decimo dell'attenzione di oggi sarebbe ancora vivo”. “Evidente che non lo aiutarono ad uscirne”. E rispondendo alle critiche di alcuni follower: “Ho la tranquillità di chi ha salvato tantissimi ragazzi dalla droga”; “Andava aiutato da vivo, quando fu abbandonato”; “Io ho molta esperienza, ho salvato decine di persone avviandole in comunità, Cucchi fu abbandonato al suo tragico destino”; “Taccia, abbiamo salvato decine di persone immerse nella droga. Cucchi era stato abbandonato”; “Cucchi abbandonato da tutti, oggi tanti ne parlano, allora nessuno gli tese una mano”; “Io ho salvato molti, lei non lo meriterebbe, out”

(Maurizio Gasparri, parlamentare di Forza Italia, su Twitter – 5 ottobre 2016)

ESCLUDIAMO LE BOTTE

“Io credo che la strada dell’omicidio preterintenzionale cadrà totalmente nella fase processuale. Tutte le perizie hanno escluso che ci sia qualsiasi tipo di relazione con le botte ricevute”

(Carlo Giovanardi a La Zanzara, Radio 24 – 18 gennaio 2017)

LA LOBBY CUCCHI

“Ilaria Cucchi, il suo compagno l'avvocato Anselmo, il senatore Manconi, fanno parte di una lobby, un gruppo di pressione. Loro hanno interessi economici, sono stati liquidati con un milione di euro dai medici che erano innocenti. Anselmo si vanta di vincere i processi sui media e hanno una grande capacita' mediatica. Ieri erano subito al Tg1 senza che nessun carabiniere sia intervenuto dall'altra parte”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 18 gennaio 2017)

DIFFAMAZIONE? GIOCHIAMOCI IL RISARCIMENTO

“Non mi turba, né preoccupa, dormirò sonni tranquilli. La Signora Cucchi ne sta già facendo una bandiera, ma resterà delusa. Di questo ne sono sicuro e posso giocarmi lo stipendio. Se la signora Cucchi si vuole giocare quello che ha ricevuto a risarcimento io non ho problemi”

(Gianni Tonelli, deputato della Lega e segretario aggiunto del sindacato di polizia Sap, condannato dal tribunale di Bologna per diffamazione nei confronti della sorella e dei genitori di Stefano Cucchi – Ansa, 11 aprile 2018)

LASCIAMOLI LAVORARE

Giorgia Meloni shock: “Il reato di tortura impedisce alla Polizia di lavorare”. La sorella di Stefano Cucchi risponde al tweet della leader Fdi: “Vuole dirci che senza la possibilità di picchiare è impossibile fare l’agente di Polizia?”

(Rolling Stone – 12 luglio 2018)

SCUSE DE CHE?

“Non devo chiedere scusa alla famiglia Cucchi, perché dovrei farlo? Non mi vergogno di nulla”

(Carlo Giovanardi – Ansa, 11 ottobre 2018)

“LA RUSSA NON CHIEDE SCUSA”

Nei giorni della morte di Stefano Cucchi, nel 2009, Ignazio La Russa era ministro della Difesa e difendeva l'operato dei Carabinieri. Il giorno dopo le ammissioni in aula di uno degli agenti imputati, che ha denunciato due colleghi per il pestaggio, la sorella del giovane, Ilaria, ha chiesto le sue scuse. “Rispetto la sorella di Cucchi e chi sbaglia deve pagare - spiega il vicepresidente del Senato - ma continuerò a difendere l'Arma come istituzione”, “sono contro a chi cerca di usare questi episodi drammatici per buttare fango sull'Arma”

(RepTv, Adnkronos – 12 ottobre 2018)

SPACCIATORE EROINOMANE

“Sto leggendo post di ogni genere sullo spacciatore eroinomane Cucchi. Potete pensarla come volete e per qualcuno potrà sembrare un eroe ma se non moriva lui in carcere chissà quanti giovani sarebbero morti grazie alla sua eroina che avrebbe continuato a spacciare il giorno seguente”

(Fabio Tuiach, consigliere comunale a Trieste, ex Lega e Forza Nuova, su Facebook – TriestePrima, 13 ottobre 2018)

CAZZO VUOLE LA BEFANA?

“Posto che lo spacciatore Cucchi é stato ucciso da due carabinieri (al processo si vedrà), posto che la sorella ha cercato, invano, di essere eletta deputato comunista, posto anche, e di più, che la sorella e la famiglia hanno avuto un risarcimento di un milione e 300centomila euro, cazzo vuole più quella befana della sorella?”

(Edoardo Usai, avvocato, ex consigliere regionale di Alleanza Nazionale, ex assessore comunale di Cagliari, su Facebook – La Nuova Sardegna, 14 ottobre 2018)

BOTTE? VEDREMO...

“Di cosa devo chiedere scusa? Non mi vergogno di nulla”, “vedremo nel corso del processo se le botte dei carabinieri sono state causa della morte”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 14 ottobre 2018)

“PIAZZA CUCCHI, SPACCIATORE”

Il consigliere comunale di Ladispoli appartenente al gruppo Fratelli D’Italia Giovanni Ardita e l’ex candidata sindaco a Cerveteri Candida Pittoritto, esponente Msi, sono stati protagonisti di una gaffe social: sul profilo Facebook Ardita ha pubblicato l’immagine di un’iscrizione stradale con su scritto “PIAZZA STEFANO CUCCHI – SPACCIATORE”, sul modello di quelle che si sono viste per Carlo Giuliani

(Terzobinario.it – 18 ottobre 2018)

SE L'È CERCATA

Stefano Cucchi, Ilaria denuncia: “Insulti, minacce e auguri di morte da profili di simpatizzanti della Lega”. Recapitata all’abitazione dei genitori a Roma una lettera anonima scritta a mano con insulti: “Dovreste essere voi, e non Salvini, a scusarvi per tutte le persone che suo figlio ha rovinato con la droga. Mi spiace abbia pagato con la vita, ma se l’è cercata”

(Fatto Quotidiano – 20 ottobre 2018)

CUCCHI NO, ALE E FRANZ SÌ

Il presidente della Camera Roberto Fico porta il film su Stefano Cucchi alla Camera. Matteo Salvini all’agenzia Dire: “Non ho tempo per il cinema”. Due giorni dopo, ospite del Maurizio Costanzo Show: “Sono andato a teatro dopo mille anni, ho visto lo spettacolo di Ale e Franz, due grandi”

(13 novembre 2018)

FORZA NUOVA NON CI STA

Torino, striscione di Forza Nuova contro l'Anpi e Ilaria Cucchi. Il movimento di estrema destra contro la decisione di conferire la tessera onoraria alla sorella di Stefano Cucchi e al sindaco di Piace Mimmo Lucano. “Anpi, oggi come ieri traditori del popolo”

(Corriere Torino, 17 novembre 2018)

PURE I MASSONI

“Cucchi è un eroe della sinistra e visto che è un martire per i massoni anti italiani ogni giorno ai tg si parla di lui”. Lo rileva il consigliere comunale Fabio Tuiach

(TriesteCafe.it, 28 febbraio 2019)

BASTAVA UN BICCHIERE D'ACQUA

“C’è una sentenza che dice altro: bastava un bicchiere d’acqua per salvare Cucchi”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

FRATE INDOVINO

“Carlo Giovanardi: 'Scusarmi con la famiglia Cucchi? E perché mai? Ho fatto riferimento solo agli atti giudiziari'. Già, e quel 'sieropositivo, epilettico, anoressico, tossicodipendente' (detto a proposito di Stefano), dove l'ha trovato? Sul calendario di Frate Indovino?”

(Luigi Manconi su Twitter – 10 aprile 2019)

COSE NAZISTE

“Il comportamento dei Carabinieri che avevano Cucchi in custodia? Aspetto la condanna definitiva: i linciaggi sono nazismo”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

SCENEGGIATI

“Famiglia Cucchi isolata? Ma se ha avuto sostegno, film e sceneggiati... non sono mancati gli appoggi!”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

MELUZZI: LA FAMIGLIA CUCCHI SI SCUSI

“Come il comandante generale dell'Arma ha chiesto scusa alla famiglia Cucchi, per un principio ovvio la famiglia Cucchi dovrebbe chiedere scusa a tutte quelle famiglie di giovani a cui il geometra Cucchi spacciava la droga”. I conduttori ricordano a Meluzzi: Cucchi ha trovato la morte mentre era “affidato alle mani dello Stato”. E lo psichiatra: “Questo lo accerterà la magistratura...”

(Alessandro Meluzzi a La Zanzara, su Radio 24 – 12 aprile 2019)

PRECISAZIONI

Ilaria Cucchi risponde a Giorgia Meloni su HuffPost: Cucchi non è mai stato condannato, indagato ma nemmeno sospettato per spaccio di droga fino al giorno del suo arresto. Quando voi politici avete qualche vostro collega che viene coinvolto in inchieste per corruzione, mafia o altro, vi dichiarate giustamente garantisti…

(Globalist.it – 18 aprile 2019)

CUCCHI COME GARIBALDI E CAVOUR? NO!

“Una strada può essere intitolata solo ai benemeriti di una nazione. Ora, dire che Cucchi sia come Garibaldi o Cavour mi sembra esagerato. Vittima della droga, vittima delle circostanze, magari vittima dei carabinieri, vedremo al processo, ma benemerito della nazione no...”

(Carlo Giovanardi all'Adnkronos – 8 ottobre 2019)

CUCCHI AGGREDIVA LE VECCHIETTE

“Cucchi era un drogato che rubava ed aggrediva le vecchiette per drogarsi”. Questo è quanto si è permessa di scrivere Pina Bernardini, Assistente Capo del Corpo di Polizia Penitenziaria, sul gruppo Facebook “Sostenitori Polizia Penitenziaria”

(Dal sito del giurista Emilio Quintieri, già Consigliere Nazionale di Radicali Italiani – 18 ottobre 2019)

GLI INTERROGATIVI DI FELTRI

“Cucchi morì ammazzato, dice il tribunale. È sempre colpa dei carabinieri. Sarà vero?”

(Vittorio Feltri, direttore di Libero, su Twitter – 15 novembre 2019)

TOSSICO E PURE SPOCCHIOSO

“IO NON STO CON ILARIA CUCCHI! Stefano Cucchi ha avuto finalmente giustizia (Bah)! La sorella finalmente è soddisfatta e si lancia in una nuova e brillante carriera politica o nello spettacolo (insomma cerca un modo per guadagnare). Stefano Cucchi sarà anche stato maltrattato e per questo ci sono state delle condanne (giuste? Bah)! Va però ricordato che non parliamo di uno studente modello o di un bravo ragazzo di città bensì di un tossico preso con 20 grammi di hashish e con alcune dosi di cocaina destinate evidentemente allo spaccio e pure abbastanza spocchioso. Per carità nessuno può morire e deve morire di botte ma neanche può passare per vittima o per eroi lui e tantomeno la sorella che sta sfruttando il fratello tossico per il proprio successo!”

(Adriano Palozzi, consigliere regionale del Lazio di Cambiamo!, ex Forza Italia, su Facebook, per poi cancellare il post – 16 novembre 2019)

TUO FRATELLO UCCIDEVA LE PERSONE

“I carabinieri avranno anche sbagliato!!!!... ma tuo fratello rimarrà sempre un drogato e spacciatore che uccideva altre persone... Non c’è nulla da festeggiare!!!! Ilaria Cucchi Vergognati”. In allegato, un meme di Ilaria Cucchi con il seguente virgolettato: “A mio fratello Stefano. Da vivo ti abbandono, da morto ti adoro”

(Candida Pittoritto, esponente di Cambiamo!, su Facebook – Tusciaweb, 17 novembre 2019)

ILARIA SPECULA

“Sicuramente aveva diritto di vivere, sicuramente i carabinieri hanno sbagliato e li condanno, ma la sorella sta speculando sulla sua morte. Quando era in vita, Ilaria non lo voleva vedere e lo aveva cacciato di casa, adesso che è morto lo adora. Stefano Cucchi non era un santo, anzi spacciava e uccideva altre vite umane. Perciò, per quanto mi riguarda io condanno tutti e tre, carabinieri, Stefano Cucchi e Ilaria Cucchi”

(Candida Pittoritto in un commento su Facebook – Tusciaweb, 17 novembre 2019)

QUI ANDAVA ANCORA D'ACCORDO CON SALVINI

“La sorella di Cucchi ha querelato Salvini perché questi ha detto che la droga fa male. Se il tribunale lo condannasse vorrebbe dire che gli stupefacenti fanno un sacco bene. Cose folli”

(Vittorio Feltri su Twitter – 19 novembre 2019)

TUTTO NASCE DALLA DROGA

“Tutti gli episodi di violenza nascono dalla droga. La droga fa male. Se Cucchi è stato ammazzato, chi l'ha fatto va in galera, ma mi spiace che si sottovaluti il problema della droga”

(Matteo Salvini a Fuori dal coro, su Rete 4 – 19 novembre 2019)

DROGA ZERO

“Dopo Carola Rackete, mi querela la signora Cucchi? Nessun problema, sono tranquillissimo, dopo le minacce di morte dei Casamonica e i proiettili in busta, non è certo una querela a mettermi paura”, “una querela in più o una in meno non mi cambia la vita”. “Spero che il Parlamento approvi subito la legge 'droga zero' proposta dalla Lega, per togliere per sempre ogni tipo di droga dalle strade delle nostre città”

(Matteo Salvini – Ansa, Rete 4, 19 novembre 2019)

ANCONA, FORZA ITALIA CONTRO “VIA CUCCHI”

“Le strade si intitolano agli eroi, non ai tossicodipendenti”. Arriva un comunicato a firma Daniele Silvetti, coordinatore provinciale, Teresa Stefania Dai Prà, commissario comunale, e Luca Mariotti, vice commissario comunale

(AnconaToday, 21 novembre 2019)

ANDAVA CONDANNATA LA FAMIGLIA

“Sfruttare la morte per fare soldi e avere notorietà è come averlo ucciso una seconda volta. Cucchi andava aiutato e non ucciso da Istituzione e famiglia”. A scrivere il post shock su Facebook contro la famiglia Cucchi, accusata di aver speculato sulla morte di Stefano, è Antonio Galizia, 68 anni, per 20 anni interamente trascorsi al comando della stazione di Giovinazzo, in provincia di Bari, e un presente da politico nelle liste di 5 Stelle nonché padre di una deputata grillina, che ha aggiunto: “Forse condannare la famiglia e la sorella per aver abbandonato un figlio e un fratello sarebbe stata vera Giustizia”

(Repubblica Roma – 8 aprile 2022)

UNA SPINTA E UN CALCIO

“Se i carabinieri, quando Cucchi si è rivoltato per colpire un carabiniere, gli hanno dato una spinta e un calcio, era assolutamente giusto che venissero condannati per la spinta e il calcio. Quando però una sentenza di Cassazione mi dice che non c’è relazione tra spinta e calcio e la morte perché la morte dipende dai medici che non l’hanno curato, io dico che i carabinieri devono essere condannati, ma faccio notare che le sentenze sono contrastanti”

(Carlo Giovanardi intervistato da Nextquotidiano.it, in merito alla sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato i due carabinieri a 12 anni per omicidio preterintenzionale – 8 aprile)

GIOVANARDI HA REMATO VERSO LA VERITÀ

Ma dei medici Cucchi non avrebbe avuto bisogno, se non avesse subito il pestaggio. Nel 2019, lei ha insistito sull’assenza di nessi tra la morte di Cucchi e le percosse subite. Affermazioni che hanno portato Ilaria Cucchi a querelarla. Oggi pensa di dovere delle scuse alla famiglia? “Ma di cosa devo chiedere scusa? Io ho sempre remato verso la verità. E mi sono limitato a riportare le sentenze. Ilaria Cucchi mi ha querelato, ma il pm di Roma e il gip hanno archiviato la vicenda dicendo che io ho sempre dichiarato cose vere e con linguaggio continente, facendo riferimento a carte processuali e perizie”. Secondo la sorella della vittima, lei avrebbe infamato la memoria di Stefano intervenendo continuamente sulla vicenda in questi anni. “Del caso mi sono interessato fin da subito perché avevo la delega alle politiche antidroga. E non si può negare che la droga abbia avuto un ruolo in questa vicenda”

(Carlo Giovanardi al Corriere di Bologna – 9 aprile)

TRE ANNI PRIMA: 9 APRILE 2019

“Chiedere scusa? Di cosa? Per cosa? Non c'è nessuna relazione tra le percosse dei Carabinieri e morte di Cucchi: lo dicono le perizie”

(Carlo Giovanardi – Radio 24, 9 aprile 2019)

AH NON POSSO? (FINALE)

Senatore Salvini, è arrivata la sentenza di condanna per i carabinieri che hanno ucciso Cucchi, lei si sente finalmente di chiedere scusa alla famiglia dopo tutti questi anni e dopo quello che ha detto di Cucchi?

“Perché, io ho ucciso qualcuno?”.

No, però lei ha attaccato più volte la sorella, che ha chiesto delle scuse. Disse anche: “Non credo che i carabinieri si divertano a pestare la gente”. Forse non per divertimento, ma il pestaggio c’è stato e ha provocato la morte di Cucchi.

“Se qualcuno l’ha fatto ha sbagliato e pagherà”.

Lei non crede di doversi scusare?

“Ma devo chiedere scusa anche per il buco nell’ozono? Se vuole chiedo scusa... Io ripeto tutto quello che ho detto”.

Lei ha candidato Tonelli, uno che ha detto che Cucchi è morto per la vita dissoluta che faceva, e Tonelli è oggi un suo deputato.

“Sono vicinissimo alla famiglia, la sorella l’ho invitata al Viminale, se qualcuno ha usato violenza ha sbagliato e pagherà. Questo testimonia che la DROGA fa male sempre e comunque, e io combatto la DROGA in ogni piazza”.

Ma che c’entra?, mica è morto per la droga Cucchi, è morto per le botte…

“Sto dicendo che condanno e sono vicino, per quello che mi riguarda da senatore e da papà combatterò la DROGA in ogni angolo d’Italia”.

Cosa c’entra con il pestaggio?

“Ma lo posso dire o no? Posso dire che sono contro ogni genere di spaccio e di DROGA?”.

Ma perché lo dice in relazione alla vicenda Cucchi?, c’è una sentenza che dice che è morto per le botte, non per la droga.

“Forse sono io che non riesco a spiegarmi, lo faccio lentamente. Se qualcuno ha sbagliato paga, in divisa o non in divisa, incontrerei volentieri la sorella. Punto, accapo. Frase numero due. Sono contro lo spaccio di DROGA sempre e comunque, punto. Posso dirlo? Posso dire che sono contro lo spaccio e la DROGA sempre e comunque?”

(Matteo Salvini commenta la sentenza Cucchi con alcuni cronisti, uno in particolare: Marco Billeci – Fanpage.it, 14 novembre 2019)

Caso Cucchi, Salvini prende atto della sentenza ma non si scusa con la famiglia. Il Domani il 12 aprile 2022.

«Mi devo scusare per le mie idee? Io sono contro ogni tipo di droga senza se e senza ma», ha detto il leader della Lega, che aveva querelato Ilaria Cucchi che lo definì «uno sciacallo»

«Ne prendo atto», è il commento del leader della Lega, Matteo Salvini, a chi gli ha chiesto una risposta alle dichiarazioni dell’avvocato della famiglia di Stefano Cucchi, Fabio Anselmo, che avrebbe dedicato a lui e ad altri «supergarantisti» la sentenza, che ha confermato la condanna dei due carabinieri.

«Mi devo scusare per le mie idee? Io sono contro ogni tipo di droga senza se e senza ma», ha detto. «Quando c’è di mezzo un morto c’è solo da pregare, le mie e le sue idee vengono dopo. Detto questo, la droga uccide. I ragazzi di oggi che dopo il lockdown si “strafanno” di farmaci e di psicofarmaci», ha continuato. 

Alla domanda dei cronisti se fosse disposto a chiedere scusa a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, l’ex ministro dell’Interno ha risposto che non si sarebbe scusato e che gli «spiace se lei è a favore di qualche tipo di droga».

Lo scontro tra Salvini e la famiglia Cucchi è iniziato nel 2019, quando il segretario della Lega aveva commentato la sentenza di condanna dei carabinieri dicendo che la decisione provava «che la droga fa male sempre e comunque». Ilaria Cucchi lo aveva definito «uno sciacallo», e Salvini la querelò per questo, ma incassò un’archiviazione del gip, che aveva riconosciuto il «diritto di critica» alla sorella di Stefano.

L’OMICIDIO. «La morte di Stefano Cucchi si spiega solo con il pestaggio». I legali di parte civile hanno depositato una memoria in vista dell’udienza del 4 aprile in Cassazione dove sono imputati, tra gli altri, per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 13 anni in Appello a Roma. Il dubbio il 25 marzo 2022.

«Se si sottraggono il pestaggio e le lesioni dal percorso causale, non c’è alcun modo logico e scientifico di spiegare la morte di Stefano Cucchi». È quanto si legge nella memoria degli avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni, legali di parte civile di Ilaria Cucchi e dei genitori di Stefano Cucchi depositata in vista dell’udienza del 4 aprile in Cassazione dove sono imputati per omicidio preterintenzionale i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, condannati a 13 anni in Appello a Roma, il carabiniere Roberto Mandolini, condannato a quattro anni per falso, e per lo stesso reato il militare dell’Arma Francesco Tedesco.

«La morte di Cucchi, per i legali di parte civile, «anche attraverso percorsi causali composti – persino quando complicati ad arte da chi voglia sfumare il nesso di causalità (con le ipotesi della morte per inanizione) – arriva inevitabilmente a trovare la sua causa scientifica, logica e, soprattutto giuridica, nel pestaggio e nelle lesioni».

Per Anselmo e Maccioni, «poiché seria è la gravità della condotta, intenso il dolo e deprecabile il comportamento successivo al reato tenuto dagli imputati, le attenuanti generiche non si possono concedere e vanno riconosciuti i futili motivi essendo provato che i due imputati dell’omicidio hanno pestato violentissimamente Stefano Cucchi traendo pretesto dal suo comportamento irrispettoso ma innocuo».

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 4 aprile 2022.

«Si è trattato di una punizione corporale di straordinaria gravità, caratterizzata da una evidente mancanza di proporzione con l’atteggiamento non collaborativo del Cucchi». 

Così in Cassazione il pg Tommaso Epidendio in merito al processo bis sul pestaggio di Stefano Cucchi. «Si tratta di soggetti professionalmente preparati che si trovano ad affrontare una reazione prevedibile, e nemmeno delle più eclatanti, durante il fermo di Stefano Cucchi che rifiuta di sottoporsi al fotosegnalamento», sottolinea ancora il Pg.

Arrestato per possesso di hashish (21 grammi) la sera del 15 ottobre 2009, Stefano Cucchi muore all’ospedale Sandro Pertini sei giorni dopo. Il legame fra la sua morte e un violento pestaggio subito mentre era nella custodia dello Stato appare evidente fin dal principio mentre la (sofferta) divulgazione delle foto del suo corpo livido e martoriato all’obitorio annuncia che per rintracciare i colpevoli si dovranno superare ostacoli imprevisti. 

Malgrado almeno tre testimonianze (quella del carabiniere Pietro Schirone e di due detenuti albanesi che videro Stefano) indichino gli esecutori dell’arresto, ossia i carabinieri della stazione Appia, come sospetti del pestaggio, la prima inchiesta della Procura di Roma vira con decisione verso gli agenti della polizia penitenziaria (Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici) estranei ai fatti. 

Morale: un primo processo per omicidio colposo, esteso anche ai medici (Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo) dell’ospedale che nulla fecero per interrompere quel piano inclinato al quale era avviato il paziente dopo le percosse, non portò a nulla.

Ma intanto la famiglia Cucchi, Ilaria in primis, continuava imperterrita a chiedere giustizia finché nel 2015 la Procura riapre il caso, stavolta assegnandolo a un nuovo pm (Giovanni Musarò) e a un’altra polizia giudiziaria, la Squadra Mobile. 

Ora l’inchiesta valorizza quelle testimonianze inascoltate e vi aggiunge il racconto del detenuto Luigi Lainà che raccolse le confidenze di Cucchi circa le botte ricevute: «Sono stati i carabinieri, si sono divertiti con me...» e le inoltrò al procuratore capo Giuseppe Pignatone.

Il nuovo processo per omicidio preterintenzionale nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco (più un quarto militare Roberto Mandolini accusato di falso) giunge a una svolta l’11 ottobre 2018 quando Tedesco, con una chiamata in correità, accusa per la prima volta i suoi colleghi del pestaggio: Cucchi si rifiutò di collaborare sia alle perquisizioni che al fotosegnalamento e perciò, racconta, venne massacrato di pugni e calci da Di Bernardo e D’Alessandro.

È un momento topico che si conclude con la simbolica stretta di mano fra il carabiniere Tedesco e Ilaria Cucchi, mentre lei assistita dall’avvocato (e compagno) Fabio Anselmo, finisce per commuoversi. 

Successivamente la testimonianza in aula del professor Francesco Introna il quale ammette l’esistenza di un nesso fra il pestaggio e la morte di Stefano Cucchi fa il resto e il cosiddetto Cucchi bis si conclude con pesanti condanne nei confronti dei carabinieri.

In appello, la conferma dell’impianto accusatorio con 13 anni inflitti a Di Bernardo e D’Alessandro più 4 anni per il falso di Roberto Mandolini e 2anni e mezzo per lo stesso reato a Francesco Tedesco. 

Oggi la Cassazione dovrà decidere le pene definitive per i quattro militari. Il pg della Cassazione, Tomaso Epidendio, nella requisitoria scritta e depositata nei giorni scorsi in vista dell’udienza, aveva chiesto di confermare le pene per tutti tranne che per Tedesco che, a suo giudizio, va sottoposto a un nuovo dibattimento. 

In parallelo si avvia alla conclusione anche il processo ter sui depistaggi avvenuti ad opera dei carabinieri, secondo l’accusa. Il terzo troncone processuale vede imputato, tra gli altri, il generale Alessandro Casarsa ex guida dei corazzieri al Quirinale e comandante del gruppo nel 2009. Giovedì è prevista la sentenza.

Grazia Longo per “La Stampa” il 4 aprile 2022.

Si sono aperte le porte del carcere, ieri sera, per Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro, i due carabinieri accusati del pestaggio di Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre del 2009 per detenzione di 21 grammi di hashish e morto sette giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini di Roma. 

La Corte di Cassazione li ha infatti condannati a 12 anni, uno in meno della sentenza di appello, per omicidio preterintenzionale. Ci sarà invece un nuovo processo di appello per gli altri due carabinieri accusati di falso: Roberto Mandolini, all'epoca dei fatti comandante della stazione Appia, che era stato condannato a 4 anni di reclusione, e per Francesco Tedesco, che con le sue dichiarazioni aveva squarciato il velo di omertà sul pestaggio, condannato a 2 anni e mezzo di carcere. Ma su queste due condanne c'è il rischio della prescrizione sull'appello bis.

«A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull'omicidio di Stefano - commenta la sorella Ilaria Cucchi che da 13 anni lotta in nome della verità -. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di loro che ce l'hanno portato via. 

Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui». E la madre di Stefano, Rita Calore, aggiunge: «Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte».

Il sostituto procuratore generale della Cassazione, Tomaso Epidendio, nella requisitoria pronunciata davanti ai supremi giudici della V sezione penale della Cassazione, aveva definito quella di Stefano come «una via crucis notturna. Senza i calci, gli schiaffi, le spinte, ci sarebbe stata la frattura della vertebra? La risposta è palesemente negativa». E gli Ermellini gli hanno dato ragione. 

Si chiude così una vicenda giudiziaria lunga e tortuosa, dopo sette processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione e più di 150 udienze. In questi anni Stefano Cucchi è diventato, più delle tante vittime «nelle mani dello Stato» come Giuseppe Uva e Federico Aldrovandi, simbolo della battaglia per i diritti umani dei carcerati e contro ogni sopruso del potere sugli ultimi.

Una battaglia portata avanti con coraggio da sua sorella Ilaria che si è battuta contro tutte le incongruenze e le distorsioni della verità che si sono accavallate nel corso del tempo. Inizialmente, infatti, a finire nel mirino degli inquirenti furono tre agenti di polizia penitenziaria più sei medici e tre infermieri del Sandro Pertini. Che vennero processati e assolti.

Ma nel 2015 la Procura ha riaperto il caso e valorizzato le testimonianze del carabiniere Pietro Schirone e di due detenuti albanesi che videro Stefano picchiato dai militari. Inoltre si è aggiunto il racconto del detenuto Luigi Lainà che raccolse le confidenze di Cucchi circa le botte ricevute. 

Fino al processo concluso ieri in via definitiva. Il Comando generale dei carabinieri dichiara: «La sentenza della Cassazione, sancisce la responsabilità di due dei 4 carabinieri coinvolti, a diverso titolo, nella drammatica morte di Stefano Cucchi. Per questo vanno le scuse alla famiglia di Stefano e la promessa che i procedimenti disciplinari verranno conclusi con il massimo rigore. 

Lo dobbiamo alla famiglia Cucchi e a tutti i carabinieri che giornalmente svolgono la loro missione di vicinanza e sostegno ai cittadini». Ma non è ancora finita. Dopodomani ci sarà la sentenza per il processo sui presunti depistaggi dopo la morte di Stefano. La Procura di Roma ha chiesto la condanna degli otto carabinieri coinvolti.

Cucchi, la sentenza in Cassazione: condanne confermate, 12 anni ai carabinieri. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Diminuita di un anno la precedente condanna. L’accusa era di omicidio preterintenzionale, per il pestaggio in caserma. Processo da rifare per altri due imputati accusati di falso. 

Il verdetto è arrivato. Questa volta definitivo. La parola fine su un storia lunga 13 anni, quella di Stefano Cucchi. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro ritenuti responsabili della morte del ragazzo sono stati condannati in via definitiva a 12 anni di carcere, uno in meno rispetto alla precedente sentenza. La Suprema Corte ha invece disposto un nuovo processo, un appello-bis, per gli altri due carabinieri finiti alla sbarra, Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, che erano stati condannati a 2 anni per falso.

Immediate le reazioni. «A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che che l’hanno portato via», è stato il commento a caldo di Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, subito la sentenza della Cassazione. «Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori, che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musaro’ che ci ha portato fin qui». Pure la mamma di Stefano e Ilaria, Rita Calore, sentita telefonicamente, ha dimostrato di sentirsi sollevata dal verdetto: «Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni, almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte».

Il sostituto procuratore generale della Cassazione Tomaso Epidendio aveva chiesto la conferma delle condanne inflitte in appello, il 7 maggio scorso, e un nuovo processo «limitatamente al trattamento sanzionatorio» per il carabiniere Francesco Tedesco. In particolare, l’accusa aveva chiesto la conferma delle condanne a 13 anni di carcere, per omicidio preterintenzionale, comminate ai carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, e di quella per falso, a quattro anni, per il maresciallo Roberto Mandolini.

«Fu una Via Crucis notturna quella di Stefano Cucchi, portato da una stazione all’altra — ha sottolineato in aula il Pg — e tutte le persone che entrarono in contatto con lui dopo il pestaggio sono rimaste impressionate dalle sue condizioni: si tratta di un gran numero di soggetti tra i quali infermieri, personale delle scorte, detenuti, agenti di guardia. Davvero si può ritenere che questo numero impressionante di soggetti abbia congiurato contro i carabinieri?»

Cucchi, sentenza Cassazione: condanna a 12 anni per due carabinieri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Aprile 2022.  

Alessio Di Bernardo e Raffaele D'Alessandro condannati per omicidio preterintenzionale, andranno in carcere. Ilaria Cucchi: "Messa la parola fine, Stefano è stato ucciso di botte"

Caso Cucchi, la Cassazione ha condannato a 12 anni, un anno in meno rispetto alla sentenza di appello, i due carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di omicidio preterintenzionale in relazione al pestaggio e alla morte di Stefano Cucchi. Lo hanno deciso i giudici della Quinta sezione penale della Suprema Corte dopo una camera di consiglio durata 5 ore. Per i due Carabinieri condannati si apriranno le porte del carcere.

Per Di Bernardo e D’Alessandro i supremi giudici hanno riconosciuto valida la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Roma che li aveva condannati a 12 anni. Ci sarà un processo di appello bis per il reato di falso nei confronti dei Carabinieri Roberto Mandolini e per Francesco Tedesco, in relazione al pestaggio subito da Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009 nella caserma della compagnia Casilina, condannati in appello a 4 e a 2 anni e mezzo. Lo ha deciso la Cassazione, per questo reato però il rischio di prescrizione è imminente, a maggio. 

Disposto il processo d’appello bis per il maresciallo Roberto Mandolini – comandante della stazione Appia dove venne portato Cucchi dopo il pestaggio – per la compilazione del falso verbale di arresto, e per il carabiniere Francesco Tedesco, anch’egli accusato di falso. Per questo reato, però, sarebbe prossima – a maggio 2022 – la prescrizione.

“I giudici si sono resi conto che l’impostazione della Procura recepita dalle due sentenze di merito si scontrava con un dato di fatto insuperabile: Mandolini avrebbe commesso il falso la notte del fermo di Cucchi ma in quel momento non c’era nulla che faceva pensare che le condizioni di salute sì sarebbero aggravate fino alla morte. Che motivo aveva quella notte di coprire i due carabinieri? Tanto che aveva dato atto della presenza dei due nel verbale di perquisizione a casa di Cucchi. Non ha senso pensare che quella sera volesse coprire i due Carabinieri”, afferma  l’avvocato Giosuè Bruno Naso, difensore di Mandolini all’ Adnkronos. Sul rischio prescrizione che incombe sul reato di falso, Naso spiega: “Stiamo pensando se rinunciare alla prescrizione ma prima leggeremo le motivazioni”. 

“E’una sentenza che consentirà di poter allineare il dato processuale a quello reale e che permetterà di dare completa giustizia a Tedesco. Aspettiamo ora di leggere le motivazioni”. Così l’avvocato Eugenio Pini, difensore del carabiniere Tedesco che è il militare che con le sue dichiarazioni ha fatto luce sul pestaggio. Tedesco, fa sapere il suo difensore, “era lieto di apprendere la notizia”.

“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via. Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui, ha detto Ilaria Cucchi dopo la sentenza. “Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte“. Queste le parole di Rita Calore, madre di Stefano Cucchi, riportate dal suo legale Stefano Maccioni.

“Questi occhi hanno visto finalmente Giustizia. Stefano Cucchi è stato ucciso dai due carabinieri che lo arrestarono la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Questa sentenza la dedichiamo ai medici legali Arbarello e Cattaneo che parlarono di caduta probabilmente accidentale e di lesioni lievi. Ora i responsabili dell’omicidio di Stefano saranno incarcerati”. Così in un post su Facebook l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Ilaria Cucchi, dopo la sentenza. 

Con un comunicato ufficiale il Comando Generale dell’ Arma dei Carabinieri ha commentato la sentenza emessa oggi dalla Corte di Cassazione che sancisce le responsabilità di due dei quattro

carabinieri coinvolti, a diverso titolo, nella vicenda della drammatica morte di Stefano Cucchi. “Una

sentenza che ci addolora, perché i comportamenti accertati contraddicono i valori e i principi ai

quali chi veste la nostra uniforme deve, sempre e comunque, ispirare il proprio agire. Siamo vicini alla famiglia Cucchi, cui condividiamo il dolore e ai quali chiediamo di accogliere la nostra profonda sofferenza e il nostro rammarico. Ora che la giustizia ha definitamente terminato il suo corso, saranno sollecitamente conclusi, con il massimo rigore, i coerenti procedimenti disciplinari e amministrativi a carico dei militari condannati. Lo dobbiamo alla famiglia Cucchi e a tutti i Carabinieri che giornalmente svolgono la loro missione di vicinanza e sostegno ai cittadini.” Redazione CdG 1947

“Finalmente andranno in galera”: così Ilaria Cucchi sulla sentenza. Giampiero Casoni il 05/04/2022 su Notizie.it.

“Finalmente andranno in galera coloro che hanno colpito più e più volte mio fratello infliggendogli sofferenze e morte in solitudine”: così Ilaria Cucchi. 

“Finalmente andranno in galera”: così Ilaria Cucchi si è espressa a caldo sulla sentenza di condanna definitiva per i due carabinieri colpevoli di aver causato la morte del fratello Stefano al di là delle intenzioni e travalicando i criteri di custodia cautelare.

La sorella del geometra romano ucciso di botte ha commentato la condanna a 12 anni per i due imputati organici all’Arma.

“Finalmente andranno in galera”

E ha detto: “È finita. Andranno finalmente in galera coloro che hanno colpito più e più volte mio fratello”. E che lo hanno colpito “infliggendogli sofferenze che poi lo porteranno a morte in totale e obbligata solitudine“. La sorella di Stefano, dopo la sentenza emessa in punto di Diritto dalla Suprema Corte di Cassazione che ha confermato la condanna nei confronti dei carabinieri coinvolti ha anche parlato del suo stato d’animo attuale.

Ilaria Cucchi: “Mi sento disorientata”

E ha spiegato: “Come mi sento? Mi sento disorientata. Persa in un immane dolore per quanto inflitto alla mia famiglia durante tutti questi anni”. Gli “ermellini” di Piazza Cavour hanno condannato a 12 anni di reclusione i due carabinieri imputati per l’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi. Con quel pronunciamento i massimi giudici avevano ridotto di un anno quanto era stato già statuito dopo camera di consiglio dalla Corte di Appello.

Per gli altri due militari dell’Arma dei Carabinieri imputati per falso, invece, è stato decretato un Appello Bis e il processo di secondo grado dovrà celebrarsi di nuovo.

La sentenza della Cassazione. Omicidio Stefano Cucchi, condanna ridotta ai carabinieri Di Bernardo e D’Alessandro: processo da rifare per altri due. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

La Cassazione ha ridotto la condanna per omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro: la pena passa da 13 a 12 anni di reclusione. Nuovo processo in Appello invece per i due carabinieri accusati di falso nell’ambito della morte del geometra romano di 31 anni. Processo bis dunque per Roberto Mandolini, che era stato condannato a 4 anni di reclusione e per Francesco Tedesco, condannato a 2 anni e mezzo di carcere.

A oltre 12 anni dall’omicidio di Stefano Cucchi, arriva la sentenza della Cassazione per i quattro carabinieri imputati nel processo nato dall’inchiesta bis che ha fatto luce sul violento pestaggio subito dal geometra la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Percosse che l’hanno portato al decesso, avvenuto una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Dopo una camera di consiglio di oltre sei ore, i giudici della Quinta Sezione Penale della Suprema Corte hanno ridotto di un anno la condanna comminata in appello per i due autori del pestaggio.

In aula presente la sorella di Stefano, arrivata questa mattina accompagnata dall’avvocato Fabio Anselmo. “Questa vicenda ha restituito speranza e fiducia a tante persone, speriamo che questa fiducia non venga delusa” aveva detto entrando al ‘Palazzaccio’. “Dopo 15 gradi di giudizio e più di 150 udienze è una vicenda estenuante, siamo stremati ma siamo arrivati sin qui e abbiamo fiducia nella verità” ha aggiunto l’avvocato Anselmo.

“A questo punto possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull’omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di loro che ce l’hanno portato via”. Lo ha detto, così come riporta l’agenzi Dire, Ilaria Cucchi subito dopo la lettura della sentenza da parte dei giudici della Corte di Cassazione. “Devo ringraziare tante persone, il mio pensiero in questo momento va ai miei genitori che di tutto questo si sono ammalati e non possono essere con noi, va ai miei avvocati Fabio Anselmo e Stefano Maccioni e un grande grazie va anche al dottor Giovanni Musarò che ci ha portato fin qui”. 

In secondo grado Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro erano stati condannati a 13 anni, il maresciallo Roberto Mandolini, all’epoca dei fatti comandante della stazione Appia, condannato in secondo grado a 4 anni di carcere per aver coperto quanto accaduto. Francesco Tedesco, che, inizialmente imputato per il pestaggio, durante il processo di primo grado denunciò i suoi colleghi diventando un teste chiave dell’accusa, era stato condannato a due anni e mezzo per falso.

Nella sua requisitoria, il sostituto procuratore generale della Cassazione, Tomaso Epidendio, aveva chiesto la conferma delle condanne a 13 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, e la conferma della condanna per falso, a quattro anni, per il maresciallo Roberto Mandolini. Chiesto un nuovo processo “limitatamente al trattamento sanzionatorio” per il carabiniere Francesco Tedesco che denunciò i suoi colleghi divenendo un teste chiave.

Quella di Cucchi è stata “una via crucis notturna, in cui tutti coloro che lo hanno visto sono rimasti impressionati dalle sue condizioni” ha detto Epidendio. “Si è voluto infliggere a Cucchi una severa punizione corporale di straordinaria gravità, per il suo comportamento strafottente. Tutto qui é drammaticamente grave e concettualmente semplice – aggiunge – Eliminiamo le spinte, i pugni e i calci e domandiamoci se ci sarebbe stata la frattura della vertebra e la lesione dei nervi. La risposta è semplice: no”.

Giovedì 7 aprile sentenza di primo grado sui presunti depistaggi: imputati 8 carabinieri

La sentenza della Cassazione arriva a pochi giorni di distanza da quella, prevista per il prossimo 7 aprile, nel processo sui presunti depistaggi seguiti alla morte di Cucchi. Sul banco degli imputati ci sono otto carabinieri, accusati a vario titolo e a seconda delle posizioni di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Per loro il pm Musarò ha chiesto condanne che vanno dai 7 anni a un anno e un mese.

LA STORIA – Cucchi venne arrestato 15 ottobre del 2009 in via Lemonia, nei pressi di in una chiesa che si trova vicino al parco degli Acquedotti, perché sorpreso con 28 grammi di hashish e qualche grammo di cocaina. La mattina successiva, nell’udienza del processo per direttissima, il 31enne aveva difficoltà a camminare e parlare e mostrava evidenti ematomi agli occhi e al volto, che non erano presenti la sera prima. Venne rinchiuso nel carcere di Regina Coeli, ma le sue condizioni di salute peggiorarono rapidamente e, due giorni dopo, 17 ottobre, venne trasportato all’ospedale Fatebenefratelli per essere visitato. Per i medici aveva riportato lesioni ed ecchimosi alle gambe e al viso, frattura della mascella, emorragia alla vescica, lesioni al torace e due fratture alla colonna vertebrale. I medici ne chiesero il ricovero che lui rifiutò insistentemente, tanto da essere rimandato in carcere per poi essere ricoverato di nuovo, presso l’ospedale Sandro Pertini, dove morì il 22 ottobre.

Cucchi, sentenza finale. Due dei carabinieri condannati a 12 anni. Stefano Vladovich il 5 Aprile 2022 su Il Giornale.

Omicidio preterintenzionale, ridotta di 12 mesi la precedente pena. La sorella: "Giustizia è fatta".

Caso Cucchi. La Cassazione condanna definitivamente i due carabinieri che hanno pestato a morte Stefano Cucchi. Gli «ermellini» di piazza Cavour, dopo sei ore di camera di consiglio, infliggono 12 anni di carcere ad Alessio Di Bernardo e a Raffaele D'Alessandro, colpevoli di aver causato il decesso del geometra romano in stato di fermo nella caserma Appia della compagnia Casilina.

«Finalmente è arrivata giustizia dopo tanti anni almeno nei confronti di chi ha picchiato Stefano causandone la morte» commenta Rita Calore, la mamma di Cucchi. I due carabinieri vengono condannati per omicidio preterintenzionale in primo grado a 12 anni e in secondo grado, con aumento di pena, a 13 anni. Processo d'Appello, come richiesto dal pg della Cassazione Tomaso Emilio Epidendio, per il maresciallo Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha stravolto le indagini sulla morte del 30enne fermato in strada con alcune dosi di cocaina. Epidendio, in particolare, ha chiesto un processo bis «limitatamente al trattamento sanzionatorio» per Tedesco, condannato a due anni e mezzo per falso assieme a Mandolini. «A questo punto - ha detto la sorella Ilaria Cucchi - possiamo mettere la parola fine su questa prima parte del processo sull'omicidio di Stefano. Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l'hanno portato via».

Tredici anni di indagini, fra depistaggi, minacce e false testimonianze, sette processi alla lunga catena di comando che ha prima coperto i responsabili del drammatico pestaggio, poi falsificato atti e verbali mandando sotto processo anche degli innocenti. Come gli agenti penitenziari accusati, poi prosciolti da ogni accusa, di avere picchiato Cucchi all'interno della struttura carceraria. Una lunga odissea giudiziaria soprattutto per i familiari della vittima, a cominciare dalla sorella Ilaria che ha portato alla sbarra i carabinieri che avevano in custodia Stefano e che, invece, l'hanno malmenato selvaggiamente. «Una punizione corporale di straordinaria gravità - sottolinea il pg - per essersi rifiutato di sottoporsi a fotosegnalamento». Cucchi nel 2009 ha 30 anni, è tossicodipendente e spaccia per procurarsi la «roba». Il giovane viene fermato al Parco degli Acquedotti da una pattuglia dell'Arma mentre è in auto con un amico. È la sera del 15 ottobre del 2009. Quello che accade nella caserma dove viene portato si saprà solo dopo anni. Il giorno dopo il fermo, alla direttissima, l'arrestato si presenta con ematomi al volto, non riesce quasi a parlare e cammina a stento. Il giudice, Maria Inzitari, non lo guarda nemmeno in faccia, lo bolla come un «senza fissa dimora» e convalida l'arresto. Cucchi viene portato a Regina Coeli. Sta male. Si scoprirà solo dopo l'autopsia che i calci inferti, anche quando è ammanettato e a terra, hanno lesionato la spina dorsale. I medici del carcere lo visitano. Le sue condizioni peggiorano, alle 23 viene portato al pronto soccorso dell'ospedale Fatebenefratelli. Il referto parla di lesioni ed ecchimosi alle gambe, al volto con frattura della mandibola, all'addome con perdita di sangue, e al torace con frattura della terza vertebra lombare e del coccige. Cucchi rifiuta il ricovero e viene riportato in cella. Ai familiari non viene concessa alcuna visita. Sette giorni di agonia poi Cucchi viene trasferito al reparto detenuti dell'ospedale Sandro Pertini dove muore il 22 ottobre. Pesa 37 chili.

I carabinieri in cella: "Cucchi, non siamo assassini". Stefano Vladovich il 6 Aprile 2022 su Il Giornale.

I due militari accusati dell'omicidio si sono consegnati. Nessuna parola alla famiglia.

«Non sono un assassino». Prima notte di galera, nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, per i due carabinieri condannati in via definitiva a una pena di 12 anni per aver ucciso Stefano Cucchi. Dopo la sentenza della Cassazione, Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo si sono presentati in caserma e trasferiti nella struttura carceraria campana. «Cucchi non è morto per colpa mia», ha detto D'Alessandro. «Sono amareggiato per tutto questo - continua - ma rispetto la decisione dei giudici perché sono un carabiniere nell'animo». Non una parola alla famiglia Cucchi. Nei vari gradi di giudizio i carabinieri si sono sempre ritenuti non colpevoli della morte del geometra romano. Il motivo lo spiega uno dei loro legali: «La perizia certifica - dice l'avvocato De Benedictis - che Cucchi è morto come conseguenza dell'ostruzione di un catetere. Non è giusto parlare di omicidio preterintenzionale». Alle parole di D'Alessandro risponde la sorella della vittima: «D'Alessandro - commenta Ilaria Cucchi - deve riflettere ancora per comprendere cosa ha fatto se dice di non sentirsi colpevole. Ricordo quando disse alla moglie come si era divertito assieme al collega Alessio Di Bernardo a pestare quel tossico di merda. Quello di Stefano è stato un omicidio. Sono ancora frastornata ma serena per essere giunta alla fine di questo percorso per quanto riguarda gli autori del pestaggio. Sul maresciallo Mandolini, per il quale è stato disposto un nuovo processo d'Appello, non finisce qui. Ricordo che al primo processo, quello agli agenti di custodia, raccontò di quanto Stefano era stato simpatico quella notte sebbene fosse a conoscenza di quel terribile pestaggio».

Sette processi, uno alle guardie carcerarie e uno ai medici dell'ospedale Pertini nonostante i carabinieri sapevano cosa era accaduto la notte in cui Cucchi viene fermato con la coca. Gonfiato di botte anche quando, ammanettato, è a terra. È la «punizione» per il suo rifiuto alla fotosegnalazione. Alla direttissima i militari non spiegano al giudice che Cucchi non è un senza fissa dimora e, nelle sue condizioni, sarebbe potuto andare agli arresti domiciliari. Lesioni alla spina dorsale, versamento all'addome, costole fratturate. Poi la morte. Domani la sentenza di primo grado per gli 8 ufficiali alla sbarra per depistaggio. Il pm Giovanni Musarò ha chiesto 7 anni per l'ex comandante del Gruppo Roma, generale Alessandro Casarza, cinque anni e mezzo al tenente colonnello Francesco Cavallo, ex comandante del Reparto operativo, 5 anni al maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Montesacro e per il carabiniere Luca De Cianni, 4 anni per Tiziano Testarmata, ex comandante del nucleo investigativo, tre anni e mezzo per Francesco Di Sano, in servizio a Tor Sapienza, tre anni per Lorenzo Sabatino, 18 mesi per Massimiliano Colombo Labriola, comandante della stazione Tor Sapienza.

Il corpo di Stefano Cucchi, la forza della verità. Luigi Manconi su La Repubblica il 5 Aprile 2022.

Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari ci consegnano le foto del suo cadavere sul tavolo dell'obitorio. Dopo altri due giorni, la conferenza stampa organizzata da "A buon diritto onlus": da lì è iniziato il percorso che ha portato alla sentenza di ieri, la condanna a 12 anni dei carabinieri Di Bernardo e D'Alessandro.

Ieri la Corte di Cassazione ha condannato per omicidio preterintenzionale i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Dovranno scontare dodici anni di carcere, un anno in meno rispetto alla sentenza d’appello. La Cassazione, inoltre, ha stabilito un nuovo processo di appello nei confronti di Roberto Mandolini e Francesco Tedesco, in precedenza condannati, rispettivamente, a quattro anni e due anni e mezzo di carcere per aver mentito su ciò che è realmente accaduto la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2009 nella caserma Casilina.

Giovedì prossimo, poi, è prevista la sentenza di primo grado a carico di otto carabinieri (tra i quali il generale Alessandro Casarsa), accusati di aver “depistato” le indagini della magistratura. Siamo, dunque, agli atti finali di una vicenda che, con la sentenza di ieri, ha trovato la sua definitiva soluzione. Dopo dodici anni e mezzo: e questo è un punto sul quale è necessario riflettere. Allo stesso tempo è utile tornare a uno dei momenti di svolta - il primo e principale - di questa lunga storia.

Al centro si trovano alcune fotografie. Sono quelle di un cadavere sul tavolo dell’obitorio. Riprendo qui una ricostruzione dei fatti, risalente ai primi mesi del 2011. Quel corpo, incredibilmente e disperatamente magro, prosciugato. La maschera di ematomi sul viso, dalle palpebre fino agli zigomi. Un occhio aperto, quasi fuori dall’orbita, uno completamente chiuso. Le strisce sulla schiena, le lesioni. Il livido nero sul coccige. Segni di bruciature sulla testa e sulle mani.

Nel pomeriggio del 27 ottobre del 2009, cinque giorni dopo il decesso, i familiari di Stefano Cucchi consegnano quelle foto a Valentina Calderone, Valentina Brinis e a me. Si trattava di immagini davvero crudeli, di intensa vividezza e di impatto brutale. Quelle foto non solo provavano inequivocabilmente che violenze c’erano state, ma ne tracciavano in qualche modo la dinamica, ne scandivano la successione e disegnavano una sorta di anatomia degli abusi patiti. Eravamo turbati e perplessi. Le immagini avrebbero potuto mettere in moto un meccanismo emotivo destinato a suscitare più pietà che consapevolezza e più compassione che ragionamento.

Non solo: ricorrere a una dinamica emotiva quando la questione affonda in dimensioni giuridiche e politiche avrebbe rischiato di spostare l’attenzione su una dimensione impropria e avrebbe potuto prestarsi a speculazioni di segno opposto.

Avvertivamo, inoltre, un’ulteriore preoccupazione: si penetrava, con tutta la prevedibile forza dell’interesse mediatico, nella sfera più intima della personalità, laddove il corpo inerme è il corpo senza vita. E là, quel corpo, acquisisce una dimensione che non è enfatico definire sacra perché rimanda all’origine stessa della sua identità, che è un’identità caduca. Il corpo morto è così sacro, sempre e comunque, che qualunque offesa subisca è definibile, presso tutte le culture, come appunto sacrilegio. Sarebbe stato meglio, di conseguenza, preservare quelle immagini dall’offesa di sguardi forse morbosi?

Parlammo con Ilaria, la sorella di Stefano, la mattina del 28 ottobre, dicendole che ritenevamo sbagliato anche solo comunicare la nostra opinione e che avremmo aspettato la loro decisione e a quella ci saremmo attenuti. Passarono circa tre ore e mezzo e Ilaria, nonostante non avesse ancora preso visione di quelle immagini, aveva deciso, insieme alla famiglia, per la loro diffusione il giorno successivo. Quindi, nel corso della conferenza stampa di giovedì 29 ottobre, organizzata da "A Buon Diritto Onlus", distribuimmo una cartella contenente alcune fotografie, autorizzandone la pubblicazione. Si registrò subito un notevole mutamento nell’opinione pubblica e, così, iniziò il percorso che ha portato, infine, alla sentenza di ieri.

Con la sentenza Cucchi ha vinto la famiglia ma anche lo stato. FABIO ANSELMO, avvocato, su Il Domani il 05 aprile 2022.

«Guardi, il signor Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa, anche abbastanza….quindi posso soltanto dire che era abbastanza tranquillo, si… si è anche scherzato, aveva anche dei tratti molto spiritosi, con un linguaggio romanesco simpatico insomma» diceva il maresciallo Mandolini di Stefano Cucchi. 

La mattina del 22 ottobre quell’arrestato viene trovato cadavere, nel suo letto, ricoverato all’ospedale Sandro Pertini, struttura protetta. Così si chiamava e suona drammaticamente stonato.

La giornata della sentenza di Cassazione che ha messo un punto sul caso Cucchi è stata durissima. Un’attesa che pareva non finire mai. Una tensione palpabile di chi vuole continuare a credere nella giustizia con la fottuta paura di non poterne essere più capace.

«Guardi, il signor Cucchi era una persona tranquilla, spiritosa, anche abbastanza….quindi posso soltanto dire che era abbastanza tranquillo, si… si è anche scherzato, aveva anche dei tratti molto spiritosi, con un linguaggio romanesco simpatico insomma».

Parlava cosi, di Stefano, il Maresciallo Mandolini, durante l’udienza in Corte di Assise a Roma il 28 aprile 2011. Questi sarebbero, a suo dire, i loro momenti vissuti insieme alla Stazione Appia subito dopo il suo arresto. Fatto sta che Stefano Cucchi si rifiutò di firmare quasi tutti i verbali che vennero redatti in quell’occasione. Era la notte tra il 15 e 16 ottobre 2009. Un paio di giorni dopo, i Carabinieri Casamassima e Rosati videro Mandolini dal collega Mastronardi a Tor Vergata. Era preoccupatissimo. Parlava del fatto che i suoi sottoposti avevano esagerato con un arrestato. Le sue condizioni fisiche lo preoccupavano e non sapeva come fare.

La mattina del 22 ottobre quell’arrestato viene trovato cadavere, nel suo letto, ricoverato all’ospedale Sandro Pertini, struttura protetta. Così si chiamava e suona drammaticamente stonato.

13 ANNI DI LOTTA

Inizia così la storia della nuova vita di Ilaria Cucchi, la sorella di quel tossico arrestato dai militari dell’Appia. Una storia di dolore tremendo e di violenta ingiustizia.

Una storia di rabbia composta, di impegno civile e di disperata ricerca della verità. Inizia cosi la lotta di Ilaria contro i muri di gomma, contro i pregiudizi di coloro che non sanno e le menzogne di coloro che, viceversa, sanno.

Ilaria, col suo corpo esile mentre regge a fatica, il peso della enorme foto del volto devastato dalle violenze del fratello già cadavere, diventa l’immagine di quella lotta.

Non cede mai. Non arretra di un solo millimetro di fronte a sentenze sfavorevoli ed ingiuste. Le sconfitte le danno nuova forza trascinando dietro di sé affetto, stima ed indignazione della gente che, sempre più numerosa, si identifica in lei.

Non è stato per nulla facile. Tra denunce e conferenze stampa “la sorella” ha via via restituito dignità a quel cadavere martoriato. Ora è e si chiama semplicemente Stefano.

Così come capita sempre più spesso che le persone che la incontrano per strada o al supermercato, riconoscendola, la chiamino “Ilaria!”. La ringraziano emozionandosi.

La giornata della sentenza di Cassazione che ha messo un punto sul caso Cucchi è stata durissima. Un’attesa che pareva non finire mai. Una tensione palpabile di chi vuole continuare a credere nella giustizia con la fottuta paura di non poterne essere più capace.

Dopo 150 udienze e 15 gradi di giudizio si tratta di dimostrare che lo Stato esiste ancora, che la legge è uguale per tutti e che quindi è più forte delle logiche di potere.

Si tratta di poterci continuare a credere. Ma si tratta, soprattutto, della vita di Stefano Cucchi e della sua famiglia.

“Fabio, abbiamo vinto!”, mi ha detto Ilaria questa mattina appena sveglia.

Si abbiamo vinto ma, questa volta, ha vinto anche lo Stato.

FABIO ANSELMO, avvocato. Avvocato penalista, ha difeso i famigliari di Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Riccardo Rasman, Giuseppe Uva, Michele Ferulli, Dino Budroni, Aldo Bianzino, Riccardo Magherini, Davide Bifolco e molti altri.

Grazia Longo per “la Stampa” il 6 aprile 2022.

E così dopo la sentenza della Cassazione dell'altro ieri, che ha stabilito che Stefano Cucchi è morto per le botte dei carabinieri in caserma, domani è attesa un'altra importante verità su questa brutta pagina della storia dell'Arma. 

Perché non solo due militari sono stati condannati per il pestaggio mortale, ma c'è un altro filone di inchiesta che vede otto ufficiali imputati per aver coperto i colleghi. Domani, infatti, ci sarà la sentenza di primo grado per i presunti depistaggi messi in atto dalla catena di comando dell'Arma.

Il giudice monocratico della Capitale è chiamato a decidere sulle richieste di condanna formulate nel dicembre scorso dalla Procura nei confronti degli otto ufficiali imputati. In particolare sono stati chiesti 7 anni per il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma. Nel corso della requisitoria il pm Giovanni Musarò usò parole durissime affermando che «un intero Paese è stato preso in giro per anni in una attività di depistaggio che è stata ostinata, a tratti ossessiva. 

Quello che è emerso dalla fase dibattimentale è che i depistaggi non si sono fermati al 2018 ma sono andati avanti fino al febbraio 2021: sono state alzate tante cortine fumogene».

Nel frattempo Raffaele D'Alessandro e Alessio Di Bernardo sconteranno in carcere i prossimi 12 anni per omicidio preterintenzionale. Prima di entrare nella prigione militare di Santa Maria Capua Vetere D'Alessandro ha dichiarato: «Non sono un assassino, Cucchi non è morto per colpa mia. Sono amareggiato, ma rispetto la decisione dei giudici perché sono un carabiniere nell'animo». 

Immediata la replica della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi: «Molto probabilmente deve riflettere ancora per comprendere cosa ha fatto se ancora afferma di non sentirsi colpevole. Ricordo ancora quando disse alla moglie come quella notte si era divertito assieme al collega Alessio Di Bernardo a pestare "quel tossico di merda". Quello di Stefano è stato un omicidio».

La sentenza della Cassazione, precisa il Comando generale dei carabinieri «ci addolora, i comportamenti accertati contraddicono i valori e i principi ai quali chi veste la nostra uniforme deve ispirare il proprio agire». 

La Suprema Corte ha disposto un nuovo processo d'appello per il maresciallo Roberto Mandolini, all'epoca comandante della stazione Appio e per Francesco Tedesco, il militare che con le sue dichiarazioni ha squarciato il velo di omertà e ha fatto riaprire le indagini. Sono accusati di falso ma sulle loro posizioni incombe il rischio prescrizione. 

Ilaria Cucchi interviene anche sul caso di Mandolini: «Ho ancora in mente la sua espressione quando venne al primo processo, quello che definisco "sbagliato" alle guardie penitenziarie, raccontò di quanto Stefano era stato simpatico quella notte quando invece era già a conoscenza di quanto avvenuto, di quel terribile pestaggio». 

IL DEPISTAGGIO. Stefano Cucchi, otto carabinieri condannati per depistaggi: la sentenza. Ilaria Sacchettoni e Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 7 aprile 2022.

Otto condanne nei confronti di altrettanti carabinieri accusati di avere messo in atto depistaggi dopo la morte di Stefano Cucchi. Il giudice del tribunale monocratico ha inflitto, tra gli altri, 5 anni al generale Alessandro Casarsa e 1 anno e 3 mesi al colonnello Lorenzo Sabatino. 

Depistaggi del caso Cucchi, il geometra ucciso il 22 ottobre 2009: il giudice Roberto Nespeca ha condannato gli otto carabinieri che, per la Procura, dirottarono la verità sulla vicenda.

Cinque anni al generale Alessandro Casarsa il più alto in grado nella scala gerarchica dell’epoca e oggi accusato di falso. Quattro anni a Francesco Cavallo, a sua volta accusato di falso. Quattro anni a Massimiliano Colombo Labriola (falso), 1 anno e 9 mesi a Francesco Di Sano (falso), 1 anno e nove mesi a Tiziano Testarmata (omessa denuncia alla autorità giudiziaria), 1 anno e tre mesi a Lorenzo Sabatino (omessa denuncia all’autorità giudiziaria) e 4 anni a Luciano Soligo (falso). Mentre a Luca De Cianni, accusato di calunnia nei confronti del collega Riccardo Casamassima, sono stati inflitti 2 anni e sei mesi.

In primo grado il processo si conclude con una vittoria per gli uffici della Procura e in primis del pm Giovanni Musarò che aveva istruito approfondimenti accurati sulla vicenda. Nella sua requisitoria il magistrato aveva definito i depistaggi sul caso «ostinati e a tratti ossessivi» protratti per anni.

Per l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo , «è stato confermato che l’anima nera del caso Cucchi è il generale Casarsa»: «Il dato di verità è che tutto quello che hanno scritto su Stefano, che era tossicodipente, anoressico, sieropositivo è falso. È il momento che si prenda le proprie responsabilità chiunque vada contro questa sentenza e quella pronunciata dalla Cassazione lunedì». E la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi : «Non credevo ci saremmo arrivati».

Nel frattempo l’Arma aveva voluto prendere le distanze dai suoi militari infedeli con una costituzione di parte civile al processo. Mentre lunedì scorso, giorno della sentenza in Cassazione che aveva confermato le condanne nei confronti degli autori del pestaggio di Stefano Cucchi, i vertici dei carabinieri avevano espresso «profondo rammarico» alla famiglia. Una vicinanza ribadita dopo il pronunciamento: «La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo, ancora una volta, tutta la nostra vicinanza - sottolinea il Comando generale dell’Arma - La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma». Che ribadisce il «fermo e assoluto impegno» ad agire sempre «con rigore e trasparenza» specie nei confronti dei propri appartenenti.

Secco il commento dell’avvocato Adolfo Scalfati, difensore del colonnello Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma: «Non ci aspettavamo questa decisione, riteniamo che questa sentenza sia un errore giudiziario». Nessun commento invece, dopo la sentenza, dal difensore del generale Alessandro Casarsa, l’avvocato Carlo Longari: «Casarsa ha affrontato il processo con serenità e rispetta la decisione del giudice. Le sentenze si rispettano e non si commentano. Adesso aspettiamo le motivazioni».

Cucchi, condannati gli otto carabinieri accusati di depistaggio. La pena più alta, 5 anni, è stata inflitta al generale Alessandro Casarsa. Ilaria Cucchi: "Sono sotto chock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno". Il Dubbio il 7 aprile 2022.

Quello di Stefano Cucchi non solo fu omicidio, ma i carabinieri hanno tentato di insabbiarlo. Dopo la sentenza definitiva della Cassazione sulla morte del giovane romano ucciso nel 2009, oggi infatti arriva la condanna per tutti gli otto carabinieri imputati nel processo per i depistaggi. È la decisione del giudice Roberto Nespeca, arrivata nell’aula bunker di Rebibbia, a Roma, dopo otto ore di camera di consiglio. La pena più alta (5 anni di reclusione) è stata inflitta al generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma. Per lui il pubblico ministero Giovanni Musarò aveva chiesto 7 anni. «Sono sotto chock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono stati la causa, i responsabili, sono stati condannati», commenta la sorella Ilaria Cucchi.

La sentenza

Quattro anni di reclusione sono stati inflitti a Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma. Per lui l’accusa aveva sollecitato 5 anni e mezzo. Per Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, condanna a 4 anni, invece di 5. Stessa pena chiesta per il carabiniere Luca De Ciani, per il quale sono stati dati invece 2 anni e 6 mesi. Per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, condanna a un anno e 9 mesi (invece dei 4 anni richiesti dalla procura). Un anno e 3 mesi al carabiniere Francesco Di Sano (3 anni e 3 mesi per il pm), stessa pena anche a Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, per il quale erano stati sollecitati 3anni. Pena pari a 1 anno e 9 mesi per Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, otto mesi in più di quanto auspicato dal pm previo il riconoscimento delle attenuanti generiche. Le accuse agli otto carabinieri andavano a seconda delle posizioni, dal falso al favoreggiamento, dall’omessa denuncia alla calunnia.

Processo Cucchi, otto carabinieri condannati per i depistaggi: 5 anni al generale Casarsa. Redazione su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Tre giorni dopo le condanne definitive a 12 anni di carcere nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, oggi è il turno della catena di comando dell’Arma accusata di aver insabbiato il caso e occultato le prove del pestaggio.

Il giudice Roberto Nespeca, nell’aula bunker di Rebibbia a Roma, dopo otto ore di camera di consiglio ha condannato gli otto carabinieri imputati nel processo.  I reati contestati, a vario titolo e a seconda delle posizioni, erano: falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia.

Tra i condannati c’è dunque il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma: per lui l’accusa chiedeva sette anni di carcere, mentre il giudice ha stabilito una pena di cinque anni di reclusione.

Le altre condanne sono a 4 anni per Francesco Cavallo (all’epoca dei fatti tenente colonnello e ufficiale addetto al comando del Gruppo Roma) e per Luciano Soligo, 2 anni e 6 mesi per Luca De Cianni, un anno e 9 mesi per Tiziano Testarmata, un anno e 3 mesi per Francesco Di Sano e Lorenzo Sabatino, un anno e 6 mesi per Massimiliano Colombo Labriola (già comandante della stazione di Tor Sapienza).

Una sentenza che ha dunque sostanzialmente accolto le richieste del pm Giovanni Musarò: la pena più alta chiesta dal pubblico ministero era stata per il generale Alessandro Casarsa, 7 anni. Cinque anni e mezzo erano stati sollecitati invece per Francesco Cavallo, cinque anni per Luciano Soligo e per Luca De Cianni, quattro anni per Tiziano Testarmata, invece, per Francesco Di Sano tre anni e tre mesi, tre anni per Lorenzo Sabatino e un anno e un mese per Massimiliano Colombo Labriola per il quale il pm aveva chiesto le attenuanti generiche.

Un processo che non è “all’Arma dei carabinieri”, aveva detto in Aula il sostituto procuratore Musarò, ma a quei carabinieri che “hanno preso in giro un intero Paese per sei anni“. L’accusa ha infatti ricordato  come “c’è stata un’attività di depistaggio ostinata, che a tratti definirei ossessiva. I fatti che siamo chiamati a valutare non sono singole condotte isolate ma un’opera complessa di depistaggi durati anni“, con una ‘linea’ tenuta “fino al febbraio 2021“.

“Sono sotto shock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono stati la causa, i responsabili, sono stati condannati“, è stato il primo commento di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, dopo la sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato gli 8 carabinieri accusati di aver depistato le indagini.

Dopo la sentenza di primo grado, arriva anche la nota del Comando Generale dell’Arma dei carabinieri: “La sentenza odierna del processo che ha visto imputati otto militari per vicende connesse con la gestione di accertamenti nell’ambito del procedimento “Cucchi-ter”, riacuisce il profondo dolore dell’Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo – ancora una volta – tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell’Arma. L’amarezza è amplificata anche dal vissuto professionale e personale dei militari condannati. Nei loro confronti sono stati, da tempo, adottati trasferimenti da posizioni di Comando a incarichi burocratici e non appena la sentenza sarà irrevocabile, verranno sollecitamente definiti i procedimenti amministrativi e disciplinari conseguenti. In linea con le affermazioni del Pubblico Ministero nel corso del dibattimento, il quale ha evidenziato come il processo non fosse “a carico dell’Arma” – costituitasi peraltro parte civile – si ribadisce il fermo e assoluto impegno ad agire sempre e comunque con rigore e trasparenza, anche e soprattutto nei confronti dei propri appartenenti”.

Grazia Longo per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

Non solo Stefano Cucchi è morto per le botte di due carabinieri, condannati lunedì scorso in via definitiva a 12 anni per omicidio preterintenzionale, ma la verità ha tardato ad emergere perché altri 8 carabinieri hanno messo in moto una macchina di depistaggi. 

Lo ha stabilito ieri, dopo 6 ore di camera di consiglio, il giudice monocratico Roberto Nespeca che ha condannato tutti e 8 gli imputati della catena di comando dell'Arma, accusati a vario titolo di falso, favoreggiamento, omessa denuncia e calunnia. Le pene vanno da 1 anno e 9 mesi a 5 anni. Si attenua così il calvario della sorella di Stefano, Ilaria Cucchi, che ammette: «Sono sotto shock. Non credevo sarebbe mai arrivato questo giorno. Anni e anni della nostra vita sono stati distrutti, ma oggi ci siamo. E le persone che ne sono state la causa, i responsabili, sono state condannate». 

E ancora: «Oggi è un giorno importante, ancora più importante di lunedì: perché un istante dopo la morte di mio fratello si metteva in piedi la macchina dei depistaggi che è costata alla nostra vita anni e anni di processi a vuoto, che ha scritto nero su bianco le sorti del nostro processo, il primo, quello sbagliato. E direi anche le sorti della nostra vita, facendo in modo che entrambi i miei genitori si ammalassero gravemente per tutta quella sofferenza inflitta in maniera brutale». 

Il pestaggio di Stefano Cucchi avvenne la notte del 15 ottobre 2009, in caserma dopo l'arresto per detenzione di 21 grammi di hashish, la morte subentrò 7 giorni dopo all'ospedale Sandro Pertini. E, al di là delle responsabilità per le botte, il pm Giovanni Musarò ha ricostruito quelle del depistaggio. 

Ora il generale Alessandro Casarsa, all'epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, è stato condannato a 5 anni, contro i 7 chiesti dalla procura. Quattro anni per Francesco Cavallo, all'epoca dei fatti capufficio del comando del Gruppo carabinieri Roma. Per lui l'accusa aveva sollecitato una pena di cinque anni e mezzo. 

Per Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro, il giudice ha disposto una condanna a 4 anni, il pm Musarò puntava invece a 5 anni. Stessa pena chiesta per il carabiniere Luca De Ciani, condannato invece a 2 anni e 6 mesi. Per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, il giudice ha disposto la pena a 1 anno e 9 mesi, a fronte di una richiesta di condanna per quattro anni. Condannato a 1 anno e 3 mesi il carabiniere Francesco Di Sano, per lui erano stati chiesti 3 anni e 3 mesi.

Per Lorenzo Sabatino, allora comandante del reparto operativo dei carabinieri di Roma, è stata decisa una condanna di 1 anno e 3 mesi, contro i 3 sollecitati. Pena di 1 anno e 9 mesi per Massimiliano Labriola Colombo, ex comandante della stazione di Tor Sapienza. Per quest' ultimo il pm aveva chiesto il riconoscimento delle attenuanti generiche e una pena di 1 anno e 1 mese. L'avvocato e compagno di Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo, chiosa: «È stato confermato che l'anima nera del caso è il generale Casarsa».

Sulla vicenda interviene anche il Comando generale dei carabinieri: «La sentenza per gli otto militari riacuisce il profondo dolore dell'Arma per la perdita di una giovane vita. Ai familiari rinnoviamo ancora una volta tutta la nostra vicinanza. La sentenza, seppur di primo grado, accerta condotte lontane dai Valori e dai principi dell'Arma. Ribadiamo il fermo e assoluto impegno ad agire sempre con rigore e trasparenza».

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

Dopo quasi tredici anni, il bilancio giudiziario sulla morte di Stefano Cucchi conta tre assoluzioni definitive per gli agenti di custodia mandati alla sbarra nel primo processo; un'assoluzione e quattro prescrizioni (frutto di annullamenti e rinvii) per i medici e gli infermieri; due condanne definitive di altrettanti carabinieri responsabili del «violentissimo pestaggio» e altre due per falso da rivedere in un nuovo appello; otto condanne in primo grado pronunciate ieri dei militari dell'Arma (tra cui alcuni alti ufficiali) imputati per i depistaggi che hanno accompagnato tutte le indagini svolte dal 2009 in avanti. 

Un cammino lunghissimo e accidentato, tipico dei grandi misteri d'Italia; sentire parlare di Cucchi 1, bis e ter fa pensare ai processi Moro 1, bis e ter , a quelli sulla strage di Bologna (l'altroieri s' è chiuso in primo grado il quater ) o sulla morte di Paolo Borsellino.

Proprio con la strage di via D'Amelio emerge l'ulteriore, inquietante analogia di giudizi durati anni contro persone innocenti: a Palermo si videro infliggere l'ergastolo scontando lunghissime reclusioni, a Roma almeno sono stati sempre assolti. 

Ma resta scolpita la definizione del «Cucchi uno» data dal pubblico ministero del bis e ter Giovanni Musarò: «Un processo kafkiano con i testimoni sul banco degli imputati e gli imputati sul banco dei testimoni». 

Persino la deposizione dell'immigrato africano che riferì di aver ascoltato le percosse inflitte dagli agenti penitenziari evoca i falsi pentimenti che hanno inquinato indagini e sentenze sul delitto Borsellino.

A questo erano giunti i depistaggi sanzionati con il verdetto di ieri: una falsa verità costruita a tavolino attraverso documenti modificati ad arte, cancellati, spariti o negati, che ha resistito finché la tenacia di una famiglia mai arresa e tecniche investigative degne delle più complicate inchieste antimafia adottate da una Procura determinata a riaprire un caso di fatto archiviato, hanno smascherato l'imbroglio.

Arrivato fino in Parlamento, dove un ministro è stato indotto a riferire le stesse bugie. Tutto questo - ha sostenuto l'accusa - per un meccanismo di autoprotezione scattato all'interno dell'articolazione romana dei carabinieri, con lo scopo di evitare che le ombre sulla morte di Cucchi coinvolgessero una struttura già provata in quei giorni da altre vicende poco commendevoli. 

Tuttavia le condanne (di imputati che continuano a proclamarsi innocenti, e tali vanno considerati in attesa dei prossimi giudizi) non coinvolgono l'Arma nel suo insieme. Che anzi nel processo s' è costituta parte civile, chiedendo - tramite l'Avvocatura dello Stato - la condanna dei militari imputati, dopo che altri carabinieri avevano collaborato e contribuito alla nuova indagine. Si tratta di precisazioni e segnali importanti.

Così com' è importante che sulla sorte di un anonimo spacciatore morto mentre era in custodia dello Stato sia stata fatta giustizia (per alcuni versi definitiva, per altri ancora parziale e suscettibile di revisione), con uno sforzo solitamente riservato a casi più importanti ed emblematici, entrati nella storia del Paese. Ora ne fa parte, a pieno titolo, anche il «caso Cucchi», non fosse che per il raggiungimento di questo faticoso e inaspettato traguardo.

Le parole sui social. “Cucchi abbandonato, vanno condannati genitori e sorella”, l’accusa dell’ex comandante dei carabinieri. Carmine Di Niro su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Nonostante la condanna definitiva nei confronti dei carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro, accusati di aver ucciso Stefano Cucchi, c’è chi ancora oggi prova a scaricare le responsabilità di quanto accaduto oltre 12 anni al giovane geometra romano, nella notte tra il 15 e 16 ottobre 2009, quando il pestaggio subito dai militari lo portò al decesso una settimana dopo all’ospedale Sandro Pertini della capitale.

L’ultimo a farlo è Antonio Galizia, 68enne ex maresciallo, per anni a capo della stazione dei Carabinieri di Giovinazzo, in provincia di Bari, ora con un presente da politico.

Su Facebook Galizia si lascia andare a parole incredibili, proprio alla luce delle recenti sentenze. “Sfruttare la morte la morte per fare soldi e avere notorietà è come averlo ucciso una seconda volta. Cucchi andava aiutato e non ucciso da Istituzione e famiglia”, scrive sui social Galizia, accusando di fatto la famiglia di averlo abbandonato. 

E infatti l’ex carabiniere ci mette la carica da novanta e accusa: “Fermo restando che nessuno ha il diritto di togliere la vita a nessuno e chi uccide deve essere condannato, allo stesso modo deve essere condannata la famiglia di Cucchi che avevano abbandonato il figlio e fratello a vivere da sbandato”. “Forse – aggiunge ancora Galizia – condannare la famiglia e la sorella per aver abbandonato un figlio e un fratello sarebbe stata vera Giustizia”.

Parole che rievocano quelle dell’ex ministro Carlo Giovanardi, che sosteneva all’epoca che Stefano Cucchi fosse morto perché abbandonato dai familiari e perché “anoressico e drogato”. Giovanardi che, dopo le condanne di D’Alessandro e Di Bernardo, ha chiarito di non aver cambiato e di non dovere alcuna scusa alla famiglia Cucchi: “Quello che ho sempre detto è esattamente quello che la Cassazione penale nel processo contro i medici ha certificato con sentenza passato in giudicato, secondo cui Cucchi è morto a causa dei medici che non l’hanno curato”, ha spiegato l’ex ministro a Repubblica.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Depistaggio Cucchi, il pm: «Un intero Paese preso in giro per anni». Chiesta la condanna per gli otto carabinieri imputati: «Inaccettabili ingerenze e intimidazioni». Il Dubbio il 24 dicembre 2021. «Un intero Paese è stato preso in giro per sei anni». Sono le parole con le quali il pm Giovanni Musarò ha concluso la requisitoria del processo sui depistaggi del caso Stefano Cucchi, per i quali ha chiesto la condanna degli otto carabinieri imputati. Il pm ha evidenziato le «inaccettabili ingerenze» sulle perizie medico legali, le «intimidazioni» su chi nel corso delle indagini ha detto la verità, ricordando anche il giudice Giulia Cavallone, che per prima si è occupata del processo fino alla scomparsa prematura, nell’aprile del 2020. La richiesta più severa – 7 anni – arriva per il generale Alessandro Casarsa, che nel 2009 era alla guida del gruppo Roma. Chiesti 5 anni e mezzo di carcere per colonnello Francesco Cavallo, all’epoca dei fatti ufficiale addetto al comando del Gruppo carabinieri Roma, e 5 anni per il maggiore Luciano Soligo, ex comandante della compagnia Talenti Montesacro e il carabiniere Luca De Cianni. Chiesti 4 anni di carcere per Tiziano Testarmata, ex comandante della quarta sezione del nucleo investigativo, 3 anni e 3 mesi per Francesco Di Sano, che a Tor Sapienza era in servizio la notte del pestaggio, 3 anni per l’ ex capo del Reparto operativo della capitale, Lorenzo Sabatino e 13 mesi di carcere per Massimiliano Colombo Labriola, ex comandante della stazione di Tor Sapienza, per il quale si chiede il riconoscimento delle attenuanti generiche. Chiesta inoltre l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per Casarsa, Cavallo, Soligo e De Cianni e interdizione a 5 anni per Sabatino, Testarmata e Di Sano. L’attività di depistaggio sul caso Cucchi «è stata ostinata, a tratti ossessiva», ha evidenziato il pm, raccontando in una requisitoria lunga due giorni una vicenda lunga 12 anni, partita in un momento difficilissimo per l’Arma: «Lo stesso giorno in cui muore Stefano Cucchi, quattro carabinieri vengono indagati per concussione nei confronti di Piero Marrazzo», ha ricordato il magistrato, e dopo la pubblicazione delle fotografie del corpo di Stefano, in obitorio, con il volto tumefatto, «tutti chiedono la verità sulla sua morte». Un’archiviazione non avrebbe fermato la richiesta di verità che arrivava anche dall’opinione pubblica, ha sottolineato Musarò, e per questo gli imputati «non hanno voluto solo depistare l’autorità giudiziaria, ma riscrivere una verità anche mediatica e politica – ha aggiunto – riscrivere una verità per cui il politraumatizzato Stefano Cucchi era morto di suo. E incredibilmente ci sono riusciti, per 6 anni». L’inchiesta ruotava attorno alle annotazioni redatte da due piantoni nel 2009, poco dopo la morte di Cucchi e modificate per far sparire ogni riferimento ai dolori che lamentava il giovane la notte dell’arresto, dopo il pestaggio subito in caserma. Gli imputati, secondo la ricostruzione della procura, «hanno indirizzato scientificamente le accuse contro i tre agenti della polizia penitenziaria» imputati nel primo processo e poi assolti. Con una serie di «cortine fumogene» hanno complicato il corso della giustizia, ha detto Musarò, che però ha assicurato: «Questo non è un processo all’Arma e noi vogliamo evitare qualsiasi forma di strumentalizzazione».

Processo Cucchi, l’avvocato: «Depistaggi come per Ustica e l’attentato a Borsellino». Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2022. Il legale che assiste le guardie carcerarie, Diego Perugini: «Verità falsificata contro tre poveri disgraziati. Un testimone costruito a tavolino». Al processo sui depistaggi della vicenda relativa alla morte di Stefano Cucchi è il turno delle parti civili, e in particolare dell’avvocato che assiste la polizia penitenziaria, Diego Perugini: «Questa è una tragedia durata dodici anni. Tra i più gravi fatti nella storia democratica di questo paese. Per trovare fatti di simile gravità bisogna risalire a Ustica o a via d’Amelio. Cercherò di rispondere a una domanda: era davvero necessario? Era davvero indispensabile agire così?». L’avvocato Perugini va avanti e censura il comportamento del ministero della Giustizia. Quindi sottolinea l’incredibile vicenda di Samura Yaya il testimone anti-penitenziaria al primo processo Cucchi. «Testimone falso costruito a tavolino. Tanto è vero che quando sono usciti fuori tutto i depistaggi chiesi a Musarò di accertare se qualcuno, tipo un agente dei carabinieri, fosse entrato in carcere per accordarsi con Yaya ma, sorpresa, i registri erano andati perduti così io che non potrei affermare la falsità di Yaya. Ma lo affermo».

Secondo il penalista «i depistaggi ebbero una regia unica che non può essere ricondotta soltanto in capo al generale Casarsa». Il riferimento è all’allora comandate del comando provinciale, generale Vittorio Tommasone appena andato in pensione. Perugini parla di «miserabile attività di depistaggio: si è falsificato la verità contro tre poveri disgraziati». Infine il capitolo dei risarcimenti giudiziari. La difficoltà fa capire il penalista sta nel quantificare il danno morale scaturito da anni e anni di processi. «Ha dovuto rinunciare a una vita di decoro è stato additato da tutti e dopo il proscioglimento è stato comunque indicato come colui che se l’era cavata» dice il suo avvocato. Perugini allora chiede una provvisionale (che può essere rapidamente disposta dal giudice in sede dibattimentale) di 500mila euro. Quindi è toccato all’avvocato di Riccardo Casamassima — il teste chiave che con le sue dichiarazioni ha consentito la riapertura dell’inchiesta sulla morte di Stefano Cucchi — dire la sua: «Casamassima è stato descritto come un ‘rompiscatole’, lui invece, quella divisa e quel giuramento li ha sempre rispettati — ha detto l’avvocato Serena Gasperini legale di parte civile dell’appuntato — disciplinarmente lo hanno devastato ma lui non ha chinato la testa».

·        Gli altri Cucchi.

Cinquant’anni fa la morte di Serantini. L’anarchico pestato dalla polizia. Fu preso durante una manifestazione che Lotta Continua aveva indetto come protesta contro un comizio elettorale del Senatore fascista Niccolai. Ezio Menzione su Il Dubbio il 5 maggio 2022.

Nel pomeriggio del 5 maggio 1972 a Pisa il giovane anarchico Franco Serantini veniva selvaggiamente picchiato da poliziotti del reparto celere durante una manifestazione che Lotta Continua aveva indetto come protesta contro un comizio elettorale del senatore fascista Niccolai. Il giovane, ventenne, veniva portato prima nella caserma della polizia e poi nel locale carcere Don Bosco: probabilmente i maltrattamenti e le botte continuarono per ore. Il mattino dopo egli si presentava dinnanzi al PM in condizioni visibilmente compromesse per il rituale interrogatorio e poi veniva riportato in carcere.

Inutilmente il difensore (d’ufficio, chiamato dalla Procura) insistette perché fosse portato nel Centro Clinico del carcere: così non fu ed egli morì nella notte fra il 6 e il 7 maggio per un ematoma (non l’unico) alla testa, dopo un’agonia di quasi 36 ore, in cui nessuno si premurò di constatare lo stato in cui versava e prestargli le cure necessarie. Anzi, alla rituale visita di ingresso in carcere si adombrava che le ecchimosi e gli ematomi potesse esserseli causati volontariamente. Nella sua morte si rinvengono non solo responsabilità di chi lo picchiò selvaggiamente, ma anche quelle di chi come il PM, il dottore del carcere e gli stessi secondini, nei loro vari gradi, non mosse un dito per salvarlo. Tutte le istituzioni vi furono coinvolte.

Tutta la storia di Serantini, dei tentativi variegati di insabbiare le indagini, che alla fine infatti si conclusero tre anni dopo con un non doversi procedere, è stata mirabilmente narrata in due libri: uno famosissimo, Il Sovversivo, di Corrado Stajano del 1975 ed un altro, dello storico Michele Battini, “Andai perché ci si crede”, uscito recentemente per i tipi di Sellerio. Ad essi rimandiamo perché sono ambedue bellissimi e precisissimi. Qui intendiamo indagare come negli anni ’ 70 sia potuto accadere che un giovane morisse in carcere e nessuno pagasse, anzi, che le indagini fossero continuamente depistate, anche attraverso lo strumento della avocazione. E perché, invece, nel caso Cucchi si sia, sia pure con tempi molto lunghi, arrivati a ricostruire le responsabilità non solo di chi materialmente colpì a morte il giovane, ma anche di chi tentò di coprire tali responsabilità. E Cucchi, ormai, per fortuna, non è un caso isolato.

C’è anche Aldovrandi e numerosi altri, compreso i responsabili delle mattanze nelle carceri di S. Gemignano, Modena e S. Maria Capua Vetere. Insomma, lo Stato sembra giunto a “processare se’ stesso”, sia pure ancora con mille cautele, talora doverose e talaltra francamente eccessive. In realtà, anche nel caso Serantini, forse per la prima volta, si giunse assai vicini alla verità. Fu quando si passò dall’istruttoria sommaria, in mano al PM (e dunque soggetta a possibile avocazione da parte del PG) a quella formale, in mano al giudice istruttore. Nel caso del povero anarchico, caso volle che l’istruttoria andasse in mano ad un giudice abile ed integerrimo, Paolo Funaioli, fra i fondatori di Magistratura Democratica.

Sembra doveroso, questo accenno a Magistratura Democratica perché, appena fondata, essa contribuì a disvelare i meccanismi di un’assoluta e imprescindibile autodifesa dello Stato, e ciò era vero soprattutto a Pisa dove essa era forte di un certo numero di soci fondatori, tutti molto preparati e agguerriti. Funaioli fu un inceppo per chi voleva affossare la verità: non ce la fece a rinviare a giudizio i responsabili, ma almeno contribuì a quella che poi è diventata la verità storica: Serantini fu pestato a morte al momento dell’arresto e forse anche dopo e comunque nessuno gli prestò le cure necessarie per, forse, salvarlo. Questo giudice istruttore fu dunque un granello (importante e significativo) che si oppose, pur senza successo, a che il silenzio calasse sin da subito su quello scempio.

Credo che in tutti i casi citati sia stato necessario che ci fosse un granello che ha inceppato i meccanismi di “autoassoluzione necessaria” da parte dello Stato: è stato così cinquant’anni fa per Serantini, ma è stato così anche per il caso Cucchi. Il granello può essere un giudice, oppure un funzionario dello Stato (responsabile o testimone), un consulente tecnico preparato e non al servizio delle procure, assieme ad una opinione pubblica sempre più vigile e consapevole, alimentata da possibili ricostruzioni alternative rispetto alla vulgata affermata dallo Stato e dai suoi apparati.

In questi cinquant’anni che ci separano dalla morte di Serantini, la prima volta che si sono affermate le inequivocabili responsabilità delle forze dell’ordine, è stato a proposito dei fatti di Genova del G8 del 2001: ci sono voluti anni ed anni di indagini, si è dovuto trovare dei PM incredibilmente onesti e tenaci nel prospettare possibili responsabilità, appoggiati da un’opinione pubblica che è diventata sempre più consapevole che alla Diaz e a Bolzaneto i rappresentanti dello Stato avevano commesso crimini feroci. Temporalmente Genova si colloca a metà strada fra Serantini e Cucchi.

Dopo Genova (o meglio, dopo le indagini e i processi di Genova) la strada è diventata un po’ più facile. E’ possibile riconoscere responsabilità di chi ha commesso il reato e di chi non avrebbe voluto che il reo fosse individuato, poiché appartenente allo stato. Ma anche con riferimento ai fatti di Genova non fu così per l’uccisione di Carlo Giuliani. Insomma, il paragone fra quanto accadde a Pisa nel maggio 1972 e quanto accade oggi in tema di responsabilità di rappresentanti dello Stato induce a ritenere che oggi sia più facile costruire, sia pure faticosamente, un’opinione pubblica che chieda in maniera forte indagini non inquinate e trovare quei “granelli” che inceppano o si oppongono alla volontà di scansare sempre e comunque le responsabilità dello Stato quando abbia in mano un cittadino così che si determini un’incrinatura e possibilmente una rottura della compattezza precedente.

Federico Aldrovandi, ucciso dall’abuso di Stato. Ma la legge contro la tortura è ancora parziale. Patrizia Moretti: «Si sono perse molte occasioni per evitare che tragedie di questo tipo possano ripetersi. In questi diciassette anni si sono avvicendati tutti i colori politici e purtroppo non è cambiato granché». Adil Mauro su L'Espresso il 23 Settembre 2022.

Cinquantaquattro lesioni, due manganelli rotti e un cuore schiacciato. La domenica mattina del 25 settembre 2005 Federico Aldrovandi, un ragazzo di soli diciotto anni, moriva a Ferrara durante un controllo di polizia. L’iter processuale di questa vicenda è terminato dieci anni fa, il 21 giugno 2012, con la condanna in via definitiva degli agenti Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri.

Cucchi, Aldrovandi, Soldi: quando lo Stato invece di proteggerti ti manda all’altro mondo. Gli abusi di potere e le violenze sono spesso coperte dal muro di gomma delle autorità. Daniele Zaccaria il 15 Settembre 2022 su Il Dubbio.

Sono storie di violenze gratuite e di abusi feroci, di omertà e depistaggi, ancora più raggelanti perché commesse da chi dovrebbe proteggerti, garantire i tuoi diritti, da chi dovrebbe custodire la sicurezza dei cittadini. Stiamo parlando delle vittime dello Stato, persone morte nelle mani della polizia, durante un banale controllo, o nel tempo della carcerazione preventiva; vicende spesso insabbiate dalle stesse autorità e poi venute alla luce del sole grazie alla determinazione e al coraggio dei familiari delle vittime, costretti abbattersi per anni contro i muri di gomma del potere, le intimidazioni della politica, le campagne di diffamazione, la solitudine. Sono decine i casi di violenza di Stato emersi nel recente passato, alcuni dei quali hanno avuto una grande risonanza mediatica, a cominciare da Stefano Cucchi.

È il 15 dicembre del 2009, il geometraromanodi31 anni viene fermato da una pattuglia dei carabinieri che lo trovano in possesso di una modesta quantità di hascisc e cocaina più una confezione di farmaci contro l’epilessia. Il giorno successivo c’è il processo per direttissima che convalida l’arresto per Cucchi, sarà l’ultima volta che la sua famiglia lo vedrà vivo. All’ingresso nel carcere di Regina Coeli le sue condizioni fisiche paiono preoccupanti, viene visitato dai medici che dispongono l’immediato ricovero nell’ospedale Sandro Pertini dove comunque resta confinato nel reparto per i detenuti sotto la custodia dei carabinieri. Per sei giorni nessuno sa nulla di cucchi: il 22 ottobre 2009 viene comunicata la sua morte. Le foto scattate dal medico legale piombano sulle prime pagine dei giornali con un effetto scioccante: il corpo di Cucchi sembra reduce da torture prolungate, contusioni, ferite, fratture.

Ci vorranno 10 anni e la tenacia incrollabile della sorella Ilaria Cucchi per arrivare a stabilire finalmente la verità sulla morte del geometra. Il 14 novembre 2019 la Corte d’Assise di Roma condanna in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Il 7 maggio 2021 la Corte d’Assise d’Appello di Roma conferma la condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri innalzando da dodici a tredici anni la pena stabilita in primo grado.

Federico Aldrovandi invece aveva trovato la morte 4 anni prima, il 25 settembre del 2005. Aveva appena compiuto 18 anni. Viene fermato da una volante della polizia mentre stava camminando in pieno centro di Ferrara; il ragazzo non ci sta, risponde polemicamente agli agenti, nasce un diverbio, sul posto arriva un altra volante e la situazione degenera. Una testimone racconta di aver visto dalla finestra della sua abitazione i poliziotti prendere a bastonate Aldrovandi e poi schiacciarlo con i propri corpi. Muore all’istante. L’autopsia stabilisce la causa del decesso: apossia-asfissia posturale che ha portato all’arresto cardiaco; inoltre sul corpo vengono individuate oltre cinquanta lesioni. Sarà la madre Patrizia Moretti sul suo blog a denunciare l’ignobile pestaggio subito dal figlio, dando il via a una campagna di mobilitazione che raggiunge i media nazionali. La sentenza sette anni più tardi nel 2012 : i quattro agenti vengono condannati in via definitiva per “eccesso colposo in omicidio colposo” a 3 anni e 6 mesi di reclusione e la Corte dei Conti li ha condannati a risarcire lo Stato per 560 mila euro.

E sempre il 2015 quando Andrea Soldi, 45 anni e affetto da schizofrenia, è seduto su una panchina di piazza Umbria a Torino. E raggiunto da una pattuglia di polizia municipale portata lì dal suo psichiatra per sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio in quanto da un po ’ di tempo Soldi rifiuta di assumere farmaci. Come per Aldrovandi comincia una colluttazione, Soldi viene immobilizzato e ammanettato, ma con estrema violenza, un vigile gli stringe il collo. Perde i sensi e tutti non possono non accorgersi che la situazione è molto grave. Ma nel viaggio tra l’ambulanza e l’ospedale è ancora ammanettato e messo a testa in giù: muore pochi minuti dopo aver raggiunto la struttura sanitaria. L’autopsia disposta dalla procura di Torino stabilisce che Soldi è morto per gli abusi subiti durante il Tso con una inequivocabile relazione di causa effetto.

I quattro imputati sono stati condannati in primo grado a un anno e sei mesi di reclusione e le condanne sono state confermate in appello. La sorella Maria Cristina e il padre Renato in questi anni hanno lottato per ottenere giustizia ma soprattutto hanno denunciato gli abusi selvaggi del trattamento sanitario obbligatorio e l’assoluta impreparazione di chi è chiamato a eseguirlo. Una pratica controversa e foriera di tragedie come appare sul libro di Matteo Spicuglia Noi due siamo uno. Storia di Andrea Soldi, morto per un TSO, un lavoro importante che ricostruisce la vita del povero Soldi attraverso i suoi toccanti diari.

La Procura di Roma contesta falso e tentato omicidio. “Hasib Omerovic picchiato e buttato per i piedi dalla finestra”: le accuse ai poliziotti indagati. Antonio Lamorte su Il Riformista l’11 Novembre 2022.

Hasib Omerovic sarebbe stato picchiato, minacciato dai poliziotti intervenuti in casa sua a Roma, preso per i piedi e buttato dalla finestra della camera da letto della sua abitazione. Questo è quanto si legge nella ricostruzione del pm della Procura della Capitale. Quattro gli agenti indagati cui sono contestati il tentato omicidio e il falso. La vicenda era esplosa lo scorso luglio: un blitz della polizia nell’abitazione dell’uomo, disabile, a Primavalle.

I fatti risalgono al25 luglio. Primavalle, periferia di Roma, civico 24 di via Girolamo Aleandro. I poliziotti sarebbero intervenuti presso l’abitazione per “procedere – si legge negli atti – alla sua identificazione”. Di quell’operazione era rimasta una foto sconvolgente: di Omerovic steso sull’asfalto, con tracce di sangue, inerme. La cartella clinica avrebbe riportato fratture alla testa, alle costole e allo sterno, lussazione dell’omero e traumi a milza, fegato, rene, ferite al torace. Cos’era successo in quella casa?

Grottesca la pista che farebbe risalire i motivi dell’operazione a voci che circolavano su Facebook: su gruppi del quartiere si sarebbe parlato di Omerovic come di un uomo che molestava le ragazze in strada – Repubblica scrive forse anche una nipote di uno degli indagati. Si legge altro, come visto, nella relazione di servizio. Repubblica chiarisce nella sua ricostruzione, con anticipazioni dalla Procura, che le accuse sono ovviamente da provare e il movente da trovare.

Il falso contestato dall’accusa si riferisce alla relazione di servizio nella quale si legge che il giovane si sarebbe improvvisamente lanciato “nel vuoto dalla finestra della camera da letto, omettendo anche di indicare che lo stesso era stato percosso, minacciato e che era stata sfondata la porta di una stanza interna dell’appartamento”. L’unica testimone dell’operazione è Sonita, sorella 32enne dell’uomo, affetta da ritardo mentale. Aveva raccontato di aver visto tre agenti picchiare Hasib Omerovic con un manico di scopa nella sua camera da letto.

L’avvocato della famiglia Arturo Salerni aveva inoltre spiegato che i vestiti riconsegnati alla famiglia non erano quelli che l’uomo indossava al momento della caduta dall’appartamento. “L’ospedale – aveva detto il legale – ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite”. La madre del 36enne in conferenza stampa diceva che “anche ora che abbiamo cambiato casa continuiamo ad avere paura, anche per i nostri figli. Vogliamo verità e giustizia per Hasib, deve venire fuori”. Secondo la linea difensiva l’uomo si sarebbe gettato improvvisamente dalla finestra dopo aver alzato la tapparella. La famiglia dell’uomo sostiene che quella serranda era rotta da tempo e che non era possibile aprirla se non forzandola.

I quattro agenti indagati sono tutti in servizio al commissariato di Primavalle. Due di loro hanno già avuto un faccia a faccia con gli investigatori, uno lo ha espressamente richiesto. Quello che al momento sembra accertato è che gli agenti non avevano un mandato di perquisizione quando hanno bussato alla porta del 36enne. Ritrovati anche un termosifone divelto e una porta con la serratura spaccata. Hasib Omerovic al momento si trova ancora in ospedale al Gemelli: è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ilaria Sacchettoni per corriere.it il 13 settembre 2022.

Per la perquisizione di Hasib Omerovich, il rom precipitato dalla finestra di una abitazione a Primavalle a fine luglio, gli agenti non avevano ricevuto alcun mandato di perquisizione della Procura. 

Gli uomini della polizia intervenuti dopo una chiamata al suo domicilio erano privi del provvedimento firmato dai magistrati che avrebbe dovuto aprire le porte della casa dove il giovane viveva con una sorella, anche lei disabile. 

Omerovich, ancora ricoverato in condizioni gravi in ospedale, non risulta infatti indagato per vicende penali. Nel frattempo, i magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani, che procedono per concorso in tentato omicidio, hanno ascoltato già i vicini di casa dell’uomo sordomuto per appurare i dettagli. 

La Procura si sta muovendo con rapidità, e a breve saranno ascoltati i quattro agenti intervenuti. Nel frattempo il rappresentante dei Radicali Riccardo Magi ha presentato una interrogazione al ministero dell’Interno per conoscere la procedura applicata dai poliziotti in questo caso.

Giallo di Primavalle, otto punti da chiarire. «Hasib piange se ricorda quel pomeriggio con gli agenti». Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

L'inchiesta sui motivi del controllo della polizia al rom disabile e sulle ferite sulla schiena. Il ruolo dei vertici del commissariato Primavalle e cosa c’è scritto nelle relazioni di servizio acquisite dalla Mobile? Presto sarà sentita la sorella testimone dell’incidente

Otto punti oscuri per capire cosa sia successo ad Hasib Omerovic, ancora ricoverato nel reparto di Traumatologia del Policlinico Gemelli, dopo aver passato più di un mese in Rianimazione. «Adesso piange non appena i parenti cercano di fargli ricordare quel tragico pomeriggio nella casa di Primavalle», racconta l’avvocata Susanna Zorzi, che assiste la famiglia del 36enne caduto dalla finestra del suo appartamento durante un controllo della polizia. Presto potrebbe essere sentita Sonita, la sorella di Hasib, testimone diretta della caduta del fratello. Potrebbe essere interrogata in audizione protetta con l’assistenza di psicologi. «Ha 30 anni ma è come se ne avesse cinque: non sa mentire, racconta quello che ha visto», dice Zorzi.

L’ispezione

I dubbi su quanto accaduto in via Gerolamo Aleandri cominciano dal motivo stesso, ancora non chiarito, del controllo a domicilio effettuato da quattro poliziotti nel pomeriggio del 25 luglio scorso. Un’iniziativa autonoma, si ritiene, perché i superiori degli agenti non sarebbero stati avvertiti e nemmeno la Questura.

Il post su Facebook

Fra le ipotesi, non confermate da San Vitale, c’è quella di un’operazione preventiva in quanto Omerovic era stato citato in un messaggio sul social di quartiere nel quale veniva indicato come molestatore di ragazze. Un’accusa che non trova riscontri, come anche appare singolare che sia bastato questo per effettuare un controllo di polizia in casa senza convocare in commissariato il diretto interessato.

I soccorsi

Dopo la caduta, accanto ad Hasib compaiono altri agenti, questa volta in divisa, insieme con il 118. Non è chiaro tuttavia a cosa abbiano portato le loro indagini iniziate anch’esse il 25 luglio: sapevano che erano coinvolti dei colleghi in quanto accaduto?

I ritardi

E questo porta direttamente a un altro dubbio: perché bisogna attendere il 12 settembre per sapere quello che è successo in via Aleandri? La famiglia ha presentato un esposto in Procura il 10 agosto; l’8 settembre Riccardo Magi, leader di +Europa, un’interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese. Perché però i testimoni sono stati sentiti solo negli ultimi due giorni?

Le botte

Fra i reperti sequestrati in casa Omerovic un bastone spezzato e un lenzuolo insanguinato. Il 36enne aveva anche ferite alla schiena indipendenti dalla caduta. Secondo la sorella Sonita, anche lei disabile e testimone dell’accaduto, sarebbe stato picchiato dai poliziotti. Ma per alcuni vicini veniva malmenato anche in casa.

Le ferite

Nonostante la gravità delle ferite riportate dal 36enne (in codice rosso al Gemelli e poi in coma per oltre un mese) ai parenti di Hasib viene spiegato che «si è rotto soltanto un braccio». Ma la realtà in ospedale è molto diversa.

La relazione degli agenti

Proprio ieri gli investigatori della Squadra mobile hanno acquisito la relazione di servizio dei quattro agenti. Un documento importante per capire se nel rapporto sia stato scritto tutto quello che è successo in via Aleandri oppure se sia stato omesso qualcosa.

Il ruolo dei funzionari

Ma i superiori dei quattro poliziotti sapevano? Hanno autorizzato il controllo in casa Omerovic o ne hanno preso atto solo dopo che la vicenda si era conclusa drammaticamente? Per questo anche i vertici del commissariato Primavalle potrebbero essere sentiti in Procura nei prossimi giorni.

Hasib Omerovic, caccia al testimone che ha scattato la foto al corpo precipitato. Giulio De Santis su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.  

Per il disabile caduto al suolo durante una perquisizione il pm aspetta di sentire la persona che per prima ha visto il 36enne. Quattro poliziotti sono indagati 

Caccia della procura al testimone che ha fotografato Hasib Omerovic, steso in strada e avvolto in una pozza di sangue nei minuti successivi alla caduta dal primo piano della sua casa popolare di via Girolamo Aleandro, Primavalle. La versione del testimone potrebbe essere fondamentale per capire se la mattina del 25 luglio del 2022 Omerovic – 36 anni, sordo muto, di etnia rom - si è buttato in un tentativo di suicidio, come sostengono i quattro poliziotti indagati per tentato omicidio e falso. Oppure se il ragazzo è stato spinto giù dal balcone dagli agenti, come invece afferma la sorella 30enne di Hasib, anche lei affetta da un ritardo cognitivo, in casa al momento del dramma. 

Soprattutto il procuratore aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani sperano che il testimone, un vicino di casa, abbia altre foto utili a ricostruire i momenti drammatici della caduta. L’immagine, divenuta emblematica delle condizioni di Omerovic dopo il volo, non è ancora stata acquisita dalla procura. La foto è stata girata alla stampa dai familiari del ragazzo, che, a loro volta, l’hanno ricevuta dal vicino. Gli inquirenti non procederanno ad alcuna consulenza sulla natura delle lesioni riscontrate sul giovane. Motivo: sarebbe impossibile a distanza di quasi due mesi dalla caduta distinguere le ferite dovute all’impatto al suolo con altri tipi di lesioni. Come quelle per esempio causate da un pestaggio. Va ricordato che i medici nella stesura della cartella clinica non hanno rilevato la presenza di ferite o lividi dovuti a percosse. Considerazione, in ogni modo, non risolutiva sul perché della caduta viste le condizioni di Omerovic dopo l’impatto. 

Il controllo dei poliziotti, come è scritto nel verbale redatto dopo l’intervento, è stato svolto per via delle voci di quartiere secondo cui l’uomo avrebbe molestato delle donne. Proprio per questo la procura verificherà se amiche o parenti degli agenti siano tra coloro che Omerovic avrebbe molestato. Sempre se le molestie siano avvenute, perché potrebbe essersi trattato di fraintendimenti nati dalle complicate condizioni di Hasib. Infine l’ultima ombra su cui la procura intende fare luce è la ragione della presentazione della denuncia a quattordici giorni di distanza dalla tragedia. Un buco temporale enorme. I familiari di Hasib hanno affermato di essere stati in commissariato più volte per avere risposte su quanto accaduto a Omerovic. E non avendone ricevuto alcuna spiegazione, hanno deciso di procedere a una denuncia, sentendosi con le spalle al muro.

Estratto dall’articolo di Michela Allegri e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 13 settembre 2022.

È caduto dalla finestra della sua camera, un volo di 9 metri da una casa popolare nel quartiere di Primavalle, a Roma. Quattro agenti di polizia in borghese avevano appena suonato alla porta chiedendogli i documenti. Quel giorno, il 25 luglio, Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, era da solo con la sorella, pure lei disabile. Le sue condizioni sono gravissime - è in stato di coma vigile al policlinico Gemelli - e la denuncia fatta dai familiari è agghiacciante: la madre Fatima, il padre e la sorella sedicenne, sostengono che Hasib sia stato picchiato dai poliziotti (tra i quali c'era una donna) e poi sia stato buttato di sotto. 

È tutto scritto in un esposto presentato in procura, dove il pm Stefano Luciani ha aperto un fascicolo per concorso in tentato omicidio delegando le indagini alla Squadra mobile. Nel documento viene ipotizzato anche un motivo per quel controllo a sorpresa, fatto a casa Omerovic e su cui ora la Procura indaga per capire se l'accesso sia stato concordato con dei superiori e registrato.

Nei giorni precedenti, infatti, era comparso su Facebook un post in cui una donna sosteneva che Hasib avesse fatto delle avances a delle ragazzine: «Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti». Il post era stato rimosso, ma gli Omerovic, assistiti dall'avvocato Arturo Salerni e dell'associazione 21 Luglio, hanno fatto in tempo a fotografarlo e a depositarlo agli inquirenti. 

Poco tempo dopo, una delle sorelle di Hasib sarebbe stata contattata dal proprietario di un bar di zona: «Hasib ha importunato alcune delle ragazze, qualcuno lo vuole mandare all'ospedale», le avrebbe detto. Il giorno successivo, il controllo dei poliziotti.

Sul caso, il deputato di +Europa Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare, raccontando la storia durante una conferenza stampa alla Camera. In casa sono state trovate tracce di sangue: gli inquirenti, il 12 agosto, hanno sequestrato una coperta macchiata e il manico di una scopa, spezzato a metà. 

È stata una vicina ad avvisare i genitori di Hasib. «Al telefono mi ha passato un poliziotto, che mi ha detto che mio figlio era caduto e si era rotto un braccio - ha raccontato Fatima - Non posso dimenticare quel 25 luglio: quando siamo arrivati al pronto soccorso ci hanno detto di aspettare 48 ore per sapere se Hasib sarebbe sopravvissuto». 

La sorella del giovane, Sonita, sotto choc, ha raccontato alla famiglia che gli agenti avevano prima picchiato il fratello con un bastone, per poi afferrarlo per i piedi e buttarlo giù. I poliziotti avrebbero suonato alla porta mentre i genitori e un'altra sorella erano dal meccanico. Nella sala c'è un termosifone divelto dal muro, al quale, secondo il racconto dell'unica testimone, Hasib si sarebbe aggrappato. […]

In questi giorni gli investigatori hanno sentito alcuni testimoni, compresa una vicina che ha chiamato i soccorsi. Gli aspetti da sciogliere sono diversi. Uno su tutti: non è chiaro a che titolo gli agenti abbiano agito e se l'intervento sia stato registrato. In una relazione alla Procura hanno ripercorso quei minuti. 

Al vaglio anche le dichiarazioni dei vicini, che hanno detto di avere sentito quasi ogni sera i lamenti di Hasib provenire da quella casa, e di avere visto più volte i familiari malmenarlo. La finestra della camera del giovane, inoltre, aveva i vetri rotti: erano stati distrutti una ventina di giorni prima, durante una lite.

Di quanto accaduto l'unica testimone è la sorella di Hasib, che avrebbe, però, un ritardo cognitivo elevato. Un'altra ipotesi è che il ragazzo, non capendo cosa volessero gli agenti in borghese, davanti a dei modi bruschi, possa essere stato colto da una crisi di panico fino a sporgersi dalla finestra che, pur essendo l'appartamento al piano rialzato, su quel lato ha un affaccio molto alto. […]

Estratto dall'articolo di Camilla Mozzetti per “Il Messaggero” il 16 settembre 2022.

«Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione, siamo entrati in casa, c'era un uomo e una donna, ma non c'è stato tempo di fare nulla». La voce calma, lo sguardo fermo. In t-shirt e jeans - scarpe da ginnastica d'ordinanza - risponde così Andrea, proprio di fronte al commissariato Primavalle.

Lui è uno degli agenti che il 25 luglio scorso ha preso parte al controllo in via Gerolamo Aleandro a seguito del quale Hasib Omerovic, il rom di origini bosniache 36enne e sordomuto dalla nascita, è caduto dalla finestra (ora che si è risvegliato dal coma la sua testimonianza potrebbe risultare decisiva). «Si è buttato» dice subito l'agente, finito indagato con (al momento) altri tre colleghi. 

Senza enfasi, senza che il tono della sua voce cambi minimamente: è un poliziotto, anche navigato. Di quelli che conoscono il lavoro di strada a prescindere poi dall'insegnamento che la strada può avergli lasciato. E aggiunge, con uno sguardo che non divaga, di avere in mano le prove necessarie per dimostrarlo.

«Foto e video dell'intervento, sì», tutti confluiti in un dossier ad hoc che racconta cosa è accaduto in quell'appartamento popolare e che «quando verranno richiesti - aggiunge l'agente - saranno forniti e messi agli atti». In quelle immagini sono descritti i 45 minuti, secondo più secondo meno, di un caso su cui la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta per tentato omicidio e falso in atto pubblico dopo che i genitori di Hasib hanno presentato un esposto con un'accusa chiara: «Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto». […] 

Ma lui, l'agente che accetta di parlare, rimanda indietro l'accusa: «Siamo entrati, in casa c'erano un uomo e una donna, abbiamo chiesto i documenti, la procedura era regolare e prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state già identificate ma non è risultato nulla».

Nessuno era andato a cercare gli Omerovic fino al 25 luglio. E allora perché proprio quel controllo in una rovente mattinata d'estate? «Per quel post su Facebook e per alcune segnalazioni arrivate in commissariato», spiega l'agente a cui tuttavia non sono seguite denunce formali. E non è questo un aspetto di poco conto perché a chi ha autorizzato il controllo, ovvero la vice-dirigente del commissariato Primavalle (ascoltata come persona non informata sui fatti insieme ad altri agenti non indagati), è stato contestato l'ordine illegittimo. Non si comanda una verifica per il solo sentito dire. 

Tuttavia, l'agente insieme ad un collega arrivano in via Gerolamo Aleandro, scendono le scalette che conducono al portone. Si fanno aprire e salgono una mezza rampa di scale. Come poi si leggerà nel rapporto di servizio, bussano alla porta. Difficile credere che un sordomuto come Hasib abbia sentito e dunque abbia aperto. Ma loro, stando anche al racconto che faranno ai superiori, entrano e come spesso accade - per precauzione - vengono abbassate le tapparelle della camera dove si trovano. 

Non si può mai sapere che piega possa prendere un controllo, seppur apparentemente banale, ma ad ora non si può ancora decretare che quell'atto non sia in realtà servito ad altro. «Non c'è stato il tempo di identificarli», conclude l'agente dicendo che non può proseguire oltre e che comunque saranno quei filmati e quelle foto a parlare. […]

Estratto dall’articolo di Valeria Di Corrado e Alessia Marani per “Il Messaggero” il 18 settembre 2022.

Uno degli agenti che è entrato a casa della famiglia Omerovic, nel quartiere romano di Primavalle, era conosciuto dai suoi colleghi per i modi poco ortodossi utilizzati nelle perquisizioni. Il sospetto degli inquirenti è che sia stato proprio lui a forzare la mano la mattina del 25 luglio, quando, insieme agli altri tre poliziotti della pattuglia (due uomini e una donna), si è recato nell'appartamento di via Gerolamo Aleandro, ufficialmente per identificare il 36enne sordomuto che alcuni residenti avevano accusato via social di molestare le ragazze e i minori della zona. 

 La situazione all'interno dell'abitazione, però, sarebbe degenerata e Hasib Omerovic è precipitato dalla finestra dalla sua camera da letto nel cortile condominiale, facendo un volo di 9 metri dal quale è sopravvissuto per miracolo, ma riportando danni probabilmente permanenti.

La posizione processuale più delicata, nell'inchiesta della Procura di Roma per tentato omicidio e falso, è proprio quella del poliziotto chiacchierato tra i colleghi per i suoi modi bruschi. Una quindicina di anni fa era in forze alla Squadra Mobile capitolina. Poi venne trasferito al commissariato di Primavalle, una sorta di diminutio per la carriera. 

Non è mai stato oggetto di procedimenti disciplinari, ma ci sarebbe un episodio che avrebbe infastidito il questore dell'epoca. Durante una conferenza stampa venne fotografato con vistosi tatuaggi sul corpo, che avrebbero potuto renderlo identificabile nel corso di indagini sotto copertura. Un corpo muscoloso il suo, ancora adesso scolpito dalle ore di allenamento in palestra.

All'epoca il poliziotto partecipò a una maxi operazione della Sezione reati contro i minori, Fiori nel fango, che smantellò una rete di pedofili che, dietro regalie, adescava bimbi rom nei campi nomadi della Capitale. Si trattava di facoltosi professionisti a cui i bambini venivano procacciati. Gli investigatori della Squadra Mobile, ora delegati dalla Procura a fare luce sulla vicenda di Hasib, stanno cercando di risalire anche ad eventuali pregressi rapporti tra gli Omerovic e gli agenti indagati tali da creare un pregiudizio verso la famiglia rom. 

I genitori del 36enne, arrivati in Italia negli anni 90 dopo la guerra in Bosnia, erano stati prima nel campo rom di Tor di Valle, quindi in quello di Tor de' Cenci, poi a La Barbuta, a Ciampino. Tre anni fa, finalmente, l'assegnazione dell'alloggio popolare di Primavalle. […]

Sulla vicenda di Hasib ci sono ancora molti punti oscuri da chiarire. Nell'esposto depositato in Procura da Fatima, la madre di Hasib, sono allegate le fotografie della porta della camera del ragazzo. La serratura è scardinata. Gli Omerovic sostengono di averla ritrovata a terra, segno che qualcuno ha sfondato la porta. Forse Hasib, spaventato dai modi irruenti, si era chiuso dentro per sfuggire al controllo. Un'altra immagine riguarda un perno di sostegno del termosifone parzialmente divelto dal muro: Hasib potrebbe averlo danneggiato salendoci sopra per raggiungere la finestra. Oppure è la conseguenza di una colluttazione come sostengono i familiari. valore probatorio.

Estratto dall'articolo di Edoardo Izzo e Grazia Longo per “La Stampa” il 16 settembre 2022.

La sorella disabile di Hasib Omerovic, il sordomuto Rom di 36 anni caduto dalla finestra di casa il 25 luglio scorso a Primavalle, periferia di Roma, durante un controllo della polizia, accusa i poliziotti di averlo spinto giù? Loro si difendono sostenendo di non essere stati neppure nell'abitazione al momento del volo. «Eravamo già sulla porta per uscire», hanno rivelato ad alcuni colleghi. 

Tant'è che nella loro relazione di servizio hanno definito il drammatico episodio come un «tentato suicidio» e non come una fuga del giovane per paura del loro intervento, né tantomeno come l'epilogo di un loro gesto violento. «Siamo andati a casa sua perché su Facebook era stato accusato di molestie sessuali. Ma non stava scappando da noi, non lo abbiamo picchiato. E neppure lo abbiamo buttato giù. Ha cercato di uccidersi». […] 

È stata disposta una perizia sulla caduta di Hasib dalla finestra: sarà riprodotto il volo del disabile per accertare, in base ai punti di impatto con il suolo e alle ferite riportate, se è stato gettato giù o se si è lanciato volontariamente. 

Altre verifiche verranno poi effettuate sugli abiti indossati da Hasib la mattina del 25 luglio, sulla scopa spezzata ritrovata nella sua camera da letto e sul lenzuolo sporco di sangue. L'obiettivo è quello di accertare la presenza di impronte digitali e di Dna dei quattro poliziotti accusati di averlo picchiato a sangue prima di buttarlo giù dalla finestra.

I magistrati punteranno inoltre, in sede di interrogatorio, ad appurare perché i quattro poliziotti hanno scattato fotografie ad Hasib con i loro telefonini. Immagini che sono state poi esibite ai colleghi. Cosa volevano dimostrare con quegli scatti? Servivano forse a dimostrare che Hasib non aveva lesioni? E perché, inoltre, gli agenti non hanno abbandonato l'appartamento non appena si sono accorti che i due fratelli disabili erano soli in casa? […]

Caso Primavalle, rimossi dirigente e vice dirigente del commissariato dopo il ferimento di Hasib. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

La decisione è stata presa dal Dipartimento della pubblica sicurezza dopo gli sviluppi della vicenda legata alla caduta del rom disabile dalla finestra di casa il 25 luglio scorso. I quattro poliziotti coinvolti potrebbero essere sentiti entro breve

Cadono le prime teste per la vicenda del ferimento di Hasib Omerovic, il rom disabile di 36 anni volato dalla finestra della sua abitazione a Primavalle lo scorso 25 luglio durante un controllo della polizia. Il Dipartimento di pubblica sicurezza ha disposto la rimozione immediata del dirigente e della vice dirigente del commissariato di quartiere, Andrea Sarnari (in ferie nei giorni in cui è avvenuto l’episodio) e Laura Buia. Entrambi non risultano fra gli indagati.

Fra le motivazione che avrebbero portato i vertici della polizia a prendere provvedimenti così duri anche la necessità di riorganizzare l’ufficio, uno di quelli storici della Capitale, e anche riportare un clima di serenità fra gli agenti, molto provati dalle notizie degli ultimi giorni che li hanno tirati in ballo per la storia di Omerovic. Il nuovo dirigente del commissariato, già convocato dalla Questura nella Capitale, è Roberto Ricciardi, proveniente da Viterbo.

I quattro agenti coinvolti nel controllo durante il quale il 36enne è caduto dalla finestra in circostanze ancora da chiarire, con la Procura che ha aperto un’inchiesta per tentato omicidio e falso in concorso, appartengono proprio alla squadra di polizia giudiziaria del commissariato. Si tratta di tre giovani e di una loro collega graduata, che potrebbero essere sentiti entro breve dai pm e dalla Squadra mobile per chiarire cosa sia successo quel pomeriggio di quasi due mesi fa, in un’operazione seguita a un post apparso sul gruppo «Primavalle» su Facebook da parte di una donna che aveva asserito di essere stata molestata con la figlia da Hasib in mezzo alla strada, e che aveva sollecitato provvedimenti immediati contro di lui.

Dopo le dure accuse soprattutto di Sonita Omerovic, la sorella 30enne di Hasib, affetta da gravi problemi psichici e presente quel giorno nell’appartamento al primo piano di Gerolamo Aleandro quando gli agenti si sono presentati - secondo la sua versione dei fatti il fratello è stato picchiato e poi buttato di sotto -, hanno replicato alcuni poliziotti coinvolti spiegando di non trovarsi più in casa quando il 36enne ha deciso di lanciarsi dalla finestra da solo e anzi di averlo poi soccorso anche con un’ambulanza dell’Ares 118.

Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 21 settembre 2022.

Per la Procura più di qualcosa non quadra nella versione fornita dai quattro poliziotti indagati per la caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto a Primavalle lo scorso 25 luglio. «Abbiamo suonato alla porta dell'appartamento - hanno raccontato gli agenti nella loro relazione di servizio in possesso dei pm di piazzale Clodio -, ci è stato aperto, ma lui come ci ha visto è fuggito nella sua stanza, ha alzato la serranda e si è lanciato di sotto».

È questa, in ordine cronologico, la prima ricostruzione di quanto sarebbe accaduto nello stabile di via Gerolamo Aleandro, ma nei giorni scorsi sulla stampa sono emerse altre due ricostruzioni fatte dagli stessi indagati, tutte da verificare: in una Hasib si sarebbe buttato dopo essere stato identificato, in un'altra dopo che gli agenti erano usciti dall'appartamento. Ancora da stabilire comunque se il gesto del 36enne sia stato fatto per tentare il suicidio da circa otto metri di altezza o per sfuggire ai poliziotti perché spaventato.

In tutti i casi la drammatica conclusione di un'operazione che per gli investigatori era stata organizzata per identificare il 36enne disabile in relazione a presunte molestie a ragazze di Primavalle. Sonita, la sorella della vittima, affetta da gravi disturbi psichici, ha invece raccontato di botte, calci, pugni, foto scattate dagli agenti al fratello, «poi afferrato per i piedi e buttato di sotto». Insomma, una storia completamente diversa. 

Proprio «voci di quartiere», avrebbero spiegato i poliziotti, sarebbero stati alla base degli accertamenti a casa Omerovic.

Come quella - non è chiaro se sia nella relazione degli agenti - contenuta nel post su Facebook scritto da Paola Camacci, madre di una delle giovani che avrebbero subìto le attenzioni di Hasib, con foto e invito a «prendere provvedimenti» contro di lui. La donna sarebbe stata già sentita come il barista Paolo Soldani, l'unico - secondo quanto riferito dai genitori della vittima - a mettere in guardia la famiglia su quello che stava per accadere.

La versione dei poliziotti è tuttora al vaglio della Procura, con l'aggiunto Michele Prestipino e il pm Stefano Luciani, che fin dai primi giorni dopo il 10 agosto, data della presentazione dell'esposto da parte degli Omerovic, hanno avviato accertamenti per ricostruire l'accaduto, passando da un fascicolo modello 45 senza ipotesi di reato a quello per tentato omicidio e falso nei confronti dei poliziotti.

 I pm rimangono in attesa dei risultati delle analisi mediche sulle ferite sul corpo di Hasib, per capire se siano state provocate solo dalla caduta o anche da percosse, e degli esami svolti dalla Scientifica nell'appartamento al primo piano allora occupato con diritto dalla sua famiglia, che ora però vive in macchina alla Garbatella, parcheggiata davanti al Dipartimento al Patrimonio del Comune dove ha chiesto un altro alloggio.

Alessandro D'Amato per open.online il 14 settembre 2022.  

C’è una relazione di servizio sull’attività della polizia quel 25 luglio a Primavalle nella vicenda di Hasib Omerovic. I pm l’hanno acquisita agli atti nell’indagine ancora senza indagati sulla caduta del disabile dalla finestra durante una perquisizione. Che si è svolta senza mandato. E a breve potrebbero partire le prime iscrizioni nel registro degli indagati. Anche come atto dovuto. 

Intanto circola un’ipotesi sul perché i poliziotti hanno bussato alla porta del 36 enne disabile di etnia Rom in via Gerolamo Aleandro. Dove viveva in un alloggio assegnato dal Comune di Roma insieme alla sorella Sonita e alla madre. Tutto sarebbe partito da un post sul gruppo Facebook del quartiere. In cui lo si accusava di aver importunato alcune ragazze nel parco. Una diceria senza alcuna denuncia specifica. Si parla anche di segnalazioni ai vigili per aver ammassato materiali ferrosi in una cantina. Ma la Polizia Locale smentisce. 

La perquisizione senza mandato

Di certo c’è che quanto avvenuto nell’appartamento con vista su via Pietro Bembo non è legato ad una attività delegata dall’autorità giudiziaria. I pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani e il procuratore Francesco Lo Voi dovranno adesso chiarire se si sia trattato di una iniziativa coordinata da un funzionario. 

O di una decisione presa dai quattro agenti in borghese che quel giorno sono entrati nell’appartamento, a loro dire, per chiedere i documenti del 36enne, sordomuto dalla nascita, che ora si trova in coma al policlinico Gemelli con varie fratture dopo essere precipitato per circa 9 metri. Le condizioni del ferito sono intanto in leggero miglioramento. Non è più in pericolo di vita ma resta un quadro clinico complesso alla luce dei tre interventi chirurgici a cui è stato sottoposto.

Fatima Omerovic, la madre di Hasib, ha raccontato che lei, l’altra sorella Erika e il marito erano fuori casa per portare l’auto dal meccanico. Sonita ha invece detto alla madre che il figlio «è stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate. Poi i poliziotti l’hanno preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l’hanno percosso. 

La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro». Il 26 luglio la famiglia si è presentata al commissariato di Primavalle per avere spiegazioni. Qui, secondo la denuncia riportata oggi dal Fatto Quotidiano, un agente (“Andrea”) li avrebbe informati delle accuse nei confronti del figlio riguardo le presunte molestie. E ha raccontato che una volta entrati in casa gli agenti gli hanno chiesto i documenti.

La tapparella

Sempre nella denuncia si sostiene che l’agente avrebbe detto ai parenti che Hasib è rimasto tranquillo durante l’attività in casa. Tanto è vero che alcuni di loro gli hanno scattato fotografie con il telefono cellulare. Mentre loro erano a parlare con la sorella, hanno sentito tirare su la tapparella della camera da letto. 

Da lì Hasib si sarebbe gettato nel vuoto. L’agente ha assicurato che la polizia scientifica aveva già effettuato i rilievi del caso. Una circostanza smentita dalla famiglia. Sequestrati intanto alcuni oggetti trovati nell’appartamento: lenzuola macchiate di sangue, il bastone spezzato di una scopa. I familiari hanno anche messo a disposizioni degli inquirenti foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e tracce di sangue intorno alla porta della stanza in cui Omerovic si sarebbe rifugiato per paura.

Il post su Facebook

Il Fatto racconta anche in un articolo a firma di Vincenzo Bisbiglia le accuse nei confronti di Hasib. Per i vicini era “il sordomuto con il carrello” e viene descritto come fondamentalmente innocuo. Ma nel quartiere su di lui si diceva anche altro. «Da mesi si diceva che importuna le bambine nel parco, ma non ci ho mai creduto – ha detto al quotidiano Alessia, 35 anni, che vive nella scala affianco –. A me non ha mai dato fastidio, parlavamo a gesti, era simpatico». 

Nel gruppo Facebook di quartiere un post lo accusava apertamente: «Salve a tutti fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze. Bisogna prendere provvedimenti». Una testimonianza anonima sostiene che Omerovic avrebbe «dato fastidio alla ragazzina sbagliata».

«8-10 agenti, alcuni in borghese»

Mentre altri puntano il dito sull’attività di recupero di materiali ferrosi dai rifiuti. «Ammassava la roba in cantina, nel palazzo sono iniziati a girare scarafaggi e topi. Lo abbiamo rimproverato, ma lui continuava. Ci sono anche le segnalazioni ai vigili». Anche qui, nessun riscontro. Complessivamente nella zona dello stabile, secondo quanto riferito da alcuni testimoni ai legali, sarebbero stati presenti tra gli otto e i dieci agenti, alcuni in borghese. 

Le forze dell’ordine hanno allertato i soccorsi dopo avere assistito l’uomo a terra. Gli uomini della Squadra Mobile, a cui sono state delegate le indagini, hanno già ascoltato i vicini di casa degli Omerovic. Tra i testimoni anche una vicina che avrebbe visto il ragazzo precipitare. «A un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso», ha spiegato una testimone. Il reato ipotizzato nel fascicolo è tentato omicidio.

Finestre e morti accidentali. Questa volta a Roma. Franco Corleone su L'Espresso il 13 Settembre 2022. 

Il 25 luglio, classica giornata di cadute, un giovane (ormai si dice così) di 36 anni, sordomuto e di famiglia Roma, precipita dalla finestra di casa sua ed è tuttora in coma all’Ospedale Gemelli.

Come si usa dire di fronte alle tragedie del Bel Paese, occorre fare luce.

La storia è semplice. Nei giorni precedenti sulla pagina di facebook di Primavalle il malcapitato viene additato come molestatore delle ragazze del quartiere e come bersaglio di una lezione.

Il commissariato di zona, allertato e sensibile alle sollecitazioni securitarie, si reca nella abitazione della famiglia rom che da tre anni abita in una casa popolare regolarmente assegnata per un controllo, in assenza di mandato di perquisizione e di denuncia per reati o atti verificati.

Nell’abitazione oltre Hasib vi è solo la sorella portatrice di un grave deficit e i quattro poliziotti (tre uomini e una donna) chiedono i documenti che vengono prontamente esibiti.

Non si sa che succede dopo. Certamente timore e paura spingono l’uomo a rifugiarsi nella sua stanza e a chiudersi a chiave. I poliziotti allora buttano giù la porta e di fronte alla resistenza di Hasib che  si aggrappa al calorifero, usano maniere forti fino a divellere il calorifero stesso.

Alla conclusione di questa inutile ed eccessiva prova di forza il ragazzo precipita dall’altezza di nove metri, con diverse fratture e ferite.

Un incredibile silenzio ha coperto questa allucinante storia che ricorda le vicende di Aldrovandi a Ferrara e di Cucchi a Roma.

L’omertà è stata rotta dal deputato Riccardo Magi e finalmente bisognerà rispondere alla richiesta disperata di verità della madre.

Una congiura di tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi, lo stigma, la debolezza dell’handicap, la richiesta di giustizia sommaria e l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine.

Lo stato di diritto e la democrazia sono state colpite. La ministra La Morgese il Capo della Polizia devono rispondere immediatamente al parlamento e alla società civile turbata e preoccupata.

Quel silenzio che puzza di omertà nel caso di Hasib Omerovic, volato dalla finestra. Franco Corleone su L'Espresso il 27 Settembre 2022.

Ci sono alcuni aspetti sconvolgenti nella vicenda dell’uomo precipitato durante una perquisizione della polizia nella sua casa. Perché le bocche cucite di troppi fanno tornare in mente il caso Aldrovandi

Il volo dalla finestra della sua abitazione di Hasib Omerovic il 25 luglio in pieno giorno a Primavalle, quartiere storico di Roma, presenta degli aspetti sconvolgenti che obbligano a considerazioni di vario segno, culturale, sociale, politico e istituzionale.

Colpisce il silenzio assoluto che è stato riservato a una tragedia, perché di questo si tratta, visto che il giovane, così viene definito anche se compirà il mese prossimo 37 anni, è stato a lungo in coma e ancora oggi giace in un letto del Policlinico Gemelli in gravi condizioni.

Infatti non si è trattata di una caduta accidentale ma avvenuta in stretta relazione con la presenza in casa di almeno quattro poliziotti per una perquisizione senza mandato e la risibile richiesta di documenti. Pare che la telefonata al 118 per chiamare una ambulanza sia stata effettuata da uno dei poliziotti ma ancora non si conosce il contenuto, neppure che cosa è stato detto agli infermieri e neanche come è stato registrato il ricovero.

Pare che tutto il quartiere fosse mobilitato per dare una lezione a un presunto molestatore di ragazze ed è davvero incomprensibile che nessuna reazione - su Facebook o su altri mezzi di comunicazione o nelle chiacchiere al bar il cui proprietario è stato intervistato da un importante quotidiano e sentito il 25 agosto nel commissariato coinvolto - si sia manifestata.

In Sicilia si definirebbe omertà. Sembra che la soddisfazione popolare per la solerzia della polizia si esprima con le bocche cucite. D’altronde la congiura è fondata su tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi e dei rom in particolare, lo stigma, il disprezzo per l’handicap. Hasib, rom e sordomuto, aveva assunto le sembianze del nemico perfetto.

Il pm Stefano Luciani è orientato a procedere per tentato omicidio ma anche per falso. Questa accusa, sostanzialmente di depistaggio, richiama alla memoria la vicenda Cucchi e quella di Federico Aldrovandi di cui il 25 settembre c’è stato l’anniversario della morte in seguito a un pestaggio immotivato, se non per l’odio verso un giovane (in questo caso davvero, aveva diciotto anni) etichettato come drogato. Anche in quella occasione la gestione della questura di Ferrara fu tutt’altro che limpida, ma ricca di ombre.

Più emergono squarci di luce più lo scenario si fa torbido. Domande inquietanti: perché Hasib non è stato chiamato in commissariato in condizioni efficaci per trasmettere un monito relativo alle sollecitazioni di alcune donne? È vero che uno dei poliziotti, animato da rabbia perché Hasib avrebbe molestato una sua nipote, si sarebbe distinto per farsi giustizia, una giustizia sommaria?

Giustamente il magistrato della procura di Roma si appresta a nominare un perito per cercare di scoprire le modalità della caduta: spinta da parte dei poliziotti, tentativo di fuga per paura o caduta per effetto di una dura colluttazione.

Purtroppo è passato molto tempo e alcuni elementi sono inquinati. C’è da augurarsi solo che non venga riesumata la formula del malore attivo, usata per spiegare la defenestrazione di Pino Pinelli, anarchico, dai locali della questura di Milano.

L’omertà è stata rotta per merito del deputato Riccardo Magi con una interrogazione alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, finora senza risposta. Un silenzio inquietante perché il Parlamento esiste e va rispettato. La società civile non può tollerare una collusione o una protezione dei violenti.

L’INDAGINE PER TENTATO OMICIDIO: I PM SENTIRANNO I POLIZIOTTI. La polizia e l’amico del boss, tutti i misteri sul caso Hasib. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 13 settembre 2022

Nel caso Hasib restano ancora molti punti oscuri. Per esempio, perché il 25 luglio scorso gli agenti di polizia sono entrati a casa del disabile sordomuto senza un mandato di perquisizione?

Dopo molto silenzi, durati un giorno intero, la procura ha fatto chiarezza su un dato ormai assodato: ha ammesso che non c’era alcun ordine dei pm per entrare a casa di Hasib. 

Come anticipato da Domani, già alcuni testimoni sono stati sentiti da chi indaga. In particolare la vicina di casa, che si trovava sul balcone e ha sentito il tonfo provocato della caduta di Hasib dalla finestra. Un’altra figura chiave di questa storia potrebbe essere il titolare di un bar di Primavalle, citato in un’indagine sulla ‘ndrangheta. 

GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

L’INCHIESTA – IL PROBLEMA DELLA PROFILAZIONE IN ITALIA. Gli abusi delle forze dell’ordine su trans e afrodiscendenti. LUIGI MASTRODONATO su Il Domani il 13 settembre 2022

«Se non collabori ti frego e ti mando in Brasile. Puoi anche scappare perché qui non ti faccio più mettere piede». Sono le parole rivolte da un carabiniere a una persona trans brasiliana ricattata sessualmente, ed emerse dalle intercettazioni dell’inchiesta Odysseus.

Gli abusi di potere nei confronti delle persone straniere, tanto più se transessuali, sono un problema anche in Italia, dove vige un sistema collaudato di controlli, fermi frequenti, atteggiamenti aggressivi che troppo spesso sfociano nella violenza. Eppure la profilazione razziale e sessuale è ancora troppo poco indagata e assente dal dibattito pubblico.

Questo articolo è stato prodotto nell'ambito del progetto INGRiD – Intersecting Grounds of discrimination in Italy finanziato dalla Commissione europea. 

LUIGI MASTRODONATO. Giornalista freelance, classe 1990. Scrive di diritti umani, migrazioni, sociale: tematiche che lo hanno ispirato durante gli studi universitari in Scienze politiche, prima a Milano, poi a Bruxelles, con qualche mese di mezzo a Beirut.

Un altro caso Cucchi: Hasib in coma dopo la visita degli agenti di polizia. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA su Il Domani il 12 settembre 2022

Sul caso di Hasib, il disabile precipitato dalla finestra dopo un controllo della polizia, si sa solo che la procura indaga per tentato omicidio. Il dato è scritto nell’atto del 12 agosto con cui il pm Stefano Luciani ordina il sequestro del bastone della scopa e del lenzuolo macchiato di sangue.

Oggetti necessari per capire la dinamica dei fatti e menzionati nella denuncia presentata dalla famiglia di Hasib il 10 agosto, quindici giorni dopo la caduta dell’uomo dal secondo piano della sua abitazione durante la “visita” degli agenti del commissariato. In procura e in questura nessuno vuole parlare, confermare o aggiungere altro.

Cosa è accaduto, dunque, ad Hasib il 25 luglio 2022? Si è buttato dalla finestra, è caduto, è stato spinto? Nessuna certezza, ancora molti punti oscuri. Di certo gli inquirenti, risulta a Domani, hanno già sentito un testimone chiave, una vicina di casa dell’uomo.

Luca Monaco e Fabio Tonacci per la Repubblica il 12 settembre 2022

Fine luglio, un quartiere di Primavalle, le case popolari. Un uomo di etnia rom, sordo, vola dalla finestra della sua abitazione al primo piano durante un controllo della polizia. Sono nove metri di caduta. L'uomo, che si chiama Hasib Omerovich e ha 36 anni, dopo l'impatto va in coma. 

Viene portato in ospedale. Ed è ancora in stato di coma vigile. Nell'abitazione ci sono tracce di sangue e la sorella, che ha assistito a tutto, è sotto shock. Che storia è questa che la madre del ragazzo, il suo avvocato, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom e il deputato di +Europa Riccardo Magi raccontano nel dettaglio in una conferenza stampa alla Camera? 

La famiglia Omerovich vive da tre anni in un alloggio popolare regolarmente assegnato. Hasib è un uomo problematico. E' disabile e nel quartiere girano strane voci su di lui. Giusto prima della visita della polizia a casa sua avvenuta il 25 luglio, sulla pagina facebook del quartiere è apparso un post con la sua foto e il seguente commento a corredo: "Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti".

Al post segue un tentativo di avvicinamento. La sorella di Hasib, S., anche lei disabile, viene chiamata dal proprietario di un bar della zona, il quale l'avverte che "Hasib ha importunato alcune delle ragazze del quartiere" e che "qualcuno lo vuole mandare all'ospedale". Il barista le chiede di vedersi l'indomani al bar insieme con il fratello, ma l'incontro non ci sarà. 

Esattamente ventiquattro ore dopo, riferisce la famiglia di Hasib, quattro poliziotti in borghese, probabilmente del Commissariato Aurelio o del Primavalle, si presentano presso la casa mentre i genitori non ci sono, perché sono andati dal meccanico, insieme con la sorella più piccola. 

Nell'appartamento ci sono Hasib e S., la sorella disabile. "Hanno suonato, ho aperto la porta...una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa. La donna ha chiuso la serrranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti a mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato col bastone. Hasib è caduto e a hanno iniziato a dargli i calci. E' scappato in camera e si è chiuso", ricorda la ragazza. 

Fin qui la ricostruzione è chiara. Poi diventa ingarbugliata. La ragazza dice che Hasib corre in camera sua e chiude a chiave la porta. La porta viene abbattuta dagli agenti in borghese. Dopodiché, il 36 enne cade dalla finestra.

"Loro gli hanno dato calci e pugni, lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù", è la versione della sorella. Nella stanza ci sono macchie di sangue sulla coperta del letto, un manico di scopa spezzato che S. sostiene essere stato usato dagli agenti per pestare Hasib e il termosifone sotto la finestra divelto dagli appoggi che lo tengono muro. "Perché mio fratello si era avvinghiato lì, i poliziotti lo tiravano", racconta. Dopo la caduta, Hasib è stato soccorso dagli agenti in borghese a cui si sono aggiunti poliziotti in divisa appena arrivati sul posto. 

Il resoconto di quanto avvenuto è contenuto in un esposto alla procura di Roma che ha aperto un'inchiesta contro ignoti per tentato omicidio in concorso. Il pm è Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Il deputato Riccardo Magi ha presentato un'interrogazione parlamentare rivolta alla ministra dell'Interno Luciana Lamorgese. "Ci sono degli aspetti da chiarire", dice Magi. "Perché è stato fatto l'intervento a casa Omerovich? C'è un ordine di servizio? La ministra intende prendere provvedimenti disciplinari?" 

Disabile in coma, la mamma di Hasib: "I poliziotti l'hanno massacrato di botte, preso per i piedi e buttato giù dalla finestra come spazzatura". Luca Monaco e Fabio Tonacci su La Repubblica il 12 settembre 2022

La famiglia Omerovich, la madre Fatima con il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, e la figlia 16enne Erika  

Il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare che si trova nell'estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom

"Adesso abbiamo paura anche ad andare all'ospedale a trovare nostro figlio, Hasib amava la vita, non si sarebbe mai buttato da solo dalla finestra. Vogliamo sapere cosa è successo". Scorre la galleria delle immagini sul cellulare e si commuove Fatima Omerovic, davanti all'immagine del figlio che balla sorridente in casa. Perché "Hasib amava la musica, il cinema, anche se non poteva sentire. Era incensurato, non ha mai fatto del male a nessuno".

Parla nella redazione della cronaca di Roma di Repubblica la madre di Hasib, il 37enne che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della sua camera da letto dopo un controllo di polizia nell'appartamento popolare a Primavalle, estrema periferia Nord della città, e che il Comune di Roma aveva assegnato regolarmente agli Omerovich nel 2019 con il programma di superamento dei campi rom.

Accanto a Fatima ci sono il marito Mehmed Alija, un commerciante di 56 anni, la figlia 16enne Erika, l'avvocato Arturo Salerni, il deputato di +Europa Riccardo Magi e Carlo Stasolla, il rappresentante dell'associazione 21 Luglio che tutela le minoranze rom. 

Partiamo dall'inizio, dove eravate il 25 luglio scorso.

Fatima: "Io, mio marito e mia figlia Erika siamo usciti di casa alle 10,30 per andare a portare la macchina dal meccanico. In casa c'erano solo Hasib che badava alla sorella Sonita che ha 32 anni, ma è affetta da un ritardo mentale. Alle 13,15 ci ha chiamati la vicina di casa e ci ha detto di correre perché Hasib aveva avuto un problema. Poi ci ha passato gli agenti, loro ci hanno detto che Hasib era caduto ed era stato portato in ospedale con un braccio rotto. Così siamo corsi al palazzo".

Cosa avete visto?

Erika: "Appena siamo arrivati abbiamo incontrato due poliziotti in borghese all'ingresso del palazzo, quando siamo arrivati alla porta di casa abbiamo visto una poliziotta che stava uscendo dall'appartamento per ultima, aveva ancora i guanti in lattice. Ci hanno detto che erano entrati in casa per controllare i documenti di Hasib, che la porta della sua camera era già aperta e che lui si era buttato. Ma Hasib non ha mai tentato gesti del genere in vita sua". 

Quando avete capito che quella versione non quadrava?

Fatima: "Appena sono entrata in casa mia figlia Sonita mi è corsa incontro e mi ha abbracciata. Mi ha portata in camera da letto e mi ha detto che mio figlio era stato picchiato, preso a calci, pugni, a bastonate e che poi i poliziotti l'avevano preso per i piedi e lanciato dalla finestra. Mi ha fatto vedere il manico della scopa spezzato e con cui ha visto che l'hanno percosso. La porta della camera da letto era sfondata, il termosifone divelto dal muro".

Come si sono svolti i fatti, secondo la vostra versione?

Erika: "Mia sorella mi ha ricostruito tutto, mimando ogni cosa. Mi ha detto che avevano suonato dei poliziotti, che mio fratello aveva aperto la porta di casa e che loro sono entrati, erano quattro, in borghese. Tre uomini hanno chiesto i documenti ad Hasib e l'hanno portato in camera da letto, mentre mia sorella è rimasta in salone con la poliziotta donna, che ha abbassato la tapparella, l'ha fatta sedere sul divano e le ha detto di stare buona li".

Poi cosa è successo?

Erika: "Sonita ricorda che a un certo punto si sono sentiti degli strilli, la poliziotta si è alzata dal salone per andare a vedere cosa stesse succedendo e mia sorella l'ha seguita. Ha visto quei tre che pestavano Hasib. Lui era in terra e loro lo prendevano a calci, pugni, a bastonate con manico di scopa. Poi ha visto che l'hanno preso per i piedi e l'hanno buttato giù dalla finestra". 

Come sta adesso suo figlio?

Fatima: "Lo hanno portato al Gemelli, gli hanno fatto giù due interventi di chirurgia maxillo facciale. È vivo per miracolo. Ha avuto una emorragia interna ed è politraumatizzato".

Si dice che nel quartiere ce l'avessero con lui perché molestava le ragazze e che qualcuno avesse pubblicato perfino un post su Facebook scrivendo che bisognava dargli una lezione.

Erika: "Noi di questa cosa non sapevamo nulla, nessuno nel palazzo ci aveva mai riferito una cosa del genere. Solo il 27 o il 28 ci hanno girato il post che una residente aveva pubblicato sul gruppo di quartiere 'Primavalle', ha scritto che mio fratello meritava una lezione. Il giorno prima, il titolare del bar sotto casa mi aveva fermata e mi aveva chiesto se il 25, alle 21 avessi potuto portare mio fratello al bar e fare da traduttrice, perché giravano delle brutte voci su di lui. Mi ha detto che dava fastidio alle donne e che bisognava chiarire la faccenda prima che le cose si fossero complicate. Mi ha detto: "Mi dispiace se poi lo mandano all'ospedale"".

L'ha rivisto quest'uomo?

Erika: "Si il 25 quando sono andata a dirgli quello che era successo mi ha risposto: "Putroppo abbiamo fatto tardi, hanno fatto il lavoro sporco".

Il giorno stesso siete andati in ospedale?

Fatima: "Quando siamo andati al Gemelli il medico ci ha ricevuti e ci ha detto che la situazione era molto grave, che mio figlio era in coma e che bisognava aspettare 48 ore per capire se sarebbe sopravvissuto".

Avete ripreso i suoi effetti personali.

Erika: "Si. Ci hanno consegnato un sacchetto con dei vestiti, che però non sono i suoi. Lui quel giorno indossava dei pantaloni i lunghi di una tuta arrotolati fino alle ginocchia e delle scarpe nere. Loro ci hanno dato dei pantaloncini corti marroni e delle scarpe nere ma con la striscia bianca. Sono abiti diversi, sporchi anche quelli".

Siete andati a chiedere spiegazioni alla polizia?

MehmedAlija: "Siamo andati al commissariato di Primavalle, non ci hanno mai ricevuto negli uffici. Abbiamo parlato con due agenti nel cortile, che ci hanno detto solo che avevano fatto loro l'intervento in casa per identificare mio figlio, perché c'erano state delle segnalazioni e volevano fare delle verifiche. Ho chiesto loro se avessero un mandato di perquisizione o delle denunce, mi hanno risposto espressamente di no. Senza spiegare null'altro". 

Quando vi siete accorti delle tracce di sangue in camera?

Fatima: "Il 27 è venuta a casa mia sorella, abbiamo messo a posto la stanza di mio figlio. Abbiamo preso le lenzuola per fare il bucato e ci siamo accorte che erano intrise di sangue".

Perché avete deciso di denunciare pubblicamente l'accaduto a quasi un mese di distanza?

Fatima: "Perché dopo quello che è successo abbiamo paura di vivere a Primavalle. Chiediamo al Comune di assegnarci una casa in un altro quartiere, per noi lì e diventato troppo pericoloso. Tanto che ci siamo già trasferiti a casa di alcuni parenti. Adesso vogliamo sapere la verità, vogliamo giustia per nostro figlio". 

Estratto dall'articolo di Giuseppe Scarpa e Andrea Ossino per “la Repubblica” il 14 settembre 2022.  

"Alle 12,29, al momento dell'accesso all'abitazione Hasib è scappato dalla finestra lanciandosi dal primo piano". Ecco la primissima verità della polizia. La versione, esplicitata in una prima relazione prodotta dagli agenti del commissariato Primavalle e ora confluita nel fascicolo di indagine per tentato omicidio in concorso aperto dalla procura di Roma, respinge al mittente ogni responsabilità. 

Secondo il documento riservato, Hasib, il 36enne di origini rom che il 25 luglio scorso è volato giù dalla finestra della camera da letto mentre era in corso una identificazione, eseguita di iniziativa, senza un mandato da parte dei pm, "si è lanciato dalla finestra cadendo nel cortile interno del palazzo, dove poi è stato soccorso dal 118 che lo ha trasferito al policlinico Gemelli". Non solo.

La versione ora all'esame della procura prosegue: "Era molesto sebbene sordomuto e al commissariato sono arrivate segnalazioni che lo riguardano, in quanto disturba le donne". 

Al momento i magistrati indagano nei confronti di ignoti per tentato omicidio in concorso. Ma presto potrebbero essere iscritti nel registro degli indagati i nomi degli agenti che hanno eseguito l'intervento in via Gerolamo Aleandro, alla periferia Nord di Roma.

Secondo la famiglia, in casa, al momento dell'ingresso della polizia, c'erano solo Hasib e la sorella Sonita, una 32enne con un ritardo mentale. Sonita ha raccontato di aver visto gli agenti picchiare il fratello e poi tirarlo giù dalla finestra. Stando agli elementi ritrovati in casa, diversi interrogativi non hanno ancora una risposta. 

La 32enne assicura di aver visto tre agenti picchiare Hasib con un manico di scopa nella sua camera da letto: il padre Mehmedalija, la madre Fatima e la sorella 16enne Erika, che in quel momento erano dal meccanico, tornati a casa hanno trovato le lenzuola sporche di sangue e un manico di scopa spezzato. Entrambi gli oggetti sono stati sequestrati dal pm. 

Il braccio rotto

Alle 13,15 la 16enne riceve una telefonata dalla vicina di casa, Francesca. "Tornate a casa, c'è un problema con Hasib", riferisce. A quel punto uno degli agenti presenti le prende il telefono, si qualifica come poliziotto, e dice: "Hasib è ferito, sta bene, si trova in ospedale". La famiglia Omerovic si precipita a casa, alle 13,30 è davanti al portone. Trovano quattro agenti in borghese che spiegano: "Hasib sta bene, ha solo un braccio rotto. E' stato portato con l'ambulanza al Gemelli". In realtà Hasib è già in coma. […]

Chi apre agli agenti

Quando Mehmedalija va a chiedere spiegazioni al commissariato un agente gli dice informalmente: "Abbiamo suonato, la porta è stata aperta da Hasib, lui era molto tranquillo e si è fatto scattare delle foto mentre ci consegnava i documenti". Però Hasib è sordo, non poteva sentire il campanello. È stata invece Sonita ad aprire la porta. […] 

Secondo la famiglia, però, la serranda della camera di Hasib era rotta da tempo, non si apriva se non forzandola. Quando rientrano a casa dopo la caduta, la trovano spalancata. La porta della camera da letto è scardinata, come un termosifone divelto dalla parete.

"Hasib aveva molestato la nipotina di un poliziotto: poi la spedizione punitiva", la pista shock della procura. Luca Monaco, Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 17 Settembre 2022. 

L'inchiesta sul disabile caduto dalla finestra: l'ingresso da sceriffi dei quattro agenti a casa del rom sarebbe collegato a un fatto privato. Rimossi i vertici del commissariato

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona.

Estratto dall’articolo di Luca Monaco, Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 17 settembre 2022.

Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da "sceriffi", a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell'appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona. 

Forse proprio da Omerovic? È la domanda che quel giorno ronza nella testa dei quattro agenti. Questa è una pista su cui lavora la procura di Roma e che spiegherebbe anche un atteggiamento particolarmente severo dei poliziotti di fronte al 36enne.

Anche perché sul conto di Omerovic, a Primavalle, iniziano a girare parecchie voci, per nulla positive. Si dice che sia un "molestatore di ragazzine". Niente di provato. Ma il chiacchiericcio circola sempre con maggiore insistenza e induce i poliziotti a voler verificarne l'autenticità prima che qualcuno possa passare alle maniere forti e aggredire il 36enne sulla base di meri pettegolezzi di quartiere. 

L'identificazione, in questo senso, diventa un mezzo per muovere una prima indagine embrionale. Una prima verifica. L'atteggiamento degli agenti però, di fronte all'uomo, è particolarmente intransigente perché uno di loro forse sarebbe coinvolto in prima persona. Il motivo? La sua nipotina è stata disturbata da Omerovic. Il pm Stefano Luciani, che indaga per tentato omicidio e falso, lavora a questa ipotesi. Una pista su cui sono impegnati gli agenti della squadra mobile.

Dalla loro gli agenti hanno delle immagini già recapitate ai magistrati e che proverebbero come il 36enne abbia invece fatto tutto da solo. La prima foto scattata ad Hasib da un investigatore di lungo corso, forse il più esperto dei quattro, mostra il ragazzo seduto, in perfetta salute, con lo sguardo comunicativo e senza alcun segno in volto. […] 

La prima istantanea giocherebbe un ruolo determinante se messa a sistema con la seconda immagine, scattata solo due minuti più tardi e che mostra il 36enne sdraiato in terra dopo la caduta, sul retro del palazzo.

Tra il primo e il secondo scatto, stando agli orari registrati sul cellulare, intercorrerebbero solo due minuti, non di più: è il tempo che si impiega a uscire dall'appartamento e poi a fare il giro dello stabile, percorrendo una seconda rampa di scale, fino al ballatoio sul quale Hasib ha rischiato di morire. […]

Estratto dall'articolo di Andrea Ossino per “la Repubblica - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

La fotografia del corpo di Hasib Omerovic disteso sull'asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da letto, non è l'unica istantanea scattata quel giorno. Ci sono alcune fotografie che raccontano ciò che è accaduto in quella casa al primo piano di via al civico 24 di via Girolamo Aleandro, tra il lotti popolari di Primavalle: sono immagini che mal si coniugano con la tesi dei poliziotti, secondo cui Hasib si sarebbe improvvisamente lanciato dalla finestra. 

Piuttosto sembrano confermare il racconto di Sonita, la sorella della vittima, una ragazza che potrebbe non essere ritenuta attendibile per la sua disabilità. A supporto della versione di Sonita ci sono le immagini finite sulla scrivania del pm Stefano Luciani che indaga per falso e tentato omicidio. 

Il sospetto è che si sia trattato di un intervento muscolare, di una spedizione organizzata dagli agenti per intimorire il trentaseienne, nella convinzione che potesse aver infastidito una parente, forse la nipote, di uno dei quattro poliziotti coinvolti. […]

La sequenza di fotografie sono a supporto del racconto della sorella di Hasib. La ragazza dice di aver aperto la porta, «una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa, la donna ha chiuso la serranda della finestra del salone, hanno chiesto i documenti di Hasib» . Ed effettivamente, dicono i parenti del ragazzo mostrando la prima foto, «sul tavolo del salone abbiamo ritrovato in bell'ordine una serie di documenti e altri effetti personali di Hasib».

«Hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con il bastone», continua il racconto che Sonita ripete da quel giorno come un mantra. La seconda immagine mostra infatti «il bastone di una scopa spezzato all'interno della camera da letto». «Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli i calci, è scappato in camera e si è chiuso in camera loro hanno rotto la porta, gli hanno dato pugni e calci», prosegue la ragazza rendendo altre tre foto sospette. 

La prima ritrae «la serratura della porta d'ingresso della camera di Hasib: è completamente divelta ed è stata rinvenuta smontata, a terra, dietro a un secchio della camera". I segni sullo stipite mostrano con ogni evidenza che la porta è stata sfondata, mentre la seconda e la terza foto, quelle che ritraggono i resti di un ventilatore adagiati per terra e «la tubatura esterna del termosifone della camera da letto di Hasib sradicata dal muro», sembrano elementi caratteristici di una colluttazione. […]

E poi ci sono tutti gli altri elementi, le altre foto, le macchie che sporcano di sangue il ponte di Brooklyn e lo skateboard stampati sulla felpa grigia indossata da Hasib, le macchie ematiche sulle lenzuola verdi e le immagini che certificano l'unica verità: Hasib disteso sull'asfalto, dopo un volo di 9 metri. «Lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù», dice Sonita. Una dichiarazione che ha portato la procura a ipotizzare il reato di tentato omicidio.

Estratto dall'articolo di Rinaldo Frignani per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 19 settembre 2022.

Il sospetto che almeno un agente che doveva essere di riposo, appartenente a uffici diversi dalla polizia giudiziaria del commissariato Primavalle, delegati a compiere indagini rispetto ai colleghi incaricati del pattugliamento del territorio, si trovasse invece nel pomeriggio del 25 luglio scorso nell’appartamento di via Gerolamo Aleandro, solo a poche centinaia di metri dal distretto, da dove Hasib Omerovic è volato dalla finestra della camera da letto.

Una nuova ipotesi si affaccia sul caso del ferimento del 36enne rom, sordomuto dalla nascita, tuttora in prognosi riservata al Policlinico Gemelli: non è più in pericolo di vita e potrebbe essere interrogato da chi indaga quando i medici daranno l’ok sulla base delle sue condizioni di salute.  

Lo stesso sarà fatto, in audizione protetta, con la sorella di 31 anni, affetta da gravi problemi psichici, unica testimone diretta dell’irruzione in casa da parte di 4 poliziotti in borghese, come raccontato nell’esposto presentato in procura il 10 agosto scorso dai genitori. […]

Grazia Longo per “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

C'è una testimone del volo dalla finestra di Hasib Omerovic. Si tratta della vicina di casa del quarto piano, C. G., brasiliana che parla benissimo l'italiano e che lavora come mediatrice culturale.

Che cosa ha visto esattamente la mattina del 25 luglio scorso?

«Stavo annaffiando le piante sul balcone e quindi guardavo verso il basso: all'improvviso ho visto Hasib cadere giù. Non riuscivo a credere ai miei occhi eppure l'ho visto proprio mentre precipitava dalla finestra». 

È riuscita a capire se lo avevano spinto o se si era buttato lui di sua iniziativa?

«No, sinceramente non ho potuto rendermi conto di questo. Dall'alto, dal punto in cui mi trovavo io, non sono riuscita a distinguere se la caduta fosse spontanea o indotta da qualcun altro».

Ma lo ha visto cadere di spalle o con il viso rivolto verso di lei?

«Sinceramente questo non lo ricordo. Ero troppo scioccata, ancora adesso al ricordo mi tremano le gambe». 

E dopo, ha notato qualcuno vicino al corpo del giovane?

«Sì, dopo un po' sono arrivati i poliziotti nel cortile». 

Che cosa facevano?

«Cercavano di aiutarlo. Hasib aveva provato a spostarsi, si è trascinato fin quasi alla ringhiera ma poi non ce l'ha fatta più a muoversi e i poliziotti gli stavano prestando i primi soccorsi in attesa dell'ambulanza». 

Lei era sola in casa?

«No, c'era anche mio figlio. Ma stava dormendo quindi lui non ha visto niente».

Prima di assistere al volo dalla finestra, ha sentito provenire urla o lamenti dall'appartamento di Hasib? Ha udito richieste di aiuto?

«No, non ho sentito nulla anche perché lui abita al piano terreno-piano rialzato e io al quarto. Hasib è sordo ma comunica, oltre che con i gesti, con dei suoni gutturali. La sorella disabile che era in casa con lui, Sonita, parla, ma ripeto io non ho sentito alcun trambusto quella mattina. Solo la scena a cui ho assistito con i miei occhi». 

Ha comunicato questi particolari alla polizia?

«Sì, sono stata interrogata e ho detto tutto quello che ho visto e che so. Spero proprio che si chiarisca quello che è accaduto con quei quattro poliziotti. Certo, però è un peccato che i due fratelli disabili fossero soli in casa. Io mi domando: ma com'è possibile che, in assenza dei loro genitori, non ci fosse con loro un educatore, un assistente sociale? La loro madre, Fatima, mi aveva detto che erano seguiti da un assistente sociale ma io non ho mai visto nessuno. E credo non sia giusto perché persone con questi handicap non possono essere abbandonate in un quartiere popolare com'è Primavalle. Perché altrimenti va a finire che al degrado si aggiunge degrado».

Un post su Facebook segnalava che Hasib molestava donne e ragazzine del quartiere. Era a conoscenza di episodi del genere?

«Sapevo che girava questa voce, ma io personalmente non ho mai visto Hasib dare fastidio a qualcuno. Girava sempre con un passeggino vecchio per recuperare oggetti dai cassonetti della spazzatura, salutava a modo suo quando lo incrociavo per strada, ma non so dire se le voci sulle presunte molestie corrispondano alla realtà». 

La famiglia di Hasib si era integrata nel palazzo?

«Non credo ci fossero pregiudizi nei loro confronti, ma non so fino a che punto fossero inseriti nel tessuto sociale locale. Stavano molto per conto loro e spesso litigavano forte tra di loro, tanto che qualcuno chiamava la polizia per sedare le liti. Siamo di fronte a una vicenda molto triste. Non solo perché c'è un giovane disabile in coma in ospedale e perché non si sa se sia stato lanciato giù di proposito o se si sia buttato lui per scappare, ma perché il tutto è avvenuto in un quartiere difficile. In un'area della città con mille problemi di cui però non interessa niente a nessuno. Oggi qui è pieno di giornalisti, ma di solito siamo abbandonati a noi stessi».

Il blitz scattato per un'accusa web di molestie. La "squadretta speciale" al pm: "Sua la reazione violenta. Il tentativo di salvarlo". Stefano Vladovich il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

La finestra chiusa nonostante l'afa. I vetri infranti a terra, lo scotch sull'infisso al mezzanino di una palazzina popolare. E poi loro, i quattro agenti di polizia, tre uomini e una donna, della «speciale» di Primavalle, intervenuti dopo una segnalazione su un omone che si aggira tra i cassonetti a spaventare le donne. E adesso accusati di tentato omicidio.

Cosa è accaduto il 25 luglio nell'appartamento assegnato agli Omerovic in via Gerolamo Aleandro 24 lo vogliono capire gli stessi poliziotti del commissariato locale e della questura di Roma. Niente mandato, nessuna denuncia scritta, eppure gli elementi raccolti suggeriscono il blitz in casa di Hasib, 36 anni, sordomuto dalla nascita, con una sorella più piccola disabile, con importanti ritardi mentali. I quattro si sarebbero giustificati spiegando che in alcuni casi si può intervenire anche senza un mandato della Procura. Quali? Il sospetto di armi e droga. Di certo l'uomo, incensurato, che versa in condizioni gravissime all'ospedale Agostino Gemelli da 50 giorni, non aveva fatto mai male a nessuno, tanto meno era uno spacciatore. Lo raccontano gli abitanti del quartiere che lo vedevano tutti i giorni rovistare nella spazzatura. Ma tutto questo gli agenti non lo sanno. Le segnalazioni arrivate, anche attraverso i social, parlano di un personaggio inquietante.

A far scattare l'allarme un episodio accaduto il giorno prima. È domenica pomeriggio, una donna, Paola Camacci, cammina con la figlia quando vede Hasib che fotografa la ragazza. «Gli ho detto: Guarda che ti ho fotografato pure io - racconta -, ma lui ci ha seguito fino all'androne del nostro palazzo, siamo morte di paura». È così che nasce il post, ora rimosso, con l'immagine di Hasib che urla accanto a un passeggino colmo di rifiuti. Bisogna prendere provvedimenti» concludeva la chat. «Ma io non ho sporto nessuna denuncia» chiarisce la donna. Ai poliziotti, però, basta. La «squadretta» della polizia, agenti abituati ad agire in borghese per combattere lo spaccio di droga in una zona ad alto rischio, interviene il giorno dopo.

«Come tutti i sordomuti Hasib emette suoni gutturali quando cerca di farsi capire - spiega un uomo -, a qualcuno faceva paura, specialmente la sera. Ma era innocuo». Gli agenti decidono di fare la perquisizione. Non è chiaro se di questo ne fosse a conoscenza il dirigente del commissariato, fatto sta che i quattro bussano alla porta degli Omerovic, una famiglia di etnia rom trasferita da un campo sosta in un'abitazione assegnata dal comune di Roma. La madre di Hasib, Fatima Sejdovic, non c'è. Il padre nemmeno. Disoccupati, i quattro vivono con le pensioni di invalidità dei figli e, a detta dei vicini, non hanno faticato a inserirsi nel tessuto sociale di Primavalle. Una famiglia, comunque, ai margini. I dirimpettai delle palazzine di via Pietro Bembo raccontano che Hasib veniva spesso picchiato dai genitori.

I quattro entrano, cosa succede esattamente è riportato nell'informativa che la polizia ha già inviato ai pm Michele Prestipino e Stefano Luciani che hanno aperto un fascicolo per tentato omicidio. Porte e finestre chiuse, nessuno sente quello che dicono i quattro al 36enne. A un certo punto nell'appartamento scoppia il finimondo. Il manico di una scopa spezzato, la porta della camera sfondata, un termosifone divelto e poi tracce di sangue: è la scena fotografata dai legali degli Omerovic. La sorella che mima il gesto del fratello che si aggrappa al calorifero. È Hasib ad afferrare la scopa e a scagliarla contro i poliziotti o viceversa? Secondo i quattro la situazione sfugge di mano per la reazione dell'uomo. Ma tutti gli indagati sostengono con fermezza che non l'hanno gettato loro dalla finestra. «Abbiamo cercato di salvarlo» mettono a verbale.

Giù dal balcone, Hasib in coma. "Quei 4 agenti senza mandato". Inchiesta sulla perquisizione a casa di Omerovic. La teste: "Ho visto i poliziotti in cortile". La Cucchi: "Chiarezza". Tiziana Paolocci il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Hasib era a terra, la schiena coperta di sangue. Si batteva le mani sulle gambe, come per far capire che era stato preso per i piedi...». Gli abitanti di via Gerolamo Aleandri, nel quartiere di Primavalle, a Roma, hanno impressa negli occhi la scena che si sono trovati davanti il pomeriggio del 25 luglio, quando Hasib Omerovic, 36 anni, sordomuto di etnia rom, senza parlare aveva detto abbastanza.

L'uomo era finito nel reparto di rianimazione del Gemelli piombando giù per otto metri dal primo piano, dopo un controllo effettuato nella casa popolare assegnata a genitori e sorelle (una disabile come lui) da parte di quattro poliziotti. Quattro agenti, che non avevano ricevuto però alcun mandato di perquisizione da parte della Procura. Lo svelano le indagini che i pm di piazzale Clodio stanno conducendo insieme alla squadra mobile. Il fascicolo, per ora contro ignoti, è aperto per tentato omicidio, mentre il capo della polizia Lamberto Giannini ha fatto sapere che «segue in prima persona» le indagini.

Sarà da chiarire se si sia trattato di una perquisizione coordinata da un funzionario o di una decisione presa dai poliziotti, che saranno ascoltati presto. Ma la vicenda riporta alla mente le agghiaccianti immagini di Stefano Cucchi. Hasib, invece, si è salvato, dopo essere rimasto ricoverato nella rianimazione del Policlinico Gemelli fino al 27 agosto scorso. I familiari del disabile, assistiti dall'avvocata Susanna Zorzi, vogliono chiarezza. «Non mi fermerò fino a quando non saprò la verità» dichiara la mamma, Fatima Sejdovic - ora abbiamo paura, ci sentiamo seguiti e minacciati».

A trovare il 36enne, a una ventina di metri da dove era caduto, era stato il 118. Ma la sorella Sonita, presente al momento della perquisizione, aveva subito puntato il dito contro i quattro agenti in borghese. «Hanno chiesto i documenti di mio fratello, hanno fatto le foto, lo hanno picchiato con un bastone - ha raccontato Sonita -. Hasib è caduto e hanno iniziato a dargli calci. È scappato in camera: loro hanno rotto la porta, gli hanno dato calci e pugni, poi lo hanno preso per i piedi e lo hanno buttato giù».

Ora si attendono i rilievi sul manico di scopa spezzato e su un lenzuolo macchiato di sangue già sequestrati. I familiari hanno anche messo a disposizioni della Procura foto in cui è visibile un termosifone parzialmente staccato dal muro e sangue intorno alla porta della stanza in cui Hasib si sarebbe rifugiato.

Secondo il legale della famiglia Omerovic a portare la polizia nell'abitazione di via Aleandri sarebbe stato un post, poi sparito, sulla pagina Fb di quartiere, in cui si accusava Hasib di molestie. Nel post una sua foto e l'avvertimento a fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». E una minaccia: «Bisogna prendere provvedimenti». Per questo i poliziotti di Primavalle si sarebbero presentati per identificare il soggetto e forse prevenire violenze di genere. «È un ragazzo buono dicono in via Aleandri spesso qualcuno qui gli regala cose da mangiare. Temiamo che venisse maltrattato, costretto a raccogliere oggetti nei cassonetti. Di notte lo abbiamo sentito lamentarsi». «Quel giorno l'ho visto attaccato a quella ringhiera - spiega Loredana, una testimone - c'era anche una donna che gli agenti chiamavano dottoressa. A lui dicevano non ti muovere, ma lui si voleva alzare. Si è alzato, è arrivato fino a qui (indica pochi metri più avanti) poi si è accasciato. Penso al dolore che poteva provare, era tutto rotto, aveva gli occhi di fuori». Hasib è ancora grave in ospedale. Nella zona dello stabile sarebbero stati presenti 8-10 agenti, alcuni in borghese. Presto potrebbero arrivare i primi indagati.

«Mi auguro che venga fatta chiarezza a 360 gradi senza fare sconti a nessuno», ha commentato Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, candidata al Senato con l'alleanza Sinistra Italiana-Verdi. L'eurodeputato di S&D, Massimiliano Smeriglio ha annunciato che presenterà un'interrogazione al Parlamento europeo e Loredana De Petris, di Leu al Senato.

Hasib giù dal balcone: tutti i punti da chiarire e l'ipotesi depistaggio. Fascicolo per ora contro ignoti: gli indagati salgono a 8, i pm pronti a sentire gli agenti. Stefano Vladovich il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quaranta giorni di silenzio, poi l'inchiesta. Nel blitz in casa Omerovic, a Primavalle, i punti che non tornano ai magistrati sono molti. A cominciare dal post su Fb che avrebbe mosso la «squadretta» della polizia giudiziaria. La donna che il 24 luglio l'ha messo in rete nel gruppo di quartiere viene ascoltata 9 giorni fa dalla squadra mobile romana, ben 42 giorni dopo il fatto.

Eppure la sua testimonianza è fondamentale per chiarire il motivo che spinge la polizia a interrogare un possibile molestatore, senza mandato della Procura e senza denuncia scritta e orale. Dunque senza i requisiti necessari, la flagranza di reato o il sospetto di armi e droga, per intervenire. La relazione di servizio è stata fatta in un secondo momento? E perché arriva alla «mobile» solo dopo che scoppia il caso? Oltre ai quattro agenti in borghese, chi c'era nell'appartamento al piano rialzato di via Gerolamo Aleandro 24? I poliziotti si presentano da un disabile, sordomuto, senza alcun sostegno. Il dirigente del commissariato sapeva quello che faceva la «speciale»? Gli indagati per tentato omicidio, intanto, salgono a otto e non si esclude che si possa procedere anche per falso e depistaggio. Sul posto, dopo il volo di otto metri e mezzo di Hasib, i residenti vedono altri poliziotti, tutti in divisa. La versione che riportano ai genitori, Mehmedalija Omerovic e sua moglie Fatima Sejdic, quando rientrano con la figlia Erika, parla di un accertamento in quanto il figlio avrebbe molestato delle donne nel quartiere. «Improvvisamente sentiamo aprire le tapparelle della camera da letto e vediamo Hasib gettarsi dalla finestra» spiega loro un poliziotto di Primavalle, tale Andrea. Forse questo è l'unico punto certo. Il 36enne si sarebbe gettato nel cortile interno, che non è però allo stesso livello del piano stradale, per fuggire. Il perché lo mima a gesti la sorella Sonita, una donna di 30 anni che ha però gravi disturbi psichiatrici: le botte. Hasib potrebbe aver reagito male all'irruzione degli agenti, anche se la polizia racconta al padre che il figlio era calmo e con tranquillità avrebbe consegnato loro i documenti. Ma il sangue a terra e sul letto, il termosifone divelto nel tentativo di sottrarsi alle guardie, la porta sfondata dicono il contrario. Cioè che la mattina del 25 luglio in quell'appartamento la situazione deve essere sfuggita di mano ai poliziotti. Ma ancora non si può escludere del tutto che a spingere l'uomo di sotto siano stati gli agenti.

Il manico della scopa spezzato in due: l'ha scagliato Hasib per difendersi o è stato usato per picchiarlo? Oppure, terza ipotesi, a romperlo è stato il padre del disabile, visto che i dirimpettai di via Pietro Bembo raccontano che il giovane veniva picchiato dagli stessi genitori? L'intervento fin troppo tempestivo alle case popolari.

Gli agenti conoscevano già il soggetto, probabilmente era stato già attenzionato tanto che basta un post sui social di quartiere per farli arrivare all'indirizzo giusto. «Non ho fatto nessuna denuncia in polizia» ribadisce Paola Camacci. La donna, spaventata da Hasib, scrive in rete di «fare attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze». Dalla foto di Hasib alla comparsa degli agenti in casa è un attimo. Sull'esposto i genitori insistono: «Hasib non avrebbe potuto aprire perché non sente. E anche se la sorella gli avesse fatto capire che suonava qualcuno alla porta, gli abbiamo sempre raccomandato di non aprire a nessuno».

Disabile vola giù dalla finestra durante una perquisizione: «Pestato dagli agenti». Il tragico episodio è stato denunciato alla Camera da Riccardo Magi: gli agenti avrebbero fatto irruzione in borghese, senza un mandato. Il 37enne di origini rom ora è in coma, i pm indagano per tentato omicidio. Valentina Stella su Il Dubbio il 13 settembre 2022.

Un uomo sordomuto in coma, un volo dal balcone, dei poliziotti sulla scena, e tanti punti da chiarire. È questa la sintesi della drammatica vicenda del giovane di etnia rom Hasib Omerovic, disabile di 37 anni, precipitato il 25 luglio dalla finestra di un appartamento di uno stabile di edilizia popolare a Primavalle nel corso di un presunto controllo delle forze dell’ordine. La storia è stata resa nota oggi durante una conferenza stampa convocata dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, alla Camera dei deputati. Con lui erano presenti Fatima Sejdovic, la madre della vittima, Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, e gli avvocati della famiglia Susanna Zorzi e Arturo Salerni.

«Questa è una vicenda tragica – ha esordito il parlamentare radicale -, resa ancora più sconvolgente dalla mancanza di chiarezza e verità in cui è avvolta. La famiglia ha deciso di renderla nota affinché l’attenzione pubblica aiuti a sapere la verità». Magi ha presentato una interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, non potendosi utilizzare lo strumento dell’interpellanza urgente essendo sciolte le Camere. Nell’atto di sindacato ispettivo è riassunto l’esposto presentato dalla famiglia alla Procura della Repubblica di Roma, grazie alla testimonianza della sorella di Hasib, presente quel giorno in casa: «Il 25 luglio mattina H., sordomuto, si trovava nella sua abitazione a Roma con sua sorella S., disabile, mentre i genitori e la sorella E. erano fuori casa, quando presso l’abitazione si recano quattro agenti della Polizia in borghese; il giorno precedente, la sorella E. era stata avvicinata dal proprietario di un bar della zona che le aveva riferito che stava girando su Facebook un post “perché H. ha importunato alcune ragazze del quartiere e lo vogliono mandare all’ospedale”, chiedendo di vedersi anche con H. il giorno dopo per parlarne; il post sarebbe stato rimosso, ma i familiari sono in possesso di uno screenshot allegato agli atti; il testo, accompagnato dalla foto del ragazzo, recitava: “FATE ATTENZIONE a questa specie di essere, perché importuna tutte le ragazze bisogna prendere provvedimenti”».

Il giorno della tragedia alle 13.12, prosegue l’interrogazione, «la sorella E. riceveva una telefonata della vicina che li invitava a tornare immediatamente a casa e che passava il cellulare a un agente, il quale li avvisava che H. era ferito e si trovava all’ospedale; rientrati a casa, alcuni agenti in borghese li rassicuravano circa le condizioni del figlio, che “aveva solo un braccio rotto”; in realtà H. era ricoverato al Gemelli in rianimazione con prognosi riservata; tuttora è polifratturato, ha subito un intervento chirurgico al volto e si trova in uno stato di coma vigile, tanto che non è gli è possibile comunicare». Sempre secondo quanto riportato nell’esposto, «nei giorni successivi un agente del commissariato di Primavalle avrebbe riferito informalmente ai familiari che H. avrebbe “infastidito molestandole alcune ragazze del quartiere”, per cui gli agenti si sarebbero recati nella sua abitazione per chiedere l’esibizione dei documenti; secondo il racconto dell’agente, H. sarebbe rimasto tranquillo, tanto che gli stessi gli avevano scattato delle foto, ma mentre stavano andando via, avrebbero sentito alzare la tapparella della finestra della camera da dove H. si sarebbe buttato».

La sorella S., unica testimone oculare della vicenda, pur essendo affetta da disabilità, ha raccontato «in modo chiaro sia ai genitori che all’amministratore di sostegno: “ho sentito suonare e ho aperto la porta… una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa.La donna ha chiuso la serranda della finestra del salone… hanno chiesto i documenti di H. Hanno fatto le foto… lo hanno picchiato con il bastone, H. è caduto e hanno iniziato a dargli i calci… è scappato in camera e si è chiuso… loro hanno rotto la porta… loro gli hanno dato pugni e calci… lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù”». Nell’esposto i familiari riferiscono, allegando le foto, che «la serratura della porta di ingresso della camera di H. è completamente divelta, la tubatura esterna del termosifone sradicata dal muro, il rinvenimento del bastone di una scopa spezzato e di sangue sul lenzuolo».

Durante la conferenza stampa a domanda di un giornalista, l’avvocato Salerni ha escluso, in base alle testimonianze raccolte, che il volo dalla finestra sia stato preceduto da una spedizione punitiva del quartiere contro Hasib. E allora, se c’erano solo i poliziotti, perché sono entrati a casa di Hasib? Avevano un mandato? Hasib è stato prima picchiato e poi lanciato dalla finestra dagli agenti? Forse hanno pensato che essendo l’appartamento a piano terra, anche la finestra non avesse un vuoto di 9 metri sotto? C’è un verbale della perquisizione? Sono stati effettuati dei rilievi da parte della polizia giudiziaria? Queste sono alcune delle domande a cui dovrà rispondere il pubblico ministero Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Si indaga per tentato omicidio in concorso.

Per tutto questo l’onorevole Magi chiede alla ministra «se sia a conoscenza della vicenda riportata in premessa e se, al di là dei profili di competenza dell’autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di Stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso».Stasolla ha annunciato di aver lanciato con l’Associazione 21 luglio due appelli: «Uno al Comune di Roma per una nuova abitazione per la famiglia di Hasib. Era stata loro regolarmente assegnata ma se ne sono dovuti andare per il clima che c’è intorno. E un altro al Capo della Polizia Lamberto Giannini affinché si adoperi a far luce sulla vicenda». La madre di Hasib ha concluso: «Voglio sapere la verità e voglio giustizia per mio figlio. Ha 37 anni e non ha precedenti. So che non ha fatto male a nessuno».

Caso Hasib Omerovic, la procura: “Agenti in casa senza mandato”. Nuovi dettagli sul tragico episodio a Primavalle denunciato alla Camera. Gli agenti coinvolti saranno sentiti nell'ambito dell'indagine per tentato omicidio. Cucchi: «Attendiamo risposte». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Nessun mandato di perquisizione da parte della Procura di Roma. È quanto emerge, secondo l’Ansa, dai primi accertamenti svolti nell’ambito dell’indagine sul caso di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato.

Sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda sul social network era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto si apprende, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa, viene sottolineato all’Ansa, per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo. Ora chi indaga sull’accaduto dovrà chiarire se sia trattata di una perquisizione di iniziativa coordinata da un funzionario o di una decisione presa dagli agenti che verranno sentiti nei prossimi giorni dagli inquirenti. Questo significa che sono stati quindi identificati: un primo passo avanti rispetto all’opacità che avvolge tale caso, balzato alla cronaca nazionale grazie all’iniziativa del parlamentare radicale Riccardo Magi, Presidente di +Europa, e al presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla.

Gli uomini della Squadra mobile della capitale, a cui la Procura di Roma ha delegato le indagini, hanno ascoltato intanto i vicini di casa della famiglia Omerovic. L’intenzione è quella di muoversi velocemente sia per rispondere alla domanda di verità della famiglia del 37enne, che resta in ospedale in coma vigile senza possibilità di fornire la sua versione, ma anche a tutela dei poliziotti, per i quali vale come per tutti la presunzione di innocenza, ça va sans dire. Per ora i magistrati Stefano Luciani, che ricordiamo essere stato il pm  del processo sul cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, e Michele Prestipino procedono per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Bisogna capire se Hasib è stato lanciato dagli agenti o se si è buttato per sfuggire ad un pestaggio. La famiglia Omerovic esclude categoricamente un tentativo di suicidio. Tutto dipenderà da quanto saranno ritenute credibili le dichiarazioni della sorella di Hasib che era in casa con lui al momento dei fatti: anch’ella disabile (psicofisica), è l’unica testimone oculare dei tragici fatti di quel giorno. Poi saranno importanti anche le voci dei vicini. Nel quartiere popolare di Primavalle le persone, i testimoni, chi sa qualcosa hanno paura di parlare ma come ci ha detto l’avvocato Arturo Salerni, che assiste la famiglia Omerovic insieme alla collega Susanna Zorzi, «alcune collaborazioni ci sono state. Domani chiederemo anche noi di essere ascoltati dalla Procura. Ma ci preme soprattutto che il Ministro dell’Interno Lamorgese dia subito una risposta all’interrogazione fatta dall’onorevole Riccardo Magi».

Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Noi aggiungiamo: come mai si muore o si rischia di morire nelle mani dello Stato? Ricordiamo alcuni nomi, grazie proprio alle storie raccolte da A buon diritto: «Andrea Soldi, 45 anni, nell’agosto 2015 viene sottoposto contro la sua volontà a un violento Tso a seguito del quale perde la vita. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 dopo aver attraversato undici luoghi delle istituzioni e non essere stato tutelato in nessuno di questi. Federico Aldrovandi, 18 anni, muore all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara sotto i colpi infertigli da quattro agenti di polizia. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe Uva muore a Varese dopo una notte passata nella caserma dei carabinieri».

E' sordomuto dalla nascita, la madre: "Famiglia devastata, costretti ad andare via". La storia di Hasib, la gogna sui social e il volo dalla finestra dopo il pestaggio della “polizia”: è in coma, “lo hanno buttato giù”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Chiedono giustizia per Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto dalla nascita in coma vigile da 50 giorni all’ospedale Gemelli di Roma dopo essere precipitato dalla finestra di casa, da una altezza di circa otto metri in seguito a un violento pestaggio avvenuto il 25 luglio scorso ad opera di quattro persone qualificatesi come agenti di polizia, ma su quest’ultimo aspetto va fatta chiarezza. La vicenda di Hasib è stata denunciata oggi, lunedì 12 settembre, in una conferenza stampa alla Camera dei Deputati organizzata dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e da Carlo Stasolla, portavoce dell’associazione 21 luglio, e alla quale hanno partecipato la madre di Hasib, Fatima Sejdovic e gli avvocati della famiglia, Arturo Salerni e Susanna Zorzi.

La famiglia del 36enne, di origine rom, composta dai genitori e da quattro figli, di cui due minori e due disabili adulti, da circa tre anni è fuoriuscita dall’insediamento di provenienza per fare ingresso in un’abitazione dell’edilizia residenziale pubblica in zona Primavalle, a Roma. E’ qui che il 25 luglio scorso è avvenuta la brutale aggressione in casa, prima del volo dalla finestra di Hasib, ricoverato coma in ospedale.

Il 5 agosto scorso la madre e il padre di Hasib hanno depositato un esposto alla Procura della Repubblica di Roma (che ha aperto un fascicolo contro ignoti per tentato omicidio in concorso) nel quale vengono riportati i fatti che sarebbero accaduti nei giorni precedenti. Tutto sarebbe nato da un post pubblicato su Facebook in un gruppo di quartiere (e successivamente cancellato) nel quale viene messo in cattiva luce il 36enne. “Fate attenzione a questa specie di essere perché importuna tutte le ragazze, bisogna prendere provvedimenti” c’è scritto nel commento alla foto dello stesso Hasib.

Dopo la pubblicazione del post (poi rimossa) viene contattata la sorella di Hasib, anche lei disabile. A cercarla è il proprietario di un bar della zona che avverte la donna sulle voci che stanno girando nel quartiere sul fratello e sull’intenzione di alcune persone di volerlo “mandare in ospedale.

Il 25 luglio, pochi giorni dopo quel post, Hasib e la sorella, da soli in casa, ricevono la visita di quattro persone che, senza mandato, si qualificano come agenti della polizia. Entrano in casa e dopo aver controllato i documenti del 36enne, inizia – stando alla testimonianza della sorella – la brutale aggressione. Hasib viene picchiato con un bastone e poi preso a calci e pugni. Prova a rifugiarsi nella sua camera ma le quattro persone – una donna e tre uomini – sfondano la porta e continuano a picchiarlo. L’esposto riporta inoltre che, quando i presunti agenti escono dall’abitazione, il corpo di Hasib giace insanguinato sull’asfalto, dopo essere precipitato dalla finestra della sua camera da un’altezza di circa 8 metri, andando a impattare sul manto del cemento sottostante. Secondo la testimonianza della sorella, Hasib sarebbe stato presi “per i piedi e buttato giù” dagli agenti.

All’interno dell’abitazione sarebbero stati successivamente rinvenuti il manico di una scopa spaccato in due e numerose macchie di sangue su vestiti e lenzuola. La porta della camera di Hasib sarebbe risultata sfondata. Portato in ospedale a causa dei numerosi traumi, il 36enne è da 50 giorni in gravissime condizioni. Dopo i primi giorni in cui era in pericolo di vita, adesso è in coma vigile.

“Voglio conoscere la verità di quanto accaduto in quei drammatici minuti dentro la mia abitazione», ha dichiarato Fatima Sejdovic, madre di Hasib che quel giorno era fuori casa con il marito e i due figli piccoli per sbrigare alcune commissioni. “Mio figlio ora è in coma, la vita della mia famiglia irrimediabilmente devastata. Ci siamo dovuti allontanare dalla nostra casa – racconta la donna – perché abbiamo paura e attendiamo dal Comune di Roma una nuova collocazione. Come madre non cesserò di fare di tutto per conoscere la verità su quanto accaduto a mio figlio e agire di conseguenza”.

Il deputato Riccardo Magi ha presentato un’interrogazione al Ministero dell’Interno guidato da Luciana Lamorgese: “Di fronte a questa tragedia e alla dinamica ancora non chiarita che la rende ancora più sconvolgente la famiglia di Hasib chiede e merita risposte chiare e in tempi brevi. La madre ha deciso di mostrare l’immagine scioccante del proprio figlio che giace sull’asfalto dopo essere precipitato, nella speranza che l’attenzione pubblica possa aiutarla ad ottenere verità. Le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità”.

“Non è chiaro il motivo per cui la polizia sia entrata nell’abitazione e abbia richiesto” ad Hasib “i documenti né perché gli siano state fatte delle fotografie. I familiari non sono a conoscenza di eventuali verbali a suo carico né di alcuna attività di indagine specifica svolta dalla PG (rilievi, fotografie), né al loro arrivo sul posto né successivamente” aggiunge Magi che chiede alla ministra Lamorgese se sia “a conoscenza della vicenda e se, al di là dei profili di competenza dell’ autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso”-

Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, organizzazione che segue e supporta la famiglia anche sotto il profilo legale ha dichiarato: “Su questa vicenda, dai profili ancora poco chiari, importante sarà che il lavoro della Magistratura faccia il suo corso senza interferenze e pressioni e che le istituzioni democratiche garantiscano alla madre di Hasib il raggiungimento della verità alla quale ha diritto. Su questo, come Associazione 21 luglio, presteremo la massima attenzione”.

La stessa associazione 21 luglio sul proprio sito ha lanciato un appello con raccolta firme indirizzate al Capo della Polizia Lamberto Giannini, per chiedere, per quanto è nelle sue competenze, di aiutare per fare luce su quanto accaduto la mattina del 25 luglio nell’appartamento di Primavalle dove viveva Hasib. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Il caso del 36enne sordomuto. Hasib, il blitz in casa senza mandato e il volo dalla finestra. La vicina: “I poliziotti erano già lì”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Non c’era nessun mandato di perquisizione nei confronti di Hasib Omerovic, il 36enne sordomuto, di etnia rom, aggredito in casa da alcuni poliziotti e poi precipitato dalla finestra per circa otto metri. E’ quanto emerge dai primi accertamenti della procura di Roma svolti nell’ambito dell’indagine sul tentato omicidio dell’uomo che si trova da 50 giorni in coma all’ospedale Gemelli di Roma. Adesso occorrerà chiarire se si sia trattato di una perquisizione di iniziativa, coordinata da un funzionario, o di una decisione autonoma presa dagli agenti entrati in azione nell’abitazione di via Gerolamo Aleandro in zona Primavalle. Erano almeno quattro i poliziotti che lo scorso 25 luglio hanno visita ad Hasib e presto verranno sentiti dagli inquirenti.

Ad oggi, dopo l’esposto in procura presentato a inizio agosto dai legali della famiglia, gli avvocati della famiglia di origine bosniaca, Arturo Salerni e Susanna Zorzi, sono due i testimoni oculari del blitz a sorpresa degli agenti. Oltre alla sorella Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e che ha materialmente aperto la porta di casa ai poliziotti nella tarda mattinata del 25 luglio scorso, c’è anche la vicina di casa, la prima a telefonare alla sorella maggiore di Hasib, quel giorno fuori casa con i genitori. Al telefono spiega che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso.

La stessa vicina, che chiede l’anonimato, ha raccontato a Corriere e Repubblica: “Stavo innaffiando le piante sul balcone, a un certo punto ho visto Hasib cadere dalla finestra. A terra si lamentava, i poliziotti erano già lì e lo hanno soccorso“. La donna lavora come mediatrice culturale e vive insieme al figlio: “Ho ancora i brividi, ho raccontato tutto alla polizia – spiega dall’uscio del suo appartamento – dopo la caduta ho visto Hasib in terra e i poliziotti che cercavano di aiutarlo. Prima non ho sentito urla, richieste di aiuto o rumori provenire dall’abitazione degli Omerovic”. Poi ha aggiunto: “La mamma di Hasib mi aveva raccontato che lui e la sorella anche lei disabile sono seguiti da un assistente sociale, ma io qua non l’ho mai visto. Persone così dovrebbero essere aiutate veramente, non abbandonate in una casa popolare a Primavalle”.

Intanto la famiglia Omerovic, così come anticipato ieri da Fatima Sejdovic, madre di Hasib, ha chiesto di essere spostata dalla zona di Primavalle, periferia nord-ovest di Roma, perché “ha paura”. “Alla luce di quanto emerso per ragioni di sicurezza – afferma il penalista Salerni – la famiglia ha chiesto di essere allontanata da quella zona”.

"Ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?" Hasib Omerovic, i quattro punti oscuri e le rassicurazioni dei poliziotti dopo la caduta dalla finestra. Angela Stella su Il Riformista il 14 Settembre 2022 

Comincia a squarciarsi il velo di opacità che avvolge la vicenda di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento di Primavalle a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato. Proprio ieri, ossia il giorno dopo la conferenza stampa convocata alla Camera dei Deputati dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, per sollevare pubblicamente il caso, sono emersi i primi dettagli sulla dinamica dei fatti. A quanto appreso dall’Ansa non ci sarebbe stato alcun mandato di perquisizione in mano agli agenti che quel giorno hanno bussato alla porta dell’appartamento della famiglia Omerovic.

Inoltre sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di 37 anni di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo «preventivo», come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda su Facebook era comparso un post – poi cancellato – con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione «a questa specie di essere che importuna le ragazze». Seguito da una minaccia: «bisogna prendere provvedimenti». Un post, secondo quanto appreso sempre dall’Ansa, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo.

E però come è volato dalla finestra il povero Hasib che resta ancora in coma vigile, senza dunque poter fornire la sua versione dei fatti? È caduto nel vuoto per sfuggire ad un pestaggio o lo hanno preso per i piedi gli agenti e lo hanno buttato giù, come riferito da sua sorella? Domande a cui dovranno rispondere per adesso i pm assegnati al caso, Stefano Luciani e Michele Prestipino. Gli inquirenti hanno già sentito dei vicini di casa e si apprestano a raccogliere le dichiarazioni dei quattro agenti che erano in quella casa quella mattina. Sono stati dunque identificati ma si continua per il momento a procedere per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Non si esclude a breve una loro iscrizione nel registro degli indagati, anche solo come atto dovuto. Sarebbe stata acquisita dagli investigatori anche la relazione di servizio sull’attività di quel giorno. Restano tuttavia diversi punti oscuri su questa terribile storia.

Il primo che non torna è il seguente: secondo la famiglia Omerovic un agente di nome Andrea del Commissariato Primavalle avrebbe detto loro informalmente che Hasib avrebbe loro aperto la porta dell’appartamento. Ma come avrebbe fatto a sentire il campanello se è sordo? Proprio a causa della sua condizione, la famiglia gli ha insegnato a non aprire a nessuno per qualsiasi ragione neppure se un parente gli avesse fatto capire che c’era qualcuno alla porta di ingresso, soprattutto in assenza dei genitori e della sorella Erika, proprio come accaduto quel 25 luglio.

Secondo: perché fare delle foto (fatte vedere alla famiglia dallo stesso agente Andrea) ad Hasib mentre consegnava i documenti agli agenti?

Terzo: perché improvvisamente il ragazzo si sarebbe dovuto lanciare in un vuoto di circa 9 metri? Quarto: perché una volta che la famiglia è arrivata sul posto, gli agenti avrebbero tentato di rassicurarli riferendogli che il figlio «aveva solo un braccio rotto»? Comunque «sembra che si stiano attivando rapidamente delle verifiche sia da parte della polizia che da parte della magistratura» commenta al Riformista l’onorevole Riccardo Magi che aggiunge: «quello che fa accapponare la pelle è pensare che se non ci fosse stata la conferenza stampa alla Camera non ci sarebbe stata tale rapidità nell’accertamento dei fatti. L’attenzione pubblica in casi come questi serve sempre, quindi». In conclusione Magi chiede alla Lamorgese di rispondere quanto prima al suo atto di sindacato ispettivo: «vorrei fare un sollecito al Ministro dell’Interno affinché quanto prima dia seguito alla mia interrogazione e un appello trasversale a tutti i partiti perché sottoscrivano quella interrogazione per chiedere una verità non solo in sede giudiziaria ma anche dal punto di vista del Governo attraverso una indagine interna.

Con la famiglia di Hasib, le istituzioni democratiche tutte hanno il dovere e insieme il bisogno della stessa verità». Intanto sono già migliaia le firme raccolte dall’Associazione 21 luglio per chiedere «Verità per Hasib» come ci racconta il portavoce Carlo Stasolla: «parrebbe che quanto detto nell’esposto stia trovando una conferma. Chiaramente attendiamo ulteriori riscontri. Ad oggi sembra esserci la certezza che la polizia fosse sul posto e che non ci fosse un mandato. Sembra quindi che l’operazione trasparenza annunciata dal capo della Polizia Lamberto Giannini stia dando i suoi frutti. A tal proposito il nostro appello ha raccolto già migliaia di firme e siamo cautamente soddisfatti che questa coltre di opacità si stia piano piano diradando». Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: «Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani». Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: «La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?». Angela Stella 

(ANSA il 29 settembre 2022) Hasib Omerovic, il ragazzo caduto dalla finestra del suo appartamento mentre erano in corso controlli di polizia, è uscito dal coma ma è ancora in gravi condizioni. Lo ha annunciato il portavoce dell'Associazione 21 Luglio durante una conferenza stampa in corso alla Camera. "È fortemente sedato e mostra deboli e intermittenti segni di interazione - ha detto -. Secondo i medici non è possibile stabilire quanto e quali interventi dovrà subire. I tempi saranno estremamente lunghi".

 L'immobile dal quale è caduto Hasib Omerovic è stato sequestrato dalla procura. Lo ha annunciato l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa in cui vengono illustrate alcune novità sul caso del ragazzo tuttora in coma dopo la caduta dalla finestra mentre c'era un controllo di polizia in casa.

 "I vestiti che l'ospedale ha consegnato alla famiglia di Hasib Omerovic sono diversi da quelli che il ragazzo indossava al momento dalla caduta dalla finestra del suo appartamento". La annuncia l'avvocato della famiglia, Arturo Salerni, durante una conferenza stampa alla Camera. I legali hanno mostrato le foto degli indumenti restituiti dal Gemelli alla famiglia, evidenziando la differenza con quelli indossati da Omerovic nella foto in cui è sanguinante a terra. "L'ospedale - ha detto il legale - ha consegnato un pantaloncino marrone e un paio di scarpe blu mentre Hasib indossava un pantalone nero arrotolato sulle ginocchia e scarpe diverse da quelle restituite".

Hasib, è stato tentato omicidio: il mistero dei vestiti spariti della foto. Angela Stella su Il Riformista il 30 Settembre 2022 

“Il fatto che dopo 25 giorni Lamorgese non abbia risposto alla interrogazione che ho presentato è una grave mancanza di rispetto istituzionale nei confronti del Parlamento e dei cittadini. Ne presenterò un’altra al nuovo Ministro dell’Interno”: così l’onorevole di +Europa Riccardo Magi, appena rieletto alla Camera, ha aperto ieri una nuova conferenza stampa convocata a Montecitorio per aggiornare sulle ultime novità del caso di Hasib, il 37enne di origini rom precipitato in circostanze ancora da chiarire il 25 luglio scorso dalla sua abitazione a Roma nel corso di una perquisizione delle forze dell’ordine.

“L’oggetto dell’atto di sindacato ispettivo – ha proseguito il parlamentare – riguarda aspetti amministrativi della vicenda: sono state fatte indagini interne? Sono scattati procedimenti disciplinari? Sappiamo che al commissariato di Primavalle c’è stato un avvicendamento: perché l’opinione pubblica deve saperlo da fonti ufficiose e non dagli organi preposti? Faccio un ulteriore appello alla Lamorgese affinché risponda all’interrogazione. Non si tratterebbe affatto di una interferenza col delicato lavoro che sta svolgendo la magistratura ”. L’incontro con la stampa, il secondo dopo quello del 12 settembre, è servito anche a far emergere altri punti oscuri della vicenda: che fine hanno fatto i vestiti di Hasib?

L’ospedale Gemelli due giorni dopo l’accaduto ha restituito in una busta bianca degli indumenti e scarpe diversi da quelli indossati dall’uomo il giorno della caduta, ha spiegato l’avvocato della famiglia Arturo Salerni. Hasib indossava un pantalone nero arrotolato alle ginocchia, mentre alla madre è tornato indietro un pantalone corto marrone. I vestiti restituiti non sono comunque di Hasib: c’è stato uno scambio involontario da parte del personale sanitario? Certo – è strano – hanno fatto notare i convocatori: pure se fossero di un’altra persona, anch’ella indossava solo pantaloni e scarpe? Il secondo punto da dirimere riguarda la ormai tragicamente famosa foto di Hasib dopo la ‘caduta’: chi l’ha scattata mentre il ragazzo era in terra, e che giro ha fatto quella immagine prima di arrivare alla famiglia? L’avvocato ha spiegato che è arrivata alla famiglia da una vicina che però non l’ha scattata. Bisognerà ricostruire la catena di condivisione.

“Il fascicolo non è più contro ignoti. Ci sono degli indagati per tentato omicidio, non so quanti”, ha raccontato Salerni che ha aggiunto: “sono stati sentiti nei giorni scorsi il padre, la madre, la sorella. Hanno parlato per diverse ore e approfondito diversi aspetti. Da parte nostra c’è apprezzamento per come sta lavorando la Procura”. Gli avvocati hanno costruito una mappa della casa e dei danni registrati in casa: i segni dei calci sulla porta della stanza di Hasib, il termosifone divelto, il manico di scopa rotto, le lenzuola sporche di sangue. L’immobile poi è stato sequestrato dalla procura. Sempre a quest’ultima sono stati fatti presenti i punti oscuri sollevati in conferenza stampa. Agli investigatori è stato consegnato anche un video girato il 26 luglio dai familiari al commissariato di Primavalle, dove si vedono degli agenti che informalmente avevano detto alla famiglia di essere intervenuti e che Hasib si sarebbe lanciato da solo.

Intanto Hasib non sta ancora bene: è uscito dal coma ma si trova ancora in uno stato di minima coscienza, rimane sedato per contrastare i dolori e il forte stato di agitazione. È ancora tracheotomizzato per la respirazione e i medici non si sbilanciano sul futuro: non si sa se dovrà subire ulteriori interventi né di che tipo sarà il recupero. Insomma appare improbabile o almeno lontana la sua testimonianza sui fatti. Infine il portavoce dell’Associazione 21 Luglio, Carlo Stasolla, ha denunciato la “freddezza” del Comune di Roma nei confronti della vicenda: “l’amministrazione capitolina non ha manifestato nessuna vicinanza alla famiglia né privatamente né pubblicamente. Persino per avere un nuovo alloggio per la famiglia di Hasib abbiamo dovuto fare un presidio a piazza del Campidoglio per fare pressing”. “Abbiamo paura ma vogliamo verità e giustizia per Hasib”, ha ripetuto la madre di Hasib, Fatima. Angela Stella

L'agente: "Tranquilli si è solo rotto un braccio" ma è in fin di vita. Hasib come Pinelli? La polizia ha gettato dalla finestra un ragazzo rom sordomuto? Piero Sansonetti su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

È un nuovo caso Pinelli? Un nuovo caso Cucchi? – per citare i precedenti più celebri. Forse sì. La storia che hanno raccontato ieri in una conferenza stampa a Montecitorio i genitori di Hasib Omerovic è una storia da brividi e nella quale le responsabilità della polizia sembrano comunque evidenti e gravissime. C’è stata una incursione in casa di un libero cittadino, ci sono state quasi certamente molte botte e poi – forse – c’è stata addirittura la sua defenestrazione. Pazzesco.

La vittima si chiama Hasib Omerovic, ha 36 anni, nessun precedente, è sordomuto dalla nascita. La sua è una famiglia rom, e non si può certo escludere che il secolare e radicatissimo pregiudizio verso i rom possa aver avuto un ruolo in questa vicenda orrenda. Hasib ora è in coma in un lettino dell’Ospedale Gemelli, a Monte Mario. Braccia rotte, ferite ovunque, grave trauma cranico, fratture varie, ed è in questo stato da 50 giorni.

La mamma di Hasib, Fatima Sejdovic, ieri ha raccontato la storia di suo figlio insieme a Riccardo Magi, deputato radicale, a due avvocati (Susanna Zorzi e Arturo Salerni) e a Carlo Stasolla (esponente di una associazione che si occupa soprattutto della difesa del popolo rom). Il racconto, a occhio, è assolutamente incredibile. Però gli avvocati e Stasolla hanno verificato molti particolari, e tutti i particolari convergono e accreditano il racconto della madre di Hasib. Non risulta nessuna contraddizione e ci sono molti riscontri. E su questa base gli avvocati il 10 agosto hanno presentato un esposto in procura e la procura ha aperto un fascicolo per tentato omicidio in concorso.

Di questa inchiesta però non si è saputo nulla. In genere la procura di Roma non è impenetrabile per i giornalisti. Se c’è un traffico di influenze, dopo un paio d’ore lo sai. Se buttano un rom dalla finestra è diverso. Scatta il riserbo. Non risulta che sia stata aperta nessuna indagine interna dalla Questura di Roma né dai vertici della polizia. Magi ha presentato una interrogazione alla ministra.

Ecco che cosa è successo. Il giorno è il 25 luglio. I genitori di Hasib sono usciti di casa insieme alla sorella maggiore intorno alle 10 e mezzo del mattino. Hasib è stato lasciato a fare compagnia alla sorella più piccola, Sonita, che ha dei problemi di sviluppo mentale e i genitori preferiscono non lasciarla sola a casa. Hasib non sente e non parla dalla nascita, ma è un ragazzo intelligente, è capace di badare alla sorella. Hasib non sa che da qualche tempo, nel quartiere di Primavalle, dove abita – nella periferia nord ovest di Roma, vicino a Monte Mario – girano delle brutte voci su di lui. 

In una pagina Facebook sulla quale scrivono i cittadini di Primavalle è apparso un post molto allarmante: “Hashib ha importunato alcune ragazze e vogliono mandarlo all’ospedale”. E poi un post ancora più terribile: “Fate attenzione a questa specie di essere, perché importuna le ragazze, bisogna prendere provvedimenti”. E vicino ai post una foto di Hasib accanto a un cassonetto.

Questo è l’antefatto. Il 25 luglio cinque o sei poliziotti, probabilmente verso mezzogiorno e mezzo, si presentano a casa di Hasib, suonano il campanello, lui non apre perché, ovviamente, non sente. Suonano ancora e alla fine la sorella si decide ad aprire la porta. Più tardi racconterà ai genitori che cosa è successo e che cosa ha visto. I poliziotti entrano in casa, senza mandato, spediti a compiere questa azione non si sa da chi, chiedono i documenti ad Hasib ma non dicono perché.

Hanno qualche problema a farsi capire, naturalmente, e forse si innervosiscono. Comunque Hasib gli dà i documenti che infatti i genitori, quando rincasano, troveranno sul tavolo disposti in bell’ordine. A questo punto non si sa cosa succede ma Sonita racconta che i poliziotti, che erano vestiti in borghese, chiudono la serranda del salotto, scattano alcune foto, fotografano Hasib seduto sul divano, e poi iniziano a picchiare. Hasib cade a terra, loro lo colpiscono a calci, lui, che è un ragazzo grosso e forte, si rialza, fugge in camera da letto e chiude a chiave la porta.

“Loro lo inseguono, buttano giù la porta gli danno ancora pugni e calci e poi lo gettano dalla finestra”. Il racconto della sorella appare credibile, perché in casa ci sono macchie di sangue, perché la scopa con la quale Sonita dice che hanno picchiato il fratello è spezzata in due, perché il termosifone è sradicato, e Sonita dice che il fratello si era attaccato al termosifone, forse per impedire di essere gettato giù. Hasib si è rotto in molti punti le braccia. Vuol dire che ragionevolmente è caduto a testa in giù. È improbabile che sia saltato dalla finestra a testa in giù.

A questo punto è l’una e dieci. Una vicina di casa telefona alla sorella grande di Hasib, che è in giro in città coi genitori, e l’avverte che Hasib è caduto dalla finestra. Un incidente, un incidente. Poi gli passa al telefono un poliziotto che dice di stare tranquilli, si è solo rotto un braccio ed ora è al pronto soccorso. I genitori tornano a casa. I poliziotti non ci sono più. I genitori ricostruiscono sulla base del racconto di Sonita, che è li, basita, attonita, scioccata. Vanno all’ospedale e scoprono che Hasib è in fin di vita.

Poi nei giorni successivi vanno al commissariato Primavalle, nessuno li riceve, ma alcuni poliziotti ammettono qualcosa. Sì – dicono -, siamo andati lì, c’è stata una colluttazione poi lui si è gettato dalla finestra del terzo piano. Nove metri di volo. Si è gettato non si sa perché, un po’ come mezzo secolo fa Pino Pinelli si gettò dalla finestra della questura di Milano.

Passano dieci giorni. Poi la famiglia di Hasib si rivolge a una avvocata amica, e lei presenta l’esposto. L’esposto arriva sul tavolo del Pm Stefano Luciani, noto per la sua scrupolosità. Luciani apre un fascicolo. Proprio ieri, dopo la conferenza stampa, si è saputo che Luciani è stato inviato a nuovo incarico, all’antimafia. Però sembra che lui abbia chiesto di poter continuare a seguire il caso Hasib. Speriamo.

Ora tralasciamo per un attimo la gravità di questa vicenda e il dolore di Hasib e della sua famiglia. Solo una domanda marginale. Come è possibile che su una vicenda del genere non si sia saputo niente? Come è possibile che a 50 giorni dall’episodio la polizia non abbia almeno fornito una sua versione dei fatti? Come è possibile che i giornali non siano stati informati? In questo paese può succedere che la polizia fa irruzione in casa di un sordomuto, lo picchia, forse addirittura – volontariamente o più probabilmente per errore – lo getta dalla finestra, o comunque non impedisce che questo ragazzo si getti dalla finestra in presenza di almeno quattro poliziotti in una stanzetta, come è possibile che nessuno sappia niente. La ministra sapeva? Era stata informata? Ora sa, se legge i giornali: intende riferire alla stampa nelle prossime ore? Provare a spiegare? Sarebbe il minimo del minimo del minimo del suo dovere.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

I quattro agenti autori dell'iniziativa, una sorta di perquisizione non autorizzata. Più altri quattro, superiori dal punto di vista gerarchico. 

Sale a otto il numero dei poliziotti nel mirino dei magistrati per le ferite inferte a Hasib Omerovic, il 36enne rom con disabilità del quartiere romano di Primavalle, caduto dalla finestra della sua abitazione il 25 luglio scorso.

I quattro agenti (tre uomini e una donna) che hanno effettuato la perquisizione saranno sentiti a breve come indagati, poi saranno convocati gli altri. Le ipotesi di reato, formulate dai magistrati Michele Prestipino e Stefano Luciani sono concorso in tentato omicidio e falso. 

E se per i quattro protagonisti del sopralluogo in casa scatterebbe l'accusa di tentato omicidio - il bastone e le lenzuola sequestrati testimoniano un'azione violenta nei confronti di Hasib -, per gli altri quattro si aggiungerebbe un falso ideologico. Ad una prima verifica da parte della magistratura avrebbero mentito nella loro relazione sui fatti, coprendo, per così dire, l'iniziativa dei colleghi. 

Alla luce di questi pochi elementi il caso di Omerovic, come portato alla luce dal presidente di +Europa Riccardo Magi, si configurerebbe almeno altrettanto serio quanto il caso Cucchi. E, fatalità, con ingredienti assai simili (in quel caso vi fu un illecito, coperto con altri illeciti, i depistaggi). Quel che è certo è che gli agenti del commissariato di Primavalle dovranno fornire la propria versione nei prossimi giorni.

Ma gli accertamenti investigativi prendono in considerazione anche altri aspetti. A cominciare dai partecipanti al gruppo Facebook «Primavalle», dove una residente e iscritta, Paola Camacci, aveva postato la foto di Omerovic definendolo «una specie di essere perché importuna tutte le ragazze», aggiungendo «bisogna prendere provvedimenti». A chi si rivolgeva? 

Non al commissariato Primavalle, dove non ha mai sporto denuncia, dopo aver raccontato di aver difeso la figlia dalle presunte molestie da parte di Hasib, che a sua volta avrebbe scattato foto alla ragazza e avrebbe poi seguito le due donne fino a casa; mentre il barista Paolo Soldani, che aveva avvertito la famiglia Omerovic di quel post, due giorni dopo il ferimento del 36enne si è lasciato andare a un enigmatico «mi dispiace, abbiamo fatto tardi». Cosa avrebbe potuto fare? Quel messaggio è sparito il 27 agosto scorso, proprio quando sono scattate le indagini.

«Hasib ha tentato di suicidarsi»: la versione dei poliziotti sul disabile caduto dalla finestra. Rinaldo Frignani e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022

Primavalle, la versione dei quattro agenti di Polizia. Test del Dna sui vestiti della vittima e dei poliziotti

Il pomeriggio del 25 luglio scorso la misteriosa caduta di Hasib Omerovic dalla finestra della sua camera da letto, al primo piano rialzato del palazzo di via Gerolamo Aleandro, fu catalogata con un’ipotesi di tentativo di suicidio. E come tale sarebbe stata trattata nei giorni successivi. Una versione dei fatti che i quattro agenti intervenuti nell’abitazione del 36enne disabile potrebbero ora ribadire fra qualche giorno nell’interrogatorio in Procura o negli uffici della Squadra mobile.

Una ricostruzione che stride decisamente con l’ipotesi di reato dei pm, quella di concorso in tentato omicidio e falso (quest’ultimo contestato solo ai loro superiori, per ora), che si basa sull’esposto presentato dalla famiglia Omerovic il 10 agosto scorso: contiene il racconto drammatico di quei momenti fatto dalla sorella di Hasib, Sonita, 30 anni, affetta da un grave ritardo psichico, e come ha spiegato l’avvocata dei genitori, Susanna Zorzi, proprio «per questo incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede».

Di sicuro, come risulta dalla relazione dell’Ares 118, quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113 in contatto con le pattuglie giunte sul posto per soccorrere Omerovic, assistito, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, anche da personale in borghese vicino alla ringhiera del cortile dove era caduto.

Sulla dinamica il riserbo è massimo — per le indagini coordinate dalla Procura ma anche per l’intervento in prima persona del capo della polizia Lamberto Giannini —, però dalla versione del tentativo di suicidio con gli agenti già usciti dalla casa si può desumere che Omerovic si sarebbe lanciato al termine del controllo. Un altro punto poco chiaro, visto che per Sonita invece il fratello, picchiato dai poliziotti, si sarebbe barricato in camera e gli operatori avrebbero così rotto la serratura della porta: nell’esposto ci sono tre foto al riguardo. L’operazione per identificare il 36enne viene definita «di routine», in questo caso dopo il post di denuncia con foto di Hasib sul gruppo Facebook di quartiere «Primavalle» da parte di una residente, Paola Camacci, che interrogata a fine agosto avrebbe riferito di essere stata molestata con la figlia da Omerovic, che le avrebbe a sua volta fotografate e seguite fino a casa.

I pm ora vogliono scoprire: cosa ha spinto Hasib a lanciarsi da otto metri? Era impaurito? Oppure si è trattato davvero di un tentativo disperato di sfuggire a un’aggressione? E a chi si riferiva il barista Paolo Soldani, che aveva messo in guardia dopo il post la sorella minore di Hasib e dopo il ferimento, ha commentato con lei: «Abbiamo fatto tardi»?

Gli agenti saranno chiamati a rispondere proprio sulle modalità del controllo a due disabili lasciati da soli in casa, senza richiedere la presenza di familiari, personale medico o dei servizi sociali. L’esame del Dna sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti, come anche sul manico di scopa trovato spezzato, potrebbe chiarire di più della dinamica e delle responsabilità mentre non si esclude che nei prossimi giorni la Scientifica esegua prove tecniche con un manichino speciale per ricostruire la caduta di Omerovic. Il pm Stefano Luciani, titolare dell’inchiesta, ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla caduta del 36enne con una serie di quesiti, il primo dei quali chiede di fare chiarezza sulla dinamica e su eventuali spinte ricevute dall’uomo. Ferite e tumefazioni sul corpo possono documentare le circostanze relative alla caduta. Precipitato autonomamente? L’esperto incaricato dal magistrato dovrà sciogliere ogni quesito.

C’è poi l’argomento-fotografie. Le istantanee scattate in casa dai poliziotti ad Hasib, secondo il racconto di Sonita. A che titolo sono state fatte? Avrebbero dovuto, nelle intenzioni degli agenti del commissariato di Primavalle, documentare ferite pregresse? Non è chiaro, ma è certo che Luciani vuole sciogliere anche questo nodo. Per capire se si sia trattato di un altro abuso o meno da parte della pattuglia che non aveva nemmeno un mandato di perquisizione.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Paolo Soldani, 53 anni, «Er Barone», occhiali scuri e un gladio enorme tatuato sul braccio sinistro, viene omaggiato come un sindaco dagli avventori. Lui è il titolare del bar più grande di Primavalle (per questo si chiama «Er Barone»), dove l'estate scorsa - ricorda - per le suppletive alla Camera passava a fare campagna elettorale «anche l'ex magistrato Luca Palamara». Paolo «Er Barone» ha molte cose da dire sul caso di Hasib Omerovic. Erika, la sorella più piccola del rom precipitato dalla finestra il 25 luglio scorso durante un controllo della polizia, aveva preso un appuntamento proprio con lui per quella sera stessa, alle 21. 

È vero?

«Sì, dovevo andare a casa loro, in via Gerolamo Aleandro. Io conosco bene Erika, viene spesso al bar, è una ragazza brava, pulita, molto legata al fratello. Sarei dovuto andare giusto quella sera, proprio per parlare con Hasib e dirgli di farla finita una volta per tutte, di smetterla con i suoi atteggiamenti molesti verso le donne del quartiere. Lo so, Hasib è sordo ma Erika mi avrebbe aiutato col linguaggio dei segni». 

La tensione stava salendo.

«Perché gli episodi ormai si ripetevano: qualche sera prima, finito il karaoke qui da noi in piazza Capecelatro, tre ragazze erano rientrate impauritissime nel bar dicendo che Hasib le aveva importunate per strada. Lui aveva delle foto pornografiche sul cellulare e le mostrava alle donne che incontrava, qualche volta si toccava pure. Insomma era diventato un problema. E poi il giorno prima, il 24 luglio, c'era stato quel post...». 

Quello pubblicato sulla pagina Facebook del gruppo di Primavalle.

«Sì, il post di quella signora che chiedeva di prendere provvedimenti contro Hasib che aveva fotografato sua figlia col telefonino. Non si poteva più continuare così». 

Ma è vero che lei quel giorno avrebbe detto a Erika: «Mi dispiace se poi tuo fratello lo mandano in ospedale...». Era una minaccia? Qualcuno al bar progettava forse una spedizione?

«Ma andiamo! Io però conosco Primavalle. E allora prima che a un branco di quindicenni potesse venire l'idea di accoltellare Hasib per strada, rovinando così la vita a lui e a loro, il 24 luglio, la sera stessa del post, quando ho visto Erika al bar le ho detto: meglio se domani vengo a parlarci io. Così chiudiamo questa storia per sempre».

Eppure in via Aleandro i vicini difendono Hasib.

«Lasciamo stare. Perfino la sua famiglia si arrabbiava per i suoi comportamenti». 

Poi però il 25 mattina in quella casa ecco che ci va la polizia.

«Beh, quel post era girato, figuratevi se non l'avevano notato in commissariato». 

A proposito: è vero che lei quel giorno avrebbe detto sempre a Erika: «Purtroppo siamo arrivati tardi, hanno fatto il lavoro sporco».

«Ma chi? I poliziotti? Io non ho mai avuto un grande rapporto con le guardie , ma sono certo che gli agenti non l'hanno buttato di sotto, secondo me Hasib si è lanciato dalla finestra per sfuggirgli. Loro erano andati lì senza mandato, probabilmente per dirgli le stesse cose che avrei detto io. Un po' come facevano un tempo i poliziotti di quartiere. Ma lui si è buttato perché aveva la coscienza sporca. Come si dice: " Male non fare, paura non avere". Hasib è sordo, ma aveva capito benissimo perché i poliziotti erano lì».

Nel caso Hasib c’è un altro teste. È un funzionario dei vigili urbani. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA Il Domani il 15 settembre 2022

Nell’indagine su Hasib, precipitato dalla finestra della sua stanza il 25 luglio scorso durante la visita senza mandato e di iniziativa della polizia, ancora poche sono le certezze.

Dopo aver chiarito l’identità e il passato del barista che aveva messo in guardia la sorella di Hasib sulle voci infastidite del quartiere, Domani è in grado di raccontare in che modo gli agenti si sono messi sulle tracce del ragazzo disabile. Questione rilevante tanto da spingere chi indaga a sentire le persone coinvolte nello scambio di informazioni con gli agenti.

I poliziotti prima di recarsi nell’appartamento sono andati dai vigili urbani della zona, il comando è poco distante dalla casa di Hasib, un complesso di palazzine popolari a Primavalle, quartiere della periferia ovest di Roma. Sono andati dalla municipale a chiedere informazioni sul suo conto e anche per capire dove abitasse. Il funzionario è stato sentito da chi indaga. GIOVANNI TIZIAN E NELLO TROCCHIA

Il disabile caduto per 9 metri fuori dal coma ma ancora in gravi condizioni. Caso Hasib Omerovic, la versione del poliziotto della perquisizione: “Si è buttato da solo dalla finestra, c’è un video”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  16 Settembre 2022 

Hasib Omerovic è sveglio, fuori dal coma, ma non riesce a parlare, comunica con gli occhi ed è alimentato con la flebo. Il disabile caduto dalla finestra di casa sua a Primavalle, Roma, durante una perquisizione di agenti della polizia, intervenuti senza mandato, è ricoverato al Policlinico Gemelli. È precipitato per nove metri. Quattro i poliziotti indagati al momento. L’accusa formulata dai pm è quella di concorso in tentato omicidio e falso, con quest’ultimo contestato solo ai superiori, mentre in un primo momento l’episodio venne catalogato con un’ipotesi di tentativo di suicidio.

E ci sarebbero foto e video che hanno ripreso l’intervento degli agenti e il cittadino bosniaco di etnia rom che si sarebbe buttato dalla finestra secondo quanto raccontato da uno degli indagati, che si chiama Andrea. “Abbiamo seguito tutte le procedure previste per un intervento di identificazione. Siamo entrati in casa, c’erano un uomo e una donna. Ma non c’è stato tempo di fare nulla”, ha detto secondo quanto riporta un articolo de Il Messaggero. “Prima di intervenire abbiamo fatto un passaggio con la polizia locale per capire se queste persone fossero state identificate. Ma non è risultato nulla”.

L’agente ha ribadito le segnalazioni – nessuna denuncia e infatti a chi ha autorizzato il controllo, la vice-dirigente del commissariato Primavalle, sarebbe stato contestato l’ordine illegittimo – che accusavano Omerovic di aver molestato donne e ragazze della zona. Oltre al post su Facebook, di una donna che interrogata a fine agosto ha riferito di essere stata molestata con la figlia per strada, anche altre presunte segnalazioni. Gli agenti però non avevano un mandato di perquisizione della Procura, questo è certo. Omerovic, 36 anni e sordo dalla nascita, non risulta indagato per vicende penali. La sorella, la 30enne Sonita, affetta da grave ritardo psichico, aveva raccontato alla madre che gli agenti avrebbero chiesto i documenti all’uomo, lo avrebbero fotografato, picchiato con calci, pugni e un bastone, lo avrebbero seguito in camera e lo avrebbero spinto dalla finestra. “Nostro figlio non è caduto, è stato spinto di sotto”, sostiene la famiglia.

Tutto questo è successo lo scorso 25 luglio. La vicenda è emersa solo pochi giorni fa. A inizio agosto la famiglia del 36enne ha presentato esposto sul caso. Secondo gli avvocati dei genitori dell’uomo, la giovane sorella sarebbe “incapace di mentire, di inventare storie diverse da quelle che vede” proprio per via del suo disagio psichico. L’agente che ha parlato ha però detto che Omerovic al momento della caduta non era stato ancora identificato. E a dimostrarlo sarebbe anche la testimonianza della signora Loredana, che abita nel palazzo di fronte a quello della tragedia e che ha assistito alla scena. “Mentre lui era a terra i poliziotti dal cortile chiedevano a una collega che era nell’appartamento di chiedere alla sorella come si chiamava”, ha detto la donna.

L’agente ha riferito che foto e video dell’intervento sono già confluiti in un dossier. I dubbi da chiarire sul caso, sul quale il riserbo resta massimo, restano però ancora tanti. Non si capisce per esempio come abbiano fatto Omerovic o la sorella ad aprire la porta, soli in casa, a sentire il campanello se entrambi sono sordi. Non si capisce perché sarebbero state abbassate le tapparelle della stanza in cui si trovavano. Ci sarebbero, nell’esposto presentato dalla famiglia, anche tre foto della serratura della porta della camera dove il 36enne si sarebbe barricato, rotta. Altre foto, secondo il racconto di Sonita, sarebbero state scattate dai poliziotti ad Hasib in casa.

Quel pomeriggio un’ambulanza è intervenuta in via Aleandro su richiesta della sala operativa del 113. Sul posto secondo alcuni testimoni anche degli agenti in borghese. I quattro poliziotti saranno chiamati a rispondere sulle modalità del controllo. Sui vestiti di Hasib e su quelli dei poliziotti sarà condotto l’esame del Dna. Il pm Stefano Luciani ha affidato a un perito l’incarico di sciogliere tutti i dubbi sulla vicenda con una serie di quesiti sulla dinamica dell’episodio, su ferite e tumefazioni sul corpo dell’uomo. Le lenzuola macchiate di sangue e il bastone spezzato di una scopa sarebbero stati sequestrati solo dopo il 12 agosto. Il 36enne non è più in pericolo di vita, è stato indotto al coma, sottoposto a diversi interventi chirurgici, ma le sue condizioni restano gravi. “Tra un paio di mesi dovrà passare in cura a un centro di riabilitazione. Abbiamo fatto domanda oggi. In una casa con le finestre alte non ci vuole andare più. Ha il terrore, la stessa paura che abbiamo noi”, ha detto il padre Mehmedalija a Repubblica.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(Tentata nda) Morte di Hasib, agenti indagati per tortura ma il Viminale non li sospende. Angela Stella su Il Riformista il 19 Novembre 2022

La Procura di Roma indaga anche per tortura sul caso di Hasib Omerovic, giovane sordomuto di etnia rom precipitato lo scorso 25 luglio dalla finestra della sua camera nel suo appartamento a Primavalle, mentre in casa si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia. È quanto emerso ieri dalla risposta fornita dal sottosegretario all’Interno Nicola Molteni all’interpellanza urgente presentata dall’onorevole e presidente di +Europa Riccardo Magi, dopo che non aveva ricevuto riscontro alle due precedenti interrogazioni a risposta scritta.

“Sulla base delle notizie acquisite dal Ministero della Giustizia” è stato avviato “un procedimento penale per i reati di false informazioni al pubblico ministero, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atti pubblici e tortura”, ha detto Molteni. Non ha citato il reato di tentato omicidio. Come mai? Comunque le cose stanno così: i pubblici ministeri Michele Prestipino e Stefano Luciani, sulla base della denuncia fatta dalla famiglia Omerovic, hanno inizialmente aperto un fascicolo per tentato omicidio; poi a seguito di successivi accertamenti effettuati nel prosieguo delle indagini, sono state formulate le ulteriori ipotesi di reato elencate nella risposta di Molteni tra cui quella grave di tortura. Dunque la posizione dei quattro poliziotti si aggrava ma, lo ribadiamo, la presunzione di innocenza vale anche per loro, a maggior ragione se le indagini non si sono ancora nemmeno concluse.

Ricordiamo che nell’atto di sindacato ispettivo Magi chiedeva al Ministero dell’Interno: se “sia stata disposta un’indagine interna e a quali risultati abbia condotto; se, in relazione alla gravità delle ipotesi di reato e agli atti illegittimi emersi dagli accertamenti, siano stati assunti dei provvedimenti cautelari nei confronti degli indagati e dei loro superiori”. A tal proposito Molteni ha detto: “Lo scorso settembre l’amministrazione ha adottato misure di carattere organizzativo e, in particolare, l’avvicendamento del dirigente del distretto, sostituito con un primo dirigente di PS, ritenuto particolarmente qualificato, e del funzionario addetto. Tali provvedimenti sono stati assunti rispettivamente con atto del capo della Polizia e del questore di Roma”.

Inoltre, in merito ai quattro agenti coinvolti uno è stato “assegnato ad un altro ufficio di pubblica sicurezza della capitale, mentre gli altri tre sono stati adibiti a servizi di vigilanza interna nell’ambito del quattordicesimo distretto”. Infine, poiché il procedimento è ancora coperto dal segreto investigativo, “non sono stati avviati procedimenti disciplinari nei confronti del personale interessato in attesa degli sviluppi del procedimento penale”. Magi nella sua replica ha sottolineato: “Da una parte ci sono le responsabilità penali, che sono individuali, e dall’altra c’è da tutelare quello che è un bene in qualche modo anche superiore, garantito dalla Costituzione, che è il bene della fiducia che i cittadini devono avere nei confronti delle istituzioni e – mi viene da dire – in modo particolare di quelle istituzioni che hanno il monopolio dell’uso della forza, quindi di tutti i corpi di polizia come in questo caso”. “I provvedimenti cautelari, quindi le eventuali sospensioni, vengono adottati, anche nell’attesa di una sentenza che riconosca una condanna in via definitiva e servono esattamente a tutelare l’amministrazione e l’istituzione”, ha concluso il deputato. Angela Stella

La Corte europea: l’Italia dia spiegazioni sul caso Magherini. Luigi Manconi su La Repubblica il 6 gennaio 2022.

Interrogazione al governo sulla morte del giovane fiorentino. "Chiarite l'uso della forza da parte dei carabinieri e le regole di polizia". La tecnica è questa: l'uomo sottoposto a fermo, che si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle sue spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile (37 minuti nel caso di Luca Ventre di cui più oltre dirò).

Mai più casi Floyd: l’altolà della Cedu alla polizia violenta. L’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato”? È quanto chiede la Corte di Strasburgo al governo italiano, dopo aver accolto il ricorso sul caso Magherini. Damiano Aliprandi su Il Dubbio l'08 gennaio 2022.

Si torna a parlare del caso Magherini, il trentanovenne fiorentino, fermato da una pattuglia di carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Borgo San Frediano e in seguito deceduto. Dopo le decisioni della magistratura che ha assolto i carabinieri, la famiglia ha presentato ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. E ora, grazie a un articolo dell’ex senatore Luigi Manconi sul quotidiano La Repubblica, apprendiamo che la Cedu chiede spiegazioni al governo italiano.

Le domande della Cedu all’esecutivo italiano

Tra le varie domande poste dalla Corte Europea, la più significativa riguarda la legittimità della tecnica usata dai carabinieri nel fermare Riccardo Magherini. Manconi la definisce “codice Floyd”. Questa definizione non è una scelta arbitraria. Infatti George Floyd, 46 anni, è morto il 25 maggio 2020 dopo che l’ex agente Derek Chauvin lo ha bloccato a terra con il ginocchio sul collo per 9 minuti e 29 secondi. Una vicenda che non può non evocare la vicenda nostrana. Manconi spiega che tale tecnica è stata operata anche da noi.

Accade che un uomo, sottoposto a fermo, si sottrae o reagisce o resiste, viene costretto prono a terra, i polsi ammanettati, mentre uno o più agenti premono con il peso del corpo sulle spalle e sulla sua schiena, per un tempo di durata variabile. Sempre Manconi sottolinea che a completare quella manovra, il braccio di uno degli operatori serra il collo del fermato. La combinazione tra le due mosse – la compressione del torace e la stretta sulla gola – impedisce la normale respirazione e può determinare una sindrome asfittica e, infine, la morte.Ebbene, come ricorda Manconi, è proprio quanto è accaduto a Riccardo Magherini. Un “codice Floyd” nostrano.

La sentenza

Ora, come detto, la Corte Europea ha chiesto spiegazioni al nostro governo. Tra le domande poste ecco le più rilevanti: l’uso della forza da parte dei carabinieri è stato “assolutamente necessario e strettamente proporzionato” al raggiungimento dello scopo perseguito (il contenimento della persona fermata)? Le autorità pubbliche hanno garantito che fosse tutelata dagli operatori la particolare condizione di vulnerabilità del soggetto in questione? Le stesse autorità possono dimostrare di aver fornito agli agenti che operano in circostanze simili una formazione adeguata, capace di evitare abusi e trattamenti inumani e degradanti? Ricordiamo che la quarta sezione penale della Cassazione nel 2018 aveva assolto i tre carabinieri accusati di omicidio colposo disponendo l’annullamento senza rinvio della sentenza d’appello. In primo e secondo grado i tre carabinieri erano stati condannati.

Caso Magherini, il legale: «L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo»

L’avvocato Fabio Anselmo che assiste, insieme all’avvocata Antonella Mascia, i familiari di Riccardo Magherini afferma: «L’Italia dovrà rendere conto della morte di un giovane uomo che chiedeva aiuto e della cattiva giustizia riservatagli». Una vicenda tragica e che molto probabilmente poteva essere evitata. Riccardo Magherini, morì durante un arresto da parte dei carabinieri nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2014 a Firenze. Tre militari lo bloccarono mentre, sotto l’effetto di cocaina e in preda ad allucinazioni, convinto di essere inseguito da qualcuno che voleva ucciderlo, invocava aiuto in Borgo San Frediano, nel cuore del suo quartiere. Magherini quella sera era uscito a cena in un ristorante, poi aveva iniziato a vagare per le strade del quartiere gridando che gli avevano rubato portafoglio e cellulare. Era entrato in una pizzeria dove aveva continuato a dare in escandescenze. Tornato in strada, era stato bloccato dai carabinieri e ammanettato a terra, a pancia in giù e a torso nudo, per almeno un quarto d’ora. All’arrivo di un’ambulanza senza medico a bordo, l’ex calciatore era stato trasportato nel reparto di rianimazione dell’ospedale Santa Maria Nuova, dove alle 2.45 era stato constatato il decesso.

Il “codice Floyd”

Luigi Manconi ricorda che il “codice Floyd” non è una tecnica rara. Lui stesso, da presidente dell’associazione “A Buon Diritto”, si è occupato di almeno una decina di casi simili: quelle di Riccardo Rasman, Federico Aldovrandi, Bohli Kaies, Arafet Arfaoui, Vincenzo Sapia, Bruno Combetto, Andrea Soldi, Luca Ventre e altri ancora. Eppure, come fa sempre notare Manconi, il 30 gennaio 2014, una circolare del comando generale dell’Arma dei carabinieri, raccomandava di evitare tecniche del genere, come i rischi derivanti da immobilizzazioni protratte. Nel 2016, la circolare fu sostituita da un altro testo dove venivano sostituite tali avvertenze. Forse è ora di cambiare le cosiddette regole d’ingaggio. Da rivedere radicalmente tali tecniche che ricordano, appunto, il caso Floyd. Nel frattempo, il governo italiano ha tempo fino al prossimo 26 aprile per fornire risposte adeguate.

Morto dopo aver perso 30 chili in carcere, parla la sorella: "Non è stato curato, voglio giustizia”.  Federica Cravero su La Repubblica il 28 Dicembre 2021. La battaglia di Natascia Raddi: "Il suo corpo sembrava quello di Stefano Cucchi. Dicevano che facesse finta di stare male per ottenere benefici, invece aveva un’infezione che lo ha ucciso". "A settembre mio fratello ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l'ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli... Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49...". Natascia ha 35 anni e due anni fa, nel dicembre 2019, ha perso suo fratello Antonio Raddi, morto a 28 anni per una sepsi mentre era detenuto al Lorusso e Cutugno. Oltre alla famiglia, anche la garante dei detenuti Monica Gallo già mesi prima aveva denunciato le condizioni in cui si trovava il giovane. Sulla vicenda la procura di Torino aveva aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l'archiviazione, ma ora la famiglia - assistita dagli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore - ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini. "Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato", denuncia la donna.

Quando avete capito che suo fratello aveva gravi problemi di salute?

"Ad agosto ha iniziato a non mangiare e a deperire. I miei genitori hanno capito che qualcosa non andava e hanno iniziato ad andare più assiduamente alle visite. Prima magari andavano 2-3 volte al mese, poi hanno iniziato ad andare una volta a settimana o anche due. Lui chiedeva di aiutarlo e mio padre si è esposto, ha parlato con tante persone. Anche nelle lettere a me mio fratello diceva di andare a parlare con i magistrati di sorveglianza. Ma non è servito a nulla". 

Perché non si alimentava più?

"Dal carcere dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L'ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi". 

Non lo stavano curando?

"Non ho mai visto una cartella clinica così scarna. E pensare che lì sopra dovrebbero segnare tutto. E comunque di qualcosa avrebbero dovuto accorgersi. Bastava vederlo per capire che stava male. Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto. Quando l'ho visto poi in ospedale, in coma, ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato... Sembrava Stefano Cucchi, anche se le loro storie sono molto diverse". 

Non era mai stato ricoverato prima?

"A inizio dicembre una volta era stato portato al repartino delle Molinette, dopo che era collassato in cella. Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un'ora d'aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato". 

E dopo le dimissioni?

"Continuava a stare male e infatti pochi giorni dopo lo hanno ricoverato d'urgenza al Maria Vittoria. Lì lo hanno sottoposto a molti esami, lo hanno visitato diversi specialisti e alla fine hanno scoperto che aveva una gravissima infezione da klebsiella, partita dai polmoni ma che oramai aveva intaccato tutti gli organi. E alla fine è morto per shock settico dopo 17 giorni di coma. Però i medici hanno detto che una persona non si riduce così da un giorno all'altro. Questo spiega anche perché non riusciva a mangiare: perché era malato. A malapena beveva un po' d'acqua. Ed essendo così debole il suo sistema immunitario non è riuscito a combattere la malattia. E pensare che era un ragazzo di un metro e 80 di 28 anni...". 

Perché suo fratello era finito in carcere alle Vallette?

"Antonio stava scontando una pena in una comunità perché aveva avuto problemi con le droghe. Gli mancava un mese alla fine, ma lui non riusciva a stare in quel posto ed è andato via. Quando poi lo hanno fermato lo hanno portato alle Vallette e alla sua pena si è aggiunta l'evasione. Per quello era ancora in cella anche se in realtà lui aveva intrapreso un percorso con il Serd e non avrebbe dovuto essere in carcere. Mi dispiace che sia finito tutto così: quando eravamo piccoli, i miei genitori lavoravano e mi sono presa io cura di lui, lo accompagnavo a scuola, andavo a prenderlo". 

Cosa spera da una riapertura dell'inchiesta?

"Vorrei che chi lavora in carcere capisse che chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere. Certe cose di come si sta in carcere io le ho sapute dai compagni di cella di mio fratello, quando sono usciti. Mai sapute prima perché certe cose i carcerati non le dicono... Mio fratello compreso".

La battaglia della famiglia Raddi. Muore dopo aver perso 25 chili in carcere, la sorella di Antonio chiede giustizia: “Sembrava Stefano Cucchi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 28 Dicembre 2021. La sorella Natascia e il garante dei detenuti di Torino fanno un paragone che agli italiani ricorda uno dei casi di ‘cronaca’ più clamorosi degli ultimi anni: “Antonio sembrava Stefano Cucchi”.

Antonio Raddi, 28 anni, è morto dopo un ricovero d’urgenza all’ospedale Maria Vittoria di Torino nel dicembre del 2019: un viaggio della disperazione di fatto, col ragazzo deceduto per sepsi 17 giorni dopo essere entrato in coma.

Condizioni che da mesi si stavano aggravando mentre era recluso nel carcere delle Vallette del capoluogo piemontese: ex tossicodipendente con una patologia neurologica dall’infanzia, Antonio era stato condannato per rapine, maltrattamenti ed evasione. Il 28enne entra nel carcere il 28 aprile 2019 con il peso di 80 chili: a novembre la bilancia segna 50 chili, fino al decesso a dicembre.

Sulla vicenda di Antonio sia la famiglia che il Garante dei detenuti Monica Gallo aveva chiesto una indagine: la procura torinese ha aperto un fascicolo con quattro indagati per i quali poi ha chiesto l’archiviazione, ma la famiglia Raddi tramite gli avvocati Gianluca Vitale e Massimo Pastore ha fatto obiezione e ha chiesto di riaprire le indagini.

La sorella Natascia si sfoga e con Repubblica parla della situazione del fratello: “A settembre mi ha iniziato a scrivermi lettere in cui diceva di stare male, fisicamente e moralmente. Lettere così non me ne aveva mai mandate. Di solito quando mi scriveva dal carcere diceva che non vedeva l’ora di uscire, di salutare mio marito e i miei figli… Adesso invece chiedeva aiuto: era entrato in carcere ad aprile che pesava 80 chili, quando è morto ne pesava 49…”.

Natascia paragona quella di Antonio alla vicenda di Stefano Cucchi, anche se “le loro storie sono molto diverse”. “Chi sta in carcere ha sbagliato ed è giusto che sconti la sua pena: nessuno dice che deve uscire, ma non deve perdere il diritto di essere curato“, denuncia.

Ad agosto Antonio inizia a non mangiare più e a deperire, i genitori e il Garante sono preoccupati ma dal carcere non ne vogliono sapere, denuncia la sorella: “Dicevano che il fatto di non mangiare era strumentale, che lo faceva per ottenere dei benefici e che la situazione era sotto controllo. Invece era proprio lui che non riusciva a ingoiare più niente perché stava male. L’ultima volta che i miei lo hanno visto era sulla sedia a rotelle perché non si reggeva più in piedi”.

Ma in carcere la cartella clinica di Antonio era di poche righe, rivela la sorella Natascia: “Persino un agente della penitenziaria un giorno, facendo un rapporto, aveva scritto di lui che non stava bene e che doveva essere monitorato. Ma nessuno lo ha fatto”.

Lo shock è arrivato quando Natascia lo incontra in ospedale, ormai in coma: “Ho sollevato il lenzuolo e ho visto le costole che spuntavano, la pelle sembrava coperta da ematomi, il volto scavato… Sembrava Stefano Cucchi”.

Secondo la procura nella gestione della salute di Antonio anche il suo atteggiamento poco collaborativo avrebbe avuto effetti: il 28enne, pur collaborativo del detenuto aveva avuto un ruolo nella gestione della sua salute dal momento che, pur desiderando le cure, non aveva accettato il ricovero nel repartino delle Molinette. Tesi questa che la sorella smentisce parzialmente: “Era stato lui a chiedere di essere dimesso, questo è vero, però lo aveva chiesto perché lì diceva di stare peggio che in carcere: doveva stare legato al letto, senza neanche un’ora d’aria, senza potersi fumare una sigaretta, in mezzo ai malati psichiatrici. Ma non vuol dire che non volesse essere curato”.

Obiettivo della famiglia Raddi è quello di riaprire l’inchiesta perché, spiega Natascia, “chi è detenuto non deve perdere il diritto a essere curato e assistito. Non si possono far morire le persone in carcere”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Un processo mediatico.

Processo Scazzi a Taranto…aspettando la Cassazione.

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Ne parliamo con il dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che ben conosce quel foro avendo esercitato la professione forense e dalla cui esperienza ne sono usciti dei libri.

«Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati».

è stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani.

In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione.

Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità e buon andamento (efficienza).

Franco Coppi, lo sfogo: “Ad Avetrana due malcapitate”. Caso riaperto? Libero Quotidiano il 29 novembre 2022

Franco Coppi, l'avvocato difensore di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, è stato raggiunto da Il Giornale su uno dei casi più complessi della storia giudiziaria italiana: l’omicidio di Sarah Scazzi avvenuto il 26 agosto del 2010 ad Avetrana, in provincia di Taranto. Il processo si è chiuso, dopo una lunga e tortuosa inchiesta, con le condanne all’ergastolo della cugina Sabrina e la zia Cosima per concorso in omicidio, mentre lo zio Michele Misseri è stato condannato a otto anni per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove. Coppi, difensore tra gli altri di Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti, si batte da sempre su questo caso, per questo prova ora a fare chiarezza in un'introduzione al libro inchiesta, da poco uscito, di Rino Casazza: "Il delitto di Avetrana". 

"Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità". Per il legale non c'è alcun dubbio. Sabrina e Cosima sono sempre state innocenti, per cui rivendica, ancora una volta, il loro diritto alla presunzione di innocenza. Tuttavia, non c'è da sperare in una revisione del processo, poiché "per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione". Il caso di Avetrana, infatti, si sa, è stato un processo mediatico, forse quello più esposto di sempre. 

Felice Manti per “il Giornale” il 29 novembre 2022.

«Dopo l'esito del processo di Avetrana "celebrato" nei confronti di Sabrina Misseri e della sua anziana madre Cosima, ho sentito assai forte la tentazione di abbandonare tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito, con l'Università, la ragione della mia vita». È un Franco Coppi durissimo a vergare queste parole nell'introduzione del libro Il delitto di Avetrana (Rino Casazza, Algama editore) in uscita in questi giorni. Al telefono con Il Giornale il legale che in passato ha difeso tra gli altri Silvio Berlusconi e Giulio Andreotti rincara la dose. «La successione ininterrotta di errori, pregiudizi, falsità e di incomprensibili sentenze di condanna avevano generato uno sconforto, uno smarrimento e quasi la paura dell'inutilità e della vanità dell'opera della difesa, mai prima provati tanto intensi e così forti da spingermi all'abbandono».

Queste sono parole sue, le conferma?

«Guardi, ho vinto processi che pensavo di perdere e viceversa. Sono così convinto dell'innocenza di queste due malcapitate che questo processo mi colpisce così dolorosamente per le pressioni mediatiche che hanno portato a una sentenza ingiusta, che non coglie la verità. È vero, la voglia di mandare tutto a quel Paese è stata molto forte». 

Eppure, ai più la condanna sembra scritta nel granito. Chiederà la revisione?

«Revisione? Per chiederla è necessario che ci siano nuovi fatti. Se qui non si fa avanti nessuno ad ammettere di aver detto il falso non è possibile. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea, ma è un discorso diverso dalla revisione». 

Avetrana è stato un processo mediatico, lo sappiamo. Contro le storture c'è la riforma firmata dall'ex Guardasigilli Cartabia, no?

«Mah, ho molte perplessità. Dopo più di 50 anni passati nei tribunali vedo con preoccupazione il futuro dell'avvocatura, che mi sembra molto sacrificato rispetto ai diritti della difesa in Appello e in Cassazione. Non credo possa contare su contributi significativi alle storture della giustizia, anche perché sono così tante e tali che non si può pensare di risolverli con questo tipo di provvedimento». 

Che cosa andrebbe riformato, secondo Lei?

«Per esempio, servirebbe la riforma dell'udienza preliminare ma non un semplice gioco di parole. Bisogna prendere atto che l'istituto è fallito. Bisogna pensare a come sostituirlo, anziché ritoccarlo».

Cosa ne pensa del Guardasigilli Carlo Nordio?

«È un magistrato di grandissima esperienza, so che affronterà il tema della giustizia con cognizione di causa. Posso solo augurargli buon lavoro». 

Il prossimo 13 dicembre il Parlamento deciderà i 10 membri laici del Csm. Mai come questa volta il suo peso sarà decisivo per riscrivere le regole del funzionamento della giustizia.

«Il ruolo del Csm è certamente delicatissimo ma io sono convinto che tutto dipenda dalle persone: c'è da sperare che vengano scelte persone che siano in grado di assolvere al loro compito. Credo poco ai pronunciamenti astratti, voglio vederli all'opera».

La magistratura ha gli anticorpi per chiudere i conti con il passato? Penso al caso Palamara, ai casi Davigo-Storari eccetera...

«Se penso a tutta una serie di magistrati che ho conosciuto sono ottimista, se penso a un'altra serie di magistrati sono pessimista».

Michele Misseri, la disperata lettera sul delitto di Avetrana: "Sono io il vero colpevole" – esclusivo. E.M. il 30 novembre 2022 su  Oggi

Il contadino di Avetrana continua a dichiararsi unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi. E scagiona moglie e figlia, che non hanno mai risposto alle sue lettere di scuse: "Quando uscirò dal carcere, dovrò lottare per l’innocenza di Sabrina e Cosima"

Michele Misseri scrive dal carcere, ribadendo di essere l’unico responsabile dell’omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana nell’estate di dodici anni fa: "Io sono il vero colpevole. Mi fa rabbia che io faccio trovare tutto e mi credono innocente." 

Parla Michele Misseri, prima di tornare in carcere: "Chiedo perdono per i miei errori" – ESCLUSIVO

CORTE EUROPEA - La lettera, che Oggi ha visionato in anteprima, è stata recentemente inviata Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli, autori del documentario di Discovery Tutta la verità ed è inserita nel libro Il delitto di Avetrana, edito da Algama, di Rino Casazza: un volume nel quale viene ricostruita l’intera vicenda, dalle indagini al processo fino ai tanti processi satellite. Un caso unico nella storia giudiziaria italiana, dove il reoconfesso è stato assolto dall’omicidio e all’ergastolo ci sono due persone che si dichiarano fin dall’inizio innocenti: sua moglie Cosima Serrano e sua figlia Sabrina. L’avvocato Nicola Marseglia, tra i difensori di Sabrina Misseri, spiega di aver fatto ricorso alla Corte di Strasburgo per violazioni dei diritti della difesa e che l’istanza ha superato l’esame di ammissibilità. Cuore del ricorso quanto dichiarò il fioraio Giovanni Buccolieri, le cui parole furono decisive per la sentenza per quanto egli stesso ebbe a ribadire di aver fatto solo un sogno: "Il ‘sogno del fioraio’ è noto. – spiega il legale a Casazza –  È sufficiente dire che l’autore lo ha definito tale e che quelli che hanno raccolto dall’inizio le sue confidenze hanno dichiarato che Giovanni Buccolieri ha parlato loro sempre e soltanto di un sogno. Se la CEDU dovesse accogliere il ricorso presentato dalla difesa sarebbe sicuramente più agevole la strada della revisione della sentenza di condanna, che andrebbe avviata in ogni caso alla luce dei nuovi elementi di prova scoperti successivamente al giudizio o comunque non esaminati nel corso dello stesso".

UN GIORNO IN PRETURA - Nel libro, con la prefazione del professor Franco Coppi, prende una posizione netta a favore delle due donne condannate uno dei volti più noti del giornalismo e della cronaca giudiziaria, ovvero Roberta Petrelluzzi di Un giorno in pretura: "Possibile che Sabrina sia stata spinta a uccidere Sarah, che per lei era come la sorellina più piccola, per gelosia di un giovanotto molto più grande della cuginetta? Ancora più difficile da credere che la zia Cosima abbia potuto farle del male per un motivo del genere, dopo che l’aveva sempre benevolmente e affettuosamente accolta in casa propria, presso la quale trascorreva addirittura la maggior parte del tempo. Ed è per tutto questo che penso che nel cosiddetto ‘processo di Avetrana’ non si sia fatta giustizia".

LA LETTERA - Ma cosa dice la missiva del contadino? Comincia così: "Io ho sempre detto che il vero colpevole sono io, ma nessuno mi vuole credere, ma tutti proprio tutti sanno che io sono il vero colpevole e lo sono tuttora. Il rimorso me lo porto per tutta la vita, i giudici hanno paura di dire che hanno sbagliato e hanno messo due innocenti in carcere". Ricorda che il 15 ottobre 2010, quando ricostruì l’accaduto, prese due pillole "una arancione e una bianca. Di quel giorno non ricordo quasi nulla e stavo male vorrei che lei guardasse di nuovo quel video per vedere io come parlavo, mi hanno fatto tante di quelle domande. Sono arrabbiato perché nel video, nella registrazione, ci sono l’inizio e la fine. Perché non c’è nessuna registrazione della parte in mezzo? Non ricordo niente, sono io il vero colpevole".

NON MI RISPONDONO - Quanto a moglie e figlia "ho chiesto tante volte a Sabrina e Cosima perdono, ma ho perso il conto di quante lettere ho scritto a Sabrina e Cosima, ma nessuna risposta. Ho distrutto la mia famiglia e tante altre famiglie, tutto questo per il maledetto trattore che non partiva. Ero incazzato nero e poi tante bugie che avevo detto perché mi vergognavo di dire la verità. Io volevo farla finita per il rimorso, stavo per uccidermi, sono andato alla Contrada Mosca, vicino all’albero del fico dove da piccolo mio padre mi legava da bambino, stavo per bere un potente veleno e qualcuno mi diceva non farlo e così ho pensato: "Se mi ammazzo il povero Angelo non lo trova nessuno". Quello che vi voglio dire: se Sabrina e Cosima, fossero state colpevoli perché non hanno detto: "siamo state noi". E non c’era bisogno di prendere l’ergastolo, fine pena mai, perché tutt’ora si dichiarano innocenti e fino ad adesso io mi sono sempre dichiarato colpevole. Sono innocenti Sabrina e Cosima, io ho paura che Sabrina la faccia finita per colpa mia. Questa è la paura che ho, sono state condannate ingiustamente".

NON HO MAI ACCUSATO COSIMA - Ma Michele non intende fermarsi: "Mia moglie: non c’è scritto da nessuna parte che io ho fatto il nome di Cosima. Mio fratello Carmine è stato arrestato da innocente e anche un mio nipote, Cosimo Cosma, anche lui innocente, nel corso dei processi è morto, pace alla Sua anima. Tutto quello che mi fa rabbia è che io faccio trovare tutto e mi credono innocente. È  tutto falso, io quando esco da qua non mi fermo, devo lottare per l’innocenza di Sabrina e Cosima, è giusto. Perché io dovevo prendere l’ergastolo, i miei sensi di colpa me li porto per tutta la vita".

LA LETTERA DI VALENTINA - Non è quella di Michele l’unica lettera ospitata nel libro: la seconda è quello dell’altra figlia, Valentina. La quale non ha dubbi che l’unico responsabile dell’omicidio e che sfoga la propria amarezza: "Non ho mai creduto molto nei miracoli. Ma posso dire, invece, di essere una miracolata. Questo perché se fossi partita solo un giorno dopo da Roma, dove mi trovavo, per andare ad Avetrana, adesso sarei sicuramente in carcere con mia sorella Sabrina e con mamma. Dico questo perché anche io sarei andata assieme a loro dai carabinieri e poi a controllare la maturazione dell’uva della mia vigna, in un terreno che agganciava la cella telefonica che copriva anche la zona di San Pancrazio Salentino, un paesino vicino ad Avetrana. La stessa cella che aggancia molti luoghi in quella zona, visto che per dimensioni Avetrana non è certo Milano o Roma. E che aggancia quindi anche, e non solo, la zona del pozzo dove è stato trovato il corpicino di Sarah. Per gli inquirenti la "prova" che mia madre e mia sorella sarebbero andate lì, al pozzo e non alla vigna, a controllare se il corpo di Sarah fosse stato occultato bene da mio padre. "Prova", quella in realtà del controllo del livello dello zucchero negli acini d’uva, che avrebbe "inchiodato" anche me. Oggi, per questa semplice attività, che è una consuetudine di chi ha una vigna, sarei in galera". e.m.

“Sarei potuta essere in carcere anch’io”. Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella. Valentina Misseri il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Pubblichiamo la lettera che Valentina Misseri ha scritto a Rino Casazza, autore del libro sul caso di Avetrana disponibile su Amazon. Nella lettera la figlia di Michele Misseri reclama l'innocenza della mamma e della sorella e accusa: "Se fossi stata a casa anche io avrebbero arrestato anche me".

Non ho mai creduto molto nei miracoli. Ma posso dire, invece, di essere una miracolata.

Questo perché se fossi partita solo un giorno dopo da Roma, dove mi trovavo, per andare ad Avetrana, adesso sarei sicuramente in carcere con mia sorella Sabrina e con mamma.

Dico questo perché anche io sarei andata assieme a loro dai carabinieri e poi a controllare la maturazione dell’uva della mia vigna, in un terreno che agganciava la cella telefonica che copriva anche la zona di San Pancrazio Salentino, un paesino vicino ad Avetrana. La stessa cella che aggancia molti luoghi in quella zona, visto che per dimensioni Avetrana non è certo Milano o Roma. E che aggancia quindi anche, e non solo, la zona del pozzo dove è stato trovato il corpicino di Sarah. Per gli inquirenti la “prova” che mia madre e mia sorella sarebbero andate lì, al pozzo e non alla vigna, a controllare se il corpo di Sarah fosse stato occultato bene da mio padre. “Prova”, quella in realtà del controllo del livello dello zucchero negli acini d’uva, che avrebbe “inchiodato” anche me. Oggi, per questa semplice attività, che è una consuetudine di chi ha una vigna, sarei in galera.

Ma se sono stata miracolata non lo devo ad una entità superiore.

Lo devo ad una persona: si chiama Stefano ed è mio marito.

In quei giorni stavo sostituendo una persona per un lavoro in portineria e il mio contratto sarebbe scaduto l’8 settembre. Nei giorni precedenti, appena appresa la notizia della scomparsa di Sarah, volevo partire immediatamente e a tutti i costi per Avetrana. Ma mio marito mi fece riflettere: mi consigliò di rispettare gli impegni che avevo preso dal punto di vista contrattuale perché, andandomene, avrei costretto, rovinandole le uniche vacanze, a far tornare la persona che stavo sostituendo. Mancavano pochi giorni alla fine del mio impegno, le ricerche erano già partite, e a parte il mio sostegno dal punto di vista emotivo, sarei servita a poco precipitandomi giù.

Quei giorni di attesa fino all’8 settembre, furono interminabili. Piangevo tutte le notti e di giorno “facevo la forte” davanti alle persone che dovevo ricevere in portineria, ma appena ero sola scoppiavo di nuovo a piangere e lo stesso facevo con mio marito.

Volevo essere vicina a zia Concetta, alla mia famiglia. Finalmente arrivata ad Avetrana, ricordo che lasciai la valigia a casa e andai con mia madre direttamente da zia Concetta. Ricordo che c’era già una troupe televisiva di un canale locale fissa davanti a casa sua. Per noi, pensavamo, era importante la presenza dei giornalisti perché più si parlava di Sarah e meglio era, perché la volevamo a casa il più presto possibile.

Nessuno, e dico nessuno, conosceva Sarah meglio di me, Sabrina e Antonella, un’altra cugina di Sarah, sua coetanea, figlia di nostra zia Dora. Ricordo la rabbia di Sabrina quando si parlava di una possibile pista su Facebook, per la quale Sarah sarebbe stata adescata via social. Sabrina continuava a ripetere in modo deciso di lasciar perdere e di non seguire quella pista perché Sarah, da sola, non sapeva usare il computer.

Strano comportamento per chi poi è stata considerata l’assassina di nostra cugina. Se fosse tale, avrebbe avuto tutto l’interesse a far proseguire gli inquirenti su quella pista. Così come, quando venne ipotizzato che Sarah avrebbe potuto accettare un passaggio da qualche sconosciuto, Sabrina insisteva in modo fermo sul fatto che Sarah mai e poi mai sarebbe salita sulla macchina di qualcuno che non conosceva, visto che a malapena accettava dei passaggi da chi conosceva. Questo perché Sabrina e mia madre avevano - e hanno - la coscienza pulita e speravano di riabbracciare Sarah al più presto.

Ricordo che in quei giorni, appena alzate, la prima cosa che facevano era quella di andare a casa di zia Concetta. A casa nostra non si pensava a nient’altro che a Sarah: la gestione della casa, da tutti i punti di vista, era ovviamente trascurata. E quello è stato anche l’unico periodo in cui abbiamo trascurato nostro padre, del resto zia Concetta aveva bisogno di noi e noi molto spesso eravamo da lei per aiutarla. E a veder bene, ricordo chiaramente che l’unico che invece non è mai andato a casa di zia Concetta - tranne che per il funerale del nonno di Sarah - era proprio papà.

Evidentemente aveva la coscienza sporca. Ricordo che sia a pranzo, sia a cena mangiavamo al massimo un panino e col passare dei giorni ci chiedevamo se a Sarah stessero dando del cibo a sufficienza. Oppure quando le giornate stavano diventando più fredde, ci chiedevamo se le avessero dato delle coperte.

Di fronte a queste parole, l’unico che non diceva nulla era proprio papà.

Mi chiese solo una cosa, un giorno: “Ma secondo te troveranno mai chi ha preso Sarah?” Io gli risposi che ci sarebbe voluto del tempo, le indagini stavano andando avanti, ma alla fine li avrebbero trovati.

Sono passati quasi dodici anni da allora. E in tutti questi anni siamo state giudicate da tutti.

Per quanto amara, è la semplice cronaca dei fatti: la cronaca di come è avvenuta la cronaca.

Ricordo le trasmissioni al mattino, al pomeriggio, di sera, a notte inoltrata, dove tutti parlavano in continuazione della mia famiglia. Tutti avevano qualcosa da opinare.

Presentatori, attori, mogli di calciatori, politici, sacerdoti, suore, passanti. Tutti a parlare - male - di noi. Poche le voci fuori dal coro, come quelle del Prof. Natale Fusaro, della criminologa Roberta Sacchi e poi del Generale Luciano Garofano. Voci che venivano regolarmente massacrate sui social. Una delle rarissime vicende nelle quali il diritto al dissenso, rispetto a quello che era divenuto uno schema ormai, non era praticamente concesso. Se in televisione di solito funziona il botta e risposta, nel nostro caso c’erano solo botte. Invece, per essere popolari, per riscuotere “successo”, bisognava dire che eravamo una famiglia di merda. L’applauso era garantito.

Ricordo un politico leghista - che ora non c’è più - dire che io, mia madre e mia sorella eravamo delle merde. Come detto, immancabile è arrivato l’applauso del pubblico anche per lui, ormai un riflesso condizionato. Ricordo il conduttore di un programma televisivo che ci definì “una famiglia disgustosa”. La mia famiglia non è mai stata disgustosa.

E per quanto possa sembrare strano dirlo oggi, non lo era stato nemmeno mio padre: fino al giorno in cui ha fatto quello che ha fatto a Sarah, confessandone successivamente l’uccisione, per poi subito dopo far ritrovare il suo corpo senza vita. Fino a quel terribile momento ho sempre detto di aver avuto i migliori genitori del mondo. E non lo pensavo solo io: fino a quel momento, Sarah voleva farsi adottare da noi.

Nostro padre, con quello che ha fatto all’improvviso, ha devastato le nostre vite, quelle dei miei zii, tutto quello che di importante e di bello c’era stato, nelle nostre vite tra Italia e Germania.

E la cosa più terribile è che ha tolto la vita a Sarah, mosso dalle più orribili e improvvise pulsioni. Ma noi, mia madre, mia sorella ed io, non c’entriamo nulla. Eppure già prima del processo siamo state condannate e derise.

Ripenso a un giornalista, non di secondo piano, del Corriere della Sera, uno dei maggiori quotidiani italiani, che in un articolo scrisse - non disse in uno studio tv, ma scrisse, cosa che dovrebbe prevedere una riflessione superiore a quella di una diretta televisiva - queste righe: “Lei” - riferito a mia sorella Sabrina - “è la ragazza del dopo mezzanotte, grassottella, collo taurino, braccia da camallo, quella con cui non ti faresti mai vedere in pizzeria, ma che dopo la terza birra e a ora tarda non ti dispiace più come prima.” In pochissime righe: machismo, sessismo e body shaming. Chiudendo poi queste “considerazioni” - non credo in linea con i principi etici dell’Ordine dei Giornalisti - con un “come siamo noi maschi”.

Del resto del nostro fisico si è parlato tanto!

E non lo hanno fatto solo degli uomini. Una giornalista disse anche che noi eravamo invidiose perché eravamo brutte e invece nella famiglia di Sarah erano tutti belli. Insomma siamo state bullizzate. Ma non alle medie, in età adulta… e da altri adulti! Alle medie può succederti, è orribile. Ma alle medie si è ragazzini, immaturi. E non si ricoprono ruoli pubblici, non si bullizza - per quanto possa essere odioso tra compagni di scuola - di fronte a una platea enorme, in un processo che era già iniziato sui media. Siamo state bullizzate, per il nostro aspetto, in spazi molto seguiti e da persone famose, che magari facevano anche parte di associazioni contro il bulling.

Anche Sarah era stata bullizzata. Ne soffriva tantissimo. Noi la capivamo e le siamo state sempre accanto. A Sarah dicevano che era troppo magra, troppo bionda, troppo pallida e non indossava abiti firmati. Noi le dicevamo di non dare retta: “Sarah, sei bellissima!” le ripetevamo.

C’era in particolare una ragazzina, che l’aveva presa di mira, insieme ad altre, formavano un gruppetto che lei capeggiava e che la prendeva in giro pesantemente. Sarah ne soffriva molto.

Dopo la sua morte ho visto quella stessa ragazzina, in televisione, dire di essere un’amica di Sarah. Tutti andavano in televisione. Probabilmente la presenza dei media che c’è stata su Avetrana non è mai stata raggiunta in altri fatti di cronaca. Così, d’accordo con zia Concetta, che ci ha chiesto di aiutarla con i media, mia sorella si è esposta molto ai mezzi di comunicazione.

A un certo punto la situazione era divenuta impossibile.

Ho visto dei giornalisti entrare dentro casa nostra e litigare in modo animato su chi ci doveva intervistare per primo. Poi qualcuno di questi ha avuto anche il coraggio di dire che Sabrina gestiva un’agenda di interviste. Sabrina aveva un’agenda, certo.

Ma era quella degli appuntamenti del suo lavoro, per i trattamenti estetici. Se qualche giornalista le chiedeva disponibilità per un’intervista, doveva controllare che non interferisse con il suo lavoro. Sabrina, come tutti noi, lavorava.

Qualcuno ha detto, anche in televisione, che noi ci siamo fatte pagare per le interviste. Ma è assolutamente falso. Non abbiamo mai preso un centesimo dalle interviste che abbiamo fatto. Al contrario ho saputo che c’è chi ancora riceve dei soldi per delle ospitate o per delle interviste. Non giudico, ma non siamo di certo noi. Non riusciremmo mai a farlo.

Nonostante siano passati quasi dodici anni, a volte mi capita di svegliarmi in piena notte e pensare che tutto quello che è successo sia semplicemente un incubo. È una sensazione che dura pochi secondi. Forse è un desiderio inconscio. Poi svanisce e realizzo che tutto quello che è capitato alle nostre famiglie purtroppo è vero.

Penso a Sarah tutti i giorni. Penso anche a zia Concetta, al suo dolore.

Proprio per la tragedia che è capitata non riesco a capacitarmi del fatto che a lei vada bene la realtà che è uscita dal processo. Lei sa perfettamente quanto volevamo bene a Sarah. Era una parte della nostra famiglia. Ogni tanto penso che zia Concetta sia, in un certo senso, costretta e credere a quella verità processuale.

Che non è la verità.

Durante il processo di primo grado, mia madre e mia sorella erano nel gabbiotto, cercavano disperatamente il suo sguardo. Ma lei non le ha mai guardate. Eppure basta addentrarsi un minimo nelle carte del processo e delle indagini per capire che mia madre e mia sorella sono in carcere e sono state condannate per dei pettegolezzi di paese.

Non ci sono prove, ma addirittura non ci sono indizi veri e propri.

Le testimonianze sull’orario d’uscita da casa di Sarah, raccolte nei primi giorni dalla scomparsa, quando tutti pensavamo fosse viva, sono un alibi per mia sorella e per mia madre. Così come i tabulati telefonici degli sms di Sabrina. Ma, a distanza di tempo dai fatti - è qualcosa che sembra paradossale, un ricordo dovrebbe essere più vivo in prossimità dei fatti, non il contrario - gli orari cambiano. A processo cambiano, rispetto ai verbali e alle interviste in prossimità della scomparsa. Il fatto poi che Sarah aveva detto che sarebbe uscita alle 14.30 da casa per raggiungere Sabrina e andare al mare e che sua madre abbia confermato questo orario nella denuncia ai carabinieri, a processo diventa una bugia di Sarah. Alla quale purtroppo, non possiamo più chiedere di questa bugia ipotizzata dalla Procura (ma mai provata) dato che Sarah non c’è più.

E i tabulati telefonici?

Diventano un sotterfugio degno della peggiore mente criminale, quella di Sabrina. Del resto mia sorella a volte è considerata una sciocca e volte una fredda mente diabolica. Per non parlare della “prova” che ha portato alla condanna all’ergastolo di mia madre. Un sogno, il sogno di un fioraio. Ma cosa è successo alla nostra Giustizia?

In qualsiasi paese civile mia madre e Sabrina non solo non sarebbero state condannate, ma forse non sarebbero state nemmeno portate a processo come imputate.

Una volta tanto che un colpevole, a parte per un delirante breve periodo, ammette di essere colpevole - e da anni mio padre continua a gridare la sua colpevolezza - succede che non viene creduto.

Eppure tutte le prove portano a lui.

È lui che fa trovare il telefonino, il corpo senza vita di Sarah, le sue chiavi di casa, la batteria del cellulare e il punto dove ha bruciato lo zainetto con i vestiti e gli auricolari.

È lui che confessa con numerosi particolari.

È un caso più unico che raro!

Purtroppo al processo hanno contato altri fattori. La costruzione dei media di noi come streghe, rispetto ai fatti. Con la costruzione della figura della vittima, all’interno della sua famiglia, incentrata su nostro padre. Nostro padre ha una mimica facciale e un modo di parlare che fa quasi tenerezza. È stato uno dei motivi che ha facilitato nel farlo passare come una vittima agli occhi dell’opinione pubblica.

E non solo. Si è affermata col tempo l’idea che non sarebbe mai stato capace di un crimine così terribile. Che invece ha compiuto.

In questa costruzione della vittima e di noi, donne dominanti della famiglia, si è arrivati a dire che a lui davamo da mangiare i nostri avanzi.

La realtà è che a casa nostra si è sempre cucinato un po’ di più, perché se avanza qualcosa lo diamo ai nostri animali, un cane e dei gatti. Non credo che prediligere ogni tanto degli avanzi dalla propria tavola per i propri animali domestici a delle scatolette, sia una prova certa di colpevolezza. Ma anche questo è stato messo nel frullatore mediatico - processuale per far passare mio padre come il “Cenerentolo” di casa Misseri, dove io e mia sorella eravamo le “sorellastre” e nostra madre la “matrigna” cattiva.

Nei confronti di mia madre c’è stato poi un accanimento, direi “teatrale”.

È stato fatto di tutto per umiliarla e per umiliarci, compreso l’arresto show. Solitamente gli arresti vengono fatti la mattina presto o di notte. Ma non per mia madre. Lei doveva essere esibita davanti a tutta quella gente che le urlava contro di tutto. In un’esaltazione della folla quasi isterica, mia madre è stata prelevata dai carabinieri a casa la sera, messa alla gogna, tra grida e sputi. In quella massa di persone c’erano mamme con i bambini in braccio e addirittura i testimoni del processo. C’erano Petarra, Mariangela Spagnoletti, l’ex fidanzata di Ivano Russo e l’onnipresente Anna Pisanò.

Credo, come ha anche sottolineato la giornalista Maria Lucia Monticelli di Chi l’ha visto?, che sia stata una delle pagine più basse di tutta questa allucinante vicenda.

Sono d’accordo che le sentenze vanno rispettate. Certo.

E infatti mamma e Sabrina stanno scontando in carcere una pena ingiusta.

Ma penso che i magistrati sono delle persone e come tali possono sbagliare. Quindi rispettare una sentenza non vuol dire avere il divieto di poterla criticare, in modo serio, punto su punto.

Così come mia sorella e mia madre, seppur condannate, devono avere il diritto di proclamarsi innocenti, senza che questo comporti nulla per loro. Ci troviamo di fronte ad un gravissimo errore giudiziario. In Italia ce ne sono stati e ce ne sono, non è una rarità purtroppo. E la cosa che fa più male è che quando un caso diventa mediatico e Avetrana può essere considerata una “svolta” negativa, l’errore giudiziario è spesso dietro l’angolo.

Ma è evidente che non si tratta di un problema solo mediatico o episodico, visti i numeri. In Italia si parla di circa mille persone l’anno in carcere o ai domiciliari, da INNOCENTI. Questi mille sono i “fortunati” che alla fine riescono a dimostrare la propria innocenza. E poi ci sono tantissime persone come mia madre e mia sorella che, seppur condannate senza prove incontestabili, sono ancora in carcere perché i giudici non credono nella loro innocenza.

Prima ancora di porsi il principio della colpevolezza o non colpevolezza.

Eppure si è sempre detto che “è meglio un colpevole fuori che un innocente dentro” ma quello che noto è che negli ultimi anni vale di più il concetto “nel dubbio, tutti dentro”.

Basta pensare che nel nostro caso a fronte di un reo confesso, nostro padre, che si dichiara colpevole, ci sono state una marea di condanne.

In carcere sono finite altre persone innocenti come mio zio Carmelo che per una semplice telefonata è finito in galera e mio cugino Mimino che purtroppo è morto nel bel mezzo di questo lunghissimo iter processuale. Anche loro stritolati dall’ondata persecutoria, mediatica e giudiziaria.

In ogni caso, nonostante il passare degli anni, spero ci sia finalmente uno sguardo diverso, senza preconcetti, su quello che è realmente successo. Che ci siano opere d’informazione che restituiscano la verità di tutta questa vicenda, aldilà della forte pressione dei media che ha influenzato pesantemente tutto il processo. I fatti sono lì, a parlare da soli.

Purtroppo in questi tristi anni, a parte alcuni articoli di Maria Corbi, solo un film documentario ci ha restituito la dignità di persone, mettendo semplicemente in fila gli avvenimenti per come sono andati, nelle loro evidenti contraddizioni: si tratta di “Tutta la Verità – Il delitto di Avetrana” di Cristiano Barbarossa e Fulvio Benelli. Quello che mi auguro è che anche grazie a un lavoro come questo, la verità venga sempre più a galla, che si possa finalmente arrivare alla revisione del processo, sulla quale tanto si stanno impegnando il Prof. Coppi e l’Avv. Marseglia.

E che chi sa, anche tra gli inquirenti della prima ora, parli e dica tutto quello di cui è a conoscenza per ristabilire la verità dei fatti. Del resto, come ho detto all’inizio, non credo molto nei miracoli. Credo di più, nonostante tutto, nella volontà delle persone. In carcere ci sono due innocenti, mentre un colpevole, che non viene ascoltato, chiede di scontare la sua pena.

Sarah, fiore tra i rovi. Il brutale delitto di Avetrana. LA RAGAZZA VITTIMA DELLE “ERINNI DEL SUD” - Odio, vendetta e gelosia: così due donne hanno ucciso la giovinezza. VERONICA TOMASSINI su Il Fatto Quotidiano il 3 Settembre 2022

Ci sono giorni che sembrano purgatori. La preparazione a una qualche apocalisse. Il sole di un pomeriggio di agosto è un sole lattiginoso, individui in luogo di uomini, un mistero imbambolato, sapete, il tedio della controra; figuri, radi, frettolosi, attraversano il paese di Avetrana come nembi neri, spettri. Sarah è bionda, bianca, un cherubino conficcato […] 

Sarah, un fiore tra i rovi (il Fatto quot.) su veronicatomassini.wordpress.com.

Ci sono giorni che sembrano purgatori. La preparazione ad una qualche apocalisse. Il sole di un pomeriggio di agosto è un sole lattiginoso, individui in luogo di uomini, un mistero imbambolato, sapete, il tedio della controra; figuri, radi, frettolosi, attraversano il paese di Avetrana come nembi neri, spettri. Sarah è bionda, bianca, un cherubino conficcato in una terra di zolle rivoltate, giardini di ulivi chini nei poderi, solcati dall’aratro di un buttero con gli occhi sottili, istupiditi dal totem dell’ignoranza, nell’albume di giorni storditi e faticosi.

In uno di quei giorni sei morta, Sarah. Troppo bianca, forse, una gardenia circondata da aspidistre; la rarità nella sommarietà, può darsi; infilzavi con l’allegrezza un cielo di piombo e l’ira tribale che nasconde la ferocia del Sud, il pagliericcio delle Erinni.

Bisogna perdonare e subito. Una morale cattolica lo predica, con la giustezza dell’eco cristica, e solo quello conta, Lui che da lassù, inchiodato al legno santo, il giglio smorto, riuscì a mormorare parole sopra il mondo, Padre, perdona loro. Ma soltanto la luce che penetra accecante con la sua misericordia può trasformare l’esortazione disumana, il perdono in sostanza lo è, in una militanza da visionari, come i bambini sanno esserlo. Tu lo eri ancora in fondo. Un cherubino. Infatti mentre le tenebre della notte precipitavano sulle profondità del pozzo, ed erano tenebre su tenebre, il tuo corpicino era sgusciato su su per il Cielo e pare che il Cielo, nella circostanza dettagliata dell’abominio eseguito dabbasso, si sia squarciato, come il velo del Tempio, e oltre si sia udito un fruscio di voci tenere e gorgoglii simili a un canto, o un sussurro di pettirossi sui rami, era un coro assiepato, disceso da troni e potenze, una composizione armonica quasi musicale di cetre, angeli e arcangeli, sorridenti come amorini. E la nostra madre, la Vergine, con gli occhi tondi, cerulei, immacolati, appena contrita, eppure già con le braccia tese pronta a riceverti: pare fossero tutti lì.

E pare che tu li abbia visti prima, Sarah, proprio mentre qualcuno tirava stretta al collo, fremente, la cavezza dura. E non vorrei sbagliarmi ma persino la cavezza sembrò sussultare, d’un tratto animata da un palpito anomalo, perché umano, impresso finanche nelle cose. Un battito, la cavezza intrisa di un battito, ansimava avanti e indietro, ostile al compito che tuttavia doveva assumere, nel fitto geroglifico di un destino, ed è scritto, è scritto nei rotoli del libro della vita.

Il tuo nome è biblico, Sarah.

Da su, lo sguardo pietoso rovina su un fuoco che non purifica, l’odio, la perversione di un’uggia che diventa il rantolo della fiera, o della creatura spaventosa e mitologica, una fiera con fattezze umane o viceversa. Si sgranava il sacro otre di granuli di misericordia, mentre le donne, madre e figlia, agitavano nell’aria la suggestione demoniaca che afferisce a termini come vendetta, gelosia, e tutta la stirpe di sentimenti inferiori concepiti anch’essi con una ragione che non può riguardarci, non adesso, non è detto forse: “O profondità di ricchezze, di sapienza e di conoscenza di Dio! Quanto imperscrutabili sono i suoi giudizi e inesplorabili le sue vie! Chi infatti ha conosciuto la mente del Signore? O chi è stato suo consigliere?”.

E noi semplicemente a chiederci: perché?

Perché, Sarah?

Le donne sudavano, piegate, chine, sono mezzadre che vangano e estirpano globi di specie purissima invece che la gramigna, si affaticano nel luogo dell’abominio, ree e meschine, allargano il raggio di un cerchio, lo slabbrano, lo sfiniscono, il cerchio è un simbolo mistico, nel cerchio l’origine coincide con la fine, è quella è l’eternità. Il raggio di un cerchio possiamo chiamarlo nella nostra finitezza maldestra: lo Spirito. Oppure: la Misericordia.

Chine sul tuo cadavere, da cui, svagato e vibrante si emancipa il tuo corpo glorioso.

Ti trascinano giù, nella rimessa. C’è un uomo, ha uno sguardo sperso. Lo credi capace di efferatezze?

Diventa una lugubre notorietà. Si perfeziona nell’esercizio della denigrazione di sé medesimo. Si racconta nella paurosa onta di un pederasta. Non trattiene o censura nemmeno i suoi sogni, umbratili, malati. Sono correi. Indossano la colpa primitiva, scoscende nei recessi di un rimorso congelato, non istruito. Non sanno cosa sia un rimorso, non che abbia un senso nella funzione della dialettica perenne, del bene e del male. La guerra, intendo, la contesa. I teologi la indicherebbero in una esegesi precisa in prossimità della fine di questi cieli, e in attesa di altri.

Cos’è la giovinezza?

Avevi imparato a sorprenderla, nel primo timido tentativo di accenderla alla stregua di un lumino che segnava i tuoi passi, un po’ esitanti, ora da bimbetta ora da fanciulla con taluni sospiri da trattenere nel tenero piccolo costato.

Non sarebbe mai accaduta del tutto, la giovinezza. E nemmeno il baluardo di quel giovanotto balzato a fulcro tra te e le erinni, ne sarebbe stato all’altezza.

Cos’è la giovinezza?

È l’inganno per cui ti accorgi che l’eternità è un concetto tale da far nondimeno paura, quando la giovinezza cioè si consegna alle stagioni esaurite. Le primavere che non tornano. Non tornano mai.

Sai le estati con i gelati all’amarena? Li hai assaggiati mai? Non esistono più. O di talune canzoni che ti promettono, ma sai le promesse non si mantengono. No, mai.

Ricordo un brano letterario, antologizzato, di cui mi sfugge l’autore, e ti chiedo scusa, recitava: “Emily. Emily, si può tornare indietro? Si può tornare indietro, a vivere?”.

Non so chi fosse, Emily.

Emily è morta.

L’originale è uscito sulle pagine de Il Fatto Quotidiano, edizione di sabato 2 settembre 2022

Delitto di Avetrana, 12 anni dopo arriva un'altra fiction su Sarah Scazzi, diretta da Mezzapesa. Si chiamerà «Qui non è Hollywood». Dopo le condanne di primo grado, la Corte d’appello di Taranto ha assolto tre imputati e in particolare Giuseppe Olivieri. Francesco Casula su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Agosto 2022.

Sono giunti ieri nella provincia di Taranto il cast e la troupe che daranno forma alla nuova serie televisiva sull’omicidio di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa e gettata in un pozzo nelle campagne di Avetrana il 26 agosto 2010. Proprio ieri, esattamente a distanza di 12 anni da quel delitto. È la società di produzione cinematografica «Groenlandia» a curare la realizzazione della serie su uno dei fatti di cronaca più seguiti e divisivi degli ultimi anni. La fiction, intitolata «Qui non è Hollywood», comincia la sua produzione a distanza di circa un anno dalla docuserie «Sarah – La ragazza di Avetrana», prodotta sempre da Groenlandia e andata in onda su Sky. Il documentario, composto da quattro puntate e diretto da Christian Letruria, era basato sul libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanti ed è stato un ottimo lavoro di ricostruzione della vicenda: sono stati i reali protagonisti reali a riportare sullo schermo i fatti di quell’estate 2010 e i processi che ne sono seguiti e al termine dei quali sono state definitivamente condannate all’ergastolo la cugina di Sarah, Sabrina Misseri, e la madre di quest’ultima Cosima Serrano. Le interviste alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, al fratello Claudio e poi ad avvocati, ex magistrati e giornalisti, come Mimmo Mazza, attuale caporedattore centrale de La Gazzetta del Mezzogiorno, hanno permesso al grande pubblico di rivivere quei giorni, ma soprattutto di approfondire una serie di aspetti che ancora oggi continuano a dividere gli italiani tra innocentisti e colpevolisti.

Nella nuova serie, invece, saranno gli attori a rievocare il delitto di Avetrana: la regia è stata affidata al pugliese Pippo Mezzapesa, reduce da «Ti mangio il cuore», film che uscirà al cinema il prossimo 22 settembre e ambientato nel Gargano falcidiato dalle guerre tra famiglie mafiose. Oltre a Mezzapesa, Groenlandia ha scelto come direttore della fotografia Giuseppe Maio e il barese Paolo De Vita nel ruolo di zio Michele, il contadino condannato in via definitiva per occultamento del cadavere, ma che continua a professarsi l’unico reale responsabile dell’omicidio. Le riprese, che partiranno oggi, dureranno circa 17 settimane e non toccheranno Avetrana: le prime 8 settimane si svolgeranno tra Lizzano, Torricella e Maruggio, mentre le altre 9 saranno girate a Roma.

La narrativa mediatica, insomma, continua a rievocare la storia di Sarah anche a distanza di diversi anni dalla chiusura dei procedimenti giudiziari. A febbraio 2017 la Cassazione confermò le condanne emesse dalle corti di assise nei primi due gradi di giudizio: la vicenda però è finita dinanzi alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo dopo i ricorsi presentati dai difensori delle imputate Franco Coppi, Nicola Marseglia e Lorenzo Bullo. Un procedimento che mira a ottenere la revisione del processo. Tra le carte depositate anche l’ultima sentenza di uno dei tanti processi paralleli aperti sul delitto di Avetrana: l’assoluzione di alcuni dei testimoni che l’accusa considerò «bugiardi» durante il processo principale. Dopo le condanne di primo grado, infatti, la Corte d’appello di Taranto ha assolto tre imputati e in particolare Giuseppe Olivieri: le sue dichiarazioni, ritenute oggi non false, potrebbero rimettere in discussione una serie di elementi che portarono alla condanna di Sabrina e Cosima. E, oltre dodici anni dopo la morte di Sarah, riaprire tutto.

Sarah Scazzi. Chi l’ha uccisa e com’è avvenuto il delitto di Avetrana. Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Sarah Scazzi è morta a 15 anni, protagonista di uno dei casi più sconvolgenti e nebulosi della cronaca nera: il delitto di Avetrana. Chi l’ha uccisa e come è stato commesso l’omicidio

Il caso Sarah Scazzi, consegnato alle pagine della cronaca nera come “il delitto di Avetrana“, è uno dei capitoli più scioccanti che l’Italia ricordi. Ancora ragazzina, nel fiore dei suoi spensierati 15 anni, è stata uccisa in provincia di Taranto nel 2010, il suo cadavere gettato in un pozzo e 3 componenti della famiglia arrestati, processati e condannati nell’alveo delle indagini sull’agghiacciante omicidio. Due di loro, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, madre e figlia rispettivamente zia e cugina della vittima, all’ergastolo perché ritenute le assassine della piccola. Oggi scontano la loro pena nella stessa cella.

Michele Misseri, personaggio tanto centrale quanto controverso nel tessuto familiare e in quello dell’inchiesta sulla morte di Sarah Scazzi, è il marito e padre delle due donne. Inizialmente autoaccusatosi del delitto e di aver abusato della vittima dopo la sua morte, ha chiamato in correità la figlia, salvo poi ritrattare innescandone l’arresto e finendo poi per assumere il profilo di inattendibilità agli occhi della giustizia. Misseri è stato infine condannato per il solo occultamento del corpo. Ancora oggi continua a sostenere la propria colpevolezza dichiarandosi l’assassino, non creduto dagli inquirenti, nel tentativo di restituire alle congiunte l’immagine di innocenti e vittime di un colossale errore giudiziario. Versione completamente demolita nei tre gradi di giudizio a loro carico.

Sarah Scazzi è scomparsa il 26 agosto 2010 ad Avetrana mentre, secondo quanto dichiarato da Sabrina Misseri nelle prime fasi dell’inchiesta, percorreva il tragitto tra la casa in cui viveva con la madre, Concetta Serrano (sorella di Cosima), e quella dei Misseri. Un percorso che avrebbe dovuto compiere in pochi minuti per poi trascorrere un pomeriggio al mare. Dopo settimane di appelli della famiglia, di apparizioni televisive di zii e cugina per ritrovarla, l’inaspettata svolta.

Il 7 ottobre dello stesso anno, 42 giorni dopo l’inizio del giallo di Sarah Scazzi, il corpo della 15enne sarebbe stato recuperato da un pozzo di contrada Mosca, nelle campagne di Avetrana, indicato dallo zio Michele Misseri nel corso di una agghiacciante confessione. Messo alle strette dagli inquirenti, dopo aver simulato il ritrovamento fortuito del telefonino della nipote, avrebbe rivelato di essersi disfatto del cadavere dopo aver commesso l’omicidio nel garage della sua abitazione lo stesso giorno della sparizione. Ma non solo: Michele Misseri avrebbe inizialmente confessato una violenza sessuale post mortem ai danni della vittima poi smentita dalle indagini.

Pochi giorni più tardi, il 15 ottobre, Michele Misseri ha chiamato in correità la figlia Sabrina, accusandola di aver ucciso Sarah Scazzi e attribuendosi il solo occultamento. Versione confermata e cristallizzata in incidente probatorio. A dicembre dello stesso anno, Misseri ha cambiato ancora versione dicendosi colpevole dell’intera azione omicidiaria, dal delitto alla soppressione del cadavere. Nel maggio 2011, dopo l’arresto di Sabrina Misseri, lo stesso provvedimento ha raggiunto Cosima Serrano, madre della giovane e moglie di Michele Misseri. Entrambe accusate di aver ucciso la 15enne, nel 2017 sono state condannate in via definitiva all’ergastolo. 8 anni di reclusione, invece, allo zio di Sarah Scazzi ritenuto responsabile dell’occultamento.

L’autopsia sul corpo di Sarah Scazzi avrebbe fatto emergere un dato: la ragazzina sarebbe stata strangolata con una cintura e il decesso sarebbe subentrato nel giro di pochi minuti, 2 o 3 riporta la deposizione del medico legale in aula, per asfissia. L’esame autoptico avrebbe escluso segni di violenza sessuale, nulla che rimandasse a quell’abuso di cui Michele Misseri si era autoaccusato nell’immediatezza della sua versione da reo confesso per l’omicidio e la soppressione del corpo della nipote.

Secondo la ricostruzione consacrata nei tre gradi di giudizio a carico di Cosima Serrano e Sabrina Misseri, a uccidere la 15enne sarebbe stata l’azione di entrambe. Una l’avrebbe trattenuta in quel garage, immobilizzandola, l’altra l’avrebbe strangolata. Michele Misseri, assente sulla scena al momento del delitto, sarebbe stato coinvolto in un secondo momento per il trasferimento del corpo nel sito in cui poi sarebbe stato ritrovato. Il movente dell’omicidio, stando a quanto emerso, sarebbe da rintracciare nella presunta gelosia di Sabrina Misseri per l’amicizia tra la cugina Sarah Scazzi e un giovane di cui era invaghita, Ivano Russo. 42 giorni dopo l’inizio del giallo di Avetrana, l’epilogo intorno a cui, ancora oggi, sinistri interrogativi abbondano tra le letture collaterali alla cronaca giudiziaria. 

Claudio Scazzi chi è. Fratello di Sarah Scazzi, “Mia sorella si poteva salvare”. Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Claudio Scazzi, fratello di Sarah Scazzi, ha lottato con tutte le sue forze per dare verità e giustizia alla sorella 15enne uccisa ad Avetrana nel 2010

Claudio Scazzi continua a pensare che sua sorella potesse essere salvata. Il fratello di Sarah Scazzi, la 15enne uccisa nel 2010 ad Avetrana, ha sempre portato avanti una linea di grande discrezione e cautela nonostante i terribili risvolti dell’omicidio che ha cambiato per sempre la sua vita e quella della loro famiglia. Ma non solo: un caso che ha fatto implodere un altro nucleo familiare, quello dei suoi zii Cosima Serrano (sorella della madre di Claudio e Sarah Scazzi, Concetta) e Michele Misseri.

In carcere, accusate di aver commesso il delitto e condannate all’ergastolo, si trovano Cosima Serrano e sua figlia Sabrina Misseri, coinvolte nell’inchiesta dopo le rivelazioni di Michele Misseri che, inizialmente autoaccusatosi del crimine, avrebbe ritrattato una prima volta chiamando in correità quest’ultima. L’uomo è stato condannato a 8 anni di reclusione perché ritenuto responsabile del concorso nell’occultamento del cadavere di Sarah Scazzi, trovato in un pozzo di contrada Mosca 42 giorni dopo la scomparsa. Ancora oggi, secondo Claudio Scazzi, sono tanti i dubbi che gravitano intorno al caso passato alle cronache come “il delitto di Avetrana“.

Claudio Scazzi è il fratello maggiore di Sarah Scazzi, figlio di Concetta Serrano – sorella di Cosima, una delle due donne condannate per l’omicidio della figlia minore – e di Giacomo Scazzi. Da anni vive e lavora in Lombardia, mentre la sorella e la madre si trovavano nella provincia di Taranto al momento della scomparsa e del delitto della 15enne. Ogni estate Claudio Scazzi raggiungeva il resto della famiglia al Sud, come prima di quel 26 agosto 2010 quando di Sarah Scazzi si persero le tracce. 42 giorni dopo, il 7 ottobre, lo zio Michele Misseri avrebbe fatto ritrovare il corpo della ragazzina in un pozzo delle campagne di Avetrana, aprendo così a uno degli orrori più sconvolgenti della cronaca nera italiana.

Da allora, Claudio Scazzi e i genitori hanno intrapreso una lunga e coraggiosa battaglia per la verità, per quella giustizia che sarebbe arrivata, anni più tardi, con la condanna in via definitiva di due membri della loro famiglia – la zia Cosima Serrano e la cugina Sabrina Misseri – per omicidio volontario e di un terzo, Michele Misseri, ritenuto colpevole dell’occultamento del corpo. Le due donne all’ergastolo, oggi scontano la pena nel carcere di Taranto e condividono la cella, l’uomo a 8 anni di reclusione.

Non ha dubbi Claudio Scazzi, quando parla ai microfoni della tv, come nell’ultima intervista rilasciata a Quarto Grado, per sostenere che sua sorella abbia avuto giustizia e che l’esito dell’iter processuale a carico dei loro parenti sia corretto. Ma non ha dubbi neppure sul fatto, come ha detto a Gianluigi Nuzzi nella stessa trasmissione di Rete 4, che Sarah Scazzi “si poteva salvare”. La “grande colpa” dei parenti condannati per l’omicidio, secondo il giovane, sarebbe quella di “non averla soccorsa”.

Claudio Scazzi ha dichiarato inoltre di provare un mix di sentimenti verso le persone ritenute colpevoli della morte di Sarah Scazzi. A fasi alterne, nel difficilissimo percorso di elaborazione del lutto che ha travolto la sua famiglia, ma continua a dirsi sereno sulla bontà dell’azione degli inquirenti. Ogni pista e ogni traccia, secondo il suo punto di vista, sono state vagliate fino ad arrivare alla sentenza. Dal canto loro, Cosima Serrano e Sabrina Misseri continuano a dirsi innocenti mentre Michele Misseri, a più riprese, sarebbe tornato a limare la sua versione dei fatti attribuendosi nuovamente la totalità dei reati sul caso Scazzi, dall’omicidio all’occultamento del cadavere. Una posizione ritenuta inattendibile dalla giustizia.

Ai microfoni del quotidiano Il Giorno, Claudio Scazzi ha ripercorso le durissime tappe della vicenda personale e giudiziaria attraversata dopo la morte della sorella. L’omicidio di Sarah Scazzi è avvenuto nel 2010: la 15enne, data per scomparsa il 26 agosto di quell’anno, sarebbe stata ritrovata senza vita in un pozzo il 7 ottobre successivo su indicazione dello zio Michele Misseri. L’uomo inizialmente autoaccusatosi del delitto e di aver abusato della piccola dopo il decesso.

Claudio Scazzi ha visto sua sorella per l’ultima volta poco prima del 26 agosto e hanno trascorso insieme la mattinata prima che lui tornasse ai suoi impegni lavorativi al Nord Italia: “Ci siamo salutati in casa con la promessa di telefonarci…”. Poi il dramma e un grandissimo interrogativo: perché? Secondo l’accusa a carico di Sabrina Misseri, questa sarebbe stata gelosa del rapporto di confidenza tra la cugina 15enne e Ivano Russo, un giovane del posto su cui aveva investito parecchie aspettative sentimentali. Non ricambiata, Sabrina Misseri avrebbe covato un livore tale che, sul finire di quella estate, avrebbe agito contro la minore con la complicità della madre prima, durante l’azione omicidiaria, e poi del padre nella fase di occultamento del corpo.

Michele Misseri chi è. Zio di Sarah Scazzi, le versioni e la condanna (Delitto di Avetrana). Giovanna Tedde il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Michele Misseri è lo zio di Sarah Scazzi, autoaccusatosi dell’omicidio della 15enne prima di chiamare in correità la figlia Sabrina Misseri e cambiare ancora rotta: le versioni e la condanna

Figura chiave nel caso Sarah Scazzi, Michele Misseri, zio della 15enne uccisa ad Avetrana nel 2010, inizialmente si è autoaccusato dell’omicidio prima di chiamare in correità la figlia, Sabrina Misseri, e attribuirle l’esecuzione materiale del delitto. Una girandola di versioni contrastanti che l’uomo ha concluso atterrando sulla sua posizione di reo confesso, non creduto dagli inquirenti e perciò condannato a processo per il solo occultamento del cadavere: 8 anni di reclusione.

Michele Misseri, dopo aver trascinato il nome della figlia minore Sabrina nel fuoco dell’inchiesta, avrebbe poi cercato di “ripulirla” ma il suo continuo cambio di rotta non ha convinto la giustizia. La giovane e sua madre, Cosima Serrano, sono state condannate all’ergastolo in via definitiva per il delitto di Avetrana. Oggi scontano la pena nella stessa cella del carcere di Taranto mentre il congiunto, rispettivamente loro padre e marito, avrebbe iniziato un percorso propedeutico al ritorno in libertà. Michele Misseri che dice tutto e il contrario di tutto, con quel linguaggio claudicante come le certezze che ha iniettato nell’opinione pubblica e tra le carte dell’inchiesta attraverso le molteplici declinazioni del suo racconto. Una condanna lieve e una sola etichetta: inattendibile.

Michele Misseri è lo zio di Sarah Scazzi, la 15enne scomparsa ad Avetrana il 26 agosto 2010 e trovata senza vita in un pozzo delle campagne locali, in contrada Mosca, 42 giorni più tardi su sua indicazione. Dopo aver simulato il fortuito ritrovamento del cellulare della piccola, Misseri avrebbe confessato agli inquirenti, in lacrime, di averla uccisa strangolandola nel garage della sua casa con una corda e di averne poi gettato il corpo nel luogo del successivo ritrovamento. Non prima, secondo la sua iniziale versione datata 6 ottobre 2010, di aver consumato un rapporto sessuale con il cadavere della nipote. Uno scenario agghiacciante, l’alba di una serie di dichiarazioni e ritrattazioni tra mea culpa, chiamate in correità a carico della figlia Sabrina Misseri e colpi di scena.

Michele Misseri ha sposato la zia di Sarah Scazzi, Cosima Serrano, sorella della madre della 15enne Concetta Serrano, e con la famiglia della piccola avrebbe sempre avuto un rapporto che può dirsi “normale”. Nulla, di quelle presunte attenzioni sessuali per la nipote di cui si era autoaccusato dopo i fatti di Avetrana, avrebbe mai fatto capolino tra i sospetti dei parenti. Il rapporto coniugale dei Serrano-Misseri sarebbe stato, però, tutt’altro che pacifico. Secondo quanto ricostruito e sottolineato dalla stessa figlia Sabrina, secondogenita dei due dopo la nascita di Valentina Misseri, la coppia avrebbe condotto una vita piuttosto lontana da quello che può definirsi un matrimonio sereno. Continue liti, letti separati e una sola occasione di condivisione: il lavoro nei campi. Agricoltore esperto, Michele Misseri sarebbe stato spesso affiancato dalla moglie nelle mansioni in campagna e, per un certo periodo di tempo, è stato emigrato in Germania con la famiglia. Poi il ritorno in iIalia, con una bella villetta al civico 22 di via Deledda, nel cuore di Avetrana…

Michele Misseri ha fornito un tantacolare racconto del delitto di Avetrana, senza essere creduto se non per la sua dichiarata responsabilità in ordine alla soppressione del cadavere della piccola Sarah Scazzi. Reato di cui è stato riconosciuto colpevole a giudizio e che gli è valso una condanna a 8 anni di carcere. La moglie Cosima Serrano e la loro figlia minore, Sabrina Misseri, scontano l’ergastolo a Taranto. Il 6 ottobre 2010 la prima versione di Michele Misseri: vede Sarah Scazzi arrivare a casa loro il 26 agosto per andare al mare con la cugina Sabrina, la piccola va in garage dove lui, alle prese con la sistemazione del suo trattore, tenta un approccio sessuale e, rifiutato, colto da un raptus aggredisce la nipote alle spalle e la strangola con una corda. Mette il cadavere nel portabagagli della sua auto e va in campagna, spoglia il corpo e consuma un atto sessuale post mortem prima di gettarlo in un pozzo in contrada Mosca.

Il 15 ottobre 2010 nuova versione di Michele Misseri sull’omicidio di Sarah Scazzi, per la prima volta l’uomo accusa la figlia Sabrina: la nipote giunge a casa loro e Sabrina Misseri la costringe in garage. L’obiettivo, concordato precedentemente tra padre e figlia, è dare una lezione alla 15enne perché non riveli le presunte attenzioni sessuali che riceve dallo zio. Sabrina tiene Sarah per le braccia e Michele Misseri la strangola. Impaurita la figlia si allontana e lui, da solo, si disfa del corpo. Ai primi di novembre nuovo cambio di rotta con Michele Misseri che afferma una nuova ricostruzione del delitto di Avetrana: Sabrina e Sarah stanno per andare al mare ma litigano all’arrivo della minore, forse per la gelosia della figlia di Misseri nei confronti di un amico comune, Ivano Russo. La ragazza trascina la cuginetta in garage, la lite si traduce in azione omicidiaria con Sabrina Misseri che strangola Sarah Scazzi con una cintura. Sabrina Misseri sveglia suo padre, che dorme al piano superiore, e gli lascia in mano la situazione, confidando nel fatto che sarà lui a occultare il cadavere mentre lei andrà in spiaggia con un’amica. A fine novembre del 2010, Michele Misseri offre un’altra declinazione sugli eventi: ritratta l’abuso sul cadavere e conferma le accuse alla figlia Sabrina, attribuendosi la sola fase di occultamento. Dal febbraio 2011, e per tutto il processo, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi dell’intera esecuzione dell’omicidio e, con una serie di lettere, cerca di scagionare moglie e figlia. Tentativo reiterato più volte, per altrettante caduto nel vuoto. 

Cosima Serrano, chi è: zia di Sarah Scazzi. “Regista delitto Avetrana”: ergastolo, lei… Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Cosima Serrano, chi è? Zia di Sarah Scazzi sta scontando la condanna all’ergastolo per il suo delitto insieme alla figlia Sabrina Misseri: le accuse

Cosima Serrano sta attualmente scontando la condanna all’ergastolo per l’omicidio della nipote Sarah Scazzi, nel carcere di Taranto, insieme alla figlia Sabrina Misseri. Le due donne sono state considerate dalla giustizia italiana le assassine della 15enne di Avetrana e condannate al carcere a vita, in via definitiva, nel 2017. Un’accusa gravissima rispetto alla quale la donna, sorella di Concetta, mamma di Sarah, ha sempre negato un suo coinvolgimento, scagionando anche la figlia minore dalla medesima accusa.

La nipote Sarah Scazzi fu uccisa il 26 agosto 2010 ed occultata in un pozzo, sempre secondo l’accusa, da Michele Misseri, marito della donna. I due coniugi, entrambi agricoltori, da giovani erano emigrati in Germania per poi fare ritorno in Puglia. Marito e moglie accolsero da sempre la piccola nipote in casa, con la quale avevano un rapporto molto stretto e della quale parlavano come una terza figlia. Tuttavia, dopo la scomparsa della 15enne ed il ritrovamento del corpo senza vita, agli inquirenti iniziò ad essere sempre più chiaro che quello di Avetrana non poteva che essere che un delitto avvenuto in famiglia. Dopo le dichiarazioni di Michele Misseri che prima si autoaccusò del delitto per poi cambiare versione e coinvolgere la figlia Sabrina, a distanza di pochi mesi dall’arresto di quest’ultima anche la madre Cosima Serrano fu arrestata il 26 maggio 2011 con l’accusa di concorso in omicidio e sequestro di persona.

Ad incastrare Cosima Serrano sarebbe stata l’analisi dei tabulati del suo cellulare che avrebbe effettuato una chiamata dal garage, sebbene la stessa avesse dichiarato di non essersi mai recata in tal luogo nel pomeriggio della scomparsa della nipote Sarah Scazzi. Il 10 gennaio 2012 prese il via il processo a carico di Cosima Serrano e della figlia Sabrina Misseri, entrambe condannate all’ergastolo. Pena confermata dalla Corte d’assise d’Appello di Taranto il 27 luglio 2015, ed infine in Cassazione il 21 febbraio 2017. Secondo gli ermellini, mamma e figlia avrebbero ucciso Sarah Scazzi strangolandola con una cintura. Per la Cassazione Sabrina e mamma Cosima sarebbero state le “uniche due persone presenti in casa” al momento del delitto. In terzo grado fu negato uno sconto di pena alla Serrano in quanto, ritenuta una donna matura, invece di intervenire a placare “l’aspro contrasto sorto” tra la figlia – all’epoca dei fatti 22enne – e la nipote, “si era resa direttamente protagonista del sequestro della giovane nipote partecipando, poi, materialmente alla fase commissiva del delitto”.

Il 18 marzo 2018 andò in onda su Rai3 l’intervista di Franca Leosini a Sabrina Misseri e Cosima Serrano durante Storie Maledette. Le due donne fornirono la loro versione dei fatti dicendosi ancora una volta estranee al delitto della 15enne. Durissime le parole dell’avvocato Nicodemo Gentile, legale della famiglia Scazzi, che intervenendo ai microfoni di ‘Legge o Giustizia”, trasmissione condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, definì Cosima “l’assoluta regista” del caso. “La donna tra l’altro si è sempre sottratta agli interrogatori e agli esami, ma adesso vediamo che in televisione parla”, aveva contestato. 

Sabrina Misseri chi è, cugina di Sarah Scazzi.  Ergastolo per il delitto di Avetrana. Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi e condannata all’ergastolo per il delitto di Avetrana: per tre gradi di giudizio uccise la 15enne insieme alla madre

Sabrina Misseri è una delle principali protagoniste del caso di Avetrana, nel quale perse la vita Sarah Scazzi. Cugina di primo grado della 15enne, è stata direttamente coinvolta nelle indagini fino alla sua condanna. La Corte di Cassazione nel 2017 l’ha riconosciuta colpevole dell’omicidio volontario aggravato dalla premeditazione e condannata all’ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano, zia di Sarah. Per la giovane vittima, Sabrina, all’epoca dei fatti 22enne, non era solo una cugina ma anche un’amica, nonostante la differenza di età.

Il giorno della scomparsa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi si era recata proprio in casa di Sabrina Misseri, a poche centinaia di metri dalla sua abitazione. Con un’amica sarebbero dovute andare al mare ma della 15enne si persero per sempre le tracce. Sin dal principio Sabrina e la sua famiglia sostenne con forza, anche durante svariate interviste tv, la tesi del rapimento della giovane cuginetta. Una tesi in realtà poco credibile anche alla luce delle condizioni economiche modeste della famiglia Scazzi. Mentre le indagini andavano avanti, il padre di Sabrina, Michele Misseri, fece prima ritrovare il cellulare della nipote, poi confessò di essere lui il colpevole facendo ritrovare il corpo di Sarah Scazzi.

Nel frattempo gli inquirenti che indagavano sull’omicidio di Sarah Scazzi avevano iniziato a nutrire dubbi anche sulla posizione di Sabrina Misseri e ben presto il padre coinvolse la figlia nel delitto di Avetrana. Il 16 ottobre 2010, dopo un interrogatorio, Sabrina Misseri fu arrestata con l’accusa di concorso in omicidio. Gli inquirenti tentarono di far luce anche sul possibile movente avanzando la gelosia della ragazza nei confronti della cugina Sarah per via delle attenzioni che Ivano Russo – di cui Sabrina sarebbe stata innamorata – riservava alla 15enne. Proprio nei primi giorni di agosto, infatti, Sabrina ed Ivano avevano consumato un rapporto sessuale, poi interrotto per volontà del ragazzo e per il timore che la loro amicizia potesse interrompersi.

Un episodio, questo, che secondo le indagini sarebbe stato confidato alla cugina Sarah Scazzi e da quest’ultima spifferato ad altri, dando adito a maldicenze sul conto della Misseri. Le voci, giunte anche all’orecchio di Ivano, portarono quest’ultimo a interrompere i rapporti con Sabrina pochi giorni prima del delitto della cugina. Proprio l’astio di Sabrina verso Sarah sarebbe stato il movente dell’omicidio. Il processo di primo grado a carico di Sabrina Misseri e della madre Cosima si aprì a Taranto il 10 gennaio 2012 e si concluse oltre un anno dopo con la condanna all’ergastolo. Pene confermate anche in Appello il 27 luglio 2015 e poi in Cassazione il 21 febbraio 2017, rendendo le condanne definitive.

Ivano Russo chi è. Movente delitto Avetrana conteso da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi. Emanuela Longo il 26.08.2022 su Il Sussiadiario.it.

Ivano Russo, chi è e qual è stato il suo ruolo nel delitto di Avetrana? Considerato il movente involontario dell’omicidio, conteso da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi

Ivano Russo era un giovane 26enne all’epoca del delitto di Avetrana, nel quale perse la vita la 15enne Sarah Scazzi. Sabrina Misseri e la cugina Sarah avevano conosciuto il giovane cuoco di Avetrana solo pochi mesi prima (nel dicembre 2009) di quel drammatico 26 agosto 2010. Fra i tre era nata subito una forte amicizia nonostante la giovane età di Sarah. Nei confronti del ragazzo però Sabrina sin da subito manifestò un certo interesse che scaturì in un rapporto sessuale a metà, confermato dallo stesso Ivano ed avvenuto i primi giorni di agosto, poco prima del delitto di Sarah. Fu però il ragazzo a fermarsi, onde evitare che la loro amicizia potesse andare oltre. Di quanto avvenuto tra loro, Sabrina lo confidò alla cugina che evidentemente lo spifferò ad altri. Il pettegolezzo ben presto arrivò anche all’orecchio di Ivano Russo il quale decise di troncare definitivamente con la Misseri. Questo, secondo l’accusa, contribuì ad alimentare l’astio di Sabrina verso la cugina.

Quando Michele Misseri cambiò versione accusando del delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina, fornì involontariamente anche il movente dell’omicidio, ovvero la gelosia. Sabrina e Sarah, infatti, si erano invaghite del medesimo ragazzo. La 15enne infatti era stata rimproverata dalla cugina 22enne per via del suo avvicinamento troppo malizioso a Ivano Russo. La sera prima del delitto, il 25 agosto, le due cugine litigarono proprio per questa ragione.

All’epoca dei fatti il 26enne Ivano Russo fu più volte sentito dagli inquirenti mentre la stampa continuava a dargli la caccia: “Voi giornalisti mi perseguitate, addirittura i paparazzi mi vengono dietro, vorrei chiedere di lasciarmi in pace. C’è un limite a tutto”, si sfogò il giovane in una intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno.

In merito al rapporto con Sarah Scazzi, Ivano Russo sostenne che tra loro vi era solo un’amicizia disinteressata: “Sarah per me era una tenera amica poco più di una bambina e non sapevo quali fossero i suoi sentimenti sul mio conto: questa è stata la mia unica colpa”, disse, come rammenta il Corriere della Sera. Nel corso del processo ovviamente fu sentito anche lui, considerato il movente involontario dell’omicidio. “Il giorno del delitto o il giorno dopo Sabrina mi mandò un sms dicendo che aveva trovato un diario di Sarah in cui diceva che aveva un debole per me. Mi disse che non lo consegnava di comune accordo con la madre di Sarah perché temeva che mi indagassero. Io non risposi e poi ho cancellato questo messaggio perché mi spaventai. Forse sarebbe stato meglio consegnarlo, forse ho sbagliato e avrei dovuto dirlo”. Ivano fu indagato nell’inchiesta bis (insieme a sua madre, suo fratello e una ex fidanzata) per false informazioni al pubblico ministero e falsa testimonianza alla Corte d’assise. Nel gennaio 2020, a dieci anni dal delitto, Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato “conteso” da Sabrina Misseri e Sarah Scazzi è stato condannato a 5 anni per falsa testimonianza. Nel giugno 2021 sono state annullate le condanne per Michele Misseri, zio della vittima, e Ivano Russo nell’ambito del processo sui depistaggi e falsi testimoni legato all’omicidio di Sarah Scazzi.

Caso Scazzi, Ivano Russo ha mentito ma il reato è prescritto. Depositate le motivazioni della sentenza al processo «Sarah bis» presso la corte d'appello di Taranto. Assolti Scredo, Serrano e Olivieri. Francesco Casula su La Gazzetta del mezzogiorno il 28 Agosto 2022.

Ivano Russo ha mentito nel processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, ma il reato è prescritto. È quanto si legge sostanzialmente nelle motivazioni della sentenza, e mai pubblicate finora, con la quale la corte d’appello di Taranto ha dichiarato prescritto il reato nei suoi confronti. Il procedimento, ribattezzato dalla stampa «Sarah bis», al termine del processo di primo grado aveva portato alla condanna a 5 anni di carcere per Russo e ad altre 10 condanne: erano tutti testimoni nelle indagini e nel processo per l’omicidio della 15enne uccisa e gettata in pozzo delle campagne di Avetrana il 26 agosto 2010. Favoreggiamento era l’ipotesi di reato nei confronti di Ivano Russo, il giovane di Avetrana che sarebbe stato al centro della contesa tra Sarah e la cugina Sabrina Misseri condannata definitivamente all’ergastolo insieme con la madre, Cosima Serrano, per l’omicidio della 15enne: per la procura ionica aveva ricostruito «in modo reticente e difforme dal vero» i suoi rapporti con le due ragazze cercando «di non fare emergere il particolare interesse sentimentale che Sabrina aveva nei suoi confronti e l’interesse sentimentale che la Scazzi aveva maturato sempre nei suoi confronti» e anche il «contrasto nato tra le due cugine».

Dalle motivazioni emerge che per lui, come per altri sei imputati, la corte ha accertato anche in secondo grado «la chiara falsità delle dichiarazioni rese» che «certamente non depongono per la chiara evidenza dell’innocenza». Ed è per questo che i giudici hanno dichiarato per loro la prescrizione del reato. Sono invece stati assolti da ogni accusa Anna Scredo, Giuseppe Serrano e Giuseppe Antonio Olivieri. Proprio «assoluzione» di quest’ultimo potrebbe essere un elemento importante per i difensori di Sabrina e Cosima, gli avvocati Franco Coppi, Nicola Marseglia e Lorenzo Bullo, che hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dopo la conferma della condanna in Cassazione. Per la procura ionica Olivieri aveva mentito sull’orario di servizio di due donne, una delle quali affermò di aver visto Sarah alle 14: un dettaglio fondamentale per la ricostruzione della procura che poi portò alla condanna nei tre gradi di giudizio delle due donne. La sentenza della Corte d’appello, però, ora afferma che Olivieri in realtà non ha mentito: in sostanza i giudici hanno chiarito che lui avrebbe indicato una fascia oraria durante la quale lavoravano le donne e quindi non un orario preciso visto che in quei momenti non era con loro. 

Anche i magistrati della Corte d’appello ammettono che Olivieri ha sottoscritto durante le indagini preliminari «dichiarazioni apparentemente diverse da quelle poi rese a dibattimento» aggiungendo anche «di non aver detto ai carabinieri di un preciso orario di lavoro delle donne, ma reputa la Corte esservi un ragionevole dubbio sul reale tenore delle sommarie informazioni testimoniali verbalizzate e, dunque, sull’effettiva discrasia rilevata dalla pubblica accusa». In sostanza per i giudici di secondo grado «non v’è stata – si legge nella sentenza – da parte dell’Olivieri, la volontà di smentire le affermazioni delle due lavoratrici, ma solo di precisare che, più che di un orario fisso di servizio, si trattava di una fascia oraria nella quale, essendo chiuso il locale, le due donne si autogestivano». Un dettaglio non di poco conto per i difensori di Sabrina e Cosima che dopo la sentenza definitiva della Cassazione hanno presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per ottenere una revisione del processo. Per gli avvocati Franco Coppi, Lorenzo Bullo e Nicola Marseglia, questo nuovo elemento potrebbe contribuire a chiarire i dubbi rispetto all’orario effettivo in cui Sarah è uscita di casa per raggiungere l’abitazione di Sabrina e quindi, verosimilmente, il luogo e anche gli autori di quel delitto.

Sarah Scazzi, delitto di Avetrana. Cos’è successo: feroce omicidio e caso mediatico… Silvana Palazzo su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Sarah Scazzi, cos’è successo nel delitto di Avetrana: un feroce omicidio diventato un caso mediatico. Dalla scomparsa alla vicenda giudiziaria conclusasi con condanne all’ergastolo

Il delitto di Avetrana diventerà una serie tv, a ulteriore conferma dell’interesse mediatico per il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi. Del resto, resta impresso nella memoria collettiva l’annuncio del ritrovamento del cadavere della ragazza in diretta tv, durante il programma Rai “Chi l’ha visto?“, dove era ospite in collegamento la madre, Concetta Serrano Spagnolo. La vicenda si è ufficialmente conclusa il 21 febbraio 2017, quando la Cassazione ha riconosciuto colpevoli Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della vittima, confermando la condanna all’ergastolo già inflitta in primo grado e in appello. Invece Michele Misseri, padre di Sabrina e marito di Cosima, è stato condannato a 8 anni di carcere per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove per il furto del cellulare della nipote. Carmine Misseri, fratello di Michele, è stato condannato definitivamente a 4 anni e 11 mesi di carcere per concorso in occultamento di cadavere. La Cassazione ha confermato anche la condanna a un anno e 4 mesi per favoreggiamento personale per Vito Russo, ex legale di Sabrina Misseri, e Giuseppe Nigro. 

Il caso si aprì il 26 agosto 2010, quando venne denunciata la scomparsa della 15enne, uscita di casa per raggiungere casa della cugina con cui sarebbe dovuta andare al mare. Inizialmente le indagini si orientarono verso una fuga della ragazza o su un rapimento a opera di un uomo che avrebbe adescato Sarah Scazzi su Facebook. Il 29 settembre fu ritrovato il suo cellulare dallo zio Michele Misseri il quale affermò di essere in grado di trovare la nipote, attirando i sospetti su di sé.

Il 6 ottobre Michele Misseri, dopo un interrogatorio di nove ore, confessò l’omicidio della nipote, riferendo di aver ucciso Sarah Scazzi dopo un tentativo di stupro, quindi indicò il luogo in cui aveva nascosto il cadavere. Ma sono seguite diverse ritrattazioni della confessione iniziale, fino al 15 ottobre, quando conflerò il coinvolgimento della figlia Sabrina Misseri, il cui movente sarebbe stato la gelosia per le attenzioni che la cugina riceveva da Ivano Russo, di cui Sabrina, secondo la tesi della Procura, sarebbe stata innamorata. Mentre Michele Misseri ritrattava le versioni, attribuendo la responsabilità dell’omicidio solo alla figlia, venne arrestata anche la moglie Cosima Serrano, accusata di concorso in omicidio, mentre la figlia di omicidio volontario, reati per i quali sono state condannate all’ergastolo. Secondo la ricostruzione della Cassazione nelle motivazioni della sua sentenza Sarah Scazzi è stata strangolata con una cintura: una donna l’avrebbe soffocata da dietro, l’altra avrebbe inibito ogni tentativo di difesa. Dopo la morte della ragazzina, il corpo sarebbe stato portato in garage e poi fatto sparire da Michele Misseri con l’aiuto del fratello e del nipote.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Delitto Avetrana: battaglia per revisione condanna. Marta Duò su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cosa fanno oggi le donne condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi, noto come delitto di Avetrana: battaglia per permessi e revisione condanna

Il delitto di Avetrana, l’omicidio della 15enne Sarah Scazzi che verrà ripercorso questa sera dal programma Quarto Grado, è un caso che ha tenuto col fiato sospeso l’Italia intera e che si è chiuso con le condanne all’ergastolo per omicidio volontario la cugina Sabrina Misseri e la zia Cosima Serrano per concorso in omicidio, mentre Michele Misseri invece è stato condannato a 8 anni per occultamento di cadavere e inquinamento delle prove. Il sospetto di coinvolgimento della cugina Sabrina emerse durante le prime fasi delle indagini. All’inizio, gli investigatori presero in considerazione il possibile movente della gelosia: forse Sabrina era gelosa delle attenzioni che Sarah riceveva da un cuoco di Avetrana, Ivano Russo. L’uomo, di 27 anni, avrebbe avuto una relazione con Sabrina ma allo stesso tempo avrebbe dedicato molte attenzioni a Sarah, decidendo infine di troncare ogni rapporto con la cugina maggiore. Da sempre, Sabrina Misseri ha respinto qualsiasi accusa di gelosia nei confronti di Sarah e nega di aver avuto un violenti litigio con lei il giorno in cui fu denunciata la scomparsa di Sarah. Ma è stata riconosciuta colpevole, proprio come la madre, in ogni grado di giudizio.

Il 21 febbraio 2017 la Corte di Cassazione, infatti, ha confermato la condanna all’ergastolo stabilendo che “il delitto doveva ascriversi a due persone da identificare nelle imputate” e definendo una dinamica secondo cui “l’omicidio era stato consumato mediante strangolamento”. Poiché sul corpo di Sarah Scazzi non erano stati rinvenuti “segni di lotta o legati al tentativo di allentamento della cintura stretta al collo, come reazione istintiva al soffocamento che si stava compiendo”, quel terribile omicidio “non poteva essere quindi opera di un unico soggetto ma doveva essere avvenuto per effetto del concorso sinergico di due persone, l’una che aveva posto in essere la specifica azione di soffocamento da dietro alla vittima, e l’altra che le aveva inibito ogni tentativo di difendersi”. E, secondo la Cassazione, le “uniche due persone presenti in casa” al momento del delitto erano appunto Sabrina Misseri e Cosima Serrano.

Ad oggi, Sabrina Misseri ha 34 anni ed è stata definita una “detenuta modello” dal legale della madre Cosima. Da 11 anni è detenuta nel carcere di Taranto, dove divide la cella con la madre Cosima Serrano. Con lei ha condiviso anche l’impiego presso la sartoria del centro di detenzione, confezionando tovaglie e corredi di stoffa, ed è attualmente impiegata nel centro estetico dello stesso carcere. Oggi anche Cosima Serrano si trova detenuta nel carcere di Taranto, come la figlia Sabrina, e lavora nella sartoria del carcere. Durante l’emergenza Covid ha confezionato anche mascherine chirurgiche. A causa della sua buona condotta, è possibile che in futuro possa richiedere e ottenere dei permessi speciali per uscire dal centro di detenzione, che non possono essere più di 45 giorni all’anno.

Quarto Grado, 29 luglio 2022/ Anticipazioni e casi: Sarah Scazzi e la strage di Erba

Invece a marzo la Cassazione ha confermato il “no” alla richiesta di Sabrina Misseri di un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto. Per i magistrati il fatto che non abbia ammesso il delitto, sebbene non sia una condizione necessaria per ottenere il permesso premio, indica in lei la mancanza di una “rivisitazione critica” del suo “pregresso comportamento deviante” e quindi attesta la sua pericolosità sociale. Per la difesa di Sabrina Misseri non si è tenuto conto del “positivo percorso penitenziario” compiuto dalla donna e il fatto che lei “rifiuta di assumersi la responsabilità dell’omicidio per il quale è stata condannata” è “un comportamento che non può essere valorizzato per rigettare il permesso premio, istituto finalizzato al favorire il reinserimento sociale” e quindi la decisione sarebbe illegittima, mentre legittima è per il legale la scelta dell’assistita di non assumersi la responsabilità, facendo notare che “la condannata ha proposto ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e intende proporre istanza di revisione della condanna“.

Michele Misseri, delitto di Avetrana. Che fine ha fatto oggi lo zio di Sarah Scazzi. Lorenzo Drigo su Il Sussidiario il 29 luglio 2022.

Il ruolo di Michele Misseri nel delitto di Avetrana è stato a lungo dibattuto e soggetto a dubbi. Lo zio di Sarah Scazzi sta contando la sua pena di 8 anni, che dovrebbe concludersi nel 2024

Il caso del delitto di Avetrana oggetto della puntata di questa sera di Quarto Grado in onda su Rete4 i risale al 2010, quando il 26 agosto la ragazzina di 15anni sparì senza lasciare (apparentemente) nessuna traccia. Si pensò subito ad una fuga da parte della giovane, e gli inquirenti si mossero in quella direzione. Tuttavia, il 29 settembre lo zio della ragazzina, Michele Misseri, fece una scoperta importante, rivenendo il suo cellulare semibruciato in un campo nei pressi della sua abitazione.

Marito di Cosima Serrano e padre di Sabrina Misseri, rispettivamente zia e cugina di Sarah Scazzi, fu sospettato dagli inquirenti assieme alla moglie e alla figlia. Inizialmente confessò l’omicidio, salvo poi ritrattare, facendo ricadere la colpa sulla figlia e la ragione dell’omicidio ad un gioco trasformatosi in litigio. A Michele Misseri durante il processo fu riconosciuta una pena di 8 anni di reclusione per aver nascosto il cadavere di Sarah Scazzi e per aver inquinato le prove depistando le indagini. La prima condanna risale al 2013 da parte della Corte d’assise di Taranto che gli confermò gli 8 anni di reclusione, pena confermata anche dopo il ricorso del 2017. Nel 2024 dovrebbe estinguere definitivamente la sua pena, ma il tribunale gli avrebbe recentemente concesso il permesso di iniziare il percorso rieducativo all’esterno della struttura carceraria.

Michele Misseri prima dei tristi eventi del delitto di Avetrana nel quale ha perso la vita Sarah Scazzi, era un uomo piuttosto tranquillo, dedito alla sua famiglia e al suo lavoro da agricoltore. Nato a Manduria (in provincia di Taranto) nel 1954. Sposò Cosima Serrano, sorella di Concetta Serrano, la madre di Sarah Scazzi e dal loro matrimonio nacque Sabrina, cugina di Sarah. La sua implicazione nel delitto di Avetrana è stata a lungo discussa e soggetta ad indagini, confessioni e smentite spesso in disaccordo tra loro.

Dopo il ritrovamento del cellulare di Sarah Scazzi gli inquirenti si insospettirono in merito alla possibile implicazione di Michele Misseri nella sua scomparsa, soprattutto dopo che lui affermò di essere in grado di ritrovare al quindicenne. Il 6 ottobre 2010 Michele Misseri confessò di aver ucciso Sarah in seguito ad un tentativo di stupro, indicando precisamente agli inquirenti il luogo in cui si trovava il cadavere. Pochi giorni dopo ritrattò la confessione, confermando invece l’implicazione di Sabrina nell’omicidio. Da lì seguirono ulteriori ritrattazioni e confessioni, giungendo infine all’accusa di occultamento di cadavere per Michele Misseri.

Insomma, in merito al delitto di Avetrana che ha portato alla morte di Sarah Scazzi per mano della cugina Sabrina Misseri e della zia Cosima Serrano, a Michele Misseri fu riconosciuta l’accusa di occultamento di cadavere. Nel 2013 vennero tutti condannati dalla Corte D’Assise di Taranto, madre e figlia presero l’ergastolo, mentre Michele 8 anni di reclusione. Nel 2017 la Corte di Cassazione ha confermato la pena a tutti e tre, mentre 2020 il primo grado del secondo processo sul caso ha imputato ulteriori 4 anni di reclusione a Michele Misseri per auto-calunnia, pena poi annullata a causa della prescrizione del reato.

Negli anni di reclusione Michele Misseri si è dimostrato un detenuto modello, tanto da spingere i suoi legali a chiedere a maggio di quest’anno i domiciliari per l’uomo. A quanto riporta Il Fatto Quotidiano, il Tribunale avrebbe negato la richiesta ma emesso un’ordinanza affinché l’uomo cominci un percorso riabilitativo di brevi periodi fuori dalla struttura carceraria. Salvo differenti decisioni che potrebbero arrivare nell’immediato futuro anche in virtù dei permessi concessi a Michele Misseri, a maggio 2024 dovrebbe concludersi definitivamente la sua pena.

Quarto Grado, il fratello di Sarah Scazzi: “Mia sorella non è stata soccorsa in tempo”. Valentina Mericio su Notizie.it il 29 luglio 2022.

A 12 anni dal delitto di Avetrana che sconvolse l'Italia intera, è intervenuto il fratello di Sarah Scazzi. 

Era il 2010 quando il delitto di Avetrana sconvolgeva l’Italia. A 12 anni dalla scomparsa della 15enne Sarah Scazzi, Quarto Grado torna ad occuparsi del caso. Nella puntata di venerdì 29 luglio è intervenuto in studio il fratello di Sarah, Claudio.

L’uomo ha ripercorso alcuni dei momenti più drammatici che hanno portato alla morte della sorella: “Purtroppo mancava la telecamera […]”, ha osservato. 

Claudio Scazzi ha esordito osservando: “Diciamo che il processo non lascia spazi ad ombre e dubbi. È chiaro che non c’era la telecamera quel giorno, non c’era nulla che potesse fissare la scena.

Sono state utilizzate delle prove logiche, dei testimoni…” Ha poi aggiunto: “La ricostruzione secondo me è fatta bene […] purtroppo mancava la telecamera ed era quella l’origine”. 

L’uomo infine ha parlato di cosa prova per la zia e la cugina, Cosima e Sabrina Misseri: “Io per loro in generale, dopo tanti anni, provo un sentimento che è un misto.

Quello che mi ha fatto più male è stato il fatto che non l’hanno soccorsa. L’omicidio, aveva detto il procuratore, è stato d’impeto. Se non ci fosse stato il sequestro fatto preventivamente all’omicidio sarebbe stato al 100% d’impeto. Hanno la grande colpa di non averla soccorsa e rimarranno con il dubbio perenne che si potesse salvare. Sono convinto che se fosse stata soccorsa in tempo poteva essere salvata”. 

"Con questa testimonianza faremo riaprire il caso di Sarah Scazzi". Rosa Scognamiglio il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Gli audio e le intercettazioni del fioraio Giovanni Buccolieri. L'esclusiva del magazine online Fronte del Blog che può "riaprire il caso".

Luci ed ombre di un "giallo" senza fine. A dodici anni dall'omicidio di Sarah Scazzi, uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010, il caso potrebbe essere riaperto. L'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Messeri, la cugina della 15enne condannata all'ergastolo per il delitto con anche la madre e zia della vittima, Cosima Serrano, ha rilasciato una intervista in esclusiva al giallista Rino Casazza del magazine online Fronte del blog rivelando una retroscena clamoroso. Trattasi di audio e documenti inediti che riguardano la testimonianza di Giovanni Buccolieri, il fioraio che avrebbe visto le due donne (Sabrina e Cosima) il giorno della scomparsa di Sarah.

Sarah, il giallo infinito su Sabrina Misseri: innocente o colpevole?

La prima versione del fioraio

Il fioraio Giovanni Buccolieri è considerato uno dei "testimoni chiave" nel merito delle sentenze di condanna sul delitto di Avetrana. Il giorno 9 aprile 2011, nel corso della prima audizione con il procuratore di Taranto Pietro Argentino e con il sostituto Mariano Evangelista Buccoliero, l'uomo dichiarò di aver visto Cosima Serrano intimare a Sarah di salire a bordo della sua auto: "Moh ha nghianà intra la macchina", sarebbero state le parole della donna. Alla cui guida della vettura, una Opel Astra SW di colore azzurro-grigio, ci sarebbe stata Sabrina Misseri. Il condizionale è d'obbligo in quanto il fioraio riferì di aver notato "una sagoma" che apparteneva "ad una persona di sesso femminile" poiché avrebbe avuto "i capelli più lunghi di quelli che porta un uomo e soprattutto erano legati all'indietro e di colore scuro". Nella circostanza della medesima audizione Buccolieri aggiunse, altresì, di aver avuto il dubbio che il racconto fosse frutto di una narrazione onirica non trovando corrispondenza tra l'orario in cui Sarah sarebbe stata vista per l'ultima volta (tra le 14.25 e le 14.30) con quello in cui egli sarebbe uscito dalla sua abitazione per disbrigare una commissione (pressappoco alle 13.30). Successivamente avrebbe realizzato che i fatti si riferivano al giorno della scomparsa della 15enne: "Sono certo che i fatti a cui ho assistito si riferivano al 26 agosto 2010 - furono le sue parole - perché li ho associati al giorno della scomparsa di Sarah".

"Vi racconto il caso Scazzi. E sentite cosa dice il fioraio..."

Il secondo verbale

Il giorno 11 aprile 2011 Buccolieri fu sentito nuovamente degli inquirenti. Il fioraio confermò solo in parte il contenuto delle dichiarazioni rese due giorni prima circostanziando diversamente la narrazione: "...preciso, però, che si è trattato di un sogno". L'uomo disse di aver raccontato del "sogno" alla moglie, tal Vanessa Cerra, "il giorno dopo" oppure "qualche giorno dopo il ritrovamento di Sarah" e di essersi convinto, invece, che i fatti descritti fossero veritieri "perché erano talmente particolareggiati che potevano corrispondere alla realtà dei fatti". A suo dire, fu poi la moglie ad esortarlo di rivolgersi ai carabinieri. Buccolieri rispose verosimilmente che non sarebbe andato poiché "aveva paura e di essere un soggetto ansioso per cui voleva essere estraneo a tutti i costi alla vicenda" (si legge nel verbale). Al termine della contestazione il pm fece notare al fioraio che le sue dichiarazioni contrastavano con quanto riferito nei giorni precedenti interrompendo l'esame e invitando l'uomo a nominare un difensore denotando alcune incongruità nella sua testimonianza costituenti reato eventuale di falsa testimonianza resa al pubblico ministero (art. 371 bis).

"Ricorso ammissibile". Svolta sul caso di Sarah Scazzi

L'intercettazione chiave

C'è anche una intercettazione che, a detta dell'avvocato Nicola Marseglia, potrebbe riaprire il caso. Si tratta di una conversazione telefonica intercorsa tra il fioraio e la moglie pochi giorni essere stato ascoltato in tribunale. "A me il primo giorno mi hanno fatto l'interrogatorio. - dice Buccolieri rivolgendosi alla moglie -Mi hanno messo in dubbio, mi hanno tartassato tanto per dire quello che loro (gli inquirenti ndr) volevano. Praticamente loro (gli inquirenti ndr) mi hanno fatto raccontare il sogno come se fosse una realtà. Mi hanno suggestionato tutte queste cose queste cosa qua. Io nella notte ho pensato 'ma che ho detto? Perché mi hanno fatto dire tutte queste cose qua?' È stato il mio sbaglio. Mi sono fatto suggestionare e ho raccontato". Come ben precisa il magazine Fronte del blog, al tempo del processo non si è potuta approfondire la questione in quanto Buccolieri, accusato di false dichiarazioni al pm per via della non chiara natura onirica della sua testimonianza, non ha deposto, avvalendosi della facoltà di non rispondere in attesa che il procedimento penale a suo carico si definisse. Dopo che, recentemente, la Cassazione l’ha dichiarato prosciolto per prescrizione del reato, il fioraio ha continuato a confermare la sua versione.

Da leggo.it il 24 marzo 2022.

È stato confermato dalla Cassazione il 'no' alla richiesta avanzata da Sabrina Misseri - condannata all'ergastolo con sua madre Cosima Serrano per aver ucciso la cuginetta 15enne Sarah Scazzi e averne gettato il cadavere in un pozzo nella campagna di Avetrana (Taranto) il 26 agosto 2010 - di ottenere un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto.

Per gli ermellini, il fatto che Sabrina non abbia ammesso il delitto, pur non essendo una condizione necessaria per ottenere il permesso, indica in lei la mancanza di una «rivisitazione critica» del suo «pregresso comportamento deviante» e attesta la sua pericolosità sociale.

Omicidio Sarah Scazzi, la Cassazione nega a Sabrina il permesso di lasciare il carcere. Respinta la richiesta della cugina della vittima. Secondo i giudici è socialmente pericolosa, anche per non aver mai ammesso il delitto. su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2022.

È stato confermato dalla Cassazione il «no» alla richiesta avanzata da Sabrina Misseri - condannata all’ergastolo con sua madre Cosima Serrano per aver ucciso la cuginetta 15enne Sarah Scazzi e averne gettato il cadavere in un pozzo nelle campagne di Avetrana (Taranto) il 26 agosto 2010 - di ottenere un permesso premio per uscire dal carcere di Taranto.

Per i giudici della suprema corte, il fatto che Sabrina non abbia ammesso il delitto, pur non essendo una condizione necessaria per ottenere il permesso, indica in lei la mancanza di una «rivisitazione critica» del suo «pregresso comportamento deviante» e attesta la sua pericolosità sociale. 

Sabrina Misseri era ricorsa in Cassazione contro l’ordinanza con la quale, il 12 aprile 2021, il Tribunale di Sorveglianza di Taranto aveva condiviso la decisione del magistrato competente di non concederle il permesso premio. Secondo la difesa di Misseri, non era stato tenuto nel giusto conto il «positivo percorso penitenziario» compiuto dalla 34enne di Manduria mettendo in evidenza, invece, il fatto che la donna «rifiuta di assumersi la responsabilità dell’omicidio per il quale è stata condannata».

Per i difensori di Sabrina Misseri, è «legittima» la sua scelta di non assumersi la responsabilità e «d’altra parte», rilevano, «la condannata ha proposto ricorso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo e intende proporre istanza di revisione della condanna». «Sicchè - conclude la difesa - è legittimo il comportamento di negazione della responsabilità che non può essere valorizzato per rigettare il permesso premio, istituto finalizzato al favorire il reinserimento sociale».

Ma per la Cassazione il ricorso «è infondato». In particolare ha sottolneato che il Tribunale di Sorveglianza nel negare il  permesso «ha fondato la propria valutazione sulla sostanziale sottrazione al confronto con gli operatori sugli elementi posti a fondamento della sua condanna». «Tale circostanza - spiega la Suprema Corte - legittima l’impossibilità evidenziata nell’ordinanza, di valutare in termini positivi l'incidenza del percorso penitenziario sul giudizio di pericolosità».

«La non necessità della confessione del reato per ottenere il permesso premio - sottolineano i giudici - non elide la rilevanza da attribuire al comportamento del condannato che risulti indisponibile al tentativo degli educatori di promuovere la riflessione sul vissuto connesso alle sue vicende penali». In conclusione, permane «l'accertata persistente pericolosità sociale» di Misseri.

Sarah Scazzi, Sabrina aveva scelto un ex convento per trascorrere il permesso fuori dal carcere. Domenica 27 Marzo 2022 di Nazareno DINOI su Quotidiano di Puglia.

Se le fosse stato accordato il permesso di lasciare il carcere dove sta scontando l’ergastolo per l’uccisione della cugina, a Sabrina Misseri sarebbe toccato un percorso spirituale nello storico ex monastero di clausura di Taranto «Casa Madre Teresa di Calcutta». Era questa l’opzione proposta per lei dal suo avvocato Nicola Marseglia che con il professore Franco Coppi assiste da sempre la trentaquattrenne di Avetrana protagonista con l’intera sua famiglia Misseri, del fatto di cronaca tra i più cruenti e discussi d’Italia: quello dell'omicidio ad Avetrana della quindicenne Sarah Scazzi per la quale tre corti di giustizia hanno condannato all’ergastolo Sabrina con sua madre Cosima Serrano e a otto anni il padre Michele Misseri. A respingere la richiesta di licenza premio che all’estetista di Avetrana avrebbe permesso di lasciarsi alle spalle, per dieci giorni, le porte del carcere di Taranto dove è rinchiusa dal 15 ottobre del 2010, è stato il Tribunale di sorveglianza di Taranto e infine la Corte di Cassazione.

Il verdetto

Nessuno dei giudici interessati al caso si è convinto dell'assenza della pericolosità sociale di Sabrina che aveva chiesto di trascorrere il periodo delle feste di Natale del 2020 (risale a dicembre di quell’anno la prima istanza respinta), tra le mura del centro di accoglienza gestito dalla diocesi tarantina, «oasi di spiritualità per singoli e gruppi che vogliano trascorrere del tempo in preghiera», così come la pia struttura si presenta sul sito internet del Servizio Informazione Religiosa (Sir). Il luogo spirituale in via della Transumanza donato alla diocesi dalle ultime suore di clausura e inaugurato nel 2017 dall’arcivescovo Filippo Santoro, era stato accordato dagli attivisti dell’associazione di volontariato penitenziario, «Noi e voi onlus», con i quali Sabrina ha rapporti quasi quotidiani nel carcere Carmelo Magli di Taranto. Una scelta ben ponderata dall’avvocato Marseglia consapevole della necessità di dover trovare un luogo estraneo al contesto familiare nell'ambito del quale si è verificato il delitto e che una scelta contraria sarebbe stato motivo di rifiuto del giudice. Tutto inutile perchè la natura del luogo dove trascorrere il permesso, scrivono i giudici della corte suprema nella loro sentenza che respinge la domanda di revisione dell’ordinanza dei giudici di Taranto, «non è decisiva ove si consideri che l'accertata persistente pericolosità sociale preclude qualsiasi valutazione concernente l'idoneità del luogo prospettato per la fruizione del permesso premio». Nei suoi giorni svaniti di libertà Sabrina aveva chiesto di potere incontrare il suo avvocato e i suoi parenti più stretti già abilitati alle visite in carcere. Sua sorella Valentina, per prima, che vive a Roma con il marito e i parenti di parte materna di Avetrana e San Pancrazio Salentino. Naturalmente l’ospite durante la sua permanenza non avrebbe negata qualsiasi supporto richiesto, compresa l’attività di assistenza al gruppo di stranieri di richiedenti asilo che ospitati nella stessa casa famiglia. Desiderio svanito anche per loro.

La condanna

A Sabrina era andata invece bene una precedente richiesta di agevolazioni di pena, sempre curata dall’avvocato Marseglia, grazie alla quale ha ottenuto oltre un anno e quattro mesi di liberazione anticipata per il periodo di detenzione patito dal 15 ottobre 2010 al 15 ottobre 2016. È il riconoscimento di un diritto previsto dall’ordinamento carcerario che in presenza di buona condotta abbuona 45 giorni di detenzione ogni semestre trascorso in carcere. Questo diritto che deve sempre passare attraverso istanze da sottoporre a giudizio del tribunale di sorveglianza, ha fatto già accumulare circa tre anni di anticipo della data di scarcerazione. Secondo questi calcoli, con gli sconti previsti Sabrina ha già consumato quasi 15 anni di pena. L’ergastolo non ostativo come quello che sta scontando lei e sua madre Cosima, prevede che allo scadere dei 26 anni potrebbero lasciare il carcere in regime di libertà vigilata e se nei cinque anni successivi confermano la buona condotta e non commettono reati, a 31 anni scontati potranno tornare libere cittadine.

"Ricorso ammissibile". Svolta sul caso di Sarah Scazzi. Rosa Scognamiglio il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Misseri, a Fronte del blog: "La Corte di Strasburgo ha considerato il nostro ricorso ammissibile".

"La Corte di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il nostro ricorso". Lo rivela l'avvocato Nicola Marseglia, legale di Sabrina Misseri, la giovane di Avetrana condannata all'ergastolo per concorso in omicidio della cugina Sarah Scazzi . "La vicenda - spiega Marsiglia nel corso di un'intervista esclusiva rilasciata a Fronte del Blog - ha avuto un epilogo definitivo se pensiamo ai tre gradi di giudizio e alla irrevocabilità della sentenza di condanna. Partiamo con una prospettiva ancora processuale perché si è in attesa della fissazione dell'udienza di trattazione davanti alla Corte Europea del ricorso che è stato presentato dalla difesa".

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L'ammissibilità del ricorso

Passato in rassegna alle cronache come il "Delitto di Avetrana", l'omicidio di Sarah Scazzi - consumatosi il 26 agosto 2010 nella piccola cittadina in provincia di Taranto - è stato contrassegnato da un lungo e intricato iter processuale. Il 27 febbraio del 2017 la Corte di Cassazione ha confermato l'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente la cugina e la zia della quindicenne uccisa, con l'accusa di concorso in omicidio. Otto anni, invece, sono stati inflitti a Michele Misseri, papà di Sabrina, per soppressione di cadavere e inquinamento delle prove.

A quasi dodici anni dal delitto, si profila all'orizzonte un nuovo colpo di scena. La Corte di Strasburgo ha ritenuto ammissibile il ricorso per "violazione dei diritti della difesa" presentato dai legali di Sabrina Misseri che ora puntano alla riapertura del caso. "Questo processo non dico che è un unicum, però ha assunto i caratteri dell'eccezionalità. - spiega l'avvocato Nicola Marseglia -Prendendo spunto da alcuni passaggi paradossali di questa vicenda si possono prospettare argomenti che possono valere anche al di là del caso specifico".

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Il "metodo anomalo"

Il difensore di Sabrina Misseri contesta il metodo con cui gli inquirenti hanno operato durante le indagini e nella fase dibattimentale del processo. A detta del legale, infatti, il modus operandi degli operatori di giustizia avrebbe portato "ad una serie di cattive applicazioni della legge prima processuale e poi sostanziale". La svolta nel Delitto di Avetrana ci fu dapprima con il ritrovamento del cellulare di Sarah, a circa un mese dalla scomparsa della giovane, e poi con la prima confessione di "zio Michele" che, nella notte tra il 6 e il 7 ottobre 2010, si autoaccusò del dell'omicidio indicando anche il luogo di sepoltura del cadavere, in un pozzo cisterna a Contrada Mosca.

"A un certo punto le indagini hanno una svolta dopo che Michele Misseri fa ritrovare il telefonino della nipote e da questo si arriva a mettere sulla scena in maniera forte e preponderante il Misseri mentre prima la persona su cui erano mirate non solo le indagini, ma proprio i convincimenti degli investigatori era Sabrina Misseri. - precisa Nicola Marseglia - Il più agevole riscontro di quello che dico proviene dal fatto che il 28 settembre Michele Misseri viene ascoltato in relazione al telefonino presso la caserma di Avetrana, e nessuno lo sta ancora pensando. Poi si arriva alla confessione di Michele Misseri, che spiazza gli inquirenti. Da questo momento inizia tutto un lavoro da parte degli inquirenti non solo per capire meglio come sono andate le cose, ma per scavare fino in fondo nella personalità di Misseri".

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Le ritrattazioni di Michele Misseri

Per ben 7 volte, in totale, Michele Misseri fu ascoltato dagli inquirenti fornendo una versione dei fatti talvolta contraddittoria e ambigua. La "confessione chiave", che cioè segnò il corso successivo del procedimento processuale, risale al 15 ottobre 2020 quando il 57enne attribuì alla figlia Sabrina le responsabilità del delitto. "A questo punto si muovono di pari passo il sospetto che Michele Misseri voglia coprire qualcuno e che questa confessione possa essere vera fino a un certo punto. - continua il legale -Inizia qui il metodo abbastanza anomalo per quella che potremo definire la "maieutica inquirente": tirare fuori da Michele Misseri tutto quello che si può, blandendolo e portandolo per mano - tra l'altro è stato provato e straprovato che è una persona che uno la prende per mano e la porta dove vuole - e allora tra quello che dice Michele Misseri e quella che è la convinzione, il pregiudizio degli investigatori si innesta un circuito abbastanza drammatico che ha prodotto la serie di contraddizioni profonde che hanno connotato tutta la fase delle indagini preliminari".

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Gli orari e gli sms

Quel pomeriggio del 26 agosto Sarah avrebbe dovuto recarsi al mare con Sabrina e un'amica, Mariangela Spagnoletti. L'appuntamento fu concordato tra le due cugine tramite uno scambio di sms avvenuto pressappoco alle 14.30. Dieci minuti più tardi - alle 14.42 per l'esattezza - il cellulare della 15enne risultava staccato. A detta di Concetta Serrano Spagnolo, madre della ragazzina, quel giorno Sarah uscì di casa tre quarti d'ora prima dell'orario fissato per l'incontro con la cugina raccattando alla svelta dei teli da spiaggia dalla cantina dopo aver mangiato "in piedi davanti alla cucina" un cordon bleu. "Diventa un muro l'orario di uscita da casa di Sarah Scazzi, diventa un muro la sequenza si messaggi che intercorrono tra Sarah, Sabrina e Mariangela Spagnoletti, una serie di dati oggettivi che mal si conciliano con il pregiudizio che gli investigatori si sono fatti. - spiega Nicola Marseglia - Ecco: qui inizia il metodo investigativo che va bene fino ad un certo punto, poi quando questa distonia tra dichiarazioni ed elementi oggettivi diventa particolarmente profonda interviene qualche forzatura per renderli compatibili".

Gli "errori metodologici"

A detta del legale, dunque, sarebbero stati commessi una serie di "errori metodologici" che presumibilmente avrebbero condizionato l'iter processuale fino alla condanna all'ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano. "Non discuto della buona fede, non mi sognerei nella maniera più assoluta di pensare a qualcosa di diverso che non siano errori metodologici. - conclude Marseglia - Quei testimoni che sono stati sentiti nella fase delle indagini preliminari in maniera abbastanza serrata, articolata e rigorosa alla fine contraddicono la ricostruzione ipotizzata, e allora inizia questo richiamo, questo recupero, questa rivisitazione delle prime e delle seconde dichiarazioni nella ricerca di un percorso finalmente lineare al prezzo di mettere sotto i piedi tutta una serie di dati".

Antonio Giangrande: I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.

Confessione falsa estorta. Quando l’interrogato è costretto a confessare.

Quando la verità su cosa ci circonda ci è suggerita dalla fiction straniera.

Centinaia di migliaia di errori giudiziari, in minima parte riconosciuti. E grazie ad Alberto Matano alcuni dei quali portati alla conoscenza del grande pubblico, con il suo programma “Sono Innocente” su Rai tre.

L’inchiesta del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul delitto di Sarah Scazzi ha scritto un libro, così come ha scritto su tutti i principali delitti andati agli onori delle cronache, specialmente a Taranto. Saggi inseriti in un contesto di malagiustizia dove ci sono inseriti esempi di confessioni estorte e di cui si può parlare senza subire ritorsioni. Uno tra tutti: Giuseppe Gullotta. Questi libri fanno parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” che si compone di decine di opere: saggi periodici di aggiornamento temporale; saggi tematici e saggi territoriali. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri. ecc.

Quasi nessuno sa, ed i media colpevolisti hanno interesse a non farlo sapere, che vi è una vera e propria strategia per chiudere in fretta i casi illuminati dalle telecamere delle tv. Strategia, oggetto di studio americana, ignorata da molti avvocati nostrani e non accessibile alla totalità degli studiosi della materia.

Tecniche di interrogatorio consapevolmente torturanti. Manipolare, distorcere le parole, convincere che la confessione è una liberazione. Spingere un uomo a confessare il falso.

Come estorcere una confessione. HOW TO FORCE A CONFESSION:

Sfinimento psicologico per rendere vulnerabile il soggetto. MENTAL EXHAUSTION. La stanchezza. Molte ore di interrogatorio con la reiterata accusa di colpevolezza.

La promessa di una via d’uscita. THE PROMISE OF ESCAPE. Farlo sentire in trappola quando è stanco, esausto, in disagio, claustrofobia.

Offrire una ricompensa. OFFER A REWARD. Lo stato di disagio psicologico o bisogno fisico (fame, sete, freddo, caldo, andare al bagno) o per salvare una persona amata da un imminente pericolo di coinvolgimento o con la concessione a questa di uno sconto di pena.

Suggerire le parole per la confessione. FORCING LANGUAGE

Studio tratto da Bull. Stagione 1. Episodio 5: Vero o falso? Mandato in onda da Rai 2 Domenica 5 marzo 2017 ore 21,00.

Bull e la sua squadra prendono le difese del giovane Richard Fleer che ha confessato di avere ucciso la sua ricca fidanzata, messo sotto pressione dall'interrogatorio della Polizia...

Dal libro su Sarah Scazzi alla docu-serie di Disney+. La Nazione il 12 settembre 2022.

Dal libro alla docu-serie, fino alla serie internazionale. È questo il percorso di “Sarah. La ragazza di Avetrana”, il libro dei due lucchesi di adozione Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (nella foto). Dopo il successo editoriale dell’opera, pubblicata due anni fa da Fandango Editore, il volume che racconta con spaccati inediti e sorprendenti la triste storia di Sarah Scazzi torna al centro dell’attenzione.

Questa volta con Disney+, colosso mondiale che ha scelto il testo per farne una serie che verrà resa disponibile in oltre duecento Paesi. Le riprese della serie - di cui i due sono anche autori del soggetto e sceneggiatori - inizieranno a giorni in Puglia per la regia di Pippo Mezzapesa, appena candidato al Festival del Cinema di Venezia con il suo film“Ti mangio il cuore” la cui protagonista è la nota cantante Elodie.“È una sfida molto importante - spiegano i due - il cui obiettivo è quello di far emergere, sfruttando la chiave della funzione, il paradosso del reale. Quello che ci auguriamo è che la serie tv, più che dare risposte, possa interrogare il telespettatore. Non solo sul vero assassino di Sarah Scazzi, ma anche sul peso mediatico dell’intera vicenda”.

Qual è stato il ruolo mediatico del caso Scazzi?

“Il caso Scazzi rappresenta una sorta di punto di non ritorno, perché se da una parte già c’erano stati racconti di cronaca nera della cosiddetta “tv del dolore” - pensiamo soprattutto ad Alfredino Rampi e a Vermicino -, con il delitto di Avetrana si fa un passo ulteriore, perché per la prima volta il 6 ottobre 2010 alla mamma di Sarah, Concetta Serrano, viene comunicato in diretta che la figlia non è scomparsa, dopo 42 giorni di ricerca, bensì è morta e che a uccidere la figlia sarebbe stato - secondo quello che si disse all’epoca - lo zio di Sarah, Michele Misseri. Si tratta di un episodio emblematico perché rappresenta un momento in cui tutto sembra diventare legittimo. E il morboso viene sdoganato per sempre“.

Carmine ormai sei un volto noto di Rai1, fra Linea Verde Life e programmi di inchiesta in prima serata. Quali sono gli altri progetti su cui state lavorando insieme?

“Oltre la nuova stagione televisiva in Rai, ci stiamo occupando di nuovi documentari per le piattaforme e di un podcast, incentrato sull’organizzazione del Forteto, che uscirà in inverno. Si tratta di un lavoro lungo e complesso, incentrato sul silenzio istituzionale e sulla mancanza di assistenza che nel nostro Paese viene data a chi fuoriesce da una setta“.

La docu-serie Sky Original in quattro puntate prodotta da Groenlandia sul controverso caso giudiziario e mediatico che ha sconvolto l’Italia è in arrivo su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15 - disponibile  anche on Demand e in streaming su Now. Da tg24.sky.it il 19 novembre 2021. 

Nell’agosto del 2010 in Salento una giovane scompare. È Sarah Scazzi. L'Italia intera rimane sconvolta. Molte le ipotesi che si alterneranno durante i quarantadue giorni di ricerca. Ipotesi che sveleranno segreti e rancori, arrivando a costruire un incredibile reality show dell'orrore e del grottesco. Avetrana, il paese dove tutto si svolge, ne sarà un vero set a cielo aperto.

E' la nuova docu-serie Sky Original prodotta da Groenlandia e tratta dall’omonimo libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020) che, in quattro puntate, ricostruisce tutta la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione. Su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15, disponibile anche on demand e in streaming su NOW, la serie cerca di spiegare come Avetrana rappresenti il caso che più di ogni altro ha canalizzato l’attenzione mediatica creando un vero e proprio circo per il quale non interessava più la ricerca della verità, quanto sviscerare tutti gli aspetti più morbosi. Il punto di non ritorno è rappresentato da quanto accadde in diretta tv quando Concetta Serrano, madre di Sarah, venne a sapere che la figlia non era in realtà scomparsa e che lo zio Michele Misseri aveva fatto ritrovare il suo corpo senza vita.

"UNA RIFLESSIONE SU UN CASO CHE HA ANCORA MOLTI CONI D’OMBRA"

Da allora l’attenzione su Avetrana divenne spasmodica, tanto che tutte le persone coinvolte diventarono personaggi televisivi. Anche i passanti, gli abitanti, i vicini di casa e tutta la comunità avetranese divennero protagonisti di uno show dell’orrore. Il documentario, per la prima volta partendo da Avetrana, pone un interrogativo che tocca tutti i casi di cronaca diventati mediatici: quanto può influire un racconto che insegue il macabro e il morboso nella ricerca della verità? Quanto può influire una narrazione così “inquinata” anche nelle indagini giudiziarie? Eppure è possibile che, senza quel peso mediatico, ancora oggi Michele Misseri non avrebbe fatto ritrovare il corpo di Sarah. 

Scritto da Flavia Piccinni, Carmine Gazzanni, Matteo Billi e Christian Letruria, per la regia di Christian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana è una riflessione su un caso che ha ancora molti coni d’ombra e, nonostante tre sentenze abbiano messo un punto sulla vicenda giudiziaria dell'omicidio di Sarah Scazzi, qualcuno sta ancora lottando per affermare un'altra verità. Come Franco Coppi, avvocato di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo insieme a Cosima, che ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Tra gli intervistati della serie anche il fioraio di Avetrana, testimone chiave del processo, che per la prima volta dopo dieci anni, torna a raccontare la sua versione dei fatti.

Sarah - La ragazza di Avetrana. LA DOCU-SERIE CHE RICOSTRUISCE IL CASO DELL'OMICIDIO DI SARAH SCAZZI tv8.it. Giovedì 13 gennaio 2022. Il controverso caso giudiziario e mediatico che ha sconvolto l’Italia.

Nell’agosto del 2010 in Salento una giovane scompare. È Sarah Scazzi. L'Italia intera rimane sconvolta. Molte le ipotesi che si alterneranno durante i quarantadue giorni di ricerca. Ipotesi che sveleranno segreti e rancori, arrivando a costruire un incredibile reality show dell'orrore e del grottesco. Avetrana, il paese dove tutto si svolge, ne sarà un vero set a cielo aperto.

Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie tratta dall’omonimo libro scritto da Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango Libri, 2020) che, in quattro puntate, ricostruisce tutta la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione.

La serie cerca di spiegare come Avetrana rappresenti il caso che più di ogni altro ha canalizzato l’attenzione mediatica creando un vero e proprio circo per il quale non interessava più la ricerca della verità, quanto sviscerare tutti gli aspetti più morbosi. Il punto di non ritorno è rappresentato da quanto accadde in diretta tv quando Concetta Serrano, madre di Sarah, venne a sapere che la figlia non era in realtà scomparsa e che lo zio Michele Misseri aveva fatto ritrovare il suo corpo senza vita.

Da allora l’attenzione su Avetrana divenne spasmodica, tanto che tutte le persone coinvolte diventarono personaggi televisivi. Anche i passanti, gli abitanti, i vicini di casa e tutta la comunità avetranese divennero protagonisti di uno show dell’orrore.

Il documentario, per la prima volta partendo da Avetrana, pone un interrogativo che tocca tutti i casi di cronaca diventati mediatici: quanto può influire un racconto che insegue il macabro e il morboso nella ricerca della verità? Quanto può influire una narrazione così “inquinata” anche nelle indagini giudiziarie? Eppure è possibile che, senza quel peso mediatico, ancora oggi Michele Misseri non avrebbe fatto ritrovare il corpo di Sarah.

Scritto da Flavia Piccinni, Carmine Gazzanni, Matteo Billi e Christian Letruria, per la regia di Christian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana è una riflessione su un caso che ha ancora molti coni d’ombra e, nonostante tre sentenze abbiano messo un punto sulla vicenda giudiziaria dell'omicidio di Sarah Scazzi, qualcuno sta ancora lottando per affermare un'altra verità. Come Franco Coppi, avvocato di Sabrina Misseri, condannata all’ergastolo insieme a Cosima, che ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Tra gli intervistati della serie anche il fioraio di Avetrana, testimone chiave del processo, che per la prima volta dopo dieci anni, torna a raccontare la sua versione dei fatti.

Sarah. La ragazza di Avetrana: la docu-serie chiede di riaprire il caso. Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie Sky Original che ricostruisce la vicenda non solo dal punto di vista giudiziario ma anche mediatico, concentrandosi sulla sua spettacolarizzazione. Alessia Arcolaci su Vanity fair il 23 novembre 2021.

Sarah. La ragazza di Avetrana è la nuova docu-serie Sky Original che ricostruisce la vicenda in quattro puntate. In onda dal 23 novembre.  

Sono Passati undici anni. Dalla scomparsa di Sarah Scazzi. Undici anni in cui la storia di questa quindicenne, uscita di casa il 26 agosto 2010 ad Avetrana per andare al mare e mai più ritornata, si è impressa nella memoria del nostro Paese. Ci vollero più di quaranta giorni per ritrovare il suo corpo senza vita, gettato in un pozzo profondo in mezzo a un campo. E in quelle ore di dirette televisive e interviste a chiunque si trovasse in quel piccolo paesino fino a quel momento sconosciuto, ha preso forma «il caso Sarah Scazzi» . Di tutto questo, oggi ad Avetrana resta una madre porta sul viso gli occhi grandi e azzurri della sua Sarah e una scritta impressa su un muro del paese: «Qui non è Hollywood».

Per la morte di Sarah Scazzi sono state condannate all'ergastolo, ma loro si sono sempre dichiarate innocenti, la zia Cosima insieme alla figlia Sabrina. La cugina che Sarah adorava e con cui, quel 26 agosto, sperava solo di andare al mare. In carcere c'è anche Michele Misseri, lo zio di Sarah, marito di Cosima e papà di Sabrina. È stato lui a condurre gli inquirenti sul luogo in cui lui stesso aveva nascosto il corpo. Per questo è stato condannato a 8 anni di carcere: nel 2024 è prevista la sua scarcerazione (anche se potrebbe uscire prima con la condizionale).

Il caso negli anni ha destato altalenanti polemiche e dubbi, destinati a riaprirsi con la docu-serie Sky Original, prodotta da Groenlandia per la regia di Cristian Letruria, Sarah. La ragazza di Avetrana, in onda su Sky Documentaries dal 23 novembre alle 21.15 e disponibile anche on demand e in streaming su NOW, tratta dall’omonimo libro di Flavia Piccinni e Carmine Gazzanni (Fandango), che ne sono anche gli autori. Un lavoro accurato che verrà diffuso in tutta Europa, e che punta i riflettori sui numerosi buchi neri che punteggiano il caso che, ancora oggi, secondo gli autori non può dirsi archiviato. La nostra intervista a Flavia Piccinni.

Perché sostenete che il caso non sia chiuso oltre ogni ragionevole dubbio?

«Il dubbio che ci ponevamo nella nostra inchiesta, e sul quale torniamo a interrogarci, è semplice: nonostante ci sia una sentenza passata in giudicato e che va assolutamente rispettata, siamo totalmente sicuri che il racconto mediatico non abbia in qualche modo inciso non solo sull’inchiesta, ma anche sulla nostra percezione dei protagonisti e delle persone coinvolte? E, ancora, siamo sicuri che Sabrina Misseri e Concetta Serrano siano davvero state giudicate in modo scevro da pregiudizi? Di certo siamo davanti a un paradosso che non ha precedenti».

Quale?

«Due donne che negli ultimi undici anni non hanno mai smesso di professarsi innocenti sono all’ergastolo, e un uomo che si dice colpevole presto verrà scarcerato. Nel corso del documentario il telespettatore potrà farsi la sua opinione. E centrale sarà nel costituirla la testimonianza inedita di Giovanni Buccoliero, il fioraio di Avetrana, che nella sentenza, pur non testimoniando mai a processo, gioca un ruolo chiave e che per la prima volta dopo dieci anni torna a raccontare la sua versione dei fatti per amore di verità».

Grande spazio nel vostro lavoro è dedicata ai media. Parafrasando Lele Mora, che intervistate: «La cronaca offre uno spettacolo a basso costo».

«Il grande protagonista di questo reality show dell’orrore economico e serealizzabile, andato in onda a reti unificate per alcuni anni, è stato il cinismo. Dei media e dei telespettatori. Non pensiamo di essere immuni solo perché non eravamo lì fisicamente. Ma noi eravamo sul divano, e non abbiamo cambiato canale, quando Federica Sciarelli ha annunciato in diretta televisiva a Concetta Serrano che sua figlia probabilmente era morta, e che se ne stava cercando il corpo nelle campagne. Noi eravamo immobili davanti allo schermo quando fischi, sputi e applausi accompagnavano alla detenzione Cosima Misseri».

Il caso di Avetrana rappresenta la perdita dell’innocenza televisiva?

«Di certo è una dimensione da cui non si torna più indietro. Se nel caso di Alfredino Rampi, a Vermicino, la diretta televisiva diventa giustificata dal desiderio di un lieto fine, ad Avetrana si cerca con cinismo un cadavere. Siamo nel dominio incontrastato della televisione del dolore, un momento in cui tutto sembra diventare legittimo».

Cosa diventa legittimo?

«Diventa legittimo concentrarsi sul morboso, invadere un paese e intervistare chicchessia semplicemente per avere qualcosa da dire nel corso delle innumerevoli dirette, spiare dal buco della serratura e raccontare fatti privati che magari nulla c’entrano con l’inchiesta. Saltano tutte le regole. Prende forma un iper-cinismo. Lo stesso che fa credere ai giornalisti di poter fare ogni cosa, di dover combattere una sfida al rilancio perpetuo, di non avere limiti. E così persone qualsiasi, un contadino, un’estetista, una bracciante, vengono trasformati in personaggi ben caratterizzati: l’uomo buono vittima delle megere di casa, la cugina invidiosa, la zia arpia. Sembrano dei personaggi creati a tavolino, invece sono persone reali. Persone qualsiasi».

Anche gli abitanti di Avetrana hanno giocato un ruolo tutt’altro che secondario.

«Gli avetranesi, soprattutto alcuni, sono entrati nella macchina mediatica pensando di poterla in qualche modo manipolare, penso per esempio a Sabrina, e quando era troppo tardi si sono resi conto che in realtà erano sprofondati in un tritacarne. Da quello strumento infernale sono usciti tutti con le ossa spezzate».

Nel documentario avete diverse esclusive. Cosa pensate che possa accadere?

«Inizialmente siamo stati annientati dal senso di responsabilità che avevamo, e che tutt’oggi percepiamo, nei confronti dei famigliari di Sarah Scazzi e della famiglia Misseri. Abbiamo cercato di affidare a questa docu-serie una visione imparziale sul delitto, il cui processo indiziario ha portato all’arresto di tre persone».

Cosa resta del caso Scazzi a distanza di undici anni?

«Resta un paese salentino che non aveva memoria, e che è stato incastrato per sempre nell’immaginario collettivo come lo scenario di un delitto. Resta un dramma famigliare, che ha distrutto due famiglie: gli Scazzi e i Misseri. Resta la verità, che in pochi probabilmente sanno, e che in tanti credono di aver raggiunto. Resta un circolo mediatico senza precedenti. E poi…»

E poi?

«E poi ci auguriamo che attraverso il documentario resti anche la storia di una bambina che è anche un’adolescente, che aveva sogni e drammi interiori come è capitato a tutte noi alla sua età. Insomma, che resti anche Sarah Scazzi, che ha vissuto la sua ultima, eterna, estate a quindici anni».

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Senza Giustizia.

Scena del crimine. Yara e il killer "al di là di ogni ragionevole dubbio". Yara Gambirasio scomparve da Brembate di Sopra il 26 novembre 2010: per il suo omicidio è stato condannato Massimo Bossetti. L'esperta: "È lui l'assassino". Angela Leucci il 2 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Massimo Bossetti è l’assassino di Yara Gambirasio “Al di là di ogni ragionevole dubbio”. È questo il titolo che Anna Vagli, criminologa investigativa ed esperta in scienze forensi, ha voluto dare al proprio libro. Un libro in cui viene ripercorsa in maniera originale la vicenda dell’omicidio della 13enne di Brembate di Sopra.

Era il 26 novembre 2010 quando Yara scomparve, l’Italia era ancora scossa dall’omicidio di un’altra giovane, Sarah Scazzi. Ci vollero mesi e un evento fortuito perché il corpo della ragazzina fosse ritrovato in un campo a Chignolo d’Isola. E un’inchiesta rivoluzionaria, in cui molte persone mostrarono una grande responsabilità sociale e comunitaria nel fornire volontariamente agli inquirenti il proprio Dna.

A oltre 10 anni da questo atroce fatto di cronaca se ne parla ancora, soprattutto perché dal carcere l’uomo condannato per l’omicidio, Bossetti appunto, grida la propria innocenza. “L’assassino di Yara è Massimo Bossetti”, dice a IlGiornale.it Anna Vagli.

Da dove nasce il titolo del libro?

“'Al di là di ogni ragionevole dubbio’ è il titolo che ho scelto proprio per ribadire la granitica responsabilità di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Una condanna che troppo spesso viene messa in discussione senza alcun tipo di fondamento. Né scientifico né logico”.

Bossetti spera in una revisione del processo. È possibile?

“La revisione processuale è un istituto complesso, che può essere attivato soltanto in presenza di nuove prove che dimostrino che il condannato debba essere prosciolto. Francamente, trovo questa ipotesi remota. L’assassino di Yara è Massimo Bossetti. In primo luogo ce lo dice il Dna e quindi la scienza. E quella, le assicuro, non sbaglia”.

Pare che alcuni reperti che hanno inchiodato Bossetti siano andati perduti. Costituisce un danno dato che il processo è chiuso?

“Gli ufficiali del Ris, anche nel corso del dibattimento, avevano per giunta più volte evidenziato come il materiale genetico fosse stato tutto consumato nel corso delle varie consulenze. E, di questo, gli avvocati di Bossetti ne sono sempre stati consapevoli”.

E quindi?

“Di conseguenza, la perizia che continua a invocare la difesa, non consentirebbe nuove amplificazioni né tantomeno tipizzazioni del Dna. Inoltre, in giudizio, è stata dimostrata la regolarità del procedimento concretizzatosi nell’isolamento della traccia genetica, nell’estrazione e nell’individuazione di un profilo sconosciuto. Per questa ragione denominato Ignoto 1. Ci sono poi voluti tre anni e migliaia di campionamenti per risalire a Massimo Giuseppe Bossetti. Nessun complotto contro il condannato né ombra di contaminazione. Quando si svolgevano le indagini sul Dna quest’ultimo non era né un indagato né un sospettato”.

Come mai molte persone continuano a credere all’innocenza di Bossetti?

“Due sono le ragioni che si intrecciano: la prima è legata all’immagine di Bossetti. Un uomo che abbiamo conosciuto attraverso le foto che lo dipingevano insieme alla sua bella famiglia e ai suoi animali domestici. Insomma il ritratto del padre di famiglia della porta accanto. Questo ha pesato tantissimo. La seconda ragione è da imputare all’uso giornalistico del Dna. Che, anziché azzerare la sua credibilità, ne ha aumentato la platea di sostenitori. È inconcepibile nell’immaginario collettivo che un uomo con moglie e figli possa barbaramente uccidere una ragazzina di tredici anni come Yara”.

Nel suo libro ha voluto restituire centralità a Yara. In alcune parti ha immaginato la sua “voce”. Come mai questa scelta?

“La scelta di dare la voce a Yara è stata dettata anzitutto dalla volontà di ribadire un concetto che spesso mediaticamente viene sottovalutato: lei è la sola e unica vittima di questa tragedia. Ancora troppe persone gridano all’ingiustizia e dipingono Bossetti come il malcapitato di turno indebitamente rinchiuso dietro le sbarre. In secondo luogo, il motivo per il quale ho deciso di rendere Yara voce narrante è legato al modo di concepire la sua tragica morte. Anche in questo caso, come nella quasi totalità delle vicende giudiziarie, è sempre il cattivo a diventare il protagonista, a fare la storia. Bossetti ha occupato, e continua a farlo, un ruolo di primo piano sulla ‘sinistra scena’. Quindi, è stato a un modo per restituirle non solo centralità, ma anche la dignità che qualcuno periodicamente cerca di portarle via”.

Yara è stata una vittima casuale?

“Dipende che cosa si intende per casuale. Sicuramente presentava caratteristiche fisiche, come i capelli rossi, che rientravano nelle perversioni di Bossetti. Ma quest’ultimo non era la prima volta che la vedeva. Frequentava la zona del centro sportivo, spesso si fermava a comprare le figurine per i figli proprio in un’edicola delle vicinanze. L’aveva sicuramente notata prima di quel maledetto 26 novembre 2010”.

Se non fosse stato catturato, ragionando per ipotesi in base al profilo criminologico, Bossetti avrebbe potuto tornare a colpire?

“Bossetti incarna, come anche cristallizzato in sentenza, le sembianze del predatore sessuale. Ha ucciso Yara perché si era rifiutata di dare seguito a una fantasia covata da tempo. Non gli restava altra strada diversa dall'omicidio: era a volto scoperto, frequentava abitualmente Brembate e Yara, in quel campo di Chignolo d’Isola, lo aveva visto bene in volto. Lo avrebbe riconosciuto. Però, nonostante sul suo pc siano state rinvenute ricerche anche successive alla morte di Yara relative a ragazzine con i capelli rossi e in età prepuberale, non credo avrebbe colpito ancora. Quello della ginnasta è stato un omicidio d’impeto, ma non per questo meno crudele”.

Omicidio Yara Gambirasio, tutti i dubbi sulla condanna di Bossetti. Redazione Tgcom24 il 3 novembre 2022.

Inchiesta de "Le Iene" a dodici anni dall' omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra nella bergamasca scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata senza vita in un campo aperto tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Dopo anni di  indagini e battaglie legali il procedimento giudiziario si è concluso il 12 ottobre 2018 con la condanna definitiva all'ergastolo di Massimo Bossetti, muratore di Mapello, accusato di aver commesso l'omicidio in seguito a un'aggressione sessuale. Sulla verità processuale, la difesa di Bossetti nutre ancora dubbi in particolare sul ritrovamento del corpo della ragazza. Alla domanda dell'inviato de "Le Iene" sul perché nei tre mesi di ricerche, nessuno avesse mai notato il corpo di Yara in quel campo pieno di aziende e telecamere, il medico legale della difesa  Danila Ranalletta, spiega: "Quel corpo fu portato li in un secondo momento dopo l'omicidio". 

Dove sarebbe stato tenuto il corpo di Yara? Secondo l'avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni "Bossetti non aveva nessun luogo dove avrebbe potuto nascondere quel cadavere". Per l'accusa è fondamentale sostenere che l'omicida abbia colpito proprio in quel campo. E però un altro dubbio della difesa riguarda il metodo di decomposizione del cadavere: "Omogeneo se non ci sono fattori esterni che producono una trasformazione diversa", sostiene il medico legale della difesa. La corificazione è un processo tipico degli ambienti privi di ossigeno e dunque "è possibile - si domanda Ranalletta - che sul campo di Chignolo d'Isola sia avvenuta questa trasformazione?". 

Per il plenum va tutto bene...Caso Yara, il Csm sdogana il processo mediatico e salva la Pm Letizia Ruggeri. Paolo Comi su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

Il Consiglio superiore della magistratura ha deciso di “istituzionalizzare” il processo mediatico-giudiziario. La vicenda finita al vaglio dell’organo di autogoverno delle toghe riguardava la docuserie di Sky “Ignoto1 – Yara, Dna di una indagine” che aveva visto come protagonista la pm di Bergamo Letizia Ruggeri. La magistrata era balzata agli onori delle cronache per aver condotto le indagini sulla morte della tredicenne di Brembate in provincia di Bergamo, scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio 2011.

Il documentario in 4 puntate aveva determinato l’apertura di un procedimento disciplinare a carico della pm, con strascichi anche sulla sua successiva valutazione di professionalità. Nel pieno del dibattimento, la magistrata era stata contatta dalla BBC affinché ripercorresse davanti alle telecamere le indagini che avevano poi portato all’imputazione di Massimiliano Bossetti. Oltre a diverse interviste sui luoghi del delitto, vi erano anche ‘passaggi’ sulla sua vita privata. La messa in onda era avvenuta durante il processo d’appello, determinando più di una ‘perplessità’ da parte dei vertici degli uffici giudiziari lombardi.

Immediatamente era stato allora aperto un procedimento disciplinare per la “violazione del dovere di riservatezza”, in quanto il filmato avrebbe potuto ingenerare nello spettatore “dubbi sulla indipendenza ed imparzialità” da parte della magistrata. Il filmato, poi, poteva essere considerato un “canale privilegiato” per sostenere, sul piano mediatico “le ragioni dell’accusa”. Il disciplinare si era concluso con un nulla di fatto, in quanto la ricostruzione dell’ipotesi accusatoria era stata sottoposta al vaglio dell’autorità giudicante. Al massimo si sarebbe potuto ipotizzare una violazione deontologica in quanto il codice etico delle toghe vieta loro di partecipare a trasmissioni nella quali discutere di processi in corso.

Ed era caduta nel vuoto anche la contestazione di aver partecipato alla docuserie senza l’autorizzazione del procuratore di Bergamo.

“Non era previsto nel progetto organizzativa della Procura” e comunque, si era difesa la magistrata, non si era trattato di rapporti con la stampa dal momento che gli interlocutori “non erano dei giornalisti”. Archiviato disciplinarmente il caso, il fascicolo era stato preso in esame al fine dell’avanzamento di carriera per valutare il paramento dell’equilibrio della toga. La pm nelle scorse settimane si era giustificata sottolineando che “la partecipazione al documentario aveva avuto la finalità di riequilibrare l’aggressiva campagna di stampa, agli occhi della pubblica opinione che stava veicolando notizie false e diffamatorie”.

Tesi accolta dal Plenum di ieri che non ha evidenziato “eccessivo protagonismo o scarsa moderazione”, magnificando invece il prodotto televisivo, “realizzato da una importate emittente e affidato ad un regista di elevata professionalità, noto per occuparsi di tematiche sociali con il dichiarato obiettivo di ripercorre le genesi e il complessivo sviluppo delle indagini genetiche”. Insomma, nulla di personale ma tutto con fini “scientifici”.

Paolo Comi

Yara Gambirasio, Bossetti prova a riaprire tutto: svolta? Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 12 settembre 2022

È stato condannato (all'ergastolo) per l'omicidio di Yara Gambirasio, ma Massimo Bossetti è deciso a provare la sua innocenza e, adesso, chiede di indagare Letizia Ruggeri, cioè la pm che ha seguito il suo caso, perché, dice, i campioni biologici che lo hanno accusato non sono stati conservati adeguatamente. Non demorde, Bossetti. D'altronde è dal giugno del 2014, da quando è stato arrestato nella sua casa di Mapello, in provincia di Bergamo, che non fa che ripeterlo: che lui non c'entra con la scomparsa (prima) e la morte (successiva) della piccola Yara, la ragazzina tredicenne di Brembate di Sopra che il 26 novembre del 2010 è uscita, intorno alle 17.30, dalla palestra del suo paesino di montagna, e poi non l'ha più vista nessuno.

Una tragedia che ha scosso mezza Italia e che ha fatto discutere l'altra metà, col ritrovamento del corpo esattamente tre mesi dopo, una ricerca a tappeto del Dna di quell'"ignoto 1" che ha coinvolto migliaia di persone e, alla fine, ha portato a Bossetti. E quel processo, tutto giocato sulle analisi in laboratorio e sui video del furgoncino bianco: 711 testimoni, tre gradi di giudizio, un monte di udienze e un faldone infinito. No, Bossetti non si dà pace. Non ci sta. Non demorde, nella sua cella nel carcere lombardo di Bollate.

SUL BANCO Sul "banco degli imputati", questa volta, ci sono le 54 provette con le tracce biologiche miste di Yara e del suo assassino: solo che «dovevano essere conservate al freddo a meno 80 gradi», spiegano gli avvocati di Bossetti tra cui c'è Claudio Salvagni, «per evitare lo scongelamento e il conseguente deterioramento». Invece sono stati spostate dall'ospedale San Raffaele di Milano all'ufficio Corpi di reato del tribunale di Bergamo: un viaggio sì e nodi 90 chilometri che, ora, potrebbe riaccendere le speranze della difesa.

Speranze racchiuse in una richiesta di opposizione presentata al foro di Venezia (che è competente sulla magistratura bergamasca), 70 pagine che verranno discusse a novembre, in cui i legali mettono in fila quel che è successo dal 12 ottobre del 2018 in avanti, ossia da quando la condanna di Bossetti è diventata definitiva senza che lui abbia mai potuto vedere da vicino la "prova regina" che, ancora adesso, lo tiene al gabbio. È una questione di date: il 26 novembre 2019 Salvagni chiede l'accesso ai campioni di Dna per esaminarli, ottiene l'autorizzazione ma non sa che, nel frattempo, la pm Ruggeri ha chiesto di spostarli, cosa il 21 novembre. Ma a Bergamo le provette arrivano appena il 2 dicembre, dodici giorni dopo. Cosa è avvenuto?

LE BUGIE Bossetti sollecita un'indagine denunciando proprio Ruggeri: il concetto è chiaro, sostiene che abbia mentito. La procura di Venezia archivia: «Non c'è alcuna prova di un piano orchestrato». E allora l'ex muratore di Mapello tira dritto: «Quei 54 campioni erano idonei a nuove analisi, le tecniche di oggi avrebbero risolto gravi anomalie». Lei, Ruggeri, il 10 marzo dell'anno scorso, incalzata dal procuratore vicario di Venezia che le riferisce come, secondo alcuni tecnici e il capo del Ris di Parma, effettivamente l'esame avrebbe potuto essere ripetuto, ammette di essere «abbastanza meravigliata. Dai verbali è emersa una cosa completamente diversa. Rimango veramente sorpresa». «False affermazioni», le bolla Bossetti, che avrebbero, tra l'altro, «condizionato» il procedimento. Per questo chiede al gip di Venezia di indagare la pm, assieme a Giovanni Petillo per «frode processuale e distruzione dolosa dei reperti». Va da sè che sono accuse pesanti e che la strada per chiedere la revisione del processo di Bossetti è ancora tutta in salita.

Da Telelombardia il 23 giugno 2022.

Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni di Massimo Bossetti inviate a mezzo lettera a Marco Oliva conduttore della trasmissione “Iceberg” di Telelombardia. La lettera è un lungo sfogo del carpentiere di Mapello condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio dopo aver appreso che i 54 campioni del suo dna, prima conservati all’ospedale San Raffaele, ora sarebbero degradati perché mal conservati presso l’ufficio corpi reato di Bergamo. Le dichiarazioni integrali di Bossetti saranno in onda durante la puntata di questa sera a partire dalle 20.30 su Telelombardia. 

"Spesso mi domando qual è o quale sia il limite della sopportazione per un cuore già fin troppo stremato dalle durissime faticose, tortuose battaglie, quando fin dall'inizio era così semplice nell'evitarmi tutto! Pazzesco e vergognoso nell'aver udito quanto mai sperassi che così avvenisse... "Era stato il giudice Petillo a disporre la confisca dei reperti che erano così stati trasferiti dalle celle frigorifere dell'ospedale San Raffaele di Milano, dove erano custoditi, ai locali della Procura di Bergamo, SPROVVISTI DI SPAZI IDONEI ALLA CONSERVAZIONE"! Il 30 novembre 2019, depositano formali istanze presso l'Ufficio corpi di reato e il Tribunale di Bergamo, in attesa ed in previsione degli accertamenti che verranno richiesti alla Corte d'Appello competente per la revisione, affinchè venga disposta ed assicurata la conservazione di TUTTI i reperti ed i campioni di DNA dai medesimi estratti inibendone la DISTRUZIONE!! 

Ora chiedo e a gran voce URLO, chi doveva nel garantire l'efficacia, l'integrità e l'idoneità di TUTTI questi reperti??? Chi doveva autorizzare e assicurare, un contesto più congruo sul deposito nella garanzia di TUTTO, porca miseria!!!!! Bossetti o qualcun'altro?! 

Sarebbe, ben più utile che ora, tutti e tengo nel ribadire TUTTI si facessero una minima riflessione, di come si continui nel volermi additare ed evidenziare attraverso i media, per un reato terribile, atroce e vergognoso che NON HO COMMESSO! Solo perché fa più comodo ed è più semplice non evidenziare quanto non si può' e non si vuole portare alla luce!! Ecco la verità dove si nasconde... Dove non la si vuole cercare! La mia rabbia si cela dietro ad una verità INSABBIATA, da anni DETERIORATA!!! Grazie a coloro che mi hanno rovinato la vita e verso chi ad oggi ha concesso tutto questo assurdo, vergognoso scandalo agli occhi di tutti voi al rispetto della mia persona! Mi auguro che a nessuno di voi possa mai capitarvi quanto sul mio essere è realmente accaduto.”

Yara Gambirasio, la procura chiede di archiviare il caso: “Non ci fu alcun depistaggio”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Aprile 2022. 

Per la Procura di Venezia non ci fu alcun piano per lasciare intenzionalmente deperire il Dna di “Ignoto 1”. Per questo motivo ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta aperta in seguito alla denuncia di Massimo Bassetti, il muratore bergamasco, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata senza vita il 26 febbraio dell’anno successivo.

Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, per la procura non ci sarebbe dunque nessun piano di depistaggio di eventuali nuove indagini. Sul registro degli indagati, per il reato di frode in processo e depistaggio, sono finiti il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Il fascicolo era stato aperto nei mesi scorsi dal procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, in quanto Venezia è competente per le inchieste che coinvolgono i magistrati bergamaschi.

E ora è lo stesso magistrato a chiedere al giudice di archiviare le accuse, perché né le verifiche svolte né i testimoni sentiti, hanno fatto emergere la prova che, da parte degli indagati, ci sia mai stata la volontà di distruggere o danneggiare quei 54 campioni di Dna estratti dagli slip e dai leggings indossati da Yara, e che hanno costituito la prova-principe che ha permesso agli investigatori di risolvere il caso arrivando, dopo anni di indagini e comparazioni, ad attribuire quel profilo genetico a Bossetti.

Il muratore si è sempre professato innocente. La prova principe del processo è da sempre contestata dagli esperti della difesa, che però si sono sempre visti respingere le richieste di riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva, i 54 campioni trovati sugli abiti della tredicenne. Già nel dibattimento era in realtà emerso che la traccia decisiva per estrarre il profilo di “Ignoto 1” non sarebbe stata più utilizzabile in quanto “definitivamente esaurita”.

Ma stando alla denuncia presentata da Bossetti tramite i suoi legali, l’avvocato Claudio Salvagni, vi sarebbero stati campioni “prima scomparsi e poi ricomparsi” e l’ipotesi che il materiale confiscato “sia stato conservato in modo tale da farlo deteriorare”, vanificando così ogni tentativo di nuove indagini. La difesa di Bossetti aveva chiesto di poter esaminare i reperti e conoscere lo stato di conservazione delle prove con l’obiettivo di ottenere la revisione del processo.

Secondo il Corriere la questione è proprio questa: dopo che per lungo tempo il Dna di “Ignoto 1” è rimasto nei frigoriferi dell’ospedale San Raffaele, ora si trovano nei magazzini dell’Ufficio corpi di reato che, a quanto pare, non dispongono di apparecchi in grado di mantenere le basse temperature. Ora i difensori del manovale hanno la facoltà di presentare opposizione alla richiesta di archiviazione e a quel punto spetterà al giudice di Venezia decidere se chiudere il caso una volta per tutte oppure ordinare nuove verifiche. “Chiederemo di leggere i contenuti del fascicolo – spiega l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Bossetti al Corriere – per capire se la posizione della procura veneta sia fondata. Se riterremo manchino degli approfondimenti, ci opporremo all’archiviazione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Yara Gambirasio. Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.  

La procura di Venezia indaga sul giallo del Dna rinvenuto sugli abiti di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra (Bergamo) scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata assassinata il 26 febbraio dell’anno successivo. L’inchiesta prosegue da mesi, nel riserbo più assoluto da parte degli inquirenti. Da quel che emerge, il fascicolo è affidato al procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito che ha iscritto nel registro degli indagati il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Per entrambi – che nei mesi scorsi hanno ricevuto l’avviso di proroga dell’indagine - l’ipotesi è quella prevista dall’articolo 375 del codice penale: frode in processo e depistaggio.

La denuncia presentata da Massimo Bossetti

L’indagine è scaturita da una denuncia presentata da Massimo Bossetti che, dopo la condanna definitiva all’ergastolo per il delitto della ragazzina, sembra intenzionato a far riaprire il caso e a chiedere la revisione del processo. I dubbi ruotano intorno alle tracce biologiche che portarono a individuare nell’«Ignoto 1» il muratore di Mapello, che si è sempre professato innocente: il Dna estratto dagli slip e dai leggings indossati da Yara, ha costituito la prova-principe che ha permesso agli investigatori di risolvere il caso arrivando, dopo anni di indagini e comparazioni, ad attribuire quel profilo genetico a Bossetti. Un test che è sempre stato contestato dagli esperti della difesa, che lo scorso anno si è vista rigettare la richiesta di riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva, in particolare proprio le tracce di Dna. Ma che fine hanno fatto quei cinquantaquattro campioni trovati sugli abiti della tredicenne? Per stessa ammissione dei legali, a dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di «Ignoto 1», non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita». Ma in seguito sarebbero emerse nuove circostanze.

I campioni scomparsi e ricomparsi

Nella denuncia presentata direttamente da Bossetti - con l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei suoi difensori - si parla infatti di campioni «prima scomparsi e poi ricomparsi» e del sospetto che il materiale confiscato sia stato «conservato in modo tale da farlo deteriorare» vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive. Insomma la tesi, neanche troppo velata, è che quelle tracce siano state lasciate deperire proprio per evitare che si potesse mettere in discussione l’intero processo al muratore. L’articolo 375, infatti, punisce «con la reclusione da tre a otto anni» il pubblico ufficiale che «al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale» modifica un corpo di reato, e prevede una pena ancor più severa se «il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte (...) di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova».

Le accuse al presidente della Corte d’assise

È nella querela che si punta il dito contro il presidente della Corte d’assise di Bergamo che si occupò del caso (respingendo come inammissibili le istanze della difesa di esaminare i reperti) e la funzionaria dell’Ufficio corpi di reato. Ed essendo Petillo un magistrato bergamasco, la competenza spetta alla procura di Venezia, che ha iscritto entrambi sul registro degli indagati. Nessuna conferma dal procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, che però pare che nei mesi scorsi abbia ascoltato diversi testimoni, compresa la pm Letizia Ruggeri titolare dell’inchiesta sull’omicidio di Yara, e alcuni poliziotti e carabinieri del Ris che seguirono la pista che nel giugno del 2014 (quindi a oltre tre anni di distanza dal delitto) portò all’arresto di Massimo Bossetti.

Le verifiche veneziane sui campioni

Cosa è emerso dalle verifiche condotte a Venezia sul «trattamento» che a Bergamo è stato riservato ai campioni di Dna di «Ignoto 1»? Presto per tracciare uno scenario definitivo ma l’inchiesta sembra ormai vicina alla chiusura e, sempre stando alle indiscrezioni, finora non sarebbe emersa alcuna prova di un comportamento doloso. Se così fosse, e quindi se davvero non dovesse esserci alcuna evidenza della volontà di alterare le prove, la procura non potrà che chiedere l’archiviazione del fascicolo con la possibilità, da parte di Bossetti, di opporsi di fronte al giudice del tribunale di Venezia.

Campioni ancora utilizzabili?

L’avvocato Salvagni la mette in questi termini: «Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato. L’obiettivo della denuncia di Bossetti è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di “Ignoto 1”».

Il dna di "Ignoto 1" è sparito: due indagati per il caso Yara. Sofia Dinolfo il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

Si tratta del presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Secondo i legali di Massimo Bossetti, i due avrebbero manomesso le prove.

Sono due i nomi che la procura di Venezia ha scritto nel registro degli indagati in merito ad una nuova inchiesta sull’omicidio Yara Gambirasio. Si tratta del presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato, Laura Epis. Per entrambi l’accusa sarebbe quella di frode e depistaggio in processo prevista dall’articolo 375 del codice penale.

La denuncia presentata dalla difesa di Massimo Bossetti

Sembra la storia infinita quella che gravita intorno al caso Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate di Sopra (Bergamo), scomparsa il 26 novembre del 2010 e ritrovata uccisa il 26 febbraio del 2011. Un delitto atroce, che ha scosso tutta Italia e del quale ad oggi l’unico colpevole, con condanna all’ergastolo, è il muratore Massimo Bossetti. Ed è stata proprio la difesa di quest’ultimo a presentare la denuncia nei confronti dei due odierni indagati. Il fascicolo d’inchiesta, affidato al procuratore aggiunto Adelchi D’Ippolito, avrebbe proprio l’obiettivo di far riaprire il processo ed esaminare nuovamente le tracce di Dna trovate sugli indumenti della vittima. E quindi nuovi presunti colpevoli. Ma cos’è successo in questi anni? Perché si è arrivati a questa denuncia?

Come si apprende dal Corriere Del Veneto, tutto gravita intorno alle tracce biologiche che da oltre un decennio hanno riconosciuto nell’<Ignoto 1> la persona di Massimo Bossetti. Si tratta del Dna prelevato sia dai leggins, sia dagli slip indossati dalla giovane vittima. Questi elementi hanno rappresentato la prova cardine del processo. Nonostante la prova sia stata definita inconfutabile, il muratore di Mapello si è sempre dichiarato innocente. I suoi legali, dopo la sentenza di condanna, hanno avanzato la richiesta di poter eseguire nuovamente gli esami delle tracce biologiche unitamente a quelli su altri elementi ritrovati nel luogo dell’omicidio. La richiesta in quell’occasione è stata rigettata. Da allora si sono fatti avanti diversi dubbi, soprattutto alla luce della “scomparsa e ricomparsa” dei 54 campioni prelevati sugli indumenti della vittima.

Il mistero delle tracce biologiche contenute in 54 campioni

Claudo Salvagni e Paolo Camporini, entrambi legali di Massimo Bossetti, sostengono che qualcuno potrebbe aver messo mano e fatto sparire appositamente le 54 provette che hanno portato all’arresto del loro assistito. In particolare i due difensori lamentano di non aver mai avuto la possibilità di accedere a quelle tracce di Dna attribuite al muratore. Proprio in merito alla traccia decisiva, in dibattimento era emerso che non sarebbe stata più utilizzabile in quanto “definitivamente esaurita”. In un secondo momento si è fatto un passo indietro parlando della disponibilità di quei campioni. Ma il dubbio della difesa è che adesso "il materiale confiscato sia stato conservato in modo tale da farlo deteriorare, vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive".

Proprio per questo motivo i due legati hanno presentato querela contro il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, (che ha respinto, ritenendo inammissibili, le istanze della difesa di esaminare i reperti) e la funzionaria responsabile dell'Ufficio corpi di reato. Ma i tempi non sono ancora maturi per dare delle risposte a queste accuse. Di certo al momento non è emerso alcun comportamento doloso messo in atto dagli indagati. E i legali di Massimo Bossetti sono ormai intenzionati ad andare fino in fondo: “Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti – hanno dichiarato al Corriere Del Veneto - che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato. L’obiettivo della denuncia di Bossetti – hanno concluso - è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di 1”.

Massimo Bossetti, clamorosa svolta: sparito il Dna che lo ha incastrato, indagato il giudice. Alessandro Dell'Orto su Libero Quotidiano il 02 aprile 2022.

Dopo dodici anni e una lunga indagine caratterizzata da sviste ed errori clamorosi (dall'assurdo arresto del marocchino Fikri a causa di una traduzione errata alla gestione del luogo del ritrovamento del cadavere, recintato per le analisi e poi inspiegabilmente aperto ai curiosi), dopo un processo sempre sul filo del dubbio e della polemica e a quattro anni dalla condanna definitiva all'ergastolo per Massimo Bossetti, ecco un altro inaspettato colpo di scena. E non da poco: la procura di Venezia indaga gli investigatori di Bergamo. Già, l'omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne sparita da Brembate Sopra (a pochi passi da Bergamo) il 26 novembre 2010 e ritrovata morta esattamente tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola si arricchisce di un nuovo capitolo. Che, inevitabilmente, ingarbuglia ancora di più una vicenda mai davvero chiarita fornendo nuovi elementi ai tanti "innocentisti" che hanno sempre considerato estraneo ai fatti il muratore di Mapello arrestato il 16 giugno 2014.

REPERTI ALTERATI - La questione è legata al Dna, da sempre elemento di dubbi e battaglie processuali tra le parti: la Procura di Venezia, infatti, sta lavorando sull'ipotesi di alterazione dei reperti biologici («prima scomparsi e poi ricomparsi», ha sempre denunciato la difesa di Bossetti) rinvenuti sui vestiti di Yara e attribuite a "Ignoto 1", poi ritenuti sovrapponibili al Dna dell'accusato e quindi elemento cruciale nella condanna definitiva all'ergastolo. Tradotto, la difesa ha sempre lamentato di non aver avuto accesso diretto alle tracce di Dna trovate sui leggins e sulle mutandine della vittima: a dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di "Ignoto 1", non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita», mentre successivamente si è dato atto della disponibilità di 54 campioni di Dna trovati sul corpo della vittima. Il sospetto della difesa, dunque, è che «il materiale confiscato sia stato "conservato in modo tale da farlo deteriorare", vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive».

L'inchiesta è nata da una denuncia presentata dai legali di Bossetti (gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini) per frode processuale e depistaggio, e dopo che gli stessi pm di Bergamo, d'accordo la Corte di Cassazione, nel giugno 2021 avevano trasmesso per competenza ai colleghi dell'ufficio veneto gli atti del procedimento «per le opportune valutazioni». Nel fascicolo risulterebbero indagati il presidente della prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, che da presidente della Corte d'Assise di Bergamo respinse come inammissibili le richieste della difesa di esaminare i reperti, e Laura Epis, funzionaria responsabile dell'Ufficio di corpi reato. A loro nei mesi scorsi era giunto l'avviso di proroga dell'indagine che adesso, invece, sarebbe vicina alla chiusura. l titolare del fascicolo, il procuratore aggiunto Adelchi D'Ippolito, negli scorsi mesi ha sentito come testimoni i titolari dell'accusa nel processo e alcuni investigatori- carabinieri e tecnici dei Ris - che nel giugno 2014 seguirono la pista del Dna che portò all'arresto di Bossetti. L'obiettivo dei difensori, ovviamente, è quello di scovare un appiglio che consenta una revisione del processo.

MOLTI INTERROGATIVI - «Abbiamo chiesto mille volte di poter riesaminare i reperti confiscati dopo la sentenza definitiva - ha spiegato l'avvocato Salvagni - Ma ci è stato sempre negato. Quando invece, nel 2019, il Tribunale di Bergamo accolse la nostra richiesta ci sentimmo poi dire però che i campioni "sarebbero stati distrutti"; cosa che apre molti interrogativi. Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l'autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possono aver subito trasferendoli dall'ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell'Ufficio corpi di reato - spiega l'avvocato Salvagni. L'obiettivo della denuncia è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili». 

Yara Gambirasio, giallo sul dna: indagato un giudice a Bergamo. Il Dubbio 31 marzo 2022.

La procura di Venezia apre un'inchiesta sulle provette costate l'ergastolo a Massimo Bossetti. L'ipotesi di reato è frode in processo e depistaggio.

La procura di Venezia ha iscritto nel registro degli indagati il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Bergamo, Giovanni Petillo, e la funzionaria responsabile dell’Ufficio corpi di reato, Laura Epis, per il caso Yara Gambirasio. Come riferisce il Corriere della Sera, per entrambi l’ipotesi è quella prevista dall’articolo 375 del codice penale: frode in processo e depistaggio.

L’inchiesta nasce da una denuncia presentata nel giugno del 2021 dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello condannato in via definitiva per l’omicidio della 13enne di Brembate, alla procura veneta (titolare dei fascicoli che riguardano i magistrati di Bergamo) perché qualcuno potrebbe aver occultato deliberatamente 54 provette contenenti il Dna che è costato l’ergastolo all’imputato. In particolare la difesa ha sempre lamentato di non aver avuto accesso diretto alle tracce di Dna trovate sui leggins e sulle mutandine della vittima classificate inizialmente come “Ignoto 1” e poi attribuite a Bossetti.

Nel corso del dibattimento era emerso che la traccia decisiva, quella da cui fu estratto il profilo di “Ignoto 1”, non sarebbe più utilizzabile in quanto «definitivamente esaurita», successivamente invece si è dato atto della disponibilità di 54 campioni di Dna trovati sul corpo della vittima. Ma il sospetto della difesa è che «il materiale confiscato sia stato “conservato in modo tale da farlo deteriorare” vanificando la possibilità di effettuare nuove indagini difensive». Nei mesi scorsi sarebbero stati ascoltati diversi testimoni, compresa la pm Letizia Ruggeri titolare dell’inchiesta sull’omicidio di Yara, e ora l’inchiesta veneziana sembrerebbe vicina alla chiusura «e, sempre stando alle indiscrezioni, finora – scrive il quotidiano – non sarebbe emersa alcuna prova di un comportamento doloso».

Se così fosse la procura non potrà che chiedere l’archiviazione del fascicolo. «Pendono altri due ricorsi in Cassazione per ottenere l’autorizzazione a riesaminare quei reperti, che però ancora non sappiamo in che condizioni siano e che tipo di danni possano aver subito trasferendoli dall’ospedale San Raffaele, dove erano custoditi inizialmente, ai magazzini dell’Ufficio corpi di reato – spiega l’avvocato Salvagni -. L’obiettivo della denuncia è proprio di sapere se sono ancora utilizzabili o se qualcuno, magari interrompendo la catena del freddo indispensabile per la buona conservazione dei campioni, abbia compromesso per sempre la possibilità di effettuare dei nuovi studi sul Dna di “Ignoto 1″».

Da “TeleLombardia” il 27 gennaio 2022.

Di seguito uno stralcio delle dichiarazioni dei legali di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini nel giorno in cui il Tribunale di Bergamo ha dichiarato per la seconda volta inammissibile la loro richiesta di conoscere lo stato e il luogo di conservazione dei campioni di dna oggetto di confisca, nonostante l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione lo scorso 26 luglio 2021. 

Il lungo sfogo dei legali sarà in onda questa sera nel corso della trasmissione “Iceberg Lombardia” a partire dalle 20.30 su Telelombardia.

Nel corso della suddetta trasmissione verrà data lettura di una missiva di protesta indirizzata ad “Iceberg” direttamente da Massimo Bossetti a seguito dei ritardi della Suprema Corte che ha fissato l’udienza per la decisione sull’anali dei reperti solo il prossimo 7 aprile (la decisione sarebbe dovuta arrivare lo scorso 16 novembre).

“La corte di Bergamo probabilmente pensa di essere superiore alla corte di Cassazione, se i principi di questa vengono disattesi. Se pensano che la difesa abbandoni per stanchezza si sbagliano di grosso. Stiamo già lavorando al quinto ricorso” – sostiene l’avvocato Claudio Salvagni. 

“Per noi è fondamentale conoscere questo stato di conservazione perché come è noto affinchè si possano fare delle analisi sul dna occorre che questo sia stato conservato a temperatura costante e sotto lo zero cosi com’era custodito al San Raffaele di Milano prima della confisca. 

Se prima potevamo avere dei dubbi che questi reperti fossetto stati distrutti ora ne abbiamo la certezza oppure resi inutilizzabili per via di una cattiva conservazione. Non si vuole assolutamente consentire che gli errori clamorosamente commessi vengano smascherati.” 

"Se vi abbiamo negato l'esame dei reperti a maggior ragione non vi dobbiamo dire come e dove sono stati conservati". E' quanto scritto nell'ordinanza, per noi è la prova che non sono più utilizzabili – prosegue l’avvocato Paolo Camporini.

Ancora una volta la Corte d'Assise di Bergamo non si è attenuta a quanto disposto dalla Cassazione, questa decisione ci costringe a fare un nuovo ricorso entro 15 giorni. E' una decisione che ci ha sorpreso, questa è un'inammissibilità per noi incomprensibile. Abbiamo anche scoperto che c'è un'ispezione ministeriale in corso, non ne sapevamo nulla.

“Sono confinato trattenuto dentro a queste mura che ogni giorno mi stanno sempre più strette, continuo nel vedermi la dignità disconosciuta, disprezzata, calpestata e i miei diritti fondamentalmente ignorati e violati. 

Sono mesi ormai che attendo che si fissi questa benedetta udienza in corte d’Assise sull’analisi dei reperti. Com’è possibile che la decisione di organo Supremo come una Corte di Cassazione, che per tre volte consecutive si è espressa in modo favorevole accogliendo tutti i miei tre ricorsi, venga ancora oggi ignorata.

Mi chiedo del perché il sussistere di questo vergognoso scorretto comportamento, a maggior ragione, se non si ha nulla da temere, ne da nascondere, dato che si è pure cosi estremamente convinti della mia colpevolezza. 

Continuare nel rimbalzarmi da una Corte all’altr , come se fossi un semplice pacco postale, divenuto ormai fin troppo scomodo e pericoloso per essere preso in considerazione. 

A oggi mi chiedo perché tutta questa assurda perdita di tempo? Perché tutte queste difficoltà nel concedermi le giuste cause per potermi difendere da questa giustizia che faccio molta a capire. Non mi fermerò mai urlo esigo e pretendo solo e unicamente, che mi ci si metta nelle condizioni di ripetere questo benedetto esame scientifico. Porca miseria buttate giù le vere prove, una volta per tutte fatelo se avete il coraggio”. Massimo Bossetti

I legali preparano il quinto ricorso. Yara Gambirasio, respinta ancora una volta la richiesta di Bossetti sul Dna: “La mia dignità calpestata”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Una nuova richiesta di conoscere lo stato e il luogo di conservazione dei campioni di Dna fatta dai legali di Massimo Bossetti è stata bocciata dalla Corte di Assise di Bergamo. Il muratore di Mapello è in carcere dal giugno del 2014, condannato definitivamente all’ergastolo per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, scomparsa da casa mentre rientrava dalla palestra nel novembre 2010 e ritrovata senza vita tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola.

La Corte d’Assise di Bergamo ha dichiarato inammissibile la richiesta dopo l’annullamento con rinvio disposto dalla Cassazione lo scorso 26 luglio 2021. Già altre due volte i giudici avevano rifiutato la richiesta dei legali di Bossetti di accederee analizzare i campioni del Dna.

“La Corte di Bergamo probabilmente pensa di essere superiore alla Corte di Cassazione, se i principi di questa vengono disattesi – hanno detto i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini nella trasmissione Iceberg di Telelombardia – Se pensano che la difesa abbandoni per stanchezza si sbagliano di grosso. Stiamo già lavorando al quinto ricorso”.

“Per noi è fondamentale conoscere questo stato di conservazione perchè come è noto affinchè si possano fare delle analisi sul dna occorre che questo sia stato conservato a temperatura costante e sotto lo zero cosi com’era custodito al San Raffalele di Milano prima della confisca”.

Intanto dal carcere Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, ha inviato una lettera: “Sono confinato trattenuto dentro a queste mura che ogni giorno mi stanno sempre più strette, continuo nel vedermi la dignità disconosciuta, disprezzata, calpestata e i miei diritti fondamentalmente ignorati e violati”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Qual è la Verità.

Dagospia l’8 novembre 2022. Da “Radio Cusano Campus” 

Sono passati 15 anni da quel drammatico 1 novembre 2007 quando in una casa di Perugia fu ritrovata sgozzata dopo essere stata violentata, la 21enne studentessa inglese Meredith Kercher. Per quel delitto venne condannato a 16 anni di reclusione con rito abbreviato l'ivoriano Rudy Guede; condannato in concorso con ignoti, mai identificati. Il caso è stato approfondito nella trasmissione “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV.

A distanza di 15 anni Giuliano Mignini, il pm che ha condotto le indagini e rappresentato l'accusa al processo, difende Amanda Knox da chi la accusava di avere un atteggiamento non adatto alla situazione e dichiara: “Voleva anche a suo modo darci aiuto. Aveva un atteggiamento anche scherzoso ma secondo me è stato enfatizzato questo aspetto. Non è stata capita secondo me. Lei probabilmente cercava anche di esorcizzare la paura”.

Tra gli altri è intervenuto anche il legale di Raffaele Sollecito, l'avvocato Luca Maori dicendo: “Come vengono giustamente espulsi tunisini, nordafricani e altri soggetti non comunitari che spacciano la droga e poi vengono condannati a 2-3 anni di carcere, non deve essere espulso un soggetto che è stato condannato per omicidio volontario aggravato? Lo prevede la legge.

Un soggetto del genere non può avere un permesso di soggiorno e Rudy Guede non ha un permesso di soggiorno perché è cittadino ivoriano. Ha avuto un permesso di soggiorno temporaneo nel momento in cui è stato messo in affidamento. Il questore di Viterbo gli ha dato la possibilità di poter svolgere attività di recupero. Quindi avendo finito di scontare la pena, il permesso scade naturalmente e deve essere espulso. Il questore lo deve fare. Se il questore non lo espelle commette un reato”.

Delitto di Perugia, la sorella di Meredith: «Guede non agì da solo, dove sono finiti gli altri?» Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022.

«Giuro che non capisco...». Stephanie, la sorella di Meredith Kercher non si capacita. Perché non si può riaprire il caso dell’omicidio di sua sorella Meredith e cercare gli altri responsabili oltre a Rudy Guede? Perché se la condanna diceva 16 anni poi Rudy è uscito prima? L’avvocato Francesco Maresca, con pazienza e con dolcezza, l’altro giorno le ha spiegato una volta di più che il sistema giustizia italiano funziona così. Che si può indicare un imputato come responsabile di un delitto «in concorso» con altri, e poi non individuare gli altri. Che si può essere condannati a 16 anni di carcere e scontarne di meno perché esiste un meccanismo che a determinate condizioni premia il condannato. Che non è possibile tornare indietro e riprocessare Amanda Knox e Raffaele Sollecito, indicati all’inizio come complici di Rudy e poi assolti definitivamente. E non è nemmeno possibile riaprire le indagini e cercare oltre quei tre nomi perché non è mai esistita l’ipotesi di nomi alternativi. Sono passati 15 anni, Stephanie ha seguito il processo, ha letto le carte, ha pianto accanto ai suoi genitori — che oggi non ci sono più — e mai ha pensato di arrendersi. E ancora oggi, anche se non vede nessuna strada per raggiungerla, chiede giustizia per Meredith, sorella adorata e studentessa Erasmus in Italia morta a 21 anni la sera del 1 novembre 2007 a Perugia, nella casa che condivideva con Amanda Knox.

Stephanie, lei in passato si è detta delusa dalla giustizia italiana. È ancora così? «Sì. Il passare del tempo non attenua niente e rimane in me un profondo senso di delusione perché il ragionamento dei giudici non coincide con l’esito del processo. La sentenza di condanna di Guede diceva che lui era coinvolto nell’omicidio assieme ad altri ma dove sono gli altri? Nella conclusione di questo processo io vedo molte domande senza risposte».

Knox e Sollecito in questi anni sono stati più volte personaggi da gossip. Si sono visti di recente in Italia, come saprà. Che cosa ha pensato leggendo di loro? «Diciamo che avrei apprezzato di più se per il 15esimo anniversario della morte di Mez l’attenzione dei media si fosse concentrata sul ricordo di lei».

Lei pensa che Rudy dica la verità quando giura di non essere il killer? «La risposta a questa domanda doveva arrivare dal sistema giudiziario italiano che, come ho già detto, invece ha lasciato aperti molti interrogativi».

Qual è il primo ricordo di Mez che le viene in mente? «Il suo sorriso: una cosa memorabile. Ed è contagioso quando guardo le sue fotografie».

Delitto di Perugia, la storia

Che tipo di sorella era Meredith? «Era molto divertente, intelligente e premurosa con gli amici e con la famiglia, specialmente con mia madre. Se chiudo gli occhi posso ancora vederla, sentirla... Il vuoto che ha lasciato non potrà mai essere colmato. il dolore rimane anche se passa il tempo. Ci sarà sempre posto per lei nei miei pensieri e nel mio cuore».

Che cosa sognava per il futuro? «A lei interessava molto l’italiano e la politica, com’era per mia madre. E poi la scrittura, e in quel caso aveva preso da mio padre. Sono certa che la sua vita avrebbe avuto un grande impatto nel mondo».

Che cosa le rimane di Mez, oggi? «A parte quel che provo ogni volta che penso a lei, custodisco amorevolmente una scatola della memoria. Dopo la sua morte, con i miei, abbiamo messo via i suoi compiti, gli oggetti scolastici, i libri, le fotografie... Era un modo per avere sempre a portata di mano una parte di lei accanto a noi».

Che cosa ricorda di quell’1 novembre così drammatico? «Ricordo che cambiò tutto in un momento ed è doloroso ripensarci. Quel che terrò stretto a me per sempre è il calore, la gentilezza, il sostegno che mi hanno trasmesso amici, vicini, parenti ma anche persone sconosciute da tutto il mondo, specie in Italia».

Qual è stata la ferita più grande che ha dovuto affrontare durante il processo? «La durata stessa del processo è stata una ferita che ha reso più difficile elaborare il lutto. Assistere alle udienze è stata ogni volta una sofferenza, e soprattutto per i miei genitori è stata durissima».

"Ho sofferto i pregiudizi". La nuova vita di Raffaele Sollecito. Raffaele Sollecito ha una vita, una carriera, molti affetti. A oltre 10 anni dalla sua assoluzione per il delitto di Perugia si racconta a IlGiornale.it. Angela Leucci il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.

È un uomo completamente diverso da come è stato dipinto quindici anni fa. Raffaele Sollecito riparte da se stesso, lontano dalla raffigurazione mediatica scaturita dal processo di Perugia.

Il 2 novembre 2007, la studentessa britannica Meredith Kercher fu trovata morta nella casa che occupava in via della Pergola. Per il suo omicidio, avvenuto il giorno prima, è stato condannato per concorso il cittadino ivoriano Rudy Guede, che attualmente ha pagato il suo debito con la giustizia ed è tornato in libertà. Nell’iter giudiziario furono indagati e poi rinviati a giudizio anche lo stesso Sollecito e Amanda Knox, coinquilina della giovane inglese. I due, condannati in primo grado nel 2009, furono poi assolti in appello nel 2011 per non aver commesso il fatto. È passata quindi oltre una decade da quel verdetto di assoluzione, ma Sollecito non dimentica. Nel suo sito, in cui promuove la sua attività di cloud architect (e che è stato aggiornato strutturalmente a maggio 2022), c’è un’ampia sezione dedicata alla propria vicenda giudiziaria.

"Guede non agì da solo": dubbi sul delitto Kercher

“Il sito è nato durante la spiacevole e tragica vicenda che tutti conoscono - racconta Sollecito a IlGiornale.it riferendosi al delitto di Perugia - Ho cambiato l’infrastruttura che prima era su server fisici in Italia e ora l’ho spostato su cloud, ho cambiato il template, apportando piccole modifiche e aggiornamenti. Ho lavorato sempre come sviluppatore e ho evoluto le mie capacità per passare all’architettura a microservizi possibile nel cloud, ho preferito aggiornarlo per ottenere una base più affidabile, resiliente e migliori performance in latenza, dove posso gestire anche i miei clienti”.

Sollecito, sul suo profilo Facebook ha scritto un motto che forse si ispira all’opera di Shopenhauer: “Sognare e vivere per vedere quel sogno”. Cosa immagina o spera per sé nel suo futuro?

“Essere un punto di riferimento nell’ambito tecnologico come ingegnere informatico, soprattutto nel cloud. Ho attualmente la certificazione cloud architect professional Aws (Amazon Web Services)”.

Ha subito dei pregiudizi in seguito alla sua storia? Durante il processo a suo carico, la passione per i manga è stata usata, insolitamente, per descriverla in modo negativo.

“Assolutamente sì, i pregiudizi affliggono tutti coloro che sono sovraesposti e quindi non è accaduto solo a me. Figuriamoci cosa mi sarei potuto aspettare io. In ambito lavorativo questo mi ha fatto soffrire molto quando è accaduto. Per fortuna, grazie a impegno, determinazione e persone che mi sono state accanto, sono riuscito pian piano a cambiare il corso degli eventi”.

"Non l’ho uccisa. C’è stato un approccio, poi…". La verità di Rudy Guede

Ha letto il libro di Rudy Guede?

“No, penso che lo leggerò. Potrebbero esserci dei riferimenti alla mia persona. Dei giornalisti mi hanno detto che c’è un capitolo scritto dall’ex pm (Giuliano Mignini, ndr). Se quest’informazione è vera, mi chiedo perché un ex pm dovrebbe scrivere un capitolo nel libro dell’assassino di Meredith. Mi lascia molto perplesso, mi chiedo cosa ne pensano i fratelli di Meredith”.

Oggi si è messo il passato alle spalle. Come ha scelto la sua carriera?

“Sono sempre stato un appassionato di computer e tecnologia. A 8 anni, ero un bambino, mio padre, che era un medico chirurgo usava un 286 Ibm. Io accendevo questo ‘strano televisore’ e quando ho scoperto che con dei comandi potevo lanciare programmi di esecuzione, mi si è aperto un mondo. Ne sono rimasto profondamente affascinato. Mi sono incaponito a volerne sapere sempre di più: sono sempre stato un nerd, appassionato di videogiochi e manga giapponesi. Ho fatto un percorso su questa strada che non ho voluto mai cambiare perché ci ho creduto sempre. Perché non avrei dovuto crederci?”.

Come mai sul suo sito non si parla solo del suo lavoro ma anche della sua vita privata, per esempio attraverso i racconti di chi le vuole bene e le sue foto da piccolo?

“È un archivio storico. Quei contenuti, anche se in diversa forma, c’erano prima: mi spiaceva cestinarli. Il sito raccoglie me, sia dal punto di vista della mia famiglia, sia del libro che ho scritto negli Stati Uniti (Honor Bound del 2013, ndr)… ci sono diverse parti di me già online e distribuite al pubblico. Non mi andava di oscurarle. Non ho niente di cui vergognarmi, non ho niente da rimproverarmi”.

Lo stesso quindi si può immaginare di dire dell’archivio relativo agli articoli sul delitto di Perugia dal quale è risultato estraneo. Secondo lei è possibile il diritto all’oblio nell’era d’oro di Internet?

"Bisogna avere gli strumenti e le conoscenze per farlo ma sì, è possibile tecnicamente. Ma si deve chiedere la consulenza a un esperto. Nel caso delle persone che, come me, hanno subito una sovraesposizione mediatica, diventa più complicato. Poi dipende da quanto si è parlato di una persona su diverse piattaforme. Per esempio tutti i contenuti di Facebook non vengono controllati su Google. C’è anche una questione di policy e diritti distribuiti geograficamente tra le varie aziende".

Tornando alla sua carriera, che cosa fa esattamente un cloud architect?

"Significa disegnare e implementare l’infrastruttura - il cloud - di cui un’azienda ha bisogno per poter espletare le proprie necessità informatiche".

Cos'è il cloud?

"Il cloud, nato per la prima volta con Amazon nel 2008, è quell’infrastruttura - che viene affittata da terzi, così come i suoi servizi - caratterizzata da resilienza, affidabilità, tecnologie che permettono bassissima latenza e, politiche di disaster recovery e backup capaci di recuperare tutti i nostri dati. Perché questi dati si trovano in più data center in Europa o in giro per il mondo, affinché non vengano persi. Anche il Cern si serve del cloud per le sue simulazioni. È un mondo pieno di opportunità, lo era quando sono uscito dal carcere ed è sempre in crescita".

"Quei gesti di Amanda...". Parla il pm che indagò sull'omicidio di Meredith. L'ex pm che si occupò delle indagini sull'omicidio di Meredith Kercher ha parlato di Amanda Knox: "A suo modo, voleva anche aiutarci. Non è stata capita". Rosa Scognamiglio il 7 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Amanda voleva, a suo modo, aiutare le indagini". A dirlo è stato Giuliano Mignini, il magistrato della procura di Perugia che indagò sull'omicidio di Meredith Kercher, nel corso di un intervento al programma televisivo "Crimini e Criminologia" in onda su Cusano Italia TV domenica 7 novembre. L'ex pm ha ripercorso ai microfoni di Fabio Camillacci, giornalista e doppiatore, alcuni momenti salienti della vicenda soffermandosi, in particolare, su Amanda Knox: "Non è stata capita, secondo me", ha detto a proposito della 35enne statunitense.

"Rudy Guede dev'essere espulso dall'Italia". L'accusa del legale di Sollecito

Il "caso" Amanda Knox

Nata e cresciuta a Seattle nel luglio del 1987, Amanda Knox è stata una delle protagoniste del delitto di Perugia (1°novembre 2007). Sospettata fin da subito di un presunto coinvolgimento nell'omicidio di Meredith Kercher, fu condannata e poi assolta in via definitiva dalla Cassazione nel 2015. Catturò l'attenzione dei media italiani e della stampa internazionale per l'atteggiamento apparentemente disimpacciato davanti alle telecamere che, al tempo, erano puntate sulla casa al civico numero 7 di via della Pergola, la scena del crimine. L'abbraccio con Raffaele Sollecito fuori dalla villetta, a poche ore dal delitto, e la passeggiata in centro nei giorni successivi alla tragedia - tutte circostanze poi chiarite dai diretti interessati - gettarono ombre sulla studentessa statunitense. "Aveva un atteggiamento anche scherzoso ma, secondo me, è stato enfatizzato questo aspetto" ha detto il magistrato Mignini riferendosi ad Amanda Knox.

A Perugia, poi a Gubbio con Sollecito. Le vacanze italiane di Amanda Knox

"Non è stata capita"

Nel corso dell'intervento al programma di approfondimento sul caso dell'omicidio di Meredith Kercher, Mignini ha ricordato uno dei primi incontri con Amanda. "Ritornammo in quella casa il giorno dell'autopsia - ha spiegato il magistrato - Andammo con la squadra Mobile e portammo anche Amanda per far vedere i coltelli che c'erano nella cucina. A un certo punto, lei ebbe una sorta di svenimento. Cominciò a fare un gesto, una cosa che faceva spesso: si metteva i palmi delle mani sulle orecchie. Sembrava come se cercasse di dimenticare un grido, un suono che l'aveva terrorizzata". Poi ha continuato: "Ricordo che la vedemmo anche in un'altra occasione. Lei voleva anche, a suo modo, darci un aiuto. Così sembrava. Ci sono stati dei gesti, come fare la ruota davanti alla polizia, che per noi restano incomprensibili". Infine, l'ex pm ha concluso: "Non è stata capita secondo me. Lei probabilmente cercava anche di esorcizzare la paura".

Amanda Knox e l’omicidio di Meredith Kercher: la storia del delitto di Perugia e la verità giudiziaria. La sera del 1° novembre 2007 la studentessa britannica di 22 anni venne assassinata con una coltellata alla gola. Dopo oltre 7 anni di processi Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti definitivamente, l'unico condannato rimane Rudy Guede. Cosa fanno oggi i protagonisti del giallo che ha diviso l'opinione pubblica di tre Paesi. Angela Geraci su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Amanda e Raffaele

Le circostanze del ritrovamento del corpo sono particolari: a scoprire il cadavere - senza vestiti, insanguinato e parzialmente coperto da un piumone, nella camera da letto della ragazza - sono state verso l’ora di pranzo quattro persone: l’americana Amanda Knox, 20 anni, una delle coinquiline della vittima; Raffaele Sollecito, 23 anni, da pochi giorni fidanzato con la giovane di Seattle, e due agenti della polizia postale chiamati dai ragazzi perché hanno trovato due telefoni cellulari di Meredith nel giardino di una casa vicina.

Amanda e Raffaele - lei studentessa di scrittura creativa all’Università per stranieri, lui iscritto a informatica - con il loro comportamento attirano subito l’attenzione, sia quella degli inquirenti che quella dell’opinione pubblica. Davanti alla scena del crimine, la casetta di via della Pergola, si tengono per mano e si abbracciano come se non si rendessero conto della gravità della situazione. Due giorni dopo il delitto vengono anche sorpresi a fare shopping in un negozio di intimo, sorridenti e complici si baciano. E poi ci sono i rilievi della polizia scientifica: alcune cose non quadrano. Per esempio il fatto che la finestra della stanza di un’altra coinquilina di Meredith - non in casa in quei giorni - abbia un vetro che sembra rotto dall’interno, come per depistare. A quattro giorni dall’omicidio Amanda e Raffaele vengono fermati. E si dicono innocenti: la notte in cui Meredith è stata assassinata erano insieme a casa di lui dove hanno visto un film, «Il favoloso mondo di Amelie».

Patrick Lumumba

Il delitto internazionale calamita immediatamente l’interesse dei media, sia quelli italiani che quelli britannici e statunitensi. Si inizia a scavare nelle vite di Amanda e Raffaele e le foto dei loro profili social finiscono in prima pagina e in prima serata in tv. E sono destinate a rimanere impresse nella memoria come lo scatto in cui lei, in un abito corto giallo, ride a crepapelle facendo finta di sparare con un mitra (vero) o l’immagine di lui avvolto dalla carta igienica e con una mannaia in mano a una festa in maschera. Poi arriva la svolta: Amanda accusa del delitto Patrick Lumumba, proprietario del pub in cui l’americana lavora di tanto in tanto.

Patrick Lumumba (Ansa)

Lumumba, 37enne congolese, viene arrestato e anche il suo volto finisce sulla stampa di mezzo mondo. L’uomo, padre di un bambino piccolo, passerà circa due settimane in carcere prima di essere riconosciuto estraneo alla vicenda e prosciolto (grazie alla testimonianza di un professore svizzero che lo scagiona). Amanda Knox è stata condannata a tre anni per averlo calunniato.

Rudy Guede

Il giorno in cui Lumumba viene liberato, il 20 novembre 2007, entra in scena un nuovo protagonista del caso che sta appassionando tutta Italia e non solo. Si chiama Rudy Guede, è un ivoriano di 21 anni che fin da piccolo vive a Perugia e viene arrestato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori hanno individuato l’impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere di Meredith e diverse tracce di Dna in casa. Tra l’altro c’è il suo cromosoma Y sul tampone vaginale fatto alla vittima: sono segni da “strofinamento”, la violenza sessuale non può essere provata. In casa c’è anche l’impronta di una sua scarpa, all’inizio attribuita erroneamente a Raffaele Sollecito. Il ragazzo fornisce una ricostruzione dei fatti bizzarra. Dice che la sera del 1° novembre è andato a casa con Meredith e fra loro è iniziato un rapporto sessuale consenziente. All’improvviso però lui si è sentito male perché aveva mangiato un kebab ed è dovuto scappare in bagno. Quando esce dopo aver sentito un urlo non riesce a guardare bene gli aggressori, poi vede Meredith in un lago di sangue si spaventa e scappa via senza chiamare aiuto. Guede è stato processato con il rito abbreviato e condannato a 30 anni di carcere - ridotti poi a 16 anni - per concorso in omicidio (con Amanda e Raffaele, secondo l’accusa).

La battaglia di perizie sui reperti

Nella storia lunga e complicata del delitto di Perugia l’arma che ha ucciso Meredith Kercher non è mai stata identificata con certezza. A un certo punto tracce del Dna della studentessa londinese e di Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Raffaele ma questi risultati vengono smentiti in una serie di perizie arrivate negli anni successivi, tra cui una dei carabinieri del Ris che rintraccia sulla lama soltanto il codice genetico della americana. Intanto oltreoceano si organizzano campagne in difesa di Amanda Knox, cittadina statunitense rimasta incastrata e stritolata - secondo la stampa - negli strani meccanismi della giustizia italiana. Vengono anche prodotte delle borse con la scritta «Free Amanda». E i genitori accusano la polizia di Perugia di aver maltrattato la figlia e averla lasciata senza un traduttore durante i primi interrogatori. Altro oggetto diventato famoso è il gancetto del reggiseno di Meredith, repertato addirittura 46 giorni dopo il delitto e su cui viene rintracciata una piccolissima traccia del Dna di Raffaele Sollecito. L’accusa crede di avere incastrato il pugliese; per la difesa invece quella modesta porzione di Dna è finita lì per «contaminazione» perché il gancetto è stato toccato da tante, troppe mani. Su questo punto procura e difensori combatteranno per anni e alla fine l’accertamento tecnico sarà considerato «non attendibile».

La sentenza di primo grado: la condanna

Il 5 dicembre 2009, a poco più di due anni dall’uccisione di Meredith Kercher, la corte d’Assise di Perugia pronuncia la sentenza di primo grado: Amanda Knox viene condannata a 26 anni, Raffaele Sollecito a 25. Il 22 marzo 2010 vengono depositate le motivazioni: secondo i giudici i ragazzi hanno ucciso Meredith spinti da un movente «erotico, sessuale, violento».

Il secondo grado: l’assoluzione

Passano altri mesi e a fine novembre 2010 inizia il processo di secondo grado. Vicino a Raffale Sollecito c’è anche l’avvocato Giulia Bongiorno, Amanda Knox continua a catturare i flash dei fotografi quando entra in aula con i suoi vestiti colorati e i suoi occhi azzurri. Il 3 ottobre 2011 arriva la sentenza che i due ragazzi sognavano da quattro anni: la corte assolve i due imputati dall’omicidio «per non avere commesso il fatto» e ne dispone la scarcerazione. Il procuratore aveva invece chiesto l’ergastolo.

Amanda Knox piange di gioia dopo l’assoluzione (Ansa)

Amanda parte per gli Stati Uniti il giorno dopo. Sia lei che Raffaele rilasciano interviste, scrivono libri e provano a riconquistare una vita il più possibile “normale”, sempre tenuti d’occhio come sono dai fotografi. Il 15 dicembre 2011 vengono depositate le motivazioni della assoluzione: secondo i giudici di secondo grado i «mattoni» su cui si è basata la condanna «sono venuti meno»: c’è una «insussistenza materiale» degli indizi e l’ordinamento «non tollera la condanna dell’innocente».

La Cassazione: tutto da rifare

Meno di un anno e mezzo dopo l’assoluzione, il 26 marzo 2013, la doccia fredda: la Cassazione annulla la sentenza di secondo grado e rinvia tutto alla Corte d’appello di Firenze per un nuovo processo di appello.

Il processo di appello bis: un nuovo ribaltone

Il 30 settembre 2013 inizia a Firenze il secondo processo di appello. Amanda rimane negli Stati Uniti per paura di finire di nuovo in carcere se si troverà in Italia e il verdetto sarà sfavorevole. Lo scrive proprio in una lettera che manda alla Corte. Invece Raffaele segue le udienze e rilascia dichiarazioni spontanee: «Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante, senza senso». L’accusa chiede 30 anni per Amanda e 26 per Raffaele. Ma - a quasi 5 anni dal delitto - il movente adesso è cambiato: non si tratterebbe più di un gioco erotico finito male ma di una lite legata a vecchie ruggini fra Amanda e Meredith per le pulizie di casa. La sentenza arriva il 30 gennaio 2014 dopo quasi 12 ore di camera di consiglio. Poco prima delle 22 viene letto il verdetto (il quarto) che ribalta l’assoluzione stabilita dal precedente appello. I due ragazzi vengono condannati per concorso nell’omicidio di Meredith: Amanda Knox a 28 anni e 6 mesi, Raffaele Sollecito a 25 anni . Per Amanda, che è negli Stati Uniti, non c’è ovviamente alcuna misura restrittiva; per Raffaele viene disposto il divieto di espatrio con ritiro del passaporto. Il giovane viene rintracciato all’alba in un hotel della provincia di Udine, dove era con un’amica: «Ho fatto un giro in Austria, poi sono rientrato in Italia: mi sono fermato lì a riposare», spiega ai poliziotti che gli ritirano i documenti. Si torna in Cassazione.

Il ritorno in Cassazione e l’ultimo verdetto

Il giorno che segna la svolta definitiva nella storia giudiziaria del delitto di Perugia e nelle vite dei protagonisti è il 28 marzo 2015. Sono passati quasi sette anni e mezzo dalla notte del 1° novembre 2007, quando Meredith Kercher è stata uccisa con una profonda coltellata alla gola. È il giorno in cui la Cassazione annulla senza rinvio le condanne di Amanda Knox e Raffaele Sollecito: assolti per non aver commesso il fatto. Restano i tre anni di condanna a Knox per calunnia ai danni di Patrick Lumumba, ma li ha già ampiamente scontati.

I protagonisti oggi: l’americana

Amanda Knox, 31 anni, vive sempre negli Stati Uniti dove si è laureata, fa la giornalista, ha scritto un libro («Waiting to be heard», nel 2013) ed è impegnata in un’associazione che si occupa di vittime di errori giudiziari. Netflix le ha dedicato un documentario nominato agli Emmy. Ha un fidanzato, lo scrittore Christopher Robinson. In queste ore è in Italia dove ha raccontato la sua vicenda all’Innocence Project di Modena, con un intervento nel quale ha ripetuto la sua versione dei fatti e ha detto: «Molti pensano che la mia presenza qui possa profanare la memoria d Meredith. Non è così». Il 3 ottobre 2017 ha celebrato con un tweet l’anniversario della sua scarcerazione

I protagonisti oggi: il pugliese

Raffaele Sollecito, 35 anni, si è laureato in ingegneria informatica nel 2014 con una tesi su se stesso. Il tema era «Innocentisti e colpevolisti sul web», voto 88 su 110. Poi ha creato il sito «Memories» (BeOnMemories.com), una specie di social network/app per commemorare i defunti. Anche lui, come Amanda, ha scritto un libro e si batte per i diritti civili. Nel 2016 scorso ha partecipato al congresso dei Radicalidove ha detto la sua sul sistema penitenziario in Italia che «così com’è non serve a nulla: lasciare una persona in una stanza 2 metri per 3 dalla mattina alla sera è un’aberrazione umana e serve solo a mettere la polvere sotto il tappeto». Ha aggiunto anche che abolirebbe subito il carcere preventivo. Per i quasi 4 anni che ha trascorso in carcere non gli è stato riconosciuto il risarcimento per ingiusta detenzione: la Cassazione il 28 giugno 2017 ha respinto la sua richiesta di indennizzo di 516 mila euro. Per Raffaele Sollecito è stata una decisione «inspiegabile»: «Se ancora non trovo un lavoro - ha sottolineato - è per quanto mi è successo. Sto ancora subendo le conseguenze degli anni passati in carcere da innocente e non capisco perché questo non venga compreso».

I protagonisti oggi: l'ivoriano

Rudy Guede, 31 anni, resta l'unico condannato per l'omicidio di Meredith. Anche se in concorso con qualcuno la cui identità a questo punto - dopo l'assoluzione di Raffaele e Amanda - rimane ignota. Oggi sta finendo di scontare la sua pena a 16 anni (ha scelto il rito abbreviato e in appello ha avuto uno sconto di pena) nel carcere Mammagialla di Viterbo; dovrebbe uscire dal carcere nel 2023. Nel gennaio 2016 la giornalista Franca Leosini gli ha fatto una lunga (e controversa) intervista nel suo programma «Storie maledette» in cui Rudy ha ripetuto di essere innocente e ha annunciato di voler presentare un’istanza di revisione del processo.

Rudy Guede si affaccia a una finestra della struttura d'accoglienza del gruppo assistenti volontari animatori carcerari (Gavac) dove è stato ospitato per il permesso di 36 ore (Ansa)

Intanto a giugno dello stesso anno ha avuto un permesso premio ed è uscito di prigione per 36 ore. «Aveva paura di attraversare la strada, ha visto uno smartphone e si è chiesto cosa fosse. Guardando un televisore a schermo piatto all’interno della casa ha chiesto: “Che cos’è, un quadro?”», ha raccontato Claudio Mariani, criminologo e fermo sostenitore dell'innocenza di Guede. Il 16 luglio 2016 si è laureato con 110 e lode in Scienze storiche del territorio e della cooperazione internazionale all’università di Roma Tre. La discussione della tesi («Storia e mass-media. I mezzi e i luoghi della divulgazione storica») è avvenuta nel carcere di Viterbo da cui Rudy dovrebbe uscire nel 2023.

Da rainews.it il 30 ottobre 2022.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito si sono incontrati in Italia a quindici anni dal delitto di Perugia. Lo rivela il britannico “Mirror” che pubblica una foto che li ritrae insieme, sorridenti, a Gubbio: la meta che avevano in mente di visitare il giorno in cui fu scoperto il cadavere di Meredith Kercher. Una gita rinviata, all’epoca, per “cause di forza maggiore”. Secondo quanto riporta il popolare tabloid inglese, la “rimpatriata” risale al mese di giugno e con Amanda c’erano anche il marito Chris Robinson e la figlioletta che adesso ha un anno.

A confermare la vicenda al quotidiano è lo stesso Sollecito, raggiunto telefonicamente dal cronista che l’ha ricostruita. Sarebbe stata la trentacinquenne di Seattle a lanciare l’idea, che Raffaele ha raccolto con entusiasmo. “E’ stato bello poter parlare tra noi di qualcosa che non fosse il caso giudiziario”, avrebbe riferito Sollecito. I due non si rivedevano dai tempi del processo che si è concluso nel 2015 con l’assoluzione definitiva di entrambi, dopo quattro anni di carcere. I giudici esclusero la loro partecipazione materiale all’omicidio e sottolinearono l’assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili nella camera dove avvenne il delitto o sul corpo di Meredith.

La scelta di Gubbio chiude un cerchio per Amanda e Raffaele, ma mette sale sulle ferite mai rimarginate dei familiari della vittima, alla vigilia dell’anniversario della morte, il primo novembre 2007. Rudy Guede, l’unico colpevole riconosciuto dalla giustizia italiana in “concorso” - anche se coloro che erano inizialmente indicati suoi complici sono stati scagionati - è tornato libero da un anno, ha un lavoro e promuove un libro con la sua versione dei fatti, ovviamente innocentista.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono tornati a Gubbio. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

Amanda Knox è tornata a Perugia a metà giugno, dove ha incontrato il suo storico avvocato; poi ha rivisto Raffaele Sollecito a Gubbio. I due erano stati indagati, processati e assolti per il delitto di Meredith Kercher 

L’ultima volta che li abbiamo visti assieme a Perugia, liberi, erano imbacuccati in giubbotti invernali e abbracciati l’uno di fronte all’altra davanti alla casa di via della Pergola. La casa del delitto. Facce stravolte, espressione preoccupata, lacrime. 

La nuova immagine è tutt’altra cosa. Sono a braccetto per le vie di Gubbio. Insieme come quindici anni fa, ma stavolta felici. O almeno: questo trasmette la fotografia pubblicata dal Mirror con la rivelazione sul loro incontro in Italia, a giugno, e la loro gita a Gubbio, 15 anni dopo l’omicidio di Meredith. 

Amanda, 35 anni, è raggiante sotto il suo cappello di paglia.

Raffaele, 38 anni, barba e zainetto, la cinge con un braccio e sorride. 

Istantanea di un tempo che sembra lontano anni luce da quei giorni di inizio novembre 2007. 

Meredith Kercher, studentessa inglese, classe 1985, fu uccisa la sera dell’1, a coltellate, mentre era nell’appartamento di via della Pergola, appunto, che condivideva con Amanda. A casa con lei c’era Rudy Guede, giovane ivoriano con il quale — secondo la versione di lui — aveva avuto un approccio sessuale. 

Lui, Guede, racconta che era in bagno, con le cuffiette al massimo del volume, quando ha sentito arrivare qualcuno e gli è sembrato di riconoscere la voce di Amanda. Poi un urlo lancinante, lui che corre a vedere cosa fosse successo e si imbatte in una figura maschile con il coltello in mano. Quello scappa, Rudy si affaccia dalla finestra e lo vede andare verso Amanda, che è già fuori dalla casa. Lo sente che le dice: «C’è un negro, andiamo via». 

Il ragazzo racconta di aver tentato di soccorrere Meredith ma che poi, in preda al panico, è scappato e ha commesso un lungo elenco di errori nel vano tentativo di allontanare da lui i sospetti perché temeva di non essere creduto. Ecco. 

Di tutta questa versione Amanda e Raffaele — imputati, incarcerati e poi assolti per il delitto — non condividono quasi nulla. Negli anni hanno ripetuto mille volte che Rudy è un criminale, che lui e soltanto lui ha ucciso Meredith. Che loro due non c’entrano niente. 

Processo complicato: prima la condanna, poi l’assoluzione, poi il rinvio della Cassazione, poi di nuovo la condanna e infine l’assoluzione definitiva. 

Rudy invece ha scelto il rito abbreviato ed è stato condannato a 16 anni; è libero da un anno. 

Difficile pensare che rivedendosi Amanda e Raffaele non abbiano parlato dei giorni angoscianti dopo il delitto. Anche perché il 2, cioè il giorno in cui fu ritrovato il corpo di Meredith, avevano programmato una gita a Gubbio. Ed è lì che hanno scelto di andare, quando si sono rivisti. Come a riannodare il filo di un discorso lasciato in sospeso. Dove eravamo rimasti? A Gubbio, alla gita mai fatta perché è successo quello che è successo... 

«È stato bello — ha raccontato Sollecito al Mirror —. Avevamo programmato quel viaggio perché ovviamente non sapevamo cosa le fosse successo e quel giorno non avevamo impegni. È stato dolce-amaro tornarci perché dovevamo andare lì in circostanze così diverse, ma è stato bello per noi poter parlare di altro». 

Amanda Knox è arrivata in Italia con la sua famiglia. La sua bambina, Eureka e suo marito Cristopher. Per l’occasione è tornata anche a Perugia, rivela l’agenzia Ansa, e ha incontrato l’ex cappellano della sezione femminile del carcere, don Scarabattoli. 

Ancora Sollecito: «L’iniziativa della gita a Gubbio è stata sua, ma l’idea di entrambi. Ho provato emozioni contrastanti, sicuramente piacere di stare in buona compagnia. Ma anche tristezza per la tragedia che abbiamo subito».

Anticipazione da Oggi il 26 ottobre 2022.

A 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, parla in esclusiva a OGGI Amanda Knox, condannata in primo grado e assolta dopo quattro anni di carcere. Ora quella ragazza è una donna di 35 anni, e vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. In coppia con Chris produce un podcast (Labyrinths) e fa attivismo per prevenire gli errori giudiziari e aiutare chi ne è vittima. 

«Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata. Ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la “ragazza che è stata accusata di omicidio”», dice a OGGI.

È durissima su Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto: «Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale».

Parla Amanda Knox, 15 anni dopo il delitto Kercher: “Sono libera e mamma felice” – esclusivo. REDAZIONE ONLINE su Oggi il 26 Ottobre 2022.

L’ex ragazza incarcerata quattro anni per l’uccisione di Meredith a Perugia ora ha una figlia. Ma non ha dimenticato. Ha trasformato il peso che si porta dentro in impegno civile. E di Rudy Guede dice: “Resta un criminale”. In esclusiva su Oggi in edicola

A 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, parla in esclusiva a Oggi Amanda Knox, condannata in primo grado e assolta definitivamente dopo ben quattro anni di carcere. Ora quella ragazza è una donna di 35 anni, e vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. In coppia con Chris produce un podcast (Labyrinths) e fa attivismo per prevenire gli errori giudiziari e aiutare chi ne è vittima

“SOFFRO LO STIGMA DI UN’ACCUSA FALSA” – «Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata», dice Amanda Knox in esclusiva a Oggi in edicola. «Ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la “ragazza che è stata accusata di omicidio”».

Amanda Knox dopo l’assoluzione: “Per voi ero la persona più brutale al mondo. Ma fu Rudy Guede a uccidere Meredith” – guarda

“GUEDE CONTINUA AD ACCUSARE INNOCENTI” – Amanda Knox è durissima su Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto: «Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale».

La nuova vita negli Stati Uniti. Amanda Knox: “Soffro: sarò sempre la ragazza dell’omicidio di Meredith, Rudy Guede un criminale”. Vito Califano su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Amanda Knox ha rilasciato un’intervista in esclusiva al settimanale Oggi a 15 anni dall’omicidio di Meredith Kercher a Perugia. “Sono infinitamente grata di essere viva e di esser stata scagionata ma niente potrà restituirmi i quattro anni trascorsi senza motivo in carcere, e niente potrà cancellare il trauma che è stato inflitto alla mia famiglia, ai miei amici e a me. Soffro ancora lo stigma di un’accusa falsa: resterò per sempre la ‘ragazza che è stata accusata di omicidio’“.

Queste le parole della 35enne che oggi vive sull’isola di Vashon, nello Stato di Washington, col marito Chris Robinson e la figlia di un anno, Eureka Muse. Realizza con il marito una serie di podcast e fa attivismo per prevenire errori giudiziari e sostenere le vittima. In Italia era diventata nota dopo l’efferato delitto della studentessa inglese in Erasmus Meredith Kercher – sgozzata, probabilmente dopo un gioco erotico finito male – a Perugia. Amanda era la sua compagna di stanza.

Knox era stata condannata in primo grado e assolta definitivamente da ogni accusa dopo quattro anni di carcere. È tornata a vivere negli Stati Uniti. Raffaele Sollecito, accusato per lo stesso caso, rimase in carcere dal novembre 2007 all’ottobre 2011. Era il fidanzato di Knox all’epoca. La Cassazione lo ha assolto nel 2015 definitivamente “per non aver commesso il fatto”. Lui e la sua famiglia sono stati discriminati, hanno avuto difficoltà nel reinserirsi nella vita sociale, e nel trovare un lavoro nonostante la verità processuale.

“Lo Stato sta semplicemente seguendo la scia della credenza popolare: nella nostra cultura c’è purtroppo sempre l’idea che se vieni accusato qualcosa sicuramente hai fatto, anche se poi vieni assolto – ha raccontato in un’intervista a Il Riformista – Se non trovano le prove è solo perché sei stato bravo a nasconderle. Questo pregiudizio è alimentato sicuramente dai media che pubblicizzano le prove dell’accusa in maniera tendenziosa a favore di chi sta conducendo le indagini. Però spero che alla fine vengano fuori le responsabilità di chi si è macchiato di gravissime colpe come quella di aver distrutto per sempre la mia vita. Io non cerco vendetta, vorrei soltanto che le persone che hanno sbagliato si assumano le proprie responsabilità pubblicamente per onore della verità”.

Knox intanto è ripartita a suo modo: dalla famiglia, dalle sue attività, dal suo impegno. Ed è durissima con Rudy Guede, l’unico condannato per il delitto Kercher: “Penso che, dopo 13 anni in galera, è probabile che Guede non sia più un pericolo per la società. Ma penso anche che il carcere non l’abbia rieducato. Una persona che continua ad accusare degli innocenti del delitto che lui stesso ha commesso, e che si rifiuta di concedere la verità a una famiglia devastata dal dolore (i Kercher, ndr), resta un criminale“.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Scena del crimine. "Va espulso", "Tutto in regola". Cosa sta succedendo a Rudy Guede. L'avvocato Luca Maori, legale di Raffaele Sollecito, sostiene che Rudy Guede debba essere espulso dall'Italia poiché sprovvisto del permesso di soggiorno. La replica di Fabrizio Ballarini, difensore dell'ivoriano, a ilGiornale.it: "Tutto regolare". Rosa Scognamiglio l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scarcerazione di Guede

 Il permesso di soggiorno

 La richiesta di espulsione

"È inammissibile che un soggetto condannato per omicidio pluriaggravato, violenza sessuale e furto possa legittimamente rimanere nel nostro territorio nazionale. La legge italiana è molto chiara in tema di permesso di soggiorno: non può essere concesso senza nessuna eccezione a persone che abbiano commesso reati gravi. E mi sembra che questo sia proprio il caso del signor Rudy Guede". Lo dichiara a ilGiornale.it l'avvocato Luca Maori, legale di Raffaele Sollecito, circa la legittimità della permanenza dell'ivoriano sul territorio italiano dopo aver scontato la condanna a 16 anni di reclusione per concorso in omicidio di Meredith Kercher. Diametralmente opposta la posizione dell'avvocato Fabrizio Ballarini, difensore di Guede, che al riguardo chiarisce: "È tutto regolare".

"Ho sofferto i pregiudizi". La nuova vita di Raffaele Sollecito

La scarcerazione di Guede

Rudy Guede era stato condannato, in via definitiva della Cassazione nel 2010, a 16 anni di reclusione per l'uccisione della giovane studentessa inglese (il delitto è avvenuto a Perugia la notte del 1°novembre 2007). Nelle sentenza di condanna si parla di "omicidio in concorso con ignoti" anche se i presunti, altri corresponsabili non sono mai stati identificati. Il 23 novembre 2021, l'ivoriano è tornato formalmente libero poiché ha beneficiato di uno sconto di 45 giorni sul fine pena, previsto per il 4 gennaio 2022. La richiesta di scarcerazione anticipata, formulata dall'avvocato Ballarini, era stata accolta dal magistrato del Tribunale di Sorveglianza di Viterbo. Guede, affidato ai servizi sociali, aveva già ottenuto mille e cento giorni di sconto sulla pena inflitta con il rito abbreviato. Nel 2019 ha ottenuto la semilibertà e nel 2020 l'affidamento in prova ai servizi sociali. E fin qui, tutto chiaro e regolare. La questione da sbrogliare, però, è un'altra.

"Quei gesti di Amanda...". Parla il pm che indagò sull'omicidio di Meredith

Il permesso di soggiorno

Ad oggi, il 34enne vive e lavora in Italia (come cameriere e in una biblioteca). Secondo l'avvocato Maori, Guede non avrebbe i requisiti per rimanere sul "nostro territorio nazionale". E per "requisiti" si intende un regolare permesso di soggiorno. "Io non dubito che Guede fosse stato provvisto di un permesso soggiorno - spiega l'avvocato Maori - Il punto è che ormai è scaduto. Gli è stato concesso una volta scarcerato, uno temporaneo, per dargli modo di usufruire dell'affidamento in prova. Un permesso che non è più valido e, pertanto, se non gli è stato già revocato bisognerà farlo immediatamente perché ormai Guede è un soggetto libero. Peraltro è una persona a cui non potrà mai essere concesso il permesso di soggiorno perché ha commesso un 'reato grave'. Lo prevede la legge italiana". Per contro, il legale dell'ivoriano sostiene che la posizione del suo assistito "sul territorio italiano è assolutamente regolare. Rudy Guede è titolare di permesso di soggiorno - chiarisce l'avvocato Ballarini alla nostra redazione - L'avvocato Maori è in possesso di informazioni non corrette evidentemente".

"Guede non uccise Meredith da solo. Dove sono gli altri?"

La richiesta di espulsione

Nell'ipotesi in cui Guede non fosse provvisto di regolare permesso di soggiorno, dovrebbe essere rimpatriato. L'ordinamento italiano prevede che uno straniero condannato alla reclusione per un periodo superiore ai due anni venga rimpatriato dopo la scarcerazione. L'articolo 235 del Codice Penale - "Espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato" - è chiaro al riguardo: "Il giudice ordina l'espulsione dello straniero..., oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando lo straniero... sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni". "La legge italiana - spiega l'avvocato Maori ribadendo le dichiarazioni già riportate in una nota diffusa nel tardo pomeriggio di ieri - è molto chiara in tema di permesso di soggiorno: non può essere concesso in alcun caso a persone che abbiano commesso reati gravi ed in particolare l'omicidio volontario". Poi, alla nostra redazione, il legale aggiunge: "Non credo che abbia qualche merito particolare per cui gli sia stato concesso il permesso di soggiorno. In Italia vengono espulsi tunisini, nordafricani e altri soggetti non comunitari che spacciano la droga e poi vengono condannati a due o tre anni di carcere. Non deve essere espulso un soggetto che è stato condannato per omicidio volontario aggravato?". Infine chiarisce: "Io non ho nulla contro Guede. Ne faccio una questione di giustizia, di legge. Pertanto chiediamo di avere chiarimenti riguardo alla sua posizione".

"L'omicidio, il carcere, la libertà. La mia verità su Meredith". Rudy Guede fu condannato per l'omicidio di Meredith Kercher. Nel 2021, dopo aver scontato la pena, è tornato in libertà. "Sono state dette tante cose sul mio conto che non corrispondono affatto alla verità", racconta a ilGiornale.it. Rosa Scognamiglio il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

"Avrei dovuto aiutare Meredith fino in fondo. Quello è l'unico rammarico che avrò per sempre". Lo confida in un'intervista rilasciata alla nostra redazione Rudy Guede, il ragazzo di origini ivoriane - oggi 35enne - che fu condannato a 16 anni di reclusione per concorso con ignoti nell'omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia il 1°novembre del 2007.

Nel 2021 Guede è tornato in libertà dopo aver ottenuto uno sconto di pena. Lavora e ha scritto un libro, in collaborazione col giornalista e scrittore Pierluigi Vito: "Il beneficio del dubbio, la mia storia" (Augh! 2022), è il titolo. "Questo libro nasce dal desiderio di raccontare chi sono e fare chiarezza sulla vicenda processuale che mi ha travolto", spiega precisando che parte del ricavato dalle vendite sarà devoluto in beneficenza alla Fondazione Ospedale "Bambino Gesù"..

Rudy Hermann Guede: "si legge come si scrive", non ‘alla francese’. Lo mette subito in chiaro nelle prime righe del suo libro. Le ha dato molto fastidio che per anni qualcuno storpiasse il suo cognome?

"La pronuncia francofona non è sbagliata. Il punto è che da quando sono in Italia mi hanno sempre chiamato tutti Guede, proprio come si scrive. Io ero ‘il Guede’ per amici e conoscenti. Quando, durante gli anni del processo, sentivo pronunciare Ghedé - alla francese, per l’appunto - non mi ci identificavo, non ero io. E poi sembrava che fosse fatto quasi di proposito per rimarcare, in modo negativo, le mie origini ivoriane".

Il titolo del libro è semplice ma efficace: "Il beneficio del dubbio. La mia storia". Perché ha sentito l'esigenza di raccontare la sua vita?

"Questo libro nasce dal desiderio di raccontare chi sono e fare chiarezza sulla vicenda processuale che mi ha travolto. Sono state dette tante cose sul mio conto che non corrispondono affatto alla verità. E sarebbe bastato leggere bene le carte del processo, andare a chiedere alle persone che realmente mi conoscevano, per sapere chi fosse davvero Rudy Guede".

Che intende?

"Mi hanno descritto come un ragazzo dedito ai furti, che beveva e faceva chissà che cosa. E pensare che sono stato pure assolto 'per non aver commesso il fatto', preciso, dal reato di furto in casa di Meredith, anche se questo non viene mai riportato o si dice addirittura il contrario. Non dico di essere una persona ineccepibile o di non aver mai commesso errori. Durante l’adolescenza sicuramente ho fatto qualche cavolata ma parliamo di bravate, cose di poco conto che può aver fatto qualunque ragazzino".

La sua infanzia è stata, diciamo così, un po' turbolenta dal punto di vista della stabilità familiare. Quanto ha inciso nel suo percorso di crescita la mancanza di una famiglia unita e presente?

"Ha inciso parecchio. Mi è mancato soprattutto il fatto di non avere mia madre accanto. Sono arrivato in Italia piccolissimo, avevo cinque anni. Ho vissuto con mio padre e la nuova compagna ma lei non aveva grande simpatia per me. Ero al primo anno di elementari, ricordo, quando ho dovuto imparare a cucinare per sfamarmi. Non trovavo nessuno ad accogliermi quando rincasavo dalla scuola, dovevo provvedere a me stesso per tutto quanto. Sa cosa vuol dire crescere senza l’abbraccio o il bacio della buona notte di una madre sapendo, peraltro, che vive in un altro continente? È una circostanza che inevitabilmente ti segna nel profondo".

Però in Italia è stato accolto e benvoluto da molte persone. Sbaglio?

"Verissimo. A partire dalla maestra Ivana e i suoi figli: sono stati come una seconda famiglia per me. Ho conosciuto tante persone bellissime che mi hanno inondato di affetto e calore. E di questo sarò loro per sempre grato".

Nonostante gli alti e i bassi, fino ai 20 anni, fila tutto abbastanza liscio. Poi arriva quel "maledetto giorno" - come lo ha definito il giudice Giuliano Mignini - del 1 novembre 2007. Nel libro scrive di essersi trovato "nel posto sbagliato al momento sbagliato". Si è sentito, in qualche misura, anche lei un po' vittima di questa tragedia?

"La vittima di questa storia è Meredith. E la sua famiglia che è costretta a convivere con un dolore inesauribile. Quando dico che ‘mi trovavo nel posto sbagliato al momento sbagliato’ intendo dire che ero giovane e non avevo gli strumenti per affrontare quella situazione. Mi sono lasciato sopraffare dalla paura. Anzi quello è l’unico grande rammarico che avrò per sempre".

A cosa si riferisce?

"Avrei dovuto aiutare Meredith fino in fondo. Avrei dovuto precipitarmi fuori dalla casa di via della Pergola quella sera e gridare aiuto, chiamare i soccorsi. E invece, ripeto, mi sono spaventato e sono scappato via".

Cosa ricorda di Meredith Kercher?

"Il sorriso dolcissimo. Era una ragazza solare, simpatica e intelligente".

Nel suo racconto, in riferimento ai fatti di quella sera, ha fatto il nome di una persona: quello di Amanda Knox. Dice di averla vista e riconosciuta sul vialetto della casa in via della Pergola. È ancora convinto che fosse lei?

"Quello che ho raccontato nel libro e anche agli atti del processo. Non devo aggiungere altro".

In un'intervista rilasciata al settimanale "Oggi", di lei Amanda Knox ha detto che seppur abbia pagato il conto con la giustizia "resta un criminale". Vuole replicare?

"Come si dice in questi casi: ‘no comment’. Vado per la mia strada".

Il carcere le ha tolto tante cose - lo ha scritto a titolo di un capitolo - ma le ha dato anche la possibilità di rimettere ordine nella sua vita. Si è laureato e ha lavorato con costanza. Ha mai pensato che, forse, era giusto passare di lì per ‘raddrizzare il tiro’?

"Il carcere di per sé non ti dà niente: sei tu che devi metterci impegno e tanta buona volontà. Non tutti i detenuti hanno voglia di rimettersi in gioco, di studiare e imparare cose nuove. Il carcere ‘ti dà’ se tu sei disposto ad accogliere quello che arriva. Nel mio caso, devo dire, sono stato anche molto fortunato. Ho conosciuto delle persone fantastiche che mi hanno sostenuto e supportato".

Che sapore ha la libertà?

"La mia anima è sempre stata libera, anche quando ero in carcere. Riconquistare la libertà, in senso fisico, ha significato riappropriarmi del tempo e degli spazi. È come se la mia anima si fosse ricongiunta al corpo. Questa per me è stato ritrovare la libertà".

Mi conceda una domanda "antipatica". Può chiarire, una volta per tutte, la questione del permesso di soggiorno: ce l’ha o no?

"La mattina lavoro al Centro Studi Criminologici di Viterbo, dove mi occupo della biblioteca, e la sera in un ristorante dove ho un contratto a tempo indeterminato. Secondo lei assumerebbero uno che non ha i documenti in regola? La risposta mi pare ovvia".

Ritornando al suo libro, ci sono due espressioni che mi hanno piacevolmente colpito. A proposito di suo padre, scrive: "A volte, però, il tempo concede una seconda possibilità". Lei l’ha colta?

"Penso proprio di sì. Ho una vita appagante e soddisfacente sotto tutti i punti di vista. Posso dire di essere sereno".

L'altra, invece, è quella sua maestra Ivana: "Soltanto il tempo ci farà vedere cosa fiorirà in te". Chi è oggi Rudy Guede?

"Un uomo che è maturato e cresciuto. Lavoro, cerco, come posso, anche di aiutare altri, ho amici e una vita sentimentale che mi dà gioia. Del resto, quando hai ricevuto del bene, non puoi che ricambiare prodigandoti per le persone meno fortunate. Continuo ad impegnarmi sperando di diventare, giorno dopo giorno, la versione migliore di me stesso".

Intervista a Rudy Guede: «Non ho ucciso Meredith Kercher, ma mi pentirò per sempre di averla lasciata lì». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, a Perugia, è uscito dal carcere da un anno: «Ho sbagliato, ma non sono un assassino. Lavoro in biblioteca»

«Io c’ero in quella casa, chi lo nega? C’erano le mie tracce sul luogo del delitto, certo. Mica stavo fermo in un angolo. Ero con Meredith, ci siamo scambiati effusioni, abbiamo avuto un approccio sessuale, sono andato al bagno, ho provato a fermare il sangue che le usciva dal collo... Ovvio che ci fossero le mie tracce in giro. Ma l’ho detto quando credevano che mentissi per evitare la condanna, lo ripeto più che mai adesso che ho finito di pagare il mio conto alla Giustizia: io non ho ucciso Meredith».

Ma lei, Rudy Guede, fu condannato per l’omicidio e per violenza sessuale.

«Il mio libro spiega come si arriva all’accusa di violenza, dubbi e incongruenze comprese. La sostanza è che è stato trovato il mio dna. Dna, non sperma. Come ho sempre detto, stavamo per avere un rapporto sessuale ma ci siamo fermati perché senza preservativi. Eravamo due adulti consenzienti. Ma voglio tornare sull’omicidio». 

Dica.

«Nelle mie sentenze c’è scritto: in concorso con Amanda Knox e Raffaele Sollecito, e nessuno dei giudici mi ritiene autore materiale del delitto. Poi loro due vengono assolti. Allora io chiedo: con chi ho concorso? Hanno respinto la revisione del mio processo ma è un controsenso logico. La giustizia italiana dice che ho compiuto un crimine con due persone specifiche ma non come autore materiale; loro escono di scena, quindi il carcere lo sconta una persona che non si capisce di cosa sia colpevole e con chi. Un condannato impossibile. O forse il condannato ideale: il negretto senza famiglia, senza spalle coperte, senza un soldo...».

Però lei è scappato, ha detto cose contraddittorie.

«È vero. La paura ha preso il sopravvento e sono scappato come un vigliacco lasciando Mez forse ancora viva. Di questo non finirò mai di pentirmi. Ma avevo 20 anni e avevo davanti una ragazza agonizzante, l’ho soccorsa ma poi la mente è andata in tilt. Magari sarebbe morta lo stesso ma non aver chiesto aiuto resta la mia grandissima colpa».

Era la sera del 1° novembre 2007. Meredith Kercher, studentessa inglese a Perugia, fu uccisa nella casa che condivideva con Amanda Knox. L’ivoriano Rudy Guede, che oggi ha 35 anni — il solo condannato, appunto, di questa storia — per la prima volta da quando è libero accetta di raccontarsi. Considerati gli sconti di pena, ha riavuto la libertà il 22 novembre dell’anno scorso.

Quindici anni dopo Meredith lei ha di nuovo una vita, un lavoro, una casa...

«Di mattina ho un impiego alla biblioteca del Centro Studi Criminologici di Viterbo, pomeriggio e sera invece faccio il cameriere in una pizzeria. Mi manca solo la tesi per la laurea magistrale al corso di Società e Ambiente, e poi ho una fidanzata, stiamo cercando una casa per andare a vivere insieme».

Nel suo libro con Pierluigi Vito, «Il beneficio del dubbio», lei mette in fila tutta la sua vita. Riguardo al delitto giura di essere innocente però racconta un comportamento da colpevole.

«La vita di Mez che se ne stava andando fra gli spasmi. Gli asciugamani non bastavano a tamponare il sangue... Ero uscito dal bagno dopo aver sentito un urlo potente malgrado avessi le cuffiette con la musica a palla; nella penombra avevo visto uno sconosciuto con un coltello in mano. “Andiamo via che c’è un negro” aveva detto ad Amanda. All’improvviso il mio cervello è scoppiato. Io non avevo fatto niente ma chi mi avrebbe creduto? E allora, in preda al panico, ho fatto un errore dopo l’altro...Un comportamento criticabile, è vero. Ma questo non fa di me un assassino»

Ha provato a contattare la famiglia di Meredith?

«Scrissi una lettera anni fa rimasta senza risposta. E ho fatto avere a sua madre un altro messaggio di recente per dirle ancora una volta del mio dispiacere per Mez e che le mie mani si sono macchiate di sangue, sì, ma soltanto per soccorrerla. Mi farebbe piacere incontrarla, un giorno».

Che cosa direbbe invece, oggi, a Knox e Sollecito?

«Non ho più voglia di dirgli niente. Ne hanno dette talmente tante loro sul mio conto che per me non ha più senso dargli corda e spazio. Io ho la coscienza a posto anche nei loro confronti. Per tutti questi anni sono stato dentro, sì, ma la mia mente era libera, pulita».

L’hanno mai insultata per strada?

«Soltanto una volta dei tizi mi hanno urlato “pezzo di m...”. Il resto del mondo con cui ho a che fare mi vuole bene».

Il momento più difficile in carcere.

«Un giorno sono rientrato dall’ora d’aria e ho guardato dallo spioncino: il mio compagno di cella si era impiccato. Ho urlato disperato per far aprire la porta; per la seconda volta in vita mia avevo davanti una persona morente... un uomo solo. Lì ho capito che ascoltare le persone è fondamentale. Una salvezza»

Scena del crimine. "Non l’ho uccisa. C’è stato un approccio, poi…". La verità di Rudy Guede. L'unico condannato per il delitto di Perugia racconta la sua versione in un libro. Angela Leucci il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

“Il mio nome è Rudy Hermann Guede. Proprio così: Guede. Pronunciato come si scrive. Non Ghede, tantomeno Ghedé. Ne convengo: nella Costa d’Avorio francofona - dove sono nato - quest’ultima è la pronuncia in uso. Ma non è la mia. Io sono cresciuto in Italia, nei dintorni di Perugia. E per me quella che conta, quella che mi ha formato, quella a cui sento di appartenere, è la cultura italiana, con la sua lingua. È così che sono sempre stato chiamato in questo Paese ed è così che mi sento io: Guede, non Ghedé. Io sono Rudy Guede”.

Dopo una prefazione in cui accenna al periodo di semilibertà, ai suoi sogni e soprattutto al concetto generale, filosofico, di libertà, Rudy Guede racconta la sua storia. “La mia storia” è in effetti il sottotitolo del suo libro "Il beneficio del dubbio", uscito per Augh-Khorakanhè Edizioni e scritto con il giornalista di Tv2000 Pierluigi Vito.

E la storia di Guede è inevitabilmente quella di una morte: il 2 novembre 2007, la studentessa britannica Meredith Kercher fu trovata uccisa nel suo appartamento a Perugia. Accusato di concorso in omicidio e violenza sessuale, Guede fu condannato e, avendo scontato la sua pena, dal novembre 2021 è definitivamente libero. Il suo libro oggi apre uno squarcio su interrogativi che non hanno mai ricevuto una risposta e al tempo stesso aggiunge nuovi tasselli a quel caso di cronaca nera che passerà alla storia come il delitto di Perugia. 

Una versione differente sul delitto di Perugia

“Ho avuto un approccio sessuale con Meredith, sono andato al bagno, ho cercato di fermare il sangue che le usciva dal collo... E tutto questo per dire che non sono l’assassino, ma sono solo colpevole di concorso in omicidio. Con chi? Nelle sentenze a mio carico c’è scritto con Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Che però sono stati assolti. Allora io con chi ho concorso?”. È uno degli interrogativi che Rudy Guede si pone nel suo scritto, con un linguaggio tanto ingenuo da rivelarsi reale, tangibile.

Rudy ripete la sua versione: era con Meredith, avevano fatto petting, poi si erano fermati per assenza di un preservativo. Il giovane di origine ivoriana era poi andato in bagno, per abitudine con l’iPod nelle orecchie, finché non ha sentito la giovane britannica urlare. Ed è corso da lei, cercando di fermare come poteva il sangue. Ha poi visto un uomo con un bisturi, ha visto Amanda Knox e Raffaele Sollecito sul vialetto di casa che dicevano: “Andiamo via che c’è un negro”. E alla fine è scappato anche lui.

E anche se l’opinione pubblica non ha creduto totalmente e completamente a questa versione, la questione del concorso in omicidio è apparsa sempre oscura. Posto che Sollecito e Knox sono stati assolti, chi ha ucciso Meredith? Chi avrebbe agito, secondo la giustizia italiana, in concorso con Guede? Ancora oggi ci sono degli elementi misteriosi che attanagliano questa vicenda. In cui c’è una vittima. E i genitori di una vittima che hanno operato sempre con estrema dignità.

Tra le tante polemiche che ad anni di distanza affollano le cronache italiane, ci sono le affermazioni, via intervista o su Twitter, di Amanda Knox. Quello che l’opinione pubblica maggiormente le contesta è di non menzionare mai Meredith.

Meredith Kercher è morta, in un modo senza senso, brutale. Ma proprio per questo merita di essere menzionata, ricordata. È quello che fa Guede nel suo libro. Non bisogna arrivare tanto in là, anche se la narrazione è fondamentalmente cronologica: Rudy parla già di Meredith a pagina 14. Anzi parla di Mez, quella coetanea dolce dai modi gentili che aveva già baciato, che desiderava incontrare. Guede ha per lei solo parole di tenerezza, e anche se questo non cancella una verità giudiziaria, è comunque bello leggere di lei.

Meredith, nelle parole di Rudy, è esattamente come gli italiani se la sono sempre immaginata. È molto educata, ogni tanto forse indulge in qualche piccolo vizio giovanile ma non troppo, perché è sempre misurata, presente, rigorosa, perbene. È come in quella foto in cui sorride e le ridono anche gli occhi. Era solo una ventenne in cui è capitata, suo malgrado, una morte iniqua.

Rudy Guede contro la stampa

Guede non si scaglia mai contro Knox o Sollecito. Pone delle domande, parla di Amanda come fantasia erotica di tanti ragazzi lui compreso, ma non ha giudizi lapidari nei loro confronti. Anche perché, appunto, il suo libro è la sua storia. E nella sua storia c’è un controverso rapporto con la stampa, soprattutto quella italiana, che l’ha presentato spesso come un ladro e uno spacciatore, per via di un bizzarro episodio occorso tempo prima: Guede fu trovato a dormire in una scuola per l’infanzia, sorpreso dalla dirigente scolastica che allertò le forze dell’ordine. Il fatto che quella storia fu completamente chiarita risulta anche agli atti: al momento del processo di Perugia, Guede era infatti incensurato.

Le voci notevoli che completano il quadro

È chiaro che, come Giulio Cesare nel De Bello Civili, Guede faccia apologia di se stesso, si giustifichi nell’aver lasciato l’Italia alla volta della Germania dopo il delitto di Perugia, nel voler negare l’orrore avuto negli occhi quella notte. Ma la cosa molto interessante de “Il beneficio del dubbio” sono le testimonianze che si susseguono a corredo della sua versione.

Ci sono persone che a vario titolo hanno fatto parte della sua vita: insegnanti, volontari per il reinserimento dei carcerati nella vita civile, ma anche il pubblico ministero del processo di Perugia Giuliano Mignini o il criminologo Claudio Mariani.

“Non mi tolgo dalla testa l’idea - scrive Mignini - che tu avessi un debole per Amanda e che la sua figura all’inizio soggiogasse la tua volontà di ricostruire l’accaduto. Un sentimento che lottava con la compassione che provavi per la fine di Meredith, che nelle tue parole hai sempre elogiato. Anche se, benedetto ragazzo, te ne sei andato in discoteca coi tuoi amici la notte del delitto, dopo averla lasciata in una pozza di sangue! E se ti ricordi, negli interrogatori ho cercato di farti presente l’assurdità di un comportamento del genere. In momenti come quelli mi rendevo ben conto di avere davanti un ragazzo che aveva fatto scelte sbagliate, traviato dai casi della vita e senza le spalle coperte”.

Qualunque cosa sia accaduta, ovvero che si creda oppure no alla verità processuale (e l’opinione pubblica negli anni si è sempre mostrata molto perplessa sul caso), c’è un fatto: Guede ha pagato con il carcere ma ora è un uomo libero. L’impressione che percorre il libro è che Rudy si sia trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. “L’unico dato certo che ha inchiodato Rudy come unico colpevole di questa triste storia - conclude infatti Mariani - è la sua presenza sul luogo del delitto da lui stesso sempre dichiarata e mai nascosta”.

DAGONEWS il 22 agosto 2022.

Toh, chi si rivede! Torna a parlare Raffaele Sollecito: in un’intervista esclusiva per l’ennesimo documentario sulla morte di Meredith Kercher, “Who Murdered Meredith Kercher?” (che uscirà nel Regno Unito giovedì 25 agosto, su Paramount+), l’ex fidanzato di Amanda Knox racconta la sua verità. 

Il suo intelocutore è Kate Mansey, giornalista che aveva già incontrato Raffaele nelle ore immediatamente successive al delitto, nel 2007. 

Ecco come Kate Mansey racconta il suo nuovo incontro con Sollecito sul DailyMail: 

“Sembra appena più vecchio di quanto non fosse allora. Oggi però non è la situazione di Meredith e della sua famiglia ad essere al centro dei suoi pensieri, bensì la sua stessa infelicità - un altro segno dell'immaturità che ho visto per la prima volta in lui 15 anni fa. Eppure si potrebbe concedergli un po' di autocommiserazione quando si ascolta il calvario che ha subito”.

“Quattro anni di prigione. Sei mesi di isolamento", dice, nascondendo a malapena la sua rabbia. “E ancora oggi provo quell'amarezza, anche se sono andato avanti con la mia vita. Mi pento di essere stato immaturo. Ma eravamo giovani. Eravamo solo, voglio dire, un po' sciocchi, non capivamo cosa stesse succedendo. Se la compagna di stanza della tua ragazza viene uccisa, tutti reagiscono in modo diverso".

La reazione di Raffaele all'omicidio, come non dimenticherò mai, fu a dir poco strana. Lo incontrai per la prima volta in via Garibaldi, a Perugia, due giorni dopo l'omicidio. Essendo arrivata a Perugia per fare un servizio sull'omicidio, ero desiderosa di incontrare qualcuno che avesse conosciuto Meredith.

Avvicinandomi a un giovane che sembrava avere un'età simile, chiesi: "Conosceva Meredith? La sua risposta, in inglese, è stata: "Sì, la conoscevo. Ho trovato il suo corpo". 

Lo invitai a prendere un caffè nel bar vicino e ci sedemmo. In quel momento mi fece pena, mentre sorseggiava il suo caffè. Faceva una figura piuttosto patetica, con il cappotto slacciato che gli penzolava dalle spalle. 

Mi disse che era stato tutta la notte alla stazione di polizia per essere interrogato, cosa che all'epoca mi sembrò strana. Perché avrebbe dovuto essere interrogato tutta la notte? 

Ma poi fu Raffaele a dare l'allarme. Amanda era tornata a casa per una doccia, si era accorta che qualcosa non andava ed era andata a chiedere aiuto a Raffaele. 

Mi disse che c'erano macchie di sangue nell'appartamento di Amanda. Ricordo chiaramente che mosse le dita come per illustrare come il sangue potesse essere stato distribuito nel bagno. Poi, dopo il nostro colloquio, si interessò a una pila di giornali che avevo con me e mi chiese gentilmente se poteva dare un'occhiata. 

Dopo l'intervista gli ho chiesto di posare per il fotografo. Ha accettato, ma ha fatto un mezzo sorriso per la macchina fotografica. Gli ho detto: "Rifacciamo questa foto".

Gli ho detto che pensavo fosse sotto shock e gli ho chiesto se potevo parlare con Amanda, la sua ragazza, e lui l'ha chiamata al cellulare. La sentivo in sottofondo durante la telefonata, che gli diceva di non parlare con i giornalisti. Gli ho chiesto di darmi il suo numero, che ho chiamato più tardi, ma lei non ha risposto. Giorni dopo furono entrambi arrestati con l'accusa di omicidio. Mi ero trovato faccia a faccia con un assassino? 

Quando il resto della stampa mondiale arrivò nella città italiana, il procuratore Giuliano Mignini era in piena attività. La sua famiglia era a Perugia da generazioni e questo funzionario roboante e carismatico stava cercando di accertare un movente per l’aggressione e l’omicidio di una donna innocente.

A suo avviso, il furto sembrava essere una messinscena. Credeva che coprire il corpo fosse il segno del tocco di una donna sulla scena del crimine, anche se gli accoltellamenti da parte di donne sono estremamente rari. 

Ciononostante, si formò la teoria che si trattasse di un gioco erotico finito male. Sembrava che Amanda e Raffaele, gli amanti che avevano dato l'allarme, avessero qualcosa di strano.

Nessuno dei due si è comportato come la polizia si sarebbe aspettata avrebbero fatto degli amici in lutto e furono stati persino visti baciarsi sulla scena del crimine. Non hanno partecipato alla veglia pubblica per Meredith sulla scalinata della cattedrale. 

Quando Raffaele fu chiamato alla stazione di polizia per essere interrogato, gli agenti lo perquisirono e trovarono un coltello a scatto. La polizia stabilì subito che il coltello non poteva essere l'arma del delitto, ma questo non aiutò le sue dichiarazioni di innocenza. 

“È stata la peggior gaffe che abbia mai fatto in vita mia", ammette ora Raffaele. Nonostante mio padre mi avesse detto: ‘Lascia il coltello a casa. Non portarlo con te'. Io mi sono detto: 'Come vuoi. Fanculo’. Non volevo pensarci". 

Anche Amanda è stata vista fare stretching nei corridoi della stazione di polizia. Mignini dice ai documentaristi: "Il comportamento di Amanda non mostrava - almeno in questo caso - rispetto per la perdita di un amico". 

Quando la polizia ricevette la segnalazione di un uomo di colore che correva per la città la notte dell'omicidio, pensò di aver trovato il colpevole nel telefono di Amanda: Patrick Lumumba, il gestore di un bar locale dove Amanda lavorava. 

La donna aveva mandato un messaggio a Patrick poco prima dell'omicidio, dicendo "Ci vediamo più tardi".

Alla stazione di polizia, i poliziotti ritennero di aver trovato qualcosa e Amanda fu richiamata. Nel suo libro Waiting to be Heard, racconta: "All'1.45 mi diedero un foglio scritto in italiano e mi dissero di firmarlo... Incontrai subito Patrick al campo da basket di Piazza Grimana... e andammo insieme alla casa. Faccio fatica a ricordare quei momenti, ma Patrick ha fatto sesso con Meredith, di cui era infatuato... Ricordo confusamente che l'ha uccisa. Appena l'ho firmato, si sono applauditi e si sono dati il cinque".

Ma erano tutte sciocchezze firmate, dice Amanda, sotto costrizione. 

Patrick ha un alibi di ferro: diversi testimoni hanno detto che la sera dell'omicidio li ha serviti al bar. Dopo due settimane di carcere è stato rilasciato. 

A più di 700 miglia di distanza, in Germania, la polizia ferma un uomo su un treno per evasione del biglietto. Dice di chiamarsi Kevin Wade e nota cinque tagli sulla mano. 

In realtà si tratta di Rudy Guede, un cittadino della Costa d'Avorio ormai ricercato per l'omicidio di Meredith Kercher in Italia. Grazie alla polizia dei trasporti tedesca, Guede viene arrestato e riportato a Perugia. 

Guede ha raccontato alla polizia che Meredith lo aveva invitato a entrare in casa e che stavano entrando in "intimità", ma che sono stati disturbati da un ladro che l'ha accoltellata e si è dato alla fuga. Guede sostiene di essere stato solo un testimone.

È una storia poco convincente e, come dico nel documentario, niente dice colpevolezza come fuggire in un altro Paese e cambiare nome. Il suo DNA era ovunque sulla scena del crimine, dalle impronte di dita e piedi insanguinati alle feci nel bagno. Ma il documentario rivela qualcosa di ancora più sinistro sulla gestione di Guede da parte della polizia. 

Noto scassinatore, Guede fu trovato cinque giorni prima dell'omicidio di Meredith addormentato in una scuola materna. Aveva fatto irruzione per motivi sconosciuti. Nella sua borsa, gli agenti hanno trovato un coltello e un computer che era stato denunciato come rubato da uno studio di avvocati a Perugia.

Eppure, la polizia ha inspiegabilmente lasciato andare Guede, lasciandolo libero di uccidere. Alla fine è stato condannato per ricettazione e tentato furto. 

Quando fu condannato per l'omicidio di Meredith, fu stabilito che aveva "cospirato" con altri, ma gli fu concesso un processo separato da quello della Knox e di Sollecito. 

“Non c'era motivo di separare il suo caso", dice Raffaele. Quello che non capisco è che anche l'accusa non ha voluto interrogarlo. È lui l'assassino. È quello che aveva più cose da dire in questo caso, e a loro non interessava". 

Da parte sua, Raffaele dice di essere tormentato da quanto accaduto e di essere ancora discriminato nella ricerca di un lavoro. 

“È molto difficile quando una persona a cui tieni viene persa per sempre", dice Sollecito, un riconoscimento che non porterà molto conforto alla famiglia Kercher. Ma la verità è che non ho nulla a che fare con questo omicidio. Spero che un giorno lo accetteranno". 

Per i genitori di Meredith, ovviamente, è troppo tardi. Il padre John e la madre Arlene sono morti entrambi nel 2020. Per i suoi fratelli e sorelle, forse, un giorno ci sarà pace. Ma per ora rimangono troppi interrogativi per credere alla polizia italiana quando afferma che è "Caso chiuso".

Perché, quando si scoprì che Guede aveva fatto irruzione in una scuola materna con un coltello, fu liberato dalla polizia? Il processo privato e il trattamento morbido di Guede erano forse la prova che egli era utile alla polizia in qualche altro modo? La domanda sorge spontanea: la condanna di Guede potrebbe essere più di quanto sembri? 

Raffaele, da parte sua, è chiaramente un personaggio strano che, da giovane, aveva un forte interesse per il porno, l'hashish e i coltelli.  Anche Amanda Knox era un personaggio complesso. Un'ingenua ragazza americana che, anche a 20 anni, era più immatura dei suoi coetanei. E l'indagine condotta dal procuratore perugino Mignini fu scandalosamente lacunosa. 

Ma oggi, dopo aver analizzato nuovamente le prove nell'ambito di questo nuovo documentario, sono più che mai sicuro delle dichiarazioni di innocenza di Raffaele. 

Come dice Dan Louw, commissioning editor di Paramount+: "Nessuno è mai stato ritenuto pienamente responsabile del tragico omicidio di Meredith, e questa nuova serie per Paramount Plus porta una prospettiva completamente diversa su una delle indagini più infami e incomprese di tutti i tempi". 

Una cosa è certa: l'inchiesta pasticciata e inetta della polizia passerà alla storia come uno dei più scandalosi tradimenti della giustizia.

"Me lo porterò nella tomba". Parla Lumumba: fu accusato da Amanda Knox. Rosa Scognamiglio il 6 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Patrick Lumumba si racconta in una intervista esclusiva all'Ansa: "Non bisogna dimenticare Meredith. Io mi definisco 'la seconda vittima', è difficile dimenticare"

Incarcerato e poi, dopo 14 giorni di reclusione, rimesso in libertà perché "completamente estraneo ai fatti". Patrick Lumumba fu accusato ingiustamente da Amanda Knox di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nella notte tra il 31 ottobre e il 1° del 2007. Oggi l'ex proprietario del bar Le Chic di Perugia si è rifatto una vita ma il ricordo di quelle lunghe notti trascorse dietro le sbarre resta una ferita aperta: "È stata molto molto, molto dura, un tunnel buio ma ora grazie a Dio ne sono uscito", racconta in una intervista esclusiva all'Ansa.

Il ricordo

Da qualche tempo, Patrick Lumumba ha lasciato l'Umbria per trasferirsi in Polonia con la sua famiglia. "Ora vivo con la mia famiglia a Cracovia dove sono socio maggioritario di un'azienda di sub-appalto" spiega. La vicenda processuale che lo travolse durante le indagini preliminari del "Delitto di Perugia" lo ha profondamente segnato: "È difficile da dimenticare completamente - dice - Me lo porterò nella tomba". Dei 14 giorni in carcere, Lumumba ricorda solo "una grande tristezza". "Non bisogna mai dimenticare - aggiunge - Meredith ma io mi sono sempre considerato la seconda vittima. Ricordo i primi tre giorni da solo in cella, innocente senza sapere cosa era successo, l'isolamento, il muro davanti alla finestra. Già dalla questura pensavo che sarei tornato subito a casa perché mi fidavo...". Poi conclude: "Ormai per me è un capitolo chiuso e sono fuori dal tunnel". 

A chiamare in causa Patrick Lumumba fu l'allora studentessa americana Amanda Knox, coinquilina di Meredith Kercher. Nel corso dell'interrogatorio del 5 novembre 2007, la giovane descrisse una presunta scena dell'omicidio che avrebbe coinvolto Lumumba. Le sue parole furono messe nere su bianco in un memorandum di 5 pagine: "Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. - raccontò la Knox - Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie (...) Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell'appartamento aperta". A instillare il dubbio negli inquirenti fu uno scambio di sms tra il titolare del bar Le Chic e la studentessa americana. Un messaggio nello specifico: "See you later", scritto da Amanda. Gli investigatori ritennero che i due avessero concordato un appuntamento per la sera dell'omicidio traducendo il testo dell'sms alla lettera: "Ci vediamo più tardi". In realtà, la traduzione corretta sarebbe stata "Ci vediamo" (Amanda lavorava come cameriera nel bar gestito da Lumumba). Nei giorni successivi all'interrogatorio, la Knox smentì il racconto iniziale parlando di "un sogno". Lumumba fu detenuto in carcere per 14 giorni salvo poi essere prosciolto dalle accuse. Un testimone dichiarò di aver trascorso la sera in compagnia dell'uomo e nella casa in via della Pergola, la scena del crimine, non fu rinvenuta alcuna traccia dello straniero. Fu dichiarato "completamente estraneo ai fatti". 

Ora in Polonia arrestato e poi prosciolto per delitto Perugia. Redazione ANSA PERUGIA il 06 luglio 2022

"E' stata molto molto, molto dura, un tunnel buio ma ora grazie a Dio ne sono uscito": a parlare è Patrick Lumumba, colui che si considera la "seconda vittima" dell'omicidio di Meredith Kercher, compiuto nel novembre del 2007 a Perugia dove all'epoca viveva.

Delitto per il quale venne arrestato e poi scarcerato dopo 14 giorni, venendo quindi subito prosciolto perché risultato totalmente estraneo a quanto successo. 

Lumumba ha lasciato da qualche tempo il capoluogo umbro per la Polonia. "Ora vivo con la mia famiglia a Cracovia dove sono socio maggioritario di un'azienda di sub-appalto" racconta parlando con l'ANSA.

Per lui "è difficile da dimenticare completamente" quanto gli è successo per l'omicidio Kercher. "Me lo porterò nella tomba" ha affermato.

Dei 14 giorni in carcere, Lumumba ricorda "una grande tristezza". "Non bisogna mai dimenticare - ha sottolineato ancora - Meredith ma io mi sono sempre considerato la seconda vittima. Ricordo i primi tre giorni da solo in cella, innocente senza sapere cosa era successo, l'isolamento, il muro davanti alla finestra. Già dalla questura pensavo che sarei tornato subito a casa perché mi fidavo...".

"Ormai per me è un capitolo chiuso e sono fuori dal tunnel" ha concluso Lumumba. (ANSA).

Il delitto di Perugia, Meredith Kercher. Rudy Guede unico condannato: già libero. Emanuela Longo su Il Sussidiario.it il 09.07.2022 

Sul Nove il documentario sul delitto di Perugia nel quale perse la vita Meredith Kercher, studentessa inglese uccisa con 47 coltellate

Il delitto di Perugia, il documentario sul Nove sulla morte di Meredith Kercher

Nella prima serata di oggi, sabato 9 luglio, andrà inonda sul Nove “Il delitto di Perugia – Chi ha ucciso Meredith?”, un documentario che ripercorre le tappe del giallo relativo all’omicidio della studentessa inglese, Meredith Kercher, trovata morta nel suo appartamento di Perugia avvenuto nella notte tra il primo e il 2 novembre del 2007. Una vicenda giudiziaria lunga e controversa che ha sconvolto l’Italia e il mondo e che, almeno secondo la giustizia italiana, si è ormai conclusa lo scorso novembre con il ritorno in libertà dell’unico condannato per il delitto, Rudy Guede. Il ragazzo ha finito di scontare la sua pena grazie alla liberazione anticipata che gli è stata concessa dal magistrato di sorveglianza di Viterbo e datata 20 novembre 2021. Guede avrebbe dovuto lasciare il carcere il 4 gennaio 2022. 

Dal dicembre del 2020, come rammenta Il Post.it, Rudy Guede non era più in carcere e magistrato di sorveglianza di Viterbo. Per il delitto di Perugia era stato condannato a 16 anni di reclusione. Adesso, dopo il suo ritorno in libertà, l’uomo vorrebbe solo essere dimenticato. Guede in tutti questi anni si è sempre dichiarato innocente ed estraneo ai fatti. Fu il solo ad essere condannato con rito abbreviato, in concorso, senza che venisse mai individuato chi avrebbe agito insieme a lui.

Amanda Knox e Raffaele Sollecito assolti per il delitto di Perugia

Altre due persone finirono a processo per il delitto di Perugia: Amanda Knox e Raffaele Sollecito. I due, che non scelsero il rito abbreviato, sono stati definitivamente assolti dalla Corte di Cassazione poiché, stando a quanto scritto dai giudici, “manca un insieme probatorio con evidenza oltre il ragionevole dubbio”. Nella casa in via della Pergola dove si consumò il terribile delitto della studentessa inglese Meredith Kercher, furono rinvenute tracce biologiche solo dell’ivoriano. Ad oggi l’arma del delitto resta ancora dubbia.

Come rammenta Vanity Fair che ripercorre il giallo, infatti, il coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito aveva tracce la cui attribuzione fu poi smentita in varie perizie. Sollecito e la Knox furono condannati in primo grado ed assolti in Appello. La Cassazione rimise tutto in gioco con un nuovo Appello bis terminato in condanna ma successivamente gli ermellini decisero per la loro assoluzione definitiva senza rinvio il 27 marzo 2015.

Delitto di Perugia, il coinvolgimento di Lumumba

Meredith Kercher era una giovane studentessa inglese, a Perugia dopo aver preso parte ad un programma Erasmus. Condivideva l’appartamento divenuto poi teatro del suo atroce delitto con altre tre ragazze, Amanda Knox, americana giunta solo poche settimane prima in Italia e due studentesse italiane. Meredith fu uccisa con 47 coltellate. I colpi furono sferrati con un piccolo coltello; una delle coltellate fu letale poichè la raggiunse alla gola. Il delitto fu scoperto solo perché una donna, che abitava nelle vicinanze, trovò in giardino due cellulari che furono consegnati alla polizia e che risultavano intestati alla studentessa inglese. Gli agenti si recarono in casa della giovane trovando Sollecito e Knox sulla staccionata, seduti. Avevano trovato il vetro di casa rotto e per questo avevano chiamato i carabinieri. Quando gli agenti entrarono trovarono il corpo di Meredith ormai senza vita, coperto da un piumone.

Le indagini ed il processo sul delitto di Perugia furono tra i più controversi della storia recente italiana ma soprattutto videro un’attenzione mediatica quasi fuori controllo che influenzò inevitabilmente l’opinione pubblica. In particolare i media furono particolarmente pressanti nei confronti di Knox e Sollecito. La giovane americana accusò del delitto Patrick Lumumba, titolare di un bar dove lavorava ma poi ritrattò tutto in una lettera, asserendo: “sono molto dubbiosa della veridicità delle mie affermazioni perché sono state fatte sotto la pressione dello stress, dello shock, e di estremo esaurimento”.  L’uomo, dopo 14 giorni in carcere e fu poi riconosciuto del tutto estraneo: “È stata molto molto, molto dura, un tunnel buio ma ora grazie a Dio ne sono uscito”, ha riferito di recente all’Ansa.

Raffaele Sollecito: “Guede bugiardo patologico”. “Amanda Knox? Non mi pento dei baci”. Dario D'Angelo su Il Sussidiario.it il 04.12.2021

Raffaele Sollecito intervistato in esclusiva da Ore 14 a pochi giorni dalla liberazione di Rudy Guede. Le sue parole su Amanda Knox e sul delitto di Perugia

Il ritorno in libertà di Rudy Guede, la relazione con Amanda Knox, l’omicidio di Meredith Kercher: sono questi gli argomenti trattati nell’intervista che Raffaele Sollecito ha rilasciato in esclusiva ad “Ore 14”. Sentito dal programma condotto su Rai Due da Milo Infante, Sollecito ha attaccato l’ivoriano, unico condannato per il delitto di Perugia, che tornato in libertà ha continuato a professare la sua innocenza: “Erroneamente pensavo che il suo percorso fosse stato utile alla sua redenzione, al suo pentimento, cosa che non c’è stata minimamente. Sentirmi dire, non solo da lui, ma anche dai pm, le solite fesserie…Lui che è stato condannato non solo per omicidio, ma anche con l’aggravante della violenza sessuale, addirittura continua a mentire perché è stato bollato da tutti i giudici come un bugiardo patologico. Perché non dice lui quello che sa? Perché non parla lui visto che era sulla scena del crimine ed è l’unico presente? Una scena del crimine completamente sporca, piena di detriti e sangue perché la povera Meredith è morta dissanguata. Una stanza molto piccola dov’era impossibile che una potesse non lasciare tracce e lasciarne di una persona sola“. 

Raffaele Sollecito: “Baci ad Amanda? Non mi pento”

L’intervistatrice chiede allora a Raffaele Sollecito perché Rudy Guede abbia chiamato nuovamente in causa Amanda Knox dicendo che l’americana sa e con lei c’era un altro ragazzo. Sollecito risponde: “L’omicidio è stato fatto di sera intorno alle 9, 9 e mezza. Ero sereno a casa mia, con me c’era anche Amanda. Non è assolutamente vero che possa essere intervenuta lei durante quell’orario. Guede è stato condannato, adesso ha finito la pena: lui è stato condannato come assassino dunque lui è l’assassino“. Raffaele Sollecito dice di non essersi pentito di aver confortato con abbracci e baci immortalati dalle telecamere la sua fidanzata dell’epoca: “Era appena morta la sua compagna di stanza, sembrava un film, era una situazione ingestibile per due ventenni. L’immagine mediatica purtroppo ha poi influito tantissimo rendendo la storia una sorta di soap opera a puntate, ma non ci sono attori, sei 24 ore su 24 dentro il dramma“, dice oggi. Sollecito aggiunge poi un suo ritratto dell’Amanda Knox dell’epoca: “Era una 20enne che secondo me aveva anche meno dei suoi anni, viveva il mondo come una bambina, guardava e si emozionava col niente, con le cose più semplici. Che è una cosa bella, anche molto romantica, però ovviamente cozza molto. Lei era venuta in Italia con uno spirito estremamente libero, quasi hippie. Noi ci siamo conosciuti ad un concerto di musica classica all’Università per stranieri. L’avevo notata perché come me ed il mio amico lei era vestita in jeans e maglietta rispetto a tutta la platea che era vestita con abiti eleganti. Questo è stato una settimana prima che Meredith è morta. In realtà io con lei ho avuto una settimana di conoscenza“.

Raffaele Sollecito ha parlato anche delle indebite pressioni subite durante le indagini: “Lei come me è stata messa sotto pressione da inquirenti che avevano già un’idea precisa, è rimasta da sola in una stanza con 40 poliziotti che le giravano intorno. Poi stranamente non ci sono registrazioni di quella sera, nessuno ci ha mai parlato dei nostri diritti, che avevamo bisogno di un avvocato. Ad un certo punto diventiamo tutti e due indagati e arrestati, nella stessa notte, lì in Questura, da soli. Sono andati a prendere Patrick Lumumba a casa sua, in piena notte, svegliando mogli e figli che urlavano, strappandolo dal letto, mettendogli le manette e portandolo in carcere con cosa? Con due dichiarazioni di una ragazzina di vent’anni spaventata che non sa nemmeno bene l’italiano? E’ una cosa sconcertante. Come anche i commenti degli inquirenti che dicono ‘vipera’, ‘stron*a’, ai miei zii. Ma chi li conosce? Perché questo astio? Perché questa persecuzione?“. Domande senza risposta…

Rudy Guede: “Io e Amanda sappiamo verità”/ “Avevo mani sporche di sangue perché…” Chiara Ferrara su Il Sussidiario.it il 29.11.2021

Rudy Guede, unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, grida ancora la sua innocenza dopo la scarcerazione: “Io e Amanda sappiamo la verità”

Rudy Guede torna a parlare dopo essere uscito dalla prigione la scorsa settimana. L’unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel 2007, ha scontato la pena di tredici anni di detenzione. Il trentaquattrenne, tuttavia, continua a ribadire la sua innocenza, puntando il dito contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito. “Sappiamo tutti qual è la verità”, ha detto in un’intervista esclusiva rilasciata al Sun. 

In primis, però, un pensiero nei confronti della famiglia di Meredith, che da anni piange la sua scomparsa. “Ho scritto loro una lettera per spiegare quanto sia dispiaciuto, ma è troppo tardi per chiedere scusa di non aver fatto abbastanza per salvare Meredith”, ha detto. Il rammarico di Rudy Guede, infatti, è di non essere riuscito a fare nulla per evitare la morte della ventunenne londinese. “Se avevo le mani sporche di sangue? Sì, perché ho provato a salvarla, non volevo ucciderla”, ha rivelato. I giudici non hanno tuttavia mai creduto alla sua versione. L’uomo, infatti, è stato condannato dal Tribunale per complicità in omicidio, seppure sia l’unico ad avere scontato la condanna. Una incongruenza che ha sempre lasciato grandi dubbi.

Rudy Guede, nel raccontare al Sun la sua verità, ha spiegato che sul luogo del delitto c’era il suo Dna, ma non era l’unico. “Gli atti processuali dicono che vi erano altre persone e che non sono stato io a infliggere le ferite fatali. La corte ha accettato che ho cercato di aiutarla mettendole degli asciugamani sulle ferite”. Alla domanda se si riferisse ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, tuttavia, non si è voluto pronunciare. “Io so la verità e anche lei la sa”, ha detto proprio sulla ragazza.

Raffaele Sollecito su Rudy Guede libero/ "Per sue bugie io e Amanda Knox in carcere"

Il caso relativo alla morte di Meredith Kercher, a distanza di oltre dieci anni, resta colmo di ombre, su cui probabilmente non si riuscirà mai a mettere luce. Rudy Guede resta l’unico condannato per l’omicidio, seppure in complicità, nonostante continui a negare di avere aggredito sessualmente e ucciso la ventunenne a Perugia.

Raffaele Sollecito su Rudy Guede libero. “Per sue bugie io e Amanda Knox in carcere”. Silvana Palazzo su Il Sussidiario.it il 23.11.2021

Rudy Guede libero, il commento di Raffaele Sollecito: “Per sue bugie io e Amanda Knox in carcere e abbiamo rischiato condanna”.

Raffaele Sollecito non è stupito dalla liberazione di Rudy Guede, ma non risparmia un attacco all’unico condannato per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia il 1 novembre 2007. «Lo prevede la legge, sulla base della condanna che gli è stata inflitta, e noi ci atteniamo alla legge», ha dichiarato all’AdnKronos. Il giovane pugliese, assolto con Amanda Knox, ha poi aggiunto: «Mi dispiace solo che non si sia mai pentito di quello che ha fatto, di aver ammazzato una povera ragazza».

Quindi, ha rievocato la sua vicenda giudiziaria a dir poco travagliata: «Mi dispiace che sono stato quattro anni in carcere e io e Amanda abbiamo rischiato di essere condannati a una pena per una cosa che non abbiamo fatto anche grazie alle sue bugie». In relazione alle dichiarazioni rese in passato da Rudy Guede, il quale si è sempre dichiarato innocente, Raffaele Sollecito ha spiegato: «Davanti alla televisione ha cambiato le sue dichiarazioni cercando di mettere in mezzo la mia figura e quella di Amanda in questo delitto».

Ma Raffaele Sollecito aveva parlato dell’omicidio di Meredith Kercher anche ai microfoni de Le Iene nelle scorse settimane. «Dopo il male che mi è stato fatto, dopo gli errori che in questo caso sono stati fatti, l’ingiustizia rimane. L’assoluzione passa in secondo piano, non se ne parla più tanto e mi trattano come una persona che l’ha fatta franca», le parole di Sollecito.

Amanda Knox aveva puntato direttamente il dito contro Rudy Guede: «Ci sono tutte le prove e tutti gli elementi per capire cosa sia successo quella notte e tutte portano a Rudy Guede. So che ha ucciso Meredith e so che lui non ammette di averlo fatto e che punta il dito contro di me e Raffaele. Lui era un uomo armato contro una donna senza arma, non deve essere per forza più complicato di così». Una tesi che Rudy Guede ha sempre smentito, dichiarandosi innocente. Oggi intanto può tornare in libertà, avendo ottenuto lo sconto sul fine pena. Eppure sono ancora tanti i dubbi sul delitto di Perugia.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Parliamo di Bibbiano.

"Io, affidata ai satanisti. Anni di violenze subite e denunce mai ascoltate". La ragazza violentata dal patrigno e dai suoi complici: "Loro protetti, c'è qualcosa sotto". Luca Fazzo il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

«Non venire creduta mi faceva sentire ancora più in balia dei miei aguzzini. Sentivo che potevano farmi quello che volevano mentre la procura di Siena assisteva al mio massacro ogni quindici giorni. Non è stato per errore o per incapacità. C'è sotto qualcosa. E spero che un giorno debbano renderne conto anche loro».

Per anni le sue denunce finivano in nulla. Anzi, a venire intercettata e perquisita era lei: come se fosse una mitomane, come se le sue accuse - precise, circostanziate, riscontrate - contro la banda di stupratori satanisti di cui era in balia fossero fantasia o calunnie. Adesso, per la prima volta, Miriam parla. Da Siena il fascicolo è arrivato a Milano, il pool antimafia ha incriminato la coppia di coniugi varesini cui nel 1999 - quando aveva diciassette anni - era stata affidata. Il padre affidatario la ingravidò quasi subito. Da lì una catena di orrori. Stupri seriali, riti satanisti, crocifissi capovolti, uomini incappucciati. Quando si rifugiò in Toscana, la localizzarono, la raggiunsero, e l'incubo riprese. Titolare del fascicolo era allora il pm senese Antonio Nastasi: oggi in servizio a Firenze, e divenuto noto per l'indagine a carico di Matteo Renzi.

Uno dei passaggi incredibili di questa storia è che al suo padre affidatario venne concesso dal Tribunale dei minori di riconoscere il figlio avuto da lei. Che effetto le fece?

«Avevo cercato in tutti i modi di oppormi. Rifiutavo il test del Dna. Lui mi diceva: lo prenderemo e faremo a lui quel che facciamo a te. Toccava il bambino come toccava me. Ero annichilita. Quando capii che non lo avrebbero mai fermato mi resi conto di essere persa, impotente. Capii che potevo proteggere mio figlio solo subendo e stando in silenzio».

Intanto quell'uomo continuava a ricevere minorenni in affido.

«Credo che lui fosse agganciato al Tribunale dei minori, che lì ci fosse qualcuno collegato alla sua stessa rete. Per venticinque anni hanno continuato a affidargli ragazzi e ragazze, li toglievano alle loro famiglie per affidarli a quei due. Proteggendo loro, i giudici proteggevano se stessi».

Recentemente il tribunale del riesame ha annullato il divieto di avvicinamento che il pool antimafia di Milano aveva imposto al suo ex padre affidatario e a sua moglie. Ha paura?

«Paura è poco. Sono terrorizzata. Bisogna fermarli. Non lo dico solo per me. Ci sono state altre vittime e altre ce ne saranno. Perché fino ad ora loro sono rimasti intoccabili».

Accanto a Miriam c'è Massimo Rossi, il suo avvocato. Il trolley è pieno di carte che raccontano cose incredibili. La denuncia che arriva a Nastasi e viene registrata come «fatti non costituenti reato». I verbali della sezione di polizia giudiziaria della Procura che accusano Miriam di inventarsi tutto o quasi. Le ferite emerse al pronto soccorso sarebbero «auto-inferte». A marzo 2012 il pm Nastasi la indaga per simulazione di reato. Ma c'è la foto impressionante che una poliziotta scatta alla schiena martoriata della ragazza, flagellata in punti dove nessuno può arrivare da solo. Anche quando Miriam racconta che dopo un nuovo stupro le ricucirono la vagina, la accusano di avere fatto tutto da sola. Ma ecco il verbale di interrogatorio del medico che la visitò al pronto soccorso: «La donna era terrorizzata. Constato una situazione mai vista nella mia professione. Sulle piccole labbra erano presenti quattro legature vicino al bordo». Poteva essersele fatte da sola?. La posizione e la precisione dei punti sulla vulva mi portano ad escludere tale circostanza».

Eppure nulla accade. E mentre la giustizia sta ferma, continuano gli agguati, i sequestri, gli stupri. «Da quella gente, dai miei violentatori, in fondo - dice Miriam - sai cosa devi aspettarti. È da chi mi doveva proteggere che sono stata abbandonata». Miriam non crede che sia stato per caso o per negligenza. E una cosa è certa, perché sta nelle carte delle indagini. Quando la donna si rifugia in Toscana è come se finisse di nuovo in mano al lupo. Uno dei carabinieri mandato a perquisirla la aggancia, lei si fida, lui la mette incinta. Dai tabulati telefonici estratti dai pm milanesi emergono 431 contatti tra il carabiniere e il padre affidatario di Miriam. Quello da cui, dieci anni prima, era iniziato tutto.

Quelle ombre sui pm di Siena che "graziarono" i satanisti. I magistrati hanno lasciato la ragazza nelle grinfie dei suoi persecutori. Italia Viva: "Intervenga subito il Csm". Luca Fazzo il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non c'è solo Antonio Nastasi, oggi pubblico ministero a Firenze, nella cronologia dei magistrati che si sono occupati negli anni delle denunce presentate da Miriam, la giovane donna sequestrata e stuprata a ripetizione da una banda di satanisti: e che ieri, in una accorata intervista al Giornale, ha accusato i magistrati della Procura di Siena di averla lasciata nelle grinfie dei suoi aguzzini. Dalle carte, spunta il nome del collega che ereditò da Nastasi il fascicolo: si chiama Nicola Marini, tuttora in servizio a Siena. È Marini a chiedere di mandare a giudizio, invece dei persecutori della donna, la stessa Miriam, che Nastasi aveva già incriminato per simulazione di reato. Ed è sempre Marini a chiedere nel 2015 e ottenere invece l'archiviazione del fascicolo che vedeva indagato per sequestro e stupro di gruppo l'uomo che aveva avuto Miriam in affido quando aveva diciassette anni e che l'aveva quasi subito ingravidata.

Solo nei mesi scorsi, con l'approdo del fascicolo per competenza a Milano, si sono finalmente cercati e trovati i riscontri alle dichiarazioni di Miriam. Ma su quanto accaduto in questi anni tra Firenze e Siena insorgono ieri gli esponenti di Italia Viva: parte Matteo Renzi, che definisce il racconto di Miriam «una circostanziata denuncia che fa male al cuore»; la deputata Elena Bonetti attacca, «la giustizia doveva e deve essere il suo rifugio, e invece nelle sue parole è il teatro di una violenza senza fine. Leggete quell'intervista: il grido di aiuto di Miriam non può essere ignorato. Miriam deve essere protetta». Si associa Ivan Scalfarotto, deputato, commissione Giustizia: «Lo Stato protegga, assegnandole la scorta, Miriam, vittima di un circuito di violenze inenarrabile. E il Csm non può restare inerte di fronte a un comportamento così negligente da parte della procura di Siena: come è possibile che il procuratore Antonino Nastasi, di fronte alle prove delle sevizie, non solo non abbia svolto il suo dovere di perseguire i colpevoli ma abbia addirittura indagato la donna per simulazione di reato?».

È vero che alcuni dei riscontri che hanno portato la Procura di Milano a incriminare l'ex padre affidatario, sua moglie e altri complici ancora da identificare, sono stati trovati solo recentemente. Ma altri riscontri alle parole della vittima erano disponibili già all'epoca in cui Miriam venne invece accusata di simulazione di reato. A rendere tutto più complicato c'è che i due pm che si occupano nel 2012 degli stupri denunciati dalla donna non sono due pm qualunque: sia Marini che Nastasi furono, insieme al giovane collega Aldo Natalini, i primi a entrare nella stanza di David Rossi, il portavoce del Monte dei Paschi volato dalla finestra il 6 marzo 2013. Senza aspettare la Scientifica, i tre pm manomisero la scena, svuotarono cestini, spostarono un messaggio di David Rossi. Tutti e tre sono adesso sotto processo a Genova per falso aggravato. Nel frattempo Nastasi è passato a Firenze, dove insieme al procuratore aggiunto Luca Turco conduce l'inchiesta sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Marini invece è diventato il capo di fatto della Procura di Siena, visto che il capo è andato via e non è stato sostituito. Il Csm non lo ha nominato, come non nomina il procuratore di Firenze, e neanche il procuratore generale. Di fatto, sia Nastasi che Marini si trovano senza controllo. Anche per questo Scalfarotto chiede che a muoversi sia il Csm. Dove però la domanda sull'esistenza di un procedimento per trasferimento d'ufficio dei due non trova risposta.

Eppure le domande sarebbero tante. Marini non iscrive nemmeno nel registro degli indagati il carabiniere che accede abusivamente alle banche dati per controllare Miriam: e che si giustificò col fatto che la donna appariva «esteticamente stravagante». Quando a frugare nelle banche dati è - decine di volte - un altro carabiniere, che risulterà in stretto contatto col padre affidatario di Miram, Marini gli contesta un reato così lieve che il giudice lo costringe a modificarlo. L'esposto al Csm dell'avvocato di Miriam su questi comportamenti non ha mai avuto risposta.

Lo strano metodo della procura toscana. Dal caso Mps alla ragazza, quante indagini finite nel nulla. Felice Manti il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Esiste un caso Siena? Le ombre che si allungano sulla Procura guidata dal reggente Nicola Marini che da quarant'anni conosce ogni cosa all'ombra della Rocca - alla faccia della compatibilità ambientale - non si contano quasi più. Ma il Csm non ci vede e non ci sente... Eppure il copione che sembra ripetersi è: chi denuncia finisce nel mirino. La vicenda della giovane ragazza sequestrata e stuprata a ripetizione da una banda di satanisti, che accusa la Procura toscana di averla lasciata nelle grinfie dei suoi aguzzini, è solo l'ultimo esempio. È vero che è stato il pm Antonino Nastasi (che oggi a Firenze indaga su Matteo Renzi) a raccogliere la sua deposizione nel marzo del 2012 ma l'atto con cui la Procura la indaga «per aver asserito falsamente di essere vittima di tre aggressioni» nel 2014 è firmato da Marini.

Molti anni fa (era il 1998, se ne occupò persino Vittorio Sgarbi in una puntata di Sgarbi quotidiani) un malcapitato acquirente finì nei guai per aver capito grazie a una rivista che una statua della Madonna con bambino acquistata di recente era in realtà rubata. La restituì prontamente, avvisando le autorità francesi, ma fu la Procura con Marini a vantarsi del ritrovamento in una conferenza stampa e a indagare chi aveva denunciato l'incauto acquisto.

C'è il caso eclatante di David Rossi. Per Marini, Nastasi e Aldo Natalini (oggi in Cassazione) la strana morte del manager Mps il 6 marzo 2013 era un suicidio, ma come sappiamo troppe cose non tornano nella ricostruzione di quella sera, tanto che la commissione parlamentare d'inchiesta ha di fatto contribuito a riaprire il caso. Ma anziché indagare sulle molte altre piste la Procura - che nel frattempo stava lavorando sul crac dell'istituto senese - indagò e mandò a processo la vedova Rossi e un giornalista. Nei giorni scorsi i tre magistrati sono stati interrogati a Genova, dopo che la Procura ligure ha aperto un’inchiesta per falso aggravato a seguito del racconto del colonnello Pasquale Aglieco proprio davanti alla commissione guidata dal deputato azzurro Pierantonio Zanettin. Ma dei tre pm presenti sulla scena, l'ufficiale dei carabinieri Nastasi era l'unico a cui attribuisce azioni precise. Casualmente lo stesso magistrato è stato interrogato a parte, non lo stesso giorno dei due. Perché? Dietro gli apparenti motivi di salute ci potrebbe essere una strategia difensiva: scaricare Marini e Natalini per provare a salvarsi dopo aver condiviso con loro un discusso metodo investigativo. Basterà?

D'altronde, Marini e Natalini avrebbero avuto in comune con Aglieco la circostanza di essere riconosciuti come partecipanti a festini sessuali (lo dice un escort rintracciato dalle Iene che il gip di Genova ritiene credibile). Dietro la storiaccia dei satanisti (archiviata da Siena e oggi finita a Milano) si potrebbe nascondere un'organizzazione dedita al sesso estremo senza scrupoli. Incontri sessuali e festini hard aleggerebbero pure nel caso Rossi. Soltanto coincidenze?

Maria Corbi per “la Stampa” il 12 novembre 2022.

Questa è la storia di una famiglia spezzata, di una bambina a cui vengono negati genitori. Forse non perfetti, troppo grandi di età, ma brave persone, mai rassegnati a questo strappo. Pochi mesi fa mamma Gabriella è morta, stroncata da un brutto male, come dicono le cartelle cliniche. Stroncata dal dolore, assicura il suo avvocato Adriana Boscagli. Ben prima di ammalarsi voleva lasciare una lettera alla sua Rosa, perché sapesse che è stata voluta, amata e che i suoi genitori hanno lottato per lei.

Quando già stava male Gabriella mi ha pregata di non tradirla, di scrivere la sua storia perché un giorno Rosa potesse sapere di essere stata voluta e amata. «L'unica cosa che mi importa è che la mia bambina sia serena. E non potrà esserlo senza sapere chi è. Per questo voglio dirle quanto è stata voluta, amata, e come abbiamo combattuto per lei». 

La cosa che mi colpiva di Gabriella, insieme al dolore che traspariva da ogni suo gesto, era l'assenza di rabbia. Non si è mai scagliata contro i giudici, gli assistenti sociali, i tanti che hanno contribuito a strapparle sua figlia. Tutte le energie erano dedicate a Rosa, scriverle gliela faceva sentire vicina.

Così iniziò a dettarmi e a mandarmi le pagine di questa lunga lettera alla sua bambina. «Voglio che conosca la sua famiglia». Un'urgenza che affondava forse anche nel presentimento che non c'era più molto tempo. «Il dolore porta dolore», mi diceva.

«Cara Rosa, figlia amatissima», inizia così il suo dialogo con Rosa. «Mi alzo ogni giorno pensando a te e ogni sera chiudo gli occhi sperando di sognarti. 

Sei nata da due genitori che ti adorano e che spero tu possa conoscere un giorno, almeno sapere chi siamo e quale è la tua vera famiglia». Gabriella fa un racconto dettagliato della sua vita, mettendo nero su bianco tanti dettagli che Rosa avrebbe conosciuto giorno dopo giorno se fosse cresciuta con loro.

 «Sono nata il 22 febbraio del 1953, e nel 1991 mi sono sposata con il tuo papà, Luigi Deambrosis che di anni ne aveva 38. Ci siamo conosciuti in montagna a Torgnon in Valle d'Aosta. Ero andata in gita con amici e ci siamo incontrati al bar. Io lo ho notato mentre mi guardava quando sono uscita per andare al pullman. Abbiamo parlato e abbiamo scoperto che eravamo della stessa zona. 

Io di Casale Monferrato e lui di Mirabello Monferrato. Così abbiamo deciso di rivederci. Era il 1987. Un grande amore». Poi le nozze, la ricerca di un figlio. «Abbiamo sempre desiderato essere genitori. Non mi sono mai persa d'animo negli anni dell'attesa. Mi confortava ascoltare le storie di tante donne come me che alla fine avevano realizzato il loro sogno.

Comunque avevo una vita piena con una bella famiglia, un marito che mi amava, un lavoro gratificante, amicizie consolidate. Insomma il desiderio del figlio non era il tentativo di riempire un vuoto ma di dare amore e di riceverlo in una casa felice e piena di luce».

Gabriella aveva 57 anni quando è nata Rosa, il 26 maggio del 2010, Luigi 68. Inutile ripercorrere qui tutto l'iter giudiziario, quel che è certo è che ha pesato come un macigno il pregiudizio sull'età. Si è arrivati, cosa rarissima, al quarto grado di giudizio. 

E in quella sede la prima sezione della suprema Corte diede ragione ai Deambrosis, revocando la sua precedente sentenza del novembre 2013, annullando con rinvio la sentenza di appello del Tribunale di Torino. Se sussiste la capacità genitoriale, non ci sono limiti di età per essere padre e madre, affermano i giudici.

Un severo atto di accusa: «La ricerca delle capacità genitoriali svolta dal giudice di merito è stata assai scarna, nessun esame oggettivo attento è stato mai espletato dato che è stata sottratta a poche settimane di vita». Rispetto alle capacità genitoriali è emerso dalle perizie «assenza di disturbi psichiatrici», «assenza di sintomi psicotici», «assenza di segni di decadimento intellettuale a causa dell'età». Ma niente da fare, il giudizio torna in corte di Appello di Torino che di nuovo si esprime per l'adottabilità. 

Ma mamma Gabriella non si è mai arresa: «Ogni mio pensiero, ogni mia preghiera è perché Rosa stia bene. La vorrei felice e spero con tutto il cuore che sia almeno tranquilla visto quello che le hanno fatto passare senza nessuna ragione reale. È lei la vera vittima di questa storia.

Avrebbe potuto vivere una vita serena in una famiglia che la amava e invece ha dovuto passare i suoi primi anni senza la certezza dell'amore di una mamma e del papà. Non ha sicuramente la consapevolezza del fatto che noi la abbiamo desiderata, abbiamo lottato per lei e ancora lottiamo. Non c'è nessun egoismo in questa nostra volontà, perché è un dovere dei genitori non arrendersi mai per il bene dei figli. E lei è nostra figlia».

Affido di minori, a Torino analogie con il caso Bibbiano: 13 indagati. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 26 Ottobre 2022.

Coinvolta anche la psicoterapeuta Nadia Bolognini, ex moglie di Claudio Foti (del centro studi Hansel e Gretel). Gli inquirenti: piccoli manipolati anche con un cartoon nazista 

La Procura di Torino ha chiuso un’inchiesta sull’affido di minori che, secondo gli inquirenti, presenta una serie di analogie con il caso Bibbiano. Gli indagati sono 13, tra cui Nadia Bolognini, già sotto inchiesta a Reggio Emilia, e alcuni operatori dei servizi sociali. Bolognini, psicoterapeuta, è l’ex moglie di Claudio Foti, responsabile del centro studi Hansel e Gretel.

Le indagini, condotte dai carabinieri e coordinate dal pubblico ministero Giulia Rizzo, avevano portato a controlli su eventuali responsabilità di dirigenti e funzionari dei servizi sociali territoriali coinvolti nelle procedure. In particolare, l’attenzione del nucleo investigativo si era concentrata sulla vicenda di due bambini di origine nigeriana, fratello e sorella, affidati a una coppia di donne torinesi, un’impiegata e un’appartenente alle forze dell’ordine, nel 2013. Secondo la Procura le due affidatarie, 55 e 54 anni, si sarebbero rese responsabili di maltrattamenti di natura psicologica nei loro confronti. Non solo punizioni non commisurate, ma anche continue pressioni per allontanarli definitivamente dalla loro madre naturale e dalle loro origini. Tanto che la bambina in un colloquio aveva confessato: «Io mi sento bianca». L’affido era stato poi revocato e per i due fratellini era cominciato un difficile percorso di riavvicinamento alla madre: la piccola era stata ospitata in comunità, il fratello maggiore in un centro terapeutico a causa di un ritardo cognitivo. Sono contestati, a vario titolo, i reati di falso, abuso d’ufficio, frode processuale, accesso abusivo a sistema informatico. C’è anche un’ipotesi di truffa ai danni dei genitori biologici dei minori e del Comune di Torino, che fra il 2013 e l’aprile del 2021 erogò alle affidatarie 115 mila euro a titolo di rimborso spese.

Il cartoon: le due sorelle nel lager

Fra le «condotte manipolatorie e suggestive» cui sarebbero stati sottoposti i piccoli, secondo gli inquirenti, ci sarebbero anche le immagini di un cartone animato sulla storia di due sorelle rinchiuse in un campo di concentramento nazista. I fratellini, poche ore prima dell’audizione di uno di loro davanti a un magistrato nell’ambito della procedura, sarebbero stati sottoposti alla visione del cartoon dove - annota la procura - alle due protagoniste «veniva raccomandato di non dire che avrebbero voluto rivedere la loro madre per evitare che ‘l’uomo con il camice bianco’ facesse loro del male».

Irene Famà per “la Stampa” il 27 ottobre 2022.

Tredici indagati. Si chiude così l'inchiesta sul caso di due bambini tolti alla famiglia d'origine e affidati ad un'altra coppia. Un affido che per la procura sarebbe stato pilotato con testimonianze inattendibili, relazioni infondate. E i due fratelli manipolati contro i genitori naturali.

Nei guai sono finite le madri affidatarie, una impiegata e l'altra poliziotta, una neuropsichiatra, sei persone della rete dei servizi sociali e alcuni agenti della polizia ferroviaria. E poi Nadia Bolognini, psicoterapeuta diventata il volto, insieme al suo ex marito Claudio Foti, dello scandalo Bibbiano.

Si era parlato di una "Bibbiano Piemontese", ma un distinguo è necessario. L'inchiesta della procura si riferisce ad un solo caso e non ipotizza un sistema di affidi pilotati.

La vicenda inizia nel 2013, quando la madre naturale dei bambini, una donna di origine nigeriana, chiede aiuto perché non riesce più a mantenerli. I piccoli vengono affidati temporaneamente e si apre un procedimento civile per l'adottabilità. E mentre una consulenza del tribunale dei minorenni sostiene che manchino i presupposti per l'allontanamento, la psicoterapeuta a cui le due madri affidatarie si sono rivolte, Nadia Bolognini, ipotizza una condotta sessualizzata dei bambini riconducibile ad abusi del padre naturale. Per la procura, le sedute di psicoterapia della professionista, difesa dall'avvocato Roberto Trinchero, sono state condotte con «metodi suggestivi e scorretti» e le relazioni redatte in maniera «fuorviante».

E così anche le madri affidatarie, secondo la pm Giulia Rizzo, avrebbero manipolato i piccoli «denigrando i genitori naturali», suggestionandoli, «colpevolizzandoli, preparandoli agli incontri con i magistrati e con la mamma». L'obiettivo sarebbe stato dimostrare abusi da parte del padre d'origine e una situazione «di profonda sofferenza e totale disorientamento» se i due fratelli fossero stati allontanati da loro. Nel 2018, la coppia ottenne dal tribunale lo stop agli incontri dei bambini con i genitori biologici.

Le legali delle due donne, le avvocate Maria Grazia Pellerino e Donatella Mondini, annunciano battaglia: «Depositeremo una memoria in cui chiederemo al giudice l'annullamento dell'avviso di chiusura indagini visto che è appena stato avviato l'incidente probatorio. Si tratta di una perizia psicologica per accertare se i minori siano stati o meno vittime di abusi. Va da sé che il risultato potrebbe completamente ribaltare l'accusa del pm». E ancora: «La Cassazione ha annullato con rinvio la misura cautelare interdittiva per un anno dall'esercizio della professione. Segno che l'accusa ha esasperato i fatti, ma allo stato non vi sono riscontri».

Le due madri affidatarie sono accusate anche di maltrattamenti: rimproveri con urla, parolacce e minacce di abbandono.

A pilotare l'affido, stando alle indagini, sarebbero stati anche alcuni poliziotti, colleghi di una delle due madri affidatarie: «Si sarebbero introdotti abusivamente nei sistemi informatici» per ottenere informazioni sui genitori naturali dei bambini così da «screditarli e dimostrare l'incapacità genitoriale».

Agli operatori dei servizi sociali, difesi, tra gli altri, dall'avvocato Michele Polleri, vengono contestate diverse violazione di procedure, omissioni e aggiramento delle regole.

Fra le "persone offese" compare il Comune di Torino che, a titolo di rimborso spese per le affidatarie, ha versato nel corso del tempo 115mila euro: «Somma che - scrive la procura - se corrisposta sotto forma di aiuti primari alla famiglia biologica avrebbe consentito da un lato un risparmio per la città e dall'altro il mantenimento dei minori all'interno della famiglia d'origine». Nel 2020, i bambini sono stati inseriti in una comunità e hanno iniziato un laborioso percorso destinato a riavvicinarli alla madre naturale. Da un lato c'è la questione giudiziaria, dall'altro la discussione politica, che sul tema affidi si scontra senza esclusione di colpi. E poi ci sono i bambini.

Chiusa l'inchiesta sugli affidi, 14 indagati. Il pm: "Hanno tolto ai genitori due fratellini per abusi mai provati". Repubblica Torino su La Repubblica il 26 Ottobre 2022. 

Sotto accusa anche la psicologa Bolognini già coinvolta nel "caso Bibbiano"

La procura di Torino ha chiuso un'inchiesta sull'affido di minori che secondo gli inquirenti presenta delle analogie con il caso Bibbiano. Gli indagati sono 14, tra cui Nadia Bolognini, già indagata a Reggio Emilia, e alcuni operatori dei servizi sociali. Le indagini sono partite dal caso di due fratellini allontanati dai genitori nigeriani sulla base di presunti abusi. Abusi non riscontrati, ma che sono stati la premessa per dare in affidamento i piccoli a una coppia di donne, accusate poi di averli maltrattati e accolti infine in comunità nel tentativo di riavvicinarli alla madre biologica. 

Una vicenda che era stato soprannominato la "Bibbiano torinese" sia per alcune analogie con il caso giudiziario scoppiato in Emilia, sia perché è coinvolta anche Nadia Bolognini, psicoterapeuta ed ex moglie di Claudio Foti, considerato con il centro Hansel e Gretel l'anima di un sistema di allontanamenti forzati.

Truffa aggravata e abuso d'ufficio sono le contestazioni che la pm Giulia Rizzo ha mosso a quattro sono assistenti sociali, due già in pensione, di cui una aveva un ruolo di responsabilità nel progetto "Casa dell'affido" sviluppato dai servizi sociali del Comune di Torino: due sono neuropsichiatre in servizio al Maria Vittoria e al distretto Torino Nord dell'Asl.

Una delle contestazioni fatte dal pm riguarda la lunghezza dell'affido, che di norma non dovrebbe superare i due anni. L'altra contestazione, conseguenza della prima, riguarda gli emolumenti versati alla famiglia affidataria per tutto il periodo in cui i bambini sono stati nel nuovo nucleo. Un compenso che alla luce di possibili irregolarità diventerebbe illegittimo.

Dalle indagini sono emersi alcune altre vicende sospette su cui gli investigatori hanno svolto accertamenti per capire se vi siano state delle storture, soprattutto sui tempi degli affidi, che spesso si prolungano oltre il tempo previsto per vari fattori, a partire dalle verifiche che passano prima di dichiarare adottabili i bambini. 

"Ho fiducia nei servizi sociali e nella magistratura - aveva commentato nei mesi scorsi l'assessore comunale ai Servizi sociali, Jacopo Rosatelli - Confido che gli accertamenti doverosi su singoli casi confermeranno l'esistenza di un servizio pubblico che lavora in maniera positiva per i bambini e le bambine di questa città. Al contrario la tendenza che c'è in alcuni ambienti politici di alimentare un clima di sospetto su presunti allontanamenti facili rischia di creare un danno a quei minori che invece hanno bisogno di un aiuto esterno rispetto alle famiglie d'origine".

Nell'inchiesta era stata indagata Nadia Bolognini (difesa da Roberto Trinchero e a processo nel caso di Bibbiano), accusata di falso, sospettata di aver pilotato le indicazioni date da un bambino con difficoltà cognitive trasformando un rito magico in un abuso sessuale da parte del padre e considerando la madre testimone passiva. E pensare che proprio la donna, in difficoltà economiche, si era rivolta ai servizi sociali chiedendo aiuto. 

Poi erano state indagate per maltrattamenti le due donne affidatarie, difese da Stefania Consoli, che da un giorno all'altro si sono viste portare via bambini diventati ormai ragazzini. " Altre famiglie avevano detto di no, abbiamo accettato questo incarico per il loro bene. E sono stati con noi per otto anni", si erano difese le donne, che da mesi non hanno più contatti con i due fratellini. Gli investigatori avevano poi interrogato vari operatori che in ruoli diversi si erano succeduti nel tempo a seguire quella famiglia e quei bambini problematici, allargando così il focus dell'inchiesta a nuovi casi. 

La vicenda ha richiamato l'attenzione anche dell'ordine degli assistenti sociali del Piemonte, che ha avviato " tutte le necessarie procedure per accertare se vi siano responsabilità sotto il profilo disciplinare da parte di professionisti assistenti sociali eventualmente coinvolti - ha spiegato il presidente Antonio Attinà - Non bisogna però generalizzare e addebitare all'intera categoria comportamenti scorretti per non minare la fiducia delle persone nei confronti delle istituzioni. Creare diffidenza verso i servizi vuol dire arrestare i percorsi di aiuto verso i più fragili e alzare il livello della tensione sociale".

"Truffa sui bambini in affido". L'ombra di un'altra Bibbiano. Nadia Muratore il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Tra i 14 sotto inchiesta anche l'ex moglie di Foti. I pm: abusi e maltrattamenti per togliere i minori alle madri

A poche ore di distanza dall'approvazione del disegno di legge della Regione Piemonte «Allontanamento zero», che mira a ridurre al minimo gli affidamenti dei minori a strutture o famiglie esterne, la procura di Torino ha chiuso un'inchiesta che - secondo gli inquirenti - presenta delle analogie con il caso Bibbiano.

Quattordici le persone rinviate a giudizio, tra loro anche la psicoterapeuta Nadia Bolognini già indagata a Reggio Emilia. Sono contestati a vario titolo reati di falso, abuso d'ufficio, frode processuale, accesso abusivo a sistema informatico. La procura ha anche ipotizzato una truffa ai danni dei genitori biologici dei minori e del Comune di Torino, che fra il 2013 e l'aprile del 2021 erogò alle affidatarie 115mila euro a titolo di rimborso spese.

Le indagini sono partite dal caso di due fratellini allontanati dai genitori nigeriani, per presunti abusi che in realtà non furono mai riscontrati, ma che sono stati la premessa per dare in affidamento i piccoli a una coppia di donne, accusate di averli maltrattati e poi accolti in comunità nel tentativo di riavvicinarli alla madre biologica. Una vicenda soprannominata la «Bibbiano torinese» per alcune analogie con il caso giudiziario dell'Emilia e per il coinvolgimento di Bolognini, ex moglie di Claudio Foti, considerato - con il centro Hansel e Gretel - l'anima di un sistema di allontanamenti forzati. La psicoterapeuta, accusata di falso, è sospettata di aver pilotato le indicazioni date da un bambino con difficoltà cognitive, trasformando un rito magico in un abuso sessuale da parte del padre e considerato la madre testimone passiva. Indagate per maltrattamenti anche le due donne affidatarie che hanno allevato i bambini per otto anni. «Abbiamo fatto solo il loro bene», si sono difese davanti agli inquirenti.

Una delle contestazioni fatte dal pm Giulia Rizzo, riguarda la lunghezza dell'affido, che non dovrebbe superare i due anni. L'altra contestazione riguarda gli emolumenti versati alla famiglia affidataria per il periodo in cui i bambini sono stati nel nuovo nucleo. Un compenso che alla luce di possibili irregolarità diventerebbe illegittimo. Dalle indagini, sono emerse altre vicende sospette, soprattutto sui tempi degli affidi, che spesso si prolungano oltre il previsto, e per le verifiche effettuate prima di dichiarare adottabili i bambini. La vicenda ha richiamato l'attenzione dell'ordine degli assistenti sociali del Piemonte, che ha avviato «tutte le procedure per accertare se vi siano responsabilità sotto il profilo disciplinare da parte di professionisti assistenti sociali eventualmente coinvolti - ha spiegato il presidente Antonio Attinà - Non bisogna generalizzare e addebitare all'intera categoria comportamenti scorretti». «Le indagini - sottolinea l'assessore regionale alla Famiglia Chiara Caucino, promotrice del ddl Allontanamento Zero - dimostrano la necessità di verificare un sistema che in Piemonte ha una percentuale di affidi superiori alla media nazionale. Favorire la famiglia è una battaglia di civiltà e solo in caso di abusi accertati si deve attuare un allontanamento che deve essere il piu possibile intrafamiliare. Nelle prossime settimane apriremo una discussione anche con le famiglie affidatarie, perché il bene dei minori è sempre la priorità».

Le tolsero il figlio per darlo a un pregiudicato. Lui muore, lei fa causa allo Stato: condannata. Felice Manti e Edoardo Montolli l'1 Giugno 2022 su Il Giornale. 

"Un incidente", la donna dovrà pagare 80mila euro. Il legale: ricorreremo.

Le tolsero il figlio di due anni a causa delle continue liti con il marito. Lo affidarono ad un pregiudicato per furto, droga e possesso illegale di armi. Il bimbo morì dopo essere stato lasciato incustodito in piscina. E quando la disperata madre ha fatto causa allo Stato citando in tribunale anche i giudici che permisero tutto questo, le hanno negato il risarcimento, condannandola pure a pagare 80mila euro di spese legali. È l'incredibile storia di Giovanna Dotti, 52 anni, la cartina di tornasole di come la giustizia possa distruggere impunemente la vita di una persona. Prima della tragica fine del suo piccolo Renzo, infatti, Giovanna aveva avuto altre due figlie, che oggi hanno 28 e 33 anni. «Nel 2003 mi separai e loro furono affidate a me dal giudice. Non fu facile. Una ebbe infatti problemi di anoressia. Ma anche l'altra soffrì enormemente per il distacco dal padre». Succede. Le cose cambiano quando conosce un ragazzo egiziano e resta incinta di Renzo: «Purtroppo, dopo pochi mesi dalla nascita del bimbo iniziammo a litigare». I vicini si allarmano: «Una mattina, all'alba, trovai sotto casa carabinieri e assistenti sociali. Il Comune di Crema le toglie il piccolo. Giovanna lo vede una volta la settimana in una struttura protetta. Poi il tribunale dei minorenni di Brescia lo dà in affido ad una coppia che ha già due figli piccoli. Un mese prima che Renzo compia due anni, il bimbo muore annegato nella piscina del giardino della famiglia affidataria. Secondo le indagini fu un tragico incidente: era stato lasciato solo per qualche minuto con gli altri due figli piccoli per accompagnare una vicina alle 18.45. Ma restano enormi perplessità sugli orari, visto che l'ambulanza fu chiamata solo alle 19,26. Nella sentenza del gip che archivierà il caso si parla di «un evento del tutto fuori da ogni ragionevole prevedibilità», dato che, come scritto dal pm, «il piccolo non era mai entrato in piscina (profonda ben 75 centimetri), manifestando poca confidenza con l'acqua».

Ma non basta. Il capofamiglia affidatario aveva precedenti per droga, furto e possesso illegale di armi, con l'ultima condanna risalente al 1998: «Io sono incensurata. Mi tolgono il bambino dopo che ne ho cresciute altre due. E poi lo affidano ad un pregiudicato per furto, droga e armi?». Giovanna fa causa al Comune di Crema, al ministero della Giustizia e al tribunale dei minorenni di Brescia, chiedendo un risarcimento danni di tre milioni. Il tribunale di Brescia in primo grado rigetta tutte le richieste di assunzioni di prova della donna, «compresa l'esibizione coattiva del fascicolo sull'affido alla famiglia», dice l'avvocato Claudio Defilippi, che assiste Giovanna. Nel 2020 il tribunale rigetta la domanda di risarcimento perché «i precedenti penali non contano essendo datati» e si scrive che «Il tribunale dei minorenni non sarebbe propriamente un ente dipendente del ministero, per cui la relativa domanda va rigettata per indeterminatezza». Dice ancora Defilippi: «È una motivazione fuori da ogni logica giuridica». Nessun colpevole, l'unica a pagare con spese legali astronomiche è la mamma cui era stato strappato il bimbo.

C'è un altro fatto gravissimo che il legale apprende spulciando gli articoli di stampa sulla tragica morte del bambino. La famiglia affidataria, «da anni» collaborava «con il Tribunale dei minori di Brescia». «Purtroppo non possiamo verificarlo l'esibizione coattiva del fascicolo ci è stata negata. Ma questa notizia è inquietante. Presenteremo un esposto in Procura, alla Cassazione contesteremo la sentenza che nega il risarcimento e potremmo richiedere la riapertura del fascicolo penale», assicura Defilippi.

Forteto, spariti i fascicoli sulle violenze. Stefano Zurlo il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Scomparse le carte necessarie per chiedere la revisione del processo.

Uno scandalo che non finisce più. Prima gli abusi, le violenze sessuali, i maltrattamenti inflitti ai bambini tra le pareti di quella che tutti ritenevano una comunità modello. Ora la scomparsa delle carte processuali, necessarie ad alcuni genitori dipinti come orchi per giocare finalmente la carta della revisione e vedersi restituire l'onore perduto.

Insomma, la beffa dopo tanto dolore: la storia vergognosa del Forteto di Vicchio del Mugello non è ancora finita, come ha documentato nei giorni scorsi il quotidiano Il Tirreno, e dovrebbe essere studiata in vista dei referendum sulla giustizia.

Andava tutto al contrario nella comunità fondata da Rodolfo Fiesoli come un'arca per ospitare ed educare i piccoli che non potevano più restare in famiglia. Per trentacinque lunghissimi anni il Forteto è stato un presunto modello, una bandiera sventolata dalla nomenklatura toscana e dal sistema di potere fiorentino: gli psicologi, i servizi sociali, i giudici minorili, la politica di una delle regioni rosse d'Italia. E invece era l'esatto contrario: vessazioni fisiche e psicologiche sugli innocenti che in più di un caso si erano pure inventati o erano stati indotti a fabbricare le prove della colpevolezza dei loro padri.

Solo nel 2015 Fiesoli è stato condannato, e insieme a lui alcuni suoi collaboratori, con una pena a 14 anni e 10 mesi, ma davanti alla Commissione d'inchiesta del parlamento la pm Ornella Galeotti ha tracciato un quadro inquietante: «Ho passato giorni e giorni a piangere leggendo gli atri che riguardavano le vittime di questi orrori, ma mi sono sentita molto sola. Molti colleghi mi avevano tolto il saluto, ero diventata il soggetto deviante nell'ambiente fiorentino».

E ancora, con parole scioccanti: «Ho visto accadere cose in questo processo che non mi sono mai capitate quando lavoravo in Calabria dove questo genere di pressioni e di atteggiamenti non mi è mai successo».

Eppure il Forteto aveva un peccato originale, una macchia che avrebbe dovuto allarmare i cantori e gli estimatori della fattoria: Fiesoli era stato condannato nell'85, proprio per maltrattamenti, a due anni di pena. Con tanto di verdetto definitivo. Ora, come racconta sempre Il Tirreno, pure i fascicoli di quella vicenda sono spariti. «Un guaio - spiega l'avvocato Giovanni Marchese, legale dell'associazione delle vittime del Forteto - perché là dentro ci sono i nomi di chi si spese a favore di Fiesoli».

Sciatteria. Confusione. Disguidi burocratici. Chissà. I paradossi del Forteto non finiscono mai. Fiesoli, intanto è in carcere, a Parma, ma presto potrebbe uscire: ha superato gli ottant'anni, è malato e i suoi legali si battono perchè gli sia concesso un trattamento più soft.

Ma i padri e le madri dei fanciulli portati via in quegli anni lontani non sono ancora in pace: sono almeno cinque le persone che hanno intrapreso la via della revisione. Due l'hanno già ottenuta, con la cancellazione di condanne ormai sbiadite nel tempo, altre vorrebbero seguire la stessa strada, ma c'è quell'ostacolo incredibile sul loro cammino: non si trovano più i loro fascicoli.

Un'altra pagina di trascuratezza inqualificabile. In un modo o nell'altro il problema verrà superato, ma intanto l'attesa si allunga e qualcuno è già morto con la patente del mostro appiccicata addosso, mentre era solo un povero disgraziato travolto da una catena di calunnie. Esattamente come è capitato negli anni Novanta con l'inchiesta sulla pedofilia in provincia di Modena. La cupa parabola del Forteto testimonia gli stessi errori, le stesse omissioni, le stesse negligenze. Con drammi a cascata e un passaggio agghiacciante in più: se non c'erano state prima, le violenze avvenivano proprio al Forteto. Dentro l'oasi lodata da tutti. «C'era una coltre di consenso - ha concluso la pm davanti a deputati e senatori - che non si riusciva a colpire, anche dopo la sentenza. In ogni caso, per trent'anni in Toscana si è assistito alla sospensione di tutte le regole e le leggi in materia di affidamento dei minori».

Bambini tolti alle famiglie di origine, sotto accusa le assistenti sociali. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 2 Marzo 2022.

Perquisiti gli uffici del Comune di Torino: avvisi di garanzia per sei professioniste.  

Nel 2013, quando si rivolse ai servizi sociali, cercava aiuto e sostegno. Invece le portarono via i figli per affidarli a una coppia di genitori, una poliziotta e un’impiegata. Nove anni più tardi, i bambini non hanno ancora fatto ritorno a casa. Oggi emerge che dietro a quell’allontanamento ci sarebbe stato un disegno più articolato che coinvolgerebbe famiglie affidatarie, neuropsichiatri e assistenti sociali. Nei giorni scorsi i carabinieri del nucleo operativo hanno bussato alla porta dei Servizi sociali del Comune di Torino. Sei le persone raggiunte da un avviso di garanzia e che sono state perquisite: quattro assistenti sociali (due attualmente in pensione) e due neuropsichiatre (una in servizio al Maria Vittoria e l’altra all’Asl Torino-distretto Nord). Le accuse nei loro confronti sono di abuso d’ufficio e truffa aggravata ai danni dello Stato.

Si tratta del secondo step dell’inchiesta che lo scorso dicembre ha portato all’iscrizione sul registro degli indagati della coppia di mamme affidatarie (per i reati di frode processuale e maltrattamenti) e della psicoterapeuta Nadia Bolognini, ex moglie di Claudio Foti e rinviata a giudizio a Reggio Emilia per falso ideologico (secondo la tesi della Procura, le sue relazioni avrebbero «condizionato» i servizi sociali portando all’apertura dell’iter di adottabilità dei minori). Le vittime di questo presunto sistema, sul quale il pm Giulia Rizzo sta cercando di fare luce, sarebbero due fratellini nigeriani strappati alla loro famiglia d’origine sulla base di falsità e illazioni. Avevano due e quattro anni quando vennero portati via. La madre aveva chiesto aiuto perché aveva problemi economici e non riusciva a prendersi adeguatamente cura di loro, soprattutto del maschietto di 4 anni che «era problematico». Ben presto la situazione si è complicata. Un disegno e le poche parole che il bambino con fatica pronunciava sarebbero state interpretate dalla Bolognini — alla quale si era rivolta la coppia affidataria — come segnali di una violenza sessuale. La relazione della professionista avrebbe condizionato le assistenti sociali, che hanno denunciato il padre (l’indagine è stata poi archiviata) e avviato l’iter per incardinare le procedure di adottabilità. Un percorso al quale la madre biologica si è sempre opposta.

Lo scoppio dell’inchiesta Bibbiano ha fatto nascere i primi sospetti. L’avvocato della donna, Ornella Fiore, ha ottenuto dal Tribunale di azzerare il ruolo delle assistenti sociali che fino a quel momento si erano occupate del caso. Contestualmente è partita l’inchiesta della Procura. Le intercettazioni telefoniche racconterebbero le pressioni psicologiche esercitate dalla coppia affidataria sui bambini per interrompere il legame con la madre naturale e le presunte «manipolazioni» della psicoterapeuta. Ora sotto accusa ci sono anche gli assistenti sociali e le neuropsichiatriche che si sono occupate del caso. Gli inquirenti sospettano che la storia dei due fratellini nigeriani non sia un episodio isolato e stanno svolgendo accertamenti su altre pratiche sospette. L’indagine non riguarda tutto il sistema degli affidamenti, ma fascicoli specifici che avrebbero come protagoniste le stesse persone. Ed è in questo contesto che si valuta l’ipotesi di truffa, per i soldi erogati dallo Stato alle famiglie affidatarie.

“Angeli e Demoni”, dopo tre anni di show mediatico al via il processo. L’udienza di ieri è stata dedicata alla costituzione delle parti civili e all’ammissione dei responsabili civili. Il processo ripartirà il 16 dicembre con un nuovo collegio. Simona Musco su Il Dubbio il 9 giugno 2022.

A distanza di tre anni dall’inchiesta che ha fatto gridare allo scandalo e ormai diventata simbolo della violazione del principio di presunzione di innocenza, è iniziato ieri a Reggio Emilia il processo “Angeli e Demoni”, sul presunto sistema di affidi illeciti di minori nella Val d’Enza. Un processo già celebrato sulla stampa e annunciato ieri da titoli di giornali che davano conto, con certezza, del “furto” di bambini compiuto dai servizi sociali della Val d’Enza.

L’udienza di ieri è stata dedicata alla costituzione delle parti civili e all’ammissione dei responsabili civili, al termine delle quali il giudice ha rinviato tutto al 16 dicembre. Il motivo di tale slittamento è legato anche al rinnovo del collegio: il presidente e uno dei giudici a latere, infatti, sono già formalmente trasferiti in altra sede. Un avvicendamento che ha subito messo in allerta le associazioni sul rischio di uno slittamento del processo, che ora ripartirà a dicembre davanti ad un altro collegio, che riprenderà in mano il dibattimento a partire dalle eccezioni preliminari.

Nessuno dei 17 imputati che hanno scelto il rito ordinario, ieri, era presente in aula. Tra i principali imputati c’è Federica Anghinolfi (difesa da Oliviero Mazza e Rossella Ognibene), ex dirigente dei servizi sociali della Val d’Enza, alla quale la procura contestava 64 capi d’imputazione sui 108 totali, dalla frode processuale alla violenza privata, passando per falsa perizia ed abuso d’ufficio. Per lei il gup, a novembre scorso, ha disposto l’assoluzione per due accuse di falso ideologico, così come per il sindaco di Bibbiano, Andrea Carletti, inizialmente bollato dalla stampa come “ladro di bambini”, ma finito a processo con l’accusa di abuso d’ufficio.

La Corte, presieduta dal giudice Simone Devoto Medioli, a latere Chiara Alberti e Michela Caputo, ha respinto per vizi di forma la costituzione di parte civile dell’ordine regionale Emilia- Romagna degli assistenti sociali, l’associazione Gens Nova e un padre imputato in un altro processo per abusi sulla figlia, per il quale l’accusa ha chiesto due giorni fa una condanna a sei anni. Un caso non connesso ai fatti della Val d’Enza, hanno evidenziato i giudici, nonostante secondo l’uomo la figlia sarebbe stata condizionata dai Servizi sociali dell’Unione dei Comuni e dalle sedute di psicoterapia svolte dalla Onlus Hansel & Gretel. Ma tale psicoterapia non ci sarebbe mai stata e nessuno degli assistenti sociali coinvolti nel caso della minore è a processo in “Angeli & Demoni”. Sono 31, in totale, le parti civili costituite, tra le quali l’Ordine nazionale degli assistenti sociali. Ammessi come eventuali responsabili civili in caso di condanna gli enti datori di lavoro dei vari imputati, ovvero l’Asl di Reggio Emilia, l’Asp Carlo Sartori, l’Unione dei Comuni della Val d’Enza e la cooperativa Creativ Cise, presso la quale lavoravano le educatrici imputate nel processo.

«Mi aspetto che venga finalmente affermata la verità, cioè che il mio assistito ha sempre avuto un gran impegno sul tema della tutela dei minori e la costruzione accusatoria che è stata fatta attorno a lui è frutto probabilmente di interpretazioni sbagliate e forse di errori di qualcuno, certo non riconducibili a lui. Il suo è un impegno personale, umano e politico, fuori completamente da ogni altra logica. Ed è quello che ha sempre detto fin dall’inizio – ha commentato all’Agi l’avvocato di Carletti, Giovanni Tarquini -. Da parte nostra c’è semplicemente la prospettiva di arrivare finalmente a parlare nel merito di questa vicenda, dopo aver superato tutti questi passaggi formali».

L’indagine sugli affidi in Emilia Romagna ha rappresentato un vero e proprio buco nero per la politica e l’informazione italiane. Una vicenda iniziata nel 2018 e che ha fatto irruzione nella campagna elettorale per le regionali in Emilia provocando un vero e proprio dispiegamento di forze contro il Pd, reo, in quell’occasione, di avere tra i propri tesserati il sindaco indagato, anche se per fatti non legati agli affidi dei minori. E Bibbiano, all’improvviso, si ritrovò sconvolta e sulla bocca di tutti, complice anche la stampa, che ribattezzò l’indagine dandole il nome del piccolo centro emiliano. M5S e Lega, ai tempi insieme al governo, piombarono lì, scatenando una vera e propria tempesta mediatica contro il Partito democratico e dando il là ad una campagna discriminatoria contro gli assistenti sociali, da quel momento in poi minacciati, inseguiti e screditati.

Ma a porre l’accento sulle conseguenze nefaste della gogna mediatica era stato anche il presidente vicario della Corte d’Appello di Bologna, Roberto Aponte, che nella propria relazione di inaugurazione dell’anno giudiziario aveva evidenziato come la «martellante campagna mediatica ha esposto tutto il sistema della Giustizia minorile e familiare, come era prevedibile, al sospetto generalizzato e alle rivendicazioni di soggetti interessati».

Aponte aveva ricordato la segnalazione dell’allora presidente del Tribunale per i Minorenni Giuseppe Spadaro, che aveva sottolineato come, durante le indagini, «il lavoro di tutti i magistrati dell’Ufficio sia stato fortemente e negativamente condizionato in termini di delegittimazione dai riflessi riverberati dalle deprecabili fughe di notizie nonché da una vera e propria strumentalizzazione, ad opera di gran parte dei media, dell’inchiesta» in questione; strumentalizzazione che ha provocato «lo scatenarsi del triste fenomeno del cosiddetto odio del web, nonché una vera e propria gogna mediatica» nei confronti dei magistrati del Tribunale Minori, «vittime di innumerevoli episodi di minacce che, comunque, non hanno minimamente scalfito il sereno svolgimento dell’attività giurisdizionale dei colleghi». 

Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 9 giugno 2022.

Tutto cominciò con questa telefonata, l'11 aprile 2018. «Ci dissero: "Non andate più a prendere vostra nipote a scuola, non serve: la bimba è stata trasferita, penseremo noi a tutto. Ma non starà più da voi». Clic. Conversazione finita. 

Da una parte una voce glaciale dai servizi sociali. Dall'altra un nonno sbigottito. È il «caso pilota» dell'inchiesta su Bibbiano e se «circa un anno dopo proprio così lo definì il gip - racconta ora al Corriere il signor Giovanni, sui settant'anni, dirigente d'azienda in pensione - è perché conteneva tutto: i documenti falsificati e le testimonianze inventate».

Assistiti dagli avvocati Patrizia Pizzetti e Nicola Termanini «fummo mia moglie e io, inoltre, i primi a denunciare. C'è chi poi osservò: noi potevamo permetterci le spese, difenderci dai soprusi. Altri no. Chissà, forse è vero...».

Fatto sta che l'inchiesta dei carabinieri e della Procura di Reggio scattò subito. E ieri in tribunale è cominciato il processo sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d'Enza per togliere i bimbi a famiglie deboli e assegnarli a coppie giudicate più affidabili. E pagate bene, con rette tra i 600 e i 1.300 euro mensili. 

Sono 17 gli imputati, tutti dipendenti della Ausl reggiana e dell'Unione Val d'Enza; 32 le parti civili sinora ammesse. Qualcosa di definitivo c'è già: i 9 bimbi (le vittime delle false violenze sessuali) sono tutti rientrati a casa dalle famiglie naturali e questo grazie alle sentenze del Tribunale dei Minori di Bologna che, dopo l'allerta della pm Valentina Salvi che ha coordinato l'inchiesta, scovò le irregolarità nei vecchi dossier.

Sette le persone con le posizioni già definite all'udienza preliminare del novembre scorso. Si tratta dello psicoterapeuta Claudio Foti (del centro Hansel & Gretel), condannato per lesioni gravissime a 4 anni; poi cinque «non luogo a procedere», un'assoluzione e un patteggiamento un anno e otto mesi. 

Il procedimento (alla sbarra per abuso d'ufficio c'è pure il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti) parte in salita dato che, ha scritto la Gazzetta di Reggio, due magistrati dei tre giudicanti saranno presto trasferiti.

«Un'incertezza che potrebbe minare la serenità di giudizio», scuote la testa Oliviero Mazza, avvocato della dirigente dell'Unione Federica Anghinolfi, presunta signora del sistema-Bibbiano su cui gravano circa 100 capi d'accusa tra cui falso ideologico e abuso d'ufficio. Nel tornare a quel 2018 Giovanni ricorda «la paura di non farcela». 

Gli assistenti definirono «inadeguati» i genitori-ragazzini (17 anni lui, 14 lei) di sua nipote perché si lasciarono dopo la nascita. La bimba fu così affidata ai nonni paterni, Giovanni e sua moglie, subito denigrati dagli psicoterapeuti e accusati di non essersi accorti degli abusi (inesistenti) commessi sulla piccina dal nuovo compagno della madre e segnalati da un disegno - falso per una perizia voluta dalla Procura - in cui la stessa piccola ritraeva le mani dell'uomo verso di lei.

Era il pretesto per togliere la nipote ai nonni e collocarla altrove. La procedura però fu «attenzionata» dagli scrupolosi avvocati di Giovanni e la piccola finì presso una coppia modenese ignara dei presunti raggiri. Una nuova perizia dimostrò nel frattempo l'affidabilità dei nonni. Dai quali la nipotina tornò «dopo un calvario di nove mesi».

Poi è successa una cosa bella: i due modenesi e il nonno vengono in contatto. I primi si rendono conto che Giovanni non era l'individuo «irascibile» descritto nelle relazioni. Conclusione: nonni, genitori naturali e affidatari spesso si ritrovano la domenica, a tavola.

«Per mia nipote la figlia della sua "seconda" mamma è una sorellina. Ma ciò che ha passato - dice il nonno - resta uno choc che l'ha sconvolta. Sarò a ogni udienza. Non deve più succedere». Prossima udienza, il 12 dicembre.

Caso Bibbiano, al processo non si presentano l’assistente sociale e altri 15 imputati accusati di fare affari sugli allontanamenti dei bambini dalle famiglie di origine. Filippo Fiorini su La Stampa il 9 giugno 2022.  

Ci sono almeno venti avvocati con le toghe. Ci sono tre giudici, due cancelliere, ci sono gli assistenti dei legali, c'è la classica scritta «la legge è uguale per tutti» e accanto c'è un crocefisso. Poi, c'è un uomo che è venuto in tribunale per vedere alla sbarra le persone che l'11 aprile del 2018 gli telefonarono e dissero di non cercare più la bambina a cui faceva da padre, perché era stata trasferita in una casa protetta, ritenuta vittima di abusi sessuali che avrebbe perpetrato lui stesso e che invece non erano mai esistiti, ma all'udienza inaugurale del processo di primo grado per il cosiddetto «Caso Bibbiano», non c'è nessuno degli imputati.Giovanni Bertolotti potrebbe anche non rivedere mai più Federica Anghinolfi, ex responsabile dei servizi sociali della Val d'Enza, il suo braccio destro, Francesco Monopoli, o gli altri 15 accusati, perché tecnicamente è possibile che costoro non compaiano mai, ma lui ci sarà anche per le prossime puntate, perché il suo è il caso pilota dell'inchiesta Angeli e Demoni. Condotta nel giugno 2018 dalla procura di Reggio Emilia, l'indagine puntò a un presunto sistema di falsificazione delle valutazioni psicologiche sui bambini, al fine di lucrare sul loro allontanamento dalle famiglie d'origine e il seguente affidamento a strutture e persone terze, in alcuni casi addirittura amici personali. Giovanni è considerato l'apripista, perché è stato il primo a denunciare il meccanismo di inventare gli abusi sessuali in famiglia e a smontarlo, attraverso i suoi avvocati Pizzetti e Termanini, potendo riportare a casa sua nipote Alice (nome di fantasia). Padre di un figlio 17enne che si era accompagnato con una ragazza di 14 anni, quando quest'ultima resta incinta, tutti e tre vengono affidati alla sua genitorialità e quella della moglie. La giovane coppia vive un periodo felice, poi si separa, restando sempre in buoni rapporti. La bimba, però, accusa un disagio psicologico e Bertolotti si rivolge ai servizi per cercare aiuto. Ad occcuparsene, c'è la psicologa dell'Ausl, Imelda Bonaretti (imputata), la quale stabilisce che la piccola ha subito abusi sessuali. Ad Alice viene chiesto di fare un disegno e questo viene poi modificato, in modo che sembri la rappresentazione della minaccia di un adulto su di lei.Prelevata a scuola senza preavviso, i nonni ricevono una telefonata in cui si dice: «Non cercatela, è stata trasferita in un altro istituto». Dopo lo shock, il primo è un gesto d'istinto. Giovanni interrompe il saggio natalizio della scuola di Alice e accusa i servizi sociali di averla rapita. Il giorno dopo, Anghinolfi, che è stata assolta da due capi d'imputazione, ma ora si deve comunque difendere da altre 64 accuse (alcune sopra i quindici anni di carcere), lo denuncia per diffamazione. Ci vogliono 70 giorni perché la bimba torni a casa. Non sapeva più chiamare mamma la sua vera madre, perché il termine lo usava per la donna affidataria. Mentre si batteva in diverse sedi per riaverla, Giovanni ha visto esplodere Angeli e Demoni. «Immaginate che cosa provavo - ha detto ieri - mentre lei era in affidamento e vedevo che era capitato lo stesso a tante altre famiglie». Lo stesso, in termini così simili e numeri così alti da rendere difficile credere che dietro non ci fosse un metodo.

Bibbiano, la bambina del «caso pilota» è tornata a casa: via al processo. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

La storia a lieto fine di una bimba sottratta alla famiglia. Secondo il gip si trattava del «caso pilota». «Documenti e testimonianze false; fummo i primi a denunciare».

Tutto cominciò con questa telefonata, l’11 aprile 2018. «Ci dissero: “Non andate più a prendere vostra nipote a scuola, non serve: la bimba è stata trasferita, penseremo noi a tutto. Ma non starà più da voi». Clic. Conversazione finita. Da una parte una voce glaciale dai servizi sociali. Dall’altra un nonno sbigottito. È il «caso pilota» dell’inchiesta su Bibbiano e se «circa un anno dopo proprio così lo definì il gip — racconta ora al Corriere il signor Giovanni, sui settant’anni, dirigente d’azienda in pensione — è perché conteneva tutto: i documenti falsificati e le testimonianze inventate».

Assistiti dagli avvocati Patrizia Pizzetti e Nicola Termanini «fummo mia moglie e io, inoltre, i primi a denunciare. C’è chi poi osservò: noi potevamo permetterci le spese, difenderci dai soprusi. Altri no. Chissà, forse è vero...». Fatto sta che l’inchiesta dei carabinieri e della Procura di Reggio scattò subito. E ieri in tribunale è cominciato il processo sui finti abusi segnalati dai servizi sociali della Val d’Enza per togliere i bimbi a famiglie deboli e assegnarli a coppie giudicate più affidabili. Pagate bene, tra l’altro: le rette erano tra i 600 e i 1.300 euro mensili per un impegno peraltro non sempre dimostrabile dato che in certi casi i piccoli sarebbero rimasti in comunità senza vedere, nei modi previsti, gli affidatari. Sono 17 gli imputati, tutti dipendenti della Ausl reggiana e dell’Unione Val d’Enza; 32 le parti civili sinora ammesse anche se ieri è stato un susseguirsi di nuove richieste di ammissione e di esclusione.

In attesa della sentenza, c’è già qualcosa di definitivo: i nove bambini (le vittime delle false violenze sessuali) sono tutti rientrati a casa dalle famiglie naturali e questo grazie al Tribunale dei Minori di Bologna che, allora diretto da Giuseppe Ferraro e dopo l’allerta della pm Valentina Salvi che ha coordinato l’inchiesta, ricontrollò i dossier scovando le irregolarità. Sette le persone con le posizioni già definite all’udienza preliminare dello scorso novembre. Si tratta dello psicoterapeuta Claudio Foti (del centro Hansel & Gretel), condannato per lesioni gravissime a quattro anni; «non luogo a procedere» per altri 5 dirigenti e impiegati dell’Unione; assolta perché «il fatto non sussiste» un’assistente sociale mentre un’ottava collega patteggiò un anno e otto mesi (con pena sospesa) nel rito abbreviato.

Il procedimento (alla sbarra per abuso d’ufficio c’è pure il sindaco di Bibbiano Andrea Carletti) è cominciato in salita dato che, ha scritto la Gazzetta di Reggio, due magistrati dei tre giudicanti saranno presto trasferiti. «Un’incertezza che, tra sentenze mediatiche e struttura da maxi-processo, potrebbe minare la serenità di giudizio», scuote la testa Oliviero Mazza, avvocato della dirigente dell’Unione Federica Anghinolfi, presunta signora del sistema-Bibbiano su cui gravano circa 100 capi d’accusa tra cui falso ideologico e abuso d’ufficio. Nel tornare a quel 2018 Giovanni ricorda «le lacrime versate e la paura di non farcela». Sulle carte giudiziarie c’era scritto che i genitori-ragazzini (17 anni lui, 14 lei) di sua nipote si lasciarono dopo la nascita. Perciò, considerati «inadeguati» quegli adolescenti dagli assistenti sociali, la piccolina fu affidata ai nonni paterni, Giovanni e sua moglie. Che furono subito denigrati dagli psicoterapeuti e accusati,in particolare, di non essersi accorti degli abusi (inesistenti) commessi sulla piccina dal nuovo compagno della madre e segnalati da un disegno — falso secondo una perizia voluta dalla Procura — in cui la stessa bimbetta ritraeva le mani dell’uomo innaturalmente protese verso di lei.

Quel disegno fasullo costituiva il pretesto per togliere la bimba ai nonni e per trovarle dunque ubna nuova collocazione. La procedura però fu «attenzionata» dagli scrupolosi avvocati di Giovanni e la piccola finì presso una coppia modenese ignara dei presunti raggiri commessi a Bibbiano. Una nuova perizia dimostrò inoltre l’affidabilità dei nonni. Dai quali la nipotina tornò «dopo un calvario di nove mesi». Poi è successa una cosa bella: i due modenesi e il nonno vengono in contatto. I primi si rendono conto che Giovanni non era affatto l’individuo «irascibile» descritto nelle relazioni. Anzi: «Lui e moglie erano una bella coppia». Conclusione: nonni, genitori naturali e affidatari spesso si ritrovano la domenica, a tavola. Giovanni conclude: «Per mia nipote la figlia della sua “seconda” mamma è una sorellina. Ma ciò che ha passato resta uno choc che l’ha sconvolta. Sarò a ogni udienza. Non deve più succedere». Prossima udienza, il 12 dicembre.

«Ma quanti altri casi Bibbiano dovranno esplodere prima che cambi qualcosa?». A chiederselo ieri, a margine fuori dall’aula, sono stati Francesco Cattani, presidente e fondatore di ASFEM, e la volontaria Tiziana Ciccone che dopo l’inchiesta «Angeli e Demoni» hanno raccolto molte altre segnalazioni simili: «Bibbiano è in tutta Italia — sostengono — come dimostrano le indagini “accoglienza” nel Lunigiano, le 9 assistenti sociali sotto inchiesta a Bologna e tanti altri casi analoghi da Nord a Sud».

Bibbiano, le motivazioni del gup: «L’imputato Foti voleva fregarmi». Ecco le ragioni della condanna dello psicoterapeuta. Il giudice nella sentenza accusa: l’imputato ha tentato di fregarmi. Il legale: «Denigrati la difesa e i suoi consulenti». Simona Musco su Il Dubbio l'11 febbraio 2022.

«Le modalità fortemente pregiudizievoli con le quali l’imputato conduceva le sedute, anche mediante l’errato utilizzo della tecnica dell’Emdr, hanno provocato a Giovanna ( nome di fantasia, all’epoca 17enne, ndr) un disturbo di personalità borderline e un disturbo depressivo con ansia». È questo il motivo per il quale lo psicoterapeuta Claudio Foti è stato condannato lo scorso 11 novembre a 4 anni per lesioni e abuso d’ufficio in abbreviato nel processo sui presunti affidi illeciti nella Val d’Enza, mentre è stato assolto dall’accusa di frode processuale. Una sentenza breve, quella scritta dal gup Dario De Luca, che è partito da una premessa: la sua intenzione di non farsi condizionare dal «clamore mediatico indiscutibilmente assunto dalla vicenda», motivo per cui ha deciso di evitare qualsiasi riferimento al presunto “Sistema Bibbiano”.

Foti, secondo il giudice, avrebbe «veicolato in Giovanna il convincimento di essere stata oggetto di plurimi abusi sessuali e vessazioni psicologiche», provocando in lei grande sofferenza. Presunti abusi della quale è stata lei stessa a parlare prima ancora della terapia – alla zia e alla madre -, ma il cui ricordo, secondo il giudice, sarebbe stato invece instillato da Foti, che l’avrebbe spinta ad odiare il padre, in un processo di demolizione della sua figura condannato dal giudice, nonostante sia lui stesso a definire l’uomo un «violento». Da qui lo sviluppo di un disturbo di personalità borderline, del quale il percorso psicoterapeutico di Foti avrebbe rappresentato «una componente rilevante», attraverso modalità «scorrette ed invasive», dunque, suggestive, di cui non poteva non essere consapevole, motivo per cui è stato riconosciuto il «dolo diretto». Nessuna attenuante, spiega inoltre il gup, in quanto «l’imputato non solo non ha mai mostrato segni di resipiscenza, ma ha costantemente tenuto un comportamento processuale ampiamente censurabile». Il riferimento è quello che viene definito un «tentativo di ingannare il giudice»: nel corso del processo Foti ha infatti consegnato un video fino a quel momento mancante tra quelli depositati, sostenendo si trattasse di una seduta di aprile 2016.

Un modo per fregare il Tribunale, secondo il giudice, un mero errore materiale per la difesa, che una volta visto il filmato in aula e constatata l’incompatibilità dell’abbigliamento con il mese indicato ha corretto il tiro. Per il giudice, però, si tratta «di un elemento di portante rilevanza posto che in quel colloquio è Giovanna a parlare della possibilità che ad abusare di lei all’età di 4 anni possa essere stato il padre: è chiaro, dunque, come la scorretta collocazione temporale di tale seduta nell’aprile 2016 fosse inequivocabilmente volta ad accreditare, con tale deprecabile espediente, la tesi difensiva secondo cui Giovanna, autonomamente e a prescindere dall’intervento dello psicoterapeuta, già vedeva il padre come una figura abusante». E poco importa se a parlare delle problematiche della ragazza fosse stata proprio la madre della stessa, nel primo incontro tra Foti e la donna. L’assoluzione dall’accusa di frode processuale è semplice: non ci sono prove che Foti volesse inquinare il processo civile in corso davanti al Tribunale per i Minorenni di Bologna, avente a oggetto la responsabilità genitoriale.

Ed è solo questo il reato per il quale la famiglia di Giovanna si era costituita parte civile, chiedendo un risarcimento che il giudice ha dovuto, dunque, negare. Per il legale di Foti, Giuseppe Rossodivita, si tratta di una sentenza dalla quale «traspare evidente una pregiudiziale, apodittica e convinta ( e per questo poco convincente) adesione alle tesi dell’accusa, una costante e fuori luogo denigrazione della difesa e dei suoi consulenti, piuttosto che una confutazione delle argomentazioni e dei rilievi posti durante tutto il corso del processo». Un approccio tutt’altro che sereno, secondo il legale, preoccupato «dal substrato culturale che ha animato il giudizio».

L’errore di Foti, secondo Rossodivita, sarebbe stato infatti quello di aver demolito la figura paterna. «Qui c’è un padre che ha abbandonato la famiglia, un padre violento, un padre che ripetutamente non ha creduto alla figlia, come affermato dalla madre, un padre che ha denigrato la figlia quando, bambina di 13 anni, ha avuto un rapporto sessuale “presumibilmente non consenziente” – com’è scritto in sentenza – e però la colpa di Foti sarebbe quella di aver agito per far aprire gli occhi e la mente alla figlia giunta alla soglia dei 18 anni, provocando per questo, con le sue terapie viste come denigratorie della figura paterna, l’insorgenza di una sindrome di borderline, diagnosticata da una psicologa, non psicoterapeuta, non psichiatra, che non ha nemmeno somministrato i rituali test – ha commentato -. Per il Tribunale di Reggio Emilia e la sua consulente dr. ssa Rossi, il pater familias non può mai essere messo in discussione e va comunque onorato e rispettato».

·          Vietato scrivere: “Devastato dalla separazione” o “Il dramma dei padri separati”. Il politicamente corretto ed i padri mostri folli assassini.

Maria Corbi per lastampa.it il 18 novembre 2022.

“Lo faccio per i figli”. E’ probabilmente la frase più usata in un divorzio belligerante, quello che procede a suon di colpi bassi, dispetti, denunce, richieste assurde. Quel che è certo è che se i figli potessero dire la loro chiederebbero pace. Purtroppo in questo tipo di separazioni non si fanno prigionieri e le prime vittime sono proprio loro, i tanto evocati e figli. 

Lo abbiamo visto nel divorzio Totti, dove il Francesco nazionale per il “bene” dei suoi rampolli ha pensato di accusare la loro madre di tradimento, insensibilità e anche sottrazione di Rolex con scaltrezza. Chissà che gioia per Chanel, Christian e Isabel. Ma non solo i ricchi piangono, perché queste dinamiche, come ci dice una delle più note avvocate matrimonialiste italiane (o divorziste, se preferite), Adriana Boscagli, non risparmiano nessuno. 

Avvocata Boscagli, quanto male si può fare ai figli litigando malamente?

«Tanto. Purtroppo vediamo spesso separazioni dove il dolore non controllato, la rabbia, il litigio, le pretese reciproche, il rifiuto di accettare un nuovo status alla fine travolgono la serenità dei figli». 

E’ vero che spesso anche gli avvocati non aiutano i loro clienti a intraprendere una via pacifica alla separazione e al divorzio?

«Purtroppo sì. Un buon avvocato dovrebbe contenere con convinzione, investendo tempo prezioso per spiegare le conseguenze di un conflitto. Spesso le conseguenze dannose per i figli non sono evidenti nell’immediato e questo induce a ritenere che non vi sia danno, ma non è così».

 Ecco, il danno. Cosa ha capito dalla sua esperienza?

«Il danno non è la separazione in sé, quanto piuttosto il disprezzo che i genitori manifestano l’uno nei confronti dell’altro, esponendo tutto il loro privato e, quel che è peggio, cercando di portare il figlio dalla propria parte, anche con piccoli regali, con promesse di libertà, con consensi ad oltranza, con una serie di indulgenze, oppure sottolineando costantemente di non condividere il parere dell’altro genitore, che viene più o meno evidentemente denigrato. Ecco, lì arriva la disgregazione di tutte le regole di una buona crescita». 

Quali sono le conseguenze più gravi quando il divorzio diventa una guerra?

«Il rischio minore è già una tragedia. Significa non fare il bene dei figli ma dare priorità ai propri interessi. Per bambini e ragazzi crescere in questo clima è devastante, anche per la serenità dei rapporti sentimentali che costruiranno nel futuro. L’incapacità di trovare un terreno comune in cui discutere civilmente spesso comporta inoltre che il giudice decida per percorsi, spesso pesanti, di vigilanza degli assistenti sociali.

E questi non avendo spesso mezzi e tempo adeguato alle reali esigenze a disposizione, rischiano anche di peggiorare il disagio dei minori. La più tremenda delle conseguenze è quella che induce il giudice che non ha ottenuto il contenimento del conflitto genitoriale né con inviti, né con ammonimenti a disporre l’affido dei figli ai servizi sociali o a terze famiglie». 

E’ vero che accade sempre più spesso?

«Purtroppo sì, anche se dovrebbe essere l’extrema ratio. Questo è il vero fallimento della famiglia, la vera distruzione della crescita e formazione dei figli. Altro che il loro interesse!». 

Lei ha e ha avuto tra i suoi assistiti diversi vip: la litigiosità è maggiore quando ci sono soldi e fama di mezzo?

«No, non credo. La fama diventa senz’altro uno strumento di pressione e di esasperazione del conflitto, ma la litigiosità si distribuisce in forma orizzontatale, non risparmia alcun ceto sociale. La litigiosità nasce dalla difficoltà di cambiare lo status economico, sociale, la casa, ma anche dalla perdita di potere sull’altro, dalla fatica a lasciarlo andare, dalla difficoltà ad accettare che l’altro sia felice. Poi c’è la voglia di punire l’altro per l’aver lasciato esaurire un rapporto. Nessuno fa mai veramente “mea culpa”. Si fa fatica a ritenere che un rapporto possa esaurirsi e basta». 

In letteratura si parla di «legame disperante» quando la coppia cerca inconsciamente di mantenere un legame attraverso il litigio. E’ così o invece le persone litigano solo per case e soldi?

«C’è sicuramente anche la dinamica perversa del “legame disperante”, ma rappresenta una minoranza e comunque l’effetto non cambia, poiché porta comunque alla contesa sui beni materiali. 

Nella stragrande maggioranza dei casi si discute della nuova destinazione della ex casa familiare. Sappiamo che va assegnata (lasciata in uso esclusivo) al genitore che ha con sé i figli; e ciò indipendentemente dalla proprietà e dai mutui da continuare a pagare. Questo sta creando una tendenza gravissima che riscontriamo sempre più spesso: la gara a tenere i figli con l’obiettivo recondito e inconfessato di conservare la casa. Così come si litiga per gli assegni di mantenimento di moglie o marito, ma anche dei figli, perché è diffusa la diffidenza che quel denaro non sia usato esclusivamente per loro. In tutti i casi i danni ai figli sono enormi. E la consapevolezza dei due litiganti, minima, addirittura assente». 

Una storia che la ha particolarmente colpita?

«Potrei raccontane tante. Non dimenticherò mai però la disperazione negli occhi di un giovane di 17 anni che aveva vissuto tutto il peggio di un divorzio sulla sua pelle: gli assistenti sociali, la consulenza psichiatrica, il mediatore familiare, l’audizione in tribunale, e soprattutto la manipolazione di uno dei genitori contro l’altro. Sette anni in mezzo alla guerra tra i suoi genitori, che si è conclusa purtroppo in tragedia. E nella lettera che ha lasciato, c’era tutto il dolore per essere stato usato e manipolato».

Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 3 novembre 2022. 

Il dolore, il senso di smarrimento. Ma, soprattutto, la disperazione. Quella che per un padre (e sia chiaro: per una madre è lo stesso) rappresenta lo scoglio più grande. Il non riuscire a vedere tua figlia crescere, perché nel frattempo, da quando è nata, da quando l'hai tenuta per la prima volta in braccio, la vita è stata diversa da come te l'aspettavi. A tratti pure un po' stronza. 

La separazione, il divorzio in vista. «Ti lascio questi ricordi», scrive Carlo (il nome è di fantasia, tutto il resto no) sui social qualche giorno fa. Quattro righe indirizzate a lei, alla sua bimba: «Portali con te sempre, nel cuore. Ti amerò per sempre come dal primo giorno. Ti starò vicino anche da lontano». Sembra un campanello d'allarme, questo sfogo: ma chi andrebbe a pensare che Carlo, 44 anni, di professione operaio in un paesino del basso Canavese, in Piemonte, abbia deciso di togliersi la vita? Eppure è quello che ha fatto. I suoi funerali si sono svolti la settimana scorsa, una chiesa gremita, un cordoglio molto sentito.

«Ogni tanto lo diceva, che voleva farla finita», racconta sulle pagine locali di Repubblica chi Carlo lo conosceva bene, «ma allo stesso tempo era pieno di vita e determinato a riavere la sua bambina: pensavamo solo a uno sfogo». Invece, poche ore dopo il suo ultimo compleanno, Carlo si è chiuso nella casa in cui abitava e ha deciso che no, non valeva più la pena continuare così. 

I mille problemi quotidiani, c'era anche qualche impiccio al lavoro che non va da un annetto a questa parte. Non solo la questione della figlia. Per questo la procura vuole vederci chiaro, vuole capire cosa l'abbia portato a quel gesto estremo dal quale non si torna indietro. Sono i famigliari e gli amici che ipotizzano sia stato per via di quella separazione, che lui pare vivesse come un macigno. Ma il punto è che, purtroppo, non il suo caso non sarebbe il primo, qualora venisse confermato.

«Sono tanti i padri che ci contattano e che chiedono aiuto», conferma Tiziana Franchi, la presidente nazionale dell'Associazione padri separati (padri.it), «noi siamo una piccola attività e li indirizziamo tutti da uno psicologo e poi da un avvocato civilista. Non è facile». È che fai presto a dire separazione. Una convivenza finita, un amore al capolinea. Però dopo, quando ti ritrovi da solo, magari fuori dalla casa in cui hai cresciuto i tuoi figli, cambia tutto. Ci sono le difficoltà economiche, acuite in questo periodo in cui il ceto medio è stato spazzato via dai rincari energetici.

C'è il senso di colpa, c'è che «se hai una famiglia che ti sostiene è un conto, altrimenti ti senti abbandonato». Numeri certi non esistono per due ragioni: la prima è che un censimento è impossibile da fare, la seconda è che possiamo analizzare solo i casi che, in qualche modo, vengono alla luce. Un rapporto di qualche anno fa di Eures, il Centro di ricerche economiche e sociali, sostiene che nel 2009 ben 253 uomini separati e divorziati si siano suicidati e che abbiano fatto lo stesso 64 donne. 

Statisticamente, e in termini generali, i maschi ricorrono al suicidio molto più delle femmine: però, qui, i dati da mettere sul piatto sono anche altri. Meno dell'1% dei figli di genitori separati sta con il papà, gli affidamenti congiunti riguardano la stragrande maggioranza dei divorzi (l'85,51%) e il restante 12,26% viene affidato alla mamma.

«Circa l'80% delle richieste di separazione viene dalle mogli», continua Franchi, «il problema esiste. Non va banalizzato, ovviamente ogni situazione è a se stante, ma servirebbe un senso di responsabilità maggiore». Esiste anche una sindrome, si chiama "Pas" e sta per sindrome da alienazione parentale. 

L'ha scoperta Richard Gadner, che è uno psichiatra americano e, anche se non è riconosciuta dal Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, apre la strada a un «problema molto serio. Non lo si ricorda spesso, ma questi genitori devono magari pagare un assegno di mantenimento e lo Stato non garantisce il gratuito patrocinio per chi ha un lavoro, anche se modesto, o semplicemente una macchina, cioè una fonte di reddito». Che Carlo si sia ucciso per questo oppure no ce lo diranno i giudici di Torino: ma il fenomeno, sfortunatamente, rimane.

Trattative in corso nel Bresciano. Papà barricato in casa col figlio di 4 anni, l’aggressione all’assistente sociale e la fuga: “E’ armato”. Redazione su Il Riformista il 6 Ottobre 2022 

E’ barricato da ore in casa con il figlioletto di 4 anni sottratto con violenza a una assistente sociale al termine di un incontro protetto. Apprensione massima a Roncadelle, comune in provincia di Brescia, dove sono in corso le trattative tra il papà (separato dalla compagna) e i carabinieri che hanno circondato la zona.

Secondo una prima ricostruzione, l’uomo, originario dell’Est Europa, rifiutandosi di lasciare il bambino al termine dell’incontro protetto avvenuto in un centro di Rodengo Saiano, ha aggredito nel pomeriggio del 5 ottobre l’assistente sociale, una donna di 36 anni, per poi scappare in auto e raggiungere l’abitazione di Roncadelle, dove è stato rintracciato successivamente. L’uomo sarebbe armato di una pistola (non è chiaro se vera o scenica) che avrebbe mostrato all’assistente sociale prima di scappare con il figlioletto.

Sul posto sono presenti anche i vigili del fuoco. Proseguono intanto le trattative tra il papà e i carabinieri supportati da uno psicologo che sta provando a far ragionare l’uomo.

Simona Lorenzetti per torino.corriere.it il 29 giugno 2022.

Due anni, sei mesi, 22 giorni, un’ora e 33 minuti. Un tempo che ha il sapore dell’eternità per un padre che attende di riabbracciare il figlio di 9 anni rapito dall’ex moglie. L’uomo tanto ha aspettato — da marzo 2019 a ottobre 2021 — prima di poter raggiungere la Romania e, scortato dalla polizia, fare irruzione nella scuola elementare per stringere il proprio bambino e scappare in Italia. Una fuga rocambolesca e fino all’ultimo incerta. 

 «Hanno provato a bloccarmi, le insegnanti hanno sbarrato la porta dell’istituto e gli agenti l’hanno buttata giù a spallate. Avevo i documenti in regola, eppure ho dovuto rifugiarmi in ambasciata». Il giorno dopo padre e figlio hanno percorso 450 chilometri con un bus. «Nove ore di viaggio per giungere in un’altra città, dove siamo stati ospitati da un amico. Poi la corsa all’aeroporto. Mio figlio mi ha stretto a lui per tutto il tempo». 

L’arrivo a Torino è stata una festa: «La sorella non smetteva di coccolarlo. Non so quante lacrime ho versato e ancora adesso ho il magone a raccontare questa storia: ho temuto di non rivederlo più». 

Una storia a lieto fine, costellata dalla sofferenza e dalla paura di non vedere mai più riunita la famiglia. Ora lui si gode i suoi figli: «Siamo stati in Danimarca, a Tivoli e a Legolandia. La prima vacanza insieme dopo lungo tempo. Loro sono la mia vita». Mentre l’ex moglie, una romena di 45 anni, è stata condannata a due anni e un mese di reclusione per sottrazione di minore e per aver violato le disposizioni del Tribunale che regolavano l’affido.

Nel frattempo, ha perso anche la potestà genitoriale e a ottobre sarà di nuovo sul banco degli imputati per aver picchiato la figlia maggiore con una chiave. Assistito dall’avvocato Marcello Ronfani, l’uomo si è costituito parte civile nel primo processo: «Non mi interessava il risarcimento, ho chiesto un gesto simbolico, una donazione a Save The Children». 

Per sette anni sono stati una famiglia felice: nel 2007 nasce la prima bambina e nel 2010 il maschietto. Tre anni più tardi si separano. Il Tribunale stabilisce l’affido condiviso, ma i rapporti diventano conflittuali e non sempre la donna consente all’ex di vedere i figli. L’8 marzo 2019 la situazione degenera.

«Dovevo andare a prendere i bimbi a scuola, ero in ritardo e chiesi a un altro genitore di badare ai ragazzi per qualche minuto. La mia ex era fuori dall’istituto e ha fatto una scenata: li ha presi ed è scappata a casa. Li ho raggiunti, lei non mi ha aperto. Ho sentito urlare, poi il silenzio. Poco dopo mi telefona mia figlia, aveva 12 anni: era chiusa in bagno con il fratello ed era ferita. Ho chiamato la polizia».

L’episodio finisce davanti al giudice civile che stabilisce che la ragazzina venga affidata al papà e il piccolo alla madre. Pochi giorni dopo la donna prova a rapire la figlia maggiore. Non ci riesce, ma scappa in Romania con il secondogenito. L’uomo sporge denuncia: il pm Laura Ruffino apre un’inchiesta e il gip emette una misura cautelare nei confronti della madre, che viene arrestata nella città natale. Ma il bambino non torna casa.

«Mi impediva di vederlo, di telefonargli. Sapevo che lui trascorreva ore davanti alla Playstation. Così ne ho comprata una e mia figlia si metteva in contatto con il fratello con una videochiamata. Io ogni tanto lo salutavo con la mano e restavo in silenzio. Se la madre avesse sentito la mia voce, avrebbe interrotto la comunicazione. Non volevamo perdere quell’unica possibilità di vederlo».

Disperato, il genitore attiva le procedure previste dalla Convenzione dell’Aia per riportare in Italia il ragazzino. Si reca più volte in Romania per incontrarlo, ma la famiglia materna fa scudo e in un’occasione viene malmenato: «Ho fatto dentro e fuori dai tribunali italiani e romeni. Ho rinunciato a fare carriera al lavoro per aver tempo libero e affrontare tutte le trafile burocratiche. Mi sono sottoposto a ogni verifica richiesta dai servizi sociali, come se fossi un genitore inadatto. Ma ne è valsa la pena».

Quattro tentativi di «prelievo forzato» vanno a vuoto nonostante l’autorizzazione dei giudici romeni. Poi a ottobre 2021, in piena pandemia, la svolta e il ritorno a casa del piccolo tra le braccia del papà e della sorella.

Piero Chiambretti Da leggo.it il 19 giugno 2022.

Guadagnava in media 50 mila euro al mese Piero Chiambretti, quando un accordo tra lo showman torinese e la sua ex compagna, la spezzina Federica Laviosa, 37 anni, aveva fissato a tremila euro al mese l'assegno per le spese di mantenimento della figlia, che oggi ha 11 anni. 

Ma ora che il suo reddito si è dimezzato, Chiambretti, 66 anni, lo showman torinese ha intenzione di chiedere che venga rivista la cifra sull’assegno mensile abbassandola a 800 euro, a cui si aggiungono comunque le spese per l’affitto, spese condominiali e utenze della casa in cui vivono mamma e figlia - 180 metri quadrati nel centro di Torino, non lontano da lui - e la retta della scuola privata. 

Era stato il tribunale di La Spezia nel 2016 a ratificare l’accordo tra i due ex, che domani si incontreranno di nuovo davanti al giudice (stavolta il foro competente è Torino) per discutere delle nuove condizioni. 

A motivare la richiesta di Chiambretti, oltre ai sospetti di un uso improprio del denaro da parte della donna, c’è a suo dire principalmente la riduzione del reddito, che ora è di 26 mila euro al mese. Inoltre, le cronache dal mondo dello spettacolo riportano del “divorzio” di Chiambretti dalla trasmissione Tiki Taka, che renderebbe ancora più instabile il reddito del conduttore televisivo, nonostante ci siano rumors di una sua futura trasmissione in prima serata sempre su Mediaset.

Dunque, secondo quanto riportato da Chiambretti nell’atto di citazione della sua ex, le condizioni sarebbero molto cambiate rispetto a sei anni fa, quando la coppia, che si era lasciata da pochi mesi, si era trovata davanti ai giudici liguri per discutere dell’affidamento della piccola, che in quel momento si era trasferita al mare ma era costretta a faticosi viaggi con la babysitter per andare a trovare il padre. Di qui la decisione di una casa a Torino per mamma e figlia, oltre a un assegno che ora si chiede di ridurre.

Chiambretti taglia l'assegno di mantenimento della figlia. "Da 3mila a 800 euro: il mio reddito si è dimezzato". La Repubblica il 19 Giugno 2022.  

Lo showman torinese guadagnava circa 50 mila euro al mese. La bimba di 11 anni è figlia dell'ex compagna Federica Laviosa

Guadagnava in media 50 mila euro al mese Piero Chiambretti, quando un accordo tra lo showman torinese e la sua ex compagna, la spezzina Federica Laviosa, 37 anni, aveva fissato a tremila euro al mese l'assegno per le spese di mantenimento della figlia, che oggi ha 11 anni. Ma ora che il suo reddito si è dimezzato, Chiambretti, 66 anni, lo showman torinese ha intenzione di chiedere che venga rivista la cifra sull’assegno mensile abbassandola a 800 euro, a cui si aggiungono comunque le spese per l’affitto, spese condominiali e utenze della casa in cui vivono mamma e figlia - 180 metri quadrati nel centro di Torino, non lontano da lui - e la retta della scuola privata.

Era stato il tribunale di La Spezia nel 2016 a ratificare l’accordo tra i due ex, che domani si incontreranno di nuovo davanti al giudice (stavolta il foro competente è Torino) per discutere delle nuove condizioni.

A motivare la richiesta di Chiambretti, oltre ai sospetti di un uso improprio del denaro da parte della donna, c’è a suo dire principalmente la riduzione del reddito, che ora è di 26 mila euro al mese. Inoltre, le cronache dal mondo dello spettacolo riportano del “divorzio” di Chiambretti dalla trasmissione Tiki Taka, che renderebbe ancora più instabile il reddito del conduttore televisivo, nonostante ci siano rumors di una sua futura trasmissione in prima serata sempre su Mediaset.

Dunque, secondo quanto riportato da Chiambretti nell’atto di citazione della sua ex, le condizioni sarebbero molto cambiate rispetto a sei anni fa, quando la coppia, che si era lasciata da pochi mesi, si era trovata davanti ai giudici liguri per discutere dell’ affidamento della piccola, che in quel momento si era trasferita al mare ma era costretta a faticosi viaggi con la babysitter per andare a trovare il padre. Di qui la decisione di una casa a Torino per mamma e figlia, oltre a un assegno che ora si chiede di ridurre.

Piero Chiambretti si difende: "Non voglio ridurre l'assegno per mia figlia, le ho già dato un milione". La Repubblica il 22 Giugno 2022.  

Il conduttore televisivo precisa in una nota i dettagli del contenzioso con l'ex compagna: "La volontà è di soddisfare unicamente tutte le esigenze della bambina".

"Piero Chiambretti non ha mai avuto intenzione di sottrarre parte dell'assegno di mantenimento alla figlia di 11 anni a favore della quale, dalla nascita a oggi, ha versato circa un milione di euro". La sua volontà "è esclusivamente quella di soddisfare unicamente tutte le esigenze della figlia, nel rispetto dei dettati normativi e dell'accordo intercorso tra le parti e recepito dal Tribunale di La Spezia nel 2016". Lo precisa, in una nota, l'avvocato del conduttore televisivo, Benedetta Azzurra Baggi, a proposito del contenzioso in corso al Tribunale di Torino con l'ex compagna Federica Laviosa e sulla presunta richiesta dello stesso Chiambretti.

"Si vuole, inoltre, chiarire - continua la nota - che la richiesta di Piero Chiambretti ha come solo e unico scopo il benessere della figlia, come confermato anche dalla madre della stessa, e contrariamente a quanto insinuato negli articoli usciti sino a oggi". Infine, "data la delicatezza della situazione e sperando di aver chiarito qualsivoglia dubbio, anche e soprattutto nell'interesse della minore", il legale di Chiambretti chiede di "lasciare ogni considerazione e opportuna verifica esclusivamente al Tribunale".

Irene Famà per “la Stampa” il 20 giugno 2022.  

Certi amori finiscono. E ciò che ne resta si discute in tribunale. È la realtà.

«Amara», aggiunge Federica Laviosa, 37 anni, ex compagna del conduttore Piero Chiambretti. La loro relazione è durata più di dieci anni, poi sono iniziate le incomprensioni e la scelta di lasciarsi. Una vicenda come tante, su cui la decisione ultima spetta alla giustizia civile. Lo showman, 66 anni, ha citato l'ex davanti a un giudice per chiedere «la modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento della figlia», una ragazzina di 11 anni. 

In sintesi: ha chiesto di versare non più 3.000 euro al mese, ma 800. Le sue entrate si sarebbero dimezzate, complice il contratto scaduto a maggio con Mediaset per la trasmissione Tiki Taka, passando dai 55 mila euro mensili del 2017 ai 26 mila del 2021.

Inevitabile, in questa storia, iniziare con il parlare d'amore e finire con il parlare di soldi. Anche se sia Chiambretti sia Laviosa su una cosa sono d'accordo: entrambi ribadiscono di avere un unico interesse, il futuro della bambina. «È lei il focus. Non io, non lui», ribadisce Laviosa.

Che non nasconde l'amarezza: «Avremmo potuto parlarne senza arrivare a questo punto, senza finire in tribunale. È spiacevole e si sarebbe potuto evitare. Pensi che un accordo l'avevamo anche trovato». 

Nel dicembre 2016 per l'affidamento condiviso, poi recepito dal tribunale di La Spezia, dove abitavano Laviosa e la bimba.

«Ognuno ha il suo carattere, il suo modo di reagire alle situazioni». Lei la commenta così: «Dopo una relazione tanto lunga, un grande amore, è brutto che tutto finisca in questo modo». 

Nel ricorso per la riduzione del contributo paterno alla figlia, c'è anche l'accusa che la donna «utilizzi il contributo di mantenimento per le sue esigenze personali». 

Laviosa risponde raccontando parte della sua storia: «Non è vero nulla, ho presentato anche gli estratti conti. Sono una persona normale, che vive una vita normale con la sua bambina». 

Non nega di essere una donna fortunata, «ho una bella casa in centro città. Ma non c'è altro. Ho combattuto e combatto ancora contro tanti pregiudizi». 

«In molti pensano che con Chiambretti volessi sistemarmi. Come si dice, volessi "appendere il cappello al chiodo". Non è vero niente. È stato un grande amore». 

 Il trasferimento a Torino?

«Mi sono spostata perché mia figlia potesse stare vicino al padre e per evitarle lunghi viaggi in auto da La Spezia. Anche se qui mi sono ritrovata da sola, senza nessuno. Ho lavorato come commessa e ho cresciuto la mia bambina. Lo faccio ancora ora, senza tata fissa. L'unica cosa che mi preme è bene della piccola. E che non consideri mai suo padre un "cattivo padre"». Entrambi i genitori lo ribadiscono. Il resto si risolverà in tribunale. 

Irene Famà per “la Stampa” il 21 giugno 2022.

Giovedì Piero Chiambretti era a cena allo Sfashion Cafè con la figlia.

Qualcuno si avvicina per un selfie, una stretta di mano.

Lo showman è un personaggio pubblico: a Torino, come altrove lo conoscono tutti. Una sera padre e figlia come tante. Così pare. Nel pieno di una battaglia legale con l'ex compagna, Federica Laviosa. 

"C'eravamo tanti amati".

Questo in sintesi, il discorso di lei. Ma l'amore è finito e ora si fanno i conti. Il conduttore televisivo l'ha citata in tribunale per ridurre i versamenti dovuti alla figlia da 3 mila a 800 euro mensili. 

Perché? Meno entrate. E le recriminazioni, l'accusa alla ex di utilizzare il denaro per i propri interessi.

Dissidi da adulti. La bimba, undici anni, giovedì era a cena con il papà. Ieri sera a fare il saggio di danza con la mamma. Che torna a dire: «Lei è la mia priorità». 

I genitori, nel pomeriggio, si sono ritrovati in tribunale. 

Un appuntamento, sì. Ma obbligato. Per due persone che, «dopo un grande amore», e Laviosa quel sentimento non lo nasconde, ora si ritrovano a comunicare unicamente tramite avvocati. E quando si ritrovano uno davanti all'altra non si scambiano nemmeno un saluto. 

«Avremmo potuto parlarci», ribadisce la donna. «Ma ognuno ha il suo carattere».

E così si spiega la giornata di ieri a Palazzo di Giustizia. 

Federica Laviosa, rappresentata da due legali di Bologna, Marcella De Simone e Claudia Villano, in Tribunale arriva presto. Venti minuti prima dell'udienza. I riflettori li scansa con eleganza: non è uno show.

«Tutto questo avrei preferito evitarlo. Emotivamente è difficile». Lei, 37 anni, del mondo dello spettacolo non ne ha mai fatto parte. A recitare non ci pensa proprio. E così non nega la difficoltà della situazione: «Nella nostra storia ci credevo, nonostante i pregiudizi e le cattiverie che in questi anni in tanti mi hanno riservato». 

All'arrivo di Piero Chiambretti mormora: «Dove posso andare per non incrociarlo?».

Il conduttore televisivo compare una decina di minuti prima delle 14. Abito blu, cravatta a righe blu e rosse, pochette. Sorride, allarga le braccia, saluta. Sessantasei anni, uomo di spettacolo, affronta le telecamere: «Siete una manica di sciacalli. Faremo i conti con media. Quello che c'era da dire, è già stato detto». Un altro sorriso. È abituato ai riflettori, non a quelli della giustizia. Su una cosa è certo:

«È una vicenda spiacevole, soprattutto visto che c'è di mezzo una bambina». In udienza si discutono le istanze delle parti. I legali si confrontano, producono dichiarazioni dei redditi, estratti conti, memorie. Si cerca un accordo, che non si trova. La giudice si riserva, si pronuncerà prossimamente. 

Sono i tempi della giustizia civile. I tempi dei dissidi. Federica Laviosa tenta un sorriso, ma poco convinta: «Speravo che questa vicenda, triste e amara, si risolvesse già ora. Non mi intendo di procedimenti giudiziari, ma lo speravo per il bene di mia figlia». Anche Piero Chiambretti lascia l'aula. Avvocata al seguito. Tra i due nessun saluto. E nessun accordo. Dissidi da adulti, appunto. E da grandi, si sa, fare la pace non è cosa semplice.

Massimiliano Nerozzi per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022. 

Entrando a palazzo di giustizia, poco prima delle 14, Piero Chiambretti pare aver rispolverato il piglio irriverente del Portalettere che fu su Rai 3: «Ecco gli sciacalli», dice sorridendo (stretto) ai fotografi, completo blu elettrico e cravatta in tinta, a righe rosse.

Poi respinge con garbo le domande: «Nulla, grazie».

Poco prima era arrivata la sua ex, Federica Laviosa, elegante senza essere appariscente, che il conduttore tv ha citato davanti alla settima sezione civile del tribunale di Torino, per «la modifica delle condizioni di affidamento e di mantenimento della figlia», 11 anni: chiede al giudice di ridurre il contributo al momento versato, da 3.000 a 800 euro al mese. Per due motivi, principalmente: le entrate dimezzate, da 55 a 26 mila euro mensili; e il sospetto che la ex utilizzi quei soldi «per sue personalissime esigenze». 

Almeno secondo quanto sostenuto nel ricorso firmato dall'avvocato Benedetta Azzurra Baggi, che lo tutela con il collega Nunzio Alfredo D'Angieri, detto «Pupi», personaggio leggendario: ex ambasciatore del Belize in Italia e (per Forbes) uno dei 600 uomini più ricchi del mondo. 

Va da sé, tra Chiambretti e Laviosa - assistita dagli avvocati Marcella de Simone e Claudia Villani - i rapporti sono a zero: non si guardano, non si salutano. 

«Devo proprio vederlo?», sussurra lei, in attesa dell'udienza. Su una cosa sono d'accordo: «La priorità dev' essere la felicità di nostra figlia», come detto due giorni fa dalla donna. Che aveva respinto le accuse: «Sulle spese, ci sono gli estratti conto». Piuttosto, si è trovata a combattere contro i pregiudizi: «Molti pensano che con Chiambretti volessi sistemarmi, ma non è vero: è stato un grande amore».

Lui, spiffera qualche amico, è invece arrabbiato per la piega presa dalla storia e avvilito perché la questione è diventata pubblica. Chi lo conosce giura sul suo amore per la piccola: mai ha pensato di dimezzare alcunché, semmai vorrebbe ridistribuire ciò che da sempre dà. Facendo i calcoli, sul milione di euro, dal 2011. Morale: la figlia, avuta a 55 anni, è un tesoro da tenersi stretto.

Ci sono anche le carte bollate, però, come l'accordo di affidamento condiviso del dicembre 2016, in un patto recepito dal tribunale di La Spezia, dove abitavano mamma e bambina. Un atto reso necessario dalla mancata intesa tra i due, che si erano lasciati nel gennaio precedente, e che ora Chiambretti chiede di modificare. Ribadendo però l'intenzione di assicurare alla figlia le abitudini di vita di sempre e la disponibilità a far fronte a qualsiasi circostanza per il suo benessere. Insomma, non sono in discussione gli altri impegni sottoscritti dal papà - pagamento dell'affitto, spese straordinarie e retta scolastica - ma, appunto, il contributo alla ex per la figlia. 

Dopo la rottura della relazione, la donna aveva vissuto prima a Parma, poi a La Spezia, sua città natale. Fino al trasferimento a Torino, in un appartamento poco lontano dall'abitazione di Chiambretti, per rendere più agevole la gestione: visto che la bambina dovrebbe stare con il padre due week-end al mese, impegni di lavoro permettendo. Fallito il tentativo di accordo davanti al giudice relatore Isabella Messina, ora toccherà alle parti produrre documenti e depositare memorie: prossima udienza, dopo l'estate. 

Chiambretti si difende: «Mai pensato di tagliare i soldi per mia figlia». Redazione online su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Nota del legale del conduttore televisivo: «Dalla nascita a oggi le ha versato circa un milione di euro». 

«Piero Chiambretti non ha mai avuto intenzione di sottrarre parte dell’assegno di mantenimento alla figlia di 11 anni a favore della quale, dalla nascita a oggi, ha versato circa un milione di euro». La sua «volontà è esclusivamente quella di soddisfare unicamente tutte le esigenze della figlia, nel rispetto dei dettati normativi e dell’accordo intercorso tra le parti e recepito dal tribunale di La Spezia nel 2016». Lo precisa, in una nota, l’avvocato del conduttore televisivo, Benedetta Azzurra Baggi, a proposito del contenzioso iniziato davanti al tribunale di Torino con l’ex compagna Federica Laviosa, nel quale lo stesso Chiambretti ha chiesto al giudice di modificare le condizioni di affidamento e mantenimento della figlia.

«Si vuole, inoltre, chiarire — continua la nota — che la richiesta di Piero Chiambretti ha come solo e unico scopo il benessere della figlia, come confermato anche dalla madre della stessa, e contrariamente a quanto insinuato negli articoli usciti sino a oggi». Infine, «data la delicatezza della situazione e sperando di aver chiarito qualsivoglia dubbio, anche e soprattutto nell’interesse della minore», il legale di Chiambretti chiede di «lasciare ogni considerazione e opportuna verifica esclusivamente al tribunale». L’udienza è stata rinviata a dopo l’estate.

Federica Cravero per repubblica.it il 22 giugno 2022.

È stata una storia d’amore durata 13 anni quella tra l’allenatore Massimiliano Allegri e l’ex compagna Claudia Ughi, da cui dieci anni fa è nato un bambino. Ma da oltre un anno la loro relazione viene raccontata nelle aule di giustizia, più che sui rotocalchi. Questo accade da quando il mister bianconero ha citato in giudizio Ughi per ridurre l’assegno di mantenimento del figlio da 10 mila a 5 mila euro al mese, dopo la fine dell'incarico da allenatore della Juventus nel 2019. Richiesta respinta. 

Ma la querelle continua ora in sede penale: Allegri nel 2021 ha infatti querelato la ex anche per appropriazione indebita e per violazione degli obblighi di assistenza familiare, sostenendo che la donna abbia impiegato per altri usi la cifra che doveva essere destinata al figlio.

Da quella denuncia è nata un’inchiesta condotta dalla guardia di finanza e coordinata dal pm di Torino Davide Pretti, che ha calcolato oltre 200 mila euro di spese indebite su 600 mila euro percepiti in questi anni dalla donna. Per questo è stato chiesto il rinvio a giudizio dell’indagata: l’udienza preliminare si aprirà il 5 luglio. 

Tutto nasce dagli accordi presi dopo la fine della relazione tra Allegri e Ughi. Secondo quanto stabilito nel 2017 al momento della separazione Allegri doveva versare ogni mese diecimila euro a favore del figlio, che continuava a vivere con la mamma e l’altra figlia di lei, nata da una precedente relazione, oltre a varie altre spese. Ma nel 2019 l’allenatore ha firmato il divorzio con la Juventus e cogliendo lo spunto di questa diminuzione di reddito, ha chiesto ai giudici di dimezzare il contributo fisso per il bambino.

Una domanda che è stata respinta per due volte, sia dal tribunale che dalla corte d’appello, anche perché nel frattempo Allegri ha ritrovato posto sulla panchina dello stadio della Juventus. Ma dall’analisi dei conti correnti depositati in quelle udienze, ha trovato materiale sufficiente per dimostrare la distrazione dei versamenti che finivano non solo per le spese di mantenimento del figlio, ma anche per investimenti personali della donna e anche per pagare la retta dell’università all’estero della figlia di lei.

Così, assistito dall’avvocato Pietro Nacci Manara del foro di Bari, ha portato la documentazione alla procura ed è stato avviato il procedimento penale in cui si è costituito come parte offesa. 

Dal canto suo la donna, difesa dall’avvocato Davide Steccanella del foro di Milano, ha sempre respinto al mittente qualunque accusa. In particolare ha rivendicato il fatto che il denaro sia servito per acquistare una casa a Livorno (dove entrambi sono cresciuti e si sono conosciuti), in cui il bambino passa le estati e i periodi di vacanza. 

Da golssip.it il 23 giugno 2022.

Caterina Collovati attacca Massimiliano Allegri. Di ieri le notizie secondo le quali il tecnico della Juventus ha denunciato la sua ex per appropriazione indebita. La donna avrebbe impiegato parte dei soldi destinati al figlio dell'allenatore, diecimila euro al mese, anche per altre spese e non solo per il mantenimento del loro ragazzo. 

La giornalista ha raccontato l'accaduto ai suoi follower e poi ha commentato scagliandosi contro Max: "Vivendo nella stessa casa con un'altra figlia avuta da una precedente relazione è chiaro che qualche euro del signor Allegri sia stato goduto anche dalla sorella del piccolo. Sarebbe orribile se una madre facesse vivere nel benessere un figlio si e l'altro no. Se offrisse pane e cipolla ad una e carne e pesce ad un altro. Mi chiedo per un signore che percepisce un contratto di 9 milioni di euro annui netti, dicasi 750 mila euro mese ...qual è il problema? A che livello di squallore porta l'antipatia verso una ex? Diciamolo con onestà esistono grandi allenatori di serie A ma uomini di serie C". 

Irene Famà per “la Stampa” il 23 giugno 2022.

La vita dei vip è perfetta. All'apparenza. Tra feste patinate e autografi ai fan. E pure le loro questioni sentimentali, tra tradimenti e riappacificazioni e matrimoni, appaiono facilmente risolvibili a chi vip non è. Apparenza, appunto. Perché i sentimenti, e i rancori, non guardano la notorietà. E la realtà, quando un amore finisce, è spesso la stessa: due adulti si rinfacciano mancanze ed errori, comunicano solo tramite avvocati, discutono sul versare o meno soldi ai figli. Massimiliano Allegri, di certo conosciuto per la sua carriera nel mondo del calcio ma che sui rotocalchi ci è finito spesso per questioni sentimentali, la sua ex compagna Claudia Ughi l'ha portata in tribunale a Torino. Perché? 

L'ha denunciata di appropriazione indebita e violazione degli obblighi familiari.

L'accusa di aver utilizzato parte dei soldi destinati al figlio, un ragazzo di 11 anni, per i propri interessi. Per la precisione, oltre duecentomila euro. Un accordo, i due, in sede civile nel luglio 2017 l'avevano trovato: l'allenatore bianconero si era impegnato a versargli diecimila euro mensili. Più le spese straordinarie, che poi sono quelle sanitarie, scolastiche e così via.

Nel 2019, però, la Juventus lo sostituisce con Maurizio Sarri e da quel momento Allegri resta fermo due anni, prima di tornare sulla panchina bianconera nell'estate 2021.

Così lui, il 27 gennaio 2021, chiede di abbassare la somma del mantenimento a cinquemila euro al mese. «Sono disoccupato da due anni», scrive nel ricorso. E accusa l'ex compagna di utilizzare i soldi per altri scopi, non per il figlio. «Ha distratto parte delle somme mensili», questi i termini giuridici. 

Il tribunale di Torino rigetta la sua istanza. Per ben due volte. La «disoccupazione» di Allegri è venuta meno. Certo, in quel periodo la sua condizione economica era cambiata, ma non c'era prova che quello stop avesse causato «una rilevante modifica economico-patrimoniale». Funziona così «in caso di patrimoni di rilevante entità», con «entrate da diversa origine e che vantano numerosi investimenti». E i ben informati aggiungono: «Il suo contratto scadeva il 30 giugno 2020. Nel primo anno di stop era comunque stipendiato dalla Juventus».

Il tribunale gli dà torto. Storia chiusa? Assolutamente no. Allegri insiste. E il 5 luglio 2021 denuncia la ex. Il caso finisce sul tavolo del pubblico ministero Davide Pretti, la Guardia di finanza indaga, acquisisce estratti conto, ricevute di pagamenti, e-mail che raccontano di movimenti bancari. La storia d'amore resta in tribunale. Tra due settimane Claudia Ughi siederà in aula per l'udienza preliminare. A decidere chi ha ragione e chi ha torto sarà la giustizia penale. 

«Ritengo l'accusa, oltre che infondata, anche profondamente ingenerosa per una madre che ha cresciuto nel migliore dei modi il figlio anche del querelante - commenta l'avvocato Davide Stancanella del foro di Milano, che difende la donna insieme con il collega di Torino Paolo Davico Bonino -. Confidiamo nella piena assoluzione». Massimiliano Allegri attacca. Claudia Ughi si difende. 

Non c'è stata nessuna «immoralità familiare», non ha «dilapidato i soldi del figli» a suo vantaggio. Quei duecentomila euro li ha «investiti in titoli» pensando al futuro della sua famiglia. Di cui fa parte anche un'altra ragazza, figlia di lei, nata da una precedente relazione. E ha acquistato una casa a Livorno, dove vivono i nonni, gli zii, i cugini. Dove lei e i figli «trascorrono oltre tre mesi all'anno», tra le feste scolastiche, i weekend. E il lockdown.

«Fu proprio Allegri a insistere che la famiglia trascorresse lì quel periodo» durante la pandemia, si legge negli atti. E ancora. Parte di quei soldi, Claudia Ughi li ha utilizzati per pagare la retta dell'università all'estero della figlia più grande. Ecco, forse è questa, al di là dei diverbi, la questione più amara di questa relazione finita in tribunale. Questioni giuridiche a parte. «Come si può rimproverare a una madre di non "pesare con un bilancino" tra due fratelli conviventi, facendo "figli e figliastri", nel momento in cui deve affrontare le spese quotidiane di vita comune del medesimo nucleo familiare?». 

La questione, si legge negli atti dell'inchiesta, è anche educativa. «Non pare consigliabile che, in una famiglia di tre persone, una madre acquisti, per fare un esempio, un maglioncino di minor pregio alla sorella rispetto a quello del fratellino, solo perché il padre del secondo è più ricco di quello della prima». 

Così come gli investimenti. Allegri, rappresentato dall'avvocato Pietro Gaetano Nacci Manara, obietta: se l'ex compagna dovesse morire, «a titolo esemplificativo e con tutti gli scongiuri del caso, le somme investite rientrerebbero nella successione in misura del 50% per ciascun figlio». 

Obiezione poco elegante, questo è certo. E comunque ci penserebbero i figli. Che sì, bisogna tenere lontano dai problemi, almeno così sostengono tutti. Ma poi fare pace è complesso, trovare un accordo, quando non ci si ascolta e forse non ci si sopporta più, è impossibile. E di quell'amore nato Livorno e durato 13 anni, nonostante i pettegolezzi, nonostante la cronaca scandalistica che raccontava di Allegri che lascia una fidanzata a due giorni dalle nozze, ora resta la querelle giudiziaria.

Claudia Ughi, l’ex compagna di Allegri respinge le accuse: «Poco sostenibile che si rimproveri a una madre di non fare “figli e figliastri”». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 23 Giugno 2022.

Gli avvocati della donna: accuse strumentali. L’allenatore della Juventus l’estate scorsa ha presentato una denuncia in Procura accusandola di aver «distratto in tutto o in parte a fini personali» il denaro versato ogni mese per il mantenimento del bambino.

La loro storia d’amore è stata raccontata dai rotocalchi, felici di indugiare sulla vita dell’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri e dell’allora compagna Claudia Ughi. Oggi, invece, gli strascichi di un rapporto che si è consumato dopo 13 anni di convivenza sono svelati dalle carte dell’inchiesta in cui la donna è accusata di appropriazione indebita e violazione degli obblighi di assistenza familiare. A farla finire sul banco degli imputati è stato il ct bianconero, che l’estate scorsa ha presentato una denuncia in Procura accusandola di aver «distratto in tutto o in parte a fini personali» il denaro versato ogni mese per il mantenimento del figlio, nato nel 2011.

Una relazione durata 13 anni

La vicenda giudiziaria è il capitolo finale di una relazione per anni felice. I due si innamorano a Livorno nel 2003 e poco dopo vanno a convivere. Lei ha una bambina nata da una precedente relazione. Nel 2011 nasce il loro primo figlio. Dopo 13 anni, nel 2017, la coppia si separa e in Tribunale viene sancito l’accordo per il mantenimento del piccolo. Ughi non chiede nulla per sé, ma ottiene un assegno mensile di 10 mila euro e un contributo per la casa, le vacanze e gli studi. Nel maggio 2019 Allegri si «separa» anche dalla Juventus. Due anni dopo, nel gennaio 2021, si rivolge al Tribunale di Torino. Racconta di «essere disoccupato» e che il «suo reddito è mutato per cessata collaborazione calcistica con la Juventus», perciò chiede che l’assegno mensile venga dimezzato: da 10mila a 5mila euro. L’udienza è fissata per settembre e nel frattempo Allegri (assistito dall’avvocato Pietro Gaetano Nacci Manara) querela la ex, accusandola di «aver usato per sé o per i suoi prossimi congiunti gran parte delle somme da lui versate esclusivamente per il figlio» e di averne compromesso il patrimonio con investimenti e acquisti di immobili in cui lei risulta unica intestataria. Arriva a ipotizzare che, in caso di morte, i beni sarebbero stati ereditati in maniera paritaria tra il loro figlio e la figlia di lei.

La retta universitaria per l’altra figlia

La Procura apre un’inchiesta. Il Tribunale civile respinge in primo grado e in appello la richiesta di revisione del mantenimento. L’inchiesta penale del pm Davide Pretti, invece, prosegue spedita. E la donna il 5 luglio dovrà comparire in udienza preliminare, accusata di aver «distratto» tra il 2018 e il 2021 oltre 200 mila euro. Tra le spese contestate ci sono la retta universitaria per la figlia maggiore, l’acquisto di una casa a Livorno nel periodo del lockdown (il bambino è nato nella città toscana e lì vivono i nonni) e un investimento in titoli.

La difesa della donna

Claudia Ughi, attraverso gli avvocati Davide Stecchella e Paolo Davico, respinge le accuse. Per i difensori la denuncia di Allegri sarebbe «strumentale», per «ridurre il contributo mensile a suo favore». I legali evidenziano il valore diseducativo dell’intera vicenda. «Appare — si legge nelle carte processuali — poco sostenibile che si rimproveri a una madre di non “pesare con il bilancino” tra due fratelli conviventi, facendo “figli e figliastri”». E ancora: «Sarebbe come pretendere che in un ambito familiare composto da tre persone, una madre acquisti un maglioncino di minor pregio alla sorella rispetto a quello del fratello, solo perché il padre del secondo è più ricco». Negli atti la Guardia di Finanza rileva che il denaro «non è stato dolosamente fatto sparire» dalla madre, ma investito nell’interesse del nucleo familiare di cui il bambino fa parte. Ma questo non è bastato a evitarle il Tribunale.

"Abusò delle nostre figlie". Ma aveva inventato tutto. Luca Fazzo il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Le false accuse nella causa di divorzio, le gravi colpe dei Servizi sociali nel calvario di un padre.

Un padre che da anni non può più vedere le sue bambine. Una madre che dopo la separazione lo ha accusato di uno dei crimini più abominevoli: avere abusato delle figlie. Due giudici che per due volte lo hanno assolto: ma hanno assolto anche la ex moglie dall'accusa di calunnia. In mezzo a questo scontro, i servizi sociali della ricca Monza che per tutti questi anni non sono riusciti a svolgere il lavoro di recupero che la legge assegna loro. Morale: quando tutto è cominciato le bambine avevano sette anni, ormai vanno per i dodici, verso l'adolescenza. Quel padre innocente per loro è rimasto un estraneo ed è diventato un nemico. Una intera fase del percorso che accompagna un genitore e la sua prole è perso per sempre, comunque questa storia vada a finire. 

Roberta Colombo è una giovane e combattiva avvocata milanese. Lavora spesso con le associazioni che difendono le donne maltrattate, sa quante violenze può portare con sé una unione che finisce. Ma proprio per questo sa che i torti non sono sempre e solo dei maschi. Conosce bene il fenomeno che da anni è ben presente anche ai giudici: quando un matrimonio si rompe e quando lo scontro tra gli ex coniugi diventa frontale, l'accusa di molestie sessuali viene a volte usata come un'arma impropria. A volte la donna dice di averle subite personalmente, durante l'unione. Nei casi peggiori, accusa l'uomo di avere abusato dei figli. E lo scaraventa dentro un procedimento penale da cui rischia di uscire a pezzi. 

Anche stavolta è successo così. Nel dicembre 2017, nel pieno dello scontro col marito per l'affidamento delle bambine, la donna si presenta alla Procura e lo denuncia per violenza sessuale ai danni delle figlie, con dettagli disgustosi. La Procura di Monza, dopo avere interrogato le bimbe e affidato la consulenza a un perito, chiede l'archiviazione. Il giorno prima dell'udienza, l'ex moglie deposita una nuova denuncia. Ma il giudice archivia tutto. Nuova denuncia, identica, davanti alla Procura di Milano, e nuova richiesta di archiviazione: il giudice Sara Cipolla scrive che i racconti delle bambine sono «privi di continuità logica», le descrizioni «non sono frutte del libero pensiero delle bambine ma mutuate e fatte proprie». Sono state suggestionate, insomma. «Le bambine ripetono gli stessi racconti con le stesse parole», «sorprende la conoscenza di alcuni dettagli relativi all'attività sessuale certamente non consoni all'età e così pure l'utilizzo di un linguaggio da adulto nell'offendere il padre». Ma chi le ha istigate? Per il giudice milanese, la madre era in buona fede, mossa «dalla preoccupazione per la salute e l'integrità fisica delle proprie figlie». Ma in una mail inviata ai servizi sociali di Monza, l'avvocato Colombo scrive che nel corso di uno degli ultimi incontri, il 29 aprile, la madre «si è lasciata andare a delle affermazioni di gravità inaudita». «Mi riferisco - aggiunge - alle affermazioni di non avere mai creduto alle accuse di abusi sessuali ai danni delle figlie che lei stessa ha mosso nei confronti del padre. La madre ha altresì affermato che la questione non la riguarda e che per lei è del tutto indifferente sia stato lui, altri o nessuno». «L'ho fatto - avrebbe detto la donna - per le mie bambine». 

Le carte dell'inchiesta sono urticanti, vi si legge come due figlie possano essere portate a odiare il loro padre sulla base di un ricordo immaginario. Ma vi si legge anche il comportamento inspiegabile dei servizi sociali che per due anni non eseguono quello che i giudici hanno disposto: creare uno «spazio neutro» dove il padre possa finalmente tornare a vedere le proprie figlie, sperando che quella che gli esperti chiamano «finestra emotiva» non si sia ancora chiusa del tutto. Niente da fare. L'avvocato scrive al sindaco di Monza, che è per legge il tutore delle ragazzine. Nessuna risposta. Quando finalmente gli incontri vengono organizzati, la scena è surreale: nessuno si occupa di accompagnare le bambine dal padre, la madre le scarica all'ingresso, loro ovviamente rifiutano. Il padre resta lì, in una stanza, ad aspettare le figlie che non vede da cinque anni. Invano.

Samarate, madre e figlia di 16 anni uccise in casa, ferito anche l’altro figlio: fermato il padre. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022.

Le donne di 56 e 16 anni trovate alle 8 in un’abitazione in via Torino, a Samarate (Varese). Gravemente ferito il ragazzo di 23 anni. A dare l’allarme i vicini di casa. Il padre di 57 anni trovato insanguinato e ferito ai polsi.

Samarate, donna trovata morta in casa con i due figli. Chiara Nava il 04/05/2022 su Notizie.it.

Questa mattina, mercoledì 4 maggio, intorno alle 8 sono stati trovati i corpi di una donna e dei suoi due figli in un'abitazione di Samarate. 

Oggi, 4 maggio, intorno alle 8 del mattino, in un’abitazione di Samarate sono stati trovati i corpi di una donna e dei suoi due figli. L’ipotesi è quella di una tragedia in ambito familiare. 

Una terribile tragedia si è consumata questa mattina, mercoledì 4 maggio, a Samarate, in provincia di Varese. Un ritrovamento che ha lasciato tutti senza parole, avvenuto intorno alle otto di questa mattina. In un’abitazione sono stati rinvenuti i corpi senza vita di una donna e dei suoi due figli. Al momento non si conoscono ancora i dettagli di quello che può essere accaduto prima della loro morte. 

Ipotesi tragedia in ambito familiare

La dinamica di quanto accaduto è ancora da chiarire e le indagini sono in corso. L’ipotesi è quella di una tragedia in ambito familiare. A dare l’allarme sono stati i vicini di casa della donna. Sul posto sono arrivati immediatamente i carabinieri del Comando Provinciale di Varese. Sull’accaduto è ancora tutto da chiarire, ma tra le prime ipotesi c’è anche quella che possano esserci dei feriti. Su Facebook sono stati diffusi i primi video che riprendono i soccorsi. 

Andrea Camurani per corriere.it il 4 maggio 2022.

Due donne uccise probabilmente a martellate nella loro villetta: madre e figlia. E un ferito grave, il figlio maggiore. È il bilancio della tragedia famigliare avvenuta nella notte fra martedì e mercoledì a Samarate, non distante dall’aeroporto della Malpensa, in via Torino. Stefania Pivetta, 56 anni, e la figlia di 16 anni, Giulia, sono morte per i colpi ricevuti. È stato fermato Alessandro Maja, marito e padre di 57 anni, trovato insanguinato e con ferite da taglio ai polsi.

I soccorsi in ospedale

La quarta persona coinvolta nei fatti è il secondo figlio di Maja, Nicolò, 23 anni, trovato con un importante trauma cranico: le sue condizioni sono al vaglio del 118 che ha disposto il ricovero urgente in elisoccorso all’ospedale di Circolo di Varese. Anche Alessandro Maja è stato portato in ospedale a Busto Arsizio per accertamenti: non è chiaro se le ferite che ha riportato siano dovute solo a gesti di autolesionismo o anche alla colluttazione con moglie e figli che hanno provato a difendersi. È piantonato in reparto dai carabinieri.

Cosa è successo

Maja avrebbe colpito i figli e la moglie nel sonno, per poi tentare il suicidio. L’uomo, secondo una prima ricostruzione dei carabinieri, avrebbe impugnato un martello e si sarebbe accanito su tutta la famiglia, uccidendo Stefania Pivetta e Giulia, per poi scagliarsi contro il figlio maggiore Nicolò. Successivamente, a quanto emerso, avrebbe tentato di darsi fuoco. 

L’allarme dei vicini e l’indagine dei carabinieri

L’allarme è stato dato mercoledì mattina attorno alle 7.30 dai vicini di casa, spaventati dalle urla che provenivano dalla casa di via Torino. Sul posto i carabinieri della compagnia di Busto Arsizio e del reparto operativo di Varese.

Andrea Galli per corriere.it il 4 maggio 2022.

Ha preso moglie e figlia 16enne a martellate, la prima sul divano del salotto e la seconda nel letto della sua camera. Dormivano Stefania e la giovanissima Giulia. Per ucciderle potrebbe essersi accanito anche con un trapano. 

Era convinto di aver ammazzato anche il figlio maggiore, Nicolò. Poi è uscito in strada, ancora insanguinato, e davanti ai vicini che lo guardavano inorriditi ha detto: «Li ho uccisi tutti, bastardi». 

Alessandro Giovanni Maja, 57 anni, l’ennesimo killer famigliare nella provincia di Varese, è un nome assai noto nel settore dell’interior design. Architetto conosciuto fino ad oggi solo per idee ed energia, mai fermo, anzi sofferente quando a corto di nuovi progetti, specializzato nella realizzazione di spazi architettonici non soltanto in Italia.

Il suo studio, con sede sui Navigli, e composto in maggior parte da giovani, è un punto di riferimento per imprenditori e commercianti che vogliono vestire i propri spazi. Mondo del design che ora è sotto choc e attonito di fronte alla violenza scatenata nella villetta di via Torino, a Samarate. Lui si trova piantonato in ospedale, con varie ferite (ha tentato anche di darsi fuoco). Non ha risposto alle domande del pm di Busto Arsizio. 

Il matrimonio in crisi

Maja – uno di quelli che parlano sempre, specie di se medesimi – aveva raccontato, nel suo ambiente, delle difficoltà nel suo matrimonio. Difficoltà che, se pure venissero confermate, non offrirebbero comunque giustificazione alcuna al progetto stragista che il 57enne ha quasi completato in questa villetta, né sfacciata né anonima, di Samarate. «Quasi», perché nelle sue intenzioni Maja voleva eliminare tutti i componenti della famiglia. 

Cosa è successo

Maja avrebbe colpito i figli e la moglie nel sonno. Secondo una prima ricostruzione dei carabinieri avrebbe impugnato un martello (e forse anche un trapano) e si sarebbe accanito su tutta la famiglia, uccidendo la moglie Stefania Pivetta e la figlia 16enne Giulia, per poi scagliarsi contro il figlio 23enne Nicolò (grave trauma cranico). 

I due ragazzi sono stati aggrediti mentre dormivano nella loro camera, la madre sul divano. Successivamente, ancora sporco di sangue, Maja avrebbe tentato di darsi fuoco. 

I testimoni

«Era per terra, con le ferite che sanguinavano, col corpo metà dentro e metà fuori dalla porta di casa e diceva: “Li ho uccisi tutti, bastardi”», hanno raccontato sconvolte le vicine che hanno chiamato i soccorsi. «Lo ha detto con tono tranquillo, in apparenza non era agitato». E dire che fino al giorno prima i Maja sembravano «una famiglia da Mulino Bianco. Perfetta».

Alessandro Maja e il piano per la strage in famiglia: cacciavite, martello, trapano, coltello. «Finalmente ci sono riuscito». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2022.

L’architetto Maja ha pianificato i delitti: le armi disposte sul tavolo. Morta la moglie Stefania Pivetta e la figlia 16enne Giulia, gravissimo il figlio 23enne Nicolò.

Alle quattro della notte tra martedì e mercoledì, l’architetto e imprenditore Alessandro Giovanni Maja, specializzato in ristrutturazioni di bar e interior design, ha disposto sul tavolo le armi casalinghe della pianificata strage e uscita di scena: un cacciavite, un martello, un trapano e un coltello. Battendolo con il martello, il 57enne si è servito del cacciavite per uccidere la moglie Stefania Pivetta, d’un anno minore e venditrice ambulante di prodotti di bellezza, che riposava sul divano, sotto un plaid, al piano terra; con gli identici strumenti e identica modalità d’azione, Maja ha assassinato la figlia 16enne Giulia, che dormiva nella stanza al piano di sopra, e ha disceso le scale convinto d’aver ammazzato anche il primogenito Nicolò, 23 anni, ugualmente a letto e nella propria camera. A quel punto, il piano era realizzato. Mancava l’ultimo atto, cioè eliminare se stesso. Con trapano e coltello.

«Finalmente ci sono riuscito»

Maja si è però soltanto ferito, prima di uscire in mutande e urlare in via Torino, a Samarate, 16mila abitanti in provincia di Varese, non lontano dall’aeroporto di Malpensa: «Finalmente ci sono riuscito». Ha ammesso nell’immediatezza le proprie responsabilità, di fatto confessando, ma non si è ripetuto nell’ufficialità, quando è stato interrogato in ospedale, dopo la suturazione dei tagli sui polsi e sull’addome, non profondi (s’ignora se davvero volesse togliersi la vita o sia stata una sorta di messinscena).

La famiglia Maja

L’antecedente stato della famiglia residente al civico 32, in una villetta a due piani con giardino e piccola piscina, non aveva generato interventi delle forze dell’ordine. Se litigi c’erano stati nella coppia, poiché è emerso un rapporto logorato tra moglie (sostenuta dai figli) e marito (davanti allo scenario di una ormai inevitabile separazione), questi non erano sfociati in denunce o richieste di aiuto alle autorità. In pari modo, i vicini di casa, richiamati dalle urla di delirio di Maja che ripeteva la sequenza di morte e ne esultava, hanno riferito di non aver mai udito l’eco di tensioni famigliari. All’ingresso dei carabinieri (le 7.30), l’intera abitazione era una scia di sangue.

Le indagini, la droga, il lavoro

Nicolò versa in condizioni disperate, da valutare l’impatto dei colpi ricevuti al cranio, che potrebbero comprometterne l’esistenza dal punto di vista neuro-motorio. Gli investigatori escludono il rinvenimento di tracce di droga, ma rimangono da capire due circostanze. La prima: se Maja, la cui società ha sede sui Navigli a Milano, ha firmato con il suo team lavori in Italia e nel mondo, in stazioni ferroviarie e scali a cominciare dal medesimo aeroporto di Malpensa, abbia assunto stupefacenti nella fase di preparazione del massacro. La seconda: se Maja fosse seguito da uno psichiatra, magari all’insaputa della famiglia, alla quale è convinto d’aver dato ogni tipo di sostegno e aiuto possibile, e d’esser stato «ringraziato» con l’invito ad andarsene una buona volta e lasciare in pace Stefania, che al termine di un lungo periodo senza lavoro aveva voluto rimettersi in gioco, anche consolidando una personale posizione economica per non dipendere in via esclusiva dal marito.

La ricostruzione dei fatti

Le autopsie forniranno ulteriori elementi, o quantomeno aiuteranno a meglio ricostruire, per quanto inutile essa sia, la reale dinamica dei fatti. Il letto matrimoniale era intatto. Maja potrebbe esser rientrato tardi — lo faceva spesso, in seguito a serate nei locali con i clienti —, essersi spogliato e aver agito. Probabile che abbia proceduto con velocità, tenendosi il resto della notte per valutare se colpirsi. Forse ha atteso. Forse è svenuto. Poi il risveglio. E quell’annuncio dal balcone dato al quartiere intero: «Finalmente ci sono riuscito». (ha collaborato Andrea Camurani)

Alessandro Maja, l’architetto e l’ossessione per i soldi: le liti in famiglia perché «si spende troppo». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

I conoscenti del padre assassino di Samarate hanno tracciato il ritratto di un uomo solitario e con improvvisi scatti d’ira, che si lamentava della crisi per la pandemia e rimproverava moglie e figli. Resta in fin di vita il primogenito.

Negli scrupolosi colloqui degli inquirenti con colleghi e collaboratori di lavoro, parenti, amici sia dell’assassino che delle vittime, di lui, il 57enne Alessandro Maja, emergono queste note aggiuntive al profilo già tracciato di uomo solitario e poco loquace, uso a improvvisi scatti d’ira per inezie : un individuo esasperato in certe sue (vere o false) preoccupazioni, desideroso d’avere ogni cosa sotto controllo, spinto dal sospetto e dalla diffidenza verso il prossimo. Tutti quanti inclusi.

A cominciare dalla moglie Stefania e la figlia Giulia, uccise nel sonno tra martedì e mercoledì, e dal primogenito Nicolò, che Maja credeva ugualmente morto e che invece rimane ricoverato in condizioni drammatiche. Quei conoscenti evidenziano una mania dell’architetto-imprenditore: i soldi. Maja era convinto che in famiglia si spendesse troppo.

Il giro del denaro

Non faceva che ripeterlo. Sgridate a Stefania, venditrice ambulante d’un anno minore, e stanca, stanchissima di quelle ossessioni; sgridate a Giulia e Nicolò, di 16 e 23 anni, che avevano preso le difese della mamma, nella speranza che Maja la smettesse una buona volta. E invece discussioni, arrabbiature, reiterazione dei sermoni affinché non un euro andasse perduto. Una quotidianità tesa, logorante, e forse basata su esclusive costruzioni mentali dell’assassino, il quale insisteva nel parlare dei devastanti effetti economici della pandemia sulla sua azienda, piangendo miseria. Azienda che però, quantomeno a leggere l’ultimo bilancio depositato e dandolo per buono, cioè non truccato, vantava crediti di riserva vicini ai 200 mila euro. Insomma un generale quadro di sicurezza, grazie anche alle iniezioni di denaro contante di commercianti cinesi ai quali Maja ristrutturava bar e ristoranti. A meno che, certo, non vi fossero anomale situazioni debitorie e oscuri giri di denaro: scenari che i carabinieri non hanno evidenziato, in un’inchiesta che potrebbe venerdì, con l’interrogatorio, generare nuovi elementi. Sempre che l’imprenditore parli e, al contrario di quanto successo mercoledì, non si avvalga della facoltà di non rispondere.

I fiammiferi

Una trincea di silenzio rotta però dalle frasi pronunciate da Maja negli spostamenti tra il primo e il secondo ospedale, e il carcere. Dapprincipio, affacciandosi in mutande dal balcone all’alba di mercoledì, dopo il massacro nella villetta a due piani a Samarate, 16 mila abitanti in provincia di Varese, aveva urlato: «Ci sono riuscito», a conferma di un piano sanguinario ideato e coltivato per settimane fino alla sua attuazione, armato di cacciavite e martello; ma nelle ultime ore, Maja ha iniziato a maledirsi, la testa fra le mani e una frase ribadita: «Sono un mostro». Se abbia già iniziato a orientare la linea difensiva, non è dato sapere. Di sicuro quel presunto tentativo di togliersi la vita dopo il massacro è stato piuttosto una messinscena: Maja aveva dei lievi tagli a polsi e addome; inoltre aveva una leggera bruciatura a un sopracciglio, causata dalla fiammella di un cerino.

A domanda sull’eventuale rinvenimento di droga, medicinali, appunti relativi a visite psichiatriche, viene risposto che nell’abitazione, al di là della scia di sangue in ogni camera, nient’altro c’era di utile per i riscontri. Venerdì l’esame del medico legale permetterà la ricostruzione della sequenza della notte d’orrore, quando alle quattro Maja ha impugnato le armi casalinghe avviando il terzo massacro in cinque mesi in questa provincia ricca, impaurita, angosciata da se stessa. (ha collaborato Andrea Camurani)

Alessandro Maja, le scuse alla figlia la sera prima della strage premeditata. Una messinscena il tentativo di suicidio. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

La 16enne Giulia lo aveva raccontato al nonno. Convalidato il fermo dell’architetto assassino, ricoverato in psichiatria. Ancora gravissimo il figlio 23enne Nicolò.

Come messo due volte a verbale, in principio con un resoconto approssimativo e nella seconda fase fornendo più dettagli, Giulio Pivetta aveva raccolto dalla nipote Giulia una confidenza che confermerebbe la premeditazione della strage. Lunedì sera, il giorno prima del massacro nella villetta a due piani di Samarate, in provincia di Varese, Alessandro Maja aveva avvicinato la figlia, le aveva chiesto scusa senza altro aggiungere, e se n’era andato. L’indomani, Giulia, 16 anni, uccisa dallo stesso Maja insieme alla mamma 56enne Stefania (il fratello Nicolò, 23 anni, è ricoverato in gravi condizioni), ne aveva appunto parlato col signor Giulio, il nonno, domandandogli un parere sui motivi del gesto. Nessuno dei due era riuscito a dare una risposta plausibile, né purtroppo a presagire scenari d’orrore.

In psichiatria

Mancavano poche ore alla strage, iniziata alle quattro della notte tra martedì e mercoledì, della durata di forse pochi secondi, e condotta con armi casalinghe quali un cacciavite e un martello. Una strage dai numerosi punti ignoti, in attesa dell’interrogatorio di garanzia del gip: considerando le condizioni del 57enne Maja, ricoverato in psichiatria, la cui azienda ha sede sui Navigli a Milano (ristrutturazioni e interior design specie di locali, e sembra in misura maggiore di commercianti cinesi), il giudice ha posticipato l’incontro con l’assassino. Che in famiglia insisteva nel parlare di gravi problemi economici e invitava, sovente degenerando nei toni e nei modi, a contenere le spese domestiche, che avevano ormai stancato sia la moglie, che pensava al divorzio, sia i figli, che difendevano la donna.

Il giro del denaro

Eppure al momento, il medesimo legale di Maja, l’avvocato Enrico Milani, non ha traccia documentale di disastri societari. Il che non esclude che vi fossero, anche contando, come scoperto dagli inquirenti, il voluminoso giro di denaro in nero che caratterizzava gli affari. Già ricostruito dal Corriere , l’ultimo bilancio depositato, ammesso che non fosse stato falsificato, contempla 200mila di euro accantonati per le emergenze, un ammanco di 16mila euro, riferito alla morosità di un inquilino in un immobile di proprietà, presto sanato, infine un’esposizione non pericolosa con le banche. Ma si tratta, conviene ribadirlo, delle carte ufficiali: infatti è mistero su cos’altro ci fosse dietro, magari nel mondo oscuro di prestiti in contante esterni agli istituti di credito, se non spregiudicate operazioni prive di copertura. Insomma, una doppia esistenza di Maja, forse popolata da soggetti che l’avevano minacciato e rivolevano ogni singolo centesimo. A causa di questa ipotetica situazione contingente (gli inquirenti non hanno ancora scoperto una traccia), l’assassino sconfinava nella disperazione presagendo un futuro di povertà per sé e la famiglia.

«Sono un mostro»

A meno che, certo, siano tutte esclusive falsità, costruzioni mentali, invenzioni di un uomo poco loquace, facile all’ira improvvisa per inezie, ossessionato dalla pianificazione della vita, col perenne terrore delle novità e delle incertezze. Compiuto il massacro, Maja ha realizzato la messinscena del tentato suicidio (lievi ferite e un sopracciglio bruciacchiato), per poi uscire al balcone, in mutande, e urlare «finalmente ci sono riuscito». Negli accompagnamenti tra ospedale e carcere, ha mormorato: «Li ho uccisi io, sono un mostro». L’arresto è stato convalidato. Al termine del ricovero in psichiatria, Maja tornerà in cella. Sorvegliato a vista nel timore concreto che provi a togliersi la vita.

Samarate, Alessandro Maja e l’accordo con la moglie (socia di maggioranza): «Alla famiglia tutti gli utili dell’azienda». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

Omicidi Samarate, nel 2018 la costituzione di un fondo patrimoniale davanti al notaio: Stefania Pivetta aveva la maggioranza delle quote della società di design d’interni. Sequestrati gli uffici a Milano. Affari in nero e operazioni finanziarie spericolate: la pista degli inquirenti. 

Il 31 gennaio 2018, Alessandro Giovanni Maja e la moglie Stefania Pivetta firmarono un atto nell’ufficio di un notaio di Gallarate. I coniugi, che si erano sposati nel 1992 in regime di separazione dei beni, dichiararono di costituire un fondo patrimoniale «destinando a far fronte ai bisogni di famiglia» la società di Maja (in realtà la maggioranza delle quote apparteneva alla stessa moglie). Nella notte tra martedì e mercoledì, l’architetto-imprenditore ha ucciso sia Stefania sia la figlia di 16 anni Giulia, e ferito il primogenito Nicolò, 23 anni, che rimane ricoverato in prognosi riservata, con mille dubbi legati alle condizioni neurologiche.

L’interrogatorio rinviato e gli uffici sequestrati

Gli uffici dell’azienda sul Naviglio Pavese a Milano sono stati sequestrati dai carabinieri su ordine della Procura, che ha disposto il prelievo di computer e documenti. In attesa che il killer racconti le proprie verità (rinviato l’interrogatorio di garanzia essendo lui in un letto di psichiatria), gli inquirenti insistono nella ricerca di eventuali segreti di Maja, 57 anni, uno in più di Stefania: potrebbero esserci state spericolate operazioni finanziarie, prestiti esterni alle banche, investimenti sbagliati con le persone sbagliate. Gente che magari non perdona, che avrebbe minacciato, che incalzava garantendo imminenti punizioni. Già acclarato dagli accertamenti il sostanzioso giro di «nero» che caratterizzava il lavoro di Maja, ristrutturatore e interior design specie di locali (con un costante aumento di clienti della comunità cinese), bisogna ricordare che la lettura delle carte ufficiali della società nulla ha svelato. I conti erano in ordine. L’unica perdita ammontava a 16mila euro e si riferiva alla morosità di inquilino in affitto in una delle case di proprietà dell’azienda, il cui nome è «Jam e Vip srl».

L’ossessione dei soldi e il fondo di famiglia

Nell’atto dal notaio nel 2018, vanno sottolineati alcuni passaggi inerenti quel fondo patrimoniale di Maja e Stefania, uccisa (come Giulia) nel sonno e colpita da un cacciavite «azionato» contro viso e testa da un martello. Ebbene, «nei confronti della “Jam e Vip srl”» marito e moglie «vengono delegati ed autorizzati a riscuotere gli utili di pertinenza delle rispettive quote di partecipazione, fermo restando che detti utili dovranno, comunque, essere utilizzati per i bisogni della famiglia». Proprio quella sua famiglia nell’ultimo periodo ossessione di Maja, convinto che moglie e figli spendessero troppo nonostante gli enormi problemi. Quali di preciso lo s’ignora, forse perché l’architetto-imprenditore, uno poco loquace e assai diffidente, non l’aveva mai detto, pur ribadendo che bisognava risparmiare, spesso esagerando nei toni e nei modi. Specie Stefania era ormai appesantita da una profonda stanchezza, che l’aveva portata a considerare la separazione, parlandone con le amiche. Dopodiché, discorsi sul tema dei presunti ammanchi di denaro (Maja prospettava un futuro di estrema povertà) non entravano nemmeno nell’intimità della villetta a Samarate, 16mila abitanti in provincia di Varese: ovvero l’abitazione a due piani, con box e piccola piscina nel giardino, scena del crimine e della recita dell’architetto-imprenditore che ha finto di togliersi la vita bruciandosi un sopracciglio con un cerino. Prima di uscire in mutande sul balcone urlando: «Finalmente ci sono riuscito». Salvo poi, negli accompagnamenti tra l’ospedale e il carcere, il carcere e l’ospedale, mormorare: «Li ho uccisi io, sono un mostro».

Samarate, il giallo dell’incursione nella villa della strage. «Cercavano documenti su Alessandro Maja». Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.

Strage in famiglia, qualcuno ha rotto i sigilli nella notte tra martedì e mercoledì. Nella casa oggetti di valore e contanti. Il procuratore Nocerino: «Opera di balordi o una ragazzata macabra, non sembra si tratti di ladri».

La porta spalancata e forzata, i sigilli rimossi, almeno due stanze a soqquadro: blitz di ignoti nella villetta a due piani di Samarate, in provincia di Varese, dove una settimana fa l’architetto-imprenditore Alessandro Maja ha ucciso la moglie 56enne Stefania Pivetta, la figlia Giulia, di 16 anni, e ha ferito gravemente, sempre utilizzando cacciavite e martello contro volto e testa, il primogenito 23enne Nicolò. I carabinieri parlano di «segni di spostamento» all’interno dell’abitazione. Difficile stabilire cosa sia stato portato via. Lo potrebbero ovviamente dire soltanto Maja e Nicolò, il primo ricoverato in Psichiatria e il secondo sempre in prognosi riservata dopo l’intervento per rimuovere frammenti di ossa nel cranio. «C’erano orologi di valore, oggetti di un certo pregio, sicuramente anche contanti, ma non risulta che nulla sia stato rubato», ha spiegato il suocero di Alessandro Maja.

L’allarme dei vicini di casa

Mercoledì mattina, quando una vicina di casa appena uscita per andare al lavoro ha lanciato uno sguardo al cancello in metallo, che era chiuso, e poi all’ingresso dell’abitazione, qualche metro oltre la recinzione, con la porta in legno trovata aperta, ha notato l’anomalia. Ma chi erano? Vandali? Mitomani? Oppure forse bisogna cambiare radicalmente scenario, perché gli inquirenti non escludono che gli ignoti fossero alla ricerca di documenti, magari collegati al misterioso passato di Maja, anche se tutto quello che andava sequestrato per gli accertamenti era già stato prelevato dai carabinieri. «Dovremo capire se sono stati dei balordi o è stata una ragazzata macabra. Non sembra si tratti di ladri», dice il procuratore di Busto Arsizio Carlo Nocerino.

Il sindaco Enrico Puricelli

Il paese s’interroga. Di nuovo. «Non dico che non si stava più parlando di questa storia, è uno dei più gravi fatti di cronaca degli ultimi anni... Ma fino a ieri mattina i pensieri di tutti erano rivolti a Nicolò e alla data dei funerali. Dopo quanto successo tutti aggiungono altri discorsi, altre ipotesi a questa storia...», racconta il sindaco, Enrico Puricelli, che ha incontrato i familiari delle vittime: «Hanno espresso il desiderio di celebrare le esequie a Samarate, dove i ragazzi sono stati battezzati, ma non conosciamo la data». Intanto lui, l’assassino, è piantonato in ospedale, in attesa che le condizioni permettano di rispondere alle domande del giudice per le indagini preliminari, che in ogni modo aveva subito convalidato l’arresto.

Strage di Samarate, i «fantasmi» di Alessandro Maja e l’incubo delle penali per un progetto sbagliato. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022. 

Un primo commercialista per sé e la propria attività di architetto e imprenditore; un secondo commercialista per gestire gli affari della famiglia. Con questa scelta, peraltro non infrequente e nemmeno anomala, i l 57enne Alessandro Maja aveva comunque marcato la distanza tra i suoi due mondi. I commercialisti che curavano i bilanci dell’assassino della moglie Stefania, di un anno minore, e della figlia 16enne Giulia (il primogenito Nicolò, 23 anni, è ricoverato in gravi condizioni, si temono conseguenze neurologiche), sono stati ascoltati dagli inquirenti, i quali insistono nell’esplorazione del conto corrente di Maja alla ricerca di conferme rispetto a una «genesi» nell’azione dello stesso omicida. Ovvero la narrazione di rovesci economici, di pesanti e insanabili debiti, di spaventosi «scoperti».

Le spese in famiglia

Al momento nulla risulterebbe e così, anche la persecutoria e datata sequenza di frasi indirizzate contro Stefania e i ragazzi su presunti eccessi nelle spese domestiche, non avrebbe traccia nella dimensione esistenziale di un uomo che ha colpito a volto e capo le vittime armato di cacciavite e martello. Erano le quattro. Tre ore e mezza dopo, l’assassino era uscito in mutande sul balcone della villetta a due piani di Samarate, paese di 16mila abitanti non lontano da Malpensa, urlando «Finalmente ci sono riuscito», a conferma di una premeditazione. Il piano dell’architetto, incensurato e descritto come dedito al lavoro, uno poco loquace col prossimo, facile all’ira improvvisa, forse prevedeva un ultimo gesto. Il suicidio. Abbiamo scritto «forse» in quanto Maja, che aveva tentato d’ammazzarsi manovrando il medesimo martello insieme a un trapano e un coltello, aveva riportato ferite superficiali a polsi e addome. Dopodiché, a distanza di oltre due settimane dal massacro, permangono misteri che s’ignora se avranno mai un minimo riscontro, o se piuttosto siano mere fantasie, invenzioni, un vortice di auto-suggestione dell’architetto.

L’interrogatorio di Alessandro Maja

Maja è ancorato a problematiche mentali, tanto che l’interrogatorio del gip, rinviato di giorni, è sì avvenuto ma nell’ospedale che ha accolto nel reparto di Psichiatria un paziente poi imbottito di farmaci e gravato da assopimenti, confusione, smarrimento. Col tacito timore di molti che la prossima e lunga permanenza in prigione possa innescare nuovi, e stavolta più determinati, tentativi di togliersi la vita. Permangono dunque misteri ma uno scenario inizia a configurarsi, grazie alle frasi pronunciate da collaboratori dell’architetto. Il tema è quello di un recente progetto di ristrutturazione di un locale di una nota catena.

Il progetto «sbagliato»

Maja avrebbe sbagliato o si sarebbe convinto di un completo fallimento — non è esclusa l’ennesima erronea mal interpretazione della realtà — del cantiere, e di aver compiuto errori dopo il coinvolgimento di maestranze per interventi che andavano al contrario azzerati e dopo aver anticipato forse a proprie spese l’acquisto di materiale. Infine realizzando un’opera sgradita al committente obbligato a rinviare l’inaugurazione, e sotto il rischio di pagare penali e di oberare il già critico (ma da appurare) stato finanziario di Maja. Ebbene quegli ex collaboratori, creativi e artigiani di differenti generazioni tenute unite dall’architetto, «un bravo gestore delle risorse umane», si sono da subito smarcati dall’ex «capo», casomai subiscano contraccolpi in termini di rete di relazioni e futuri incarichi. Lasciando sospeso ogni commento di natura morale, queste persone stanno via via fornito una discreta ricostruzione — uno di loro ha accettato di confidarsi col Corriere —, per appunto introducendo l’«ipotesi» connessa agli sbagli, veri o inesistenti, in quel progetto. I famigliari di Stefania, uccisa per prima (dormiva al piano terra mentre Nicolò e Giulia, che si era svegliata e aveva cercato una resistenza, riposavano di sopra) hanno da subito «cancellato» ogni tipo di dibattito: esiste la piena e assoluta imputabilità dell’assassino; che insomma nessuno si azzardi a sondare un’incapacità di intendere e di volere. Ma sarà la giustizia a decidere.

Omicidio Samarate, i parenti delle vittime: "La sera prima della strage Alessandro Maja aveva chiesto scusa a sua figlia". Ilaria Carra su La Repubblica il 6 Maggio 2022.  

Indagini in corso sul duplice omicidio nella villetta di famiglia: l'ipotesi di una ossessione del 57enne per un presunto fallimento economico.

Era sempre stato un tipo molto attento alle spese. Una rigidità imposta anche a moglie e figli, o almeno così riportano famigliari e amici. Ma nelle ultime settimane il suo attaccamento ai soldi aveva preso un'altra piega. Alessandro Maja era ossessionato dal timore di non averne più, di fallire, di finire in bancarotta. È l'ultimo aspetto che sta emergendo nelle indagini dei carabinieri di Varese coordinati dalla procura di Busto Arsizio sulla

Samarate, Stefania Pivetta e la figlia Giulia di 16 anni uccise, ferito l'altro figlio: arrestato il padre Alessandro Maja. Ilaria Carra su La Repubblica il 4 maggio 2022.

In provincia di Varese, l'allarme dei vicini alle 8. Le vittime sono una donna di 56 anni e sua figlia Giulia, uccise nel sonno a martellate. La moglie avrebbe parlato di separazione con un avvocato.

I corpi di una donna di 56 anni, Stefania Pivetta, e di sua figlia di 16 anni Giulia sono stati trovati senza vita verso le 8 fa in un'abitazione di Samarate, in provincia di Varese. Ferito in modo grave anche l'altro figlio, Nicolò, un 23enne. Sul posto trovato Alessandro Maja, il marito della donna e padre dei ragazzi, un uomo di 57 anni trovato insanguinato e, sembra, con ferite da taglio sui polsi. La prima ipotesi, per cui l'uomo è stato fermato, è che durante la notte abbia ucciso moglie e figlia a martellate e abbia tentato di uccidere anche il figlio, provando poi anche a darsi fuoco. In un primo momento si era diffusa la notizia che anche il ragazzo fosse stato ucciso. "Cercheremo di capire meglio le dinamiche dell'accaduto dal figlio Nicolò, sperando che si possa riprendere", spiega il comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Varese David Pirrera. L'allarme è scattato questa mattina dai vicini, che hanno subito chiamato le forze dell'ordine quando hanno visto l'uomo sporco di sangue. "Ancora è tutto da accertare - spiega il comandante - anche l'arma del delitto non è stata ancora individuata con certezza".

Samarate, uccide moglie e figlia nel sonno e ferisce il figlio: l'allarme dei vicini

Il figlio ferito avrebbe comunque un grave trauma cranico: è stato trasportato all'ospedale di Circolo di Varese. Anche il padre è stato portato in ospedale a Busto Arsizio, sembra per medicare i tagli che - da una prima ricostruzione - si sarebbe fatto, anche se non è escluso che siano ferite dovute al tentativo di moglie e figli di difendersi. Piantonato dai carabinieri, è in stato di fermo. A dare l'allarme sono stati i vicini di casa, una villetta in via Torino, alla periferia di Samarate in un quartiere residenziale. Una vicina ha visto l'uomo pieno di sangue e ha chiamato i soccorsi. Sul posto i carabinieri del Comando Provinciale di Varese.

Strage familiare Samarate, il cugino sulle condizioni del figlio sopravvissuto: "Purtroppo è molto grave"

Strage in famiglia a Samarate, la prima ricostruzione

Dalle prime ricostruzioni Alessandro Maja avrebbe colpito la moglie mentre si trovava sul divano, mentre i due figli sono stati raggiunti mentre erano già a letto nelle loro camere. L'uomo avrebbe poi provato a darsi fuoco. Da quanto ha raccontato il sindaco di Samarate, Enrico Puricelli, Stefania Pivetta aveva confidato a un avvocato - che già conosceva in precedenza - l'intenzione di separarsi, ma al momento non risultano altre conferme.

Samarate, il sindaco: "Non risultano episodi di violenza precedenti"

"Un risveglio terribile stamattina per la città, una tragedia, ma nessuno ha mai dubitato che ci fossero problemi, secondo alcuni amici comuni che vivono in zona, speriamo che il ragazzo si riprenda". Lo ha detto all'Ansa il sindaco di Samarate (Varese), Enrico Puricelli, a seguito dell'omicidio di madre e figlia, 56 e 16 anni, che sarebbero state uccise nel sonno dal padre-marito di 57 anni che avrebbe anche ferito gravemente l'altro figlio, di 23 anni, per poi tentare il suicidio.

"I ragazzi, Nicolò e Giulia, vivevano una vita serena, il padre è un architetto (in realtà geometra, ndr), lei era una casalinga - ha proseguito Puricelli - avevano acquistato la villetta nel 1999, dopo essersi trasferiti qui da Milano. Non risulta alcun episodio di violenza pregressa".

Per la strage di Samarate, Maja non ha risposto agli inquirenti

Maja, dopo aver rifiutato di parlare con gli inquirenti dal letto d'ospedale, dove è ricoverato per atti autolesionistici successivi al delitto, è stato arrestato con l'accusa di duplice omicidio aggravato e tentato omicidio.

Paolo Colonnello per "La Stampa" il 6 maggio 2022.

«Stiamo impoverendoci in una società malata che in questo momento ha una febbre altissima: dopo due anni di pandemia e con la prospettiva di una guerra atomica, c’è quasi da stupirsi che le stragi familiari non siano di più…». 

Il professor Vittorino Andreoli, 82 anni, uno dei guru della psicoanalisi in Italia lo ammette senza problemi: «Ho paura anch’io. E chi non ce l’ha in questo periodo?». 

Lo spunto arriva dalla strage familiare di ieri a Samarate, due passi da Malpensa, dove un affermato architetto milanese, Alessandro Maja, ha ucciso moglie e figlia sedicenne e ridotto in fin di vita il figlio maggiore. 

Ultima mattanza tra le mura domestiche di una serie impressionante: nella stessa zona, quella del varesotto, in quattro mesi si sono susseguiti tre casi simili: il primo gennaio a Morazzone, dove Davide Paitoni ha ucciso il suo bambino di 7 anni e poi ha tentato di uccidere anche la moglie, l’altro a Mesenzana il 24 marzo, quando Andrea Rossin ha accoltellato i suoi due figli prima di uccidersi con la stessa lama.

Cosa c’è nella mente di questi padri assassini?

«Disperazione, autodistruzione, paura di non farcela». 

Tre casi in pochi mesi: esiste una fenomenologia?

«Certo è allarmante. Si tratta di episodi distruttivi ma non si può parlare di violenza poiché la violenza ha sempre uno scopo personale, per esempio la vendetta, la gelosia». 

Mentre in questi casi?

«Si uccidono le persone più care per poi uccidere, o tentare di uccidere, se stessi». 

Depressione?

«Non c’entra niente. Il depresso uccide se stesso e basta. Qui invece a prevalere è il senso d’impotenza, cioè la disperazione di quando si percepisce che la propria condizione non possa più cambiare. Va detto che a una regressione economica corrisponde sempre una regressione di civiltà». 

Eppure sono stragi avvenute in una delle zone più ricche d’Italia, le persone che le hanno compiute non erano così povere all’apparenza…

«Ecco, l’apparenza è la parola chiave. Da una parte questi fatti avvengono solitamente in  provincia, luoghi dove l’apparire, il sembrare, è importantissimo e quando succede che magari viene a mancare la possibilità di apparire come si era o si vorrebbe essere, questo può pesare moltissimo e può fare sentire il fallimento di un’esistenza».

Quindi dietro queste stragi si nascondono problemi economici?

«Non è così semplice. Siamo dentro un fenomeno di regressione economica, cioè di impoverimento e nella fascia media anche 500 euro che vengono a mancare dal reddito precipitano una famiglia da una condizione ordinaria a una di povertà. S’iniziano a non intravvedere vie d’uscita e così si percepisce la propria incapacità non solo di vivere ma prima ancora di far vivere la famiglia». 

È un disagio che riguarda soprattutto la classe media?

«Si, perché è una classe che ormai ha sempre meno margini di guadagno e anche una piccola mancanza di denaro determina la differenza tra la qualità della vita e la mera sopravvivenza, circostanza alla quale ormai non siamo più abituati e che può portare i più deboli a pensare di scomparire, insieme ai propri affetti».

Il motore perciò è principalmente l’impotenza?

«Si, piccole cose si sommano e divengono grandi ostacoli d’impotenza, prevale la rabbia, la voglia di bruciare il mondo e non solo». 

Ovvero?

«C’è in questo momento anche una percezione del futuro tragica: non siamo ancora usciti del tutto dalla paura del virus ed ecco che ripiombiamo nel terrore della guerra, con un’economia che sta crollando. Il futuro in due anni da radioso è diventato drammatico». 

Chi sono gli assassini?

«Normalmente sono delle persone perbene, proprio come raccontano i loro vicini. E nella loro distruttività non hanno odio, sentono quasi il dolore della persona che uccidono e che di solito è quella che amano».

C’è anche chi però uccide i figli per vendetta verso il coniuge. Come la mettiamo?

«Io parlo del fenomeno a livello generale. Certo, ci sono anche le vendette. Ma si tratta pur sempre di gente che non vede più una via d’uscita che vive nella paura della perdita». 

Perché questi omicidi sono così cruenti?

«Perché si uccide per disperazione, con quello che si ha sottomano, coltelli, cacciaviti, martelli. Non si tratta di mostri ma di persone in crisi». 

Ne prova compassione?

«Io non giudico, cerco soltanto di capire. Lo sa che abbiamo un trenta percento di suicidi in più tra gli adolescenti? Vogliamo fermarci su queste cose invece che solo sulle coltellate? Oggi è faticoso convivere con i narcisisti della tragedia che imperversano sugli schermi. Bisogna avere la forza di indignarsi».

Samarate, Alessandro Maja ha ucciso a martellate la moglie e la figlia. E al suo avvocato dice: "Non doveva succedere". La Repubblica il 9 Maggio 2022.   

Il 57enne è ricoverato in psichiatria e resta sedato. Primi risultati delle autopsie e degli esami su Nicolò, il figlio 23enne ancora grave: su di lui avrebbe usato un trapano.

"Non mi capacito di come sia potuta accadere una cosa del genere, non doveva succedere". Queste le prime, poche parole di Alessandro Maya, il 57enne arrestato per aver ucciso a martellate, mercoledì scorso a Samarate (Varese), la moglie Stefania Pivetta e la figlia Giulia, di 16 anni, e per aver gravemente ferito il figlio maggiore, Nicolò, di 23 anni.

Maja lo ha riferito al suo avvocato di fiducia, Enrico Milani, dal letto del reparto di psichiatria dell'ospedale di Monza dove si trova ricoverato e piantonato. Il legale ha anche spiegato all'Ansa che Maja resta sedato e che si sta sottoponendo a una serie di accertamenti psichiatrici.

Emergono intanto le prime indiscrezioni dall'autopsia effetuata sul corpo delle due vittime: Maja avrebbe usato un martello per uccidere la moglie e la figlia. Il figlio 23enne Nicolò, invece, da allora ricoverato in terapia intensiva presenta ferite compatibili più con un corpo contundente, come il trapano sporco di sangue rinvenuto nell'abitazione. Sono stati effettuati diversi tipi di accertamenti, tra cui un esame tossicologico per capire se l'uomo, prima di colpirle, le abbia un qualche modo sedate.

"Non è stato possibile avere con Maja un colloquio compiuto, date le sue condizioni", ha ancora spiegato Milani, che insieme alla collega Sabrina Lamera difende Alessandro Maja. "Non ha tentato di farsi del male in carcere, anche perché appena arrivato è stato immediatamente dichiarato incompatibile con la detenzione", ha proseguito il legale. Milani ha confermato accessi e sequestri nella sede dell'azienda del suo assistito "ma se mi chiedete cosa possano aver portato via non ho una risposta". L'interrogatorio quindi, ha aggiunto Milani "sarà fissato solo quando Maja sarà dichiarato idoneo dai medici".

Federica Zaniboni per "Il Messaggero" il 14 maggio 2022. 

«Mia moglie spendeva troppo e io non ero d'accordo con il lavoro che faceva». Con queste parole, Alessandro Maja, accusato di aver ammazzato la coniuge e la figlia di 16 anni nella loro villetta a Samarate (Varese), ha risposto ieri alle domande del gip durante l'interrogatorio di garanzia. Secondo il 57enne, infatti, l'attività di vendita di creme svolta da Stefania Pivetta, casalinga, «era una perdita di tempo». E come già emerso dalle testimonianze di amici e conoscenti, lui era tormentato dal pensiero dei soldi e dalla paura dei debiti.

In merito alle ragioni dell'omicidio e dell'aggressione al figlio di 23 anni, che è sopravvissuto ma ancora in gravi condizioni, Maja non si sarebbe espresso. «Mi sentivo un fallito, responsabile di non poter garantire lo stesso tenore di vita alla famiglia», avrebbe detto.

Da quanto si apprende, durante l'interrogatorio non sarebbe stato molto lucido e, come ha spiegato anche il suo legale Enrico Milani, «ha risposto sofferente alle domande, con un forte disagio». Nei giorni scorsi, l'uomo è stato ricoverato nel reparto di psichiatria del S. Gerardo di Monza, motivo per cui l'interrogatorio era stato rinviato.

L'ossessione per il denaro sarebbe stata sviluppata da Maja nel periodo precedente alla Pasqua, poche settimane prima della tragedia. Nonostante dagli accertamenti svolti finora non sia emerso nulla che possa giustificare il terrore del designer per i debiti, gli inquirenti continuerebbero a battere questa pista. Non è da escludere, infatti, la possibilità di una vita parallela del 57enne, almeno a livello economico-finanziario.

LE IPOTESI Si ipotizzano investimenti sbagliati, affari non andati a buon fine, nulla che sia mai stato registrato. Non ci sono dubbi sul fatto che quell'angoscia lo attanagliava, al punto che molte delle liti più recenti con la moglie erano nate proprio dal suo colpevolizzarla per le spese esagerate. Durante l'interrogatorio davanti al gip di Busto Arsizio, avrebbe poi ripercorso alcuni momenti della notte del delitto, avvenuto lo scorso 4 maggio, dopo che i figli erano andati a letto nelle loro stanze e la moglie si era addormentata sul divano.

Lui avrebbe «vagato per la casa» con quel pensiero fisso, per poi colpire Stefania, Giulia e il figlio Nicolò con un martello. A quel punto, servendosi di un trapano avrebbe simulato un tentativo di suicidio che gli aveva procurato soltanto lievi ferite. Ieri sera, a Samarate, l'amministrazione comunale ha organizzato un momento di preghiera rivolto al figlio 23enne. Ricoverato all'ospedale Circolo di Varese con profondissime ferite alla testa, non è da escludere che possa riportare anche danni permanenti.

"Non potete lasciarmi". E massacra nel sonno moglie e figlia 16enne. Nino Materi il 5 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'uomo ha poi tentato di uccidersi. Grave l'altro figlio scampato alla furia del padre.

Sconvolto da una lettera. Poche righe che Stefania Pivetta, 56 anni, aveva scritto all'avvocato che aveva scelto per «dar corso alla pratica di separazione». Quando Alessandro Maja, 57 anni, il marito di Stefania, ha letto quella parola - «separazione» - si è visto crollare il mondo addosso: il «suo» mondo. Un pianeta che riteneva di «possedere» attraverso automatismi patologici mai percepiti come spie di un grave disagio psicologico. Maja, infatti, non era seguito da nessun specialista in «malessere mentale», probabilmente perché questo geometra - «sempre gentile», «di bella presenza» e «realizzato nel lavoro» - credeva, in buonafede, di essere «normale». E a considerarlo tale erano anche tutti quelli che lo circondavano: parenti, colleghi, amici; gli stessi che oggi, tra le lacrime, si chiedono «come possa aver fatto una cosa simile». Il solo descriverla - la «cosa» - mette i brividi. L'insospettabile geometra Maja che nella villetta di famiglia a Samarate (Varese) impugna un martello. Poi, apre la porta della camera da letto. Con una mano mette il cuscino sulla bocca della moglie mentre con l'altra le fracassa la testa. A fianco c'è la stanza dove dorme Giulia, la figlia 16enne della coppia. Non ha udito nulla dell'orrore che si è appena compito a pochi metri. Il padre le si avvicina e, con le stesse modalità precedenti, ammazza anche lei. Ma c'è un terzo obiettivo nel terrificante piano di quest'uomo trasformatosi misteriosamente da «uomo per bene» a omicida: è il primogenito, Nicolò, 23 anni. Lui si è salvato miracolosamente. Ora è grave in ospedale. Sua madre, Stefania, lo scorso 14 febbraio, festa degli innamorati, aveva scritto su Facebook: «Il mio San Valentino lo voglio dedicare alle donne che sono morte per mano di un uomo credendo nell'amore». Sono state le urla di Nicolò ad allertare i vicini di casa che poi hanno avvertito i carabinieri.

Una testimone racconta: «Era davanti all'ingresso e ripeteva tranquillo: Li ho uccisi tutti». Quando i militari sono arrivati i corpi di mamma e figlia giacevano senza vita, mentre Nicolò era agonizzante. Dentro casa puzza di bruciato e sull'uscio Alessandro Maja coi vestiti semibruciati e le braccia ferite. Dopo la mattanza, l'uomo ha tentato di suicidarsi dandosi fuoco e tagliandosi le vene. «Era sotto choc», spiegano gli inquirenti; ma a «parlare» per lui era la scena del delitto. L'accusa è di duplice omicidio volontario e tentato omicidio. Appena dimesso dall'ospedale, sarà interrogato dal pm. Nel sito della sua holding professionale, il «Maja Group», Alessandro si definisce «fulcro e fondatore» dello studio specializzato nella «progettazione di spazi commerciali per il settore food and beverage», con sede a Milano, lungo il Naviglio Pavese. Di sé diceva: «Vulcanico di idee, originali e stravaganti, ma concrete e funzionali» e fra i progetti elencati quelli del «relooking della storica pasticceria Biffi, di spazi all'aeroporto di Malpensa e della stazione di Cadorna». I coniugi Maja avevano acquistato la villetta nel 1999, dopo essersi trasferiti qui da Milano e gli inquirenti precisano che «non risulta alcun episodio di violenza pregressa». I vicini descrivono i Maja come una «famiglia in stile Mulino Bianco»; marito, moglie e figli, tutti «eleganti», «educati», «sereni», «sorridenti». «Mai un litigio». Fin quando, in una notte maledetta, il «Mulino Bianco» è diventato rosso di sangue.

Chi è Alessandro Maja, l’architetto che ha ucciso moglie e figlia a martellate a Samarate. Asia Angaroni il 04/05/2022 su Notizie.it.

Il killer che ha ucciso moglie e figlia, riducendo in gravi condizioni il figlio maggiore, era un punto di riferimento nel mondo del design. 

L’omicidio avvenuto a Samarate, a pochi chilometri da Varese, ha distrutto una famiglia, sulla quale ora piomba un dolore incolmabile. Chi è Alessandro Maja, l’architetto che ha ucciso moglie e figlia. 

Alessandro Maja, chi è l’uomo che ha ucciso moglie e figlia

Ha preso a martellate moglie e figlia di 16 anni, uccidendole. Il figlio maggiore, 23 anni, versa in gravi condizioni. Il matrimonio tra Maja e la moglie, Stefania Pivetta, pare fosse in crisi. La donna non ce l’ha fatta e neppure la figlia Giulia. L’uomo si è scagliato anche contro il figlio Nicolò, che presenta un grave trauma cranico. I due ragazzi sono stati aggrediti nel sonno, quando erano ancora a letto.

La madre è stata colpita mentre era sul divano. Poi, ancora sporco di sangue, Maja avrebbe tentato di darsi fuoco.

Il killer si chiama Alessandro Giovanni Maja e il suo è un nome noto nel settore dell’interior design, in quanto impegnato in progetti in Italia e all’estero. Il suo studio si trova sui Navigli ed è composto da un team fatto soprattutto di giovani. A lungo l’architetto è stato un punto di riferimento per imprenditori e commercianti desiderosi di organizzare e allestire i propri spazi.

Ora il mondo del design è sconvolto per l’accaduto.

La testimonianza dei vicini da casa

Le vicine di casa che hanno chiamato i soccorsi hanno raccontato: “Era per terra, con le ferite che sanguinavano, col corpo metà dentro e metà fuori dalla porta di casa e diceva: “Li ho uccisi tutti, bastardi”“. Il tutto pare sia stato pronunciato “con tono tranquillo, in apparenza non era agitato“.

Eppure, fino al giorno sembravano “una famiglia da Mulino Bianco.

Il cacciavite, il martello, la figlia sveglia: così l'architetto killer ha ucciso. Laura Cataldo il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

La furia di Alessandro Maja non è stato un raptus di rabbia: così si è accanito su moglie e figli.

I primi risultati dell'autopsia hanno rivelato l'orrore accaduto nella notte tra martedì 3 e mercoledì 4 maggio a casa Maja.

L'architetto-imprenditore, ha prima raggiunto la moglie Stefania di 56 anni, che riposava sul divano al piano terra della villetta di Samarate, in provincia di Varese. Lì ha cominciato a inveire sulla donna colpendola con un cacciavite e un martello e poi, secondo il referto dell'autopsia, l'ha accoltellata alla gola. Dopo il primo massacro, è salito al piano di sopra dove si trovano le camere da letto dei figli.

Entrato nella stanza della secondogenita Giulia, di 16 anni, ha cominciato a infierire con il cacciavite. Nel frattempo la ragazza si era svegliata e ha cercato di difendersi disperatamente dalla furia del padre, come raccontano le abrasioni sulle mani e sulle braccia. Maja, esasperato dalla resistenza della figlia ha cominciato a colpire anche lei con un martello. Subito dopo ha cercato di uccidere anche il figlio ed era uscito fuori dalla sua abitazione urlando: "Li ho uccisi tutti", prima di tentare il suicidio.

L'imprenditore, infatti, era convinto di aver ucciso anche il primogenito, Nicolò di 23 anni, che attualmente si trova ricoverato in gravi condizioni neurologiche. Trasportato d'urgenza, il ragazzo è apparso subito in condizioni critiche e i medici hanno dovuto rimuovere dal suo cranio frammenti di ossa spezzate.

In attesa dell’interrogatorio di garanzia, Maja è stato trasferito dal carcere in ospedale, nel reparto di psichiatria. Nel frattempo i carabinieri e procura stanno lavorando sul caso per capire quali siano stati i veri motivi che hanno spinto l'architetto a commettere una tale tragedia. In casa sono stati trovati e sequestrati numerosi documenti per ricostruire la vicenda. Al momento il motivo più accreditato sembrerebbe risalire a problemi economici legati all'azienda dell'uomo.

Omicidio Samarate, la suocera di Maja dice tutto in tv: "Cosa aveva preparato". Libero Quotidiano il 10 maggio 2022.

La strage di Samarate ha colpito e non poco l'opinione pubblica. Alessandro Maja in pochi minuti ha ucciso la moglie e la figlia nel sonno a colpi di martello. Poi ha colpito violentemente in testa anche l'altro figlio che ora combatte tra la vita e la morte. L'uomo, ricoverato nel reparto di psichiatria dell'ospedale di Monza, adesso dovrà affrontare un processo. Oggi ha pronunciato le sue prime parole su quanto accaduto: "Non doveva accadere, non doveva finire così". Ma adesso è il momento della rabbia e del dolore.

Questo pomeriggio a "La vita in diretta" sono intervenuti i genitori di Stefania Pivetta che hanno perso la figlia e la nipote nella mattanza in casa. Una strage assurda di una violenza incalcolabile. A quanto pare dietro l'omicidio potrebbero esserci dei motivi legati a problemi economici.

La coppia infatti aveva fatto una scrittura privata da un notaio per costituire un fondo spese dedicato alla famiglia. Maja era ossessionato dal risparmio, e questa sua ossessione potrebbe essere alla base del delitto. Ai microfoni de "La vita in diretta" la mamma di Stefania Pivetta non si è trattenuta e ha sfogato tutta la sua rabbia: "Maja non è pazzo, aveva preparato tutto - dice con voce lucida la signora Ines. Sapeva perfettamente cosa faceva. Lui non è pazzo ma sta facendo impazzire noi". Adesso gli inquirenti cercheranno di capire quali sono stati i veri motivi dietro la strage. 

I risultati dell'autopsia. La strage di Alessandro Maja: ha ucciso e tagliato la gola alla moglie, poi ha massacrato i due figli nel sonno. Roberta Davi su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Mentre suo padre la colpiva con cacciavite e martello, la 16enne Giulia deve aver cercato di difendersi, purtroppo invano, dalla sua furia omicida. Emergono ulteriori e inquietanti dettagli dalle autopsie sui corpi della figlia e della moglie Stefania Pivetta, 56 anni, uccise da Alessandro Maja, 57, l’architetto-imprenditore autore della strage compiuta nella notte tra il 3 e 4 maggio a Samarate, in provincia di Varese.

Il primogenito Nicolò, 23 anni, che lui pensava di aver ammazzato insieme al resto della  famiglia, è ancora ricoverato: i medici nutrono dei dubbi in merito alle sue condizioni neurologiche, riporta Il Corriere della Sera.

La ricostruzione degli omicidi

Stefania era stato il primo obiettivo di Maja: secondo il referto dell’autopsia, che si è svolta sabato, l’ha anche accoltellata alla gola. La donna riposava sul divano, al piano di sotto della loro villetta. Dopo averla uccisa, ha quindi raggiunto i figli al piano di sopra. Giulia si è svegliata mentre il padre la aggrediva, come evidenziano le ferite riscontrate dal medico legale sulle braccia e sulle mani.

Nicolò, trovato cosciente nel letto dai soccorritori, è stato sottoposto a un delicato intervento chirurgico per rimuovere frammenti di ossa spezzate nel cranio. Non è ancora possibile stabilire se si sia reso conto di ciò che stava accadendo.

Alessandro Maja, titolare di una società con sede sui Navigli che si occupa di interior design e ristrutturazioni soprattutto di bar e ristoranti, è stato trasferito dal carcere nel reparto di psichiatria dell’ospedale di Monza ed è in attesa dell’interrogatorio di garanzia. La sera prima della mattanza l’architetto aveva chiesto scusa alla figlia, senza però aggiungere altro. E poi, in piena notte, aveva preparato gli strumenti da utilizzare per massacrare la sua famiglia: un cacciavite, un martello, un trapano e un coltello.

“Li ho uccisi io, sono un mostro”, avrebbe sussurrato il 57enne nel trasferimento tra ospedale e carcere. Dopo la strage si sarebbe affacciato al balcone e avrebbe urlato, in mutande: “Finalmente ci sono riuscito”. Ma il suo piano prevedeva anche un ultimo atto: il suicidio. Le sue ferite ai polsi e all’addome erano però lievi, quindi resta da chiarire se abbia desistito oppure se si sia trattato di una messinscena.

Il giallo dei soldi

Intanto i carabinieri e la Procura stanno indagando per capire se l’assassino avesse una doppia vita. Stando a quanto emerso, l’uomo era ossessionato dai soldi. In casa si lamentava continuamente delle spese, si raccomandava di risparmiare anche i centesimi, e già da tempo non faceva altro che presagire un futuro di disastri economici. Gli inquirenti non hanno però trovato bilanci in crisi o un’esposizione con le banche preoccupanti.

L’ipotesi, scrive sempre Il Corriere, è che l’architetto-killer possa aver effettuato delle speculazioni finanziarie andate male; oppure che abbia preso delle somme in prestito, non sapendo come restituirle. Ma è possibile che Maja abbia esagerato la realtà dei fatti, oppure che abbia inventato questo scenario di estrema povertà più volte annunciato. 

“Non mi capacito di come sia potuta accadere una cosa del genere, non doveva succedere”, ha detto all’avvocato Enrico Milani nel reparto di psichiatria dove è attualmente ricoverato, piantonato dalle forze dell’ordine. Roberta Davi

 

Giacomo Nicola per "il Messaggero" il 9 aprile 2022.

Non si è trattato di un incidente. La piccola Fatima è stata gettata dal patrigno dal balcone. Un volo che non le ha lasciato scampo. C'è una svolta nell'indagine sulla morte della piccola, precipitata a soli tre anni dall'ultimo piano di una palazzina in via Milano 18, poco lontano dal centro di Torino lo scorso gennaio. 

Il giudice per le indagini preliminari Agostino Pasquariello ha ordinato una nuova misura di custodia cautelare in carcere nei confronti dell'ex compagno della madre della bimba, Mohssine Azhar, contestando questa volta l'omicidio volontario. E dire che tra qualche giorno sarebbe dovuto tornare in libertà. Doveva essere scarcerato martedì per decorrenza dei termini di custodia cautelare e c'era la possibilità che intendesse partire per la Tunisia. 

Ci sono anche queste considerazioni dietro la decisione della procura di Torino di chiedere un nuovo provvedimento restrittivo a suo carico. Subito dopo la morte di Fatima, l'uomo, marocchino di 32 anni difeso dall'avvocato Alessandro Sena, era stato arrestato per omicidio colposo. L'ipotesi iniziale degli inquirenti era che avesse fatto scivolare giù la bambina. Ma ora l'accusa diventa per omicidio doloso.

LA RICOSTRUZIONE Tesi che la pm Valentina Sellaroli, che coordina l'inchiesta della squadra mobile, cercava di provare fin dall'inizio. E che adesso, dopo che il gip ha accolto la nuova richiesta della procura, diventa un assunto avallato anche dal giudice per le indagini preliminari. «L'ha afferrata e lanciata di sotto», ha raccontato la madre agli investigatori. 

Quella sera, secondo alcuni testimoni, Mohssine aveva bevuto molto ed era, forse, sotto l'uso di sostanze stupefacenti. Mentre si trovava nella sua mansarda con altri connazionali, la piccola Fatima era salita da lui per prendere un regalo. La madre, Lucia Chinelli l'aveva seguita su in mansarda. 

Secondo gli inquirenti, in casa di Mohssine sarebbe nata una lite. E lui, dopo avere afferrato la piccola e averla scaraventata a terra, avrebbe urlato: «La bambina è mia». Per poi lanciarla giù dal ballatoio. L'indagato ha sin dall'inizio negato ogni sua colpa. «Io volevo bene a Fatima. Giocavamo al vola vola. La tenevo in braccio sul ballatoio. Mi è scivolata giù all'improvviso. Non le avrei mai fatto del male».

Le parole di Mohssine sarebbero però messe in discussione, secondo la procura, dai rilievi della Scientifica e della squadra mobile, dalla perizia del medico legale Roberto Testi e da altre due consulenze tecniche effettuate sulla traiettoria del volo della bambina: Fatima non sarebbe scivolata accidentalmente. 

Qualcuno l'avrebbe lanciata in avanti, un metro e sessanta più in là rispetto al muro. I traumi su cranio, schiena e naso, la posizione del corpicino nel cortile, l'assenza di ulteriori segni o macchie di sangue su ballatoio, tetto e ringhiera confermerebbero, secondo i periti, l'ipotesi più agghiacciante: una spinta, violenta e diretta, giù dal quinto piano.

Una telecamera di sorveglianza ha ripreso il momento dell'impatto sull'asfalto: il filmato è breve (un paio di secondi) ma, sempre secondo gli esperti, permette di capire che la traiettoria è stata a parabola. Non solo: se Fatima fosse stata davvero lanciata in aria, sia pure per gioco, avrebbe toccato il sottotetto, e il suo corpicino, precipitando, avrebbe seguito un altro percorso. 

Valeria Braghieri per “il Giornale” l'8 aprile 2022.

Un Paese incapace di offrire tanto un deterrente quanto un rimedio. Un Paese che non sa proteggere dalla violenza e neppure curarla. Che non abbraccia le proprie vittime ma le lascia sole, ingobbite e spente dalla paura. 

«Uno Stato che non garantisce il diritto di vita». Con riferimento all'atroce vicenda del 2018, a Scarperia (Firenze), nella quale un uomo con disturbo bipolare della personalità ha ucciso a coltellate il figlio di un anno e mezzo, ferito gravemente la compagna e tentato di uccidere l'altra figlia, la Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia per violazione dell'articolo 2 della Convenzione dei Diritti dell'Uomo.

Nessuno ha saputo intervenire, malgrado le evidenze, i precedenti, le segnalazioni, le richieste d'aiuto. Ma la Corte dice perfino di più. Spiega che una vittima non dovrebbe neppure arrivare a dover lanciare l'allarme di un pericolo: andrebbe protetta ancora prima. 

La Cedu prosegue con le sue motivazioni e addita i «pubblici ministeri rimasti passivi» che non hanno messo in atto misure di protezione nei confronti della madre e dei suoi bambini, e con la loro inerzia hanno consentito all'uomo di continuare ad aggredire la donna fino a permettergli di arrivare all'uccisione di un bambino di poco più di un anno.

La Corte ha anche stabilito un risarcimento simbolico di 32mila euro per danni morali a favore della donna. E, di più, ha riconosciuto la correttezza del ricorso della difesa che si è rivolta a Strasburgo prima di chiedere un risarcimento all'Italia, dal momento che, secondo la Corte, «la difesa non disponeva di un rimedio civile da esaurire per far valere il fallimento dello Stato».

Confermando, in questo modo, che nel nostro Paese mancano sia una cornice giuridica, sia una cornice legislativa sufficientemente adeguate. Questa condanna è una rivoluzione. Morale, prima di tutto il resto. Perché è vero che l'attenzione nei confronti dei femminicidi e della violenza domestica è aumentata in maniera esponenziale, ma è altrettanto vero che in assenza di tutele giuridiche efficaci, resta impossibile porvi rimedio e diventa inutile qualsiasi questione. 

La cronaca è zeppa di racconti di vittime annunciate e di aggressori prevedibili. Torture perpetrate giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno. Senza che nessuno potesse fare nulla, intervenire, impedire. Un Paese che lascia covare a lungo le bugie fino a quando l'odio scivola fuori puro e allora si è fuori tempo massimo. Un Paese giuridicamente immobile che oscilla tra il «troppo presto» e l'«ormai tardi». 

Donne costrette a fingere la normalità, la coppia, le giornate senza terrore. Donne che, anche quando denunciano, non ottengono. L'umiliazione è quando ti senti a piedi nudi in tutto il corpo. E c'è chi, sprofondata nell'umiliazione ci campa. In casa propria, ogni maledetto giorno. 

Con le pareti che si accartocciano addosso, con il buio che entra dalle finestre prima che altrove, con la speranza, ogni notte, che il proprio letto si trasformi in un altro Paese.

È proprio così che molte di loro vivono. Hanno vissuto. Fino alla sentenza di Strasburgo di ieri che «commissaria» l'Italia per manifesta incapacità. 

Michela Allegri per “il Messaggero” il 3 aprile 2022.

Liti, scontri che durano a lungo e delle quali, molte volte, finiscono per fare le spese i figli. Dopo 50 anni e molte polemiche, Inghilterra e Galles hanno cambiato la legge sul divorzio, eliminando il sistema basato sulla colpa. Finora il procedimento doveva essere consensuale: se a chiedere lo scioglimento del matrimonio era solo un partner c'era l'obbligo di dimostrare, appunto, la colpa dell'altro, a causa di adulterio, abbandono, violenze, gravi mancanze.

 E il processo poteva durare fino a 5 anni. La rivoluzione scatterà dal 6 aprile ed è stata sancita dal Divorce Dissolution and Separation Act. Ma come funziona in Italia? Nel nostro Paese il divorzio con colpa non esiste, ma esiste la separazione con addebito. Una procedura che viene seguita nella minoranza dei casi - circa il 5 per cento -, ma che finisce per allungare a dismisura i tempi del procedimento e per provocare livelli di conflittualità e di stress molto elevati. Tanto che più volte si è discusso - anche con proposte di legge - di eliminare questo strumento d'azione.

In Italia, per divorziare, è necessario prima separarsi. In caso di separazione con addebito, che viene sancita da un giudice, oltre a venire meno alcuni obblighi derivanti dal matrimonio, come quelli di coabitazione sotto lo stesso tetto coniugale, di fedeltà, di collaborazione e di assistenza morale, decadono i diritti al mantenimento e quelli successori, cioè relativi all'eredità. 

L'addebito deve essere espressamente richiesto da uno dei due coniugi e spetta al magistrato valutarne l'applicabilità. Ed è a questo punto che scattano le liti: è necessario dimostrare non solo che il partner abbia commesso una grave violazione, ma che da quella violazione sia dipesa la fine del matrimonio. 

L'avvocato Marco Meliti, presidente dell'Associazione Italiana di Diritto e Psicologia della Famiglia, spiega che «la separazione con addebito ha solo conseguenze di carattere economico: comporta la perdita del diritto a chiedere il mantenimento e dei diritti successori. Da tempo si discute del tramonto di questa procedura, perché provoca un prolungamento dei giudizi e un inasprimento dei rapporti.  

Vengono chiamati a testimoniare amici, parenti, colleghi che si sconfessano tra loro. Se da una parte la possibilità di addebitare la separazione conferisce maggior forza e solennità ai doveri nascenti dal matrimonio, dall'altra finisce per allungare di molto i giudizi, inasprendo la conflittualità tra i coniugi, della quale finiscono per fare le spese i figli, spesso travolti nell'agone processuale».  

Va detto, comunque, che in Italia l'85% circa delle separazioni sono consensuali, mentre, del restante 15% di separazioni giudiziali, quelle pronunciate con addebito sono circa il 5%. Nel primo caso i coniugi decidono tra loro le modalità e le condizioni della separazione, senza mettere la valutazione nelle mani del Tribunale, che si limita a validare l'accordo. Nel secondo caso, invece, la coppia non riesce a raggiungere un accordo e si procede per vie legali. Spetta quindi al giudice, tramite una causa di separazione, stabilire le condizioni che riguardano l'assegno di mantenimento, gli alimenti, l'affidamento dei figli e l'assegnazione della casa coniugale. 

Nel caso della richiesta di un addebito di responsabilità, il magistrato deve valutare anche se il comportamento di uno dei due coniugi abbia provocato la crisi della coppia. 

Non basta però che ci sia stata una violazione dei doveri imposti dal matrimonio: il giudice deve valutare caso per caso, verificando la presenza di un nesso causale tra la violazione e l'intollerabilità della convivenza. «Per esempio - spiega ancora l'avvocato Meliti - non basta che ci sia stato un tradimento per contestare un addebito nel caso in cui l'adulterio sia avvenuto all'interno di una coppia già in crisi, o già sfaldata». 

Anche l'avvocato Daniela Missaglia spiega che l'addebito è «un istituto di antica origine tutt' ora vigente, permette a un coniuge di procurarsi, nei confronti dell'altro, una sorta di lettera scarlatta, ossia la dichiarazione che la crisi matrimoniale sia a questi imputabile in virtù della violazione di uno dei doveri caratteristici del matrimonio. Ha importanza soprattutto quando rivolto alla moglie, perché questa può perdere il diritto ad avere il mantenimento, conservando solo il diritto agli alimenti». 

Si tratta di uno strumento, prosegue il legale, che ha una rilevanza «sempre più secondaria. Da molti anni si sono sollevate voci e proposte di legge per eliminarlo definitivamente, adeguandosi alla legislazione nordamericana e di tantissimi altri Paesi dove la fine del matrimonio può essere pronunciata senza accertare la colpa dell'uno o dell'altro. La percentuale di separazioni con addebito è minoritaria. Da un lato, prevalgono le separazioni consensuali, frutto di accordi fra i coniugi. Tra i procedimenti contenziosi, solo un numero residuo si conclude con la pronuncia di addebito».

Litigi e violenze davanti al figlio. Il gip. «È moralmente disdicevole». Il pm: «No, sono maltrattamenti in famiglia». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera l'1 aprile 2022.

Litigare in modo brutale di fronte al figlio, scambiarsi insulti ed epiteti della peggiore specie e picchiarsi reciprocamente non è semplicemente diseducativo e «moralmente disdicevole», ma «configura il reato di maltrattamenti in famiglia». Il minore, infatti, è inerme di fronte al comportamento degli adulti e assistere costantemente a scena di violenza domestica provoca in lui sofferenza e disagio. Insomma, è una vittima al pari di quei bambini costretti a convivere con un padre che malmena una moglie succube e indifesa.

Ne è convinta la Procura di Torino, che nei giorni scorsi ha depositato il ricorso in appello contro la sentenza che ha assolto la madre di un bambino di dieci anni, una modella Ucraina di 34, e prosciolto il suo convivente di 40. La coppia era accusata di maltrattamenti in famiglia nei confronti del figlio della donna, che viveva con loro. La storia raccontata negli atti dell’inchiesta è quella di un ragazzino che per lungo tempo ha visto la mamma litigare furiosamente con il nuovo compagno, incurante della sua presenza. In casa, urla e insulti erano all’ordine del giorno. La coppia aveva un rapporto burrascoso: entrambi animati dalla gelosia, non si limitavano a rimpallarsi accuse e recriminazioni. Quando discutevano finivano per accapigliarsi: lui l’afferrava per i capelli, lei gli sputava addosso. E poi mobili rotti nella follia del momento, cellulari fracassati con gesti di stizza. «Ti uccido, ti sfregio con l’acido», gridava lui. Mentre la giovane modella rispondeva con insulti e provocazioni. Più volte il bambino aveva telefonato al padre per chiedere di essere «salvato» e in un’occasione il convivente della donna avrebbe anche minacciato di scendere in strada con un coltello per «accogliere» l’ex marito della donna.

Una situazione insostenibile, aggravata dal disinteresse totale che la trentaquattrenne mostrava nei confronti del figlio. «Pensa solo a stessa, a farsi bella. È egoista»: ha riferito il bambino, spiegando anche come la sua camera fosse invasa dalle scarpe della mamma. Poi in audizione protetta ha raccontato tutte le scene di violenza a cui ha assistito: «Avevo paura che lui facesse del male anche a mio papà. Io non voglio più vivere con loro».

A portare alla luce il disagio e la sofferenza del ragazzino sono stati gli insegnanti, che nel 2017 hanno inviato una mail a padre preoccupati «per il malessere e la tristezza manifestanti dal bambino». Poco dopo, l’uomo ha sporto denuncia. Sono emerse così anche alcune querele che la donna aveva presentato contro il compagno e poi ritirato. Ma soprattutto è emerso un contesto familiare difficile e l’indifferenza di una madre che aveva «abbandonato il figlio con il padre» poco dopo la nascita per perseguire la carriera di modella nel patinato mondo televisivo. E poi, tornata nella vita del bambino, lo avrebbe obbligato a vivere in un costante clima di tensione e disinteresse.

Elementi che hanno spinto il pm Barbara Badellino a contestare il reato di maltrattamenti alla donna e al compagno, spiegando in aula che il tema era quello della «violenza assistita»: cioè il minore che assiste a violenza domestica. La donna non ha negato. Eppure, il giudice li ha assolti pur scrivendo in sentenza: «La madre poco si curava degli aspetti traumatici che tale spettacolo poteva causare nel figlio. E ciò in coerenza con il suo egoismo, con il suo quasi esclusivo interesse per carriera e amori, seppur burrascosi». Per il gip sono comportamenti «moralmente disdicevoli», ma non penalmente rilevanti visto che manca a monte «un reato di maltrattamento a cui si agganci l’azione passiva abituale del minore».

D’altro avviso il pm, che ha deciso di ricorrere in appello: «La madre ha deliberatamente e consapevolmente costretto il proprio figlio ad assistere a episodi di violenza verbale e fisica, a minacce rivolte al padre tali da provocare malessere, sofferenza, ansia e paura nel minore».

Milano, la bimba con il pigiama e l’ombrellino rosa scappa di casa e prende il tram: «Cerco papà». Pierpaolo Lio su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2022.

La bimba di 5 anni è salita alle 8.30 sulla linea 31 Atm in viale Fulvio Testi, il papà era uscito per accompagnare a scuola la sorella di 10 anni. Ritrovata dalla polizia, la piccola è stata riportata alla famiglia in via Pulci (poi la foto di gruppo sul divano). 

È uscita di casa senza dimenticarsi l’ombrello. Il conducente del «31» se l’è trovata di fronte sul tram da sola, in pigiamino verde con i disegni dei pinguini, ciabattine abbinate e, appunto, l’ombrellino rosa. Una bambina di 5 anni in «missione» alla ricerca del suo papà: «Non era in casa». È l’avventura vissuta da una bimba che al suo risveglio, giovedì mattina, non ha trovato come al solito il genitore ad augurarle una buona giornata.

Il padre, in realtà, era uscito qualche minuto per accompagnare a scuola la sorella di 10 anni. La bambina si è però preoccupata e, senza farsi notare dalla madre, si è lanciata nella caccia. Poco dopo le 8 è scesa in strada, ha percorso i pochi metri che la separavano dalla fermata del tram «Bicocca M5» in viale Fulvio Testi, ha atteso l’arrivo del mezzo ed è salita a bordo.

Il conducente ha però immediatamente avvisato la centrale operativa che ha allertato a sua volta il 112. Sul posto è intervenuta una volante della polizia che ha recuperato la giovanissima viaggiatrice-esploratrice e l’ha riaccompagnata nella vicina via Pulci, riaffidandola alla famiglia preoccupata. A conclusione dell’avventura, una foto sul divano con il papà e gli agenti.

Bimbo di due anni scappa di notte: «Sono Batman». Scoperto e riportato ai genitori dai carabinieri. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 30 marzo 2022.

A due anni e mezzo si è intrufolato in una villetta in cerca di un cagnolino, facendo scattare l’allarme. Al maresciallo dell’Arma che lo ha soccorso ha chiesto un pezzo di cioccolata in cambio della confessione. 

«Dammi un cioccolatino e ti racconto come ho fatto». Scalzo e solo con il pigiama indosso. Alle due di notte sveglio come un grillo, lo sguardo vispo e nessuna paura di trovarsi da solo, sul prato umido di una villetta nel centro di Castel Gandolfo con la sirena dell’allarme anti-intrusione che ancora suonava. Classe 2019, maggio 2019 per la precisione. Nemmeno tre anni, insomma, anche se il bimbo che un maresciallo del Nucleo radio-mobile dei carabinieri si è trovato davanti martedì almeno di testa ne dimostra il doppio. «Come mi chiamo? Io sono Batman!», ha ripetuto soddisfatto al sottufficiale che pensava di trovarsi davanti una banda di rapina-tori dopo che il padrone di casa, in via di Santo Spirito, a due passi dal campo da golf del Country Club, aveva ricevuto sul telefonino il messaggio automatico dell’antifurto che segnalava la presenza di intrusi.

La chiamata al 112, l’intervento delle pattuglie. La scoperta del bambino che, avvolto nel giaccone del maresciallo per proteggerlo dal freddo ancora pungente, è stato sistemato su una gazzella fra due carabinieri. Trovare i genitori non è stato difficile, ma per far parlare il pupo c’è voluto davvero il cioccolatino. E davanti al dolce, «Batman» ha «confessato»: «Ero venuto a trovare un cagnolino che ho visto per strada ieri pomeriggio».

Un sorriso ha illuminato il volto dei carabinieri, accompagnato da un sospiro di sollievo: il piccolo ha percorso da solo a piedi oltre 300 metri, dal residence dove il padre messicano e la madre pugliese, residenti a Roma ma in vacanza nella città papale, dormivano beati e ignari di quello che il loro pargolo stava facendo, fino alla villetta vicino al campo da golf: se avesse sbagliato strada per un qualsiasi motivo, oltre a rischiare di essere investito da un’auto, sarebbe potuto finire nel laghetto del Country Club. Ma per il piccolo «Batman» il destino ha evi-dentemente altri programmi, tanto che è stato proprio lui a indicare ai militari dell’Arma la strada per raggiungere il residence dove i genitori sono stati svegliati e informati dell’accaduto. Ma lui, «Batman», non si è scomposto troppo: «Vabbè, adesso che sono stato bravo, posso avere un altro cioccolatino?».

Dagospia l'1 aprile 2022. Dal profilo Facebook di Giulia Santamaria (la madre del bambino “Batman”)

Mia madre al telefono: Giulia ma com’è possibile che questa storia sia sul giornale?

E io: mamma certo quando si parla delle storie degli altri non te lo chiedi e adesso che è toccato a noi inorridisci? 

Che dire, per me l’ennesima dimostrazione di quello che ormai anni fa ho capito. Dopo aver sognato di fare la giornalista la vita mi ha insegnato che non era un bel sogno. Eppure che Mediaset e Pomeriggio 5, la Rai e la Vita in diretta, Repubblica e Roma Today - e l’elenco non finisce qui - abbiano avuto in meno di 24 ore il mio nome e il mio numero di telefono e mi abbiano tempestato di telefonate lasciando il mio telefono incandescente (come nemmeno quelli di Berlusconi ai tempi d’oro) mi lascia comunque basita. 

Sì è vero, dovrei sapere come funziona. Però viverlo sulla propria pelle fa sempre un po’ effetto. Soprattutto quando non hai prestato nessun consenso e ti sei bevuto la palla del carabiniere che ti dice “facciamo una foto per il nostro bollettino dei casi di risolti”. Ahahahaha mi sento una cogliona ad avergli creduto. D’altra parte mi hanno preso in pieno shock. A loro piace il gioco facile.

Tanti anni fa, quando appunto sentivo mio il sogno del reporter, un vecchio lupo di mare mi ha insegnato che il vero giornalista é quello che trova la sua notizia per strada. Ma soprattutto è una persona critica che può fare la differenza con le sue opinioni. I veri giornalisti non esistono più. E quelli che ci sono o che dicono di esserci qualcuno prima di me li ha definiti “puttane e sciacalli”. 

Oggi se hai il mio numero di telefono tra i contatti perché negli anni passati abbiamo collaborato improvvisamente ricordi benissimo il mio nome e il mio volto e, una volta fatta l’associazione, mi preghi in ginocchio di darti un’esclusiva. Ma sei la stessa persona a cui mesi fa ho girato il Cv e che non ricordava nemmeno chi fossi? Già, sei proprio tu. 

Con Romina di Repubblica sì, c’ho parlato io, primo perché, non so come ci sia riuscita, ma l’ha trasformata in una chiacchierata tra amiche. Secondo perché dopo aver letto di noi senza che avessi dato a nessuno il permesso di parlare di noi, mi ha fatto sentire il bisogno di dire a qualcuno cose tipo:” guarda che erano 300 mt” “ una delle due porte non si chiudeva”… quel bisogno disperato che senti di doverti giustificare di fronte ad un mondo che sta leggendo di te e che immediatamente dopo si sentirà giustificato a commentare e a giudicare.

A lei, la giornalista di Rep, ho chiesto quello che continuo a chiedermi da ieri ovvero “chi vi ha dato i miei contatti”? 

Quelle che si fanno chiamare le forze dell’ordine forse? D’altra parte gli unici ad avere il mio riferimento come persona “coinvolta nel fatto”. Ah, le stesse forze dell’ordine che quando mi hanno riportato mio figlio nel cuore della notte hanno passato ore a cercare la colpa di due genitori che l’unica colpa che avevano era di essere troppo stanchi. Perché quando sei genitore, chi lo é lo sa, smetti di dormire.

Passi notti sveglio a controllare respiro, febbre, incubi e pavor. Ne passi altre ad immaginare il futuro dei tuoi figli, altre ancora a cercare di far quadrare i conti perché il futuro dei tuoi figli non sia così incerto come il tuo. Certe notti però - dice una canzone - certe notti crolli, perché ti spengono senza tu possa fare nulla per impedirlo, perché é il tuo corpo te lo chiede, perché devi recuperare il sonno mancato delle notti passate e quello che ancora ti mancherà.

E' di questo che volete un’esclusiva? Del fatto che sono stata svegliata nel cuore della notte per un motivo per cui nessuno al mondo vorrebbe cadere dal letto, la porta era aperta ma la luce spenta, in casa mia c’erano 4 persone di cui io vedevo solo l’ombra, che dicevano di essere carabinieri. Mio figlio di due anni e mezzo - che avevo addormentato io stessa qualche ora prima - era in braccio ad uno di loro. 

Questo è quello che è successo. A leggerla sul giornale sembra la storia più assurda e divertente degli ultimi anni.  Sonnambulo o no, mio figlio è un genio questo è sicuro. È innegabile una parte di me sia fiera di lui anche se non glielo dirò mai. È riuscito a rimanere vivo e a tornare a casa di notte, al buio e al freddo, in un posto nuovo. Scalzo ha camminato per 300 metri su una strada di asfalto e pietre.

Ha scavalcato un cancello 50cm più alto di lui e ha accarezzato un cane che non conosceva. Ha detto a degli sconosciuti dove dovevano andare per riportalo da mamma e papà. Ha ricattato i carabinieri e ha ottenuto la cioccolata che voleva in cambio di informazioni. Ha riconosciuto una casa uguale a 20 altre case. Capisco che una così faccia parlare.

Capisco che per certi versi mio figlio si merita un pezzo perché è davvero un piccolo supereroe. “Io c’avrei scritto un editoriale” mi ha confessato il mio amico giornalista Pat. Quello che non capisco però é che nessuno si sia fermato un minuto ad empatizzare con le emozioni di due genitori che, con figli minori, pensavano ancora di potersi sentire sicuri, almeno di notte e che invece un giorno 'x' di un mese 'y' improvvisamente capiscono che non è così. E come lo capiscono? Con una doccia gelata nel cuore della notte quando le tue difese sono abbassate e ti senti in diritto di riposare le stanche ossa…Neanche il tempo di smettere di far tremare le gambe e già tre inviti a programmi in diretta tv e sorprese organizzate per il piccolo Batman.

A tutti questi che continuano a chiamarmi vorrei ricordare che il mondo è pieno di guerre. Che al confine Italia Francia si respingono bambini che camminano di notte scalzi sulla neve. Bambini in fuga da quando sono nati. Che c'è molto, molto di più di cui parlare perchè il mondo ne venga a conoscenza. Che questa è l'Italia e me ne rammarico. A mio figlio ho già detto che se continua così sarà davvero Batman e come Batman rimarrà orfano perchè noi moriremo di crepacuore.   

Ai carabinieri vorrei ricordare come sono stati bravi a farmi notare che pur avendo accertato la nostra totale estraneità ai fatti e avendo toccato con mano la genialità di mio figlio, trattandosi di un minore erano comunque tenuti a fare una segnalazione alla procura della Repubblica. A poche ore dall'accaduto - chissà come però - eravamo sui giornali.

Agli assistenti sociali che magari domani mi chiameranno vorrei dire di vivere un giorno della mia vita e poi riparlarne. 

A Dio se esiste, solo: " Ma che ho fatto de male?".

Egle Priolo per “il Messaggero” il 31 marzo 2022.

È nato piangendo, come tutti. Ma a consolare le sue lacrime non sono serviti latte e abbracci.

Poi ha iniziato a tremare, senza fermarsi, con nessuna voglia di mangiare. Così, per giorni. Ma è bastata una confessione della madre per capire la verità: in gravidanza, lei, non ha mai smesso di sniffare cocaina. La diagnosi allora diventa inquietante ma per i medici purtroppo ovvia: i tremori e il pianto inconsolabile del suo bambino sono una crisi d'astinenza da droga. Che il piccolo ha assunto da feto per 9 mesi e che potrebbe portarlo fino alla morte in culla, senza una terapia di morfina o metadone.

Il destino di questo bambino - nato in un ospedale umbro e dopo un lungo ricovero affidato ai nonni, mentre la madre è finita in comunità a disintossicarsi e il padre è stato arrestato per droga è purtroppo identico a quello di circa 2.000 neonati a cui ogni anno in Italia si diagnostica la Sindrome da astinenza neonatale (San), un insieme di sintomi e segni clinici anormali, che si possono manifestare nei figli delle donne che hanno assunto sostanze stupefacenti o psicotrope durante la gravidanza.

Quando, con il parto e la nascita, l'assunzione - che passa la barriera placentare - viene interrotta, si causa una sintomatologia multiorgano che interessa il sistema nervoso centrale e autonomo e l'apparato gastroenterico. Come spiegano i responsabili della Società italiana di Neonatologia, «l'esposizione materna a sostanze tossiche durante la gravidanza può esporre il feto all'insorgenza di malformazioni congenite, ritardo di crescita intrauterino, microcefalia, emorragie o infarti cerebrali. Oltre a questi danni, che insorgono già in epoca prenatale, c'è poi la San. L'insorgenza della sintomatologia dipende dalla sostanza stupefacente assunta, ma generalmente compare tra le 24 e le 72 ore di vita. Raramente l'esordio può essere più tardivo, a 5 o 7 giorni dalla nascita».

LE CONSEGUENZE Gli esperti spiegano come le conseguenze sulla salute e sullo sviluppo del bambino si evidenzino sia a breve che a lungo termine, con i sintomi che non si limitano ai primi mesi di vita. Possibili i disturbi neuro-comportamentali, come ritardo del linguaggio, disturbi dell'attenzione, iperattività, comportamento aggressivo e impulsivo, disturbi di apprendimento e pure depressione. L'abuso di cannabinoidi, per esempio, non induce una vera e propria crisi di astinenza neonatale, ma ha però «effetti neuro comportamentali a breve e lungo termine e incide negativamente sullo sviluppo cognitivo, comportamentale e fisico. Gli oppiacei hanno un forte impatto sullo sviluppo neurocomportamentale del bambino a lungo termine, così come la cocaina».

I CASI Secondo i dati forniti dal Bambin Gesù di Roma, si stima che «possa essere affetto da San dal 3 al 50% dei neonati» le cui madri hanno fatto uso di stupefacenti mentre erano incinte. Ma in Italia ancora non esiste una statistica ufficiale, perché nonostante i tanti casi compresi i boom in qualche regione, nel Lazio il primo fu circa 6 anni fa il fenomeno è più ridimensionato rispetto agli Stati Uniti e varia per territori. In base agli ultimi dati disponibili, all'ospedale Fatebenefratelli di Roma ultimamente non ci sono stati casi, ma ne sono stati registrati anche 4 in un mese al Casilino e sei a Milano. In tutta l'Umbria sono circa 20 all'anno, e all'ospedale della Misericordia di Grosseto tempo fa ce ne sono stati 2 in due settimane. Dieci bimbi con la San sono nati in pochi mesi a Palermo, più una neonata arrivata in overdose all'ospedale di Licata, in provincia di Agrigento.

LA PREVENZIONE Una soluzione c'è e arriva da due fattori, come spiega il presidente della Società italiana di Neonatologia Luigi Orfeo, direttore di Neonatologia e Terapia intensiva neonatale dell'ospedale San Giovanni Calibita Fatebenefratelli di Roma: «Una maggiore consapevolezza delle donne sugli effetti che le sostanze stupefacenti producono ai loro bambini, che le spinge a diminuire o rinunciare all'assunzione, e l'aumento dei servizi territoriali di prevenzione e assistenza, come i Sert, che riescono a intervenire con programmi mirati e seguire meglio le donne tossicodipendenti durante la gravidanza.

Ma ancora non basta: che il miglior modo per abbassare ulteriormente la casistica sia quello di puntare sempre di più sulla comunicazione sociale e la sensibilizzazione delle giovani generazioni, coinvolgendo anche i ragazzi, non solo le donne, e parlando loro direttamente anche attraverso i social network».

"Misure per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro". Congedo parentale, le nuove regole per maternità e paternità: indennizzato fino ai 12 anni del figlio. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

L’Italia è probabilmente uno dei paesi europei dove essere genitori è un’impresa ardua. Ma arrivano novità sui diritti dei lavoratori genitori che potrebbero migliorarne la condizione. Entra in vigore la nuova tipologia di congedo paternità obbligatorio di 10 giorni, aumenta da 10 a 11 mesi congedo genitore solo, aumenta da 6 a 12 anni l’ età del bambino per cui usufruire del congedo parentale. Non solo: è stato esteso il diritto a indennità di maternità per lavoratrici autonome e libere professioniste, anche per gli eventuali periodi di astensione anticipati per gravidanza a rischio. Sono queste alcune delle direttive contenuti nei decreti legislativi di recepimento di direttive europee approvate dal Cdm. Tra le norme anche l’incremento dei mesi di congedo parentale coperto da indennità, al 30% della retribuzione aumentati da sei a nove in totale.

Due provvedimenti “che estendono i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e che introducono misure per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro“, ha spiegato il ministro del Lavoro Andrea Orlando. E ancora nuovi obblighi di informazione dei lavoratori rispetto alle proprie condizioni di lavoro, nuove tutele minime per garantire che tutti i lavoratori, inclusi quelli che hanno contratti non standard, beneficino di maggiore chiarezza in materia di trasparenza delle informazioni sul rapporto di lavoro e sulle condizioni di lavoro, comprese le ipotesi in cui le modalità di esecuzione della prestazione siano organizzate mediante l’utilizzo di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati.

Congedo parentale fino a 11 mesi per il genitore solo, indennità da 6 a 9 mesi

Dunque il diritto al congedo parentale per il genitore è esteso da 10 a 11 mesi. Finora l’estensione a 11 mesi valeva solo nel caso di utilizzo da parte di entrambi i genitori con l’utilizzo di cinque mesi da parte del padre. “Il livello della relativa indennità – spiega Orlando in una nota – è del 30 per cento della retribuzione, nella misura di tre mesi intrasferibili per ciascun genitore, per un periodo totale complessivo pari a sei mesi. Ad esso si aggiunge un ulteriore periodo di tre mesi, trasferibile tra i genitori e fruibile in alternativa tra loro, cui è connessa un’indennità pari al 30 cento della retribuzione. Pertanto, fermi restando i limiti massimi di congedo parentale fruibili dai genitori, i mesi di congedo parentale coperto da indennità sono aumentati da sei a nove in totale. L’indennità spettante ai genitori, in alternativa tra loro, per il periodo di prolungamento fino a tre anni del congedo parentale usufruito per il figlio in condizioni di disabilità grave, è del 30%”.

Orlando precisa che “viene aumentata da sei a dodici anni l’età del bambino entro cui i genitori, anche adottivi e affidatari, possono fruire del congedo parentale, indennizzato nei termini appena descritti” e che “è stato esteso il diritto all’indennità di maternità in favore rispettivamente delle lavoratrici autonome e delle libere professioniste, anche per gli eventuali periodi di astensione anticipati per gravidanza a rischio”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Valentina Errante per “il Messaggero” il 2 aprile 2022.

«È rimasta sorda agli inviti degli assistenti sociali», alle disposizioni dei giudici, neppure le ammende le hanno fatto cambiare atteggiamento. E adesso Giulia (il nome è di fantasia) non potrà più decidere per la sua bambina: ha perso la potestà genitoriale. Né incontrarla. Si è conclusa così la lunga guerra in tribunale per una coppia di Bari, che solo ieri ha ottenuto il divorzio ma da anni combatte anche sull'educazione della piccola contesa. Per i giudici, Giulia, non è in grado di essere una brava mamma, non sa educare la sua bambina, neppure dal punto di vista alimentare. Perché con lei è diventata obesa. 

Così il Tribunale ha disposto «l'affidamento super esclusivo» della figlia al padre, «con declaratoria di decadenza della responsabilità genitoriale» della madre e sospensione temporanea dei rapporti madre-figlia, «fino al pieno recupero da parte della donna delle proprie capacità genitoriali attraverso un percorso di sostegno psicologico». 

Adesso Giulia avrà dieci giorni per lasciare la casa e la sua bambina «portando con sé esclusivamente gli effetti personali». Si ribaltano le condizioni iniziali: dovrà anche versare un assegno al marito per il mantenimento della bambina.

 La sentenza, al termine di una causa di divorzio durata oltre 3 anni, partita dal ricorso del padre che lamentava di non poter vedere la figlia se non «per pochissimi minuti e solo grazie agli insegnanti della piccola prima dell'uscita da scuola», a causa del «perdurante, palese ostruzionismo» della ex moglie.  

I giudici evidenziano che in una fase iniziale la piccola «aveva dimostrato un sincero slancio affettivo e la gioia di incontrare suo padre», poi «aveva mutato radicalmente atteggiamento, assumendo comportamenti ingiustificatamente e immotivatamente oppositivi al genitore oltre che agli stessi operatori dei servizi, utilizzando un linguaggio adultizzato non consono alla sua età, conseguenza dei suggerimenti della madre». Fatti che per il Tribunale mostrano l'«assoluta inidoneità della madre a rendersi affidataria in condiviso della minore».

Si legge nella sentenza: «Non può essere trascurata la gravissima circostanza che ha indotto la figlia a rifiutare la figura paterna»; la donna inoltre «si è rivelata del tutto insofferente all'osservanza delle prescrizioni dettate dai servizi sociali per gestire gli incontri padre-figlia», omettendo di portare la bambina agli incontri senza avvertire o portandola in ritardo e «non è mai intervenuta in maniera assertiva, sincera e collaborativa per il bene della figlia, trascurando di mettere al centro del suo agire il benessere della figlia». 

I giudici sottolineano come la madre «accompagnando sistematicamente sua figlia» a mangiare in fast food «e comunque sottoponendola ad una dieta alimentare non consona alla sua età, ne ha determinato la condizione di evidente obesità, esponendola a gravi rischi per la sua salute» e «ha dimostrato di non essere in grado di aiutarla e assisterla adeguatamente durante il percorso di studi, se è vero che la bambina presenta un rendimento scolastico lacunoso che va immediatamente recuperato attraverso il cambio del collocamento e dell'affidamento». 

Ora se la donna non rispetterà le prescrizioni, l'uomo potrà avvalersi della forza pubblica per fare rispettare la sentenza. Ma la decisione sarà molto dolorosa per la piccola, abituata a vivere in via esclusiva con la madre. Tanto che i giudici precisano: «Nella prima fase in cui il padre riprenderà a vivere ordinatamente con sua figlia, dovrà essere supportato dai servizi sociali territoriali, affinché la minore possa recuperare con lui un significativo rapporto affettivo e sia aiutata ad accettare il distacco da sua madre».  

«Il Tribunale ha emesso una sentenza coraggiosa ma anche molto dolorosa commenta Maria Antonietta Papadia, legale dell'uomo. Che spiega come la madre, soprattutto in relazione all'alimentazione e alla scuola, non fosse in grado in realtà di negare nulla alla figlia, «Forse per compensare il vuoto paterno, che però lei stessa aveva determinato».

Una sentenza che "sicuramente farà storia perché è innovativa, dà speranza ai papà". Bimba contesa affidata al padre, bocciata la madre: “Con lei va male a scuola e mangia troppo”. Redazione su Il Riformista il Marzo 2022. 

Una figlia contesa che viene affidata in maniera esclusiva al padre, mentre la madre- con cui viveva- perde la potestà genitoriale e viene obbligata a versare un assegno di mantenimento. Una sentenza, quella del Tribunale di Bari, che ribalta completamente la situazione iniziale e che mette il punto a una vicenda andata avanti per anni, tra dispetti  e ripicche.

I giudici si sono focalizzati sul benessere della minore che, come sottolineato dai servizi sociali, è diventata obesa per l’abitudine della madre a portarla nei fast food, e ha un rendimento scolastico definito ‘lacunoso’.

La vicenda

Tutto è cominciato nel 2019, con la separazione della coppia, come racconta Repubblica. All’inizio la bambina, che ora ha 9 anni, viveva con la madre: il padre provvedeva al mantenimento e al pagamento di metà rata del mutuo per la casa di famiglia. Poi la situazione è cambiata.

L’ex moglie non faceva più vedere la figlia al padre, tanto che era stata anche costretta a risarcire l’ex marito di 200 euro ogni volta che veniva violato il diritto di visita paterno e a versare duemila euro in favore della cassa delle ammende. I servizi sociali, nella loro relazione, hanno evidenziato come la donna saltasse gli appuntamenti calendarizzati, adducendo scuse di vario tipo. Ma nel frattempo anche l’atteggiamento della bimba nei confronti del padre era cambiato. Dagli slanci di affetto e di gioia era passata a “comportamenti ingiustificatamente e immotivatamente oppositivi al genitore oltre che agli stessi operatori dei servizi, utilizzando un linguaggio adultizzato non consono alla sua età, conseguenza dei suggerimenti della madre.” 

La sentenza 

Nella sentenza del Tribunale di Bari ci sono anche altre motivazioni per l’affidamento ‘super esclusivo’ al padre e l’allontanamento dalla madre. La bambina ha infatti iniziato ad andare male a scuola, ma soprattutto è arrivata a una condizione di ‘evidente obesità’ con gravi rischi per la sua salute, perché  con l’altro genitore andava a mangiare nei fast food. Per i giudici ora “suo padre dovrà assumere da solo tutte le decisioni più importanti per la vita di sua figlia eventualmente avvalendosi dell’ausilio e della collaborazione dei servizi sociali territoriali”. L’ex moglie dovrà inoltre allontanarsi dalla casa coniugale – in cui non viveva con la figlia, nonostante l’uomo contribuisse a pagare metà del mutuo – dove tornerà a risiedere l’ex marito con la piccola. La donna dovrà versare i soldi per il mantenimento della figlia, non potrà vederla fino a quando non recupererà le capacità genitoriali e dovrà anche pagare le spese processuali. Non le è stato neanche riconosciuto l’assegno di divorzio che aveva richiesto, perché giovane e in buono stato di salute, quindi perfettamente in grado di lavorare.

Il Tribunale con questa sentenza ha voluto tutelare appieno la bimba: “Ha una personalità in corso di formazione, e, quindi, va sottratta al deleterio ambiente familiare nel quale finora è vissuta, allo scopo di non vedere ulteriormente pregiudicato il suo equilibrato sviluppo psicofisico”.

L’avvocata Maria Antonietta Papadia, che ha difeso il papà, ha commentato la sentenza definendola ‘coraggiosa e lungimirante’: “Scardina vecchi preconcetti come quello della madre che deve essere il genitore affidatario a tutti i costi. Sicuramente farà storia perché è innovativa, dà speranza ai papà che vedono spesso compresso il loro diritto di svolgere il ruolo di padre, che è pari al ruolo della madre”.

Frascati, uomo si barrica in casa armato per vedere i figli. Arrestato. Massimiliano Gobbi su Il Tempo il 30 marzo 2022.

Si è barricato in casa riuscendo ad impossessarsi di una pistola – regolarmente detenuta dal padre e custodita in un locale armeria dell’abitazione – minacciando di suicidarsi se non avesse riabbracciato i propri figli, che non vedeva dallo scorso 26 marzo, quando la sua ex compagna, dopo un violento litigio, aveva deciso di portarli con sé a Napoli, a casa dei genitori. Il protagonista della vicenda, successa ieri sera, è un romano di 32 anni con precedenti e a dare l’allarme ai Carabinieri di Frascati è stato il padre dell’uomo, che non è riuscito a convincerlo a desistere dal gesto.

Ad intervenire sul posto sono stati i Carabinieri della Compagnia di Frascati insieme ai militari dell’Aliquota di Primo Intervento del Nucleo Radiomobile di Roma e il negoziatore del Nucleo Investigativo di Frascati che hanno cinturato e messo in sicurezza la zona circostante il villino. Dopo 5 lunghe ore di trattative, grazie anche all’arrivo da Napoli dell’ex compagna con i loro figli, l’uomo si è arreso, consegnando spontaneamente l’arma ai Carabinieri che lo hanno arrestato con l’accusa di detenzione illegale di arma da fuoco.

Considerato lo stato di forte agitazione del 32enne, il personale del “118” lo ha sedato e condotto presso l’ospedale di Frascati per accertamenti, dove è tuttora piantonato dai militari.

Bari, sentenza innovativa: «Ostruzionismo della madre, ora la piccola va dal padre». Fino a quando la donna non avrà recuperato le «capacità genitoriali», la piccola starà col padre. Giovanni Longo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Marzo 2022.

Il collocamento di un figlio minore non significa affatto che il genitore chiamato dal Tribunale ad occuparsi di lui debba esercitare un diritto assoluto, sino al punto di impedire gli incontri tra minore ed ex coniuge. E se, dopo il primo e magari il secondo «cartellino giallo», persiste ancora un atteggiamento ostruzionistico, la responsabilità genitoriale potrebbe avere i giorni contati. Sino a quando il collocatario non sarà «rinsavito», il minore sarà affidato all’altro genitore.

Si può riassumere così il ragionamento del Tribunale di Bari che con sentenza ha affidato una bimba di 9 anni «in via super esclusiva al padre», sospendendo temporaneamente gli incontri madre/figlia fino all’esito positivo del percorso di recupero delle proprie capacità genitoriali, anche attraverso un sostegno psicologico cui dovrà sottoporsi in consultorio famigliare. Dietrofront sull’affido, dunque.

Nel mirino atteggiamenti «ostruzionistici» del genitore collocatario, in questo caso una madre che avrebbe impedito alla piccola di incontrare il padre secondo le modalità che stesso Tribunale aveva definito. A nulla sono valse le ammonizioni (200 euro per ogni violazione del diritto di visita paterno) e nemmeno la condanna al pagamento di 2.000 euro in favore della casse delle ammende, sanzioni disposte sempre dal Tribunale durante una delle numerose «parentesi» del processo che fotografa una dolorosa vicenda umana in cui, come accade in molte separazioni, a farne le spese sono proprio i minori. La piccola, dunque, andrà da suo padre che da quattro anni non riusciva a vedere la figlia.

Un conto sono i rapporti tesi tra genitori, altro è il benessere del figlio. La prima sezione civile del Tribunale di Bari (presidente e relatore Saverio de Simone, giudici Emanuele Pinto e Lorenzo Mennoia), accogliendo il ricorso del padre della piccola, assistito dall’avvocato Maria Antonietta Papadia, ha sottolineato «l’ostinato comportamento» della madre, ormai non più affidataria, divenuta «sorda agli inviti» e «pervicacemente inadempiente alle prescrizioni dei provvedimenti giudiziali».

Tante le ragioni che hanno spinto il Tribunale a concludere per «l’assoluta inidoneità a rendersi affidataria in condiviso della minore». Innanzitutto la donna ha «indotto sua figlia a rifiutare la figura paterna», nonostante i rapporti tra padre e piccola «si fossero rivelati fin da subito non soltanto praticabili ma anche ispirati ad un sincero rapporto affettivo». Nella relazione dei servizi sociali viene inoltre «stigmatizzata la discontinuità della presenza ai colloqui» della madre che avrebbe anche disertato gli appuntamenti con scuse di varia natura. Evidenziata la sua «indisponibilità a rendersi più collaborativa». La donna, ad esempio, «non è mai intervenuta in maniera assertiva, sincera e collaborativa per il bene della figlia» e non si sarebbe preoccupata della corretta alimentazione della bambina limitandosi spesso a farla pranzare in fast food e «comunque sottoponendola ad una dieta alimentare non consona alla sua età», circostanza che ha determinato nella piccola una «condizione di evidente obesità, esponendola a gravi rischi per la sua salute».

La madre, inoltre, «ha anche dimostrato di non essere in grado di aiutare e assistere adeguatamente» la figlia neppure durante il percorso di studi come dimostra il «rendimento scolastico lacunoso» della piccola. Un andamento in classe che «va immediatamente recuperato attraverso il cambio di collocamento e anche dell’affidamento», scrive il Tribunale. Una decisione «finalizzata a favorire proprio quel recupero della relazione padre-figlia che non deve essere ulteriormente pregiudicata dall’influenza materna». Peraltro, bisogna anche tenere conto della personalità in corso di formazione di una bimba di 9 anni da tutelare che «va sottratta al deleterio ambiente famigliare». In sintesi, spetterà d’ora in poi al padre «assumere da solo tutte le decisioni più importanti per la vita di sua figlia». Per evitare che la madre «possa ulteriormente esplicare la sua negativa capacità di condizionamento sulla minore», sospesi al momento i rapporti».

«Questo è un provvedimento coraggioso del Tribunale civile che prende una posizione importante da divulgare affinché sia di monito a quei genitori collocatari che pensano di poter fare il bello e cattivo tempo - commenta l’avvocato Cinzia Petitti, direttore della rivista dirittoefamiglia.it -. Comportamenti simili a quelli messi in atto da questo genitore non sono stati sanzionati in altri casi con questi provvedimenti drastici ed il risultato è stato lo spezzare definitivamente il legame del genitore non collocatario con il figlio».

Il mafioso si pente per amore della figlia ma i giudici gli vietano di crescerla. Enrico Bellavia La Repubblica il 28 Marzo 2022.  

Emanuele Mancuso ha iniziato a collaborare una settimana prima della nascita della bambina. L’ex compagna ha fatto di tutto per indurlo a ritrattare ed è stata condannata. Ma la bimba, che ha cambiato nome, resta a vivere con lei.

Lui, 34 anni, Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia di peso. Più per quel che sa che per quel che fatto. Lei, 30 anni, ferma nell’intenzione di non rescindere alcun legame con la famiglia mafiosa dell’ex compagno. In mezzo, una bambina contesa che oggi ha 4 anni e un altro nome. Il padre, tornato libero ma sotto scorta, può vederla meno di un’ora a settimana, in una località protetta, diversa e distante dalla casa, anche questa protetta, in cui la piccola vive con la madre.

«Servono case famiglia protette per non obbligare a scegliere tra la mamma e la libertà». Viola Ardone La Repubblica il 25 Marzo 2022.  

Veri e propri appartamenti senza sbarre né cancelli. Ma comunque controllati. Un esperimento per salvaguardare i bambini e la relazione con la madre.

Che cos’è casa, che cos’è vita, che cos’è mondo? Potrebbero essere queste le domande dei bambini che vivono in carcere. Sono i «bambini galeotti», come sono stati definiti con uno stridente ossimoro da Luigi Manconi, ex senatore e presidente dell’associazione A buon diritto.

Minori piccoli e piccolissimi che condividono con le loro madri un destino di reclusione di cui non sono responsabili, ma che hanno ereditato insieme al latte materno, come condizione quotidiana del loro vivere.

Anni di scioperi della fame e battaglie in tribunale per non farsi portare via il bambino. Laura Massaro, la storia della mamma in lotta per il figlio: “Per Cassazione alienazione parentale illegittima”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Marzo 2022. 

Ha lottato nelle aule dei tribunali, ha gridato e ha fatto scioperi della fame. Alla fine Laura Massaro ce l’ha fatta: la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato da Laura Massaro e dai suoi legali dell’Associazione Differenza Donna. La mamma era stata accusata di alienazione parentale e il ricorso era stato presentato per fermare il prelevamento del bambino. Una sentenza destinata a fare storia.

Una lotta, quella di laura, durata quasi 10 anni. Vissuti con l’ansia che da un momento all’altro qualcuno poteva venire a prendersi il figlio per portarlo in una casa famiglia. La Corte ha accolto ‘in toto’ il ricorso presentato dalla donna, 42 anni, romana, vittima di violenza da parte dell’ex compagno, accusata di essere mamma alienante e per questo in battaglia da anni, nelle aule di tribunale per evitare che le venisse portato via il figlio oggi dodicenne come richiesto dall’uomo da cui è separata da quando il bimbo era piccolissimo.

La Corte ritiene la “decadenza della responsabilità genitoriale” e il successivo “trasferimento del bambino in casa-famiglia con l’uso della forza fuori dallo Stato di diritto”. È quanto si apprende da una nota dell’Associazione ‘Differenza donna’. La suprema Corte condanna l’alienazione parentale, e tutela “il rispetto al diritto della bigenitorialità” definendolo un “diritto del minore”, considerando il “trauma del distacco” con la figura materna.

Una vittoria definita “storica” dalla presidente dell’associazione Elisa Ercoli, la quale esprime così tutta la soddisfazione della Associazione che con le sue legali Manente, Boiano ha sempre sostenuto Laura Massaro. “Oggi è un giorno in cui facciamo la storia in materia di liberazione di donne e bambine/i in uscita dalla violenza”, aggiunge Ercoli. “Così come è stato per il no di Franca Viola sul matrimonio riparatore, oggi Laura rappresenta tutte le donne per un no definitivo a violenza istituzionale agita contro donne bambine e bambini in materia Pas, prelievi forzati e altre forme di violazione dei diritti umani. Quando la storia è segnata da progressi come oggi vince una, vinciamo tutte”, conclude Ercoli.

Nell’ordinanza depositata oggi, riferisce l’associazione Differenza Donna che ha lottato al fianco di Laura Massaro, la Cassazione ribadisce che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”.

La Suprema Corte, spiega ancora la presidente dell’associazione Elisa Ercoli, ha quindi cassato la decisione del tribunale che aveva disposto l’allontanamento del bambino, la decadenza della responsabilità genitoriale e l’interruzione dei rapporti tra mamma e figlio “poiché ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche, tutte volte all’accertamento dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico”.

Nell’ordinanza si osserva che il diritto alla bigenitorialità, così come ogni decisione assunta per realizzarlo, non può rispondere a formula astratta “nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ‘ex abrupto’ del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola“. La Cassazione, inoltre, ha ritenuto nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore.

Quanto all’uso della forza per sottrarre il minore dal luogo ove risiede con la madre e collocarlo in una casa-famiglia, la Corte ha giudicato questa misura “non conforme ai principi dello Stato di diritto – riferisce Differenza Donna – in quanto prescinde del tutto dall’età del minore, ormai dodicenne, non ascoltato, e dalle sue capacità di discernimento, e potrebbe cagionare rilevanti e imprevedibili traumi per le modalità autoritative che il minore non può non introiettare, ponendo seri problemi, non sufficientemente approfonditi, anche in ordine alla sua compatibilità con la tutela della dignità della persona, sebbene ispirata dalla finalità di cura dello stesso minore”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Andrea Camurani per corriere.it il 24 marzo 2022.

Ha assassinato i figli, poi si è suicidato. Il padre di 45 anni, Andrea Rossin, ha ucciso la figlia Giada, di 13 anni, e il figlio Alessio, di 7 anni, nella casa di via Pezza a Mesenzana, poco distante da Luino, provincia di Varese. 

Da qualche settimana l’uomo era in crisi con la compagna, che si era trasferita in un paese vicino. La donna, dopo avergli affidato i figli mercoledì sera, è a riprenderli giovedì mattina, poco prima delle 8, e ha fatto la tragica scoperta.

Sui corpi ferite di arma da taglio. Sul posto i carabinieri della Compagnia di Luino e del reparto operativo di Varese, oltre agli operatori del 118. Sul luogo della tragedia anche il sindaco Alberto Rossi.

I genitori si erano allontanati

Nelle ultime settimane la madre dei bambini, commessa in un supermercato al confine con la Svizzera, si era trasferita, mentre Andrea Rossin, che viveva di lavori saltuari, era rimasto nella casa di famiglia, una villetta a schiera al secondo piano di una nuova e signorile costruzione con profili in mattoni a vista.

I ragazzi andavano a scuola a Mesenzana, un paese di 1.523 abitanti in provincia di Varese. La maggiore frequentava la terza media, il più piccolo la seconda elementare. La mamma era passata a prendere Alessio e Giada appunto per accompagnarli a scuola, dopo aver dormito con il padre. 

Trasportata in pronto soccorso a Cittiglio perché colta da malore, verrà ascoltata dagli inquirenti per poter ricostruire le ultime ore di vita dei figli e comprendere se ci fossero eventuali tensioni pregresse tra lei e l’ex marito.

I bimbi uccisi nel sonno

Da una prima ricostruzione, i bambini sarebbero stati uccisi nel sonno, sembra con un fendente alla gola, e la stessa arma, un coltello, è stata usata dall’uomo per togliersi la vita.

Sconvolti gli amici, che si sono presentati fuori dal condominio fra le lacrime. «Andrea adorava i figli, viveva per loro». Nella casa non sono stati trovati messaggi scritti. Una tragedia di cui «non era possibile leggere alcun segno premonitore», ha spiegato il colonnello Gianluca Piasentin, comandante provinciale dell’Arma, dopo un lungo sopralluogo nell’appartamento dove in tarda mattinata è arrivato anche il medico legale e il pubblico ministero di Varese Giulia Floris. A carico dell’omicida non risultano precedenti penali.

Mesenzana, mamma Luana e i figli uccisi dal compagno Andrea Rossin: «Insisteva per tenerli, mi sono fidata». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Mesenzana (Varese), lo strazio della madre di Giada e Alessio: «Sarà sempre e soltanto colpa mia. Era loro padre, mi sono fidata». L’uomo era malato di depressione e in cura da uno psichiatra.

Son tutti qui, fuori e dentro l’ospedale di Cittiglio. Bottigliette d’acqua, fazzoletti, tavolette di cioccolato, caricabatterie del cellulare. Parenti fino all’ultimo grado. Starle vicino, stare insieme, aggrapparsi alla famiglia e alle preghiere. Luana è ancora sotto osservazione, sedata, controllata non soltanto a causa dei continui malori accusati dalle 7.45 di giovedì, quando ha aperto la porta al primo piano della villetta in via Pezza, ha chiamato sia Giada sia Alessio ma i figli non rispondevano, allora è entrata nelle due camere da letto. Erano lì. Giada, 13 anni; Alessio, 7 anni. Senza vita insieme al papà Andrea Rossin, che li ha uccisi nel sonno, con una coltellata al cuore prima di suicidarsi con identica arma e identica modalità.

L’operaio, la depressione, lo psichiatra

Gli inquirenti avevano già ascoltato Luana, 35 anni, commessa in un supermercato, da due settimane separata dal convivente di nove anni maggiore, operaio edile, malato di depressione e in cura da uno psichiatra; lo avevano fatto quasi esitanti, per obbligata e inderogabile attività investigativa, nei brevi periodi coscienti della donna. Che adesso, raccontano i familiari, ripete identiche frasi: «È colpa mia... Sarà sempre e soltanto colpa mia... Ma lui insisteva, era loro padre, mi sono fidata».

I timori della famiglia

Martedì le autopsie. Il medico legale non ha misteri da risolvere; semmai, potrà appurare l’assunzione di psicofarmaci, magari in quantità esagerata, da parte di Rossin, che ha assassinato dopo essersi svegliato e aver bevuto una tazzina di caffè, evitando di lasciare messaggi. A suo avviso, non aveva nulla da spiegare a nessuno. I parenti di Luana non ne nascondono le preoccupazioni degli ultimi giorni, a causa delle pressioni psicologiche (si vocifera anche di pedinamenti) affinché «tornasse con lui». Non taceva, lo stesso Rossin, le infondate convinzioni per cui non avrebbe più rivisto Giada e Alessio, «rapiti da Luana». Ne era proprio sicuro, ma auto-alimentava i pensieri che divenivano delirio; domandava con insistenza, però Luana replicava che così non sarebbe stato. Ed è, questo, un altro pensiero — uno straziante lamento — della mamma, che è stata combattuta tra appunto l’ansia di reazioni in Rossin, e la volontà di gestire la crisi, proseguire nell’opera di mediazione, investire fiducia nella pazienza umana e, ancor più, nel tempo.

La separazione

Dal giorno della separazione, Giada e Alessio vivevano dalla nonna materna, a due chilometri di distanza, in una strada affiancata da un campo, insieme alla mamma, che acconsentiva a provvisori ritorni, di giorno come di notte, dal padre, anche su pressione dei figli i quali nella villetta di Mesenzana avevano l’amato cagnolino e la maggior parte dei giocattoli. Nessun disguido, nessuna improvvisa sottrazione: era stata Luana, alle 18 di mercoledì, ad accompagnare Giada e Alessio da Rossin, aspettare che lui andasse a far la spesa per la cena, quindi salutare dando appuntamento all’indomani, alle 7.45, per procedere a piedi verso le scuole, le elementari e le medie, dove da subito dirigenti e professori hanno organizzato incontri con gli psicologi. Obiettivo, veicolare le informazioni relative al massacro, governarle, assistere l’elaborazione del trauma e del lutto. La maggioranza dei ragazzini già sapeva poche ore dopo i delitti, informata da Internet sui cellulari.

Nei due bar punto di ritrovo del paese, mamme italiane e straniere raccontano che più d’un figlio ha chiesto se papà li ucciderà nel sonno. Fino alla sera prima, domandavano se la guerra arriverà anche qui, sotto le alture dei percorsi di trekking affollati dalle famiglie il fine settimana. Per intanto arriveranno altri psicologi, dodici, inviati dalla Croce Rossa per aiutare l’intera comunità, senza distinzione tra piccoli e adulti.

Mesenzana, bambini uccisi dal papà. La mamma: «Un orrore per punirmi». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.

L’ex compagna di Andrea Rossin da due settimane era tornata a vivere dalla madre con i figli Giada e Alessio. Lui la perseguitava con la sua gelosia patologica: telefonate, messaggi, sembra pedinamenti.

Andrea Rossin, 44 anni, operaio edile, uno solito cambiare sede di lavoro per problemi con ogni collega, malato di depressione e in cura da uno psichiatra, un lontano precedente per droga, si è alzato alle 6 di giovedì dal letto matrimoniale dove dormiva con il figlio Alessio, 7 anni. Ha raggiunto la cucina, riempito una moka e atteso che uscisse il caffè. L’ha versato in una tazzina e bevuto, ha aperto il cassetto delle posate e afferrato un coltello di quelli per tagliare la carne, è andato nella stanza dove riposava la primogenita Giada, 13 anni, l’ha uccisa. Tornato nella sua camera, ha tolto la vita anche ad Alessio e infine a se stesso. Ogni volta, per tutte e tre le volte, un unico fendente diretto al cuore.

«Devi tornare con me»

Primo piano di una villetta in via Pezza a Mesenzana, piccolo paese in provincia di Varese circondato dalle alture boschive dei sentieri che regalano visuali sul lago Maggiore. Due abitazioni più avanti, dieci anni fa, un altro padre aveva assassinato la figlia. Da due settimane Rossin e la compagna Luana, commessa di 35 anni in un supermercato, si erano separati. Lui aveva amplificato le già presenti ossessioni, come raccontato ai carabinieri dalla donna, che ha aperto la porta alle 7.45, ha scoperto i cadaveri, ed è corsa fuori aggrappandosi alla ringhiera per invocare aiuto e non svenire: l’ex la perseguitava; telefonate, messaggi, sembra pedinamenti affinché «ci ripensasse». E Luana, stanca, stanchissima delle piazzate, della gelosia patologica, della conta dei minuti se andava in un negozio, degli interrogatori se per caso in strada salutava un uomo, ecco aveva deciso di stare dalla madre insieme a Giada e Alessio. Acconsentiva a che i figli trascorressero del tempo col papà, anche perché nella villetta avevano lasciato molti giochi. Così alle 18 di mercoledì, Luana aveva trasferito Giada e Alessio in via Pezza, attendendo che Rossin andasse a far la spesa per la cena prima di salutare e dare appuntamento all’indomani: avrebbe accompagnato i figli a scuola.

Le cartelle cliniche

Indaga il Comando provinciale di Varese, coordinato dalla locale Procura. Le prossime azioni investigative riguarderanno le condizioni mentali dell’omicida (ed eventuali omissioni), con i resoconti dello psichiatra e le cartelle cliniche. Nella sempre imperscrutabile mente umana, bisogna dire che le sedute col dottore avrebbero poggiato non tanto sul rapporto con Luana bensì sulla personale inquietudine di Rossin, il quale potrebbe aver assunto, nella notte antecedente l’orrore, degli psicofarmaci. Le condizioni di insostenibile dolore della donna non hanno permesso un dialogo completo con gli inquirenti, fermo restando che, come prime voci del racconto, Luana ha per appunto elencato gli atteggiamenti dell’ex, le paranoie, l’ansia permanente di «controllo», la convinzione che la famiglia dovesse vivere secondo le sue decisioni e non potesse mai, mai per nessuna ragione, dividersi: «Ha voluto punirmi. Ripeteva che non gli avrei più fatto vedere Giada e Alessio, ma non è vero, non è vero», mormorava Luana, che ha accusato più malori. Esclusi, nel passato, denunce e interventi delle forze dell’ordine per sedare liti; concorde resoconto viene fornito dai vicini.

La festa di compleanno

Nel paese, la gente ricostruisce l’ultima geografia. Da Rossin che l’altro ieri camminava in strada a testa bassa, «assente», alla mamma e ai figli venuti nel bar «La piazzetta» per comprare caramelle. La titolare tutta felice aveva confidato ad Alessio che erano appena ricomparse le sue preferite; il bambino aveva chiesto il permesso di prenderne una, e Luana, «con quella sua solita gentilezza perfino eccessiva, fuori dal tempo in questi tempi così brutti», aveva acconsentito. «Sorrideva. Il sorriso però che hai anche se sei triste, e che devi importi per non far preoccupare i figli». Alessio. E Giada che pensava alla festa di compleanno, la prossima settimana. Quanto al loro papà e assassino, Rossin si è inferto la coltellata in piedi, fissando il muro mentre fuori albeggiava.

Gianni Santucci per corriere.it il 28 gennaio 2022.

Alle 20.40 del 24 gennaio scorso, un uomo rientra in casa dal lavoro e scopre che sua figlia, meno di due anni, e la sua compagna, madre dalla bambina, non ci sono più. Mancano un trolley e alcuni indumenti. 

L’uomo cerca tra i documenti, ma il passaporto della piccola non c’è più. Per due volte durante la giornata, intorno alle 14, e di nuovo poco dopo le 18, si è scambiato messaggi in chat con la compagna. 

Chiedeva se la bambina dormisse e se a casa andasse tutto bene. In entrambi i casi la donna ha risposto che era tutto tranquillo e che la figlia dormiva. Poco dopo le 21 però, al rientro, non trovandole nell’appartamento, l’uomo invia nuovi messaggi, stavolta con inquietudine.

La risposta arriva poco prima delle 23: la donna (cittadina tedesca che da anni vive in Italia col compagno) gli comunica che la bambina è nella sua abitazione in Germania, e che da quel momento gli unici contatti dovranno avvenire attraverso i rispettivi avvocati. 

Poco prima della mezzanotte della stessa sera, il padre è seduto davanti ai carabinieri del comando provinciale di via Moscova e firma una deposizione con una denuncia per «sottrazione internazionale di minore».

La battaglia giudiziaria

Storia complessa di una convivenza finita pochi mesi dopo la nascita della bambina; approdata in seguito al rientro in casa della madre e al tentativo di un accordo legale per definire tempi e modi per la gestione della figlia da parte di entrambi i genitori, una sorta di definizione anticipata fuori da un Tribunale (davanti al quale sarebbe stata comunque da ratificare) per assicurare una crescita tranquilla alla piccola. 

La «fuga» in Germania è avvenuta proprio dopo che il padre, assistito dall’avvocato Gennaro Colangelo, aveva ricevuto un testo scritto dal legale della madre per la definizione dell’accordo (che secondo il legale l’uomo avrebbe accettato).

Non è una storia inedita, di casi del genere nei Tribunali italiani ce ne sono molti, ma che vale la pena raccontare proprio per la ripetitività della situazione, e per il calvario umano e giudiziario che poi si apre in questi casi. 

Il reato

La «sottrazione internazionale di minore» è infatti un reato che avviene quando un bambino (sotto i 16 anni di età) che ha la residenza abituale in uno Stato, viene portato in un altro Paese senza il consenso dell’altro genitore che ha la patria potestà.

In questo caso la bambina, nata in Germania, ha doppia cittadinanza, ma il suo luogo di residenza abituale è sempre stato il Comune alle porte di Milano in cui ha vissuto prima con entrambi i genitori, poi per alcuni mesi solo con il padre (che ha sempre lasciato alla mamma la possibilità di vedere la bambina). 

Sulla vicenda (per quanto se ne possa avere conoscenza fino a oggi), agli atti esistono soltanto un altro paio di esposti, firmati sempre dal padre, nei quali l’uomo racconta della difficile convivenza con la compagna dal momento in cui la donna era tornata in casa con lui e la figlia, dopo aver cambiato residenza per alcuni mesi nei quali (sempre stando agli esposti) chiedeva di poter portare con sé la bambina, ipotesi alla quale il padre si è sempre opposto ritenendo di non avere sufficienti garanzie. 

Da ansa.it il 2 Gennaio 2022. Davide Paitoni (non Paitone come emerso in un primo momento), ha lasciato un biglietto sul corpo senza vita del figlio Daniele, 7 anni, confessando il brutale delitto. Poi ha avvisato con un messaggio vocale suo padre, dicendogli di aver fatto del male a suo figlio e di non aprire l'armadio della sua camera da letto, dove ha nascosto il corpo del bambino ucciso con un fendente alla gola. 

Il provvedimento di fermo è stato emesso dalla Procura di Varese in presenza di gravissimi indizi nei confronti dell'uomo, bloccato dai carabinieri dopo un inseguimento in auto durante il quale Paitoni ha tentato di speronare i militari. In macchina aveva coltello e cocaina. 

Monica Serra per lastampa.it il 2 Gennaio 2022. Il piccolo, di 7 anni, sgozzato e nascosto nell’armadio è stato trovato questa mattina dai carabinieri. Una scoperta terribile, arrivata nel corso delle ricerche del padre, Davide Paitoni, 40enne di Morazzone, nel Varesotto, che era già ai domiciliari per altre vicende e, dopo un tentativo di fuga, è stato fermato nella notte. 

Paitoni ha ammazzato il figlio, Daniele, nel tardo pomeriggio di ieri, o comunque intorno alle otto di sera. Aveva ottenuto di trascorrere il Capodanno con il bambino, affidato dalla ex moglie, da cui il 40enne era separato da qualche tempo. E sul punto è chiaro che si scateneranno molte polemiche. Paitone, infatti, era ai domiciliari per una vicenda accaduta lo scorso 26 novembre, quando aveva accoltellato alla schiena un collega ad Aizzate, sempre in provincia di Varese.

È stata la donna a lanciare l’allarme alle nove e mezzo di ieri sera. Aspettava il figlio, invece è arrivato solo l’ex marito, nella sua casa di Gazzada Schianno, sempre nel Varesotto. Forse voleva uccidere anche lei. L’ha aggredita, l’ha ferita, ma la donna è riuscita a salvarsi e a chiamare il 112.

Subito sono intervenuti i carabinieri del comando provinciale di Varese con i colleghi di Saronno. Mentre la donna è stata affidata ai soccorritori del 118, ora è in ospedale ma fuori pericolo, i carabinieri sono andati a cercare padre e figlio a casa del nonno a Morazzone. L’uomo però non si sarebbe accorto di nulla: era visibilmente stordito, non si sa ancora se a causa di qualche sostanza che potrebbe aver ingerito. Di Paitoni in casa non c’era traccia. Ma l’intero appartamento, in parte suddiviso, è stato perquisito. E all’interno di un armadio è stato trovato il corpicino del bambino, oramai senza vita.

La procura, diretta da Daniela Borgonovo, ha avviato una capillare caccia all’uomo in tutta la provincia di Varese. Nel tentativo di fuga il 40enne ha anche speronato un’auto dei carabinieri. Alla fine si è nascosto in un capanno di cacciatori a Viggiù, vicino al confine con la Svizzera. Lì è stato arrestato dagli investigatori. 

Da quel che si sa non aveva mai avuto atteggiamenti violenti nei confronti del figlio. Sarebbe invece emerso un episodio di maltrattamenti nei confronti della ex moglie, tra il 2018 e il 2019, che sarebbe tra le cause della separazione.

Omicidio a Varese, uccide il figlio di 7 anni e accoltella l’ex moglie: arrestato mentre tenta la fuga. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2022. Il dramma nella serata di sabato a Morazzone, vicino a Gazzada: il piccolo era ospite del padre, Davide Paitone, per Capodanno. Il quarantenne, agli arresti domiciliari, ha tentato di uccidere anche la donna. Il corpicino del piccolo trovato in un armadio.

È accusato di aver prima ucciso il figlio di 7 anni, che era con lui per passare il Capodanno, e poi di aver tentato di ammazzare anche la moglie, dalla quale si stava separando. L’uomo, Davide Paitone, 40 anni, è stato arrestato domenica mattina dai carabinieri di Varese e Saronno mentre era in fuga a Viggiù, al confine con la Svizzera.

La tragedia si è consumata nella serata di sabato a Morazzone, vicino a Gazzada, in provincia di Varese, dove Paitone era agli arresti domiciliari in casa del padre: era accusato di aver accoltellato un collega di lavoro ad Azzate, a fine novembre. Da quanto emerge, era in corso una pratica di separazione con la moglie, che aveva già segnalato episodi di violenza.

L’omicidio, a quanto ricostruito, sarebbe avvenuto nel tardo pomeriggio. Il 40enne aveva ottenuto di poter trascorrere il Capodanno con il figlio che, domenica sera, sarebbe dovuto tornare dalla mamma. Il piccolo è stato ucciso con un solo fendente, alla gola. Poi Paitone è uscito ed è andato a cercare la moglie a casa dei genitori di lei, a Gazzada Schianno, e ha tentato di uccidere anche lei, riuscendo però soltanto a ferirla con un coltello. Lei è riuscita a chiudersi in casa e a dare l’allarme ai carabinieri.

Sono quindi scattate le ricerche del 40enne, finché la sua auto è stata individuata nella zona di confine: c’è stato un inseguimento e uno speronamento dell’auto di servizio dei carabinieri, che lo hanno raggiunto a piedi nei boschi. Si era nascosto in un capanno di caccia ed era ancora armato di coltello.

A scoprire il corpicino del piccolo, nascosto in un armadio, sono stati gli stessi carabinieri che, dopo l’allarme lanciato dalla donna, hanno perquisito la casa di Morazzone. L’ex moglie è stata ricoverata al pronto soccorso di Varese, ma non sarebbe in pericolo di vita. Sulla vicenda indaga la procura della Repubblica di Varese. Paitone è stato arrestato dai carabinieri per omicidio e tentato omicidio e terminate le formalità verrà portato in carcere a Varese.

Cesare Giuzzi per il "Corriere della Sera" il 3 gennaio 2021. La strada che s' inerpica sul colle Sant' Elia si interrompe quando mancano seicento metri alla cima. Sono le sei e mezza di mattina, i carabinieri di Viggiù scoprono lì abbandonata la Golf grigia con il cellulare che ancora suona a vuoto nell'abitacolo. Più in alto, in una baracca usata dai cacciatori, Davide Paitoni, 40 anni compiuti due settimane fa, ha trovato l'ultimo rifugio. Esce impugnando un coltello a serramanico con il quale minaccia d'uccidersi. Non va oltre timidi tagli su mani e braccia. E mentre altri carabinieri lo circondano, uno lo prende alle spalle, lo butta a terra e lo disarma. Il signor Claudio che passa con il cane lo vede alle 8.35 mentre viene trascinato su un'ambulanza: «Tutto pieno di pattuglie, anche un elicottero».

Paitoni indossa una tuta, in tasca ha una pallina di cocaina. Così finisce la sua notte in fuga dopo aver ucciso con una coltellata alla gola il figlio Daniele, prima stordito o soffocato, e poi chiuso in un armadio a casa del nonno. E dopo aver cercato di fare lo stesso con l'ex moglie, quando pochi minuti dopo s' è presentato sotto casa dei suoceri a Gazzada Schianno con la scusa di riportarle Daniele. 

Lei ha visto che in auto il figlio non c'era. Sapeva che il 40enne non era autorizzato a lasciare la casa, nella piccola frazione Cuffia a Morazzone, dove era ai domiciliari per aver tentato di uccidere un collega un mese fa, e ha subito capito. Perché dopo quella vicenda, mai davvero chiarita nei motivi, aveva paura che l'ex marito potesse fare qualcosa di male anche a Daniele.

Per questo è uscita circospetta, ed è riuscita a scappare anche se ferita. Nei due biglietti lasciati accanto al corpo del piccolo, il 40enne si rivolge al padre 72enne e dice di averlo fatto per vendetta nei confronti della ex moglie. Annuncia il proposito di aver ucciso il piccolo, la donna e di essersi suicidato: «Ora raggiungerò la mamma in cielo». 

Poi il messaggio vocale inviato durante la fuga: «Papà non aprire l'armadio». A Capodanno il bambino era stato affidato al 40enne. Era il «suo giorno», come aveva stabilito l'accordo tra i legali della coppia che, più faticosamente di altre volte, erano riusciti a trovare un compromesso per le feste di Natale. La famiglia materna aveva fatto resistenze. Non voleva che il piccolo Daniele stesse in casa con il papà ai domiciliari.

«I nonni non erano più tranquilli», confida un amico. Tre anni fa la donna aveva denunciato il marito per lesioni. I due erano separati di fatto da un anno e mezzo, ma l'iter legale non era ancora concluso. Anzi, quest' estate sembrava che i due stessero ritornando insieme.

Poi i nuovi dissidi. «Il papà era sempre stato affettuoso e premuroso con Daniele. Faceva di tutto per vederlo», dicono sconvolti gli avvocati. L'accordo prevedeva che il piccolo vivesse con la mamma a casa dei suoceri a Gazzada, per trascorrere i fine settimana, alternati, con il papà. Era andato avanti anche dopo il suo arresto e i domiciliari. Secondo i magistrati l'accusa di tentato omicidio non intaccava il diritto del 40enne di vedere e crescere il figlio. 

Cesare Giuzzi per corriere.it il 4 gennaio 2021. «Il bambino non voleva andare. Noi abbiamo sbagliato a portarlo dal papà. Ma lui aveva il permesso del giudice...». Il nonno del piccolo Daniele si affaccia sulla soglia della villetta di via Chiesa a Gazzada Schianno (Varese).

La figlia è appena uscita per dare l’ultimo saluto a Daniele all’obitorio di Varese prima che venga eseguita l’autopsia. Gli occhiali scuri e la mascherina chirurgica le coprono il viso, sul corpo i segni delle medicazioni per le coltellate ricevute. Si guarda intorno e non parla. «Sto sentendo adesso in televisione. Non so neanche cosa dire», aggiunge il nonno che si volta e richiude la porta. Fuori c’è Babbo Natale appeso alle finestre, dentro un dolore inimmaginabile.

Ora che Daniele è morto, ucciso a sette anni per vendetta contro l’ex moglie dal padre Davide Paitoni, 40 anni, restano tante, troppe domande in una tragedia che ne ricorda altre mille. Dopo aver tentato di uccidere la moglie 36enne, Paitoni durante la fuga aveva inviato alla donna due messaggi vocali: «Daniele è al sicuro, ti ho aggredita per punirti perché mi hai rovinato la vita e perché volevi portarmi via mio figlio».

I carabinieri hanno intercettato la sua Golf all’1.30 lasciata a bordo strada a Varese, lui non c’era. Poi grazie a un gps l’hanno seguito durante la fuga sul colle Sant’Elia. Mentre lo arrestavano, come ricostruito nel fermo dal pm Luca Petrucci, urlava «sparatemi». 

Paitoni era ai domiciliari. Il giudice, su richiesta dei legali, aveva concesso la possibilità di vedere moglie e figlio durante la detenzione a casa del padre Renato, nella casa di corte a Morazzone. Il 26 novembre aveva tentato di uccidere con un taglierino un collega fuori dalla fabbrica di Azzate.

I due s’erano dati appuntamento a fine turno dopo un aperitivo nello spogliatoio: «Chissà cosa vorrà da me, mio figlio è al sicuro, i suoi devono stare attenti...», aveva bofonchiato ai colleghi prima di uscire. Arrestato dai carabinieri era finito ai domiciliari.

Il pm nella richiesta di misura cautelare aveva ricordato il procedimento aperto dopo le denunce della moglie e dei famigliari (a cui erano seguite controquerele del 40enne). «Evidenzia il pm che Paitoni sarebbe sottoposto ad altri procedimenti per reati anche connotati da violenza (maltrattamenti e lesioni) — ha scritto il gip Anna Giorgetti nell’ordinanza di custodia —. Si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l’indagato e che, dunque, non consentono di trarre qualsivoglia certezza». Le sole esigenze cautelari erano dettate dal pericolo di inquinamento delle prove.

Il 6 dicembre era arrivato l’ok del giudice all’istanza dei difensori. Mezza pagina che aveva dato a Paitoni la possibilità di vedere moglie e figlio senza prescrizioni particolari. Era seguito un accordo tra gli avvocati della coppia per stabilire il calendario degli incontri. La famiglia materna oggi accusa: «Non ci hanno ascoltato». Anche se l’avvocato della madre, Donatella Cicognani, è più cauta: «La vicenda è ancora aperta. Ma non mi erano stati segnalati pericoli per il piccolo». 

«Perché il figlio di Davide Paitoni era con il padre, nonostante fosse violento? Serviva più attenzione». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 2 gennaio 2021. La premessa. Daniele aveva 7 anni. suo padre, , che era agli arresti domiciliari per il tentato omicidio di un collega di lavoro. L’uomo si stava separando dalla moglie (anche se formalmente il procedimento giuridico non era ancora in corso) e poteva incontrare il piccolo secondo accordi stabiliti con lei attraverso gli avvocati. Lo poteva fare, anche se arrestato, poiché il Giudice per le indagini preliminari che ha deciso i domiciliari non ha ritenuto di revocare gli accordi presi dai legali, quindi ha autorizzato le visite. Cinzia Calabrese è la presidente nazionale di Aiaf, Associazione italiana di avvocati per la famiglia e per i minori. Sono frequenti accordi di questo tipo fra gli avvocati di una causa di separazione? «Sì, si cerca in tutti i modi di tutelare il diritto del figlio alla bigenitorialità e spesso si trovano accordi di questo genere. Il giudice in questi casi valuta se questo accordo risponde all’interesse del figlio. A volte succede che le parti trovino l’accordo sui figli e lui invece si occupi della parte economica». Quindi sono gli avvocati che valutano l’interesse del minore? «Nelle separazioni consensuali la valutazione di interesse del minore viene fatta prima dagli avvocati e poi sottoposta al giudice. Gli accordi di negoziazione assistita (cioè accordi su tutti gli aspetti: figli, soldi, case) li fanno invece gli avvocati con le parti. Una volta fatto, l’accordo viene mandato in procura e il pubblico ministero valuta se è adeguato, congruo, se risponde alle esigenze dei figli. Se ritiene di sì lo autorizza e il tutto viene poi mandato in comune. In questo caso non c’è nessun passaggio dal tribunale, solo dalla procura». Ma se c’è sullo sfondo una situazione violenta? «Se ci sono situazioni violente tutto questo non vale ovviamente. Io, se ci sono situazioni del genere, prima di fare qualsiasi passo voglio che ci sia una verifica sul maltrattante». Però nel caso di cui lei parla si ipotizza, appunto, un maltrattante. Un uomo che ha usato violenza nella sua famiglia o verso la sua partner. E se invece, come nel caso di questo bambino, la violenza riguarda situazioni extrafamiliari? «Secondo me bisognerebbe avere tutti maggiore attenzione quando si ha davanti una persona violenta, indipendentemente dal fatto che gli episodi di violenza abbiano riguardato o no la famiglia. E invece a volte si ragiona quasi a compartimenti stagni. Questo tema della violenza deve riguardare tutti. Siamo tutti concentrati sulla violenza domestica, e va benissimo. Ma se abbiamo davanti una persona che non riesce a controllare la sua rabbia secondo me abbiamo davanti un problema, che deve per forza riguardare anche il suo rapporto con i figli». Eppure spesso si distingue: un pessimo compagno ma un padre meraviglioso... «Io credo che se oggi fai rissa per un parcheggio, se domani te la prendi con il collega d’ufficio, può anche essere che un giorno picchi tuo figlio perché ha preso un brutto voto a scuola. Quindi ripeto: ci vorrebbe più attenzione». Forse dipende anche dal vecchio problema che i giudici penali e quelli civili comunicano poco... «Lo scambio di informazioni fra il penale e il civile è previsto dal codice rosso. Non so come si nel resto d’Italia, ma a Milano avviene, c’è un protocollo. Il giudice penale informa sempre il giudice della separazione del procedimento che lui ha in corso. E il protocollo è stato fatto sulla base della norma di legge che prevede proprio questo». Le mamme lamentano spesso di non essere ascoltate quando temono che i padri facciano del male ai figli. Hanno timore perfino di protestare per paura di perderli. «Vedo la preoccupazione delle mamme ma bisognerebbe anche avere maggior fiducia perché, alla fine, se viene adottato un provvedimento che toglie il bambino è perché quel bambino è una situazione di mancata protezione». Il caso Bibbiano è diventato una specie di incubo collettivo su questo tema. «Non a caso dopo Bibbiano si è imposta la riforma del processo di famiglia. E per esempio: sui servizi sociali la riforma prevede che si attengano alle indagini, senza aggiungere elementi di valutazione. Devono tenere i fatti che accertano distinti dalle loro considerazioni». Quando questa riforma sarà operativa? «Le norme di applicazione immediata entreranno in vigore a giugno. Fra queste c’è la modifica della parte che consente certi tipi di interventi dei servizi sociali, appunto. Per la riforma nel suo complesso, però, diciamo che per ora c’è l’impianto e ci sono protocolli. Per esempio quello del tribunale di Terni, dove è presidente di sezione la dottoressa Velletti: loro hanno già previsto, per esempio, che nei casi di violenza domestica l’udienza sia in orari differiti per le due parti, per evitare che si incontrino. In ogni caso: perché la riforma sia operativa pienamente dobbiamo aspettare i decreti attuativi».

Andrea Camurani per corriere.it il 3 gennaio 2021. Davide Paitoni poteva vedere e stare col figlio di 7 anni, Daniele, che ha ucciso il primo di gennaio a Morazzone, nonostante fosse agli arresti domiciliari: era stato autorizzato dal Gip di Varese, come ha confermato il presidente del tribunale di Varese, Cesare Tacconi. 

Paitoni è stato arrestato domenica mattina alla fine di un inseguimento coi carabinieri di Varese che l’hanno bloccato a Viggiù, al confine con la Svizzera: la sera prima, dopo aver accoltellato a morte il bambino e aver nascosto il corpo in un armadio, aveva suonato al campanello della moglie (da cui non si era ancora separato legalmente) a Gazzada Schianno, ferendola a coltellate.

Un contesto che, a quanto emerso, rappresenta la punta dell’iceberg di una situazione deteriorata da tempo (anche se nell’ultimo periodo i legali avevano registrato dei «tentativi di riconciliazione»), in quanto sono due le denunce per maltrattamenti presentate contro Paitoni dalla moglie. 

I due di fatto non abitavano più insieme: lei si era trasferita a casa dei genitori a Gazzada Schianno, sempre in provincia di Varese. Gli stessi genitori della donna avevano segnalato i maltrattamenti, tanto che in Procura a Varese sarebbe stato attivato il «codice rosso», la procedura che tutela le vittime di violenza di genere.

Paitoni, 40 anni, magazziniere alla «Colfert spa» di Azzate, si trovava ai domiciliari con l’accusa di aver accoltellato un collega di lavoro, il 26 novembre scorso. Dopo l’arresto per quei fatti, la misura venne convalidata dal Gip di Varese tre giorni dopo. Ed è proprio in quella sede che venne presa la decisione degli arresti domiciliari, come richiesto dal pm.

«L’ordinanza per i domiciliari - ha spiegato il presidente del Tribunale di Varese Cesare Tacconi - è stata firmata il 29 novembre, avallando la misura richiesta dal magistrato, che l’ha motivata con il pericolo di inquinamento probatorio, non con la pericolosità sociale, e il giudice non può aggravare la richiesta del pm». 

Successivamente, ha spiegato il presidente del Tribunale, «l’avvocato difensore dell’indagato ha chiesto che gli fosse concesso di vedere il figlio e la moglie, dato che secondo ordinanza non avrebbe potuto avere contatti se non con i familiari conviventi, quindi il padre». Il 6 dicembre «il Gip ha autorizzato l’uomo a vedere il figlio».

Relativamente alle denunce della donna e il codice rosso, Tacconi ha precisato che in Tribunale non risulta ancora, al momento, alcuna pendenza a carico dell’uomo: «Quindi se le denunce ci sono, sono ancora in Procura», ha detto. «Ho svolto tutti gli accertamenti del caso, tra i due non vi era alcuna separazione formale in corso, se mi sarà richiesto formalmente presenterò una relazione», ha concluso il presidente Tacconi. 

In sintesi: al Gip non risultava dei maltrattamenti (per lungaggini burocratiche con la Procura); non risultava neppure della separazione, perché questa non era stata formalizzata; l’uomo era sì ai domiciliari, ma solo per evitare che inquinasse le prove, non perché risultasse socialmente pericoloso. Da qui il «sì» del giudice, che purtroppo è costato la vita al piccolo Daniele.

Andrea Camurani per il “Corriere Della Sera” il 6 gennaio 2022. «Lo so che fa schifo uccidere il proprio figlio». Eppure l'ha fatto. E la confessione, sebbene indiretta, arriva quasi subito, via messaggio vocale al padre che il giorno di Capodanno, mentre Davide Paitoni uccideva il figlio di 7 anni, dormiva ignaro in un'altra stanza della casa di via Cuffia a Morazzone. Poi, con freddezza, anche il gesto di chiudere nell'armadio il corpo del piccolo Daniele con i fogli di carta che aveva colorato per lui, scrivendo parole d'amore («noi sempre insieme») rivolte a chi lo avrebbe ucciso. 

L'orrore irrompe a pagina 4 dell'ordinanza con la quale il gip di Varese Giuseppe Battarino ha accolto le richieste del pm per convalidare il fermo e tenere in carcere il magazziniere di 40 anni accusato anche di aver tentato di uccidere la moglie Silvia, 36 anni, che da alcuni mesi viveva nella casa dei genitori nella vicina Gazzada Schianno.

Paitoni si è avvalso della facoltà di non rispondere ma per lui parlano i messaggi, inviati prima al padre Renato con cui condivideva la casa dove sarebbe dovuto restare ai domiciliari (per il tentato omicidio di un collega) e poi alla moglie quando il bimbo era già morto: «Passo a riportartelo, è stata una bella giornata». Salvo tentare di uccidere anche lei. Per poi mandare un altro vocale durante la fuga: «Daniele sta bene, non gli ho fatto niente».

Una freddezza, come la descrive il gip, segno di premeditazione, una delle aggravanti contestate, oltre al legame famigliare e ai motivi abbietti consistenti nella volontà di punire la moglie («per far soffrire la donna che ho amato veramente»), secondo una modalità «tipica della violenza di genere e della rivendicazione del proprio ruolo preminente e padronale, anche delle vite altrui», rileva il giudice. 

Ai carabinieri che lo hanno arrestato Paitoni aveva raccontato l'omicidio. Poche frasi, che sono nelle carte del gip. Prima ha detto al padre, che ha problemi di udito, di andare a vedere la tv in un'altra stanza e aspettare una sorpresa, un disegno del nipotino.

A quel punto, «con la scusa di una merendina, di un dolcetto, ho fatto sedere Daniele sulla sedia, e poi ho sferrato un colpo secco». Dopo avergli infilato «un pezzo di stoffa in bocca per evitare che urlasse». Tutto questo «induce a pensare - scrive il gip - alla consapevolezza del piccolo che qualcosa di tremendo stava per accadergli». Secondo il giudice, però, l'omicidio non era prevedibile. «È bene partire da un dato che può apparire paradossale: è la madre che porta il figlio dal padre». Un gesto «del tutto incompatibile con qualsiasi allarme che un precedente atteggiamento del padre avrebbe potuto destare».

Varese, Silvia Gaggini racconta l’aggressione del marito Davide Paitoni: le coltellate al volto, l’urlo. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'8 gennaio 2022. La mamma di Daniele, ucciso dal padre: aspettavo che Davide mi portasse il bambino. Mentre mi colpiva mi ha detto: ti ho voluto dare una lezione.

Quando Davide l’ha colpita ha detto qualcosa? «Sì ma non ricordo esattamente. Sono certa di aver gridato dicendogli “cosa stai facendo?”, e lui mi ha risposto “ti ho voluto dare una lezione”». Ha visto il coltello? «Sì. Si trattava di un coltello da cucina per il taglio della carne. Lo ricordo perfettamente perché è uno dei coltelli che utilizzavamo quando vivevamo insieme». Sono le 7.40 del 4 gennaio. Silvia Gaggini, classe 1985, è a casa dei suoi genitori e ha il cuore in mille pezzi. È sfinita da un dolore inenarrabile ma ci sono due marescialli della stazione dei carabinieri di Azzate (Varese) che vorrebbero farle delle domande e lei — per la seconda volta — risponde. Va incontro alla tempesta dei ricordi. La prima volta era stata il giorno 2, mentre era in ospedale per le ferite che suo marito Davide le aveva procurato provando ad ammazzarla, la sera di Capodanno. Lui — in fase di separazione da lei e agli arresti domiciliari per il tentato omicidio di un collega — aveva prima ucciso con un taglio alla gola il loro bambino di 7 anni, Daniele, e poi era andato da lei con l’intenzione di fare lo stesso.

I verbali

Silvia aveva saputo che Daniele non c’era più la mattina del 2, dalla stessa carabiniera che adesso stava annotando (a mano) quattro pagine di ulteriori risposte. «Vorrei puntualizzare — dice la mamma di Daniele nel nuovo verbale — che Davide aveva richiesto espressamente che fossi io a portare il bambino». Anche questo era un dettaglio di crudeltà: voleva che fosse lei l’ultima a vederlo, lei a consegnarlo al suo carnefice. «Per il giorno di Capodanno — racconta la donna — gli accordi prevedevano che io portassi Daniele da lui alle 13. L’ho accompagnato alle 13 precise fino alla porta dell’abitazione dove Davide era ai domiciliari, e gliel’ho consegnato. In quel momento ci siamo limitati ai saluti formali, Davide mi ha augurato buon anno».

L’accordo per le visite

Sulle visite del bambino durante gli arresti domiciliari del padre, la mamma precisa: «In seguito all’autorizzazione del giudice che concedeva a Davide di poter tenere con sé nostro figlio, i nostri rispettivi avvocati di volta in volta si accordavano circa gli orari in cui il padre poteva tenerlo con sé. Personalmente ho tentato di limitare queste visite perché ritenevo che l’abitazione dov’era ai domiciliari non fosse idonea ad ospitare un bambino per molto tempo, anche perché non poteva uscire e doveva rimanere per lunghi periodi in quello spazio angusto. Tuttavia durante le festività di fine anno ho dovuto sottostare alle decisioni prese dai legali».

L’ultimo messaggio

Alle 18.23 di quel giorno Silvia manda un messaggio WhatsApp a suo marito: «Gli ho chiesto se andava tutto bene ma non ho ottenuto risposta e non mi sono preoccupata perché pensavo che Daniele stesse riposando. Alle 21.47 ho ricevuto un WhatsApp audio di Davide che mi diceva: ho avuto una bella giornata con Daniele, te lo sto riportando. Ho indossato il giubbotto e sono uscita in strada ad attenderlo. Raggiunta la strada ho visto che era già arrivato e mi aspettava fuori dalla sua macchina con il baule stranamente aperto. Ho chiesto: dov’è Daniele? E lui: è nascosto dall’altra parte della macchina».

L’aggressione

Lei si sposta per raggiungere il bimbo ma è sospettosa, sta a distanza. Ed è proprio questo che la salva quando lui svela il suo piano e comincia a colpirla. «Mi ha raggiunto velocemente e mi ha colpita al volto. Ho pensato che mi stesse picchiando con le mani. Solo quando mi ha colpita al petto ho realizzato che stava usando un coltello. Ho tentato di fuggire gridando e chiedendo aiuto e mentre ero di spalle sono stata colpita di nuovo. A quel punto sono fuggita e lui è salito in macchina e si è allontanato».

Uccide figlio di 7 anni poi tenta di uccidere la moglie: arrestato dopo la fuga. Il corpo del bimbo trovato in un armadio. Dopo aver tentato di ammazzare la donna a coltellate è fuggito, ma poche ore dopo é stato bloccato e arrestato dai carabinieri a Viggiù. La Repubblica il 2 gennaio 2022. Ha ucciso il figlio di 7 anni e ha poi tentato di ammazzare a coltellate anche la moglie ma é stato arrestato dai Carabinieri. E' accaduto nel Varesotto. L'uomo, un quarantenne di Morazzone, é stato scoperto dopo il tentato omicidio della donna che si é salvata. Lui, secondo quanto riportato dal sito del quotidiano 'La Prealpina', é scappato, ma poche ore dopo é stato bloccato e arrestato dai carabinieri a Viggiù.

Durante la perquisizione nella sua casa di Morazzone, é stato quindi scoperto nell'armadio il cadavere del figlio di sette anni.

Stando alle prime notizie, l’uomo - era agli arresti domiciliari - ha ammazzato il figlio con un colpo di coltello alla gola.. Poi a bordo della sua auto ha raggiunto l'abitazione dei suoceri, tentando di aggredire la donna a colpi di coltello (forse lo stesso utilizzato per l'omicidio del piccolo).

Davide Paitoni e l'omicidio del figlio Daniele, la ministra Cartabia chiede accertamenti. Pm: "Non riconosciuta pericolosità sociale". La Repubblica il 4 Gennaio 2022. Contestata anche la premeditazione e i motivi abietti a Davide Paitoni, il 40enne accusato dell'omicidio del bambino di 7 anni e del tentato omicidio della moglie da cui era separato.

Sul delitto del piccolo Daniele in provincia di Varese la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha chiesto all'ispettorato di "svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari" sul caso. Lo hanno reso noto fonti di via Arenula nel giorno dell'interrogatorio di garanzia del padre, Davide Paitoni, arrestato per averlo ucciso a coltellate e nascosto nell'armadio e aver tentato anche di uccidere la moglie nel tardo pomeriggio del primo gennaio da cui di fatto era separato. Gli accertamenti serviranno ad approfondire le ragioni per cui al 40enne già denunciato per la lite con un collega e per violenze dalla moglie era stato concesso dal tribunale di Varese di stare con il figlio. La procura, da quanto si è saputo, contesta i reati di omicidio con le aggravanti della premeditazione, dei motivi abbietti e di averlo commesso contro un discendentee di tentato omicidio aggravato riferito al tentativo di uccidere la moglie. 

"Di fronte a questa tragedia, a questo gesto sconvolgente, impensabile, ingiustificabile, non possiamo che esprimere la nostra vicinanza alla mamma del piccolo Daniele e impegnarci ancora di più contro la violenza". Lo scrive la  Procura della repubblica di Varese, in una nota della procuratrice Daniela Borgonova. "Il 26 novembre scorso, nel corso di una lite degenerata in colluttazione, Paitoni avrebbe estratto un coltello e colpito il collega. Dopo l'arresto in flagranza ad opera della polizia giudiziaria, il pubblico ministero ha qualificato il fatto come tentato omicidio ed ha chiesto, unitamente alla convalida dell'arresto, l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, sul presupposto della ritenuta pericolosità sociale dell'indagato, anche per precedenti denunce". continua la nota della procuratrice Daniela Borgonova. Ieri il presidente del Tribunale, Cesare Tacconi, aveva dichiarato che "la richiesta di arresti domiciliari al gip venne motivata col pericolo di inquinamento probatorio, non anche con la pericolosità sociale". 

Intanto Paitoni si è avvalso della facoltà di non rispondere. "Non era in condizioni di sostenere l'interrogatorio" ha chiarito il suo avvocato Stefano Bruno. È attesa nel pomeriggio la decisione del gip di Varese Giuseppe Battarino sulla misura cautelare nei confronti dell'uomo. "Ci aspettiamo la conferma della custodia cautelare in carcere nella sua massima espressione - ha detto l'avvocato Bruno. Poi, ha aggiunto, "non ho ancora avuto modo di entrare nel merito dell'accaduto con il mio assistito, al momento mi sto occupando del lato umano".

"Mio figlio è al sicuro, i suoi devono stare attenti": sono queste le parole minacciose pronunciate da Davide Paitoni poco prima di incontrare il collega di lavoro con cui ha avuto un diverbio e che poi ha aggredito a colpi di cutter, venendo arrestato per tentato omicidio.  È quanto emerge dall'ordinanza di custodia cautelare firmata dal Gip Anna Giorgietti il 29 novembre scorso, nei confronti del quarantenne che a Capodanno ha ucciso il figlio Daniele di 7 anni e tentato di uccidere la moglie.

Sempre nel documento, il Gip motiva le esigenze cautelari ai domiciliari, affermando che "i nodi non sciolti richiedono un'indagine adeguatamente protetta" e che quindi "l'assenza di limitazioni della libertà personale di Paitoni e la sua capacità comunicativa frustrerebbe inevitabilmente il corso delle indagini". Poi l'ordinanza prosegue: "evidenzia il Pubblico Ministero che Davide Paitoni sarebbe sottoposto ad altri procedimenti per reati anche connotati da violenza (maltrattamenti e lesioni), si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l'indagato e che, dunque, non consentono di trarre elementi di qualsivoglia certezza". Il Gip ha quindi concluso con la decisione di sottoporre Paitoni agli arresti domiciliari con il divieto di comunicare con l'esterno, tranne che con l'anziano padre. Il 6 dicembre lo stesso Gip ha poi accolto la richiesta dell'indagato di poter vedere il figlio.

Claudia Guasco per "Il Messaggero" il 5 Gennaio 2022. L'ultima coltellata all'ex moglie è un messaggio vocale, spedito dopo averla ferita: «Mi hai rovinato la vita, il bambino è al sicuro, ti ho aggredita per punirti». Invece il loro figlio Daniele, 7 anni, era già morto, con uno straccio in gola e del nastro adesivo sulla bocca. È la terribile verità raccontata dall'autopsia: prima di tagliare la giugulare al figlio di 7 anni, Davide Paitoni si è premurato che non gridasse. Poi ha chiuso il cadavere nell'armadio dell'appartamento di via Morazzone dove, ai domiciliari per aver colpito con un taglierino un collega, era tornato a vivere con il padre e ospitava il bimbo. Motivo per cui il Guardasigilli Marta Cartabia ha avviato un'ispezione al palazzo di giustizia di Varese.

VENDETTA Ieri il gip Giuseppe Battarino ha convalidato il fermo dell'uomo, che nell'interrogatorio è rimasto in silenzio: le accuse sono omicidio e tentato omicidio aggravato, per le coltellate a Silvia Gaggini, con l'aggravante dei motivi abbietti, del legame familiare e della premeditazione. Da tempo covava un feroce rancore. Nelle dieci pagine il giudice rileva come Paitoni, quarant' anni, abbia agito per «punire la moglie», colpevole nella sua ottica distorta di averlo lasciato, e abbia infierito con «crudeltà» verso il bambino. L'ordinanza evidenza anche la pericolosità sociale di Paitoni, oltre al concreto rischio di fuga. «Sul cadavere del bimbo ha lasciato una lunga lettera, una sorta di ritorsione contro la moglie», scrive il pubblico ministero nel decreto di fermo di domenica. Una sete di vendetta a cui non voleva sopravvivere: «Sono qui, sparatemi», gridava brandendo un coltello contro i carabinieri del comando provinciale di Varese che dopo una notte di inseguimenti l'hanno stanato in un capanno di cacciatori al confine con la Svizzera. Nel provvedimento del gip viene ripercorsa anche la tormentata storia tra Davide e Silvia, che si sono lasciati alla fine del 2019, la loro situazione coniugale e soprattutto il fatto che non ci fosse alcun provvedimento giudiziario sulla separazione: le visite del bambino al padre erano state regolate, durante l'estate, da accordi tra Davide e Silvia con i loro avvocati. Paitoni mostrava segni di distensione, così l'ex moglie ha acconsentito a stilare una sorta di calendario per l'affido congiunto con visite a giorni alterni nelle vacanze di Natale. Poi il 26 novembre tutto precipita: l'uomo aggredisce un collega sul posto di lavoro e lo ferisce in modo grave, tanto da richiedere un ricovero in rianimazione. Ed è nell'ambito di questo procedimento che viene concesso a Paitoni di vedere il figlio. È l'ultimo atto di un cortocircuito giudiziario con due denunce della donna nei confronti del marito, una dei genitori di Silvia contro il genero e una sua richiesta di aiuto a un'associazione che sostiene le donne vittime di maltrattamenti. Nell'ordinanza depositata il 29 novembre il gip Anna Giorgetti dispone per Paitoni tre mesi di domiciliari: «I nodi non sciolti richiedono un'indagine adeguatamente protetta - scrive - e l'assenza di limitazioni della libertà personale dell'indagato e la sua capacità comunicativa frustrerebbe inevitabilmente il corso delle indagini». Il giudice, come segnalato dal pm, è al corrente di «altri procedimenti per reati anche connotati da violenza (maltrattamenti e lesioni)», ma spiega che «si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l'indagato e che, dunque, non consentono di trarre elementi di qualsivoglia certezza».

PERICOLOSITÀ SOCIALE Così a Paitoni viene contestato solo il pericolo di inquinamento probatorio e ottiene il permesso di vedere Daniele. Peccato che la Procura abbia una visione diversa, che illustra in una nota. Il procuratore capo Daniela Borgonovo replica che il pm Giulia Floris ha contestato a Paitone la pericolosità sociale, «anche per precedenti denunce: il giudice per le indagini preliminari ha accolto la richiesta, peraltro ravvisando solo un rischio di inquinamento probatorio, attesa la ritenuta necessità di chiarire la dinamica della lite e, successivamente, ha autorizzato incontri del detenuto con la moglie e il figlio». Il presidente del Tribunale Cesare Tacconi, da parte sua, aveva definito «regolare» il provvedimento del gip di consentire le visite, dal momento che gli arresti domiciliari di Paitoni non erano legati a una vicenda familiare. Precisando che la richiesta del pm «era motivata con il pericolo di inquinamento delle prove, non con la pericolosità sociale, e il giudice non può aggravare la richiesta del pm». Insomma, uno scontro tra toghe nel quale interviene il ministro della Giustizia Marta Cartabia che «ha chiesto all'ispettorato di svolgere con urgenza i necessari accertamenti preliminari sul caso», informano fonti ministeriali. Venerdì, all'oratorio di San Luigi Schianno, si terranno i funerali di Daniele: «Inarrestabile come un uragano, dolce come le merendine che mangiavamo insieme», è il ricordo degli educatori.

La droga, il codice rosso e il bigliettino: cosa sappiamo sul papà omicida. Luca Sablone il 3 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il 40enne che ha ucciso il figlio aveva problemi di droga e si trovava ai domiciliari per aver accoltellato un collega. Inoltre era stato aperto un codice rosso per maltrattamenti in famiglia.

Un omicidio che ha lasciato tutti senza parole. Il papà ha ucciso suo figlio con un fendente alla gola, ha provato a togliere la vita anche alla sua ex moglie e infine ha tentato la fuga. Un gesto disumano da parte di Davide Paitoni di Morazzone, in provincia di Varese, arrestato dopo un lungo inseguimento culminato poco lontano dal confine con la Svizzera. Sarebbe stato possibile evitare la tragedia? Una domanda lecita da porsi visto che, stando a quanto emerso nelle ultime ore, lo stile di vita del 40enne tra droga e violenza non prometteva nulla di buono.

Droga e violenza

Paitoni viene considerato un consumatore abituale di droghe, tanto che i carabinieri nella sua auto avrebbero trovato della cocaina. Non solo: alle spalle avrebbe anche diverse denunce, tra cui guida in stato di ebbrezza. C'è poi un altro episodio molto grave risalente al mese di novembre quando, in seguito a una lite, avrebbe sferrato diverse coltellate alla schiena di un 52enne con cui lavorava. Motivo per cui si trovava agli arresti domiciliari dallo scorso 26 novembre.

Il codice rosso

A dettare l'ira del 40enne potrebbe essere stata la separazione dalla moglie. Un atto che non avrebbe accettato e che dunque lo avrebbe potuto indurre a una tale follia. È proprio su questo fronte che si è aperto un interrogativo inquietante che pretende risposta. Alcune persone vicine alla famiglia della sua ex moglie hanno riferito che lei lo avrebbe denunciato o forse sarebbe stata in procinto di farlo, ma allo stato attuale le denunce non sembrerebbero essere state depositate.

Al di là dell'eventuale denuncia diretta della donna, gli inquirenti fanno sapere che - alla luce di alcune segnalazioni da parte di altri - nei confronti di Paitoni sarebbe stato aperto un codice rosso per maltrattamenti in famiglia. La norma prevede l'introduzione di una corsia veloce per le denunce e le indagini riguardanti casi di violenza contro donne o minori. Stando a quanto si apprende dagli inquirenti, i presunti maltrattamenti segnalati sarebbero cominciati nel 2019.

Il bigliettino

È stato inoltre ritrovato un bigliettino lasciato sul cadavere del bimbo, chiuso nell'armadio, che conteneva le seguenti parole: "Mi dispiace, perdonami papà". Nel foglietto il 40enne avrebbe non solo confessato il proprio gesto, ma anche utilizzato "grande disprezzo" per la moglie che poi ha tentato di uccidere. Avrebbe poi avvisato suo padre con un messaggio vocale avvisandolo di aver fatto del male al piccolo e chiedendogli di non aprire l'armadio della sua camera da letto, dove ha nascosto il corpo del bimbo.

L'indignazione

L'indignazione è tanta anche nel mondo della politica. In molti pensano che Paitoni sarebbe dovuto rimanere in carcere piuttosto che poter liberamente continuare a frequentare il figlio. Luisa Regimenti - eurodeputata di Forza Italia - ha rimarcato l'esigenza di vietare per legge che ai pregiudicati di delitti violenti possano essere affidati minori, seppure per brevi periodi: "Quanto sangue di innocenti deve ancora scorrere? Anche in questo caso, la tragedia di Varese era annunciata e prevedibile".

Matteo Salvini punta il dito contro chi ha consentito la scarcerazione del 40enne: "Aveva tentato di uccidere un collega a novembre, ma per il giudice questo non è stato sufficiente per metterlo in carcere. E così ha ucciso il figlio di 7 anni e tentato di uccidere l'ex moglie. Chissà se domani leggeremo un'intervista di questo bravo giudice su qualche giornale…". Roberto Calderoli della Lega pretende di sapere quale autorità giudiziaria ha consentito a Paitoni di trascorrere Capodanno con il figlio nonostante i precedenti: "Stavolta qualcuno dovrà rispondere".

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei minimi dettagli, possibilmente prima degli altri. Cerco di essere un attento osservatore in diversi ambiti con quanta più obiettività possibile, dalla politica allo sport. Ma sempre con il Milan che scorre nelle vene. Incessante predilezione per la cronaca in tutte le sue sfaccettature: armato sempre di pazienza, fonti, cellulare, caricabatterie e… PC.

Il pm: "Dissi che Paitoni era pericoloso". E ora interviene la Cartabia. Federico Garau il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Secondo fonti di via Arenula, il ministro della Giustizia Marta Cartabia avrebbe chiesto all'ispettorato di condurre con urgenza degli accertamenti.

Sul terribile delitto di Morazzone (Varese) il ministro della Giustizia Marta Cartabia desidera vederci chiaro, e per questo motivo ha deciso di chiedere all'ispettorato di condurre un'indagine. Secondo quanto riferito da fonti di via Arenula, e riportato oggi dalle principali agenzie di stampa, il ministro vuole che siano svolti con urgenza "i necessari accertamenti preliminari sul caso".

La presa di posizione della guardasigilli arriva in seguito alle forti polemiche insorte sui social. Tanti gli utenti ad esprimere insicurezza e scarsa di fiducia nei confronti del sistema giuridico italiano. Incompresibile come al 40enne Davide Paitoni, ristretto agli arresti domiciliari per aver accoltellato un collega, sia stato concesso di trascorrere del tempo col foglio Daniele, ucciso dal genitore.

Un caso politico

A pretendere delle spiegazioni non soltanto i cittadini, ma anche diversi esponenti del mondo della politica. Fra i primi a parlare la rappresentante di Forza Italia Veronica Giannone, segretario della Commissione Infanzia e Adolescenza e componente della Commissione Giustizia. Dopo aver condannato l'episodio, la Giannone aveva rivolto un appello proprio al ministro Cartabia, chiedendole di "intervenire con urgenza per fermare queste morti annunciate".

"Se le leggi non vanno bene devono essere cambiate velocemente. Altrimenti le Istituzioni tutte si rendono complici di tali orrori, e questo non è ammissibile in un paese che si vanta di tutelare i diritti dei più deboli", aveva affermato Veronica Giannone.

Dura anche la posizione dell'ex sottosegretario alla Giustizia Jacopo Morrone (Lega), che ha parlato di "responsabilità del sistema". "Credo che sia doveroso che i vertici del ministero della Giustizia vadano a fondo della vicenda, per capire cosa non abbia funzionato e quali siano state le dinamiche o eventuali sottovalutazioni che hanno innescato questo dramma”, ha dichiarato ad Affaritaliani.

Le motivazioni del tribunale di Varese

Per rispondere alle polemiche sempre più accese, proprio ieri il presidente del tribunale di Varese Cesare Tacconi aveva spiegato che, al momento di prendere una decisione sulla possibilità o meno di concedere a Paitoni la possibilità di vedere il figlio, il gip non era a conoscenza delle denunce di violenza presentate dall'ex moglie dell'uomo.

Paitoni, ha dichiarato Tacconi, si trovava ai domiciliari perché non inquinasse le prove relative al caso di aggressione ai danni del collega, non per il suo temperamento violento. Al giudice, insomma, non risultavano precedenti per maltrattamenti quando ha concesso al 40enne di trascorrere del tempo con il bambino.

Le parole del pm

Intervenuta sul caso, la procuratrice Daniela Borgonovo ha deciso di controbattere alle parole del presidente del tribunale di Varese, spiegando che la procura aveva chiesto che venisse dichiarata la pericolsità sociale di Davide Paitoni. Dichiarazioni che contrastano con quelle di Tacconi, secondo il quale "la richiesta di arresti domiciliari al gip venne motivata col pericolo di inquinamento probatorio, non anche con la pericolosità sociale".

La procuratrice Borgonovo spiega che, dopo l'arresto per l'accoltellamento ai danni del collega, "il pm ha qualificato il fatto come tentato omicidio e ha chiesto unitamente alla convalida dell'arresto, l'applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari, sul presupposto della ritenuta pericolosità sociale dell'indagato, anche per precedenti denunce". "Il gip", prosegue nella nota, "ha accolto la richiesta, peraltro ravvisando solo un rischio di inquinamento probatorio, attesa la ritenuta necessità di chiarire la dinamica della lite e, successivamente, ha autorizzato incontri del detenuto con la moglie e il figlio".

Federico Garau. Sardo, profondamente innamorato della mia terra. Mi sono laureato in Scienze dei Beni Culturali e da sempre ho una passione per l'archeologia. I miei altri grandi interessi sono la fotografia ed ogni genere di sport, in particolar modo il tennis (sono accanito tifoso di King Roger). Dal 2018

"Io, avvocato, vi dico perché Daniele non doveva stare col padre". Rosa Scognamiglio il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. Davide Paitoni aveva ottenuto l'autorizzazione per fare visita al figlio Daniele nonostante fosse ai domiciliari per aver aggredito un collega e fosse stato denunciato per maltrattamenti dalla ex moglie.

È trascorsa una settimana dalla tragedia di Morazzone, il dramma familiare che si è consumato nel Varesotto la sera di San Silvestro. Il piccolo Daniele, di soli 7 anni, è stato ucciso con una fendente alla gola dal papà, Davide Paitoni, che ha poi tentato di accoltellare anche la madre del bimbo, Silvia. Secondo il pm che ha ordinato il fermo del 40enne con l'ipotesi di reato per omicidio e tentato omicidio, Paitoni avrebbe attuato "una ritorsione nei confronti dell'ex moglie" con la quale era in fase di separazione da circa un anno e mezzo.

Al netto della dinamica delittuosa, già ampiamente accertata dalle indagini, restano ancora molti punti oscuri e nodi da sbrogliare. Dallo scorso 29 novembre Paitoni era agli arresti domiciliari per aver aggredito un collega di lavoro. Inoltre, tra aprile e marzo del 2021, la moglie lo aveva denunciato per maltrattamenti e lesioni. Ciononostante, lo scorso 6 dicembre, il gip ha autorizzato il 40enne a incontrare moglie e figlio. "L'ordinanza per i domiciliari è stata firmata avallando la misura richiesta dal magistrato, che l’ha motivata con il pericolo di inquinamento probatorio, non con la pericolosità sociale, e il giudice non può aggravare la richiesta del pm", ha chiarito Renato Tacconi, presidente del tribunale di Varese. La procura invece sostiene di aver contestato al giudice delle indagini preliminari la pericolosità sociale di Paitoni.

Sulla vicenda, che ha sollevato numerose polemiche, è intervenuta anche il ministro Marta Cartabia che ha chiesto "accertamenti urgenti" sui fatti. "La vicenda di Morazzone è – temo – l’ennesima prova del fatto che in Italia abbiamo ottime leggi ma spesso vengono applicate con ritardo, in questo caso assolutamente ingiustificabile. Quest’uomo si trovava in una condizione personale e giudiziaria molto peculiare: un’accusa di tentato omicidio sulla testa e mesi di arresti domiciliari alle spalle. Due elementi che dovevano far prendere in seria considerazione che psicologicamente non fosse in equilibrio", spiega alla redazione de ilGiornale.it l'avvocato Alessia Sorgato, esperta in difesa penale di vittime di violenza.

Avvocato Sorgato, a parer suo, qual è il nodo di questa vicenda?

"Se parliamo del nodo umano, è chiaro a tutti noi che siamo al cospetto di una tragedia di proporzioni enormi. C’è un padre che ha ucciso un figlioletto di 7 anni, e poco francamente deve importarci del motivo per cui l’abbia fatto. Ha commesso un atto contro natura e un gravissimo delitto, uno dei più gravi che il codice penale contempli".

Cosa non ha funzionato nella "macchina della giustizia"?

"Se parliamo del nodo giuridico, e questo è il mio compito in quanto avvocato penalista specializzata in difesa di vittime di violenze endo-famigliari, pur non conoscendo gli atti e sulla base delle sole notizie di stampa, collocherei il nucleo della questione sul mancato raccordo tra inquirenti, forze di polizia, assistenti sociali e magistrati coinvolti nella trattazione della vicenda".

Ai domiciliari per violenza, ma poteva tenere il figlio: così lo ha sgozzato

Pare che Silvia, la madre del bimbo, avesse denunciato l'ex marito per maltrattamenti e lesioni. Perché il giudice non ne ha tenuto conto?

"Per rispondere a questa domanda, bisognerebbe porsene altre, purtroppo: da quanto tempo erano state depositate le denunce? Con quanta accuratezza erano stati descritti fatti, episodi, precedenti aggressioni, minacce e quant’altro valga a mettere in allarme? C’è stato il necessario coordinamento tra le varie competenze ripartite che devono lavorare congiuntamente in tutti i casi di separazioni in cui si sospetti, o si sappia, l’avvenuta commissione di maltrattamenti e/o atti persecutori? Ovviamente la mamma del piccolo Davide aveva compiuto ogni azione giudiziaria per preservare se stessa e il figlio, ma quanto tempestivamente è stata ascoltata?".

E quindi come spiega la decisione del gip di autorizzare gli incontri tra Paitoni e il figlio?

"Se l’autorizzazione è arrivata dal giudice civile (come accade durante il procedimento di separazione), bisognerà capire quanto questo magistrato sapesse delle parallele vicende penali, e soprattutto se potesse ipotizzare connessioni di rischio tra l’accaduto col collega di lavoro del prevenuto e la condotta tenuta in ambito famigliare. Molto spesso infatti i padri separati tengono un comportamento ineccepibile. Se ad autorizzare è stato un giudice penale, era a conoscenza dell'esistenza delle denunce? Quello che non si sa, e che non si immagina, è che la Giustizia è fatta di compartimenti stagni. Le denunce sono in un fascicolo sul tavolo del Pm. La domanda di autorizzazione a vedere il bambino sarà stata proposta al Gip. Due figure diverse che dovevano compartire le informazioni, come si diceva all'inizio.".

Omicidio Daniele, il gip: "La madre porta il figlio dal padre"

Cosa prevede il codice rosso per la tutela dei minori?

"Il codice rosso è intervenuto in vario modo su questo tema. Credo che le norme più adatte a essere citate nel caso di cui stiamo parlando siano proprio quelle che chiedono informazioni costanti e tempestive tra forze dell’ordine, giudice penale e giudice civile, che devono trasmettersi l’un l’altro segnalazioni, informative e relazioni senza ritardo".

Il diritto alla bigenitorialità prevale anche nel caso di un coniuge maltrattante?

"Il diritto alla bigenitorialità va considerato prevalente su tutto quando corrisponde e mette in atto l’interesse prevalente del minore."

Omicidio Daniele, ecco perché il giudice ha dato a Paitoni il permesso di vedere il figlio

Nei casi di separazione "controversa" a chi spetta la valutazione di interesse dei figli minori?

"Spetta al giudice civile che, nei casi controversi, si affida all’esperto e dispone la cosi detta Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio) facendo valutare la capacità di tutti i soggetti coinvolti, dai genitori ai nonni, a far fronte alle esigenze primarie del minore in termini di accudimento, di affettività, di accompagnamento e guida nel percorso di crescita".

In base alla sua esperienza nei centri antiviolenza, è possibile che un coniuge maltrattante sia un genitore ineccepibile?

"ll discorso è molto delicato perché da anni disponiamo di una normativa specifica sulla così detta violenza assistita, ossia sui casi in cui, pur non venendo neppure sfiorati dalla violenza agita, poniamo, dal padre, i minori siano presenti quando si manifesta sulla mamma. Col codice rosso, ossia da agosto 2019, sono considerati persone offese loro stessi, i minori. Questo è lo snodo: se nel fascicolo penale vi è anche solo l’accenno alla possibilità che i figli abbiano assistito a maltrattamenti, va immediatamente verificata in maniera competente la capacità genitoriale. Quindi la risposta è sì, astrattamente è possibile ma no, in concreto viene quasi sempre escluso".

Il pm: "Dissi che Paitoni era pericoloso". E ora interviene la Cartabia

Ritornando alla tragedia di Morazzone, a parer suo, si poteva evitare?

"La vicenda di Morazzone è – temo – l’ennesima prova del fatto che in Italia abbiamo ottime leggi ma spesso vengono applicate con ritardo, in questo caso assolutamente ingiustificabile. Quest’uomo si trovava in una condizione personale e giudiziaria molto peculiare: un’accusa di tentato omicidio sulla testa e mesi di arresti domiciliari alle spalle. Due elementi che dovevano far prendere in seria considerazione che psicologicamente non fosse in equilibrio. Trovo gravissimo che gli si sia consentito di portare un bambino di 7 anni con sé, per giunta a casa. Ci sono misure intermedie che garantiscono il diritto di visita senza porre a repentaglio il soggetto indifeso: parlo dello spazio neutro, ad esempio, che è un luogo protetto dove padri e figli possono comunque incontrarsi ma alla presenza di un educatore e con una formula più perimetrata".

In che modo Daniele poteva essere tutelato?

"Che ci fossero o meno denunce a carico del quarantenne da parte della moglie, che fossero o meno compiute le indagini, che fossero riscontrati o meno gli elementi a carico di quest’uomo per violenza domestica, bisognava guardare da un’altra parte, non in quel fascicolo, ma verso quel bambino che, anche senza certezze colpevoliste in tema di maltrattamenti, aveva diritto a essere tutelato da una persona che, in questo periodo, non viveva in modo sereno un’esistenza normale ma su cui gravavano sospetti molto allarmanti di estrema pericolosità sociale". 

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Tutti gli errori delle toghe sul papà killer del figlioletto. Luca Fazzo il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Le denunce per violenze non sono mai arrivate al Gip. Chiesto l'invio di ispettori a Varese. Una breve catena di sciatterie giudiziarie, una serie di decisioni prese in modo burocratico, fermandosi alle carte e senza mai guardare davvero negli occhi Davide Paitoni e l'abisso di violenza e di odio in cui si dibatteva. È questo, passo dopo passo, il quadro che emerge cercando di capire come sia stato possibile che vicino a Varese un bambino di sette anni sia stato affidato per la notte di Capodanno a un padre palesemente fuori controllo, protagonista di violenze ripetute in casa e fuori casa, e alle prese con una separazione traumatica. Il piano criminale di Paitoni - uccidere il bambino, poi la madre, poi uccidersi - era il punto di arrivo di questo piano inclinato. Il piccolo Daniele è stato la prima vittima, la madre si è salvata per caso. A uccidersi, alla fine, Paitoni nemmeno ci ha provato.

L'uomo finisce ai domiciliari il 30 novembre scorso, dopo avere accoltellato un collega. Sulle modalità di quel provvedimento ora le versioni della Procura di Varese e del tribunale divergono. Secondo il presidente del tribunale, Cesare Tacconi, la Procura non vedeva il rischio di nuove violenze da parte di Paitoni, ma solo che potesse inquinare le prove; il procuratore, Daniela Borgonovo (nel tondo), dice invece che Paitoni era considerato socialmente pericoloso. Eppure, secondo il tribunale, la Procura chiede per l'uomo i «domiciliari» senza alcun divieto, ed è il giudice preliminare di sua iniziativa a proibire a Paitoni di incontrare chiunque, compreso il figlio. Il giudice poteva essere più severo, e mandare Paitoni in cella? No, secondo Tacconi: «Non è possibile aggravare la misura richiesta».

In questo valzer di versioni, l'unica cosa certa è che il gip, derogando dalla sua precedente decisione, in dicembre autorizza Paitoni a tenere con sé qualche giorno Daniele alla fine dell'anno: come richiesto dal legale dell'uomo d'intesa con la moglie. È la decisione che è ora sotto tiro. Perché il giudice ha firmato, visto che Paitoni era accusato non solo del ferimento del collega ma anche di atti di persecuzione ai danni della moglie tanto da attivare un «codice rosso»? Semplicemente, spiega Tacconi, perché il giudice non lo sapeva: risulta che «non vi sia in Tribunale alcuna pendenza a carico dell'uomo, quindi se le denunce ci sono sono ancora in Procura».

È questo, alla fine, l'aspetto più inverosimile. Due uffici giudiziari separati da un piano di scale non hanno comunicato tra di loro, e Daniele è stato affidato al padre che lo avrebbe ucciso. Che fine avevano fatto le segnalazioni contro Paitoni da parte di alcuni conoscenti della moglie? Se la Procura avesse chiesto un provvedimento urgente per proteggere la donna, le carte sarebbero dovute arrivare all'ufficio gip. Se comunque il gip avesse chiesto chiarimenti, prima di firmare il permesso, probabilmente li avrebbe avuti. E forse oggi Daniele sarebbe ancora vivo.

Sono risposte che i magistrati varesini dovranno dare agli ispettori del ministero, se Marta Cartabia accoglierà la richiesta sia di Lega che di Sinistra italiana di scavare nella tragedia di Gazzada. Ma nell'epoca della giustizia informatica, è difficile non pensare che bastava un database da due soldi per far sapere al giudice che Paitoni era un padre violento.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

"Il magistrato che sbaglia non paga mai. I pm amano i fascicoli ad alta visibilità". Luca Fazzo il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il deputato Enrico Costa (Azione): "Le correnti dell'Anm rifiutano un controllo sulla qualità".

Un'altra tragedia che forse si poteva evitare, un altro caso che porta a chiedersi se gli errori dei magistrati sono destinati a restare sempre senza sanzioni. La morte del piccolo Daniele Paitoni solleva temi sui quali Enrico Costa, deputato di Azione! e membro della commissione Giustizia, si batte da sempre.

Possiamo dire che la giustizia è l'unica industria italiana dove non esiste il controllo qualità?

«Purtroppo sì. Non sono io a dirlo, sono le cifre. Ho chiesto al ministro Cartabia i dati sui pareri che i consigli giudiziari forniscono sui magistrati in occasione delle richieste di avanzamento. Bene, il 99 per cento ricevono parere positivo. Le pare un dato verosimile? Sono tutti bravi? A questo si aggiunge un altro dato sulla irresponsabilità di fatto che hanno sul piano disciplinare: il 98,5 per cento delle segnalazioni viene archiviato direttamente dalla Procura generale della Cassazione. Che controllo di qualità è possibile con numeri simili?».

Sta dicendo che chi sbaglia non paga mai, o quasi mai?

«Esatto. Per garantire standard di qualità più alti basterebbe un fascicolo personale del magistrato che raccolga le sue performance: quante sentenze ha emesso e quante ne sono state annullate, quanti arresti ha chiesto e non ottenuto, quanti fascicoli ha lasciato prescrivere, quanti imputati ha mandato a giudizio per processi nati morti. Invece ci si basa sui convegni cui ha partecipato, sulla disponibilità verso i colleghi, la gentilezza con gli avvocati. Tutte cose importanti, eh, ma il controllo di qualità è un'altra cosa. Se ho arrestato uno che era innocente deve restare nel mio fascicolo. Se ho sbagliato prognosi, e ho liberato uno che poi ha ucciso ancora, deve restare anche questo».

C'è in giro una sorta di sciatteria nella gestione dei fascicoli processuali?

«Io parlerei soprattutto di burocratizzazione. Il magistrato di ogni ruolo è diventato un burocrate colpito quotidianamente da una gragnola di fascicoli e la conseguenza è una analisi superficiale. Va a finire che in buona parte dei casi il lavoro del pubblico ministero lo fa la polizia giudiziaria, lui si adegua perché non ha il tempo né gli strumenti».

Però quando a un fascicolo tengono davvero investono tempi e risorse in quantità: basti pensare al processo infinito al povero Angelo Burzi.

«È chiaro che c'è un doppio binario, da una parte i fascicoli qualunque e quelli su cui per un motivo o per l'altro si vogliono tenere i riflettori accesi. Mi piacerebbe analizzare su quali processi le Procure fanno ricorso se l'imputato in primo grado viene assolto. Ci sono i processi che vengono abbandonati e ci sono quelli che invece vengono portati avanti fino all'ultimo ricorso possibile. E tra questi ci sono quasi sempre i processi ad alto impatto mediatico, i fascicoli ai quali il pm si affeziona, e in cui non riesce ad accettare l'idea di venire smentito da una sentenza di tribunale. Ci sono casi di pm che per continuare a sostenere l'accusa si fanno spostare in altri uffici, o restano in uffici di cui non fanno più parte. Sono i processi ad alta visibilità. O magari quelli dove il pm ha fatto arrestare l'indagato durante le indagini preliminari e vuole evitare che ottenga il risarcimento per ingiusta detenzione».

Che rimedi ci sono? Ogni volta che si parla di valutarli per davvero i magistrati insorgono.

«Un sistema di valutazione reale della performance dei magistrati sarebbe nell'interesse di tutti tranne che delle correnti dell'Anm. Perché a quel punto si saprebbe chi è il migliore candidato a una certa promozione, a una data carica. E il potere delle correnti tracollerebbe». LF.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Varese, sgozza il figlio di 7 anni e accoltella l'ex moglie, poi fugge: lo sconcerto, chi è il 40enne assassino. Libero Quotidiano il 02 gennaio 2022. Tragedia a Varese: un uomo di 40 anni ha ucciso il figlio di 7 anni nella sua abitazione a Morazzone, nella sera di sabato 1 gennaio. Quindi si è diretto a Gazzada, a pochi chilometri di distanza sempre nel Varesotto, e ha raggiunto la casa in cui la ex moglie, e madre della vittima innocente, era ospite dei genitori. Il 40enne, in un folle disegno criminale, ha cercato di uccidere anche la donna e poi si è dato alla fuga. Tentativo doppiamente fallito: i carabinieri lo hanno fermato poche ore dopo, nella giornata del 2 gennaio, facendo terminare a Viggiù la sua corsa.

L'uomo, dopo aver tolto la vita al figlio con un fendente di coltello alla gola, ha nascosto il suo corpo in un armadio della casa. Anche la moglie è stata colpita forse con lo stesso coltello con cui il marito carnefice aveva ucciso il piccolo, ma la donna è stata solo ferita, fortunatamente in maniera lieve. L'assassino non era uno sconosciuto: già noto alle forze dell’ordine per alcuni precedenti penali a suo carico, stava scontando una pena ai domiciliari. Questo non gli ha impedito di uccidere il figlio, o anzi forse ha contribuito a scatenare il suo sanguinoso proposito di vendetta nei confronti della ex moglie. 

Il piccolo ucciso con un fendente alla gola. “Daniele non voleva andare dal padre a Capodanno”, il dolore del nonno del bimbo di 7 anni accoltellato a morte. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Daniele Paitoni non voleva andare dal padre a Capodanno. Il padre Davide Paitoni, 40anni, è stato arrestato per averlo ucciso, a quanto emerge al momento, in una specie di ritorsione contro la moglie che gli aveva “rovinato la vita”. Così aveva spiegato in due messaggi vocali l’uomo, arrestato dai carabinieri dopo un inseguimento in auto e nei boschi, alla moglie 36enne dopo aver tentato di ucciderla: “Daniele è al sicuro – aveva spiegato alla donna in due messaggi vocali – ti ho aggredita per punirti perché mi hai rovinato la vita e perché volevi portarmi via mio figlio”. Paitoni durante l’interrogatorio di garanzia si è avvalso della facoltà di non rispondere.

Che il piccolo non volesse andare a casa del padre lo ha raccontato a Il Corriere della Sera Milano il nonno del bambino. “Il bambino non voleva andare. Noi abbiamo sbagliato a portarlo dal papà. Ma lui aveva il permesso del giudice …”. Davide Paitoni era ai domiciliari: il giudice gli aveva concesso la possibilità di vedere moglie e figlio durante la detenzione a casa del padre Renato a Morazzone. Lo scorso 26 novembre l’uomo avrebbe tentato di colpire con un taglierino un collega all’esterno della fabbrica dove lavorava come magazziniere, ad Azzate, sempre in provincia di Varese.

Le esigenze cautelari erano state dettate solo dal pericolo dell’inquinamento delle prove ma “non con la pericolosità sociale”. Due le denunce per maltrattamenti presentate contro l’uomo dalla moglie. La coppia non viveva più insieme: lei a casa dei genitori a Gazzada Schianno. Anche i genitori della donna in passato avevano segnalato i maltrattamenti e in Procura era stato attivato il “Codice Rosso”. A Paitoni era stata data la possibilità di vedere la moglie e il figlio senza prescrizioni particolari secondo un calendario degli incontri stabilito dagli avvocati della coppia. Il gip Anna Giorgetti aveva scritto nell’ordinanza di custodia: “Evidenzia il pm che Paitoni sarebbe sottoposto ad altri procedimenti per reati anche connotati da violenza (maltrattamenti e lesioni). Si tratta di carichi pendenti che potrebbero risolversi favorevolmente per l’indagato e che, dunque, non consentono di trarre qualsivoglia certezza”.

A quanto pare la separazione in corso, come riportata da alcuni media nei giorni scorsi, non era stata formalizzata. “Sparatemi!”, avrebbe gridato l’uomo ai militari quando lo hanno catturato nei pressi di Viggiù. Il bambino è stato ucciso con una coltellata secca alla gola. Non è stato chiarito se prima del fendente fosse stato narcotizzato. Il corpo del piccolo era stato nascosto nell’armadio. “Non aprire l’armadio della camera da letto”, il messaggio vocale del 40enne al padre Renato, il nonno di Daniele, quando i carabinieri erano già in casa.

Sul corpo del bambino è stata disposta l’autopsia. Il pubblico ministero Luca Petrucci ha contestato intanto all’accusato la premeditazione per aver agito “per motivi abietti”, come si legge su La Prealpina. I motivi abbietti sarebbero la ritorsione contro la moglie, che contro di lui avrebbe presentato due denunce per maltrattamenti. La coppia non viveva più insieme da tempo. Da quanto emerge al momento nessun giudice si era pronunciato sull’affidamento del piccolo che stava con la madre ma poteva trascorrere del tempo con il padre secondo un accordo trovato dagli avvocati.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Quel corto circuito fra toghe e l’orrore per il piccolo Daniele. Cosa si cela dietro la tragedia del piccolo Daniele? Un corto circuito tra uffici giudiziari. Ora "indaga" il ministro Cartabia. Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 5 gennaio 2022. A dicembre Paitoni è stato autorizzato a tenere con sé il figlio per alcuni giorni durante le festività natalizie, nonostante i rapporti ormai logori con la moglie – ma non ancora cessati legalmente con la separazione – e gli atti di persecuzione nei confronti della stessa, già denunciati. Paitoni il giorno della tragedia si trovava nella casa del padre, dove era stato autorizzato a trascorrere gli arresti domiciliari, dopo i guai giudiziari di fine novembre, e a vedere il figlio a seguito di richiesta, accolta, avanzata dalla difesa dell’indagato. Per chiarire ulteriormente il contesto in cui è maturata la tragedia di Morazzone occorre, però, fare alcuni passi indietro.

Il 26 novembre scorso, durante una lite degenerata in colluttazione, Paitoni avrebbe estratto un coltello e colpito un collega. Venne arrestato in flagranza e il pm qualificò il fatto come tentato omicidio, chiedendo, unitamente alla convalida dell’arresto, l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari sul presupposto della “ritenuta pericolosità sociale” dell’indagato. Entrano in gioco a questo punto alcuni fatti dell’inizio 2021.

A marzo e aprile dell’anno scorso, infatti, la moglie di Paitoni e il suocero lo denunciano per lesioni e minacce. Ma per la vicenda del tentato omicidio di novembre, il gip ha ravvisato solo un rischio di inquinamento probatorio, «attesa la ritenuta necessità di chiarire la dinamica della lite» e, successivamente, ha autorizzato incontri del detenuto con la moglie e il figlio. Il tentato omicidio del collega di lavoro e le lesioni e minacce denunciate dalla moglie e dal suocero sono due vicende diverse, seppur rappresentino uno snodo cruciale che avrebbe potuto impedire la morte del piccolo Daniele.

Qui avviene il corto circuito. Sulla lite degenerata in colluttazione e dopo l’arresto in flagranza di Paitoni, come evidenziato in una nota della procuratrice di Varese, Daniela Borgonova, il pm ha qualificato il fatto come tentato omicidio e ha chiesto, unitamente alla convalida dell’arresto, l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari sul «presupposto della ritenuta pericolosità sociale dell’indagato, anche per precedenti denunce». Versione che stride con quella del Tribunale.

L’avvocato Stefano Bruno, difensore di Davide Paitoni, non ha esitazioni nel definire corretta la decisione della gip Giorgetti, essendosi trattato, come riferito all’Adnkronos, di «una vicenda completamente avulsa dai rapporti madre- figlio- marito e assolutamente controversa, perché è da chiarire se Paitoni abbia aggredito o si sia difeso» da un collega. «Hanno parlato – ha aggiunto il legale – di codice rosso, ma non abbiamo né un avviso di garanzia, né una misura cautelare, né un avviso di chiusa indagine per reati rientrati nell’alveo del codice rosso». Ieri Paitoni, durante l’interrogatorio di garanzia, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Gli è stata contestata anche la premeditazione e l’aver agito per motivi abietti.

Nelle ultime ventiquattr’ore, come prevedibile, le polemiche sono montate a dismisura. Con i “se” e con i “ma”, dopo tragedie come quella di Morazzone, è sempre facile commentare, lavarsi la coscienza e trovare subito dei responsabili. Ecco che in questo contesto tecnici e opinione pubblica si spaccano. Parlare di disattenzione da parte del gip – che non poteva aggravare la richiesta del pm – è improprio, come sostiene il presidente del Tribunale di Varese, Cesare Tacconi, il quale ha evidenziato come la richiesta dei domiciliari per Paitoni avesse un fine ben preciso, evitare l’inquinamento delle prove, senza che la pericolosità sociale venisse tirata in ballo.

Di altro avviso Fabio Roia, presidente vicario del Tribunale di Milano e consulente della Commissione parlamentare sui femminicidi, che, in una intervista rilasciata ieri a Repubblica, ha ravvisato «una sottovalutazione complessiva della violenza» dell’assassino di Morazzone. Il magistrato auspica interventi normativi per sospendere in determinati casi la potestà genitoriale.

Alcuni avvocati di Varese definiscono la gip «non brava, di più» e non nascondono la tristezza per le feroci polemiche che la stanno riguardando, essendosi sempre contraddistinta per «equilibro e preparazione».

Varese, il presidente dei penalisti difende l’avvocato Bruno

Fabio Margarini, presidente della Camera penale di Varese, non ha fatto mancare la sua vicinanza all’avvocato Stefano Bruno, preso di mira con minacce e insulti. «Ho sentito il collega Bruno – dice al Dubbio l’avvocato Margarini -, che è anche vicepresidente della nostra Camera penale. Ad oggi si tratterebbe esclusivamente di sfoghi di rabbia per la giovanissima vittima di questo immane e inumano delitto, e solo larvatamente viene coinvolto e minacciato il difensore dell’omicida. L’auspicio per il collega Bruno è quello di non dover assistere ad una nuova deriva subculturale, e a una pericolosa gogna pubblica che tendesse a confondere l’autore del delitto con il suo difensore, dimenticando che quest’ultimo sta tutelando il diritto costituzionalmente radicato in ogni cittadino quale che sia l’efferatezza del crimine compiuto».

La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha chiesto urgenti accertamenti al suo ispettorato. Da via Arenula verranno chiesti agli uffici del Tribunale e della Procura di Varese tutti gli atti di loro competenza per chiarire il quadro della vicenda e valutare il da farsi. Nel frattempo nubi sempre più cupe si addensano sugli uffici giudiziari di Varese, mentre Morazzone e Gazzada Schianno piangono Daniele.

Giustizia strabica. Pittelli e Paitoni, uno in cella l’altro no: indovinate perché. Tiziana Maiolo — 6 Gennaio 2022. 

Il signor Davide Paitoni, che la notte di capodanno ha ucciso il suo bambino di sette anni, è passato dalla detenzione domiciliare a quella in carcere. Anche l’avvocato Giancarlo Pittelli, che però non ha accoltellato né ucciso nessuno, ha avuto una sorte simile, da casa al carcere per un grave reato. Ha scritto una lettera. Così vanno le cose, nell’italica amministrazione della giustizia. Litigiosità e scarsa comunicazione fra toghe, burocrazia sciatta e poco attenta, da una parte. Accanimento politico-giudiziario che rende l’Italia simile ai peggiori regimi totalitari, dall’altra.

C’è un po’ di tutto il peggio della “normalità” malata nell’amministrazione della giustizia, nella vicenda finita in tragedia che ha visto protagonista Davide Paitoni, la sua famiglia e lo sfortunato bambino. Ma c’è molto di più nella storia di Giancarlo Pittelli, il quale porta, prima di tutto, sul suo corpo le stimmate di due peccati originali. Perché è un avvocato penalista in terra di ‘ndrangheta, quindi, secondo una vulgata in voga prima ancora che nell’opinione pubblica proprio tra le toghe, appare sempre un po’ complice del reato di cui sono indagati o imputati i suoi assistiti. Il suo secondo peccato coincide con il suo ruolo politico svolto in passato in Parlamento. Il che lo ha già moralmente condannato con sentenza definitiva, fin da quando il procuratore Nicola Gratteri, quello che lo aveva coinvolto e fatto arrestare nel blitz del 19 dicembre 2019 nell’inchiesta Rinascita Scott, aveva detto con convinzione che il legale calabrese era “l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto, il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria”.

Con questi due fardelli sulla sua reputazione, Giancarlo Pittelli parte già svantaggiato persino rispetto a persone accusate di omicidio. Il suo infatti è un gravissimo reato associativo, e si chiama concorso esterno in associazione mafiosa. È cioè quello che non esiste se non in giurisprudenza (ma qui non siamo in regime di common law, quindi i precedenti non dovrebbero far testo), quello che per poter essere contestato costringe il magistrato a mettere insieme due diversi articoli del codice penale, il 416 bis e il 110. Più gravi del 575 che punisce gli assassini? Sul caso di Davide Paitoni si sono esercitati diversi commentatori, nei giorni scorsi. Per piangere un povero bambino innocente, il piccolo Daniele, il cui funerale si svolgerà proprio oggi a Gazzada Schianno, il Comune in provincia di Varese in cui risiede la sua mamma. Qualcuno anche per domandarsi se fosse stata valutata bene la capacità genitoriale di quel papà, prima di affidargli il bambino per alcuni giorni di vacanza, e il vice presidente vicario del tribunale di Milano, Fabio Roia, per chiedere al riguardo un intervento del legislatore. Altri sono entrati nel garbuglio dei rapporti tra procura di Varese e ufficio del gip.

“Daniele non voleva andare dal padre a Capodanno”, il dolore del nonno del bimbo di 7 anni accoltellato a morte

Ormai, dopo tutto quel che si è saputo dal libro “Il Sistema” di Palamara e Sallusti, i conflitti tra magistrati sono considerati, più che ordinaria dialettica processuale, la sciagurata “normalità” di una magistratura malata. Quel che però aggrava la malattia è la tendenza a criminalizzare il giudice, specie se è donna e specie se garantista, in favore dell’ufficio del procuratore. È accaduto nei primi giorni successivi al disastro della funivia del Mottarone, sta capitando di nuovo ora a Varese. Dove a quanto pare due diversi filoni d’inchiesta che riguardavano la stessa persona hanno proceduto come due rette parallele, quelle che non si incrociano mai. Così le denunce che nel marzo dell’anno scorso la moglie e il suocero di Davide Paitoni avevano presentato per lesioni e minacce non si sono mai concretizzate in un vero allarme da “codice rosso”. E allorché lo stesso personaggio il 26 novembre è stato arrestato in flagranza dopo che aveva ferito con un coltellino un suo collega di lavoro nel corso di una colluttazione, sarà lo stesso pm a chiedere la custodia cautelare al domicilio e non in carcere. Ora la procura precisa di averne segnalato la “pericolosità sociale”, anche se poi la Gip ne ha disposto la custodia preventiva per un altro motivo, il timore dell’inquinamento probatorio.

Ora, se c’è una qualche ragione, anche per noi che denunciamo ogni giorno l’inutilità e la perniciosità del carcere, per allontanare, separare e forse rinchiudere, è proprio nei casi in cui una persona si riveli pericolosa per l’incolumità fisica altrui. Se il signor Paitoni era un violento, non solo non gli si doveva affidare un bambino, ma neanche lasciarlo in casa e consentirgli di mantenere rapporti con la moglie da cui si stava separando nella consueta situazione di conflitto. E forse gli stessi familiari avrebbero potuto essere più prudenti. Ma sul ferimento del collega non c’è chiarezza sulla dinamica dei fatti, e sulle denunce della moglie e del suocero non era stata riscontrata una situazione di vero pericolo per la loro incolumità. Tutto ancora da chiarire, e chissà se basteranno gli ispettori della ministra Cartabia. Permettiamoci però di dire che, se non fosse per la doverosa commozione per la morte atroce di un bambino, tutti questi commenti che ancora inondano giornali, tv e social, sono eccessivi.

Qualcuno dovrebbe invece domandarsi se Giancarlo Pittelli sia pericoloso quanto Davide Paitoni. Se qualcuno lo abbia mai visto minacciare o accoltellare. Perché debba stare rinchiuso come una belva feroce per aver scritto una lettera a una parlamentare, cosa consentita anche ai detenuti in carcere in regime di 41 bis, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che rende la detenzione “impermeabile” ai rapporti con l’esterno. Avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione, dicono in coro le tre giudici di Vibo Valentia che lo hanno arrestato per la terza volta e il tribunale del riesame che il 28 dicembre scorso ha confermato la revoca dei domiciliari perché la sua corrispondenza non era “tracciabile”.

Il testo di quel grido di disperazione che Pittelli aveva inviato alla ministra e parlamentare ritenendola un’amica è stato considerato dalle giudici così eversivo da far loro sentire la necessità di inserirlo per intero nell’ordinanza di custodia in carcere. “Sono detenuto in ragione di accuse folli formulate dalla procura di Gratteri ed asseverate dalla giurisdizione asservita”, c’era scritto. Sicuramente parole “eversive”. Perché nel regime della normalità giudiziaria si va subito ai domiciliari, anche su richiesta del pm, dopo un accoltellamento, e in carcere dopo un omicidio. Nel regime dei sacrari dell’antimafia invece, si conquistano i domiciliari dopo almeno un annetto di carcere speciale, poi si torna in galera per aver scritto una lettera “eversiva”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

·        Scomparsi.

Un mistero che dura da 40 anni. Giorgia Meloni scrive alla mamma di Graziella De Palo, la giornalista scomparsa in Libano: “Al suo fianco per la verità”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 3 Dicembre 2022

Pochi giorni fa, sulle colonne del Corriere della Sera, Renata Capotorti, madre di Graziella De Palo, lanciava a Giorgia Meloni l’accorato appello per conoscere la verità sulla scomparsa di sua figlia giornalista scomparsa il 2 settembre 1980 in Libano. Sempre sul Corriere la premier ha risposto “da madre a madre ma anche nella mia responsabilità di Presidente del Consiglio, per assicurarle che farò quanto possibile per consentirle di avere quella verità a cui lei giustamente aspira da oltre 40 anni”.

Oggi la signora Renata Capotorti ha 99 anni e non ha mai smesso di cercare la verità. E ha un solo desiderio: avere una tomba su cui poter piangere la figlia scomparsa. Graziella De Palo scomparve a Beirut il 2 settembre 1980 dove stava lavorando con il collega Italo Toni. Aveva solo 24 anni, non è mai più stata ritrovata. Un mistero, diventato presto un intrigo internazionale. Sul caso era stato apposto il segreto di Stato nel frattempo scaduto. Nel 2019 la Procura di Roma ha aperto una nuova inchiesta e riacceso la speranza nei De Palo. Così da madre a madre la signora De Palo si è rivolta alla premier chiedendo di poter riavere almeno i suoi resti. “Con le poche energie che ancora conservo – ha scritto la mamma della giornalista – perché comprenda l’inconsolabile disperazione di una madre assumendo ogni possibile iniziativa urgente per disvelare finalmente le ragioni dei gravi depistaggi e per individuare almeno il luogo in cui ancora si trovano a Beirut le spoglie della mia povera Graziella”.

Meloni ha risposto all’accorato appello: “Sua figlia Graziella avrebbe potuto essere mia figlia, appassionata del suo lavoro si recò in Libano, allora giovanissima, alla ricerca di notizie utili all’inchiesta che stava realizzando, insieme al collega Italo Toni, pochi giorni dopo la strage di Bologna. Era il periodo più buio della nostra Repubblica, al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, erano seguiti attentati, omicidi e stragi. L’Italia era al centro delle tensioni internazionali e nel contempo colpita più di altri Paesi dai gruppi terroristici”.

“Ora sento il dovere di madre nei confronti delle madri che hanno perduto i loro figli in quegli anni di violenza e terrore, e certamente nei confronti suoi”, ha continuato la premier. Nella lettera Meloni ricorda il lavoro svolto dal Copasir e rassicura: “ho dato disposizione al sottosegretario Alfredo Mantovano, che ha la delega ai Servizi, di far completare la desecretazione dei documenti restanti, pur se non direttamente collegati alla scomparsa medesima: essi costituiscono la cornice in cui la vicenda si inserisce, con particolare riferimento ai rapporti intrattenuti all’epoca fra Italia e OLP”.

E conclude: “Sono trascorsi 42 anni: un tempo sufficiente per guardare al passato con più equilibrio e serenità, provando a costruire una coesione istituzionale su temi complessi ma ineludibili. Quell’estate del 1980 la Sua Graziella aveva solo 24 anni. Una giovane giornalista con la passione per la verità. Per Lei e per i Suoi familiari, per la nostra stessa comunità, dovremmo coltivare quella stessa passione”.

Chi era Graziella De Palo

Nata a Roma il 17 giugno 1956, Graziella De Palo, giornalista, aveva iniziato presto a lavorare nell’agenzia di stampa Notizie Radicali dove aveva conosciuto Italo Toni. Nel 1980 era stata assunta da Paese Sera con l’incarico di seguire le inchieste sui servizi segreti. Il 22 agosto i due partirono per Damasco per poi proseguire verso il Libano e nei campi profughi palestinesi. Il viaggio era stato organizzato da un rappresentante dell’Olp a Roma. Il primo settembre i due si presentarono all’ambasciata italiana a Beirut e comunicarono di voler andare al Castello di Beaufort. Chiesero di essere cercati se non fossero tornati entro tre giorni. La mattina dopo i due scomparvero nel nulla.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

«Mia figlia Graziella sparita in Libano. A 99 anni chiedo verità. Ora Meloni mi aiuti». Amelia Esposito su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.

La madre della giornalista Graziella De Palo: una tomba per piangerla

La signora Renata Capotorti posa abbozzando un sorriso, sulla parete un ritratto in bianco e nero di sua figlia. Oggi, Renata compie 99 anni e ha un solo desiderio: una tomba su cui poterla piangere. Una tomba perché il suo dolore sia finalmente pacificato.

2 settembre 1980

Renata Capotorti è la madre di Graziella De Palo, la giornalista scomparsa da Beirut il 2 settembre 1980 con il collega Italo Toni, e mai ritrovata. Un mistero italiano, un intrigo internazionale in uno degli anni più bui della storia di questo Paese: l’anno di Ustica e della bomba alla stazione di Bologna. Sul suo caso era stato apposto il segreto di Stato, nel frattempo scaduto, ma quei documenti che riguardano i rapporti fra Italia e Olp sono ancora «classificati». Nel 2019 la Procura di Roma ha aperto una nuova inchiesta e riacceso la speranza nei De Palo. Ma Renata è alla soglia dei cento anni e teme di non riuscire a vederla una verità giudiziaria completa sulla morte della sua Graziella, ammazzata quando aveva soltanto 24 anni. Quello che chiede, oggi, è di poter riavere almeno i suoi resti. E lo chiede, con una lettera intensa e toccante, alla premier Giorgia Meloni. Da madre a madre. La signora Renata si rivolge a Meloni «con le poche energie che ancora conservo - scrive – perché comprenda l’inconsolabile disperazione di una madre assumendo ogni possibile iniziativa urgente per disvelare finalmente le ragioni dei gravi depistaggi e per individuare almeno il luogo in cui ancora si trovano a Beirut le spoglie della mia povera Graziella». A questo punto, quello che all’anziana madre preme è «poter versare davanti alla sua tomba le poche lacrime che ancora conservo».

Dopo la strage di Bologna

Ma cosa è accaduto il 2 settembre ’80, esattamente un mese dopo la carneficina di Bologna? Graziella e Italo erano in Libano per un viaggio di lavoro organizzato dall’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina di Yasser Arafat). Obiettivo: visitare i campi profughi palestinesi e scriverne. Lei per Paese Sera, lui per Diari. Il giorno prima della scomparsa, i due colleghi si presentano all’ambasciata italiana spiegando che, il mattino seguente, sarebbero partiti per il Sud del Libano. Una zona molto pericolosa. Per questo, avvertono i diplomatici. Il 2 mattina, Graziella e Italo vengono visti uscire dall’albergo. È l’ultima notizia che si ha di loro. Poi, il buio. La denuncia dei familiari viene scoraggiata per mesi dai servizi italiani e, poi, le indagini vengono ostacolate con menzogne e depistaggi, come scrive il Tribunale di Roma nell’85 disponendo il rinvio a giudizio dell’appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, accusato di aver passato «messaggi in cifra» sul caso De Palo al colonnello Stefano Giovannone, all’epoca capo del centro Sismi a Beirut. Balestra, un pesce piccolo, è l’unico ad avere pagato un conto con la giustizia. Ma per i pm romani, gli uomini chiave dei depistaggi sono proprio Giovannone e Giuseppe Santovito, allora direttore del Sismi, entrambi indagati all’epoca (Giovannone venne anche arrestato) e deceduti ormai da tempo. Mentre gli esecutori materiali del sequestro e dell’omicidio sarebbero da ricercare nell’area dei militanti palestinesi vicini a George Habbash. Il movente? Probabilmente le inchieste di De Palo e Toni su temi scottanti come il traffico di armi fra Medio Oriente e Italia.

La lotta

«Ho inutilmente lottato per oltre 40 anni, sola con i miei familiari, per avere giustizia e conoscere i nomi degli esecutori materiali», scrive Renata Capotorti alla premier. «Alcune testimonianze — prosegue — confermano che le nostre istituzioni acquisirono immediate certezze sui responsabili del rapimento, sul luogo di detenzione e su quello della sepoltura dei cadaveri nei pressi di Beirut». Sono le testimonianze di ex agenti dei servizi alla base del nuovo fascicolo aperto a Roma. «Si tratta di certezze che, per oscure ragioni di Stato, ci sono state crudelmente negate per tutto questo tempo infinito, così impedendo ogni possibile pacificazione del nostro dolore». «I nostri appelli per conoscere la verità non hanno mai avuto risposta, ci siamo sentiti abbandonati dallo Stato. Questo aggiunge dolore al dolore», si duole Renata. Oggi, però, spegnerà le sue 99 candeline con una piccola speranza in più nel cuore.

Meloni scrive alla madre di Graziella De Palo: «Sarò al suo fianco per contribuire a trovare la verità».  Giorgia Meloni su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2022.

La risposta della premier Giorgia Meloni all’appello rivoltale dalla signora Renata Capotorti, madre della giornalista scomparsa a Beirut il 2 settembre 1980

Cara Renata,

le scrivo da madre a madre ma anche nella mia responsabilità di Presidente del Consiglio, per assicurarle che farò quanto possibile per consentirle di avere quella verità a cui lei giustamente aspira da oltre 40 anni. Sua figlia Graziella avrebbe potuto essere mia figlia, appassionata del suo lavoro si recò in Libano, allora giovanissima, alla ricerca di notizie utili all’inchiesta che stava realizzando, insieme al collega Italo Toni, pochi giorni dopo la strage di Bologna.

Era il periodo più buio della nostra Repubblica, al rapimento e all’assassinio di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta, erano seguiti attentati, omicidi e stragi. L’Italia era al centro delle tensioni internazionali e nel contempo colpita più di altri Paesi dai gruppi terroristici. Io in quegli anni ero troppo piccola per capire, ma il mio impegno politico è anche frutto della emozione che quegli episodi e poi la successiva morte dei giudici eroi Borsellino e Falcone suscitarono in me. Ora sento il dovere di madre nei confronti delle madri che hanno perduto i loro figli in quegli anni di violenza e terrore, e certamente nei confronti suoi.

Mi risulta che la sua famiglia abbia preso visione in momenti differenti, dal 2010 in poi, di larga parte degli atti — prima secretati — relativi alla scomparsa di Gabriella e di Italo. A seguito dell’ottimo lavoro svolto in questa direzione nella passata legislatura dal Copasir con una propria indagine conoscitiva, ho dato disposizione al sottosegretario Alfredo Mantovano, che ha la delega ai Servizi, di far completare la desecretazione dei documenti restanti, pur se non direttamente collegati alla scomparsa medesima: essi costituiscono la cornice in cui la vicenda si inserisce, con particolare riferimento ai rapporti intrattenuti all’epoca fra Italia e OLP.

Si tratta comunque di atti già a disposizione dell’autorità giudiziaria, che dal 2019 ha ripreso le indagini sul caso. Sono trascorsi 42 anni: un tempo sufficiente per guardare al passato con più equilibrio e serenità, provando a costruire una coesione istituzionale su temi complessi ma ineludibili. Quell’estate del 1980 la Sua Graziella aveva solo 24 anni. Una giovane giornalista con la passione per la verità. Per Lei e per i Suoi familiari, per la nostra stessa comunità, dovremmo coltivare quella stessa passione.

Graziella De Palo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Graziella De Palo (Roma, 17 giugno 1956 – scomparsa a Beirut il 2 settembre 1980) è stata una giornalista italiana, rapita nel settore siropalestinese di Beirut il 2 settembre 1980, con il collega Italo Toni. Di entrambi da allora non si sono più avute notizie certe, mentre il loro caso si è trasformato col tempo in un vero e proprio intricato intrigo internazionale.

Biografia.

Graziella è figlia del Capitano Vincenzo De Palo, cofondatore dell'allora Gabinetto Scientifico investigativo dell'Arma dei carabinieri, e di Renata Capotorti, professoressa di Lettere.

Fin da piccola, guidata dal fratello maggiore, Giancarlo De Palo, si appassiona con lui alla professione del giornalismo seguendo le "lezioni" dispensate dal glorioso Corriere dei Piccoli, cui Giancarlo resterà abbonato fino all'adolescenza. Così, dopo tanti tentativi — mai portati a termine — nel novembre 1970 nasce Parliamone Insieme, quindicinale di attualità e politica, del quale la sua amica coetanea Loredana Lipperini disegna le copertine e cura tutte le diverse rubriche.

A vent'anni Graziella e Loredana cominciano a lavorare all'agenzia di stampa Notizie radicali, nella sede storica del Partito Radicale in via di Torre Argentina, dove Graziella conosce il giornalista professionista Italo Toni, al quale si lega, e comincia a collaborare alle testate ABC, Quotidiano donna, I Consigli, Quotidiano dei Consigli, e, soprattutto, L'Astrolabio, il periodico fondato nel 1963 da Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, e all'epoca diretto da Luigi Anderlini, Indipendente eletto nelle liste del Partito Comunista Italiano (PCI).

Nel 1980, il direttore di Paese Sera, Giuseppe Fiori, impressionato dall'accuratezza delle inchieste di Graziella sull'infido mondo dei Servizi Segreti, ed alla stretta interconnessione di questi ultimi con il poderoso sistema dell'industria bellica italiana, da lei rivelato, la chiama con sé al proprio quotidiano; in particolare, le commissiona un'inchiesta a puntate sull'argomento e sulle connessioni del traffico di armi tra Italia e Medio Oriente, e viceversa. Graziella aveva intervistato al riguardo più volte in merito l'onorevole socialista Falco Accame, già Presidente della Commissione Difesa della Camera, citandone le interrogazioni parlamentari che alludono, ma senza farne esplicitamente il nome, all'ambigua figura del colonnello Stefano Giovannone, già firmatario del cosiddetto Lodo Moro e capocentro del SISMI a Beirut, dove cura i rapporti con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Graziella scrive così alcuni tra i suoi migliori e documentati articoli, in particolare quello uscito il 21 marzo 1980, intitolato False vendite, spie, società fantasma: così diamo armi.

Missione in Libano e scomparsa.

Il 22 agosto 1980 Graziella, in compagnia del collega Italo Toni, parte per Damasco, in Siria: destinazione il Libano e i campi profughi palestinesi. A organizzare e pagare il viaggio dei due giornalisti è il rappresentante dell'OLP a Roma Nemer Hammad. Il 23 agosto Graziella e Italo passano in macchina la frontiera tra Siria e Libano e arrivano a Beirut Ovest, dove Al Fatah, la principale organizzazione dell'OLP, guidata direttamente da Yasser Arafat, offre loro una stanza presso l'Hotel Triumph; mentre li aiuta a far da interprete un amico già conosciuto e intervistato da Graziella a Roma: il sacerdote cattolico palestinese monsignor Ibrahim Ayad.

Il 1º settembre i due giornalisti si recano all'ambasciata italiana a Beirut, dove comunicano al Primo Consigliere Guido Tonini, che fa le veci dell'Ambasciatore Stefano D'Andrea, in vacanza, di voler visitare il Sud del Libano e in particolare il Castello di Beaufort, postazione dell'OLP spesso attaccata dalle forze israeliane durante la guerra civile libanese. Evidentemente molto spaventati, gli chiedono di essere cercati dal personale dell'Ambasciata se entro tre giorni non dovessero fare ritorno all'hotel Triumph, ricevendo ampie assicurazioni in tal senso.

La mattina dopo, 2 settembre, Graziella e Italo sarebbero dovuti partire per questo viaggio su una jeep del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina di Nayef Hawatmeh, che Graziella aveva intervistato nei giorni precedenti, come risulta dal suo taccuino. Sul veicolo avrebbe dovuto trovarsi Piera Redaelli, militante italiana filopalestinese.

Da quel momento non si avranno più tracce dei due giornalisti.

Le ricerche.

L'ambasciata italiana si allerta solo alla fine di settembre, in seguito alle telefonate della famiglia di Graziella, in particolare la madre Renata Capotorti e il fratello maggiore Giancarlo De Palo.

Giancarlo ha da subito accanto a sé il giornalista diciottenne Maurizio Caprara, appena passato da il manifesto alla cronaca di Roma del Corriere della Sera, il quale si offrirà subito di accompagnarlo a Beirut e gli presterà il suo microregistratore fin da quando — quasi subito — cominceranno ad emergere nelle varie inchieste sulla scomparsa di Graziella e Italo le prime gravi incongruenze e contraddizioni, mentre il primo politico italiano a cui si rivolge è Luciana Castellina, che lo conforta dopo aver sentito il suo amico del SISMI, il Colonnello Stefano Giovannone, al quale la famiglia De Palo era stata rimandata, dopo infinite tergiversazioni, dallo stesso Nemer Hammad.

Nel frattempo interviene anche l'inviato di Panorama all'epoca il primo "newsmagazine" italiano, che aveva pubblicato la presentazione del saggio "Quale Movimento/Polemica su Che Guevara, pubblicato da Graziella e Italo pochi mesi prima della loro partenza, il quale, molto pessimista, vorrebbe intervenire subito scrivendo un articolo sul caso, mentre Giancarlo, che intanto ha ricevuto le prime, importantissime rassicurazioni da parte del Colonnello Giovannone, che chiede il "Silenzio Stampa", lo blocca con l'aiuto di Maurizio, offrendogli in cambio, al chiarimento di tutta la vicenda, l'esclusiva di tutte le cassette registrate.

Agli inizi di ottobre il Segretario generale del Ministero degli Affari Esteri, Francesco Malfatti di Montetretto, aveva deciso infatti di affidare l'inchiesta sulla scomparsa dei due giornalisti proprio al capocentro del SISMI a Beirut, il colonnello Stefano Giovannone, e non all'ambasciatore italiano a Beirut, Stefano d’Andrea, subito dopo che, il 17 ottobre 1980, l'ambasciatore D'Andrea aveva scritto allo stesso Malfatti un telex segreto nel quale comunicava che il rapimento di Graziella e di Italo era opera di Al Fatah, precisando di essere a conoscenza dei nome dei loro killer.

Il Malfatti, che si scoprirà in seguito essere affiliato alla P2, nasconde l'esistenza di questo telex allo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini, che prende subito molto a cuore la vicenda, durante il primo dei quattro ricevimenti della famiglia, nell'Ottobre 1980, e che, omettendo di convocarlo a Roma, aveva improvvisamente trasferito a Copenaghen.

Dopo questa illuminante udienza dal Presidente Pertini, Giancarlo, uscito dal Quirinale, si reca, nell'estremo tentativo di vederci chiaro, direttamente a casa del Colonnello Giovannone, il cui indirizzo aveva trovato sull'elenco telefonico. Gli apre, circondata da una muta di pastori maremmani, la signora Giovannone, tesa ma gentile: il marito è a Beirut, dove si occupa notte e giorno della vicenda, in attesa, per quanto riguarda Graziella, del suo felice epilogo: infatti un aereo militare è pronto a rimpatriarla. Appena il marito ripasserà per Roma, si farà vivo con lui per incontrarlo.

Intanto, sia i familiari di Graziella che quelli di Italo avevano ricevuto da un oscuro funzionario dell'ufficio Emigrazione della Farnesina, diretto dall'Ambasciatore Giovanni Migliuolo, una telefonata che vietava loro di recarsi in Libano "per ordini superiori": il contrario di quanto aveva auspicato nei primi giorni dalla notizia della scomparsa l'allora Ambasciatore Stefano D'Andrea.

Stefano Giovannone, quando si incontra finalmente con Giancarlo al Caffè Doney di via Veneto, allo scopo di scagionare l'OLP, cerca di accreditare la tesi che i due giornalisti siano stati rapiti a Beirut Est, la zona della città controllata dai Falangisti cristiano maroniti, sostenendo che almeno Graziella sia ancora viva. Nasce così il depistaggio della "falsa Graziella", costruito servendosi del viaggio a Beirut Est della Massona romana Edera Corrà, la quale si sarebbe registrata all'albergo dove alloggiava con il nome di Graziella De Palo, telefonando anche, sempre a nome di Graziella, al capo delle Milizie Falangiste [[Bechir Gemayel]] per chiedergli un'intervista, che le viene gentilmente accordata. Poco dopo, però, alla Corrà viene comunicato il ritrovamento dei cadaveri dei due giornalisti italiani all'Ospedale americano di Beirut Ovest.

Il 18 aprile 1981, la famiglia De Palo viene ricevuta a Damasco da Arafat, il quale promette la liberazione di Graziella. Il 12 giugno 1981, la milizia cristiano maronita smentisce la paternità del rapimento, avvenuto a Beirut ovest, territorio sotto lo stretto controllo dell'OLP. Il 14 gennaio 1982 il governo italiano apre un'istruttoria, affidandola a Giancarlo Armati, sostituto procuratore della Procura di Roma. Il 24 gennaio 1983, la famiglia De Palo si reca nuovamente in Libano, portando con sé una delegazione di giornalisti italiani. A invitare la famiglia a recarsi nuovamente in Libano è stato Abu Ayad, capo dei servizi segreti dell'OLP, che dichiara che Graziella è ancora viva e in mano ai falangisti cristiano maroniti. Anche questo viaggio non porta ad alcun risultato concreto nelle indagini.

Ipotesi sulla scomparsa.

La scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni è stata spesso messa in relazione con il sequestro dei missili ad Ortona nella notte tra il 7 e l'8 novembre 1979, un sequestro che portò all'arresto di Abu Anzeh Saleh, palestinese con passaporto giordano, responsabile della struttura militare clandestina del FPLP in Italia. Pochi giorni dopo, il 13 novembre, venne incriminato anche George Habbash, leader del FPLP. In quell'occasione il FPLP accusò l'Italia di non aver rispettato i patti, riferendosi al lodo Moro e annunciando pesanti ritorsioni. Il processo contro Habbash e Saleh iniziò proprio nell'agosto del 1980, quando Graziella De Palo e Toni si stavano recando prima a Damasco e poi in Libano. Il giudice Armati in base agli atti processuali ha negato un collegamento tra la vicenda di Ortona, l'arresto di Habbash e il caso De Palo-Toni. Il giudice ha accertato che i due giornalisti italiani furono prelevati all'hotel Triumph dai miliziani di Habbash, interrogati e uccisi poche ore dopo o pochi giorni dopo. Armati chiese il rinvio a giudizio del colonnello Giovannone e del generale Santovito, direttore del SISMI, per favoreggiamento, ma, a causa della morte di questi ultimi, l'inchiesta si concluse con un nulla di fatto. Nel 1986, George Habbash fu assolto in tutti i gradi di giudizio per insufficienza di prove.

Graziella De Palo stava indagando anche sulla strage di Bologna, avvenuta il 2 agosto 1980, un mese esatto prima della sua scomparsa: secondo il fratello Giancarlo, la giornalista seguivano la "pista libanese", un depistaggio messo in atto dalla giornalista Rita Porena e volto a scaricare le responsabilità della strage sui falangisti cristiano maroniti.

Nel 1984 il presidente del consiglio Bettino Craxi appose il segreto di Stato sulla vicenda. I nomi stessi di Graziella e Italo vengono rimossi dagli elenchi degli appositi annali ufficiali internazionali, che nominano i giornalisti caduti nel mondo sul mestiere. Il segreto di Stato viene parzialmente rimosso il 28 agosto 2014, per ciò che non riguarda i rapporti tra Italia e organizzazioni palestinesi (lodo Moro).

Nel dicembre 2019 la procura di Roma riapre l'inchiesta.

Nell'agosto 2020 appare su wikileaks italian un documento desecretato che descrive come si sarebbero svolti i fatti secondo la deposizione dell'agente segreto Elio Ciolini:

«COMANDO GENERALE DELL'ARMA DEI CARABINIERI II Reparto - SM - Ufficio Operazioni N. 15500/31 di prot. "R" ROMA 31.3.1982 AL SIGNOR DIRETTORE DEL SISMI OGGETTO: Appunto

Testo: A seguito della conversazione avuta dalla SV con il Gen. D. Carlo Alberto DALLA CHIESA in data 24 marzo u.s., trasmetto l'unito appunto.

IL GENERALE (firma cancellata)

a sinistra: timbro 3DIC1993 timbro ..OT 14187

a destra timbro SENATO DELLA REPUBBLICA CAMERA DEI DEPUTATI 000263 COMMISSIONE MITROKHIN UFFICIO STRALCIO timbro DECLASSIFICATO con foglio n. ______ con a fianco a penna scritta "a NON CLASSIFICA"

1) il 2.9.1980 in località "Pakani Krtia, quartiere Sabra" di Beirut (Libano), presso la sede dell'O.L.P. - frazione democratica, di cui è responsabile Nayef HAWETMEH, ha avuto luogo una riunione cui hanno partecipato un uomo politico, un armatore, un militare, un finanziere, due rappresentanti della "Trilaterale Italiana" , tutti di cittadinanza italiana e fratelli della "Loggia Riservata", nonché Stefano Delle Chiaie, rappresentante della "OT" e un finanziere internazionale non italiano.

2) Scopo della riunione: - contratto di vendita di materiale tecnologico italiano-francese; - intervento dell'OLP presso il Governo Siriano a favore della "Trilaterale" per un contratto commerciale; - collaborazione dell'OLP e della "OT" in Europa.

3) Al termine della riunione, sempre nella sede dell'OLP, si sono incontrati lo stesso HAWETMEH ed una giovane donna che aveva già concordato una intervista. Nell'occasione la giornalista, riconosciute le persone convenute con HAWETMEH nel momento in cui stavano per uscire dalla sala di riunione, si presentava come Graziella DI PALO.

4) HAWETMEH appreso dal Delle Chiaie che gli italiani si erano dimostrati dispiaciuti di essere stati individuati nella sede dell'OLP dalla giornalista, pregava la donna di rinviare l'intervista, riservandosi di chiamarla dal suo albergo (Continental-Ranchia).

5) Un altro incontro tra HAWETMEH e i suoi ospiti, la DI PALO ed un altro giornalista (successivamente identificato come Italo TONI), ha avuto luogo nel ristorante "Ylazlar". Nayef HAWETMEH, subito dopo, invitava tutti i suddetti nel suo domicilio, dove si sottoponeva all'intervista dei due giornalisti in presenza dei cittadini italiani. Nella circostanza l'HAWETMEH si mostrava particolarmente loquace e, nel concludere l'intervista, manifestava propositi minacciosi nei confronti della giovane donna.

6) A questo punto l'altro giornalista (TONI) esternava proteste in merito alle intenzioni espresse dal palestinese. Contemporaneamente, gli uomini di HAWETMEH (sempre presenti) espellevano il giornalista, mentre lo stesso HAWETMEH invitava i suoi ospiti a "seguire il suo esempio"

7) Nonostante la richiesta di aiuto della DI PALO, nessuno degli italiani presenti faceva alcunché in suo favore avendo compreso che la sorte dei due giornalisti era stata segnata per averli riconosciuti. L'unico che avrebbe potuto intercedere per la DI PALO sarebbe stato il DELLE CHIAIE, in ottimi rapporti di amicizia con l'HAWETMEH, al quale esprimevano consenso anche il finanziere internazionale e due degli italiani presenti.

8) L'esatto svolgimento degli avvenimenti veniva riferito da un testimone oculare che accompagnava un membro della "trilaterale", senza poter aiutare la DI PALO.

9) Sull'accaduto sarebbe stata scritta una relazione conservata da un agente della CIA in America Latina.»

Indagini giornalistiche.

Marco Boato fu il solo politico vicino alla famiglia nei primi anni della tragedia.

Il caso Toni-De Palo ritorna all'attenzione dei media e dell'opinione pubblica nel venticinquesimo della scomparsa, tramite un sito web e una puntata del programma Chi l'ha visto? del gennaio 2006. La loro scomparsa è stata oggetto di una memoria presso l'Unione nazionale cronisti italiani. Inoltre, grazie a petizioni firmate su iniziativa dell'Ordine dei giornalisti delle Marche e soprattutto all'intervento del Sindaco di Roma Gianni Alemanno prima e del Presidente del COPASIR Francesco Rutelli, che era stato amico di Graziella ai tempi della comune militanza nel Partito Radicale, poi, il segreto di Stato è stato rimosso dal Governo Berlusconi su circa 1240 documenti direttamente riguardanti la sparizione di Toni e della De Palo. Inoltre, il Ministro dell'Interno Roberto Maroni ha dichiarato Graziella e Italo Toni Vittime del Terrorismo. Ferruccio Pinotti dedica alla scomparsa di Graziella De Palo e Italo Toni il principale capitolo (Segreto di Stato) del suo libro inchiesta sulla Massoneria italiana Fratelli d'Italia. L'anno successivo Amedeo Ricucci, coinvolto da Pinotti, realizza un documentario di un'ora per La storia siamo noi di Giovanni Minoli, intitolato Un mistero di Stato. Il caso Toni-De Palo (2008), poi replicato da Rai 3 per vari anni e che costituisce il più notevole contributo televisivo sul caso.

Il sindaco Gianni Alemanno organizzò anche, l'11 Settembre 2009, un convegno internazionale in Campidoglio intitolato "Graziella e Italo: una giornata per non dimenticare", integralmente registrato e trasmesso da Radio Radicale.

Lo stesso anno viene a loro dedicato il concerto inaugurale della stagione sinfonica di Santa Cecilia. Dall'anno successivo i due giornalisti sono ricordati anche con una messa annuale a suffragio il 2 Settembre nella Santa Maria in Ara Coeli, e l'intitolazione ai loro nomi di due viali in Villa Gordiani.

In seguito alla risonanza suscitata dal Convegno del 2009, il senatore Francesco Rutelli convoca in audizione al COPASIR il fratello Giancarlo De Palo. I De Palo, infatti, nei mesi precedenti, avevano presentato un'istanza formale al premier Silvio Berlusconi per ottenere l'abolizione del segreto di Stato apposto nel 1984. Rutelli, con una lettera sottoscritta all'unanimità da tutti i membri del Comitato, chiede ed ottiene da Berlusconi la desecretazione di tutta quella documentazione in possesso dell'AISE sulla tragica scomparsa che non fosse direttamente attinente agli accordi stipulati in segreto dal SISMI con l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina e che costituiscono il cosiddetto Lodo Moro. Si tratta dell'unico caso nella storia italiana che abbia visto l'attuazione delle nuove norme sulla disciplina del Segreto di Stato introdotte dall'ultimo governo di Romano Prodi con la legge 3 agosto 2007, n. 124, istitutiva dello stesso COPASIR.

Sul caso di Graziella De Palo viene pubblicato nel 2012 anche Omicidio di Stato, tratto dalla tesi di laurea del cugino Nicola De Palo, contenente documentazione fornita dal fratello Giancarlo.

Infine, nel maggio 2017, Bompiani pubblica, nella collana Narratori italiani, il capolavoro di Loredana Lipperini L'arrivo di Saturno, che ricostruisce la storia della loro amicizia, dagli anni "trasgressivi" dell'adolescenza, fino all'ingresso nel Partito Radicale, dove Graziella si legherà con Italo Toni.

Il 2 Settembre 2022 Rai Radio 3, diretta da Andrea Montanari, ha diffuso il podcast in cinque episodi sulla piattaforma Rai Play Sound "Graziella De Palo/Una storia italiana, realizzato dalla stessa Loredana Lipperini, che costituisce la più importante ed aggiornata ricostruzione di questa tragedia e che ha avuto la sua prima rappresentazione teatrale il 2 Ottobre 2022 in occasione della festa di Rai Radio 3 a Ravenna.

Loredana Lipperini ricorda la scomparsa di Graziella De Palo: “Un’ombra sulla storia d’Italia”. Loredana Lipperini ha raccontato a Fanpage la storia di Graziella De Palo, giornalista italiana scomparsa in Libano e sua amica del cuore, di cui ha parlato nel libro “L’arrivo di Saturno” e nel podcast “Omissis”. Francesco Raiola il 2 settembre 2022 su Fanpage.it 

Oggi, 22 anni fa, scomparvero, in Libano, Graziella De Palo e Italo Toni, due giornalisti che in un anno cardine per la storia italiana avevano scoperto qualcosa di grande e spaventoso che probabilmente portò alla loro morte. Quella di De Palo e Toni è una storia che avviene in momento in cui l'Italia è colpita dalla strage di Bologna, dalla caduta del Dc9 di Ustica, col terremoto dell'Irpinia mette in ginocchio il Sud, ma soprattutto è una storia di misteri, spie, non detti, segreti di Stato e omissis, come si chiama anche il Podcast di Radio3 – uscito oggi su RaiplaySound – in cinque puntate scritto da Loredana Lipperini, giornalista e scrittrice, amica di De Palo e autrice anche di un libro, "L'arrivo di Saturno" che ripercorre proprio questa storia e che Bompiani ha deciso di ripubblicare.

Lipperini racconta la loro storia, quella di due ragazze che diventano amiche e percorrono un pezzo di strada insieme, diventando giornaliste, una d'inchiesta e l'altra culturale, finché la storia prende una piega che solo in pochi sanno come è andata a finire e di cui oggi si conosce ancora poco. Alla fine di agosto 1980 De Palo e Toni partono per il Libano, l'1 settembre sono in Ambasciata a Beirut e comunicano al Consigliere Tonini, che svolge le funzioni dell’ambasciatore in vacanza, Stefano D’Andrea, che il giorno dopo hanno un appuntamento importante: “Se fra tre giorni non siamo rientrati in albergo date l’allarme, venite a cercarci" dice Toni presagendo qualcosa. E in effetti, il giorno dopo, il 2 settembre, i due giornalisti scompaiono. Le tracce si perdono e questa diventa una storia di depistaggi, false piste e omissis, appunto. 

Qualche anno dopo una testimonianza a La storia siamo noi racconta che a prelevare De Palo e Toni fuori al loro albergo sia stata un'auto guidata da un commando palestinese a cui qualcuno aveva detto che i due giornalisti erano spie al servizio di Israele. Resta impossibile, tuttora verificare e indagare cosa sia veramente successo, anche perché sulla vicenda c'è un Segreto di Stato che è stato prolungato fino al 2030. Abbiamo chiesto a Loredana Lipperini di raccontarci il libro, il podcast e soprattutto la storia della sua amicizia con Graziella de Palo.

Quando capì che era arrivato il momento di fissare su carta la storia della sua amica Graziella De Palo e di Italo Toni? 

Non c’è stato un momento preciso. Dall’ottobre 1982, quando ho saputo della scomparsa di Graziella, che all’epoca pensavo temporanea, come tutti, questa storia ha a lungo galleggiato nell’irrealtà. Non può essere capitato a lei, mi dicevo. Con il passare degli anni, e con l’emergere dei depistaggi e dell’enormità della vicenda, ho continuato a pensarci. Ma bisogna arrivare al 2015 per trovare la sollecitazione definitiva. Semplicemente, trasferendomi nella casa che era di mia madre, non ho più trovato le lettere di Graziella, forse smarrite durante il trasloco. E ho pensato che allora, se non potevo più rileggere le sue parole, dovevo trovarne di mie, per raccontarla.

Come è stato ripercorrere la vostra storia? 

Ripercorrere la storia di Graziella è stato possibile grazie al lavoro gigantesco, e sfiancante, delle famiglie De Palo e Toni. Hanno conservato tutto, i fogli, i nomi, gli appuntamenti. Hanno registrato gli incontri con colonnelli, funzionari, sottosegretari e ministri. In pratica, c’era già tutto, per chi avesse avuto voglia di parlarne (e se n’è parlato pochissimo). La storia personale, invece, non è mai stata dimenticata. L’amicizia di due adolescenti, poi giovani donne, è qualcosa che segna, qualcosa che ti plasma e determinata quel che tu sarai. Quello che io sono oggi. Per Graziella non c’è stato alcun futuro, però. 

E, invece, come è stato trovare una voce, un punto di vista per farlo? 

La voce è diversa per il romanzo e per il podcast: per L’arrivo di Saturno ho scelto deliberatamente di accompagnare la storia di Graziella con una vicenda non realistica. Perché sembrava, quel che le è avvenuto, a sua volta irreale. Per il podcast ho proceduto con una scrittura più lineare e pensata per la radio. 

A Maria Vittoria Serru confidò che c’era in ballo una cosa “grossa. Troppo grossa”. A 42 anni di distanza come è fissata questa storia nella sua memoria? 

Credo che abbiamo tutti perso una ragazza che sarebbe diventata una grande giornalista e che anzi lo era già. E di certo abbiamo perso un pezzo di verità sulla parte più oscura della storia d’Italia. “La cosa grossa” di cui Graziella parlò a Mavi era di certo una pista non immaginabile nel momento in cui aveva deciso, con Italo Toni, il viaggio in Libano. 

Cosa vorrebbe ricordare che sente di aver perso?

 

Per quanto riguarda i miei ricordi, non ho perso nulla: dal momento in cui ho conosciuto Graziella al ginnasio fino a quando l’ho incrociata in piazza del Pantheon, un anno prima della sua scomparsa. 

Qual è il vostro ricordo più caro che porta con sé?  

Non ce n’è uno solo. Diciamo tutte le volte che abbiamo pianto insieme per uno di quei piccoli dispiaceri che capitano alle ragazze, ma subito dopo scoppiavamo a ridere perché ci trovavamo buffe. 

In che modo quanto avvenuto ha cambiato la direzione della sua vita? 

È difficile dirlo. È uno dei miei più grandi rimpianti, ma è poco rispetto allo strazio di due famiglie che non hanno mai potuto piangere i propri cari su una tomba. 

Bompiani ha riproposto il suo romanzo e la Rai ha prodotto un podcast: cosa ci può insegnare questa storia, oggi? 

Beh, direi tutto. Ripercorrere quel tempo significa capire quanto ancora non sappiamo, e quanto certe ombre si allunghino ancora su di noi. Ci insegna a chiedere verità, e giustizia. Ci insegna che chi ha messo e mette in giro la narrazione tossica sui giovani sfaccendati non ha mai, mai, avuto ragione, ieri come oggi. 

La verità è sommersa ancora sotto il segreto di stato almeno fino al 2030: crede che si riuscirà mai a fare pienamente luce su quanto accaduto? 

Me lo auguro. E non solo io. 

Immagino si sia fatta un’idea su cosa significhi che, riguardo questa storia, “la verità farebbe male” e che sarebbe “a rischio la sicurezza nazionale” come è stato risposto a chi ha chiesto verità… 

Anche due. È evidente che tutto quel che riguarda il lodo Moro viene ostinatamente nascosto. Ma, come diceva Pasolini, nella frase che chiude il podcast, “non potranno mentire per sempre”. 

Combattiamo sempre con la memoria, molto spesso con la perdita della memoria, personale e collettiva. Che ruolo ha la letteratura, oggi, in questo processo di archiviazione? 

Per come la interpreto e la vivo io, questo è IL ruolo della letteratura. 

Qual è la vibrazione che lei sente oggi, quando ricorda la vostra amicizia? 

Quella parola “costruiamo”, che ci dicemmo ragazzine, pensando che avremmo edificato la nostra amicizia pietra su pietra. 

La pista rom, il predatore, la segnalazione. Santina come Angela Celentano. Santina Renda svanì nulla all'età di 6 anni. Una scomparsa misteriosa, forse un rapimento, dai contorni poco chiari. Trentadue anni dopo, una segnalazione ha riacceso la speranza: "Una donna riferiva dettagli precisi". Rosa Scognamiglio il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

La bambina in foto si chiama Santina Renda. Aveva da poco compiuto 6 anni quando scomparve dal Cep, un quartiere popolare della città di Palermo, 32 anni fa. Un uomo, Vincenzo Campanella, raccontò che la piccola era morta dopo aver battuto la testa cadendo dal suo motorino. Sicché, in preda al panico, si era disfatto del cadavere in una discarica. Successivamente ritrattò ogni singola parola professandosi estraneo alla vicenda.

Il corpo della piccina non fu mai ritrovato e, in assenza di prove certe del presunto reato, Campanella venne prosciolto. I genitori di Santina continuarono a sostenere l’ipotesi del rapimento, certi di poter riabbracciare, prima o poi, la figlioletta.

Una speranza che si è rinnovata nell'autunno 2022 quando, nel contesto di una segnalazione pervenuta all’avvocato Luigi Ferrandino sulle ricerche di Angela Celentano, è stato comparato il profilo genetico di una donna con quello dei familiari di Santina Renda. "Il test genetico ha dato esito negativo", ha spiegato alla nostra redazione il legale dei coniugi Celentano.

La scomparsa di Santina Renda

Era il 23 marzo del 1990. Di lì a pochi mesi sarebbero cominciati i mondiali di calcio che avrebbero consacrato Totò Schillaci capocannoniere della competizione sportiva. Quel pomeriggio, pressappoco alle ore 16, Santina era scesa in strada, nei pressi di via Pietro dell’Aquila, a giocare con sua sorella Francesca, di 5 anni. D’un tratto, un’auto di grossa cilindrata, con a bordo un uomo e una donna, si fermò davanti alle bambine. Santina fu prelevata con la forza dai due sconosciuti e caricata a bordo della vettura. Fu l’inizio di un mistero lungo 32 anni.

Francesca aveva assistito attonita e incredula alla scena. Fu lei a raccontare del rapimento ai genitori i quali, verso sera, denunciarono ai carabinieri la scomparsa della figlioletta. Non appena scattò l’allarme, tutto il quartiere si mobilitò. Furono passate al setaccio campagne, strade di periferia e si cercò financo sul fondo dei pozzi artesiani. Le ricerche furono tanto tempestive quanto infruttuose. Il parroco del Cep, don Francesco Anfuso, mise a disposizione la chiesa a mo’ di quartier generale per chiunque avesse notizie della piccola. Le strade del capoluogo siciliano furono tappezzate con fotografie di Santina. Fu tutto maledettamente inutile.

La pista rom e l'ipotesi del predatore sessuale

Nei giorni successivi alla scomparsa, il caso fu rilanciato dal programma televisivo “Chi l’ha visto?” condotto, all’epoca, da Paolo Guzzanti e Donatella Raffai. Nel frattempo, gli inquirenti si concentrarono sull’ipotesi del rapimento da parte dei rom. Si cercò la bimba negli accampamenti nomadi di mezza Italia. Le segnalazioni di presunti avvistamenti giunti alla redazione della trasmissione di Rai 3 furono numerosissime ma si rivelarono infondate. Fu scartata quasi subito invece la pista del sequestro a scopo di estorsione dal momento che i genitori della bimba non avevano grosse disponibilità economiche. Anzi. Il padre, 28 anni, lavorava come ferravecchio. La madre, invece, si occupava dei figli: Caterina, 10 anni, Santina, 6, Francesca 5, Valentina di 3 anni e Francesco di 2.

Per alcune settimane tenne banco tra gli inquirenti anche l’ipotesi del predatore seriale. Due anni prima della scomparsa di Santina, a marzo del 1988, in un canile distante poche centinaia di metri dal Cep, un bambino aveva subito violenza carnale e poi era stato legato a un palo con un filo di rame. Tale circostanza indusse gli investigatori a ritenere plausibile l’ipotesi del rapimento a scopo sessuale ma, anche in questo caso, non ci fu alcun riscontro. Fu ben presto abbandonata anche la pista legata al traffico di organi e al mercato nero dei bambini. Non era raro, in quegli anni, che gruppi criminali rapissero minori per poi "rivenderli" all’estero. Nel caso di Santina, ci furono segnalazioni - poi smentite - dalla Grecia e dalla Turchia.

La svolta con la confessione di “U scimunitu”

Una svolta nel caso si profilò quando Vincenzo Campanella, noto nel quartiere come u scimunitu (lo scimunito, ndr) per via di un profondo disagio psichico, si assunse la responsabilità della scomparsa di Santina. "È morta cadendo dal motorino, ha battuto la testa. Il corpo l’ho deposto prima in una valigia e poi gettato nella discarica di Bellocampo”, raccontò agli investigatori. Furono immediatamente attivate le ricerche nelle zona di Bellocampo, una collina a ridosso del Cep dove venivano smaltiti i rifiuti. Si scavò a fondo, rovistando invano tra cumuli e cumuli di spazzatura. Cinque giorni dopo la presunta confessione, il ragazzo - aveva 16 anni all’epoca - ritrattò ogni singola parola. In assenza del cadavere, gli inquirenti ritennero che la versione fornita da Campanella non fosse credibile. Anzi ipotizzarono che il racconto fosse stato inventato di sana pianta, un'elaborazione.

"La 'Vatican girl'? Mia sorella Emanuela. Quelle attenzioni da un prelato..."

L’orrore sul corpo del piccolo Maurizio

Il 5 marzo 1992 si verificò un’altra misteriosa scomparsa. Stavolta, però, l’epilogo fu a dir poco drammatico. Il piccolo Maurizio Renda, 6 anni, cugino di Santina, uscì di casa per andare a giocare in strada con alcuni bambini del quartiere: svanì nel nulla. Un suo amichetto raccontò di averlo visto, l’ultima volta, in compagnia di Vincenzo Campanella. "Sta con Enzo, sono andati a riempire acqua con la moto-ape alla Montagnola, per spegnere il rame", raccontò. Campanella venne fermato e ancora una volta si autoaccusò: "Sono stato io", ammise. Stavolta non mentiva. Aveva convinto il bimbo a salire sul suo furgone per poi tentare di approfittarne. Il piccolo Maurizio si era ribellato ma mentre provava a dileguarsi, Campanella lo colpì con una spranga di ferro alla testa per poi strangolarlo con un filo di ferro. Le armi del delitto, ancora insanguinate, furono ritrovate accanto al cadavere.

Una perizia psichiatrica attestò che il ragazzo, ormai 18enne, fosse perfettamente in grado di intendere e volere. Pertanto fu condannato a 28 anni di reclusione. Campanella fu giudicato colpevole anche dell’aggressione sessuale al bimbo del Cep nel 1988 incassando, per il reato di violenza carnale, altri 10 anni di pena. Quanto alla vicenda di Santina Renda, invece, fu prosciolto.

Una segnalazione 32 anni dopo

A 32 anni dalla scomparsa, il caso di Santina Renda resta ancora un mistero. Lo scorso 18 ottobre, l’avvocato Luigi Ferrandino, legale della famiglia Celentano, ha rivelato ai microfoni di Mattino Cinque, il daytime condotto da Federica Panicucci su Canale 5, di aver comparato il Dna della famiglia Renda con quello di una ragazza che sostiene di essere stata rapita, quando era ancora una bambina, da due sconosciuti a bordo di un’auto “di grossa cilindrata”. “La donna riferiva alcuni dettagli, precisi e circostanziati, del presunto rapimento - ha spiegato l’avvocato Ferrandino alla nostra redazione - Abbiamo pensato potesse trattarsi di Santina Renda ma il test genetico ha dato esito negativo. Purtroppo non è lei”.

La tragedia italiana dei bambini scomparsi. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 15 ottobre 2022.

Caro Aldo, ho letto l’articolo sui bambini scomparsi, è un dramma che mi tocca molto. Non ho avuto figli, ma alunni e nipotine, e riesco a capire il dolore immenso delle famiglie. Tiziana Arvati Ero in spiaggia, un papà giocava con il suo bambino a palla, la palla è finita in acqua: il tempo di 2 secondi che raccoglie la palla dall’acqua, eravamo tutti lì e nessuno si è accorto di nulla: il bimbo è sparito, lo hanno ritrovato dopo 40 minuti. Sara Grassi È una vera emergenza, sono numeri enormi. Non si pensa mai che possa succedere anche a noi, ma i dati sono in crescita... Claudio Cerquetti

Cari lettori, L’inchiesta sui bambini scomparsi ha turbato molti di voi. L’autore, Andrea Pasqualetto, vi ha lavorato per due settimane, sentendo tutte le parti in causa: famiglie, amici, associazioni, istituzioni. È partito proprio da questo dato inquietante, che ci interroga tutti: com’è possibile che ogni giorno in Italia spariscano 35 bambini? Ovviamente molti vengono ritrovati. Tanti sono stranieri, tanti sono passati da centri di accoglienza; questo ovviamente non ci tranquillizza per nulla, ma aiuta a capire la composizione di quel dato drammatico. Alcuni bambini sono davvero vittime di persone del tutto intese al male. Un’altra fattispecie piuttosto frequente è questa. Un padre sposa una donna straniera, per lo più dell’Est europeo. Lei dà alla luce un figlio, poi sparisce con lui. Lo fa vedere in videochiamata al padre solo se paga, minacciando in caso contrario di cambiare numero. Poi, come nella storia di Francesco Lorusso e di sua figlia Laura raccontata da Pasqualetto, la madre scompare. Non è un caso isolato. Il reato si chiama sottrazione di minore. Dei 1.314 bambini portati all’estero negli ultimi dieci anni contro la loro volontà, solo 472 sono tornati. Nove volte su dieci è stata la madre a scomparire. Ripeto: non traiamo conclusioni affrettate, non colpevolizziamo etnie o nazionalità. Ma non facciamo neppure finta di nulla. Sarebbe opportuno che nel nuovo governo ci fosse un sottosegretariato che si occupasse sia degli anziani — siamo il secondo Paese più vecchio al mondo dopo il Giappone — sia dei bambini: ne facciamo troppo pochi, non abbiamo abbastanza nidi e scuole materne per loro, li carichiamo di debiti fin dalla nascita, non diamo loro abbastanza opportunità, e talora lasciamo che spariscano.

Fughe, rapimenti, tratte: in Italia 35 denunce di bambini scomparsi ogni giorno. Sulle tracce di Laura, Adelio, Chantal. Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale.

Fughe, rapimenti, tratte: in Italia 35 denunce di minori scomparsi ogni giorno. Ecco le loro storie. Francesco: «Mia moglie ha portato mia figlia nell’inferno del Donbass, non so più nulla». Il fenomeno delle sottrazioni e dei genitori disperati 

Francesco le aveva accompagnate a settanta chilometri da Donetsk perché in città soffiavano già i venti della guerra. Era il 29 marzo 2021, una data che non avrebbe più dimenticato. Dopo aver viaggiato tutta la notte, lui, sua moglie Iryna e la loro bambina, Laura, un frugoletto biondo di tre anni, aspettavano una parente di lei all’interno del centro commerciale. «Puoi andare a prendere qualcosa per la piccola che ha fame?», gli aveva chiesto Iryna. «Sono andato ma al ritorno, dopo un quarto d’ora, non c’erano più». Francesco Lorusso, 31 anni, barese di Gravina, le ha così cercate al telefono, una, dieci, cento volte. Silenzio. Solo in tarda serata, Iryna Pikalova, la ventinovenne ucraina originaria del Donbass che aveva sposato nel 2010 in Puglia, gli ha risposto: «Mi ha detto una cosa che mi ha lasciato di sasso: “Sto andando a Donetsk in taxi, tu puoi tornare in Italia, ci penso io alla bambina, scusami se te lo dico in questo modo ma non ti amo più”... proprio così». Non era un arrivederci. «Sono rimasto in quella cittadina, Kostjantynivka, circa un mesetto, senza la possibilità di entrare a Donetsk perché non avevo il passaporto che chiedevano i russi... e poi sono tornato a Gravina da solo, un’angoscia». Come angoscianti sono stati i mesi successivi. «Lei mi concedeva solo delle videochiamate e chiedeva 500 euro al mese minacciando di cambiare numero di telefono se non avessi pagato». Dopo un anno è scoppiata pure la guerra. «E da quattro mesi Iryna, che dal primo lockdown soffre anche di disturbi psichici, non risponde più. Ci sono stati i bombardamenti... mi sta distruggendo la vita...», sospira questo padre inconsolabile con la voce strozzata dalla commozione. Va detto che nel frattempo il Tribunale di Bari ha sospeso la potestà genitoriale alla madre ed è stata attivata la convenzione dell’Aia sulla sottrazione internazionale di minori. Conclusione: la piccola Laura Lorusso risulta scomparsa.

Gli allontanamenti volontari

Siamo partiti da questo caso per raccontare un fenomeno dai numeri che appaiono impressionanti. Secondo gli ultimi dati della Direzione centrale della Polizia criminale nel primo semestre di quest’anno i minori per i quali è stata sporta denuncia di scomparsa in Italia sono 6.312, che equivale a una media di circa 35 al giorno. Nello stesso periodo ne sono stati ritrovati 2.751 e dunque il mistero riguarderebbe gli altri 3.169. Numeri in linea con quelli registrati nel corso dell’intero anno 2021: oltre 12 mila denunce, 5 mila ritrovati e oltre 7 mila mai più visti. La statistica va però maneggiata con cura perché sconta un problema di fondo: spesso chi denuncia la scomparsa di un minore non la ritira nel momento in cui lo stesso viene ritrovato. E quindi il tutto va ridimensionato. Bisogna anche considerare che negli ultimi anni la stragrande maggioranza di queste «scomparse» è costituita da allontanamenti volontari di adolescenti in fuga da centri di accoglienza, istituti, comunità o famiglie: 5.972 denunce nel primo semestre di quest’anno, delle quali 4.198 riguardano stranieri dalla dubbia identità. «Il fenomeno ha le sue radici nel disagio sociale e nel desiderio di raggiungere altre mete, sul quale grava però un serio rischio: che questi ragazzi entrino in circuiti illegali», ricorda Antonino Bella, commissario straordinario del governo per le persone scomparse ed ex magistrato. Criminalità, sfruttamento, violenze fisiche e psicologiche. Molti finiscono nelle reti dello spaccio, della prostituzione, dell’accattonaggio. A ogni numero corrisponde comunque un volto, spesso già segnato dalla vita e ignoto, o meglio, senza un nome certo.

È l’invisibile esercito dei minori, accanto al quale crescono i drammi di adolescenti e bambini vittime di altri reati: sottrazioni, rapimenti, omicidi, tratte. Le pagine di cronaca nera ci ricordano di tanto in tanto i casi irrisolti più clamorosi del passato: Emanuela Orlandi, la figlia quindicenne di un dipendente del Vaticano che scomparve misteriosamente nel 1983; Angela Celentano, 3 anni, sparita nel 1986 nel bosco del Monte Faito (Napoli) quand’era in compagnia dei genitori; Denise Pipitone, 4 anni, anno 2004, stessa sorte a Mazara del Vallo (Trapani) mentre giocava davanti all’abitazione della nonna.

Altri sono meno noti, ma hanno comunque lasciato vuoti senza fine su madri, padri, fratelli, amici. «Molti non li cerca più nessuno, invisibili fra gli invisibili, le loro storie le conosciamo solo noi addetti ai lavori», allarma Annalisa Loconsole, vicepresidente di Penelope Italia, l’associazione presieduta dall’avvocato Nicodemo Gentile alla quale lei ha aderito dopo aver vissuto la dura esperienza di aver perso il padre, svanito nel nulla una sera di molti anni fa. Una lunga silenziosa sofferenza, la sua come quella di molti altri.

Alessandro saluta e non torna più

Per esempio, una fredda domenica del gennaio 2009 Alessandro Ciavarella, studente sedicenne di Monte Sant’Angelo, Gargano, saluta sbrigativamente madre e sorella: «Esco con gli amici». Chiude la porta di casa e da quel momento, erano le dieci del mattino, di lui non si sa più nulla. Nessuno gli ha parlato, nessuno l’ha visto né sentito. Dov’è finito Alessandro, che in quel periodo stava pensando di lasciare la scuola? «Siamo cinque fratelli e lui era il più metodico, molto legato al territorio, al suo paese, al bar, agli amici, era difficile pensare a un allontanamento ma è chiaro che lo speri», racconta oggi la sorella Annamaria, l’ultima ad averlo salutato e la prima ad organizzare i gruppi di ricerca, battendo il paese e le campagne palmo a palmo. Il tempo che passa consuma però le speranze: «Il dolore cambia ma è sempre lì, nel cuore, pesante, irrisolto». Sale un convincimento: «Penso sia stato ucciso, forse ha visto qualcosa che non doveva vedere». E si aggrappa alle ultime notizie sulla criminalità pugliese: «Ci sono state delle retate, speriamo che qualcuno parli, che almeno ci dica che è morto». Il desiderio di un punto fermo, sia pure quello della morte, ha accompagnato l’intera vita anche dei genitori di Vincenzo Monteleone, scomparso nel nulla a 10 anni mentre era alle giostre della festa patronale di Adelfia: «È successo tanti anni fa, la mamma ha perso il senno e non si è più ripresa, mentre le ultime parole del padre, sul letto di morte di una casa di riposo, sono state per lui: salgo in Cielo e finalmente saprò dov’è Vincenzino», ricorda Loconsole. Lutti sospesi, eterni, mai elaborati perché non c’è un corpo su cui piangere.

Il buco nero di Rossella

Fra i casi più laceranti quello vissuto dai parenti di Rossella Corazzin, adolescente di San Vito al Tagliamento sparita una mattina d’estate di oltre 40 anni fa mentre era in montagna con i genitori. Un mistero che di recente ha ripreso ad agitare la famiglia. Lo scossone è arrivato da chi meno te lo aspetti perché il personaggio in questione nulla c’entra con il mondo di quella ragazza perbene: Angelo Izzo, il cosiddetto mostro del Circeo, una delle personalità più inquietanti della cronaca nera italiana, condannato per aver drogato, violentato, seviziato e massacrato al Circeo con un amico due ragazze un mese dopo la scomparsa di Rossella.

Nel 2016 Izzo raccontò al procuratore della Repubblica di Belluno che il responsabile della fine di Rossella è il suo complice di allora. Cioè, il ragazzo di cui Rossella aveva parlato in quei giorni a un’amica altri non sarebbe che lui. Aveva lo stesso nome e in quel periodo si trovava in vacanza nella vicina Cortina. Secondo Izzo il suo amico aveva conosciuto e avvicinato la ragazza convincendola a seguirlo per poi, insieme con altri, narcotizzarla e ucciderla. Di più: secondo Izzo, oltre al mondo criminale e di estrema destra del complice, Rossella incrociò pure quello di un medico perugino morto misteriosamente nel 1985 e, giusto perché non manchi nulla alla tragedia, legato ai misteri del Mostro di Firenze. Insomma, una vita semplice finita forse in un grande vortice nero dove c’era dentro di tutto, mostro, estremismo, sette massoniche. Detto che la ricostruzione di Izzo è stata considerata dalla magistratura inattendibile e archiviata, per i familiari non è così. Per loro tutto torna. «Una botta enorme, che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni, penso all’anima bella di Rossella e quanto avrà sofferto — sospira oggi la cugina Mara Corazzin —. Per me non si è voluto indagare, perché la verità su di lei e non solo su di lei coinvolge i poteri forti. E, come dice Izzo, la giustizia non è per i poveri e quindi difficilmente verrà a galla... ora indaga l’Antimafia, spero in loro. Giusto per far capire cos’è stata la vicenda per la nostra famiglia, ricordo che la mamma di Rossella ha vissuto per lei fino alla morte e il padre, che lavorava con il mio, dopo la sparizione si era chiuso in un silenzio assoluto: sedeva in cucina a capotavola e stava due ore senza aprir bocca. Erano silenzi terribili.

Bambini sottratti e genitori abbandonati

Fenomeno nel fenomeno, da una decina danni s’impone la sottrazione internazionale di minori, che vedono protagonisti i bambini contesi e portati all’estero da un genitore in fuga dall’altro. È il caso della piccola Laura che abbiamo raccontato in apertura di questa inchiesta. Secondo l’Autorità centrale italiana, creata al ministero della Giustizia nel 1994, anno in cui l’Italia ha reso effettiva la convenzione dell’Aia del 1980 che tutela questi minori, dal 2000 al 2021 le vicende trattate sono state 2.300, in crescita più o meno costante dal 2007, e circa nove volte su dieci hanno riguardato una madre che se n’è andata all’estero con uno o più figli. «Crescono per il semplice motivo che ci sono sempre più matrimoni misti con bambini oggetto di dispute e genitori che si scontrano con legislazioni diverse, per cui alla fine le vicende spesso non arrivano a una soluzione», racconta Cosimo Ferri, ex sottosegretario alla Giustizia con trascorsi in magistratura e un certo slancio per alcune vicende di bambini scomparsi.

Su tutte, Chantal Tonello, uno scricciolo che non stava ancora in piedi quando dieci anni fa mamma Klaudia l’ha portata al suo paese, in Ungheria, per una breve vacanza. «Non sono più tornate e io non smetto un solo giorno di pensare a Chantal», ricorda Tonello che in questi dieci anni le ha provate tutte per cercare di riportare a casa la sua piccola: ha girato per la cittadina magiara travestito da clochard, è andato con un camion pubblicitario che esponeva la gigantografia della bambina, ha offerto una taglia a chi gli dava qualche soffiata utile. «Ogni quindici giorni andavo lì a cercarla, prima da solo, poi con un avvocato, poi con mio padre e anche con un investigatore privato... Nulla». Sulla madre pende una condanna a 4 anni del Tribunale di Padova per sottrazione di minore e pure un ordine di rimpatrio del giudice di Budapest.

«Sono testimone diretto, avevo promesso al padre che l’avrei riportata a casa — ha precisato Ferri —. All’epoca ero sottosegretario alla Giustizia e decisi di andare di in Ungheria, dove ho incontrato due ministri e il potentissimo capo della Polizia. Ho trovato un muro: non hanno saputo dirmi neppure se la piccola va a scuola, se ha un medico. Eppure la madre c’era perché si costituiva sempre in giudizio... e stiamo parlando di un Paese comunitario».

Che fare, dunque? «Sono necessari due interventi — propone Chiara Balbinot, avvocato di Tonello che fa parte dell’associazione Angeli rubati —. Bisogna che l’autorità centrale intervenga tempestivamente quando c’è una notizia di sottrazione, il tempo è decisivo in questi casi. É giunto poi il momento di mettere mano alla legge che in questo momento esclude la custodia cautelare».

«Addio caro Giovanni». E scappa con il bambini

I dati del ministero della Giustizia sono da allarme sociale: dei 1.314 bambini portati all’estero dal 2010, solo 472 hanno fatto effettivamente ritorno, meno di uno su due.

Ne sa qualcosa Giovanni Bocci, padre di Adelio, che una mattina d’autunno del 2015 ha trovato questo biglietto sul tavolo della cucina: «Mi dispiace davvero per il dolore che ho causato a te e alla tua famiglia. Sei un buon marito e un buon padre. Hai fatto il meglio...». La moglie, Aigul Abraliyeva, trentasettenne kazaka, era tornata in patria con Adelio, il loro bambino di due anni. Lei è stata condannata per sottrazione di minore ma la sentenza italiana non ha alcun valore in quell’angolo della Terra. «Ho speso 140 mila euro solo di avvocati per cercare una via d’uscita a questo incubo. È stato tutto inutile. E Adelio ormai parla solo russo e kazako...».

Un contributo alla soluzione dei casi lo dà senz’altro il programma «Chi l’ha visto?», importante punto di riferimento di questo mondo. Molto attivo arche Telefono azzurro che in Italia gestisce il numero unico europeo per i bambini scomparsi, 116000, attivo dal 2009. Servizio che fa capo al ministero dell’Interno ed è connesso con il network Missing Children Europe, struttura del parlamento europeo. «Si tratta di una delle più grandi piaghe della nostra società, soprattutto oggi con i bambini che sono scappati dalla guerra in Ucraina», ricorda Ernesto Caffo, presidente di Telefono azzurro.

Adelio, Chantal, la piccola Laura. Storie di bambini scomparsi e di genitori affranti.

Vicenza, esce di casa per andare a scuola e scompare a 13 anni. La famiglia: "Gloria torna". Enrico Ferro su La Repubblica il 23 Settembre 2022. 

I genitori si sono rivolti alla trasmissione Chi l'ha visto, la ragazza è sparita dal 14 settembre. Il papà: "Già in estate era scappata, ma l'avevo rintracciata grazie al cellulare. Ora lo ha tenuto spento"Link

Saluta il padre che l’aveva accompagnata in stazione per andare a scuola e poi scompare nel nulla senza dare spiegazioni. Ha solo 13 anni Gloria, che vive a Pojana maggiore, in provincia di Vicenza. 

“Gloria, ti preghiamo, torna a casa, noi ti vogliamo bene e siamo molto preoccupati per te”, dicono ora i genitori disperati, anche davanti alle telecamere di Chi l’ha visto.

A chiedere aiuto sono il padre Michele e le sorelle dell'adolescente, di cui non si hanno più notizie da mercoledì 14 settembre.

La ragazzina aveva salutato alle 7 del mattino il padre che l'aveva accompagnata alla stazione delle corriere di Noventa per raggiungere l'istituto professionale Sartori-Rosselli di Lonigo, come ricostruisce il Giornale di Vicenza. La tredicenne frequentava da appena due giorni le lezioni dell'indirizzo moda, ma a scuola non è mai arrivata.

Il papà si è reso conto di quello che era successo grazie al registro elettronico: la figlia non ha mai fatto ingresso in aula. Così ha subito lanciato l'allarme alle forze dell'ordine.

Alta un metro e 60, di corporatura normale, con capelli lunghi neri con sfumature rosse, occhi verdi e carnagione chiara, la ragazza ha come segno particolare un piercing sulla narice destra. Gloria, al momento della scomparsa, indossava una tuta azzurra con scarpe da ginnastica bianche, ed è uscita di casa con uno zaino rosso e uno smartphone con cover glitterata color argento.

“Non è la prima volta che si allontana da casa” raccontano i familiari. “Di recente, in luglio e in agosto, era scappata, e in entrambi i casi l'avevamo rintracciata prima a Bologna e poi sulla costa romagnola tramite il cellulare, mentre questa volta lo ha tenuto spento”.

Estratto dell’articolo di Ernesto Manfrè per “la Repubblica” il 5 agosto 2022.

Nei primi sei mesi del 2022 in Italia sono spariti 35 minori al giorno, quasi uno e mezzo ogni ora: sono cifre che gettano luce su una drammatica realtà.  […] In sei mesi sono scomparse 9.599 persone, 53 al giorno, oltre due ogni ora. Si tratta soprattutto di uomini, oltre il 74%. I ritrovamenti sono stati poco più della metà, il 52%, degli altri non si sa ancora nulla.

Rispetto al secondo semestre del 2021 le denunce di scomparsa sono calate di oltre il 13%, ma il confronto con il primo semestre dello scorso anno registra invece un aumento del 17%. L'emergenza sociale delle persone scomparse è difficile da comprendere e arginare. Gli allontanamenti, per lo più, sono volontari, l'82%, gli altri avvengono per deficit cognitivi, perché si è vittima di un reato o perché si è sottratti da un familiare.

Il dato più inquietante riguarda la scomparsa dei minori. Da gennaio a giugno ne sono spariti 6.312, due terzi del totale. Il 70% riguarda minori stranieri che migrano attraversando la Penisola e per il 30% si tratta di italiani. I ritrovamenti invece capovolgono le percentuali, il 70% dei minori italiani viene recuperato, a fronte del 30% dei minori stranieri scomparsi e rintracciati.

[…] Elisa Pozza Tasca, ex parlamentare bassanese […]: «La maggior parte dei minorenni che scompare fugge dalle guerre, ora in particolare quella ucraina […] e scompaiono per il lavoro nero, la pedofilia, la pedopornografia, la prostituzione, fino al traffico d'organi, come nel caso della bimba rapita a Durazzo in un brefotrofio». I casi di sottrazione internazionale riguardano 300-400 bambini portati via, ogni anno, dall'Italia. Nell'Unione europea sono circa 1.800. […]

Da blitzquotidiano.it il 30 luglio 2022.

Dal primo gennaio al primo novembre del 2021 sono state 17.650 le denunce di persone scomparse. Di queste 8.767 sono state ritrovate. 8.883 invece no. Quindi in media scompaiono 52 persone al giorno. Più o meno la metà viene ritrovata. L’altra metà no. 

Nella maggior parte dei casi, spiega la XXVI relazione del Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, la motivazione è sempre la stessa: allontanamento volontario. Parliamo di poco più dell’81% dei casi.

I minori

Il 67% delle denunce totali riguarda minori.  Secondo i dati presenti nel Ced del ministero dell’Interno, dal primo gennaio al primo novembre del 2021 i minori scomparsi sono stati in totale 12.117 di cui il 3.324 italiani e 8.793 stranieri. La percentuale dei ritrovamenti è stata del 79,27% per gli italiani e solo del 26,35% per gli stranieri. 

I minori italiani scomparsi, sono spesso vittime di disagi familiari e relazionali come droga, debiti, cyberbullismo, adescamenti in web, casi di revenge porn. Altri casi, invece, riguardano minori vittime di contese familiari o genitoriali.

Tanti, purtroppo, i casi di minori scomparsi che hanno segnato la cronaca italiana come i casi di Denise Pipitone o Angela Celentano.

Scomparsi. ERNESTO MANFRÈ su La Repubblica il 21 Luglio 2022.

Scomparire è peggio che morire. Perdere chi amiamo, senza sapere perché, senza un luogo su cui ricordare, senza una risposta che conforti il dolore: peggio della morte c’è non sapere, se abbiamo a che fare con la morte. E quando chi amiamo scompare la paura lacera, incessantemente. Nel primo quadrimestre del 2022, in Italia, è scomparso oltre 1 minore ogni ora, 30 minori al giorno.

Paola Scola per “La Stampa” il 17 luglio 2022.

Si può scegliere di lasciarsi il mondo alle spalle. Di preferire le insidie di montagne dove i boschi sono così fitti da non vederci il sole, piuttosto che rimanere in mezzo alla cattiveria degli uomini. 

Loro quella decisione l'avevano presa, e non si erano più voltati indietro: vivere in un ambiente selvaggio, fuggire alla vista delle persone, cibarsi di radici e bottini di piccole razzie. E dormire sotto le stelle, anche quando il freddo faceva battere i denti e tagliava il viso. Così li hanno chiamati prima briganti, poi «fratelli cinghiale».

Ma non è una storia dell'Ottocento, ambientata in un "chissà dove". È, invece, la vita reale di Renzo e Franco Pelazza, che sui monti al confine tra Basso Piemonte (dove in provincia di Cuneo nasce il Tanaro) ed entroterra di Imperia sono diventati una leggenda. Come figure da evocare ai bambini per spaventarli. Quasi l'uomo nero. 

Ci sono favole che finiscono bene. E così è stato anche per i due fratelli che, grazie alla pazienza e tenacia degli abitanti di un mini paese ligure, Armo (119 residenti), dopo tanto tempo e solitudine sono tornati alla civiltà. 

Riconquistati da una microcomunità che si è fatta casa. Finché, l'altro giorno, la loro storia finora indivisibile si è spezzata. Perché l'aggressività di una malattia si è portata via, in dieci giorni, il maggiore dei fratelli, Renzo, 72 anni.

E Franco, minore di lui di tre, per la prima volta è rimasto senza chi gli aveva fatto da padre e da madre. Ma anche ora è la gente di Armo a farsi avanti. Con il sindaco Massimo Cacciò che dice: «Ormai erano due di noi. Franco non rimarrà solo. Ci penseremo tutti, a partire dal funerale di venerdì. In una piccola comunità come la nostra si fa così». 

«Qui ci sono i miei amici», sussurra Franco Pelazza. Il sindaco, che lavora come vigile a Imperia, anche ieri pomeriggio è salito in paese a trovarlo: «Soffre molto per la perdita di Renzo, da cui non si era mai separato. Da quando erano scesi dalle montagne, pian piano avevano ripreso a fidarsi delle persone. Tutti gli affidavano lavoretti e loro sono sempre stati disponibili. Partecipi nella comunità, dalle funzioni in chiesa alle varie attività».

Renzo e Franco Pelazza diventano famosi nel novembre 1993, quando un aereo sorvola i boschi tra Piemonte e Liguria. La trasmissione Chi l'ha visto?, con uno striscione e migliaia di volantini, lancia un appello: «Vostra madre desidera vedervi». L'anziana Ida, in casa di riposo a Pieve di Teco, non incontra i figli da tempo immemore. 

Vuole salutarli, prima di morire. Ma loro fanno già parte della «leggenda», in quelle terre di confine. «Briganti buoni», che vivono alla macchia, con barbe incolte, stracci addosso e l'abitudine di «rubacchiare», per mangiare altro dalle radici. Ed è così che per la gente diventano i «fratelli cinghiale».

Renzo, un passato in Ferrovia, e Franco, abituato alla campagna e alle botte, non tornano a Ormea, dove sono nati, nella minuscola borgata Caccìn. Si rifugiano invece - l'uno timido, l'altro protettivo e coraggioso - nel fitto della foresta. I segni del loro passaggio sono resti di fuochi e qualche «ciabot» forzato. Il mondo li cancella. Anche dall'anagrafe del paese. Ma all'appello «Vostra madre non sta bene. Nessuno vi farà del male», il loro cuore indurito dalla solitudine risponde.

Si fanno vivi al ricovero, dove mamma Ida li riabbraccia. E quando lei muore (nel 2004), per i due il tempo di dormire sotto le stelle finisce sulla collina ligure, ad Armo, a pochi chilometri dalla struttura in cui l'hanno salutata l'ultima volta. Sono diffidenti, sì. Barba lunga, stracci che arrivano alle caviglie e cappellacci li rendono quantomeno inquietanti. 

Ma la piccola comunità, ospitale con tutti, si fa in quattro per aiutarli. E riaccende nei due fratelli la fiducia nel prossimo. C'è un container, abbandonato dal cantiere per il pre-foro del tunnel Armo-Cantarana. Lì i boschi si possono sfiorare con una mano, la montagna è a un soffio. Il Comune lo lascia ai Pelazza. 

Come prima casa, dopo più di dodici anni all'addiaccio e sui giacigli. Dopo inviti in tv e tanta cronaca sui giornali, alla fine Renzo e Franco smettono di essere "fenomeni". E ad Armo il calore e il rispetto della gente semplice cancellano la leggenda dei «fratelli cinghiali».

Che non hanno più paura. Il sindaco Cacciò racconta: «Da allora hanno vissuto la comunità e sono diventati a tutti gli effetti nostri compaesani, dando una mano a tutti, aiutando nei campi anche in cambio di un pasto o un indumento, o come volontari nella pulizia per il Comune». 

In quel micro mondo dove tutti si aiutano, senza sprecare troppe parole. Il richiamo della natura gli ha fatto ancora percorrere chilometri. Ma ad Armo sono sempre tornati. Perché il piccolo paese li ha convinti che non tutti gli uomini sono cattivi. Ed è lì che, dopo migliaia di passi, riposerà da oggi anche Renzo.

Tifoso si perde a San Siro e vive da vagabondo a Milano per 11 anni: la storia di Rolf Bantle. Ilaria Minucci il 05/07/2022 su Notizie.it.

Tifoso svizzero si perde a San Siro e vive per oltre un decennio ne quartiere Baggio a Milano: qual è la storia di Rolf Bantle? 

Il tifoso svizzero Rolf Bantle si è perso a San Siro dopo aver assistito alla partita Inter-Basilea del 24 agosto 2004 e ha vissuto a Milano da vagabondo per oltre 10 anni.

Tifoso si perde a San Siro e vive da vagabondo a Milano per 11 anni

Rolf Bantle è il protagonista di una storia tanto assurda quanto inverosimile. Per 11 anni, infatti, l’uomo ha vissuto come un vagabondo dopo essersi perso allo stadio Meazza in una afosa serata di agosto.

Il 24 agosto 2004, l’Inter stava giocando il ritorno del preliminare di Champions League contro il Basilea a San Siro, a Milano, chiudendo la partita con un punteggio di 4-1. Tra i tifosi della squadra svizzera, c’era anche il 60enne Bantle che era arrivato in trasferta nel capoluogo lombardo insieme ad alcuni residenti di una casa-famiglia.

Prima del fischio d’inizio del match, l’uomo si è rivolto ai suoi compagni e ha detto: “Vado un attimo in bagno, ci vediamo tra poco”. Andando alla ricerca della toilette, tuttavia, Rolf Bantle si è perso nell’impianto e non è più riuscito a ricongiungersi con il suo gruppo. Undici anni dopo, infatti, ha raccontato: “Improvvisamente mi sono trovato in un settore completamente diverso”.

Nel nuovo settore, assiste alla partita e, dopo aver preso atto della sconfitta del Basilea, è uscito dallo stadio cercando la macchina con la quale era arrivato presso la struttura, senza però riuscire a trovarla.

Non avendo il cellulare e non ricordando il numero di casa, con soli 20 franchi svizzeri e 15 euro, Bantle ha trasformato il quartiere Baggio, nei pressi di San Siro, nella sua nuova casa.

“Ben presto non ho più avuto motivi per tornare a casa”, ha raccontato. “Ho lavorato molto nell’edilizia e nella ristorazione. Sono sempre stato circondato da italiani. La lingua non era un problema”.

La storia di Rolf Bantle

Dopo essersi perso a Milano, Rolf Bantle si è reso conto di non aver nessun motivo per fare ritorno in Svizzera. E, ricordando dell’infanzia trascorsa soltanto con la madre e dei frequenti problemi con l’alcol che spesso lo portavano a finire in comunità, ha spiegato: “Nei centri mi sentivo rinchiuso, quell’improvvisa libertà mi è piaciuta”.

L’uomo ha vissuto a Milano come un barbone, con persone che gli regalavano sigarette, caffè o bottiglie di vino per oltre un decennio. Intanto, in Svizzera, la sua scomparsa era stata denunciata due settimane dopo la partita Inter-Basileafino a quando la denuncia non è stata ritirata nel 2011, nella convinzione che Bantle fosse morto.

Nel 2015, tuttavia, il 71enne Rolf Bantle è inciampato su un marciapiede rompendosi il femore. Arrivato in ospedale, dopo la scoperta della mancata copertura sanitaria, il paziente venne affidato al Consolato della Svizzera. Dopo 11 anni da senzatetto nel capoluogo lombardo, Bantle ha fatto ritorno a Basilea, venendo ricoverato in un ospedale universitario. In un secondo momento, è stato portato in una casa per anziani dove ha potuto raccontare la sua storia che pare essersi conclusa con un lieto fine: “Qui si mangia bene, ho un compagno di stanza simpatico e una bella routine quotidiana”.

Paolo Fiorenza per fanpage.it il 5 luglio 2022.

"Vado un attimo in bagno, ci vediamo tra poco": va bene che il tempo è un concetto relativo, ma 11 anni non sono esattamente "poco". La storia di Rolf Bantle è tanto assurda quanto incredibilmente vera ed assomiglia ai peggiori incubi che si fanno da bambini, con la differenza che qua parliamo di un uomo di 60 anni che è letteralmente sparito per una parte consistente della propria vita, dopo essersi perso nello stadio Meazza in una calda sera di agosto.

San Siro, Milano, 24 agosto 2004: l'Inter gioca il ritorno del preliminare di Champions League contro il Basilea, all'andata il risultato è stato di 1-1. Tra i tifosi al seguito della squadra svizzera c'è anche l'allora sessantenne Bantle, giunto in trasferta a Milano assieme ad alcuni residenti di una casa-famiglia. Prima del fischio d'inizio ecco l'impellente bisogno fisiologico che porta Rolf a recarsi nei bagni del Meazza: quel "torno subito" sarà l'ultima frase udita dalle persone che sono con lui. Il tifoso infatti si perde nell'impianto milanese e non riesce a tornare dov'è il suo gruppo: "Improvvisamente mi sono trovato in un settore completamente diverso", racconterà una vita dopo.

Ed allora assiste alla partita dal suo nuovo posto – nella folla indistinta di San Siro – e vede il Basilea crollare sotto i colpi di Adriano (doppietta), Stankovic e Recoba: finisce 4-1 e l'Inter di Mancini si qualifica ai gironi di Champions, dove poi si fermerà ai quarti di finale contro il Milan (la partita del petardo a Dida e dello 0-3 a tavolino). Finito il match, Rolf cerca la macchina dei suoi amici fuori dallo stadio, ma non la trova. In tasca ha solo 20 franchi svizzeri e 15 euro. 

Il cellulare non ce l'ha e non ricorda a memoria il numero di casa, né qualsiasi altro numero che lo possa mettere in contatto con una voce amica che gli dia una mano. Passa una notte per strada, poi il limbo in cui è precipitato si estende come una voragine spazio-temporale che finisce per inghiottirlo: i giorni diventano settimane e le settimane si trasformano in mesi.

 Casa sua diventa il quartiere Baggio, non lontano da San Siro: "Ben presto non ho più avuto motivi per tornare a casa". Nella zona tutti cominciano a conoscerlo e la lingua non è un problema: "Ho lavorato molto nell'edilizia e nella ristorazione. Sono sempre stato circondato da italiani".

Rolf Bantle non ha nessun richiamo forte che lo riporti in Svizzera, in una storia di disagio e solitudine che è figlia anche del suo passato difficile. Un'infanzia movimentata, cresciuto solo con la madre e senza padre, nessuna istruzione e problemi frequenti di alcol che lo hanno portato spesso in comunità: "Nei centri mi sentivo rinchiuso, quell'improvvisa libertà mi è piaciuta". E le strade di Milano, le panchine, ma anche la gente che lo ‘adotta', appaiono ai suoi occhi e al suo cuore meglio del poco o nulla che ha in patria, fino a diventare quella casa che sente di non avere più oltre confine.

Frequentando biblioteche e università trova l'aiuto degli studenti, fa qualche lavoretto, le persone gli regalano le sigarette, un caffé o una bottiglia di vino: "In realtà preferisco la birra, ma in Italia costa di più", racconterà. Gli procurano anche un sacco a pelo, che cambia la qualità delle sue notti all'addiaccio, si lava nei bagni pubblici una volta alla settimana. 

Possibile che nessuno in Svizzera si sia posto il problema della sua scomparsa? In realtà l'ufficio di tutela di Basilea ne denuncia due settimane dopo la sparizione, ma – complice il fatto che nessuno in patria fa pressioni per ritrovarlo – Rolf può sparire piano piano nella nebbia milanese, fino ad arrivare al 2011, quando l'avviso di ricerca viene ritirato. Nessuno lo cerca più, di fatto si pensa che sia morto. Passa qualche altro anno ed arriviamo al 2015, quando il 71enne Bantle riemerge in modo del tutto casuale dal vuoto cosmico in cui è sospeso. Ad aprile inciampa su un marciapiede, cade e si rompe un femore.

Portato in ospedale, si scopre che non ha copertura sanitaria. A quel punto, essendo cittadino svizzero, interviene il Consolato elvetico che si prende cura di lui. Dopo 11 anni di vita da senzatetto a Milano, Rolf Bantle fa ritorno a Basilea, ricoverato nell'ospedale universitario. Poi viene trasferito in una casa per anziani, da dove il tifoso che in una vita precedente si perse a San Siro può raccontare la sua storia, con un finale che sembra lieto: "Qui si mangia bene, ho un compagno di stanza simpatico e una bella routine quotidiana". Con tanto di adorata birra che gli è concessa. 

Da allora il nome di Rolf Bantle – o Rudi, come lo chiamavano a Milano – è stato nuovamente inghiottito dall'oblio, ma la sua storia resterà quella della più incredibile trasferta mai fatta da un tifoso di calcio. Quando vi troverete a dover andare in bagno allo stadio e direte "torno subito", assicuratevi di avere con voi un telefonino carico…

Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 29 maggio 2022.

Un'improvvisa conversione religiosa, dei bonifici sospetti, due libri di Scientology e quel fiume maledetto in cui, nei mesi scorsi, si sono suicidati due ragazzi. La scomparsa da Vicenza del pasticcere Sasha Gianluigi Abbracciavento, 28enne di origini piemontesi, è un giallo sempre più intricato, al quale ogni giorno sembrano aggiungersi nuove domande. Il giovane è stato visto l'ultima volta una settimana fa, nella gelateria del centro in cui lavorava. La sua auto, invece, è stata trovata con le portiere aperte a Ponte di Brenta, nel Padovano, a pochi passi dal corso d'acqua.

 Il 21 maggio, Sasha ha lasciato il lavoro con molto anticipo, intorno alle 19.30, dicendo al suo capo che aveva già preparato tutti i gusti. Ma la sua assenza si è fatta sentire, specialmente in un sabato sera quasi estivo. Il titolare, quindi, lo ha sollecitato a tornare e, dopo aver ricevuto in risposta un messaggio con scritto «va bene, arrivo», non ne ha più avuto alcuna notizia. Il cellulare del 28enne è stato ritrovato dentro alla sua Maitz rossa, insieme ad alcuni vestiti e al cartone di una pizza: l'ultimo accesso su Whatsapp è stato a mezzanotte e un quarto. 

Da quel momento in poi, Sasha è sparito nel nulla. Gli inquirenti stanno tentando di ricostruire, pezzo dopo pezzo, la sua vita. Le ricerche - che vedono impegnati gli uomini della questura di Padova, i vigili del fuoco e la Protezione civile - si stanno concentrando in particolare a Ponte di Brenta, nell'area del fiume in cui erano stati trovati i corpi del 18enne Henry Osarodion Amadasun e di Ahmed Jouider, 15 anni. 

Da circa un mese, Sasha viveva in un bed and breakfast alle porte di Vicenza. Avrebbe dovuto lasciarlo, ma i suoi effetti personali sono stati trovati nella stanza. Sulla scrivania c'erano il portafoglio con i documenti, i quaderni in cui annotava le ricette, agende e libri di scienze, fisica e chimica.

Due volumi di Scientology, poi, sono balzati agli occhi degli inquirenti: sulla copertina c'era un'etichetta con nome e cognome del ragazzo. I testi si compongono di parti teoriche - con diversi passaggi sottolineati a matita - e di altre che coinvolgono direttamente il lettore, al quale viene chiesto di rispondere per iscritto a domande sulle proprie emozioni o sulle esperienze passate. 

Ad alcuni quesiti il giovane aveva risposto con la penna blu e accanto alla sua grafia disordinata ce n'era un'altra, a correggere in rosso i suoi elaborati, esprimendo anche un giudizio finale come Bravo o Bene. Non ci sarebbero dubbi sul fatto che i manuali appartengano a lui e che li studiasse con impegno. Gli scontrini, inoltre, indicano che sono stati acquistati di recente, una ventina di giorni prima della scomparsa.

Lo scorso gennaio, però, Abbracciavento sembrava avere imboccato una strada diversa. Con il sacramento del battesimo aveva completato il percorso per unirsi alla Chiesa di Gesù Cristo dei Santi degli Ultimi Giorni. Su una pagina Facebook dedicata al mormonismo, a febbraio il 28enne aveva pubblicato un video in cui parlava della sua conversione. «Andrò e farò le cose che il Signore ha comandato» diceva in conclusione, leggendo un versetto del testo religioso. 

Un entusiasmo che, tuttavia, nelle ultime settimane sembrerebbe essere scemato: il giovane non si era nemmeno più presentato alle messe della domenica. Nella stanza in cui alloggiava a Vicenza sono stati trovati anche diversi bigliettini su cui aveva scritto considerazioni religiose. In uno di questi, due parole: «Chiedo perdono». Un altro elemento che, approfondito, potrebbe fornire risposte, è poi un gruppo su Whatsapp chiamato Incantesimi, che Sasha aveva creato pochi giorni prima di sparire, aggiungendo alcuni contatti. 

Il titolare della pasticceria in cui Abbracciavento lavorava da alcuni mesi ha spiegato che di recente era capitato spesso che il giovane chiedesse anticipi sullo stipendio. La madre del 28enne, che vive a Padova, avrebbe invece riferito di aver scoperto degli «strani bonifici» effettuati dal figlio. Nessuna delle persone che gli erano vicine saprebbe a cosa servisse quel denaro. È possibile che anche questo elemento si colleghi all'avvicinamento prima alla chiesa dei mormoni e poi a Scientology, ma sarà la polizia a stabilirlo. Le ricerche intanto proseguono. Il prefetto di Padova domani incontrerà la famiglia del ragazzo. 

Andrea Girardi, da legionario a chef: le mille vite dell’uomo che si è lasciato morire nel bosco. Partecipò a missioni in Africa con la Legione straniera. In Germania era un apprezzato pastry chef in un ristorante. I tatuaggi se li era fatti da solo a 17 anni. Tommaso Moretto su Il Corriere della Sera il 27 Maggio 2022.

I tatuaggi sul cadavere dell’uomo e il giubbotto che indossava quando è stato trovato dai carabinieri. 

Se avesse voluto sopravvivere in mezzo alle montagne ce l’avrebbe fatta. L’ipotesi più probabile è che si sia lasciato morire. È stata una sua scelta, ha voluto attendere la morte mentre procedeva lentamente verso di lui, fino all’abbraccio fatale, fino al punto di non ritorno. Ha voluto dimostrare di non aver paura di nulla, nemmeno di un passaggio così angosciante per la maggior parte degli uomini. Descrivere Andrea Girardi, 44 anni, come una persona non comune, d’altronde, è limitativo.

La Legione straniera

A poco più di vent’anni si era arruolato nella Legione straniera in Francia. Era partito da casa senza bagaglio. È sparito per anni e soltanto molto più tardi si è saputo che aveva seguito un lunghissimo addestramento per diventare cecchino. Era diventato un professionista nell’arte della sopravvivenza, aveva imparato a cacciare e pescare a mani nude, per resistere giorni e giorni in qualsiasi ambiente senza lasciare tracce diverse da quelle che avrebbe lasciato un animale, poteva mangiare un pesce vivo lasciando la lisca, come avrebbe fatto un orso. Sapeva rendersi invisibile. All’ultimo passaggio del lungo addestramento per diventare un cecchino della Legione francese ha optato per scendere di un livello e dedicarsi al contro spionaggio diventando un esperto di sistemi di telecomunicazioni. Sapeva intercettare segnali, criptarli e decriptarli. In questo campo si era distinto ma non si riteneva eccellente, quindi è passato all’addestramento da paracadutista e incursore ed è con questa specialità che nei primi anni Duemila ha partecipato ad almeno due missioni, una a Gibuti, nel Corno d’Africa, tra Somalia, Eritrea ed Etiopia. E un’altra nella Guinea francese, dall’altra parte dell’Africa, sull’Atlantico. Missioni delle quali non si sa nulla, erano secretate. Il fatto che vi sia andato è emerso solamente tanti anni dopo. Dalla Legione straniera, comunque, è tornato a casa poco prima del quinquennio prestabilito, portando con sé un gruzzolo in denaro.

Imbianchino e cuoco

A Villadose (Rovigo) il padre faceva l’imbianchino, mestiere che poi Andrea ha svolto a singhiozzo, prima con il genitore e poi da solo, continuando l’attività di famiglia. Un’arte, quella di imbiancare, che praticava con lo scrupolo e l’impegno estremo, quasi maniacale, che metteva in qualsiasi cosa. Ma Andrea non è rimasto fermo per vent’anni a Villadose, anzi. Ogni tanto spariva, completamente assorbito da un nuovo impensabile obiettivo. Dopo la Legione c’è stata la Germania, dove era andato senza sapere una parola di tedesco per ritrovarsi nella cucina di un rinomato ristorante a forgiare dolci con pregevoli decorazioni.

Il fratello artista

La vena artistica è di casa, lo stesso Andrea si era diplomato alla scuola d’arte di Castelmassa con specialità in oreficeria e da ragazzino invece aveva vinto premi giocando a scacchi. Il fratello Riccardo, più giovane di un anno e mezzo, residente da molti anni a Londra, nel 2016 ha realizzato un quadro che l’attuale presidente inglese Boris Johnson, sei anni fa, da sindaco di Londra, aveva appeso nel proprio ufficio. Un ritratto dello stesso Johnson con un elmo da antico romano in testa. Riccardo Girardi ha quindi conosciuto Johnson di persona, grazie al quale ha conosciuto Nigel Farage, che gli ha commissionato delle opere d’arte usate nella campagna a favore della Brexit. Se Riccardo Girardi si diletta con il pennello, il fratello Andrea aveva sfogato la vena artistica sui dolci. Poi però era sempre tornato a Villadose, dove ha vissuto fino all’estate scorsa quando improvvisamente ha fatto lo zaino e si è equipaggiato da montagna prima di dire ai genitori che sarebbe andato in Svizzera a lavorare.

Il digiuno

I suoi non erano stupiti, nel passato di Andrea c’erano state scelte molto più estreme e non comuni. Anche del silenzio non c’era da sorprendersi, non era la prima volta e nemmeno la più prolungata. Secondo quanto è stato ritrovato nei suoi effetti personali su di un calendario vi era scritto che l’inizio del digiuno è del 30 luglio scorso, in fondo c’era scritto «crematemi». Poi piccoli segni, intervallati di dieci giorni l’uno. Attorno al suo giaciglio in mezzo ai monti, nel territorio di Castello, a Molina di Fiemme (Trento), c’erano solo bottiglie d’acqua, nessun segno di fuoco né di cibo. Andrea Girardi era stato visto in paese tempo prima del ritrovamento del cadavere dove probabilmente aveva raccolto informazioni su quale fosse il versante meno battuto, il più isolato. E lì ha allestito il proprio giaciglio che era evidente fosse stato realizzato da chi aveva una approfondita esperienza in tecniche di sopravvivenza. Il suo scopo però, era l’opposto. E l’acqua gli sarebbe servita non tanto per prolungare l’attesa ma per alleviare i dolori agli organi che altrimenti sarebbero stati lancinanti.

Il riconoscimento e il Dna

Tra pochi giorni, secondo quanto hanno fatto sapere i carabinieri, ci sarà l’ufficialità che si tratta di lui, grazie al test del Dna. Al momento il riconoscimento è dovuto ai tatuaggi che aveva sul braccio. Disegni che Andrea Girardi si era fatto da solo, a 17 anni, quando era tornato a casa con la macchinetta ed ha iniziato a provarla su sé stesso. Nessun significato particolare, men che meno politico. In quel periodo la sua passione erano i giochi di ruolo tipo Dungeons and Dragons. Sui motivi del suicidio solo chi lo conosceva veramente a fondo può avere un’idea ma la volontà di renderla nota non c’è. Alcune macro categorie di motivazioni però possono essere categoricamente scartate, non si tratta di problemi sentimentali, né di denaro, né di guai con qualcuno, né di religione o altre forme di credenze. Anche parlare di idee filosofiche può essere fuorviante. Niente droghe. C’era qualcosa di estremamente non comune in Andrea Girardi e anche la scelta su come morire lo è. Non ha optato per un attimo di paura prima del trapasso, non si è lanciato nel vuoto ne ha atteso di essere travolto da un terno in corsa. Ha voluto digiunare per settimane, dimostrando a tutti che non si è trattato di un raptus di follia, né di un momento di cedimento ma di una scelta ponderata. Il suo corpo è stato ritrovato nei boschi il 2 maggio, ancora non si sa a quando risale il decesso. L’ultimo segno sul calendario è del 4 ottobre scorso.

DAGONEWS il 4 maggio 2022.

A quindici anni dalla scomparsa di Madeleine McCann a Praia de Luz, in Portogallo, il procuratore Hans Christian Wolters ha clamorosamente rivelato di essere certo dell’identità del colpevole. 

Ospite ieri sera di Sabado, un programma della TV portoghese, si è detto convinto che la bambina sia stata uccisa da Christian Brueckner, sospetto pedofilo e incriminato in Portogallo per la scomparsa della piccola. 

L’investigatore Wolters sostiene: «Siamo sicuri l’abbia uccisa, non posso darvi ulteriori dettagli, per ora».

Brueckner vanta già una condanna per stupro ai danni di una pensionata, e il Sun ipotizza che le prove in questione potrebbero essere le fibre del pigiama di Maddie ritrovate nel retro del furgone dopo l’assassinio. 

Sandra Felgueiras, conduttrice del programma, chiede a Wolters: «è vero che ha trovato qualcosa di Madeleine McCann nel furgone di Christian Brueckner?». 

«Non intendo commentare i dettagli dell'indagine», risponde il procuratore. Ma quando viene pressato dalla giornalista, Wolters sostiene: «Non voglio negarlo», e aggiunge: «Il presunto colpevole non è ancora stato informato».

Per la legge tedesca, i dettagli di un’indagine di polizia non possono essere rivelati finché il presunto colpevole e i suoi avvocati non sono a conoscenza dei dettagli stessi. Solo allora il caso può essere reso pubblico.

Brueckner è stato nominato dai pubblici ministeri tedeschi come principale indiziato due anni fa. Gli investigatori dicevano di avere "prove concrete" della morte. Ma da allora ci sono state poche ulteriori evidenze della sua colpevolezza, e all'inizio di questa settimana è emerso che Brueckner avrebbe un alibi. 

La trasmissione televisiva è andata in onda in contemporanea alla commemorazione per il quindicesimo anniversario della sparizione. I genitori di Maddie sono stati accolti nel loro paese, Rothley, nel Leicestershire. La madre, leggendo una poesia, stringeva una collana con tre anelli (probabilmente simboleggianti lei, il marito e la figlia).

L'evento era stato cancellato negli ultimi due anni a causa delle restrizioni pandemiche. Oggi, padre e madre sperano ancora che la figlia - ora avrebbe quasi 19 anni - sia viva: «Quest'anno segniamo quindici anni dall'ultima volta che abbiamo visto Madeleine. È passato tanto tempo».

"Incriminato". A che punto sono le indagini sul pedofilo accusato della morte di Maddy McCann. Mariangela Garofano il 2 Maggio 2022 su Il Giornale.

Secondo una nuova rivelazione Christian Brückner, formalmente indagato per la scomparsa della piccola Maddy McCann, potrebbe essere arrestato entro la fine dell'estate.

Christian Brückner potrebbe essere incriminato entro la fine dell’estate per il rapimento e l’omicidio della piccola Madeleine McCann. La notizia, riportata dal Daily Mail, è stata rivelata da una fonte vicina al pedofilo tedesco. Recentemente il 44enne, che sta scontando una pena di sette anni per lo stupro di una donna di 72 anni, è stato formalmente indagato dalla procura di Faro, Portogallo, per la sparizione delle bimba di tre anni, che nel 2007 scomparve senza lasciare tracce dal residence in cui era in villeggiatura con la famiglia a Praia da Luz, nell’Algarve. Ma ora, secondo una recente notizia riportata dall'emittente britannica Sky News, il tedesco avrebbe fornito un alibi agli inquirenti, per la notte in cui Madeleine sparì dalla sua camera. L'uomo sostiene che la sera del 3 maggio 2007 si trovava nel suo van, in compagnia di una ragazza, che potrebbe confermare il suo alibi.

Scomparsa di Madeleine McCann, indagato il tedesco che lavorava nell'hotel

L’uomo, che all’epoca viveva in un camper proprio nella località di Praia da Luz, svolgeva lavori di manutenzione nel residence in cui risiedevano i McCcann. Quando Madeleine scomparve, il tedesco aveva già alle spalle una serie di accuse per reati sessuali, tra cui violenza sessuale su una turista irlandese nel 2004 e abusi su una bambina di dieci anni, solo un mese prima della scomparsa di Maddy. Arrestato nel 2018 a Milano, grazie ad un’operazione di polizia internazionale, Brückner si trova ora in carcere e presto la sua posizione potrebbe aggravarsi ulteriormente, come hanno riferito gli investigatori. L'uomo si trovava in Italia, dove viveva senza fissa dimora, quando è stato fermato e incarcerato, in un primo momento per traffico di droga. In seguito è stato estradato in Germania, dove è stato incriminato per aver brutalmente torturato e stuprato una donna di 72 anni.

"Preso a Milano". Chi è l'uomo accusato di aver rapito Maddy McCann

Gli inquirenti tedeschi che indagano sul caso hanno chiesto ad un ex conoscente dell’uomo di tenersi pronto a testimoniare in tribunale contro Brückner. “Ho ricevuto una telefonata dalla polizia tedesca”, ha rivelato la fonte, “che mi ha detto di tenermi pronto ad andare in Germania, possibilmente entro la fine dell’estate. Sperano di riuscire ad incriminare Christian, ma non sono scesi nei dettagli”. Nonostante siano 15 anni che Maddy è scomparsa, il procuratore Hans Christian Wolters ha affermato che gli investigatori “sono sicuri al 100% che Brückner abbia ucciso Madeleine”. Dopo essere stato inserito come primo sospettato nel caso McCann, l'uomo ha scritto una lettera al tabloid Mail Online, per affermare la sua presunta innocenza nella sparizione della bimba di 3 anni. Brückner ha dichiarato di sentirsi “perseguitato” dalla polizia, sebbene abbia una lunga lista di accuse per reati sessuali, di cui uno nei confronti di una minore. Kate e Gerry McCann, i genitori di Maddy, non hanno mai perso la speranza di ritrovare la loro bambina in questi 15 anni e si sono detti sollevati che Brückner sia stato finalmente indagato.

Paola De Carolis per corriere.it il 22 aprile 2022.

Sono passati 15 anni. Da allora, nonostante le inchieste internazionali, la sua vicenda rimane avvolta nel mistero: Madeleine McCann , Maddie, scomparsa nel 2007 pochi giorni prima del suo quarto compleanno dalla camera d’albergo di Praia de Luz dove dormiva assieme ai fratellini. Ora una svolta che fa sperare che la verità possa essere vicina. Le autorità portoghesi hanno ufficialmente incriminato il tedesco Christian Brueckner, 44 anni, che all’epoca lavorava saltuariamente nell’hotel dove la bimba si trovava in vacanza con la famiglia.

Già in carcere a Oldenburg, in Germania, per lo stupro di un cittadino americano, Brueckner avrebbe confessato a un amico di aver rapito la bambina e si sarebbe vantato di essere entrato in diverse camere dell’Ocean Club per rubare gioielli, soldi e passaporti. È dal 2020 che gli inquirenti tedeschi esaminano le prove di un suo coinvolgimento nel caso, tra cui i tabulati telefonici che lo piazzano vicino all’albergo la sera del rapimento della piccola. Ora la questura di Portimao lo ha ufficialmente reso «arguido», imputato. 

La sera della scomparsa di Madeleine, i genitori della bambina stavano cenando con amici in uno dei ristoranti dell’albergo non lontano dalla camera dove dormivano i bambini, oltre a Maddie, i gemelli Sean e Amelie, due anni. Era l’ultima sera della permanenza in Portogallo. Gli adulti — i McCann e una coppia di amici — avevano fatto a turno tutta la sera per controllare i bambini ogni quarto d’ora, sino alla truce scoperta della scomparsa di Maddie.

I genitori della bimba, Kate e Gerry, due medici, vennero formalmente incriminati nel 2007 e sollevati da ogni accusa l’anno successivo. In Portogallo c’è un limite di 15 anni sui casi di omicidio ed è possibile che Brueckner sia stato incriminato per evitare la prescrizione.

Caso Golinucci, la famiglia della ragazza scomparsa nel 1992 deposita un esposto in procura: “Vogliamo riaprire le indagini, c’è una nuova trascrizione”. La Stampa il 19 aprile 2022.

La famiglia di Cristina Golinucci, scomparsa a 21 anni il primo settembre 1992 davanti al convento dei Frati Cappuccini di Cesena, deposita un esposto in Procura a Forlì per chiedere la riapertura delle indagini. Cristina, dopo aver parcheggiato la sua Fiat 500 nel parcheggio del convento, doveva incontrare il suo padre spirituale, frate Lino, ma sparì nel nulla. Il caso è stato chiuso e riaperto varie volte in 30 anni di indagini. Adesso una nuova trascrizione di una intercettazione tra il religioso, morto nel 2006 ed Emanuel Boke, ragazzo ospite del convento sospettato in passato di essere responsabile della scomparsa, ipotesi sempre scartata, è l'elemento di novità che fonda l'istanza della madre, Marisa Degli Angeli, fondatrice dell'associazione Penelope in Emilia-Romagna, che riunisce familiari e amici delle persone scomparse. Ad annunciare l'esposto è l'avvocata Barbara Iannuccelli, che assiste la donna, con l'associazione. Secondo la legale la trascrizione fatta dal professor Giampiero Benedetti con Inforlab di Bologna fa crollare l'alibi di Boke. «Ma tu non sei mica andato in convento», la frase pronunciata il 12 dicembre 1995 da frate Lino rivolto a Boke, quando invece il frate, riferisce Iannuccelli, aveva sempre sostenuto di aver controllato a vista Boke, «dettagliandone con grande precisione i suoi movimenti dentro il convento proprio nella fascia oraria in cui Cristina Golinucci vi aveva parcheggiato davanti la sua auto». In passato si pensò a Boke come possibile autore dell'aggressione, dell'omicidio e dell'occultamento del cadavere tra le mura dell'edificio dei frati ma l'ipotesi fu ritenuta infondata. Il convento nel 2010 venne battuto con il georadar, alla ricerca del corpo della ragazza, ma inutilmente.

La moglie: “Devo restituire 11 stipendi e pagare la muta”. Pietro Conversano, la storia del finanziere scomparso da tre anni: “Multato per non aver fatto il vaccino”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 20 Aprile 2022.

Era il 19 febbraio 2019 quando Pietro Conversano, finanziere di 51 anni di Monopoli, uscì di casa all’alba con la pistola di ordinanza, il tesserino e il cellulare che non accese mai. Disse alla moglie Caterina che sarebbe uscito per un turno di lavoro particolare. Non è mai più rientrato, è come svanito nel nulla. La moglie denunciò la sera stessa la scomparsa del marito e da quel momento la famiglia lo cerca disperatamente ma di lui nessuna notizia. Solo la beffa di ricevere la notifica di una multa: Pietro Conversano, scomparso da 3 anni, non si era vaccinato.

Pietro Conversano, appuntato della Guardia di finanza, viveva a Fasano ed era in servizio a Monopoli. Quella mattina in cui uscì di casa non si presentò mai a lavoro e le telecamere lo ripresero nella stazione di Monopoli e di Bari. Camminava avanti e indietro con fare nervoso. Poi di lui non si trovò nessuna traccia. La moglie denunciò la scomparsa del marito ma da allora non è emersa nessuna verità o nuova pista. Il caso fu archiviato come allontanamento volontario.

Dopo l’inchiesta penale fu aperto anche un procedimento dalla procura militare per diserzione. La richiesta di rinvio a giudizio attualmente in udienza preliminare, è sospesa poiché il gup del Tribunale militare di Napoli ha per la seconda volta disposto nuove ricerche. Intanto alla famiglia lo Stato avrebbe chiesto la restituzione di 11 stipendi accreditati dopo la scomparsa: “alla tragedia che la famiglia ormai da oltre tre anni sta vivendo – dice la moglie Caterina Fumarola al Quotidiano di Puglia – si è aggiunta anche la beffa della notifica a carico di mio marito della sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate per non essersi vaccinato”.

La moglie si è detta molto amareggiata per come sono state gestite le ricerche del marito: “Confido nelle nuove ricerche che spero, questa volta, vengano fatte approfonditamente”. Ad assistere la donna è l’associazione Penelope che si occupa da anni di persone scomparse. Come riportato da Repubblica, oltre al dramma di non sapere che fine abbia fatto il marito, la moglie ha ricevuto anche la notifica della sanzione di 53 euro dal momento che Pietro, in quanto over 50, non avrebbe adempiuto all’obbligo vaccinale anti-Covid.

Il procedimento penale per diserzione in corso a Napoli, nel quale la posizione di Conversano è difesa dall’avvocato Antonio La Scala, era già stato sospeso il 20 settembre 2020, prima udienza, in occasione della quale il gup aveva disposto nuove ricerche. Martedì 12 aprile, poi, il giudice ha deciso l’ulteriore rinvio al 12 aprile 2023, affidando questa volta le ricerche di Conversano alla polizia di Stato e non più alla guardia di finanza. Con il passare del tempo per la famiglia si affievolisce la speranza di trovare Pietro vivo. Lo scorso novembre i familiari del finanziere scomparso si erano detti anche disposti a sottoporsi al test del Dna per l’eventuale riconoscimento su morti sospette o senza identità. Tuttavia, il tribunale militare ha ora deciso di riaprire il caso e di sospendere il processo in corso facendo così ripartire anche le ricerche che questa volta saranno coordinate dalla polizia.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Monopoli, finanziere scompare nel nulla: accusato di diserzione. Senza sue notizie da 3 anni, la moglie deve restituire gli stipendi. Il gup avvia nuove ricerche. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Aprile 2022.

Il 19 febbraio 2019 non si presentò a lavoro e quel giorno stesso la moglie di Pietro Conversano, finanziere 51enne di Monopoli, nel Barese, ne denunciò la scomparsa. Il marito non è mai stato ritrovato e l’inchiesta penale fu archiviata come allontanamento volontario. Poi anche la Procura militare ha avviato un procedimento per diserzione. La richiesta di rinvio a giudizio, attualmente in udienza preliminare, è però sospesa perché il gup del Tribunale militare di Napoli ha, per la seconda volta, disposto nuove ricerche. Nel frattempo, lo Stato ha chiesto alla moglie la restituzione degli 11 stipendi accreditati dopo la scomparsa e «alla tragedia che la famiglia ormai da oltre tre anni sta vivendo - dice la moglie Caterina Fumarola - si è aggiunta ieri anche la beffa della notifica a carico di mio marito della sanzione da parte dell’Agenzia delle Entrate per non essersi vaccinato».

Il procedimento penale per diserzione in corso a Napoli, nel quale la posizione di Conversano è difesa dall’avvocato Antonio La Scala, era già stato sospeso il 20 settembre 2020, prima udienza, in occasione della quale il gup aveva disposto nuove ricerche. Ieri, poi, il giudice ha deciso l’ulteriore rinvio al 12 aprile 2023, affidando questa volta le ricerche di Conversano alla Polizia di Stato e non più alla Guardia di Finanza. «Sono molto delusa e amareggiata per come sono state gestite le ricerche di mio marito. Confido nelle nuove ricerche che spero, questa volta, vengano fatte approfonditamente» dice la signora Fumarola, assistita in questi tre dall’associazione Penelope che si occupa di persone scomparse. E’ la donna a far sapere che proprio ieri, mentre era in corso l’udienza, le è stata notificata la sanzione di 53 euro perché il marito scomparso non risulta aver adempiuto, in quanto over 50, all’obbligo vaccinale anti-Covid. 

Valentina Errante per “Il Messaggero” il 4 aprile 2022.

Il terrore dura quasi 15 ore. Una notte infinita e una mattina intera, quando è già mezzogiorno ma per papà e mamma sembra non esserci luce. Poi Nicole Del Gobbo, 5 anni, scappata di casa sabato sera intorno alle 21.30, tra le campagne di Sant'Angelo Limosano, piccolo comune della provincia di Campobasso, ricompare. 

Gli uomini della polizia, che in elicottero sorvolavano la zona per cercarla, la individuano grazie a un rilevatore termico tra i rovi, a circa un chilometro e mezzo da casa. Infreddolita e spaventata, ma sta bene, ha solo qualche graffio. 

La procura ha aperto un fascicolo e la bimba, dopo essere stata dimessa dall'ospedale dove è stata visitata, è stata ascoltata in modalità protetta per ricostruire l'accaduto. I pm ora potrebbero ipotizzare l'abbandono di minore nei confronti dei genitori che, insieme ad altri parenti, nella notte, sono stati sentiti a lungo dagli inquirenti.

La giovane nonna della piccola, Angela Fracassi, 40 anni, non crede sia scappata: «Non penso che Nicole sia fuggita da sola, in quel modo, di notte e con il buio. Non ha mai fatto una cosa del genere. Secondo me qualcuno l'ha presa dalla finestra e poi magari, pentito, l'ha rilasciata la mattina. Con questo freddo non poteva sopravvivere e poi ieri notte erano tutti intorno alla casa a cercarla con le torce, ma nessuno l'ha vista».

Secondo una prima ricostruzione, che adesso dovrà trovare conferma nelle verifiche della procura, la bimba stava giocando, ma era stata rimproverata dalla mamma perché sebbene fosse già sera inoltrata i giocattoli erano ancora in disordine.

La donna alza la voce, le intima di mettere a posto e lascia la piccola in cucina, davanti alla tv per andare in un'altra stanza ad allattare l'altro figlio, che ha un anno e mezzo. Quando torna, una ventina di minuti più tardi, Nicole è sparita. 

Nella stanza, ha raccontato il sindaco del piccolo comune, William Ciarallo, c'era invece una sedia, vicino alla finestra aperta al piano terra della villetta. La casa si trova in una zona molto isolata, a quasi 900 metri di altitudine, in una contrada a una decina di minuti di macchina dal paese, accanto a un bosco.

La temperatura di notte è scesa sotto zero, mentre cadeva qualche fiocco di neve. È scattata così una drammatica notte di ricerche al freddo, che sono proseguite fino al mattino con un impressionante dispiegamento: hanno partecipato centinaia di persone tra forze dell'ordine e volontari. 

Si sono mobilitati gli abitanti di tutti i paesi della zona, l'intero Molise è rimasto con il fiato sospeso per ore in attesa di notizie. Il piano di ricerca delle persone scomparse, coordinato dalla prefettura, è scattato già nella notte. 

Ieri mattina in un vertice è stato fatto il punto. Alle operazioni hanno partecipato polizia, carabinieri, Guardia di finanza, polizia stradale, Vigili del Fuoco, Protezione civile, 118, corpo nazionale del Soccorso Alpino.

Nei pressi dell'abitazione della bambina è stato istituito un «Posto di Comando Avanzato» dei Vigili del fuoco che è rimasto in costante contatto con le forze dell'ordine, i volontari, la prefettura e il sindaco.

La notizia che ha magicamente sciolto la tensione è arrivata poco dopo mezzogiorno, quando la piccola è stata localizzata tra la vegetazione. Subito è stata avvolta in una coperta termica, rifocillata e portata in elicottero al vicino campo sportivo di Sant'Angelo. 

Ed è lì che si è concentrato in pochi istanti tutto il paese tra lacrime e abbracci. Poi Nicole è stata visitata da un medico e trasferita all'ospedale Cardarelli di Campobasso per accertamenti.

«La macchina dei soccorsi messa a punto dalla notte scorsa, anche attraverso squadre di volontari e con l'ausilio di droni, unità cinofile e elicotteri - hanno evidenziato i vertici del Palazzo di Governo - ha consentito di fronteggiare in maniera corale la complessa situazione».

È stato il nonno il primo familiare a riabbracciarla: «Mia nipote sta bene, ha solo qualche graffio - ha raccontato l'uomo pochi istanti dopo - era tra i cespugli a due chilometri da casa. Ci ho parlato, appena mi ha visto mi ha subito riconosciuto e mi ha sorriso. È viva per miracolo - ha aggiunto - visto il freddo di questa notte. 

Io avevo paura solo del freddo, avrebbe potuto anche non farcela con le temperature sotto zero che abbiamo avuto e non potevo immaginare che riuscisse a fare tanta strada da sola e di notte». L'uomo conferma anche che la piccola è andata via dopo un rimprovero.

Campobasso, bimba ritrovata: la sera della scomparsa lasciata sola in casa. Redazione Tgcom24 il 7 aprile 2022.

La piccola Nicole era nell'abitazione, mentre la mamma era fuori casa: è quanto trapela dalle indagini sulla bambina scomparsa sabato sera e ritrovata poi domenica mattina a Sant'Angelo Limosano (Campobasso). La giovane mamma, interrogata avrebbe ammesso l'allontanamento per alcuni minuti dall'abitazione, che si trova nelle campagne del paese, per incontrare una persona, ma prima avrebbe anche chiuso a chiave la porta d'ingresso. Per questo Nicole sarebbe poi uscita dalla finestra.

Qualche giorno fa, la donna è stata iscritta nel registro degli indagati per abbandono di minore. Nicole aveva fatto perdere le sue tracce la sera del 2 aprile. Sono seguite 12 ore di terrore e preoccupazione, che ha visto la mobilitazione del piccolo paese molisano di 300 abitanti.

Le ipotesi degli investigatori - Resta in piedi anche l'ipotesi che la bambina non abbia fatto tutto da sola. Qualcuno potrebbe averla fatta uscire dalla finestra e poi portata via. Al mattino dopo, quella stessa persona o un suo complice potrebbe averla fatta ritrovare. Gli investigatori si chiedono però chi potesse avere interesse a compiere un gesto del genere. La prima pista porterebbe a un parente che avrebbe voluto infliggere una sorta di punizione alla mamma, ma si tratta per ora solo di ipotesi.

Interrogatori e indagini - Per questo motivo tutti i familiari sono stati ripetutamente sentiti dagli investigatori: genitori, nonni e anche conoscenti della famiglia. Sotto esame ci sono anche i messaggi che alcuni parenti di Nicole si sono scambiati in quelle ore. Alcuni di questi sarebbero stati cancellati dalle chat, ma poi recuperati dagli inquirenti.

«Sos» minori scomparsi in Puglia: dal 1974 ad oggi sono circa 4mila. Si tratta di ragazzi under 18, prevalentemente stranieri. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 aprile 2022.

Missing, scomparsi. Per sempre, il più delle volte.

Se in tutta Italia sono un vero e proprio esercito (68.027), in Puglia le persone che dal 1974 (anno in cui è stato istituito lo Sdi, la banca dati interforze) sono scomparse sono 4817 di cui 586 italiani e 4231 stranieri.

Sono persone svanite nel nulla, delle quali non si hanno più notizie. Tra queste ci sono quelle che sono sparite volontariamente dalle loro famiglie (e che spesso non vogliono tornare), persone con disturbi psicologici o anziani affetti da Alzheimer. Sono numeri freddi ma preoccupanti che nascondono altrettante tragedie, attese estenuanti, inutili ricerche e tante lacrime versate su fotografie che oramai nessuno più ricorda.

Triste primato - La Puglia, proprio in virtù di questi dati che emergono dalla relazione annuale del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, si colloca al sesto posto (dopo la Sicilia il Lazio Lombardia Campania e Piemonte) tra le regioni italiane in cui il fenomeno delle persone scomparse assume particolare rilievo. Ma c’è un altro pugliese che preoccupa a fa riflettere: delle 4817 persone ancora da rintracciare, ben 3964 sono minori: 160 italiani e 3804 stranieri. Il numero dei minori scomparsi in Puglia come in tutta Italia nel nostro Paese è drammatico e preoccupante. Si volatilizzano quasi 21 minori al giorno, quasi uno ogni ora: poco meno della metà sono stati ritrovati, ma all’appello ne mancano sempre tanti, troppi, soprattutto tra gli stranieri che arrivano soli con i «viaggi della speranza». Ci sono i casi nazionali più noti (Denise Pipitone, Angela Celentano, Emanuela Orlandi, Mirella Gregori, Sergio Isidori) e i «missing» pugliesi, quei minori inghiottiti nel nulla da anni, decenni: è il caso Mauro Romano (scomparso da Racale nel 1977 quando aveva appena 6 anni) o Salvatore Marino (la sua famiglia è originaria di Castrignano del Capo), scomparso all’età di 4 anni sulle rive del Rodano nel 1984, o Vincenzo Monteleone di Adelfia scomparso nel 1978 all’età di 10 anni o Alessandro Ciavarella scomparso da Monte Sant’Angelo nel 2009 all’età di 16 anni.

Il 25 maggio - I loro volti, così come quelli di tanti altri minori di cui non si hanno più notizie, saranno ricordati come avviene da anni il prossimo 25 maggio, Giornata internazionale dei bambini scomparsi. Rimanendo sempre in Puglia, nel solo 2021, sino allo scorso mese di novembre sono da rintracciare 33 italiani e 357 stranieri. Secondo i dati ufficiali (che è possibile consultare inquadrando il QR Code), la provincia pugliese dove nel 2021 ci sono state più denunce di scomparsa è Lecce, segue Bari, Taranto, Foggia Brindisi e la Bat. Su 603 denunce di scomparsa di minori giunte nel 2021, 390 sono da ritrovare. Le denunce riguardano le seguenti fasce di età: 10 (0-10 anni), 75 (11-14 anni) e il resto va a collocarsi nella fascia di età dai 15 ai 18 anni.

Recrudescenza - «Il numero dei minori scomparsi è impressionante - ha commentato Annalisa Loconsole, presidente di Penelope Puglia e lei stessa figlia di una persona scomparsa e non ancora trovata (il papà Antonio, il vigile del fuoco malato di Alzheimer, uscì dalla sua abitazione di Bari il 4 agosto del 2006 senza più farvi ritorno) -. Come è noto la pandemia ha arrecato un danno economico con una recessione evidente nei vari campi della produzione, adesso aggravata anche dalla guerra in Ucraina, con una diminuzione dei posti di lavoro o con la perdita di quei lavori sommersi che in qualche modo sostenevano l'economia. Oltre questo, i danni sociali e relazionali sono incalcolabili ancora oggi perché le situazioni di solitudine si sono moltiplicate ed anche i giovani ne hanno risentito. Basta pensare che l'utilizzo dei social è davvero schizzato tra i ragazzi, anche tra i più piccoli».

La pandemia - Il fenomeno delle persone scomparse ha seguito di pari passo l'andamento delle reazioni alla pandemia. «Purtroppo è così - spiega la referente di Penelope Puglia -. Si è registrata una contrazione del fenomeno durante il lockdown quando si è stati costretti a stare a casa ma, subito dopo, il fenomeno ha avuto una recrudescenza. Si sono registrate molte più scomparse di adolescenti, spesso richiamati da gruppi spontanei creatisi sui maggiori social utilizzati (Tik tok - Facebook). Sono aumentati i casi di allontanamenti di persone affette da patologie psicologiche e psichiatriche che vivono in comunità terapeutiche o dalle famiglie in crisi per i motivi di una convivenza forzata durante il lockdown». In molti giovani, già provati da altre condizioni, a causa di alcuni fattori (incertezza del futuro, preoccupazioni economiche, paura, stress e ansia generalizzata), è aumentata la sofferenza e alcuni, purtroppo, hanno deciso di togliersi la vita spingere a togliersi la vita.

Minori stranieri - «Il fenomeno dei minori che fuggono dalle comunità sia italiani che stranieri è impressionante anche se la percentuale degli stranieri è di gran lunga superiore ai primi. La scomparsa dei minori è una vera emorragia di cui pochi parlano se non per un fatto statistico», spiega Annalisa Loconsole. Il fenomeno allarmante dei bambini scomparsi nel nulla non può passare in silenzio perché il silenzio è complice e i numeri impressionanti dei missing con meno di 18 anni devono suscitare rabbia. «Da tempo - dice la Loconsole - Penelope ha lanciato un appello ai sindaci dei Comuni dove è scomparso un bambino di cui la comunità è rimasta orfana: è auspicabile che ogni amministrazione comunale intesti una strada, una piazza, un parco giochi, perché quelle vite scomparse diventino storia di quella comunità».

Poi un appello rivolto alle Istituzioni. «Occorre rendere certa l'identità dei minori stranieri utilizzando i dati biometrici che renderebbe inconfutabile l'identità ed evitare che, in caso di rintraccio, possano fornire altre generalità, alterando la banca dati, rendendosi “invisibili tra gli invisibili”. Inoltre, occorrerebbe che vengano immediatamente seguiti dal tutore, come previsto dalla Legge». A proposito dei minori scomparsi l'associazione Penelope Puglia si sta organizzando per creare gruppi di sostegno per i minori allontanatisi dalle famiglie e/o dalle comunità per prevenire il ripetersi della scomparsa.

Scomparsi over 65 - Per quanto concerne invece gli over 65 è stato siglato un accordo col Comune di Bari che prevede l'adesione ad un progetto sperimentale ossia la dotazione, a titolo gratuito, alle persone interessate da patologie neuro-degenerative, di geolocalizzatori, monitorati da una sala operativa, in grado di fornire, in tempo reale, su richiesta dei familiari, la posizione del loro congiunto. «Il progetto - commenta la presidente di Penelope Puglia - mira a dimostrare come la prevenzione possa evitare la scomparsa di una certa categoria di persone, anche ospiti di Rssa. Invitiamo le famiglie interessate a chiedere informazioni scrivendo a puglia@penelopeitalia.org o rivolgendosi ai servizi sociali del municipio di appartenenza».

Tommaso di Giannantonio per corriere.it il 16 ottobre 2022.

A un anno e mezzo dalla scomparsa di Sara Pedri, nella mattinata di oggi, i carabinieri subacquei di Genova sono tornati al lago di Santa Giustina, in Trentino, per cercare il corpo della giovane ginecologa di Forlì. 

Affiancati, questa volta, da cinque unità cinofile della polizia tedesca, specializzate nella ricerca di cadaveri in acqua. I cani fiutano e poi i sub si immergono. La trentunenne — che si era trasferita a Cles a novembre 2020 dopo aver vinto il concorso da dirigente medico — risulta scomparsa dal 4 marzo 2021. Il giorno prima si era dimessa dall’azienda sanitaria trentina a seguito di presunti maltrattamenti sul luogo di lavoro.

La Procura di Trento ha aperto un fascicolo a carico dell’ex primario del reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara, Saverio Tateo, e della sua vice, Liliana Mereu, che hanno sempre respinto ogni accusa. È tuttora in corso il procedimento giudiziario, che vede coinvolte altre 20 parti lese, oltre alla ginecologa di Forlì. 

Tutti gli indizi fanno pensare ad un gesto estremo: Sara, quella mattina del 4 marzo, a pochi passi dal ponte di Mostizzolo, si sarebbe lanciata nel canyon del torrente Noce, che sfocia nel lago di Santa Giustina.

Oggi lo specchio d’acqua — il bacino artificiale più grande del Trentino — è tornato ad essere perlustrato massicciamente dalle forze dell’ordine. In azione i vigili del fuoco volontari, i carabinieri subacquei di Genova, un’unità cinofila dei carabinieri di Bologna e cinque cani arrivati da Monaco.

Per quest’ultimi «abbiamo fatto richiesta al dipartimento di pubblica sicurezza del ministero dell’Interno, che tramite il sevizio di cooperazione internazionale di polizia ha ottenuto l’autorizzazione dalla Germania, che ha avuto il piacere di inviarci 5 agenti della polizia di Monaco di Baviera con 5 cani altamente specializzati in ricerca cadaveri in acqua — spiega il maggiore Guido Quatrale, comandante della compagnia dei carabinieri di Cles, che ha sempre mantenuto alta l’attenzione per riconsegnare il corpo alla famiglia di Sara Pedri —. Gli agenti sono arrivati ieri pomeriggio e andranno via martedì mattina. Faremo due giorni pieni di ricerche, oggi e domani».

Dalle 8.30 di questa mattina le unità cinofile di Monaco e quella di Bologna, specializzata in ricerca cadaveri e sangue, stanno perlustrando l’intera superficie del lago a bordo dei gommoni dei vigili del fuoco. «Il cane si mette sulla punta del gommone e si battono i quadranti in cui abbiamo suddiviso il lago alla ricerca di positività date dal cane che fiuta qualcosa — specifica il maggiore Quatrale —. Quindi se c’è qualcosa, si circoscrive l’area e poi interviene il nostro nucleo subacquei per l’immersione». Oggi pomeriggio i sub di Genova eseguiranno le prime verifiche, forniti anche di un ecoscandaglio sonar per scansionare il fondale del lago.

Il nucleo sub di Genova aveva già operato sul lago a cavallo a marzo dello scorso anno insieme all’unita cinofila della polizia di Milano-Malpensa, che aveva fiutato qualcosa. Ma le caratteristiche del lago non aiutano le ricerche: il fondo limaccioso limita di molto la visibilità. Non è detto, inoltre, che i cani abbiano fiutato il corpo di Sara: sul fondale, secondo i vigili del fuoco della zona, potrebbe esserci il corpo di una persona che si gettò dal ponte quattro anni fa.

Sara Pedri, ritrovate due tracce nel lago: le ricerche proseguiranno anche oggi. Tommaso Di Giannantonio su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

Le ultime notizie sulle ricerche del corpo della ginecologa scomparsa dal 4 marzo 2021 si restringono grazie all’impiego di cani inviati dalla polizia tedesca 

Il sole picchia forte. I gommoni dei vigili del fuoco vanno e vengono, di continuo. In lontananza si sentono abbaiare i cani, ritti come vedette sulla prua delle imbarcazioni. Ieri mattina, in una calda domenica d’autunno, sono riprese le ricerche del corpo di Sara Pedri nel lago di Santa Giustina, in Val di Non, Trentino. Questa volta sono state chiamate a raccolta cinque unità cinofile della polizia di Monaco di Baviera, specializzate nel ritrovamento di cadaveri in acqua.

Le operazioni proseguiranno anche oggi, ma già nelle prime perlustrazioni il fiuto dei pastori tedeschi ha portato a restringere le ricerche dei subacquei in due punti del bacino: in questi due punti, i cani hanno fiutato delle tracce. Si cerca Sara, la ginecologa di Forlì che risulta scomparsa dal 4 marzo 2021. Tutti gli indizi fanno pensare a un suicidio. Dopo un lancio nel vuoto, da un dirupo, le acque del torrente Noce avrebbero inghiottito e trascinato il suo corpo esile fino al lago di Santa Giustina. Un gesto estremo, maturato forse dopo mesi di vessazioni sul posto di lavoro: questo ha sempre sostenuto la sua famiglia. E la Procura di Trento ha aperto da tempo un fascicolo a carico dell’ex primario del reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, Saverio Tateo, e della sua vice, Liliana Mereu, che hanno sempre respinto qualsiasi accusa.

Il procedimento, che vede altre venti parti lese, è ancora in corso. Intanto la famiglia non ha mai perso la speranza di poter riavere il corpo di Sara. «Abbiamo bisogno di chiudere questo cerchio e iniziare a rielaborare un lutto che fino a oggi stiamo vivendo in una maniera diversa — dice la sorella Emanuela, che ieri ha trascorso il pomeriggio insieme alla famiglia nel parco di Forlì in cui è stata piantata un’aiuola in ricordo di Sara —. Siamo fiduciosi che queste ricerche vadano come devono andare: la troveranno». A guidare le operazioni il maggiore Guido Quatrale, comandante della compagnia dei carabinieri di Cles. È su sua iniziativa che tramite l’Interpol si è riusciti a far arrivare in Trentino i cinque cani della polizia tedesca, capaci di riconoscere molecole che segnalano un processo di decomposizione umana in acqua.

A supporto anche l’unità cinofila dei carabinieri di Bologna. Alle 8.30 in punto i cani vengono fatti salire a bordo dei gommoni e inizia la perlustrazione del lago, il più grande del Trentino tra quelli artificiali, lungo quasi otto chilometri e largo uno e mezzo. Il bacino viene setacciato palmo a palmo. «Il cane si mette sulla punta del gommone e si battono i quadranti in cui abbiamo suddiviso il lago alla ricerca di “positività” date dal fiuto del cane», riferisce il maggiore Quatrale. Ecco, ieri, nel corso delle perlustrazioni, sono emerse già due «positività». In due punti del lago i cani hanno fiutato qualcosa e hanno cominciato ad abbaiare. Sono quindi entrati in azione i carabinieri subacquei di Genova, che nel pomeriggio si sono concentrati su una delle due porzioni del bacino, quella dirimpetto al punto in cui a marzo dell’anno scorso i cani di Malpensa avevano abbaiato. In serata, però, le ricerche hanno dato esito negativo.

Oggi si ripartirà da lì e dall’altra porzione del lago. Le acque fredde e il fondo melmoso non facilitano le cose. «La visibilità è quasi nulla — spiega il luogotenente Maurizio Gargiulo, comandante del Nucleo carabinieri subacquei di Genova, forniti di un ecoscandaglio sonar in grado di individuare corpi solidi sul fondale —. Abbiamo difficoltà anche a leggere i dati del nostro computer retroilluminato che abbiamo al polso. Si tratta di fare un’immersione nel fango, per questo l’unica possibilità è un’attività di ricerca tattile». Ci si immerge quindi e si tasta il terreno con le mani.

Dafne Roat per corriere.it il 24 febbraio 2022.

Le scarse precipitazioni che contraddistinguono questo ultimo scampolo di inverno potrebbero accelerare i tempi. A marzo, quando le acque del lago di Santa Giustina si saranno abbassate, riprenderanno le ricerche. È trascorso quasi un anno dalla scomparsa della giovane ginecologa di Forlì, Sara Pedri, 31 anni, sparita il 4 marzo scorso senza lasciare tracce, se non l’auto abbandonata vicino al ponte di Mostizzolo, in val di Sole, con all’interno il telefono cellulare. Scriveva poco prima di sparire: «Sono terrorizzata, non posso proseguire».

La famiglia continua a cercare la verità, chiede risposte e attende il ritorno dei cani molecolari che perlustreranno di nuovo gli argini del lago. La sorella Emanuela si chiede il «perché dopo tre mesi di lavoro mia sorella abbia iniziato a sentirsi incapace». Ma per ora le uniche risposte arrivano dagli atti della Procura, dal racconto di colleghe e ostetriche. «Era molto solare — ricorda una professionista — poi in poco tempo l’avevo visto “spenta”. Era un turno caotico con molte urgenze, l’avevo vista preoccupata e insicura. Credo che la sua insicurezza nascesse dalla paura di essere giudicata».

La «caccia al colpevole»

Non sono molti i riferimenti a Sara nelle testimonianze rilasciate alla polizia e alla Guardia di finanza, ma le carte ancora inedite depositate in Procura che il Corriere ha potuto visionare, tracciano un quadro sul «clima di terrore», come viene definito, nel reparto di ginecologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento segnato dal timore di sbagliare. «Il clima che aleggia nel reparto è la “caccia al colpevole”, che sia un caso problematico in sala parto, un parto difficile, qualsiasi tipo di problema, sembra che la priorità sia quella di trovare un colpevole», racconta una professionista.

Un’ostetrica spiega che nel reparto vigeva una sorta di «caccia all’errore» che si trasforma «regolarmente in attacchi sul profilo personale e professionale. Le reazioni spropositate a eventi critici, ma anche di minore rilevanza hanno creato un clima di costante paura di sbagliare portando a un “interventismo” estremo per evitare di subire il “processo”… Atteggiamenti vessatori e umilianti — li definisce — che sono diventati una prassi».

Dagli atti affiora ancora la situazione difficile e complessa – emersa anche dalle testimonianze in aula di tre professioniste che sono state sentite dal giudice Enrico Borrelli con la formula dell’incidente probatorio su richiesta della Procura — all’interno dell’unità operativa allora diretta dal dottor Saverio Tateo (licenziato dall’Azienda sanitaria di Trento) e dalla sua vice Liliana Mereu, entrambi indagati per maltrattamenti e abusi di mezzi di correzione. 

«Sono severo, ma non aggressivo», ha spiegato in una recente intervista l’ex primario del Santa Chiara. Una severità che, stando alla testimonianza di molti professionisti che lavoravano all’interno, si concretizzava in una sorta di «punizione» pubblica per chi sbagliava o non condivideva la linea della governance.

Così i meeting erano l’occasione per «umiliare», poi c’era la gestione «particolare» – viene definita – dell’errore. Si chiamano «incident reporting», ossia l’analisi dell’errore per l’adozione di una migliore strategia, un sistema sicuramente positivo se non per il fatto che in un’occasione il verbale che riportava l’errore, «in questi caso senza conseguenze per la paziente» — ricorda un’ostetrica — «sarebbe stato affisso in bacheca in guardiola con il nome del responsabile». 

Le accuse a Mereu

«Tu chi c.. sei per dirmi quello che devo fare?». Nel racconto di un’ostetrica si evidenziano i presunti atteggiamenti aggressivi della dottoressa Mereu che avrebbe assalito una professionista «incalzandola fisicamente e in modo aggressivo tanto che è stata costretta a indietreggiare». Un’infermiera ricorda che era stata assunta da poco quando sarebbe stata aggredita dalla dottoressa Mereu solo per il fatto che avrebbe sollecitato un intervento del medico perché una paziente stava male con problemi di vomito. «Dopo circa un’ora per la terza volta avvisavo la dottoressa della paziente, a quel punto mi afferrava per il braccio e mi trascinava verso la stanza... Mi sono sentita uno schifo e ci sono rimasta molto male».

Molte testimonianze raccontano di incontri sporadici con l’ex primario e di scontri forti con Mereu. Ma una professionista a giugno del 2020 racconta di essersi rivolta al dottor Tateo per segnalare il «comportamento della dottoressa Mereu». Ma lui si sarebbe infuriato. «Mi aggrediva rispondendomi che queste cose non gli interessavano e se avevo qualcosa da dire dovevo rivolgermi ai giudici e ai tribunali concludendo dicendomi: “lei non vale niente”. Questo episodio mi ha ferita molto». La professionista, che raccontando si emoziona, ricorda anche l’ora del colloquio. «Erano le 10». Un’ora più tardi Mereu l’avrebbe accusata di aver parlato male di lei: «Se continua a parlare così di me la denuncio per diffamazione». 

L’email al consigliere di fiducia

Il clima difficile all’interno del reparto e una severità portata alle estreme conseguenze tanto da ingenerare nel personale «una sorta di paura di essere ancora ripresa» sarebbe stata segnalata in più occasioni alla direzione dell’azienda e anche alla consigliera di fiducia (che è chiamata a prevenire, gestire e aiutare a risolvere i casi di mobbing), ci sarebbe anche un nastro di una conversazione registrata, ma il problema non sarebbe stato risolto. Un’infermiera avrebbe scritto una prima email alla consigliera di fiducia il 12 gennaio 2018. 

«Vorrei parlarle della situazione ormai insostenibile con una dottoressa di ginecologia (si riferisce a Mereu). Ogni volta che mi ritrovo a lavorare con lei mi mette in imbarazzo davanti a tutti e mi denigra pur svolgendo il mio lavoro nel migliore dei modi». E ancora: «Ormai è da due anni che sostengo questa situazione, spero che tenga in considerazione la mia richiesta di aiuto». L’infermiera chiede un appuntamento, ma non arriva risposta. Il primo febbraio manda un secondo messaggio di posta elettronica: «Vi rimando un’email a cui non ho ricevuto alcuna risposta, sperando in un vostro contatto». Ma ancora silenzio.

Margherita Montanari per il “Corriere della Sera” il 5 Gennaio 2022. Emergono un prima e un dopo nell'anamnesi psicologica di Sara Pedri, la ginecologa scomparsa il 4 marzo in Trentino. La Sara «in salute, serena, felice, esplosiva», cresciuta tra Forlì, Ferrara e Catanzaro, in pochi mesi ha lasciato il posto alla Sara «presa da un tormento psichico», che il 24 febbraio confidava al fidanzato Guglielmo: «Sono un morto che cammina. Questa volta non ce la farò».

Un turbamento improvviso, esploso a causa del mobbing sul posto di lavoro, ipotizza la dottoressa Gabriella Marano, psicologa clinica e forense, nell'autopsia psicologica eseguita su commissione della famiglia Pedri, e depositata dal legale Nicodemo Gentile in Procura a Trento. Una perizia che tratteggia un nesso causale tra le possibili condotte vessatorie subite dalla trentunenne nel reparto di ginecologia e ostetricia dell'Ospedale di Trento e l'incrinarsi della sua salute psichica. Deterioramento che l'avrebbe poi portata a togliersi la vita.

Oltre 20.000 messaggi analizzati, un pc setacciato, le dichiarazioni di 15 persone, da cui affiora il profilo di Sara Pedri, la sua storia clinica, l'evoluzione delle sue relazioni affettive e lavorative negli ultimi tre anni. Il quadro completo, scritto nella perizia di 119 pagine, vira verso un'ipotesi: al Santa Chiara di Trento la ginecologa forlivese «si è ritrovata come un agnello in mezzo ai lupi, e ha finito per essere sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei». «Sara è stata vittima di quick mobbing», sottolinea la perizia. Vessazioni denunciate nei mesi scorsi da altri professionisti del reparto.

Tanto che sul caso la Procura trentina ha avviato un'inchiesta per presunti maltrattamenti, in cui figurano come indagati l'ex primario Saverio Tateo e la sua vice Liliana Mereu. Uno scenario ancora da dimostrare in sede giudiziaria, ma che ha già portato al licenziamento di Tateo e al trasferimento di Mereu. La consulenza di parte, ora, menziona comportamenti capaci «di creare intorno a Sara un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo, che ha minato, data l'eccezionalità e la violenza della portata, il suo equilibrio in poco più di 3 mesi, generando in lei un vero e proprio disturbo».

Tra gli episodi ci sarebbe anche uno schiaffo sulla mano ricevuto da Pedri in sala operatoria, «azione probabilmente traumatizzante, da cui poi è iniziata una discesa negli inferi», sostiene la psicologa. «La condizione lavorativa - prosegue la perizia - ha trascinato la giovane in una situazione critica: in preda a un vero e proprio tormento psichico, il vivere ormai le procurava dolore». La diagnosi, fatta a posteriori, è di Disturbo post traumatico da stress, «con sintomi ricorrenti riconducibili anche alla depersonalizzazione». «Sara ha sviluppato idee di suicidio dopo l'arrivo a Trento - spiega la psicologa -. Ai familiari e all'amica Celeste, a fine febbraio, raccontava di voler scomparire».

E il corpo della 31enne diceva lo stesso: «Era inappetente, aveva tachicardie, tremori, si abbracciava la pancia». A quel punto, è iniziato un conto alla rovescia. Il 3 marzo la ginecologa ha dato le dimissioni e il 4 è scomparsa. «Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato», uno degli ultimi messaggi inviati al padre e trascritti nella perizia. È rimasta la sua auto, abbandonata nei pressi del ponte di Mostizzolo. Lo stesso sul quale Sara ha cercato notizie su Internet, alle 6 e 16 del giorno in cui è sparita.

Per Marano ogni elemento dell'autopsia psicologica «lascia presagire, con tasso di probabilità purtroppo prossimo alla certezza, che Sara Pedri si sia tolta la vita». «Quanto appena scritto - conclude - rappresenta in questa vicenda la Stele di Rosetta, la cui attenta decifrazione ha riportato alla luce, scolpito nella roccia, il decreto di morte di Sara».

Chi ha ucciso Sara Pedri. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 4 Gennaio 2022. La perizia psicologica che ha esaminato le ventimila pagine di messaggi scritti e vocali prodotti dalla ginecologa Sara Pedri negli ultimi mesi della sua vita è l’autobiografia di un’umiliazione e mostra lo sgretolarsi di una personalità bersagliata dal mobbing. Sara chiede scusa ai genitori per averli delusi, cioè per non essersi mostrata all’altezza delle sue aspettative più che delle loro. «Sono una morta che cammina», dice. «Stavolta non ce la farò». A molte lettrici non sarà difficile immedesimarsi in questa giovane donna di talento bisognosa di conferme, che dopo una serie ininterrotta di trionfi universitari si ritrova a muovere i primi passi in ospedale allo scoppio di una pandemia e si imbatte in un maschio dispotico e in una vice femmina non meno urticante di lui. Il primario la prende di punta, come è abituato a prendere tutti, è il suo modo per marcare il territorio. Ma Sara possiede una sensibilità speciale e ha talmente investito sul lavoro che ha finito per identificarsi con esso. Ogni lavata di capo ingiustificata e ogni cambio di turno palesemente vessatorio non producono in lei uno scatto di rabbia orgogliosa, ma una coltellata all’autostima. Nella vita reale come in quella social, gli esseri umani andrebbero sempre trattati con cura. Non tutti scelgono di indossare una corazza per proteggersi dall’aggressività e dal cinismo elevati, si fa per dire, a regola di vita. Qualcuno, più puro, preferisce ritirarsi da un gioco che non sa e non vuole giocare.

Sara Pedri, gli ultimi misteri svelati dalla perizia. I messaggi finali della ginecologa di Forlì: "Sono un morto che cammina. Questa volta non ce la farò". La Repubblica il 4 Gennaio 2022. Di lei non si sa più nulla dal 4 marzo scorso. Oltre 20mila messaggi WhatsApp analizzate dalla psicologa incaricata di ricostruire il profilo psicologico della giovane: "E' stata vittima di mobbing all'ospedale di Trento". In uno dei suoi ultimi messaggi la ragazza ha scritto al papà: 'Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato'".  

"Sono un morto che cammina. Questa volta non ce la farò". E' uno degli ultimi tremendi pensieri che Sara Pedri, la ginecologa forlivese di 32 anni di cui non si sa più nulla dal 4 marzo scorso, ha affidato al suo computer pochi giorni prima di essere trasferita dall'ospedale di Trento a quello di Cles da cui si era dimessa 24 ore prima di scomparire. Oltre 20mila pagine di messaggi WhatsApp e ricerche internet che sono state analizzate dalla psicologa Gabriella Marano, incaricata dalla mamma di Sara Pedri di ricostruire anche attraverso il procedimento dell'autopsia psicologica, il profilo psicologico e comportamentale della giovane dottoressa, nonché l'aspetto delle sue relazioni, la sussistenza o meno di ideazioni suicidarie, l'esistenza di stress, straining, mobbing derivante dall'ambiente di lavoro, nonché la sussistenza di nesso eziologico tra le possibili condotte vessatorie subite nel corso del rapporto di lavoro e la scomparsa.

In tutto 119 pagine di perizia che l'avvocato della famiglia Pedri, Nicodemo Gentile, ha depositato in procura a Trento che ha aperto un fascicolo indagando per presunti maltrattamenti e abuso dei mezzi di correzione l'ex primario del reparto di ginecologia del Santa Chiara, Saverio Tateo, licenziato dall'azienda sanitaria a seguito di una commissione d'inchiesta interna, e la sua vice Liliana Mereu, attualmente in servizio presso altra unità ospedaliera in Sicilia.

"Sara si è ritrovata come un agnello in mezzo ai lupi, ed ha finito per essere sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei - scrive nella relazione la dottoressa Marano -. E' stata vittima infatti di mobbing, nella sua variante del quick mobbing, ovvero di comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo, quand'anche inconsapevole, e l'effetto di violare la sua dignità di donna e lavoratrice, e di creare, intorno a lei, un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante ed offensivo, che ha minato, data l'eccezionalità e la violenza della portata, il suo equilibrio in poco più di 3 mesi, generando in lei un vero e proprio disturbo: disturbo post traumatico da stress, con sintomi ricorrenti riconducibili anche al criterio della depersonalizzazione".

Dall'analisi del pc della ginecologa, la psicologa della famiglia Pedri, ha constato che "la ragazza la mattina presto del giorno in cui è scomparsa, il 4 marzo, alle 6.16, ha effettuato le seguenti ricerche: ponte Santa Giustina, ponte lago Santa Giustina, lago Santa Giustina. La sua autovettura, una Volkswagen TRoc, è stata rinvenuta proprio in prossimità del ponte di Mostizzolo, al confine tra i Comuni di Cles e di Cis, che sovrasta il torrente Noce. Una zona, questa, conosciuta purtroppo per i suicidi.

L'abbandono dell'auto in prossimità di questo ponte, unitamente al fatto che le tracce della ragazza in fase di ricerche si sono interrotte in corrispondenza di un dirupo, la permanente mancanza di notizie e segnalazioni, l'assenza di ipotesi alternative mai emerse durante il lavoro svolto che ha visto, oltre che lo studio minuzioso di tutta la documentazione presente in atti, anche l'analisi della mole di messaggistica esistente, oltre 20mila pagine di messaggi WhatsApp e l'ascolto di 15 persone, attraverso cui è stata è stata scandagliata in maniera capillare la vita della ragazza in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue fasi lascia presagire, con tasso di probabilità purtroppo prossimo alla certezza, che Sara Pedri si sia tolta la vita".

L'ambiente di lavoro, per la consulente di parte, aveva indotto Sara "a vivere un dolore estremo che, nella sua mente, era diventato intollerabile, insopportabile, inaccettabile. Tanto che la morte è diventata per lei sollievo e serenità". "Al proposito è necessario riportare che il DSM-5, nell'ambito del disturbo post-traumatico da stress, quello insorto in Sara, annovera il rischio di suicidio - si legge nella relazione -. Il super testimone di questa cronaca appena esposta è proprio lei, Sara, che ha parlato attraverso gli appunti lasciati in casa, le e-mail inviate e non, le t elefonate, le confidenze, gli sfoghi, le lacrime versate con le persone a lei più care, e soprattutto attraverso le migliaia e migliaia di messaggi e di vocali che coprono intensamente gli ultimi tre anni della sua vita. Tutto quanto appena scritto rappresenta in questa vicenda la Stele di Rosetta, la cui attenta decifrazione ha riportato alla luce, scolpito nella roccia, il decreto di morte di Sara. In uno dei suoi ultimi messaggi la ragazza ha scritto al papà: 'Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato'".

Sara Pedri. Analizzati gli ultimi testi scritti dalla giovane ginecologa: “Sono una morta che cammina”. Sara Pedri, la perizia psichiatrica: “Distrutta in soli tre mesi, è lei la supertestimone del dolore”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Di Sara Pedri, la giovane ginecologa 31enne di Forlì, non si hanno più notizie dal 4 marzo 2020 quando è scomparsa poche ore dopo le dimissioni dall’ospedale Santa Chiara di Trento. Ma il suo dramma resta presente e anche se lei non c’è la sua voce si sente forte e chiaro. Sara continua a parlare attraverso i suoi ultimi testi scritti a familiari e amici nei suoi ultimi giorni. Messaggi whatsapp, audio e mail che sono stati raccolti e analizzati nella perizia psichiatrica che la famiglia Pedri ha depositato alla Procura di Trento.

Testimonianze che possono essere cruciali nell’ambito dell’inchiesta per maltrattamenti che vede tra gli indagati l’ex primario del reparto di Ginecologia e ostetricia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, Saverio Tateo, e la sua vice Liliana Mereu (entrambi ora trasferiti in altre sedi) e che si sono sempre dichiarati estranei a quelle dinamiche. Quei messaggi ricostruiscono l’inferno che Sara aveva nell’animo. “Sono una morta che cammina. Questa volta non ce la farò”, ha scritto in uno dei suoi ultimi messaggi. E ancora più agghiacciante il messaggio scritto al papà: “Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato”.

Come riportato dal Corriere della Sera, la mamma di Sara ha affidato tutto il materiale raccolto alla psicologa Gabriella Marano. Dalla perizia di 119 pagine che è venuta fuori dall’attenta analisi, emerge l’immagine di “un agnello in mezzo ai lupi, sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei”. Emerge che Sara sia stata vittima di “quik mobbing” cioè “comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo e l’effetto di violare la sua dignità di donna e lavoratrice e di creare intorno a lei un clima intimidatorio, ostile e degradante”. Per questo motivo la giovane ginecologa sarebbe piombata nel dramma più totale.

Viene inoltre sottolineata “l’eccezionalità e la violenza della portata che in soli tre mesi ha minato il suo equilibrio, generando in lei un vero e proprio disturbo” identificato poi come disturbo traumatico da stress con sintomi ricorrenti riconducibili alla “depersonalizzazione”. La psicologa ha anche analizzato le ricerche che Sara fece dal suo Pc la mattina del 4 marzo alle 6 del mattino prima di svanire nel nulla. Cercò con le parole chiave informazioni sul Ponte Santa Giustina e sui ponti della Val di Non. Poi la sua auto è stata trovata vicino al ponte di Mostizzolo, tristemente noto per i suicidi.

Dunque la conclusione della psicologa è drammatica: “L’abbandono dell’auto in prossimità di questo ponte – scrive nella perizia – unitamente al fatto che le tracce della ragazza in fase di ricerche si sono interrotte in corrispondenza di un dirupo, oltre al la permanente mancanza di notizie e segnalazioni, l’assenza di ipotesi alternative mai emerse durante il lavoro svolto, che ha visto, oltre che lo studio minuzioso di tutta la documentazione presente in atti, anche l’analisi della mole di messaggistica esistente, oltre 20.000 mila pagine di messaggi WhatsApp e l’ascolto di 15 persone, attraverso cui è stata è stata scandagliata in maniera capillare la vita della ragazza in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue fasi, lascia presagire, con tasso di probabilità purtroppo prossimo alla certezza, che Sara Pedri si sia tolta la vita”.

E non ci sono dubbi sul fatto che “quell’ambiente di lavoro malsano ha indotto Sara a vivere un dolore estremo che, nella sua mente, era diventato intollerabile, insopportabile, inaccettabile. Tanto che la morte è diventata per lei sollievo e serenità”. E conclude: “Il supertestimone di questa cronaca appena esposta è proprio lei, Sara, che ha parlato attraverso gli appunti lasciati in casa, le e-mail inviate e non, le telefonate, le confidenze, gli sfoghi, le lacrime versate con le persone a lei più care, e soprattutto attraverso le migliaia e migliaia di messaggi e di vocali che coprono intensamente gli ultimi tre anni della sua vita. Tutto quanto appena scritto rappresenta in questa vicenda la Stele di Rosetta, la cui attenta decifrazione ha riportato alla luce, scolpito nella roccia, il decreto di morte di Sara”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Paolo Colonnello per "La Stampa" il 19 febbraio 2022.

Il dottor Saverio Tateo, 59 anni, è un uomo minuto, con i capelli grigi e l'aria spaventata. Era considerato un luminare in ascesa all'ospedale Santa Chiara di Trento, riconfermato per tre volte in undici anni primario di un reparto, quello di ginecologia, diventato un’eccellenza nella sanità pubblica trentina. 

Poi, il 4 marzo dell'anno scorso, la giovane dottoressa Sara Pedri, 31 anni, in forza al reparto di Tateo per tre mesi, scompare abbandonando la sua auto vicino a un ponte di un torrente e per il primario è l'inizio della fine: scattano accuse gravissime di maltrattamenti per lui e la sua vice, Liliana Mereu, e il sospetto di aver indotto al suicidio la dottoressa scomparsa. Tateo, licenziato dall'ospedale, ora rischia 8 anni e mezzo di carcere e per la prima volta, da quando è iniziata questa storia, ha deciso di rilasciare un'intervista. 

Dottor Tateo, quando la dottoressa Pedri è scomparsa, che cosa ha pensato?

«Rimasi sbigottito, pensai che fosse successo qualcosa che si sarebbe risolto. E comunque dopo qualche giorno pensai di organizzare un supporto psicologico in reparto e fare in modo che tutti potessero partecipare». 

Perché aveva capito che nel suo reparto c'era un clima pesante?

«Io questo clima pesante non lo coglievo. Se non fossi stato convinto di guidare una buona struttura, di cui i pazienti erano soddisfatti, come dimostrano le lettere e le telefonate che ho ricevuto in questi mesi, me ne sarei andato accettando un invito ricevuto nel 2019 da un ospedale estero molto prestigioso». 

Nessuno le aveva mai fatto presente del disagio che si viveva tra le corsie?

«Se qualcuno mi avesse esposto i suoi problemi, avrei risposto, non scappo da nessuna parte. Invece mi sono impegnato nella sanità pubblica, forse questa cosa ha dato fastidio a qualcuno. E del resto l'Azienda Sanitaria trentina mi ha sottoposto a valutazione ogni anno e riconfermato ogni 5 anni. Nel 2021 l'ultima riconferma».

Cosa ricorda di Sara Pedri?

«Che era una ragazza emiliana, educata e desiderosa di imparare. Era una specialista da poco tempo, la sapevo sola in Trentino e per di più durante la seconda ondata di Covid. Per questo le avevo dato dei turni che la lasciavano libera i fine settimana e i festivi. Nei 59 giorni in cui è rimasta in reparto aveva fatto due sole notti, di cui una in sostituzione di una collega che si era ammalata. Ho avuto poco tempo per conoscerla meglio, perché è rimasta con noi poco, poi è andata a Cles, la prima sede di ospedale che aveva scelto».

Non l'aveva mai vista in difficoltà?

«Durante i meeting mattutini con i colleghi avevo notato che era dimagrita, le avevo chiesto se mangiasse e le mi aveva risposto con un cenno di circostanza». 

L'hanno accusata di essere un mobbizzatore, al punto da indurre la Pedri al suicidio. Cosa risponde?

«Che è un'odiosa e gravissima falsità. La dottoressa Pedri ha ricevuto da me tutti i riguardi che sono dovuti a una giovane professionista che, lasciato pochi giorni prima l'ambiente comunque protettivo dell'università, si è trovata a dover fronteggiare i ritmi e le esigenze della corsia e della sala operatoria».

Dove si dice volassero gli insulti e persino i bisturi

«Senta, io vivevo in sala operatoria, ho svolto migliaia di interventi e non ho mai assistito né tantomeno messo in atto comportamenti simili. Semmai mi è stata rimproverata l'eccessiva serietà ma si può ben capire come le responsabilità e la posta in gioco richiedessero sempre la massima attenzione» 

I magistrati parlano di «condotte vessatorie eccedenti l'ordinario potere di correzione verso un dipendente» e ben 21, tra medici e infermieri, testimoniano contro di lei. Invenzioni?

«Si tratta di una sintesi errata del provvisorio capo d'imputazione che è frutto di scelte mai supportate dalla realtà dei fatti». 

La commissione disciplinare dell'Ospedale ha ascoltato 110 tra medici e infermieri. 17 episodi sono stati considerati «gravissimi».

«Posso dirle che ho chiesto formalmente all'Azienda di consentirmi di visionare tutti i 110 verbali, ma mi è stato negato, così come mi è stata negata la possibilità di leggere la relazione degli ispettori ministeriali. Quando sono comparso davanti alla commissione disciplinare mi sono stati consegnati solo 14 verbali e solo recentemente ho potuto avere una più ampia visione delle audizioni che riportano spesso dichiarazioni generiche riconducibili a molte fattispecie e non alla mia gestione. Non va dimenticata la lettera di 13 colleghi ginecologi che hanno apertamente dichiarato apprezzamento per quanto costruito insieme e stima nei miei confronti».

L'hanno accusata di essere aggressivo.

«Non sono aggressivo, sono una persona piuttosto severa, amo il rigore perché nell'ospedale il rigore è fondamentale: non dobbiamo dimenticarci che dobbiamo curare dei pazienti, delle persone e bisogna essere estremamente onesti anche verso i propri errori». 

I suoi pazienti si sono mai lamentati di lei con l'ospedale?

«Mai, nemmeno in forma anonima». 

Perché ha deciso di fare questa intervista?

«Perché mi hanno descritto come un mostro che non sono. Nei mesi precedenti ero così traumatizzato che non riuscivo nemmeno a leggere le carte che mi riguardavano». 

Se dovesse incontrarli, cosa direbbe ai genitori della Pedri?

«Che sono dispiaciuto per quanto è successo a questa ragazza. Sono anche io un genitore e li inviterei a sperare che forse la loro figlia non ha fatto una scelta irreversibile. E racconterei loro come sembrava la loro ragazza: educata, interessata a ciò che faceva e con un senso di responsabilità verso il lavoro».

Ascoltati in tribunale a Trento i primi testimoni per capire se e quando ci furono maltrattamenti. Sara Pedri, una collega ginecologa al gip: “Avevo paura da morire dei colloqui col primario, sono distrutta”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Febbraio 2022.  

“Avevo paura, paura da morire. Mi sembrava di essere davanti a un tribunale militare, non a colloquio con il mio primario. Ne sono uscita distrutta”. Parole pesanti come macigni che una delle sei ginecologhe informate sui fatti ha ripetuto più volte davanti al gip Enrico Borrelli in fase di incidente probatorio, richiesto dalla procura di Trento per capire se e quando ci furono maltrattamenti e abusi dei mezzi di correzione da parte dell’ex primario Saverio Tateo e della sua vice Liliana Mereu all’interno del reparto di ginecologia e ostetricia del Santa Chiara ai danni di 21 tra medici, infermieri e personale sanitario. Tra le presunte parti lese anche Sara Pedri, la ginecologa forlivese di 32 anni di cui non si sa più nulla dal 4 marzo dell’anno scorso subito dopo il trasferimento dall’ospedale di Trento a quello di Cles da cui si era dimessa 24 ore prima della sparizione.

Sotto la lente dunque la stessa unità operativa dove per tre mesi ha lavorato Sara. La famiglia della ginecologa da subito ha denunciato un clima di grande tensione che sussisteva nel reparto tanto da poter aver portato Sara a compiere il gesto estremo di lanciarsi da un ponte nel Lago di Santa Giustina. Una situazione che la stessa Sara aveva raccontato a parenti e amici nei mesi. Quei messaggi ricostruiscono l’inferno che Sara aveva nell’animo. “Sono una morta che cammina. Questa volta non ce la farò”, ha scritto in uno dei suoi ultimi messaggi. E ancora più agghiacciante il messaggio scritto al papà: “Chiedo scusa io a voi per la delusione che vi ho procurato”.

Come riportato dal Corriere della Sera, il mese scorso la mamma di Sara ha affidato tutto il materiale raccolto alla psicologa Gabriella Marano. Dalla perizia di 119 pagine che è venuta fuori dall’attenta analisi, emerge l’immagine di “un agnello in mezzo ai lupi, sbranata dalla violenza di chi si è avventato contro di lei”. Emerge che Sara sia stata vittima di “quik mobbing” cioè “comportamenti vessatori frequenti e costanti, posti in essere con lo scopo e l’effetto di violare la sua dignità di donna e lavoratrice e di creare intorno a lei un clima intimidatorio, ostile e degradante”. Per questo motivo la giovane ginecologa sarebbe piombata nel dramma più totale.

E per la perizia non ci sono dubbi sul fatto che “quell’ambiente di lavoro malsano ha indotto Sara a vivere un dolore estremo che, nella sua mente, era diventato intollerabile, insopportabile, inaccettabile. Tanto che la morte è diventata per lei sollievo e serenità”. E conclude: “Il supertestimone di questa cronaca appena esposta è proprio lei, Sara, che ha parlato attraverso gli appunti lasciati in casa, le e-mail inviate e non, le telefonate, le confidenze, gli sfoghi, le lacrime versate con le persone a lei più care, e soprattutto attraverso le migliaia e migliaia di messaggi e di vocali che coprono intensamente gli ultimi tre anni della sua vita. Tutto quanto appena scritto rappresenta in questa vicenda la Stele di Rosetta, la cui attenta decifrazione ha riportato alla luce, scolpito nella roccia, il decreto di morte di Sara”.

Tutto questo avrebbe scoperchiato il vaso delle vessazioni in reparto e spinto anche altri colleghi a denunciare quel clima. “Decisi di registrare il colloquio con il telefonino. Una mia collega era uscita dal faccia a faccia con il primario molto provata. Perché i colloqui? Li aveva organizzati con tutti i dipendenti del reparto che avevano sottoscritto una lettera contro i turni di lavoro. Lui a tratti urlava, poi assumeva un tono glaciale”. Parla senza tentennamenti una delle sei ginecologhe informate sui fatti, come riportato da LaPresse, davanti al gip Enrico Borrelli in fase di incidente probatorio, richiesto dalla procura di Trento. Ma l’ex Primario ha sempre respinto le accuse di questo tipo: “Mi hanno descritto come un mostro che non sono”, ha detto in una recente intervista a La Stampa.

In una lunga intervista alla Stampa ha deciso di dire la sua perché scosso dall’essere accusato per mesi di essere un mostro. “Nei mesi precedenti ero così traumatizzato che non riuscivo nemmeno a leggere le carte che mi riguardavano”, ha detto nell’intervista a La Stampa. “Non sono aggressivo, sono una persona piuttosto severa, amo il rigore perchè nell’ospedale il rigore è fondamentale”, ribadisce. Tateo ha affermato che “la dottoressa Pedri ha ricevuto da me tutti i riguardi che sono dovuti a una giovane professionista che, lasciato pochi giorni prima l’ambiente comunque protettivo dell’università, si è trovata a dover fronteggiare i ritmi e le esigenze della corsia e della sala operatoria”. “Se qualcuno mi avesse esposto i suoi problemi, avrei risposto, non scappo da nessuna parte”, aggiunge ancora l’ex primario.

“Era una specialista da poco tempo, la sapevo sola in Trentino e per di più durante la seconda ondata di Covid. Per questo le avevo dato dei turni che la lasciavano libera i fine settimana e i festivi. Nei 59 giorni in cui è rimasta in reparto aveva fatto due sole notti, di cui una in sostituzione di una collega che si era ammalata – dice Tateo al giornale – Ho avuto poco tempo per conoscerla meglio, perché è rimasta con noi poco, poi è andata a Cles, la prima sede di ospedale che aveva scelto”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Margherita Montanari per il "Corriere della Sera" il 23 febbraio 2022.

Per prime sono arrivate le domande, ora è tempo di risposte. A quasi un anno dal 4 marzo scorso, giorno della scomparsa della ginecologa 31enne Sara Pedri, sua sorella Emanuela non ha smesso di cercare la verità. Nel tentativo di far luce sul disagio vissuto da Sara nei tre mesi di lavoro nel reparto di ginecologia dell'Ospedale Santa Chiara di Trento, ha tastato il perimetro di una situazione ben più complessa, che avrebbe coinvolto altri colleghi. Ne è nata un'inchiesta della Procura di Trento, che vede indagati per maltrattamenti e abuso di mezzi di correzione e disciplina l'ex primario Saverio Tateo, già licenziato, e la sua vice Liliana Mereu, trasferita.

Emanuela, chi era sua sorella Sara prima di entrare nel reparto di ginecologia?

«Sara era una persona educata, vitale, senza insicurezze, e volenterosa. L'ex primario Tateo, nelle dichiarazioni rilasciate ai Carabinieri nell'immediatezza della scomparsa, l'aveva descritta come una ragazza educata e desiderosa di imparare. Viene istintivo chiedersi perché, in tre mesi di lavoro nel suo reparto, mia sorella abbia cominciato a sentirsi incapace e sia diventata tutt'altra persona da quella che conoscevamo». 

Che ambiente c'era in reparto?

«Un ambiente in cui era sconsigliato parlare dei problemi e in cui aleggiava la minaccia di licenziamento. Il personale era così abituato a vivere in un clima tossico, operato dai vertici, che era diventato la normalità. Quando Sara si è resa conto di non riuscire a reggerlo si è convinta di essere lei il problema. Tateo dice di non aver colto il clima pesante, visto che gli venivano riconosciuti risultati d'eccellenza dai pazienti. Ma il punto sono i lavoratori: molti sono stati male nel suo reparto. Ci sono 110 testimonianze e 21 persone offese che raccontano disagi inascoltati e fatti oggettivi che hanno portato al licenziamento di un professionista. Sarà il giudice a stabilire dove sta la verità». 

Nell'incidente probatorio a Trento alcune parti offese stanno raccontando le vessazioni che avrebbero subìto in reparto

«Ho deciso di tenermi in disparte, voglio che la verità emerga spontaneamente. In aula sta accadendo proprio questo. Sanitari in lacrime hanno raccontato di episodi angoscianti avvenuti anche prima dell'arrivo di Sara. Si è parlato della registrazione di un incontro inquisitorio dell'ex primario con una dottoressa».

In un'intervista a «La Stampa» l'ex primario Saverio Tateo si dice dispiaciuto per quanto successo a Sara e invita i familiari a sperare che non abbia fatto una scelta irreversibile.

«Tateo non ci ha mai telefonato, neanche dopo la scomparsa di una ragazza che aveva lavorato nel suo reparto. Leggere ora che la mia famiglia non deve perdere la speranza, che magari mia sorella non ha compiuto una scelta irreversibile, lo trovo indelicato».

Perché la sua famiglia lo esclude?

«Siamo convinti che Sara abbia compiuto un gesto estremo perché abbiamo visto come si era ridotta. Mia sorella era vittima di mobbing e si era ammalata. Parlava con un filo di voce, non dormiva, non mangiava. Voleva liberarsi da un malessere. E poi Carabinieri e Procura, impegnati nelle ricerche, non ci hanno mai fatto sperare che Sara si trovasse da un'altra parte. È nel lago di Santa Giustina, vicino a dove è stata ritrovata la macchina. A marzo, quando le acque si saranno abbassate, riprenderanno le ricerche. Confidiamo nell'utilizzo dei cani molecolari. È tempo di risposte».

Com'è stato l'ultimo anno senza sua sorella?

«Non ho avuto tempo di piangere. La sofferenza ha dovuto lasciare spazio all'impegno. La mia famiglia ha subìto un danno irreparabile e ha cercato risposte. Il caso sollevato dalla sparizione di Sara ha toccato la collettività. Ora porto avanti questa battaglia per lei, perché sensibilizzare sul tema del mobbing può salvare vite. Oggi Sara sarebbe qui, se qualcuno si fosse accorto prima di cosa accadeva. Bastava che una persona denunciasse al posto suo, se mia sorella non aveva il coraggio per farlo».

Gli esperti continuano a scandagliare il lago con ogni mezzo. Continuano le ricerche di Sara Pedri, la sorella: “Me lo sento, prima o poi riemergerai e tornerai da noi”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Maggio 2022. 

È passato oltre un anno dalla scomparsa di Sara Pedri, giovane ginecologa di Forlì scomparsa il 4 marzo 2021 in Trentino. Sono riprese le ricerche nel lago di Santa Giustina nel quale Sara si potrebbe essere gettata togliendosi la vita. Sua sorella Emanuela non ha dubbi: “Me lo sento Sara, prima o poi riemergerai e tornerai da noi nella città che è stata la tua casa per tanto tempo”, ha scritto su Facebook.

Dal momento della sua scomparsa non è mai stato trovato il corpo della ginecologa 31enne. Il 28 maggio sono riprese le ricerche, coordinate dai carabinieri della Compagnia di Cles (Trento). Circa quaranta persone hanno scandagliato per una decina di ore il lago di Santa Giustina, nel quale si troverebbe il corpo della donna. Le ricerche hanno avuto un nuovo impulso grazie al lavoro, tra gli altri, di carabinieri, soccorso alpino, vigili del fuoco, guardia di finanza, volontari. Al lavoro anche i cani molecolari, specializzati nel ritrovamento dei cadaveri. Le ricerche non si sono mai fermate.

“Nella tragedia che ha investito la mia famiglia – continua Emanuela nel suo post – abbiamo avuto la fortuna di conoscere grandi persone e professionisti a cui ci siamo affidati, e non solo perché così deve essere, ma perché si è creata una relazione affettuosa che ci spinge ogni giorno a pensare che siamo sostenuti e protetti e che la Speranza è l’ultima a morire. Per questa grande attenzione, ringraziamo di cuore tutte le forze dell’ordine coinvolte da subito nella ricerca, senza mai fermarsi”.

E continua: “Un particolare ringraziamento va al Capitano Guido Quatrale che sento con costanza ogni mese e che non ci ha mai abbandonati. Ringraziamo la procura di Trento che con la sua indagine meticolosa sta lavorando da tempo perchè si arrivi alla verità. Ringraziamo tutti quei medici, infermieri, ostetriche e oss, che hanno testimoniato il loro dolore con grande coraggio. Ringraziamo il Comune di Forlì che ci ha permesso ancora una volta di impiantare una panchina in vicinanza della targa commemorativa per Sara, in modo che chiunque si possa sedere per cercare un pò di refrigerio nelle giornate più calde e magari volgere lo sguardo verso Sara”.

Intanto le ricerche proseguiranno con nuovi mezzi più potenti. È stato necessario attendere che l’inverno volgesse al termine affinchè le condizioni meteo fossero ottimali e le acque del lago più semplici da perlustrare. Il lago è estremamente profondo, ancora adesso l’acqua è profonda almeno trenta metri. Ma la speranza e la voglia di trovare Sara non si affievolisce. “Ringraziamo tutti coloro che non si sono dimenticati di Sara mostrando ogni giorno vicinanza e affetto. Un ringraziamento speciale va all’Associazione Penelepe che non ci ha mai abbandonato sostenendoci sempre attivamente nella ricerca con dedizione e grande. Le ricerche non si fermeranno! Vi terremo aggiornati”, conclude il post Emanuela.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        La Sindrome di Stoccolma.

Così è nata la sindrome di Stoccolma. Carlo Lanna il 7 Maggio 2022 su Il Giornale.

Dalla Svezia arriva la storia (vera) di una rapina in banca e di un criminale che riusciva a entrare in sintonia con le sue "vittime".

Si dice che Netflix stia vivendo un periodo di crisi. Gli abbonati cominciano a calare, il canone mensile è in aumento e l’offerta scarseggia. Tutto questo può anche essere vero, ma a volte non bisogna fermarsi in superficie. Il catalogo del colosso dello streaming ha ancora molte frecce nel suo arco. Come Clark, ad esempio. È una miniserie tv molto interessante che unisce la commedia e il dramma poliziesco, raccontando e romanzando un fatto di cronaca vera che ha interessato il tessuto sociale svedese nel corso degli anni ’70. Non è un prodotto americano, ma è girato e prodotto in Svezia, e ha un cast di attori di talento, lanciati già nel cinema internazionale. Come Bill Skarsgard, attore dal fisico prestante e dai profondi occhi azzurri che di recente ha presto il volto al pagliaccio assassino di IT, nel film ispirato al romanzo di Stephen King.

In Clark interpreta un criminale, un uomo che non ha paura del pericolo e delle forze dell’ordine. Che rapina e inganna solo per il gusto di farlo. I sei episodi di questa promettente serie tv – così bella e intensa che si gusta quasi in un solo boccone – getta uno sguardo su un’epoca di grandi cambiamenti sociali, politici e culturali e, nello stesso tempo, porta alla luce la storia di una folle rapina in banca e quella di uno tra i criminali più controversi a cui è legato la genesi (e gli studi scientifici) della sindrome di Stoccolma. Sei episodi per un racconto in bilico tra realtà e follia, che colpisce per una sceneggiatura fluida e accattivante.

Oggi la sindrome di Stoccolma è la schiavitù al conformismo

Tra verità e menzogne, la storia di Clark Olofsson

Sono i ruggenti anni ’70. Ci troviamo in Svezia e si respira un’aria di innovamento, come se tutti guardassero con gli occhi sognanti a un futuro migliore. Ed è in questo periodo che Clark Olofsson muove i primi passi nel mondo della malavita. Fin da quando era un bambino ha avuto l’impeto di rubare, seguendo solo i suoi istinti. Con la maggiore età, oltre al rubare, Clark sviluppa anche una strana empatia verso le donne tanto da conquistare il cuore di ragazze giovane e meno giovani, tutte colpite dal fascino e dalla bellezza di un dandy spregiudicato che riesce ad adattarsi a qualsiasi situazione. Per un furto d’auto finisce in riformatorio. Una volta evaso dal carcere, per Clark comincia una vita in fuga dalla giustizia ma, allo stesso tempo, diventa anche un fenomeno mediatico, tanto da popolare le prime pagine dei giornali.

Ma ciò che ha reso Clark tristemente famoso è stata una rocambolesca rapina in banca. Nel 1973, Jan-Erik Olsson – compagno di rapine del giovane malavitoso – entra in una banca di Stoccolma e, una volta neutralizzate le guardie giurate con una semplice mitragliatrice, rinchiude gli ostaggi nel caveau. In cambio della loro liberazione ha chiesto e ottenuto: tre milioni di corone, un giubbotto antiproiettile, un’automobile e la scarcerazione di Clark. La rapina è durata più di sei giorni e la stampa dell’epoca, nella ricostruzione dei fatti, ha rivelato che i prigionieri avevano instaurato un rapporto gentile e premuroso nei riguardi dei propri aguzzini, che gli studiosi hanno poi spiegato con una teoria – anch’essa bizzarra entrata poi nei manuali di psicologia – chiamata "Sindrome di Stoccolma".

Bill Skarsgard è l’attore che "umanizza" un criminale

Ci troviamo di fronte a una serie ibrida. Clark è un romanzo di formazione in cui si racconta la vita di un uomo dal carattere instabile che non ha paura del pericolo, e dall’altra è una sorta di documentario che rievoca un fatto di cronaca realmente accaduto, in una storia che non prende le difese di nessuno. La regia e la sceneggiatura hanno reso lo show molto accattivante, ma sono le interpretazioni la vera perla di diamante della serie tv. Spunta, ovviamente, il bravo (e bello) Bill Skasgard che regala un volto umano, folle e stralunato a un fatale criminale capace di entrare in empatia con le sue "vittime".

L’attore si cimenta in un ruolo particolare in cui c’era il rischio di cadere nel patetico o nel macchiettistico, invece Bill Skarsgard compie un’impresa (quasi) impossibile, portando in tv un personaggio controverso che piace proprio per questo. L’attore, fratello più giovane di Alexander Skarsgard, attore anche lui e celebre per la tv di True Blood, non è alla sua apparizione in tv. Qualche anni la lo abbiamo visto in Hemlock Groove, una delle prime serie horror di Netflix. 

Cosa c’è di vero sulla storia di Clark Olofsson?

Non solo fatti di cronaca, ma la serie tv è basata sulla stessa autobiografia di Clark Olofsson. Una volta che è stata mandata in stampa – pubblicata solo in inglese e mai in italiano - è stata aspramente criticata perché tutto il racconto era basato su verità mai fondate e su un punto di vista troppo critico sulle vicenda. Rispetto alla realtà, la serie di Netflix non si prende tante licenze "poetiche". Si entra nel fulcro della vicenda, e su quella fantomatica rapina, solo verso la metà della storia e all’inizio si regala molto spazio al percorso di crescita del giovane malavitoso. Ma non si lesina nei dettagli, anzi, la storia è molto speculare a ciò che è successo al giovane Clark. La rapina, così rocambolesca da somigliare a quella avvenuta nel La Casa di Carta, è durata sei giorni. E si dice che gli ostaggi non avessero alcun timore per la loro incolumità, dato che i rapitori con loro erano gentili e disponibili. Ciò che è avvenuto ha suscito l’interesse di molti studiosi, arrivando a una scoperta che, ancora oggi, è molto dibattuta.

Il criminologo che per primo ha coniato il termine "Sindrome di Stoccolma"

A parlare di questo legame tra vittima e carnefice è stato Nils Bejerot, che di professione era criminologo, che per primo ha cominciato a parlare di Sindrome di "Norrmalmstrong", un disturbo che nasce durante una situazione di pericolo. Ma è diventata poi la sindrome di Stoccolma dopo che, il 23 agosto del 1973, una delle cassiere della banca che è stata rapinata, aveva ammesso di non sentirsi intimorita né da Clark né da Olofsson e Eri-Jean, tanto da non voler sporgere denuncia per l’aggressione. È stata chiamata in questo modo per una pura formalità didattica, solo perché il primo vero caso di questo disturbo è stato scoperto in un‘università di Stoccolma, capitale della Svezia.

Perché è la serie tv che non ti aspetti

Anche se conversa le caratteristiche tipiche di un documentario, la serie ha ritmo e appeal. Piace per quell’immagine della Svezia degli anni ’70, ma piace ancor di più proprio perché è intrigante lo sguardo su una storia vera, romanzato secondo i prismi più particolari di un racconto di formazione. Da vedere con parsimonia, perché può provocare dipendenza.